"Io dico no" di Daniele Aristarco

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Illustrazioni di Nicolò Pellizzon © 2017 Edizioni EL, via J. Ressel 5, 34018 – San Dorligo della Valle (Trieste) ISBN 978-88-6656-392-1 www.edizioniel.com


Come un prologo

Questo è un libro sulla libertà. Puoi leggerlo liberamente, saltando da una storia all’altra, oppure tutto d’un fiato, come si fa con un romanzo. Un romanzo che inizia in un tempo lontanissimo e arriva fino a oggi. Fino a te. È una storia ricca di colpi di scena, di oscurità e di splendore. Come ogni storia che si rispetti, anche questa ha un protagonista ed è l’umanità. O meglio, quella parte composta da uomini e donne che chiamiamo «eroi». Cosa li accomuna tutti? Ciascuno dei trentacinque personaggi che stai per incontrare ha influito in maniera profonda sul corso della Storia. Non tutti hanno vinto la propria battaglia, ma ognuno di loro è riuscito a cambiare il nostro modo di pensare. Una cosa piú segreta, però, li unisce. Tutti, di fronte a un’ingiustizia, hanno detto «no!». «Tutto qui? – ti starai chiedendo. – Una banalissima sillaba che ogni bambino impara sin da piccolo a compi-

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tare e che talvolta non smette di ripetere? Una consonante seguita da una vocale, nulla piú?» In effetti non basta dirlo, bisogna dar seguito a quel rifiuto assumendosene la responsabilità. Mi spiego meglio: dopo aver detto «no» bisogna agire coerentemente per tutta la vita, non cedere mai alla rassegnazione o allo sconforto. Il libro che tieni tra le mani parla di questo, della meravigliosa avventura di essere vivi e di poter modificare la vita. Questo è un libro sulla libertà, puoi leggerlo liberamente o puoi scegliere di non farlo. Se lo farai, saprai qualcosa in piú su questo bene prezioso, sulla cura che richiede e su tutte le peripezie che ha attraversato nel corso del tempo. Scoprirai che ciascuno di questi personaggi non si è battuto per una sola causa, ma si è opposto a ogni forma di ingiustizia. Ti accorgerai che ogni singolo «no», dentro di sé li contiene tutti. Conoscerai i trionfi e i fallimenti delle donne e degli uomini che hanno vissuto e lottato per la libertà. E soprattutto, capirai che adesso tocca a te.

Non vivere su questa terra come un inquilino, oppure in villeggiatura nella natura. Vivi in questo mondo come se fosse la casa di tuo padre credi al grano al mare alla terra ma soprattutto all’uomo. Ama la nuvola la macchina il libro ma innanzitutto ama l’uomo. Nazim Hikmet

Don’t play what’s there, play what’s not there. Miles Davis


UN RILEVANTE DETTAGLIO

No all’incoerenza: Socrate 399 a.C.

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Un fitto banco di nebbia si addensava alle pendici della collina dell’Areopago, ad Atene. Pareva quasi che l’intera polis stesse per sparire, da un momento all’altro. Che quella città, fino ad allora vanto di tutta la Grecia per la bellezza e l’amore per la sapienza che praticava, fosse sul punto di essere inghiottita dalla foschia. C’era uno strano silenzio, quel giorno, sulla collina. Eppure era gremita da una folla di ateniesi, desiderosi di assistere al processo. L’umanità ha «un debole» per i processi, specie quando a essere accusate sono persone note o che ricoprono cariche di riguardo; ancor di piú se rischiano una pesante condanna. Ma quel giorno la città di Atene stava per giudicare un suo semplice cittadino. Si chiamava Socrate ed era un uomo anziano, corpulento, semicalvo. Vestiva una rozza

tunica e camminava scalzo. Non ricopriva alcuna carica pubblica. Non sembrava un pericoloso criminale né possedeva i tratti raffinati del pensatore. Sembrava piuttosto un uomo del popolo, un amante dei banchetti e del buon vino. E allora, per quale motivo si era radunata una tale ressa di curiosi? Qualcuno reputava Socrate un pericolo per la città e aveva deciso, per questo motivo, di denunciarlo. «Socrate è colpevole di essersi rifiutato di riconoscere gli dèi che la Città riconosce e di avere introdotto nuove divinità. Inoltre, è colpevole di avere corrotto i giovani. Si richiede la pena di morte». Era questo il pesante atto di accusa contro di lui. A presentarlo erano stati Meleto, un mediocre poeta, Licone, un politico, e Anito, il piú scaltro fra i tre. Socrate aveva deciso di difendersi da solo, niente avvocato per lui: se c’era una cosa che aveva sempre saputo fare era parlare! Amava le parole e non ne usava mai di complicate. Le sceglieva con cura, e soprattutto si divertiva a smontarle, a cercare il senso piú profondo dei concetti, e a svelarne l’immenso potere. Secondo i suoi accusatori, Socrate usava le parole per criticare tutte le idee sulle quali era basata la vita della città. Non era un’accusa da poco. Per difendersi, l’uomo cominciò con il raccontare come fosse riuscito a crearsi tanti nemici, cosí potenti,

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nella sua città. E tutta Atene stette ad ascoltarlo con attenzione. Anni prima, il suo amico Cherefonte si era recato a Delfi. Nel tempio di quella città, viveva un sacerdote che si diceva parlasse per conto di un dio. A lui, Cherefonte aveva domandato se vi fosse al mondo un uomo piú sapiente di Socrate. L’oracolo aveva risposto che nessuno era piú sapiente di lui. – Quando venni a conoscenza del responso, feci questa riflessione: «Che cosa vuol dire quella divinità? Io so benissimo di non essere un sapiente! Eppure egli certo non mente, non può mentire un dio!» Gli venne un’idea: sarebbe andato a cercare, in tutta la città, i veri sapienti. Di fronte a loro, la sua ignoranza sarebbe risultata lampante e in questo modo avrebbe dimostrato che le parole dell’oracolo erano errate. Per prima cosa si recò dai politici che in tutta Atene godevano fama di uomini saggi. Poi andò dagli scrittori e quindi dagli artisti. Scoprí che ciascuno di loro possedeva una conoscenza davvero limitata, e solo nel proprio ambito di interesse. I politici si intendevano di politica, gli artisti di arte e cosí via. E persino nel proprio campo, la loro conoscenza era limitata. In compenso, però, ciascuno era convinto di essere l’uomo piú saggio al mondo. Solo alla fine Socrate riuscí a comprendere il senso del responso dell’oracolo. Come gli altri uomini, lui non

possedeva alcuna conoscenza realmente utile. Ma mentre gli altri si reputavano saggi, Socrate si giudicava ignorante. Era quella la piú alta forma di conoscenza possibile: sapere di non sapere. Tuttavia Socrate aveva commesso un’imprudenza. Con le sue domande, aveva dimostrato una sconvolgente verità: la città era governata dagli ignoranti. I giovani che lo avevano ascoltato erano rimasti folgorati da quella rivelazione, e avevano cominciato anche loro ad andare in giro per la città a porre domande. Per questo motivo, Socrate era stato accusato di averli corrotti, di averne cioè influenzato negativamente il pensiero. Ma chi lo accusava di un crimine cosí grave? Meleto, Licone e Anito, ovvero tre di quelle autorità che lui aveva svergognato di fronte a tutti! Socrate non aveva molto da insegnare, disse. Sentiva che il desiderio piú profondo degli uomini era sempre stato quello di diventare «immortali». Anche lui era un uomo e lo desiderava nella stessa misura. Per questo motivo si era interrogato a lungo su quel tema e alla fine aveva stabilito che c’era un solo modo per riuscirvi. Lo aveva raccontato ai suoi amici, anni prima, durante un banchetto: – Bisogna partorire il Bello e il Bene. Ognuno fa di tutto per assicurarsi l’immortalità: c’è chi la cerca attraverso la gloria, chi si illude di ottenerla avendo dei figli cui trasmettere il proprio nome, e chi, fecondo nell’anima, lascia tracce di sé nelle opere d’ingegno. Ebbene, questa è la strada

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giusta: cominciare a riconoscere e ad amare le bellezze che ci circondano, coltivare il proprio corpo e poi, pian piano, imparare a coltivare la mente, distaccandosi dalle cose materiali, fino a raggiungere la vera conoscenza: il Bene assoluto. A chi lo accusava, infine, di non rispettare gli dèi o di essersene inventato di nuovi, obiettò che nessuno conosceva i suoi sentimenti religiosi. Si trattava di qualcosa di profondo, di invisibile, di un sentimento appunto che non si poteva portare in tribunale. Sí, è vero, qualche volta aveva parlato di un «daimon», uno spiritello che spesso gli parlava, suggerendogli cosa fare o non fare. Ma, forse, quella voce non era altro che la sua coscienza. Quand’ebbe finito di parlare, l’accusa chiese che l’im-

putato fosse condannato a morte. Socrate, invece, chiese che lo Stato gli riconoscesse un assegno a vita per i suoi meriti. Con un’ampia maggioranza di voti Socrate fu condannato. – Se aveste aspettato un poco, la cosa sarebbe avvenuta da sé, – commentò lui, ironizzando sulla sua età avanzata. Socrate accettò la condanna. Non aveva paura della morte: non la conosceva e non poteva escludere di andare incontro a qualcosa di migliore della vita. Un luminoso aldilà, forse. – Non può accadere nulla di male a una persona buona, né da viva né da morta, – concluse. – Ma è giunta ormai l’ora di andare, io a morire, voi a vivere; chi di noi vada verso ciò che è meglio, è oscuro a tutti, meno che al dio! Trascorse le ultime ore prima dell’esecuzione in compagnia dei suoi amici, che lo avevano raggiunto in carcere. Uno di loro, Critone, gli si avvicinò per sussurrargli all’orecchio: – Abbiamo organizzato la tua fuga, Socrate. Siamo riusciti a raccogliere del danaro. Corromperemo i carcerieri, ti lasceranno uscire e poi ti porteremo lontano da Atene. Abbiamo molti amici che saranno felici di poterti ospitare! Ma Socrate rifiutò di fuggire. Bisognava essere «coerenti»: le azioni e i pensieri dovevano essere in accordo. E lui pensava che non sarebbe stato giusto accettare un verdetto e rispettare la legge solo se essa gli avesse dato ragione.

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ZINDZI

No all’apartheid: Nelson Mandela 10 febbraio 1985

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Quella notte sognò che le porte della sua cella si aprivano. Gli bastava muovere qualche passo per varcare la soglia ed essere libero. In quel sogno, però, prima di allontanarsi commetteva un errore: si voltava a guardare. Tutte le persone che aveva conosciuto durante la sua vita d’improvviso affollavano quello spazio cosí angusto. Nella cella ora c’era tutto il Sudafrica. E c’era anche Zindzi. Negli occhi della fanciulla era dipinta una pena infinita. Tornò allora nella cella per abbracciarla. La porta si chiuse alle sue spalle. Fu in quell’istante che Nelson Mandela si destò. Si guardò attorno, ancora turbato da quel sogno. I soliti poveri oggetti erano disposti nel modo usuale in quei pochi metri quadri. Un tavolino basso, uno sgabello, una finestra con le sbarre che dava sul cortile interno del car-

cere di Pollsmoor, in un sobborgo di Cape Town. Quanto a lui, era sempre il detenuto 220/82 condannato all’ergastolo, attualmente al suo ventiduesimo anno di prigionia. Strana condanna, l’ergastolo! Piú tempo passa e piú la fine della pena sembra allontanarsi. L’unico vero compagno di cella, l’unico con il quale ci si trovi sempre faccia a faccia, è il tempo. Non c’è niente di piú terrificante. Di fronte al tempo, all’uomo restano solo due alternative: la disperazione o l’ostinazione. Nel primo caso aspetta di morire, nel secondo impara a vivere. Anche solo per fare un dispetto ai carcerieri. Spiò fuori dalla finestra e gli tornarono alla mente alcuni versi che Oscar Wilde aveva scritto mentre era in carcere, proprio come lui. Dicevano: Mai io non vidi un uomo fissare con occhio cosí ardente quella esigua striscia d’azzurro che i prigionieri chiamano il cielo. La porta si aprí ed entrò James Gregory, la guardia carceraria che lo seguiva da anni. E che lo controllava. Consegnò a Mandela una lettera ancora chiusa nell’involucro e stette a guardare. – Come mai non l’hai aperta? Apri sempre la mia corrispondenza, la leggi e la censuri, – disse Mandela.

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– Questa non ho bisogno di leggerla, – rispose la guardia, – tutto il mondo ne parla. Sul dorso della busta era indicato il mittente. A scrivergli era il presidente del Sudafrica, Pieter Willem Botha. – Ieri il presidente ha dato l’annuncio in televisione! – lo informò James. – Potresti andare via? Vorrei leggerla da solo... – No, – rispose la guardia, – voglio proprio vedere la tua faccia quando avrai letto che il presidente ti offre la libertà. Il cuore gli sobbalzò in petto, ma Mandela non lasciò trasparire alcuna emozione. Sedette al piccolo scrittoio e lesse. Aveva ragione James: Botha gli offriva la libertà, ma a delle condizioni. Da troppo tempo ormai, una minoranza bianca governava il Sudafrica, un immenso Paese abitato quasi esclusivamente da uomini e donne di colore che non avevano neppure diritto al voto. A questi ultimi veniva impedito di condurre un’esistenza dignitosa ed erano costretti a vivere, studiare e lavorare in zone separate da quelle dei bianchi. Mandela si era posto a capo della lotta, a volte anche violenta, contro quel regime che veniva chiamato apartheid ovvero «separazione». Per questo motivo, nel 1962 era stato condannato all’ergastolo. Con il tempo, però, egli aveva abbracciato la filosofia non-violenta di Gandhi e, pur rimanendo confinato in carcere, veniva sempre considerato l’autorità indiscussa della lotta contro l’apartheid. In tutti quegli anni, la situazione dei cittadini

di colore non era affatto migliorata. E ora il presidente gli offriva la libertà. A condizione, però, che si ritirasse dalla lotta politica, che la smettesse di battersi per i sudafricani e scegliesse il silenzio. La porta della cella era aperta. Per essere libero gli sarebbe bastato non voltarsi a guardare. Prese carta e penna e redasse la sua risposta. La guardia rimase a fissarlo. Anche nell’umile divisa da carcerato, quell’uomo sapeva essere elegante e fiero. Quando Mandela si alzò in piedi per porgergli la lettera, James Gregory, quasi per istinto, scattò sull’attenti. In quell’attimo, Gregory sentí di aver capito. Nelson Mandela era il futuro mentre lui, un carceriere bianco, un sostenitore di Botha, rappresentava uno stanco passato. – Questa voglio proprio che tu la legga, – sorrise Mandela, – e poi voglio che la consegni al destinatario. – È la risposta al presidente? – È la risposta al Sudafrica, – replicò Mandela. – Consegnala a Zindzi. Si voltò e tornò a guardare quella esigua striscia d’azzurro che i prigionieri chiamano cielo. La domenica successiva una folla immensa si riversò nello stadio Jabulani di Soweto. Erano lí per festeggiare Desmond Tutu, un vescovo che si batteva per l’abolizione dell’apartheid e che aveva appena ricevuto il Premio Nobel per la Pace. Ma la folla era accorsa allo stadio soprattutto per ascoltare Zindzi, la figlia piú giovane di Mandela. Con

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grande emozione, la fanciulla prese il microfono e lesse la lettera che gli era stata consegnata. Mandela aveva deciso di rivolgersi direttamente al popolo per bocca di sua figlia. Zindzi aveva venticinque anni e lo stesso sguardo fiero del padre. Spiegò che lí, in quel momento, avrebbe dovuto esserci lui, ma che suo padre era in galera. Ora gli veniva offerta la libertà a patto che rinunciasse alla lotta e che spingesse il suo popolo a riporre le armi. – Mio padre vuole farvi sapere che in questi anni ha rivolto innumerevoli richieste al regime perché abbandoni la violenza, – disse la fanciulla e quindi lesse: – «Non abbiamo mai ricevuto risposta. Abbiamo ricevuto altra violenza. Ora sta a Botha rinunciare alla violenza, sta a lui annunciare che abolirà le vergognose leggi dell’apartheid. Sta a lui garantire al popolo intero una attività politica libera, affinché possiate essere voi stessi a designare i dirigenti che devono guidare il Paese». Un’ovazione accolse quelle parole. Subito dopo, però, calò nello stadio un profondo silenzio. Era giunto il momento di conoscere la risposta di Nelson Mandela. Zindzi lesse le parole di suo padre: – «Rispondo al signor Botha che non posso e non voglio impegnarmi finché voi, popolo tutto, e io non saremo liberi. La vostra libertà e la mia non possono essere separate! Ma vi faccio una promessa: sarò di ritorno fra voi, perché presto saremo liberi!» Il popolo accolse con un boato festoso quelle parole.

Non si era lasciato abbindolare, Mandela, non li aveva abbandonati. Né mai lo avrebbe fatto. Cinque anni dopo un nuovo presidente offrí la libertà a Mandela, questa volta senza condizioni. L’apartheid era finito. Finalmente tutti i sudafricani ebbero diritto al voto. Nel 1993 Mandela ricevette il Nobel per la Pace e in seguito fu eletto presidente del Sudafrica con il 62 per cento dei voti. Era stato eletto a capo della Repubblica sudafricana. Tra i suoi elettori c’erano molti bianchi. Tra questi, il suo ex carceriere James Gregory, forse il primo ad aver visto in lui il futuro presidente.

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Come un prologo No all’obbedienza: Prometeo No alla morte: Orfeo No all’incoerenza: Socrate No allo schiavismo: Spartaco No al fanatismo religioso: Ipazia No al dogmatismo: Giordano Bruno No all’oscurantismo: Denis Diderot No alla pena di morte e alla tortura: Cesare Beccaria No all’antropocentrismo: Charles Darwin No allo schiavismo: Abraham Lincoln No alla violenza: Gandhi No all’omofobia: Oscar Wilde No alla discriminazione di genere: le suffragette No alla censura: Nazim Hikmet No al fascismo: Arturo Toscanini No al collaborazionismo: Le Chambon-sur-Lignon No all’impunità: Simon Wiesenthal No alle armi nucleari: Albert Einstein No alla discriminazione: Rosa Parks No alla scuola classista: Don Milani No all’occupazione militare: Dalai Lama No al razzismo: Martin Luther King No al matrimonio riparatore: Franca Viola No all’oblio: le madri di Plaza de Mayo No ai manicomi: Franco Basaglia

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No all’apartheid: Nelson Mandela No alla distruzione della biodiversità: Vandana Shiva No alla deforestazione: Chico Mendes No alla paura: Aung San Suu Kyi No all’oblio della Shoah: Settimia Spizzichino No alla mafia: Felicia Bartolotta No alla menzogna: Anna Politkovskaja No all’ignoranza: Malala Yousafzai No alla rassegnazione: Stephen Hawking Ancora una volta no: Mahvash Sabet Come un congedo


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