«Noi ascoltiamo il cuore della terra e sentiamo che è come il nostro, e ascoltiamo il cuore di Dio e sentiamo che in quel cuore è il segreto della terra. Perciò tocca a noi stabilire le connessioni vitali e feconde tra la società di cui facciamo parte e il cuore di Dio che attende che tutte le cose arrivino alla luce gloriosa del Figlio suo». Ernesto Balducci
Ernesto Balducci Le Chiese del dialogo
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Ernesto Balducci nasce nel 1922 a Santa Flora, piccolo paese di minatori sul monte Amiata. Agli inizi degli anni Trenta entra nell’ordine dei padri Scolopi. Nel 1944 giunge a Firenze e nel 1945 viene ordinato sacerdote. Nel 1958 fonda la rivista Testimonianze, in cui emerge la sua riflessione sul cattolicesimo sociale, e il desiderio di profonda riforma della Chiesa che vedrà realizzarsi con la grande stagione del Concilio Vaticano II. Nel 1963 è condannato per apologia di reato in seguito alla difesa dell’obiezione di coscienza, destino che condividerà con don Lorenzo Milani. Negli anni Settanta e Ottanta la sua riflessione si sposa sul tema del destino dell’uomo e sull’impegno per la pace. Muore il 25 aprile 1992 in seguito a un grave incidente stradale. Tra i suoi libri: Il terzo millennio (1981); Gandhi (1988); Francesco d’Assisi (1989); L’uomo planetario. San Paolo ha recentemente pubblicato, in collaborazione con la Fondazione Balducci, e nell’ottica di un recupero della sua figura e del suo pensiero: Io e don Milani (2017).
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adre Balducci, negli anni seguenti alla chiusura del Vaticano II, più volte si applicò a una riflessione che rendesse i dettati del Concilio attuali, concreti, significativi per la Chiesa e la società. Il presente volume, mai edito precedentemente, raccoglie dieci conferenze che il sacerdote dell’Amiata tenne negli anni ’65-’66 affrontando tre tematiche decisive per la Chiesa:
• il
rapporto con le religioni non cristiane;
• la questione della libertà di coscienza (fuori
ma anche dentro il mondo cattolico; confronto con il mondo moderno.
• il
Ernesto Balducci Le Chiese del dialogo I decreti del Concilio Vaticano II
Si trattava dei grandi temi messi in gioco dalle Dichiarazioni Nostra Aetate e Dignitatis Humanae, oltre che dalla Costituzione Gaudium et Spes. Le provocazioni di padre Balducci, che all’epoca potevano sembrare forti e dure, oggi sono assunte dal lettore quasi come una sorta di profezia e di domanda ormai ineludibile e che deve essere rilanciata: dove va la Chiesa cattolica? Quali percorsi sono possibili per il dialogo con il mondo, con le altre confessioni religiose, con le religioni monoteiste (e, quindi, con l’Islam)? Quali sono le strade per la riapertura di un dialogo nel postmoderno e alla fine delle ideologie? Che cosa ha il mondo da dire alla Chiesa? La “Chiesa umana con gli uomini” resta una sfida aperta, un cantiere in piena attività.
In copertina: Padre Ernesto Balducci, Firenze 1977 © Foto Zanni / RCS / Contrasto Progetto grafico: Angelo Zenzalari
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Ernesto Balducci
LE CHIESE DEL DIALOGO I decreti del Concilio Vaticano II
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In collaborazione con la Fondazione Ernesto Balducci
Š EDIZIONI SAN PAOLO s.r.l., 2017 Piazza Soncino, 5 - 20092 Cinisello Balsamo (Milano) www.edizionisanpaolo.it Distribuzione: Diffusione San Paolo s.r.l. Piazza Soncino, 5 - 20092 Cinisello Balsamo (Milano) ISBN 978-88-922-1318-0
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PRESENTAZIONE
Già negli anni immediatamente precedenti al Concilio Vaticano II, Padre Balducci aveva tenuto una serie di conferenze a carattere teologico e alcuni seminari sulla Chiesa ed il mondo contemporaneo, a gruppi di giovani e di studenti universitari, in varie città d’Italia ma in prevalenza a Firenze presso il Cenacolo ed il Chiostro Nuovo. I testi di quegli incontri venivano registrati e quindi trascritti e raccolti in dispense ciclostilate che il Padre scolopio donava gli amici che, in quegli anni, seguivano numerosi e con grande interesse la sua opera di apostolato. Il testo qui pubblicato, del tutto inedito e risalente alla prima metà degli anni Sessanta, fa parte di una serie di conferenze che Balducci tenne a Firenze e a Roma, su alcune costituzioni conciliari che prefiguravano importanti novità inerenti ad una diversa immagine della Chiesa nei confronti della cultura moderna e della società contemporanea. Queste dispense furono conservate nel suo archivio, oggi di pertinenza della Fondazione, insieme con numerosi altri dattiloscritti dei seminari svolti su quelle tematiche, che Balducci continuò a riproporre, anche negli anni successivi al Concilio, sulle pagine di “Testimonianze”, la rivista da lui fondata nell’inverno del 1958. 5
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Questi scritti rappresentano dunque parte di quelle riflessioni che, seppur espresse molti anni orsono, mantengono, per molti aspetti, un’attualità che dimostra quanto ancora sia rimasto da realizzare dell’esperienza conciliare, nella Chiesa e nella coscienza collettiva dei credenti, Del resto non è proponibile oggi, a distanza di oltre mezzo secolo, un bilancio del Concilio, perché sarebbe fuorviante ritenere che la mentalità, lo spirito e l’entusiasmo che allora lo animava fossero ancora presenti. Né sarebbe opportuno, per le stesse ragioni, valutare oggi in quale misura certe aspettative di allora abbiano trovato o meno piena o parziale realizzazione. Resta comunque la certezza che alcune di quelle prospettive, pur rimanendo ancora piuttosto lontane dall’essersi affermate compiutamente nella coscienza globale della Chiesa, hanno segnato tuttavia un punto irreversibile nella coscienza globale della fede della Chiesa. Penso, a titolo d’esempio, all’atteggiamento d’apertura verso gli atei espresso nella Gaudium et spes, o al riconoscimento che anche le religioni non cristiane possono svolgere una funzione positiva portatrice di salvezza per l’umanità. Lo stesso Balducci aveva accolto con grande entusiasmo l’evento conciliare, come dimostra il suo intervento in Palazzo Vecchio, nel settembre del 1962, alla presenza di Giorgio La Pira, nel quale “affidava al Concilio il compito di trasportare la Chiesa sulle sponde della nuova cristianità maritainiana tanto sognata”. Un entusiasmo, quello manifestato in quell’occasione dal Padre scolopio, alimentato dalle letture di Jacques Maritain e di Teilhard de Chardin, ma che si collocava ancora in una visione ecclesiocentrica nella quale, come ebbe ad affermare successivamente lui stesso, la centralità del Cristo e della Chiesa si manteneva in una prospettiva “esclusiva, non inclusiva”. 6
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PRESENTAZIONE
Si trattava dunque di un entusiasmo motivato dalla speranza che la Chiesa potesse finalmente aprirsi “alla storia senza prevenzioni, anzi con la certezza interiore di poterne intuire il valore e la fecondità”, e dal convincimento che il Concilio fosse in grado di favorire il passaggio da una Chiesa “chiusa in sé e per sé” ad una “Chiesa per il mondo”, nella quale dunque il cristiano non fosse più “l’uomo della fuga dal mondo, ma dell’impegno nel mondo, come conseguenza essenziale della fede in Dio”. L’entusiasmo mostrato allora da Balducci era confortato anche dall’ottimismo storico di quegli anni: gli anni della “nuova frontiera” kennediana, dei pontificati di Giovanni XXIII e di Paolo VI, della critica allo stalinismo, quelli dei documenti conciliari Pacem in terris ed Ecclesiam suam, dedicati rispettivamente alla condanna della guerra nell’era atomica ed al dialogo con i non credenti e i lontani. Un clima che se fu certamente favorevole al dibattito sul rinnovamento della società e della Chiesa, non mancò tuttavia di evidenziare rigide contrapposizioni tra coloro che avevano visioni del tutto diverse di Chiesa, cultura e politica e quindi tra chi manifestava una visione del Concilio come cesura netta e totale con la tradizione e chi invece aveva una concezione di quell’evento come un rinnovamento nella tradizione. Negli anni che seguirono, e a fronte delle mutate situazioni storiche, è apparsa sempre più evidente la posizione ecclesiocentrica assunta dal Concilio e come la Chiesa non abbia mai oltrepassato il limite della cultura eurocentrica: una cultura che oggi appare sempre meno in grado di rappresentare quel paradigma planetario auspicato da Padre Balducci e che i tempi sembrano richiedere. Un nuovo paradigma antropologico che il Padre scolopio raffigurò nella metafora dell’“uomo planetario”, che 7
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non è l’uomo che esprime una cultura planetaria o l’uomo appartenente ad una Chiesa di una religione planetaria, ma è l’uomo che con la propria cultura e con la propria professione di fede della sua Chiesa, è portato a compiere un’esperienza di fede universale. In questo orizzonte anche le singole Chiese avrebbero dovuto configurarsi come realtà di un vasto arcipelago di diversità ma in dialogo reciproco, nel tentativo comune di dare risposte di speranza agli uomini del terzo millennio. Andrea Cecconi Presidente Fondazione Ernesto Balducci
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I LA CHIESA E LE RELIGIONI NON CRISTIANE 19 novembre 1965
Siamo abituati a sentir dire che la Chiesa ha scelto il dialogo come suo modo di presenza nel mondo. Bisogna che questa parola non si presti alle manomissioni delle nostre fantasie ma che sia calata in maniera concretissima in quelle che sono le articolazioni dottrinali che via via ha acquistato. Quando è stato enunciato questo progetto di trasformare la Chiesa da una istituzione prevalentemente chiusa su se stessa in una istituzione aperta, in una città con le porte spalancate, anzi con le mura rase al suolo, in modo che chiunque possa entrare e chiunque possa uscire (secondo la legge dello Spirito, non secondo la legge del capriccio) questa era ancora una intuizione. Adesso ha maturato un corpo, per così dire; c’è ormai un organismo dottrinale già pronto che dà a questa intuizione una precisione oggettiva, alla quale dobbiamo misurare la nostra coscienza, indipendentemente dalla diversità dei nostri temperamenti. I quali devono poter coabitare in questa Chiesa che è unica ma è così diversa anche dalle vocazioni. Ci sono vocazioni che hanno la predilezione per l’abitazione interna nella Chiesa, per la consuetudine per coloro che sono cristiani senza avere molta capacità di affrontare il mondo della lontananza. Ci sono altri che hanno questa predilezione per i lontani. Nessuno deve scandalizzarsi: 9
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né quelli – chiamiamoli così – sedentari, che amano rimanere in casa con dignità, pregano, vivono i precetti della Chiesa, si accostano ai sacramenti..., né coloro che invece decidono di uscire senza abbandonare, con questo, la casa. Dobbiamo saperci comprendere sempre. Ed è questo, credo, l’intenzione dominante di questo ultimo scorcio del Concilio, che Paolo VI ha voluto quasi simbolizzare con decisione, che ha lasciato un po’ sconcertati, circa la canonizzazione di Pio XII e di papa Giovanni. Non voglio mica dire che questa è una espressione della infallibilità della Chiesa. Ma dobbiamo perlomeno coglierne l’intenzione che, soprattutto nel post concilium, diventerà una norma morale di primissimo ordine per tutti: per coloro che hanno un atteggiamento di entusiasmo. Bisogna che i titubanti e gli entusiasti sappiano comprendersi e dialogare fra di loro, perché non avvenga che la mania del dialogo esterno uccida la necessità del dialogo interno. Questo è un po’ lo spirito con cui dobbiamo muoverci. Ed io considero un grande risultato (forse quello meno proclamato in pubblico ma più ricco, più dolce, più nutriente per chi è abituato a vivere giorno dopo giorno nella Chiesa) questa possibilità di vivere in armonia fraterna, pur nella diversità delle posizioni. Senza accuse, senza servirci della nostra opinione legittima senza anatemizzare l’opinione legittima degli altri. Questo è un po’ lo spirito che per lo meno ho cercato di assecondare sempre. Ora, il dialogo della Chiesa, come già Paolo VI scrisse nella Ecclesiam suam, nella enciclica del dialogo, non ha confini. Esso si estende a tutti gli uomini di buona volontà. Questo lo sappiamo, lo abbiamo già detto, ce ne siamo allietati. Però bisogna, come accennavo, applicare questa idea madre alla Chiesa del Vaticano secondo una umanità 10
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non generica, indifferenziata, ma profondamente differenziata. Il mondo che è fuori dalla Chiesa non è semplicemente da contrassegnare con questa nota negativa: “Mondo non cristiano”. Si fa presto a respingere la ricchezza dei doni di Dio con questo gesto apparentemente ispirato dall’amore per la verità: o si è nella Chiesa e si è nella verità o si è nell’errore e si è fuori: è troppo semplice questo discorso! Coloro che sono fuori dalla Chiesa visibile hanno in sé, come individui e come collettività, delle ricchezze di fronte alle quali la Chiesa deve compiere un atteggiamento di riflessione, di ripensamento, e, forse, di umile apprendimento. Fra le tesi più significative dello Schema 13 che sta passando proprio in questo periodo le forche caudine, c’è proprio questa: che “la Chiesa deve imparare molte cose dal mondo”. Deve imparare. E quando si dice “dal mondo” noi sappiamo che non usiamo questa parola nel suo senso mistico negativo – il mondo è male – ma “dal mondo” come creazione di Dio, come umanità che asseconda le forze positive che porta in sé che son tutte provenienti dal Verbo nel quale tutte le cose – quindi tutte le persone – sono create e consistono. Quindi c’è una luce di manifestazione che viene anche da coloro che sono fuori dalla Chiesa. E la Chiesa, come tale, deve ascoltare. Deve osservare, con lo stesso occhio santo di desiderio con cui san Paolo passando per le vie di Atene guardava le statue degli idoli e i templi e si accorse, finalmente, che c’era un tempio al “Dio Ignoto”. Non passava quindi con la mania iconoclasta di buttar giù le statue e i templi, perché anche in quei templi pagani c’era un’allusione a quel Dio che egli andava a predicare. Con questo atteggiamento la Chiesa deve camminare per le vie delle città terrene guardando, non solo per con11
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dannare ma soprattutto per apprezzare quello che è nato per intima fecondità dello Spirito Santo, il quale non ha confini nella Chiesa ma “replevit orbem terrarum”, ha riempito l’orbe terrestre. Questo atteggiamento la Chiesa lo ha realizzato in questo tempo non per un opportunismo proselitistico: dopo aver provato dei metodi che non vanno più ora la Chiesa ne prende un altro che spera che vada, come può fare un partito politico che studia i metodi della sua propaganda. Non si esclude che anche queste considerazioni di opportunità tattica siano entrate nella decisione che la Chiesa ha preso; ma la Chiesa ha costruito questo suo atteggiamento relativamente nuovo (non in assoluto, per la verità) con la teologia dei segni del tempo che, come dicevo altre volte, sta diventando uno dei rami della teologia più nuovi e più fecondi della Chiesa di oggi. Perché la Chiesa riconosce che il mutar delle circostanze del mondo non è un mutamento puramente profano di cui essa deve tener conto opportunisticamente, ma è anche una indicazione della volontà di Dio. Questo è importante. Quindi il mutar del mondo non è un fatto indifferente, che suggerisce soltanto un mutamento di atteggiamenti pratici, ma è invece una indicazione della volontà di Dio. Noi abbiamo dei mutamenti di comportamento che sono dovuti proprio al mutar delle cose. Le modificazioni che la Chiesa osserva non hanno semplicemente dei suggerimenti di senso pratico da darle, hanno degli imperativi spirituali da porre. Infatti, nel primo capoverso della dichiarazione è detto – e vi leggo le parole –: “Nel nostro tempo, in cui il genere umano si unifica di giorno in giorno più strettamente e cresce la interdipendenza fra i vari popoli, la Chiesa esamina con maggior attenzione la natura delle sue relazioni con 12
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le religioni non cristiane. Nel suo dovere di promuovere la carità e l’unità fra gli uomini, ed anche fra i popoli, essa esamina qui innanzitutto ciò che gli uomini hanno in comune e li spinge a vivere insieme il loro comune destino”. Il segno del tempo che la Chiesa ha osservato – e sul quale costruisce il suo ripensamento – è, ancora una volta, questo processo di unificazione del mondo. Se non ricordo male, nel dare inizio alle conversazioni sul De Ecclesia noi abbiamo incontrato, nelle prime righe, lo stesso suggerimento e abbiamo fatto, presso a poco, le stesse riflessioni. Noi ci troviamo quindi in una situazione particolarissima. Il mondo non si presenta più alla coscienza della Chiesa come diviso in continenti spirituali chiusi su se stessi, che, purtroppo, suggeriscono la tattica della polemica. La Chiesa finora ha vissuto pressoché tutta la sua esperienza all’interno di una civiltà chiusa su se stessa (dico chiusa anche se poi è una civiltà esclusiva di fronte alla quale tutte le altre civiltà erano barbarie pura). Era chiusa la civiltà in cui la Chiesa ha vissuto, ed essa ha contratto – nel vivere entro questo continente spirituale che chiameremo in senso genericissimo “la civiltà occidentale” – certe chiusure di linguaggio, di dottrina, di metodi pastorali... Quando il missionario va in Oriente o nell’Africa e porta le statuine di S. Antonio fabbricate a Lecce, oppure i crocifissi della Val Gardena e propone una devozione verso forme, verso segni, verso rappresentazioni quanto mai estranee allo spirito africano, non è un segno di chiusura? È la Chiesa che considera ovvio il camminare nel mondo con passo occidentale, con forme rappresentative occidentali. Non finirei più se dovessi analizzare questa prigionia in cui la Chiesa cattolica è vissuta per secoli, anche quando sorpassava i confini della civiltà in cui era cresciuta col passo del 13
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missionario. Il missionario rimane ancora, in gran parte, chiuso nella civiltà da cui proveniva: il francese rimane francese, l’italiano italiano, non solo italiano e francese nel modo legittimo, ma nel modo di vivere la sua religione per cui il cristianesimo non trovava la sua cattolicità. Io ricordo qui un episodio che veramente ci obbliga a un giudizio storico molto grave: ci fu nel ’600 un gesuita toscano – il Padre De Nobili – che andò in Italia e in India cominciò ad abbandonare non solo il costume occidentale ma addirittura la cultura e cominciò ad apprendere libri sacri che i bramini apprendevano e diventò un bramino, un grande maestro dei libri vedici, per cui gli indiani andavano ad ascoltarlo come andavano ad ascoltare dei loro maestri. Solo che egli inseriva in quell’insegnamento, il Vangelo... Non per sovrapposizione meccanica ma per intima relazione. La questione fu portata a Roma e la Congregazione proibì queste forme. Potremmo dire che la Chiesa non lesse i segni del tempo! C’era un segno che un uomo aveva letto ma la Chiesa nelle sue tradizioni non lesse. E forse – dico forse – la mancanza di una vera penetrazione del cristianesimo nel grande continente spirituale che è l’India, è dovuta a questa chiusura. Possiamo dirlo senza offendere nessuno. Oggi la Chiesa sente i segni del tempo. Possiamo dire che è un po’ tardi, ma il presto o il tardi è un discorso tutto umano, Dio ha i suoi piani, i suoi disegni! Noi siamo lieti che finalmente questa lettura sia fatta solennemente dalla Chiesa del Concilio. Oggi l’umanità si stringe sempre più: le interdipendenze economiche, politiche, ed anche quelle create dai mezzi di comunicazione sono ormai profondissime. Di giorno in giorno il mondo più lontano entra nell’orizzonte della coscienza di ogni uomo civile. E questo rompe le monadi 14
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chiuse in cui vivevano le varie religioni: le religioni erano incapsulate entro civiltà corrispondenti. Ogni religione era come la più alta espressione di una civiltà; per cui il legame tra una religione e la civiltà corrispondente sembra indissolubile. Le civiltà si stanno legando su strutture profane, quindi si dissociano dalle religioni. Gli indiani ormai anche loro hanno un parlamento, fanno la legge sulla eguaglianza delle caste, accettano cioè i principi del vivere civile razionale che sono riconosciuti dovunque: fanno parte delle Nazioni Unite, ecc. Le strutture delle civiltà abbandonano il sostegno religioso per appoggiarsi ad altri sistemi che sono – secondo me – molto più adatti a sostenerli, perché le strutture temporali civili devono cercare sostegno sui principi che reggono la vita civile. Solo che in questa dissociazione nascono crisi terribili. La crisi che ha avvertito il cattolicesimo l’hanno avvertita anche le altre religioni, con questo di diverso: che mentre nel cattolicesimo lo sviluppo della civiltà nuova di tipo tecnico è del tutto omogeneo con la sua dottrina e la verità che esso propone non si confonde se vista nel suo profondo – con nessuna civiltà, questo grande processo sismico può comprometterne certe forme di presenza, una certa cultura, una certa mentalità, però noi non sentiamo che compromette la sostanza del cristianesimo. Mentre se noi pensiamo alle grandi religioni orientali il dubbio è profondo. Sentiamo un grande dubbio se esse potranno sopravvivere, se l’induismo potrà convivere con la tecnica visto che non ha giustificazioni dottrinali della tecnica, anzi, che la sua dottrina di fondo è caratterizzata da un rifiuto del mondo della materia, della conquista delle cose. Quindi questo processo potrebbe risolversi in uno svanimento di questi grandi patrimoni spirituali. Allora 15
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la Chiesa si pone in rapporto di dialogo, perché (io sono convinto personalmente, ma è una opinione perfettamente discutibile) se il cristianesimo non salva l’induismo, l’induismo muore; se non salva il buddismo, il buddismo va a finire. Però per essere degno di salvare queste religioni esso deve liberarsi dalla sua prigionia, altrimenti non riesce. È un dramma grande quello che stiamo vivendo! La Chiesa deve liberarsi dalla sua prigionia occidentale, non c’è dubbio. Il cristianesimo non viene a prendere il posto di niente ma a colmare tutto. Anche in Occidente non è venuto a sostituire le religioni antiche: è venuto a completarle. Noi siamo ancora cattolici, romani e greci; ma gli elementi che il cristianesimo ha incontrato e incorporato sono enormi in noi. Non ce ne accorgiamo perché fan parte della nostra carne e delle nostre ossa. Quindi il cristianesimo non aiuta a distruggere le antiche religioni per sostituirsi ad esse: è venuto a salvarle, voglio dire a salvarle in ciò che hanno di positivo. E allora il tempo urge: “Nunc tempus accettabile”, questo è il tempo opportuno. Il dialogo con le religioni diventa oltretutto un esercizio della missione di salvezza che la Chiesa deve compiere. Ora, questa considerazione del dialogo ci porta a porci una domanda seria: queste religioni che senso hanno di fronte ad una coscienza cristiana? Quale valore positivo possono avere? Sono soltanto delle religioni false, che vanno un po’ epurate dai loro errori oppure sono qualcosa di vero? Insomma, sono religioni vere? Il concetto di vero e di falso qui non si può applicare, veramente. Se dico che sono false, sbaglio. Perché occorre, come fa qui la Costituzione, non dimenticarsi che al fondo dell’umanità (prescindiamo qui dalle religioni positive che ho configurato in maniera visibile) intesa come un’unica famiglia, c’è una esigenza religiosa unica, che scaturisce dal bisogno di 16
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