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DIEGO MANETTI
OLTRE La vita eterna spiegata a chi cerca
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Š EDIZIONI SAN PAOLO s.r.l., 2015 Piazza Soncino, 5 - 20092 Cinisello Balsamo (Milano) www.edizionisanpaolo.it Distribuzione: Diffusione San Paolo s.r.l. Piazza Soncino, 5 - 20092 Cinisello Balsamo (Milano) ISBN 978-88-215-9510-3
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AL LETTORE
Quello che hai in mano lo considero un po’ “il libro della mia vita”. Lo so, può sembrare strano dire così di un libro che parla (anche) della morte, ma non saprei usare altre parole per esprimere che cosa esso sia. È il libro della mia vita perché – come avrai modo di verificare dopo le prime pagine – non si fonda tanto su studi e citazioni, spiegazioni e letture erudite, quanto piuttosto sull’esistenza vissuta. La mia, ma non solo: poiché per grazia di Dio ho incontrato così tante persone nel corso degli anni, che essa è diventata come un “serbatoio” di molte altre vite, di diverse esperienze, di mille racconti... E, sempre, ho potuto riscontrare che il cuore dell’uomo – di ogni uomo, quali che siano l’età, la professione, la cultura, la religione... – anela all’infinito da cui viene, di cui è costituito e per cui è fatto. Questa è l’esperienza che ho vissuto, attraverso le molteplici sfaccettature di umanità incontrate, osservate e conosciute fin qui; ogni uomo porta in sé il desiderio di andare oltre i limiti che la vita continuamente gli pone, in ultimo anelando a varcare quella soglia che, inesorabile, pare attendere tutti al termine dell’esistenza, cioè la morte.
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La morte terrena incombe, ineluttabilmente, su ciascuno, eppure – aldilà delle auto-rassicurazioni con cui l’uomo contemporaneo sempre più tenta di censurare la questione, parlandone come di un fatto “naturale” o di un problema che, in fondo, non lo riguarda – nell’intimo di noi stessi non riusciamo ad accettare tanto facilmente che, da un momento all’altro, possa giungere la fine: una fine che ci strappa dalla vita – la nostra e quella delle persone amate – annullando in un solo istante progetti, sogni e desideri per il futuro, inghiottendo tutto il nostro vissuto nel nulla... Insomma: ci ostiniamo a vivere, pur sapendo che dobbiamo morire. Perché? Perché non possiamo fare a meno di chiederci che cosa ci sia oltre la morte, oltre cioè quella fine terrena che – desideriamo, sentiamo, capiamo – non può essere la conclusione di tutto. *** Questo libro tenta di porre alcune domande proprio su questo tema – che cos’è la morte e che cosa c’è oltre di essa –, a partire dagli interrogativi che mi vengono quotidianamente rivolti dagli studenti, dai colleghi a scuola e nel mondo dell’editoria, dalle persone che incontro nelle occasioni più diverse: mentre sono in pellegrinaggio a Medjugorje, oppure dopo l’adorazione eucaristica nella mia parrocchia; quando vado a trovare una famiglia, oppure mi invitano per una conferenza o una testimonianza; ma anche semplicemente quando sono in fila al supermercato o nella sala d’aspetto del medico...
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Al lettore
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Anche da questo punto di vista è un po’ il libro della mia vita, poiché raccoglie le questioni e domande (e anche alcune risposte) che proprio lungo il cammino della mia esistenza ho potuto incontrare e mettere a fuoco, a poco a poco. Soprattutto, il libro nasce dal desiderio di condividere la bellezza di poter guardare oltre la morte, dopo averne fatto la drammatica esperienza – e non una volta sola! – nelle persone a me vicine. Non posso che dirti, caro lettore, che quanto ti consegno non è solo un libro, ma un pezzo della mia vita. Non è tanto una teoria, quanto l’esperienza che personalmente vivo ogni giorno: la morte non è l’ultima parola per chi sa affidarsi a Gesù Cristo che è «la resurrezione e la vita» (Gv 11,25). Grazie per condividere questo tratto di cammino.
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Nota di lettura – Diverse sono le fonti che si possono citare a sostegno di affermazioni relative alla fede e tra esse la Chiesa ci insegna che esiste una gerarchia: la Sacra Scrittura, la Sacra Tradizione, il Magistero della Chiesa, il consenso unanime dei Padri, l’insegnamento dei Dottori della Chiesa, la liturgia e la prassi ecclesiastica, la vita dei santi e l’elaborazione teologica. Non essendo questa un’opera destinata agli addetti ai lavori, pur trattando di questioni teologiche ho preferito dare centralità all’esposizione delle tesi, rispetto alla loro fondazione, citando i riferimenti solo laddove l’ho ritenuto strettamente necessario. Altre scelte sarebbero state senz’altro possibili, ma in questo modo spero di andare incontro alle esigenze del pubblico più vasto, cui quest’opera dal taglio intenzionalmente divulgativo si rivolge. Infine, sovente cito le apparizioni di Medjugorje e i messaggi della Regina della Pace. Non faccio questo con l’intento di anticipare il giudizio della Chiesa, nei confronti della quale mi sento legato da obbedienza e sequela filiale, bensì solo per rendere conto, nei termini di una pura testimonianza umana, di un’esperienza che ha inciso profondamente sulla mia vita di fede.
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I PRIMA DELLA MORTE
Gli anni della nostra vita sono settanta, ottanta per i più robusti, ma quasi tutti sono fatica, dolore; passano presto e noi ci dileguiamo. Insegnaci a contare i nostri giorni e giungeremo alla sapienza del cuore (Sal 89,10.12)
PERCHÉ PARLARE DELLA MORTE, QUANDO SONO GIÀ TANTI I PROBLEMI DELLA VITA?
Perché occuparsi della morte, quando la vita ha già così tanti problemi? Non sarebbe meglio interessarsi anzitutto alle questioni della vita e solo dopo occuparsi, eventualmente, della morte? Queste obiezioni sono comprensibili. Ma celano in sé proprio la risposta al perché sia utile – anzi, necessario – interessarsi alla morte oltre che alla vita dell’uomo. La vita porta infatti con sé una moltitudine di sofferenze, preoccupazioni, difficoltà. È come un cammino impervio verso... che cosa? Proprio verso la morte.
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Questo dicono i fatti: tutti gli uomini muoiono. E se la vita è destinata a terminare con la morte, solo interrogandosi sulla morte si può sperare di dare una risposta ai mille interrogativi sulla vita. Perché il dolore? Perché la malattia? Perché la fatica? Perché il male? Tutte queste domande conducono all’interrogativo più radicale: perché la morte? Se paragoniamo la vita a un cammino – metafora tanto cara a scrittori, poeti, filosofi e pensatori nel corso dei secoli –, allora la morte è la sua fine. O il suo fine, se pensiamo che ogni cammino tende a una mèta, a un punto di arrivo, a un compimento. Una mèta che retrospettivamente illumina il valore e la consistenza del cammino percorso. Ad esempio, se mi limitassi a proporre a un amico di attraversare un deserto, arido e assolato, infestato da serpenti e scorpioni, dubito che questi accetterebbe di incamminarsi sulla sabbia rovente... Ma se gli dicessi che, al termine di quel deserto, troverà il tesoro prezioso che tanto desidera, allora saprebbe che ne vale la pena! Così pure, quando ci apprestiamo a compiere il cammino della vita, dobbiamo interrogarci sulla mèta, cioè sulla sua fine. E sul suo fine. Rispondere agli interrogativi sul mistero della morte significa dunque rispondere alle domande più radicali sulla vita.
MA IL PENSIERO DELLA MORTE CI RATTRISTA, QUANDO POTREMMO GODERE DELLA VITA!
La vita non è fatta solo di dolore, sofferenza, malattia... Certo che no! Essa è anche gioia, piacere, serenità,
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amore... Chi potrebbe negare che si tratta di una medaglia a due facce? Soprattutto quando si è giovani, in piena salute, con tutta la propria storia davanti: è allora che ci si sente padroni del mondo, capaci di realizzare qualsiasi impresa e di affermarsi contro qualsiasi destino avverso. Non si sono forse conosciuti ancora i limiti della vita umana e dunque si vuol solo godere di quello che pare essere costitutivo della vita stessa. Oppure, proprio perché si intuisce che la giovinezza è destinata a scorrer via, e si osservano le persone più anziane perdere di giorno in giorno vitalità, energia e gioia, ecco che si desidera cogliere l’attimo fuggente e vivere secondo il carpe diem degli antichi. Si tratta di un atteggiamento che ben si rappresenta nel detto di Lorenzo il Magnifico (1449-1492), politico e scrittore della dinastia fiorentina dei Medici: «Quanto è bella giovinezza che si fugge tuttavia, del diman non v’è certezza chi vuol esser lieto sia».
Una frase dal tono agrodolce: la realtà della giovinezza è gioia e piacere, tuttavia essa è di breve durata, effimera, per cui conviene goderne presto. Senza lasciarsi troppo turbare da cattivi pensieri, come scriveva il filosofo e matematico francese Blaise Pascal (16231662): «Gli uomini, non avendo alcun rimedio contro la morte, hanno stabilito, per essere felici, di non pensarci mai» (Pensieri, 168).
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Ancora a Pascal possiamo rifarci per il concetto filosofico di “divertimento”, inteso in senso letterale (dal latino) come la scelta di de-vertere, cioè “allontanarsi”, “voltarsi dall’altra parte”, per non dover riconoscere che la vita pone questioni di senso per nulla facili né comode, che possono turbare la pace e la tranquillità di chi vorrebbe, invece, limitarsi a godere dei piaceri del momento. Scrive infatti il filosofo: «L’unica cosa che ci consola dalle nostre miserie è il divertimento, e intanto questa è la maggiore tra le nostre miserie» (Pensieri, 168).
Il divertimento diviene quindi una (vana) consolazione dinanzi ai limiti e alle fragilità della vita, una via di fuga che immiserisce l’uomo perché lo distoglie da ciò che lo differenzia dagli animali, conferendogli specifica dignità, vale a dire la capacità di interrogarsi sul senso della vita, al di là della soddisfazione degli istinti e dei bisogni primari (bere, mangiare, dormire, riprodursi). Si può dunque scegliere di non pensare ai problemi della vita, ignorando la questione della morte. Una tale scelta non appare però ragionevole, se confrontata con la necessità della ricerca di senso della vita nella sua complessità. Che senso avrebbe infatti vivere il momento presente della vita senza chiedersi quale sia il termine verso cui tende? Sarebbe come trovarsi in macchina in autostrada, lanciati a 180 km/h, e concentrarsi sulla scelta della stazione radio preferita piuttosto che domandarsi se i freni funzionano bene, così da evitare di schiantarsi alla pri-
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ma curva! O ancora, è come se capitasse di svegliarsi di soprassalto su un treno in corsa, non sapendo dove si sia diretti, e invece di ricercare – fors’anche con una certa ansia – il capotreno per chiedere informazioni sulla destinazione, ci si preoccupasse anzitutto di sapere se servono uno spuntino durante il viaggio oppure se la toilette è sufficientemente comoda... Credo, quindi, che non vi sia chi non vede che è assai più ragionevole affrontare il problema della morte – anche a costo di qualche grave pensiero –, piuttosto che ignorare la questione di proposito, restando nell’ignoranza circa la fine e il fine.
LA MORTE: UNA QUESTIONE CHE NON SI PUÒ IGNORARE
In ogni caso, la maggior parte dell’umanità spesso non si pone alcun interrogativo sulla morte, bensì pare interessata a ben altre questioni. Non è un atteggiamento tipico solo della nostra epoca. Nel Vangelo si riporta infatti una parabola di Gesù che mi pare altamente istruttiva: «Disse poi una parabola: “La campagna di un uomo ricco aveva dato un buon raccolto. Egli ragionava tra sé: Che farò, poiché non ho dove riporre i miei raccolti? E disse: Farò così: demolirò i miei magazzini e ne costruirò di più grandi e vi raccoglierò tutto il grano e i miei beni. Poi dirò a me stesso: Anima mia, hai a disposizione molti beni, per molti anni; riposati, mangia, bevi e datti alla gioia. Ma Dio gli disse: Stolto, questa notte stessa ti sarà richiesta la tua vita. E quello che hai preparato di chi sa-
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rà? Così è di chi accumula tesori per sé, e non arricchisce davanti a Dio. Chi di voi, per quanto si affanni, può aggiungere un’ora sola alla sua vita?”» (Lc 12,16-21.25).
Gesù è estremamente concreto e diretto nei suoi insegnamenti. Anche in questo caso. Si parla di un uomo ricco, ma non si dice né che fosse un malfattore (anzi, appare un gran lavoratore) né un avaro (sceglie anzi di far festa e godere di quanto ha, presumibilmente condividendo con parenti e amici). Però appare in tutta la sua stoltezza perché, mentre si preoccupa di accumulare, ecco che neppure si cura di “contare i giorni” della sua vita. Giorni il cui computo non è in mano nostra, bensì nelle mani di Dio, poiché nessuno di noi può aggiungere neppure “un’ora sola” alla sua esistenza. E questo vale per ogni uomo: per me che in questo momento sto scrivendo questo libro e per chi “adesso” lo sta leggendo. Che cosa rimprovera dunque Gesù all’uomo ricco? Non certo di aver accumulato ricchezze e neppure di volersi dare alla pazza gioia senza controllare glicemia o colesterolo! Il problema è ben più radicale: quell’uomo vive la sua vita come se la durata non fosse una variabile indipendente dalle sue decisioni, bensì potesse egli disporne a piacimento. Ma così non è. Perché la morte può sopraggiungere da un momento all’altro, è imprevedibile, per chiunque. E dunque non si tratta di un problema squisitamente filosofico sul quale posso scegliere se interrogarmi o meno, bensì di una questione drammatica che mi interpella in quanto individuo, a prescindere da quanto fanno i vicini. Se in piena notte il Titanic sta affondando e la mag-
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gioranza dei passeggeri si mette a rimirar le stelle, ripetendosi come un mantra «il Titanic è inaffondabile!», io resterò a contemplare la volta celeste perché così fan tutti, o non correrò piuttosto alla ricerca di un salvagente per cercare di mettermi in salvo?
ANCHE SE L’UOMO NON SI INTERROGA SULLE COSE DEL CIELO, NON SIGNIFICA CHE SIA FATTO PER LA TERRA
Se la maggior parte degli uomini vive come se fosse “tutto qui”, cioè come se la vita si giocasse interamente in un orizzonte intra-mondano, perché interessarsi di quanto va “oltre”? In parte l’ho già detto: che sia tutto qui o meno, quello che conta è proprio scoprire come stanno le cose. Non pretendo che il lettore accolga come verità aprioristicamente valida l’esistenza della vita eterna, della vita dopo la morte, ma chiedo almeno che colga l’ineluttabilità della questione: dobbiamo interrogarci sulla morte, sulla sua realtà, per cogliere il significato della vita. Perché se è tutto “al di qua”, è un conto; ma se c’è la vita eterna, allora la prospettiva cambia. Per stare nella metafora del cammino, posso proporre questo esempio: se la vita è una strada, la morte è la porta che si trova al termine di essa. Ora, che cosa ci sia dietro alla porta è una questione di capitale interesse per un essere ragionevole: se non c’è nulla, o se la porta neppure si apre, la vita ha una certa consistenza; ma se dietro a quella porta si apre un nuovo cammino, di una durata e una bellezza infinite, tutto cambia. E le asprez-
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ze e le fragilità della vita ricevono un senso. È un po’ come se si fosse attraversato l’arido deserto di cui abbiamo detto, e alla fine si rimanesse con un pugno di mosche. Ne sarebbe valsa la pena? Ma se invece trovassimo il tesoro prezioso a lungo cercato, allora sì che potremmo dire: ha senso aver rischiato la vita affrontando la sete, i serpenti e gli scorpioni per arrivare finalmente alla mèta! Premesso questo, dobbiamo chiederci se l’uomo sia fatto per la terra o per il cielo, per le cose finite o per l’infinito. Questa è la domanda cruciale.
L’UOMO, CREATURA COSÌ FRAGILE, EPPURE FATTA PER L’INFINITO
Già sant’Agostino (354-430), vescovo e dottore della Chiesa, lo scriveva: «Tu ci hai fatti per Te, o Signore, e il nostro cuore è inquieto finché non riposa in Te» (Confessioni 1, 1).
Proviamo a uscire dalla riduzione “religiosa” a cui una tale affermazione è spesso ricondotta e ne scopriremo la profonda verità. Invece di parlare di Dio – cosa che potrebbe indurre non credenti o agnostici a dire: la cosa non mi riguarda – riferiamoci all’infinito, all’eterno. Agostino dice che l’uomo è fatto per l’infinito e che, finché non lo trova, il suo cuore è inquieto. Ma di questo facciamo esperienza noi stessi ogni volta che ci accorgiamo – dolorosamente! – che le cose del mondo non
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colmano le nostre attese. Basta far caso ad alcune questioni semplici: posso lavorare anni e anni per comprarmi la macchina nuova, ma quanto durano poi il piacere e l’emozione di guidarla? Non è forse vero che dopo un po’ nasce il desiderio di averne una ancora più costosa, più veloce o più potente? Due esempi di questa inquietudine del cuore umano aiutano a riflettere su situazioni che sovente i giovani, soprattutto, si trovano a vivere in prima persona. Il primo caso è il sabato sera: quante attese! I miei studenti ne parlano fin dal lunedì mattina in classe: sabato sera faremo questo, faremo quello... Mille programmi e idee. Poi la “febbre” sale a mano a mano che ci si avvicina alla fatidica scadenza. E quindi si vive la serata (sempre più spesso: la nottata!) che si era programmata. E si torna a casa che ormai è l’alba, per buttarsi nel letto e trascorrere “in coma” la maggior parte della domenica. Risvegliandosi poi con una certa tristezza. Questo mi testimoniano, il lunedì mattina. E se chiedo loro: «E perché eravate tristi, dopo un così bel sabato sera?», qualcuno risponde: «Perché pensavamo che saremmo dovuti tornare a scuola all’indomani!» Al che la classe ride. Ma i più scaltri già intuiscono quanto subito dopo replico loro: non è il pensiero della scuola che rende tristi, ma la consapevolezza che quel “fantastico” sabato sera, che pure è andato esattamente come programmato, non ha soddisfatto le attese del cuore, ben più profonde! È come se, per quante inebrianti esperienze si possano vivere e per quanto sballo si possa ricercare (versione radicale e degenerata del divertissement pascaliano), si ha la chiara percezione che manchi sempre qualcosa... Proprio a conferma di quanto scrive
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sant’Agostino: il nostro cuore è fatto per l’infinito ed è inquieto e insoddisfatto finché non lo trova. Un altro esempio, che porto a quegli stessi studenti, sull’apertura del cuore umano all’infinito è relativo alla vita affettiva. Chiedo loro se ricordano il primo appuntamento con la fidanzata o il fidanzato. Cerco di ricreare l’atmosfera per coinvolgere tutti i presenti, facendomi raccontare un episodio concreto da chi si sente di condividere. E a un certo momento tento di puntare l’attenzione sulle paroline dolci che accompagnano le dichiarazioni d’intenti di fine cena e provoco, incalzando: che cosa vi siete detti alla fine della cena? Forse hai guardato la tua bella negli occhi e le hai detto: «Ti amerò fino alla prossima fidanzata»?, oppure «...fino al prossimo anno scolastico»?, o «...fino al prossimo governo»?, o ancora: «...fino alla pensione», che poi coi tempi che corrono neanche sappiamo se ce la daranno!? No – dico – niente di tutto questo. Vi siete guardati negli occhi, vi siete magari tenuti per le mani e vi siete detti: «Ti amerò per sempre». Per sempre, non «...per tutta la vita». Perché «...per tutta la vita» è meno che per sempre. Per sempre. Sono parole grandi, più grandi del cuore che le pronuncia. E perché si dicono, anche quando si sarebbe disposti a giurare di non credere all’eternità né all’infinito? Semplicemente perché il cuore conosce cose che la ragione (non solo dei miei studenti, ma degli uomini in generale) spesso ancora non sa: cioè che l’uomo è fatto per il “per sempre”, per l’eterno e l’infinito. E tanto basta per dare un indizio del fatto che l’uomo non sia fatto solo per la terra, bensì per il cielo.
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INDICE
Al lettore I. PRIMA DELLA MORTE Perché parlare della morte, quando sono già tanti i problemi della vita? Ma il pensiero della morte ci rattrista, quando potremmo godere della vita! La morte: una questione che non si può ignorare Anche se l’uomo non si interroga sulle cose del cielo, non significa che sia fatto per la terra L’uomo, creatura così fragile, eppure fatta per l’infinito Accorgersi che la vita terrena “non basta” al cuore dell’uomo non è un’invenzione religiosa, ma un’esperienza possibile per ognuno Sopravvivere nel ricordo dei posteri Non basta neppure la speranza di sopravvivere nel ricordo dei propri cari La morte non è semplicemente un “fatto naturale” La paura della morte: un tabù di cui difficilmente si parla Perché interrogarsi sulla morte, visto che comunque non le si può sfuggire? Due tipi di paure: per quanto sta al di qua della morte e per quanto sta oltre La vita dell’uomo non è limitata all’orizzonte terreno
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Lo scontro tra il materialismo contemporaneo e la spiritualità dell’uomo L’insegnamento del Magistero della Chiesa sull’uomo inteso quale unione di corpo e anima Se l’uomo è fatto di anima e corpo, ci si deve interrogare sulla morte
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II. LA MORTE
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Che cos’è la morte? Ritenere che la morte non sia solo un evento biologico non è solo questione di fede Il significato cristiano della morte La morte quale “ultima agonia” Se l’uomo è fatto per l’infinito e per la vita, perché la morte? L’ipotesi della reincarnazione Per il cristiano la morte è una porta aperta sull’eternità Gesù, che è il Figlio di Dio, ci libera dalla morte Anche Gesù, che è il Figlio di Dio, ha affrontato il dramma della morte La morte di Gesù: un evento salvifico a me contemporaneo Farsi contemporanei della morte di Cristo per poter anche credere alla sua resurrezione Un uomo contemporaneo, che non abbia avuto la fortuna di assistere alle apparizioni del Risorto, come può credere a una simile promessa: «Chi crede in me, anche se muore, vivrà» (Gv 11, 25)? La differenza tra risorgere e resuscitare «Chi crede ha la vita eterna» (Gv 6,47) Il brano delle pecore e dei capri, che troviamo al cap. 25 del Vangelo secondo Matteo, parla di un giudizio che riguarda tutti gli uomini, alla fine dei tempi. Ma che cosa accade alla mia morte? Due tipi di giudizio: uno subito dopo la morte e uno alla fine dei tempi
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La sorte dei bambini morti senza Battesimo Chi giudica – sia a livello particolare, sia a livello universale – è Cristo Con tutto questo parlare di “giudizio”, come si fa a non temere Gesù, in quanto giudice, piuttosto che amarlo? Il giudizio come espressione della misericordia di Dio
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III. DOPO LA MORTE. I «NOVISSIMI»
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Il destino che attende le anime dopo la morte Il purgatorio La pena del purgatorio Su quali basi la Chiesa cattolica insegna la dottrina del purgatorio? La preghiera per i defunti che sono in purgatorio Noi possiamo pregare per le anime del purgatorio, ma loro possono pregare per noi? Quando andremo in purgatorio, potremo incontrare i nostri cari che si trovano là? La dimensione temporale dell’aldilà Il paradiso Il paradiso è la piena comunione con Dio Il paradiso come vita “beata” Che cosa si fa in paradiso? Quindi in cielo non ci saranno più differenze di rapporto, ma ameremo uno sconosciuto come un parente stretto? Gli animali andranno in paradiso? Le “esperienze dell’aldilà” che confermano il paradiso Il “viaggio” in paradiso dei veggenti Vicka e Jakov L’inferno La Sacra Scrittura parla dell’inferno L’eternità dell’inferno Chi va all’inferno L’inferno non può essere vuoto La pena dell’inferno
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L’immagine dell’inferno che la Madonna ha mostrato ai pastorelli di Fatima pag. 181 La visione dell’inferno di suor Josefa Menendez » 184 Santa Faustina Kowalska e la visione dell’inferno » 186 Gloria Polo e la visione delle pene infernali » 188 La testimonianza di Vicka sull’inferno » 189 L’inferno è un estremo appello alla libertà dell’uomo » 192 La resurrezione dei corpi » 193 Il fondamento della resurrezione finale dell’uomo » 195 Il nostro destino e la resurrezione dei corpi » 196 Anche i dannati risorgeranno col corpo » 199 Il corpo con cui risorgeremo » 201 «Risorgerò proprio con il mio corpo?», molti si chiedono » 204 Le caratteristiche dei corpi risorti » 207 Le diverse caratteristiche dei corpi risorti dei beati e dei dannati » 208 Il valore esistenziale della fede nella resurrezione » 209 I risvolti etici della fede nella resurrezione dei corpi » 211 La Chiesa Cattolica e la cremazione » 213 Quando risorgeremo saremo ancora uomini e donne? » 217 In cielo riconosceremo i nostri cari » 218 Già ora, nell’attesa di rincontrare i nostri cari, possiamo restare in rapporto con loro » 220 Per finire. Perché hai scritto questo libro?
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