Grid is Good

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grid is good

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Elena Rabitti diploma accademico di I livello relatore: Silvia Cogo ISIA di Faenza A.A. 2012-2013

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Index CAPITOLO#1 Abstract Obiettivi Concetti Riferimenti

>>> 7 >>> 8 >>> 10 >>> 18

capitolo#2 Introduzione Sviluppo progetto Shooting Riferimenti

>>> 32 >>> 34 >>> 54 >>> 82

capitolo#3 Conclusioni Bibliografia Sitografia

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>>> 88 >>> 90 >>> 92

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>ABSTRACT >OBIETTIVI >CONCETTI >RIFERIMENTI

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abstract

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Dal 2D al 3D Il disegno si traspone da uno spazio bidimensionale, il foglio di carta, a uno spazio tridimensionale, la stoffa. In questo passaggio vi è un’apparente trasformazione della morfologia iniziale che, da rigida e piatta, diventa morbida e flessibile. Identità e mutamento allo stesso tempo: non vi è lo stravolgimento che avviene solitamente passando dal concept al prodotto finito ma l’oggetto cambia successivamente, grazie all’interazione col corpo della persona.

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obiettivi

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Principio di economia Questo principio lo associo alla semplicità, che secondo il mio ideale, si concretizza in un oggetto composto da poche parti e pochi materiali, facilmente distinguibili e s-montabili. È difficile raggiungerla, perché estetica e funzione devono essere in perfetto equilibrio senza che uno dei due prevalga sull’altro. Un oggetto semplice è essenziale ovvero non ha niente in più rispetto a ciò che serve ad assolvere alle sue funzioni.

Ambiguità È un oggetto senza una funzione specifica, che ne possa definire l’identità, ma può adeguarsi a varie situazioni, in base alle esigenze dell’utente. È un paradosso, una contraddizione, perché la forma, pur rimanendo la stessa, cambia ad ogni punto di vista, come se si mettesse continuamente in discussione.

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+ Work in progress L’utente è chiamato ad interagire con l’oggetto proseguendo l’opera del designer e apportandovi la propria creatività. È libero di seguire le indicazioni del progettista o di inventare nuove configurazioni o usi “impropri” non ancora testati. Il designer dà l’input iniziale e gli strumenti affinché l’oggetto possa essere utilizzato e interpretato liberamente dall’utente.

Abaco A partire da una serie di forme astratte, che vanno a comporre un abaco di pochi elementi, ho seguito una nuova metodologia progettuale, applicabile virtualmente a tutti i settori del design (grafica, fashion, furniture, interior...) in cui, grazie alla variazione di dimensioni, materiali e giunzioni dell’oggetto, cambia il risultato finale. In tal modo un’ipotetica forma “M” potrebbe diventare una seduta imbottita, un mobile contenitore, un carattere tipografico, il modulo di un pattern o un capo d’abbigliamento.

Geometria Taglio, piega, rotazione, ripetizione: operazioni prelevate dalla modellazione della carta per la realizzazione di poligoni e trasferite in un ambito inconsueto, l’abbigliamento, permettono di variare l’approccio al vestito, non più pensato come un oggetto preconfezionato e finito ma come un oggetto “aperto” che si svolge e avvolge attorno alla persona, adattandosi ad essa.

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concetti

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yin e yang L’unica costante della vita è il mutamento. Ogni momento che passa è diverso dal precedente, un eterno susseguirsi di attimi, di frammenti, che si collegano tra loro in modo caotico. Il tempo è circolare, tutto si ripete: le stagioni, i pensieri, le azioni...Il mondo è governato dalla legge degli Opposti: ogni elemento si controbilancia col suo contrario, grazie a cui esiste. Così se non ci fosse luce non ci sarebbe neanche ombra, e se non ci fosse vuoto non ci sarebbe pieno, tutto è originato dall’alternanza degli opposti, Yin e Yang. E da questo senso di incompletezza scaturisce l’eterna ricerca di ognuno, di qualcosa d’indefinito, della parte mancante. L’essere umano è parte del Tutto, inteso come società, pianeta, universo. Cambia la scala di grandezza dei sistemi, dall’atomo al cosmo, ma le leggi che ne stanno alla base sono le stesse. L’Uomo è già un sistema completo in sé, come corpo e mente, come unità singola, ma necessita di completarsi essendo anche parte di un sistema più grande.

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scala/montagna

Tempio di Hatshepsut, Egitto

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Partendo dall’idea di scala ho pensato ad un percorso di salita per raggiungere la cima di un’ipotetico oggetto. La vetta sono sogni ed ambizioni, è ciò che ci spinge ad andare avanti, è lo “scopo” che ci si prefigge, la nostra missione. La montagna, di cui piramidi e ziggurat ne sono ricostruzioni astratte, è una metafora del percorso della vita, che parte da zero per arrivare al culmine e, quindi, ridiscendere e tornare al punto di partenza (uguale e opposto). Pensando ad un viandante che arriva alla cima della montagna, quando è lassù si trova in una situazione instabile e contraddittoria: è al contempo onnipotente e inerme. Onnipotente perché dalla cima può vedere tutto il panorama sottostante, dominandolo con lo sguardo, e inerme perché, di fronte alla magnificenza della natura, verifica la propria piccolezza ed insignificanza. Come un atleta che raggiunge l’apice della carriera, non può mantenere tale posizione per sempre e come pure la giovinezza, non è eterna, poiché tutto è effimero e mutevole. La montagna è anche simbolo di isolamento, rifugio, un luogo di raccoglimento e riflessione dove poter godere di un panorama altrimenti invisibile.

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Entrata del cimitero di Brion

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Carlo Scarpa/Mutamento “Il luogo è lo spazio in cui qualche rito si manifesta” >F.Dal Co, G.Mazzariol Rito e liturgia, non nell’accezione religiosa, ma come azione quotidiana, che si ripete tutti i giorni e di cui, a causa della consuetudine, si perde il valore iniziale. Le azioni diventano meccaniche e quindi incoscienti e così pure la vita, che trascorre non essendo vissuta in modo consapevole e attivo.

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+ “...è colui che sa accogliere e ripercorrere e decifrare le sfumature più lievi di una liturgia, perché vivere è esserne parte” >Dal Co, G.Mazzariol Vivere è essere parte di ciò che accade, essere testimoni o attori di azioni ed eventi, che su grande scala fanno poi la Storia, della nostra vita e dell’umanità. Esserne parte significa anche essere parte del Tutto, di tutto l’esistente, manifesto e non manifesto, perché il Tutto è più della somma delle sue parti. Presi singolarmente siamo nulla ma il nostro valore si concretizza quando facciamo qualcosa per noi e per gli altri. “The sense of the wholeness of inseparable elements” >L. Kahn In Scarpa il dettaglio, inteso come parte della Totalità, acquista la stessa importanza dell’opera intera o delle parti considerate più importanti. Tutti gli elementi hanno uguale importanza perché il dettaglio di un edificio è come la parte di un sistema, che per quanto possa sembrare insignificante, è però necessaria a completarlo. In relazione alla sensibilità giapponese, Scarpa pone attenzione ai piccoli gesti della vita quotidiana e mostra una accettazione della precarietà della vita, che è continua trasformazione. Come pure la materia. Forse ha scelto il cemento come materiale prediletto perché risente degli agenti atmosferici, cambia e deperisce, acquistando quel fascino proprio delle cose vissute. È un materiale vulnerabile, come l’uomo, che non accetta la finitezza della vita e tenta in tutti i modi di lasciare tracce di sé nel mondo. Probabilmente l’architetto ha voluto mantenere un legame con la “tradizione” e la storia, sia locale, che antica, perché spesso si è confrontato con progetti in cui doveva integrare il nuovo con il preesistente e in modo da risuscitarli e dargli nuova vita.

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Yantra di terracotta, 1969

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Ettore Sottsass/ritualità Ettore Sottsass concepisce l’oggetto quasi come un idolo domestico che deve aiutare ad avere coscienza di sé e quindi della propria esistenza. I suoi oggetti rimandano a qualcosa di arcaico e religioso, hanno quella carica simbolica propria degli idoli primitivi. Enigmatici e monumentali, riportano alla memoria architetture di luoghi lontani ed esotici. Magici e solenni, ristabiliscono una connessione con la dimensione trascendentale, ormai perduta. Ma si di-mostrano anche pop, nel decoro e nei materiali, prelevati dagli oggetti di massa, e rinnovati nell’accostamento inconsueto ad altri, più tradizionali e preziosi. Sottsass non ha mai seguito alcun movimento o ideologia ma nonostante ciò, dai titoli delle sue opere, trapelano profondi messaggi esistenziali e critiche alla società moderna auspicando un ritorno alle radici dell’uomo, a un contatto con la natura.

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+ Metafore, disegno di una scala per salire al potere, 1974 “da quando si disegnano gli strumenti basterebbe rappresentare scarnamente il diagramma delle operazioni fisiche, mentali e psichiche che il corpo compie mentre li usa. Penso che si possano disegnare oggetti come diagrammi o promemoria di stati elementari cioè cosmici del corpo, sia che si tratti di stati muscolari, ormonali, mentali o psichiciâ€? >E. Sottsass

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Mandala di Vajradhatu

simbolo/segno “ Si definisce sìmbolo (dal latino symbolus e symbolum, “accostamento”, “segno di riconoscimento”): - Qualsiasi elemento (segno, gesto, oggetto, animale, persona) atto a suscitare nella mente un’idea diversa da quella offerta dal suo immediato aspetto sensibile, ma capace di evocarla attraverso qualcuno degli aspetti che caratterizzano l’elemento stesso... - Segno grafico, lettera o gruppo di lettere, assunti per convenzione in varie discipline a indicare determinati elementi, enti, grandezze, strumenti, operazioni. - Nell’uso degli antichi Greci, mezzo di riconoscimento, costituito da ognuna delle due parti ottenute spezzando irregolarmente in due un oggetto, che i discendenti di famiglie diverse conservavano come segno di reciproca amicizia. >Enciclopedia Treccani

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+ Il simbolo è un segno che condensa in sé il significato di un’entità astratta o materiale. Può rappresentare quindi sia il noumeno (l’idea) che il fenomeno (il manifesto) che, attraverso il segno, diventano pregnanti nella mente umana. Il senso dominante nell’uomo è la vista e il mondo attuale è popolato di immagini che veicolano messaggi più o meno diretti. Si potrebbe dire che dietro la facciata non vi sia nulla, che è tutto superficialità e impermanenza, ma ad ogni modo l’immagine, ciò che percepiamo immediatamente, ci rimanda sempre, a se stessa e a qualcosa di più profondo. E per scoprire cosa si celi dietro la foresta di simboli che è il mondo, non resta che indagare e cercare continuamente senza mai fermarsi all’apparenza, perché essa è ambigua e spesso nasconde dietro a sé il suo opposto. Il simbolo può avere uno o più significati, sedimentati nel corso della storia, e codificati in riti trasmessi inalterati nella forma. Esso è anche un elemento distintivo condiviso da persone appartenenti a un determinato gruppo, che garantisce la riconoscibilità tra i membri, basata sull’identificazione tra il significante (il simbolo) e il significato (ciò a cui rimanda). Le forme da me elaborate, si possono relazionare ad esso, nella misura in cui sono estreme astrazioni di concetti che volevo esprimere consciamente o inconsciamente. Infatti, dopo una ricerca nel campo della storia dell’arte, ho verificato una notevole somiglianza con i disegni ricorrenti in diversi periodi storici nell’arte primitiva africana, indiana o mesoamericana. Nella scrittura araba, ad esempio, c’è un particolare tipo di calligrafia, lo stile cufico, in cui le lettere sono geometrizzate in modo da creare motivi decorativi impiegati nell’architettura come mosaico. In questo caso, viene curata sia la funzione comunicativa della parola, che quella estetica.

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riferimenti

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decoro/superficie Un nuovo approccio alla decorazione è stato messo in atto da designer radicali grazie all’utilizzo di un particolare materiale, il laminato plastico. Esso era impiegato, all’epoca, come rivestimento di mobili in truciolare da posizionare in bagno, in cucina, o in ambienti pubblici. Dunque, era un materiale onnipresente ma invisibile, economico e snobbato. Tra i primi che ne hanno intravisto le potenzialità comunicative vi è stato Ettore Sottsass, che lo ha elogiato per la sua qualità tattile e per l’estrema versatilità. Sottsass, già nel 1964, lo aveva utilizzato per la produzione dei prototipi di Superbox, con grande anticipo sull’ab-uso che ne sarà fatto successivamente, anche da Mendini, Archizoom, Superstudio, Alchymia e Memphis. Il suo largo impiego è stato possibile grazie alla collaborazione con l’Abet Print, in un periodo in cui le aziende erano molto aperte alla sperimentazione e alla ricerca. A testimonianza di ciò basti pensare

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+ che oltre alla Abet, anche Zanotta e Poltronova, collaboravano con vari progettisti, istituendo gruppi di ricerca nel campo del design. Questo sostegno economico, fondato anche sulla fiducia che gli industriali riponevano nei progettisti, ha permesso la concretizzazione di molte teorie e progetti partoriti dai gruppi radicali. Mendini ha mostrato un approccio sentimentale al design, manifestazione del sé più intimo, espressa attraverso il disegno e la decorazione. I suoi oggetti sono resi impalpabili, da nuvole di puntini colorati, o “ri-animati” da segni più geometrici e casuali, come nel lavoro svolto con Studio Alchymia. In particolare, nel caso di Alchymia, il decoro è usato come elemento stilistico che uniforma i diversi prodotti, ideati all’interno di in un lavoro di gruppo. Diverso è l’approccio di Superstudio, che stende un reticolo quadrettato su tutti i progetti, rendendoli uguali e asettici, con una volontà di azzeramento del decoro, e della forma, ridotta all’archetipo. Oggetti che nascono dall’addizione di cubi e quadrati, vanno a creare una scenografia neutra, che esalta la presenza dell’uomo e della natura. Il decoro per gli Archizoom invece è stridente e pop, prelevato dagli scaffali dei supermarket e trasposto in oggetti al limite del kitsch. Su una linea convergente si muove Sottsass, che espleta nel suo lavoro un’indagine degna di un antropologo “grafico”, con rilievi di superfici banali come può essere una “rete” o un “spugnato”. Della sua influenza ne risentono i colleghi del gruppo Memphis, che creano oggetti in cui i materiali e le forme sono accostati in modo inedito e la superficie acquista un’importanza preponderante. Il decoro e l’ironia conquistano finalmente lo spazio domestico, andando ad infastidire gli altri arredi, che, a questo punto, risultano insipidi e timidi a confronto delle proposte Memphis.

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Lampada Oceanic, Michele De Lucchi x Memphis, 1981

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Scarponi Timberland, Studio Alchymia, 1985


+ + + + + Letto “Presagio di rose�, dalla serie Dream beds, Archizoom, 1967

Mobili Misura, Superstudio, 1970

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Minimalismo Non poco influente è stato il lavoro dei minimalisti nei settori del design e dell’architettura. Parallelamente alle loro opere, spesso “untitled”, un designer grafico, come AG Fronzoni, applicava i principi dell’essenzialità alla vita quotidiana, oltre che ai lavori prodotti. E ha trasmesso questa filosofia anche agli allievi, che seguiranno le sue orme nel campo dell’architettura. Le opere minimaliste hanno una grande vocazione spaziale e quindi architettonica, andando ad interagire con le pareti della stanza, come nella mostra di Robert Morris alla Green Gallery, o con l’ambiente esterno, come nei Concrete blocks di Sol LeWitt. Si può dire che ridefiniscano lo spazio attraverso gli strumenti della ripetizione e della semplicità, concretizzati in opere che diventano oggetti fisici e immanenti, dalle forme archetipe reiterate in una sorta di ciclo senza fine. L’artista si eclissa nell’anonimato, devolvendo la realizzazione dell’opera alla macchina, che la può replicare in serie, come i prodotti industriali. E in tal modo arriva all’espressione dell’essenza dell’idea, non più influenzata dall’emotività del segno, ma trasmessa direttamente nell’oggetto, integra nella sua purezza originale.

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Sol LeWitt, X with columns, Concrete blocks, 1996

R. Morris, Untitled, Feltri, 1969

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+ Modulo Il modulo (dal latino modus, “misura”) è un disegno geometrico ripetuto più volte in una griglia, formata spesso da quadrati o triangoli, in modo da ottenere composizioni bidimensionali o tridimensionali. La forma di partenza (regolare o irregolare) viene replicata attraverso le operazioni di simmetria (rotazione, traslazione, riflessione e dilatazione). La disposizione delle forme, in modo che non si generino vuoti o sovrapposizioni, si chiama tassellatura del piano. >La traslazione è la ripetizione di una forma lungo una linea retta o curva. >Nella rotazione la forma gira attorno a un asse posto all’interno o all’esterno di essa. >La riflessione è la simmetria bilaterale che si ottiene ruotando un oggetto di 180° rispetto al suo asse di simmetria. >La dilatazione è un ingrandimento della forma che agisce solo sulle dimensioni senza influenzare le proporzioni. L’uso combinato di due o più di queste operazioni porta alla costruzione di configurazioni anche molto complesse. Quando i moduli da assemblare sono diversi tra loro, è sufficiente poter disporre di una limitata serie di forme complementari per risolvere molti problemi compositivi. La composizione modulare è largamente utilizzata in architettura, per la costruzione di elementi prefabbricati, tensostrutture o strutture pneumatiche, e nel graphic design per la creazione di caratteri tipografici o pattern. Le regole applicate per la generazione di moduli, studiate approfonditamente da docenti e designer come Munari, Scarpa e Marcolli, derivano dallo studio di cristalli, minerali e vegetali, che al microscopio rivelano la loro struttura regolare. Quindi dietro al caos si cela il cosmos.

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Kisho Kurokawa, Padiglione per l’Expo ‘70, Osaka, 1970

Studi sui moduli, Attilio Marcolli


+ + + + + + + Zvi Hecker, Ramot Housing, Gerusalemme, 1972

Moshe Safdie, Habitat ‘67, MontrĂŠal, 1967

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+ Giappone Tipica dei giapponesi è la capacità di unire semplicità, immediatezza e trasparenza in qualsiasi loro creazione. Semplicità raggiunta attraverso un procedimento di sottrazione, fino a giungere all’essenza della cosa. Immediatezza, cioè chiarezza nel ragionamento, che permette di creare oggetti dal funzionamento tanto semplice quanto geniale. Trasparenza tradotta in un’attitudine a lasciare il materiale così com’è, valorizzandone i segni che lascia il tempo. Il loro approccio al progetto è nettamente diverso da quello occidentale: un esempio calzante è il kimono, un vestito magnifico come un’opera d’arte, costruito sulla base di quadrati, e quindi non assecondando l’anatomia umana. Analogamente, lo spazio delle loro abitazioni è scansionato dal tatami e dalle pareti scorrevoli (Shoji), che permettono un’estrema libertà di fruizione. Niente è definitivo e permanente, nella loro filosofia, ma tutto è in costante mutamento e così pure l’uomo deve adattarsi e fluire assieme alla vita se vuole rimanere vivo. I giapponesi hanno una straordinaria capacità di dominare gli elementi senza sottometterli, ma assecondandoli in base alle loro proprietà: così riescono a plasmare la carta al punto da creare piccole sculture e scenografie, come nelle arti dell’Origami e del Kirigami. Con queste tecniche, in cui è richiesta grande precisione e concentrazione, riescono ad ottenere un’infinità di risultati, grazie a tagli, pieghe ed incastri applicati sui fogli.

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Kimono estivo di periodo Taisho (1912–26)

Maschera origami di Roman Diaz e Francesca Lombardi

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>INTRO >SVILUPPO >SHOOTING >RIFERIMENTI

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intro

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Nello sviluppo della tesi ho proseguito la ricerca iniziata lo scorso anno nella materia di Metodologia della progettazione, i cui temi, tutti collegati, erano incentrati sull’interior design. Nel primo progetto ho posto particolare attenzione alla modularità degli elementi d’arredo e quindi alla loro componibilità, mentre l’ultimo è stato elaborato in modo più personale e riflessivo.

progetto#1/Xyz Nel primo tema, riguardante i Moduli contenitori e le pareti attrezzate, avevo ipotizzato elementi complementari che formassero l’unità dell’oggetto. Dalla suddivisione di un cubo in due parti identiche ho estrapolato il modulo base che può assolvere alle funzioni di seduta, tavolo e contenitore. Le due parti del cubo, a seconda di come si dispongono nell’ambiente, possono formare varie combinazioni che permettono anche di dividere lo spazio della stanza.

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+ progetto#2/templum Il tema della Cellula minima abitativa, l’ho affrontato concentrandomi su un modo per sfruttare lo spazio del tetto, spesso inutilizzato. Il mio intento era innanzitutto di poterlo raggiungere ed ho voluto trasformare la scala, mezzo deputato a tale scopo, nel punto focale dell’abitazione, che permette di salire, e così di isolarsi, ma anche di dividere lo spazio della casa. All’interno di essa ho previsto l’inserimento degli elementi necessari ad assolvere alle funzioni primarie di bagno, cucina e camera da letto.

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sviluppo

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Fase#1 Le prime forme ipotizzate, somiglianti a lettere alfabetiche o a simboli sconosciuti, sono state elaborate basandosi su una griglia composta da quadrati o triangoli. Ăˆ stato applicato questo modo di disegnare ai settori piĂš svariati della progettazione: grafica, moda e accessori, product... Ho constatato che il punto forte di questi disegni erano i colori e il segno spigoloso, ma ad un certo punto mi sono bloccata perchĂŠ avevo timore che fosse un semplice esercizio di stile e non intendevo fare qualcosa in cui la parte estetica prevalesse sulla funzione. Per me era importante creare un oggetto fisico, anche se avevo verificato che queste ipotesi iniziali erano adatte a sviluppi grafici. Nelle prove di combinazioni, effettuate tramite incastri, sovrapposizioni e rotazioni, ho ottenuto motivi grafici, o pattern. Parallelamente al lavoro digitale, ho continuato a disegnare vestiti e lettering. Successivamente sono state selezionate le forme mi-

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+ gliori, quindi riportate su cartoncino, ed infine ritagliate su neoprene. Questo materiale, che prima non conoscevo, mi è stato suggerito dalla prof.Cogo, e mi ha aperto la strada per lo sviluppo successivo del progetto. Le prime prove di fattibilità le ho fatte unendo le estremità delle forme con graffette o scotch, provando anche a “vestire” un manichino da artista. Il neoprene mi ha permesso di liberare queste forme dalla loro rigidità, facendole diventare flessibili e scultoree. Nei moduli definitivi, realizzati a partire dall’addizione di quadrati di 3 cm, ho intravisto la possibilità di creare sia oggetti da collocare in ambienti, classificabili come arredi, sia la possibilità di creare oggetti per la persona, ovvero accessori o vestiti.

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+ Fase#2 Dopo una breve ma incisiva riflessione, ho deciso di proseguire per la seconda strada (fashion) perché mi è sembrata quella giusta per portare a termine un modello finito in scala reale. Così, ingrandendo i moduli di circa otto volte, ho cominciato a fare delle prove, prima su feltro poi su un tessuto accoppiato, chiudendo i pezzi con spilli e spille da balia, che mi hanno concesso la massima libertà. Nella chiusura dei vestiti, mi sono servita di un manichino da uomo e di una modella, ed ho adottato due metodi diversi. Nel primo caso ho congiunto le estremità e poi provato su manichino, nel secondo caso ho avvolto il capo sulla modella, verificando immediatamente la mobilità delle braccia. L’uso di questi approcci diversi mi ha permesso di vedere le differenze di vestibilità tra uomo e donna, perché ho destinato questi capi, sin dall’inizio, ad un pubblico unisex. Nei miei intenti vi era quello di fare un vestito non definitivo, suscettibile di futuri cambiamenti, e di usare la stoffa in modo da ridurre gli scarti. Tra le ipotesi iniziali per tentare di risolvere questi problemi, vi è stata quella di forare i bordi dei pezzi e di unirli tramite moschettoni. Tale soluzione mi avrebbe permesso di unire le estremità in vari modi e su entrambi i lati, che mi sarebbe stato impossibile utilizzando il velcro o i bottoni a pressione. Per la realizzazione dei capi finali avevo intenzione di usare un tessuto come il feltro perché mi avrebbe dato un certo sostegno, ma ho verificato che era troppo rigido e limitava molto i movimenti. Nelle successive prove, di conseguenza, ho adottato un tessuto più morbido, simile al neoprene, pensando che si trovasse facilmente in commercio, perché l’avevo notato in molte sfilate. Ma mi sbagliavo. Infatti la ricerca di tale tessuto, di cui non conoscevo il nome specifico, è stata difficile perché quello usato nel campo della moda non è, in realtà, neoprene, anche se chiamato così, ma un materiale

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+ simile che a differenza del primo è traspirante. Dopo aver capito la differenza decisiva tra i due materiali, uno elastomerico e l’altro espanso, mi sono orientata alla ricerca di quest’ultimo, ma ho comunque incontrato difficoltà perché non sapevo né la composizione precisa né il nome commerciale. Quando finalmente ho trovato qualche azienda che lo trattava e di cui ho potuto visionare i campioni, mi sono scontrata con la realtà industriale, che produce quantità minime di 20 metri, in tempi di 3/7 settimane. Quindi, avendo bisogno di alcuni metri in poco tempo, ho dovuto optare per il neoprene bicolore (giallo/nero e arancione/nero) disponibile in tagli da 200x130 centimetri, che mi ha costretta a razionalizzarne l’uso.

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+ Realizzazione Nella produzione dei prototipi e dei definitivi ho proceduto in modo quasi analogo. >1_griglia/maschera Per tracciare linee più ortogonali ho formato una griglia, tirando dei fili da un’estremità all’altra del pezzo di neoprene, su cui sono andata poi a mascherare i contorni dei capi con nastro adesivo di carta. >2_taglio Durante il taglio del materiale però mi sono resa conto che anche se avevo adottato questo stratagemma per essere precisa, non mi era stato molto utile perché il materiale era elastico e deformabile. Ho deciso quindi di abbandonare questo metodo per il taglio dei pezzi successivi. >3_foratura Il passo successivo è stato tracciare col gesso la posizione dei fori, servendomi di un foglio traforato in modo regolare. Nel decidere la quantità e la posizione dei fori mi sono basata sui punti in cui avevo messo le spille e gli spilli, nei prototipi. Dopo la tracciatura mi sono servita di una pinza perforatrice ed ho cominciato a forare, mettendo tra il neoprene e la pinza un pezzo di cuoio. Avevo pensato anche di applicare degli occhielli metallici, per evitare che i fori si lacerassero in breve tempo, ma dopo aver visto che in quel modo si sarebbe deformato il materiale, ho abbandonato l’idea.

A questo punto i capi erano pronti per essere indossati, chiudendoli con anelli, moschettoni, o fermacampioni.

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Neoprene 2/3/5 mm

>Il neoprene, o policloroprene, è una famiglia di gomme sintetiche, prodotte tramite la polimerizzazione del cloroprene. È disponibile in commercio, sia in versione “naturale”, che foderata, su uno o entrambi i lati, con tessuti tipo lycra, jersey, nylon o poliestere. Gli spessori usati per realizzare le tute da sub variano dai 2 ai 7 mm. Questo materiale, come anche il poliuretano laminato (Pul), è ottenuto per laminazione e può essere successivamente accoppiato, goffrato o traforato. Tra le sue principali caratteristiche vi sono elasticità, coibenza termica, resistenza agli agenti chimici e atmosferici, resistenza all'urto, leggerezza e morbidezza, che lo rendono adatto a molteplici applicazioni nel campo dell'industria chimica, automobilistica, nautica, e nella realizzazione di raccordi, guarnizioni, rivestimenti protettivi e indumenti.

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>Nella scelta delle giunzioni mi sono concentrata su quelle piÚ versatili e semplici, guardando ai settori piÚ svariati. Per questo possono risultare un po’ inappropriate, ma le ho selezionate dopo una ricerca su quelle usate nel campo della moda, verificando che non ve n’era nessuna che soddisfacesse le mie esigenze. Alla fine ho optato per tre diverse chiusure:

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>fermacampioni di ottone >anelli portachiavi di diametro 3 cm >moschettoni in alluminio di lunghezza 5 cm Esse si possono integrare tra loro in base a come si vogliono unire le parti del capo: i moschettoni e gli anelli permettono di collegare anche parti distanti, andando a formare catene, mentre i fermacampioni fissano due bordi sovrapposti.

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shooting

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+ >models Jacopo Contini Giulia Lorenzelli >photo and styling Elena Rabitti

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RIFERIMENTI

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Nella progettazione di questi capi è stata fondamentale la conoscenza del lavoro di alcuni designer che si sono rapportati alla creazione di vestiti, non con l’approccio dello stilista, ma con l’approccio del progettista. Hanno quindi anteposto all’impatto estetico, la praticità, la razionalizzazione del tessuto e dei processi produttivi e la semplicità d’assemblaggio. >Gli Archizoom, nel progetto per la XV Triennale “Vestirsi è facile”, hanno proposto una serie di otto abiti ottenuti con quadrati di tessuto tagliati, cuciti, piegati e uniti con nastri. In questa operazione, hanno anticipato la tendenza attuale all’autoproduzione, proponendo un kit corredato di tutto il materiale necessario per realizzare gli abiti autonomamente. >Nanni Strada, sempre per la Triennale, aveva proposto due abiti complementari, “Il Manto e la Pelle”. Il primo abito era una tuta realizzata col processo industriale impiegato per fare i collants, la tessi-

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+ tura circolare, che permetteva la produzione di un unico pezzo senza cuciture, mentre il Manto, era un impermeabile ottenuto dalla modellazione geometrica del tessuto, tramite tagli e pieghe rettilinee, in modo da evitare scarti. Nel Concorso per l’abito nazionale arabo, a cui ha partecipato anche Strada, Dario e Lucia Bartolini hanno usato la tecnica della doppia cucitura, per strutturare il tessuto, sovrapponendo più strati. Ciò che accomuna tutti i designer appena citati è la grande attenzione all’adattabilità del vestito, che non è più influenzato dal corpo, ma si costruisce in modo logico ed economico, cercando di soddisfare un pubblico diversificato. Si può notare nei loro lavori anche una grande somiglianza con gli abiti tradizionali arabi, indiani o giapponesi, a cui probabilmente hanno guardato per le loro ricerche. Un caso particolare è costituito dal fashion designer Issey Miyake, nelle cui creazioni ha saputo infondere sia la sapienza tecnica dell’industrial designer, prelevata da processi industriali e tradizionali, che la libertà espressiva dello stilista.

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Issey Miyake, SS 1991

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Studi sugli abiti tradizionali, Max Tilke


+ + + + + Archizoom, Vestirsi è facile, 1972

+ + + + + Nanni Strada, collezione Sportmax 1971-72


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>CONCLUSIONI >BIBLIOGRAFIA >SITOGRAFIA

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CONCLUSIONI

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Durante questo lungo percorso, iniziato partendo con alcuni presupposti precisi, mi sono spesso soffermata a riflettere su ciò che stavo facendo, perché una delle cose che reputo di maggiore importanza è la coerenza. Non so se ho riaggiunto questo intento, probabilmente lo possono giudicare meglio gli altri, che hanno modo di vedere tutto il corpus del lavoro in modo più obiettivo di me. Ho scelto di fare un salto nel buio, gettandomi in un progetto di cui non sapevo come sarebbe stato l’esito e che tuttora non è concluso ma aperto a futuri sviluppi. Quello che ho presentato si potrebbe definire un’istantanea del percorso progettuale, una delle possibili applicazioni che avevo previsto per questi “nuovi” moduli. L’approccio che ho adottato è stato inusuale e invertito rispetto a quello razionalista: sono partita dalla forma per passare alla funzione. E questa è stata una tra le tante regole che ho infranto nel tentare di fare qualcosa di nuovo, di non “già visto”. E così ne è scaturita una serie di abiti indefiniti, vaghi, inclassificabili, che ho sempre chiamato

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+ “forme” perché non li ho mai reputati “degni” di essere vestiti. A mio parere un abito ha lo scopo primario di coprire una intera parte del corpo (come un paio di jeans o una maglia) e questi capi non lo vestono interamente ma necessitano di completarsi con un indumento indossato sotto. È come se fossero abiti frammentati o frammenti di abiti che per essere usati vanno ricomposti. Appunto perché sono aperti, e non cuciti, necessitano di essere “s-piegati” e compresi per apprezzarne le qualità. A prima vista, risultano criptici e destabilizzano l’utente, perché la funzione non è immediata e per tale motivo ho ipotizzato che, nell’eventualità di una produzione industriale, andrebbero corredati di un manuale d’uso. Tuttavia quando il fruitore ne comprende il funzionamento, viene coinvolto direttamente nell’atto della vestizione. Questo gesto, così meccanico, ripetuto tutti i giorni nello stesso modo, viene messo in discussione e ridefinito. La persona che si appresta a mettere uno di questi capi non penserà più “cosa” indossare, ma “come” indossare. E in base al modo in cui si possono mettere, risultano adatti a varie situazioni (formali o informali) e corpi. Uno dei punti forti pertanto è l’ampia vestibilità, permessa dall’uso di giunti mobili e modulari inseriti in una serie di fori. Questa nuova modalità di chiusura l’ho adottata per la libertà che mi ha concesso sebbene andrebbe studiata più accuratamente, non escludendo una progettazione ad hoc degli elementi di giunzione. Durante la fase di realizzazione ho constatato che, date le forme geometriche, sarebbe stata più consona una produzione a livello industriale piuttosto che artigianale. E in futuro, riprendendo il discorso dell’autoprogettazione proposto da Mari, si potrebbe pensare a una condivisione open-source del cartamodello con le istruzioni, permettendo, a chi vuole, di realizzarli con le tecnologie più avanzate.

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Bibliografia

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libri >F. Dal Co, G.Mazzariol, Carlo Scarpa 1906-1978, Electa, 2006 >W. Tegethoff, Carlo Scarpa. Struttura e forme, Marsilio, 2008 >B.Radice, Memphis:ricerche, esperienze, risultati, fallimenti e successi del nuovo design, Electa, 1984 >G.Sambonet, Alchimia 1977-1987, Allemandi, 1986 >G.Sambonet, Ettore Sottsass:mobili e qualche arredamento, Mondadori, 1985 >F.Bertoni, Architettura minimalista, La biblioteca editrice, 2002 >F.Bertoni, Augusto Betti:forme della vita, Edit Faenza, 2001 >G.Pettena, Radicals: architettura e design 1960/75, Il ventalibro, 1996

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>F.Ferrari, Ettore Sottsass.Tutta la ceramica, Allemandi, 1995

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>A.Branzi, La casa calda, Idea books, 1984 >A.Branzi, La civiltà dell’ascolto. E altre note sul Giappone moderno, Cronopio, 1997 >B.Munari, Design e comunicazione visiva, Laterza, 1968 >B.Munari, La scoperta del quadrato, Zanichelli, 1978 >B.Munari, La scoperta del triangolo, Zanichelli, 1976 >E.Ritter, I pieghevoli, Zanichelli, 1980 >A.Mendini, Gli scritti, Skira, 2004 >A.Mendini, Progetto infelice, Ricerche design editrice, 1983 >A.Marcolli, Teoria del campo 2, Sansoni, 1978 >E. Manitto, A lezione con AG Fronzoni, Plug_in, 2012 >G. Dorfles, B. Munari, A. Pinotti, Modular art. Linguaggio visuale, Atlas, 1995 > E. Di Franco, La collezione baseXaltezza:tecniche di svuotamento del volume attraverso il punto smock, tesi di laurea in Progettazione della moda, A.A. 2009-2010 >M.Kushi, L’ordine dell’universo, La via macrobiotica, 1971 > M. L. Frisa, S. Tonchi, Excess. Fashion and the underground in the 80s, Charta, 2004

riviste >Archizoom, Vestirsi è facile/dressing is easy, in “Casabella”, n. 387, 1974 >N. Strada, Il manto e la pelle, in “Casabella”, n. 387, 1974 >N. Strada, Le duemila e una notte, in “Casabella”, n. 392/393, 1974 >T. Trini, Abitare l’abito, in “Domus”, n. 510, 1974

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sitografia

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Design radicale e postmoderno www.alchimiamilano.it www.ateliermendini.it www.castellidesign.it www.domusweb.it www.dariobartolini.net www.cristianotoraldodifrancia.it

antropologia/simbolo http://folkcostume.blogspot.it http://www.indiana.edu/~librcsd/etext/tilke/contents.html http://patterninislamicart.com www.kufic.info

definizioni www.treccani.it www.wikipedia.it

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moda http://irenebrination.typepad.com www.nannistrada.com http://www.futurismo.altervista.org/manifesti/vestitoAntineutrale.htm

neoprene www.macrointlco.com www.eliossub.com

Immagini http://mondo-blogo.blogspot.it http://aqqindex.com http://deargenekelly.tumblr.com http://www.pinterest.com/metaboyana/utopia/ http://www.pinterest.com/lijanfan/fu-hao/ http://www.pinterest.com/Wollahstone/

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>Grazie ai miei compagni isioti che mi hanno sopportato e supportato fino ad ora, alla prof. Cogo, per la pazienza che ha avuto nel seguirmi, a Jacopo Contini, Giulia Lorenzelli e mia madre, per aver gentilmente offerto i loro corpi per le foto, al pc per aver resistito fino alla fine, al fusibile dell’illuminatore per essersi fulminato poco dopo l’accensione. Mi scuso nell’eventualità di aver omesso qualcuno o qualcosa.

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>per maggiori informazioni reksa@hotmail.it 333-6555749

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