L'amorosa inchiesta 2-verde

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ha compiuto, attraverso le tante voci che la popolano, per trovare un senso alla vita,

Edizione verde

per rispondere agli interrogativi

N. Gazich M. Lori

appassionata che la letteratura da sempre

con la collaborazione di

L’amorosa inchiesta allude alla ricerca

F. La Porta

L’amorosa inchiesta

Novella Gazich Manuela Lori con la collaborazione di

Filippo La Porta

L’amorosa inchiesta 2

che l’umanità di ogni tempo si pone.

Novella Gazich è stata per molti anni docente di

Manuela Lori è dottoranda di ricerca in Letteratura italiana all’Università di Macerata. Consulente editoriale, è autrice di libri scolastici per la secondaria di primo e di secondo grado. È stata docente di Lettere nei licei e formatrice in ambito disciplinare ed in preparazione al nuovo esame di Stato.

Filippo La Porta è critico e saggista, scrive regolarmente su “La Repubblica”, “Il Riformista”, il periodico “Left” e collabora all’“Unità”. Insegna alla Scuola Holden e in altre scuole di scrittura. Tra le sue numerose pubblicazioni ricordiamo La nuova narrativa italiana (Bollati Boringhieri 1995), Pasolini (Il Mulino 2012), Il bene e gli altri. Dante e un’etica per il nuovo millennio (Bompiani 2018), L’impossibile “cura” della vita. Cechov, Céline e Carlo Levi, medici-scrittori coscienziosi e senza illusioni (Castelvecchi 2021), Splendori e miserie dell’impegno. L’impegno civile degli scrittori, da Manzoni a Michela Murgia (Castelvecchi 2023).

LIBRO DIGITALE Versione interattiva del libro di testo con tantissime risorse e la possibilità di trasformare i testi in alta leggibilità.

Nel LIBRO DIGITALE • Contenuti digitali integrativi sono proposti numerosi testi, rubriche, contributi audio e video integrati alla scelta su carta • Videolezioni sulle biografie e sulle opere maggiori • Lezioni in Power Point • Analisi del testo interattive • Audioletture dei brani e delle sintesi • Immagini interattive • Carte dei luoghi interattive • Cronologie interattive • Mappe tematiche interattive

APP LIBRARSI

2 L’amorosa inchiesta Edizione verde

Lettere nei licei. In ambito critico si è occupata in particolare di Pirandello narratore, un interesse documentato da varie pubblicazioni. Ha insegnato nella scuola di specializzazione per l’insegnamento secondario presso l’Università degli Studi di Pavia. Da anni si dedica all’editoria scolastica. Ha progettato e diretto il manuale di letteratura italiana per i trienni Lo sguardo della letteratura (2016) e successivamente Il senso e la bellezza (2019).

Nel VOLUME • Struttura chiara, ordinata, non dispersiva • Profilo completo scritto con un linguaggio piacevole • Centralità dei testi il progetto attribuisce un ruolo centrale alla lettura e all’interpretazione dei testi letterari • Scrittura femminile presente in tutte le epoche • Educazione civica vengono proposte attività per la formazione del cittadino consapevole, sensibile ai grandi temi socio-politici • Orientamento, educazione alle emozioni e alle relazioni vengono proposti spunti per la didattica orientativa e per l’educazione alla gestione delle emozioni e delle relazioni • Numerose rubriche, supporti allo studio e attività per consolidare le competenze di comprensione, analisi ed interpretazione di testi • Esame di Stato sono presenti prove in preparazione alla prova scritta dell’esame di Stato

Dal Seicento all’Ottocento

EDUCAZIONE CIVICA

secondo le NUOVE Linee guida equilibri

PARITÀ DI GENERE #PROGETTOPARITÀ

Edizione verde

ORIENTAMENTO

EDUCAZIONE ALLE RELAZIONI

EquiLibri

Consente di accedere subito a tutti gli audio e i video del corso direttamente con smartphone o tablet. Disponibile per dispositivi iOS e Android.

Progetto del Gruppo Editoriale ELi per la promozione dei valori di giustizia sociale ed uguaglianza, per favorire una cultura dell’inclusione.

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€ 39,90 L’AMOROSA INCHIESTA VERDE DAL SEICENTO ALL’OTTOCENTO

Gruppo Editoriale ELi

Il piacere di apprendere

19/12/24 10:16


Novella Gazich Manuela Lori

L’amorosa inchiesta 2

con la collaborazione di

Filippo La Porta

Edizione verde

Gruppo Editoriale ELi

Il piacere di apprendere

Dal Seicento all’Ottocento


secondo le NUOVE Linee guida

L’insegnamento dell’Educazione civica attraverso le nuove Linee guida e la valorizzazione delle soft skills

Le nuove Linee guida per l’insegnamento dell’Educazione civica introducono significativi cambiamenti e importanti integrazioni: i nuclei tematici attorno ai quali si articolano le competenze e gli obiettivi di apprendimento, Costituzione, Sviluppo economico e sostenibilità e Cittadinanza digitale, sono stati aggiornati e ampliati. Le Linee guida sono ispirate ai diritti, doveri e valori costituenti il patrimonio democratico della Costituzione italiana, considerata il riferimento assoluto per promuovere la crescita individuale e la partecipazione politica, economica e sociale di ciascuno, all’interno del nostro Paese e dell’Unione europea. Il Gruppo Editoriale ELi promuove nei suoi volumi, attraverso testi, attività, video, immagini, l’educazione e il rispetto dei diritti fondamentali che devono essere garantiti a ogni persona, valorizzando solidarietà, responsabilità individuale, uguaglianza, libertà, lavoro, lotta alla mafia e all’illegalità e consapevolezza dell’appartenenza a una comunità. L’attenzione alle competenze, cognitive e non cognitive (soft skills), completa l’impegno dell’Editore nella formazione di cittadine e cittadini consapevoli e responsabili.

equilibri #PROGETTOPARITÀ

Il nostro impegno per l’inclusione, le diversità e la parità di genere

La parità di genere è il quinto dei diciassette obiettivi dell’Agenda 2030 e mira a ottenere la parità di opportunità tra donne e uomini nello sviluppo economico, l’eliminazione di tutte le forme di violenza nei confronti di donne e ragazze e l’uguaglianza di diritti a tutti i livelli di partecipazione. Il Gruppo Editoriale ELi in collaborazione con il Dipartimento di Studi Umanistici dell’Università di Macerata ha creato un programma di ricerca costante mirato all’eliminazione degli stereotipi di genere all’interno delle proprie pubblicazioni. L’obiettivo è di ispirare e ampliare gli scenari delle studentesse e degli studenti, del corpo docente e delle famiglie fornendo esempi aderenti ai valori di giustizia sociale e rispetto delle differenze, favorendo una cultura dell’inclusione. Ci impegniamo a operare per una sempre più puntuale qualificazione dei libri attraverso: CONTENUTI

attenzione ai contenuti al fine di promuovere una maggiore consapevolezza verso uno scenario più equilibrato da un punto di vista sociale e culturale;

IMMAGINI

valutazione iconografica ragionata per sensibilizzare a una cultura di parità attraverso il linguaggio visivo;

LINGUAGGIO utilizzo di un linguaggio testuale inclusivo, puntuale e idoneo a qualificare i generi oltre ogni stereotipo.


L’amorosa inchiesta Dentro la letteratura Il significato di un titolo Nessuno sa creare affascinanti metafore come Ludovico Ariosto. Per questa letteratura abbiamo così scelto come titolo proprio un’espressione ariostesca, densa di possibili significati metaforici: “l’amorosa inchiesta”. Nell’Orlando furioso l’”amorosa inchiesta” è la ricerca della perduta Angelica da parte del paladino Orlando, motivata dall’amore che prova per lei. Ma forse anche noi oggi (chi opera nella scuola, chi scrive libri per la scuola) abbiamo perduto qualcosa di importante e vogliamo tentare, come Orlando, di ritrovarlo: il senso della letteratura o meglio il senso della letteratura a scuola, spesso marginalizzata da una visione pragmatica della formazione scolastica, che privilegia saperi immediatamente fruibili nella vita pratica e professionale, sminuendo tutto ciò che è passato. L’ ”amorosa inchiesta” è allora per noi innanzitutto allusivo alla ricerca appassionata che la letteratura da sempre ha compiuto, attraverso le tante voci che la popolano, per trovare un senso alla vita, per rispondere agli interrogativi che l’umanità di ogni tempo si pone. L’ ”amorosa inchiesta” vuole riferirsi anche all’atteggiamento che vorremmo che le ragazze e i ragazzi, come moderni “cavalieri erranti”, assumessero, entrando nell’universo labirintico della grande letteratura: non la passiva assunzione di dati, ma un atteggiamento interrogativo, curioso, esigente, per scoprire, insieme ai loro insegnanti, attraverso i testi letterari, piste da percorrere in un cammino che non è solo culturale, ma può e deve essere anche esistenziale e di orientamento per elaborare un progetto di vita e sostenere le relative scelte. L’ ”amorosa inchiesta”, infine, è la prospettiva che ha ispirato la progettazione di questa opera e ne ha motivato le scelte: il tentativo, forse utopistico, di suscitare curiosità, emozioni, interesse verso un patrimonio culturale, quello della secolare storia della letteratura, che ha ancora tanto da dire, così da ridare un senso centrale nella scuola di oggi alla lettura e interpretazione dei testi letterari.

La letteratura come “atlante delle emozioni” Recentemente è emerso nella riflessione didattica un volto della letteratura a lungo misconosciuto e a cui abbiamo cercato di dare spazio: quello di strumento chiave per attivare la conoscenza di sé e per sviluppare nella classe l’ “intelligenza emotiva”, cioè la capacità di riconoscere e descrivere in modo appropriato le emozioni proprie e altrui, così da saperle poi gestire e da assumere verso gli altri un atteggiamento di empatia.

IV


Senza la competenza emotiva si è facilmente vittime delle pulsioni, mentre saper identificare la paura, l’ansia, la frustrazione porta a ottimizzare le proprie risorse interiori, porta a saper gestire le situazioni problematiche che di certo non mancano nella fase adolescenziale. Ma la letteratura cosa ha a che fare con ciò? Attraverso i testi, i personaggi dei romanzi e le biografie stesse delle autrici e degli autori, la letteratura si presenta come la più straordinaria galleria delle emozioni che esista, a cominciare da Orlando che, da ingessato eroe al servizio della “guerra santa”, in nome di un amore malato, sperimenta via via nella sua “inchiesta” la delusione, l’autoinganno, la disperazione, la rabbia incontrollata e infine la degradazione della follia. Nelle emozioni rappresentate dalla letteratura di ogni tempo la classe, attraverso processi di identificazione, può riconoscere le proprie, può vivere altre vite da un osservatorio privilegiato e protetto e acquisire così gradualmente una competenza emotiva oggi riconosciuta sempre più importante. Perché questo avvenga, occorre però favorire l’incontro tra giovani lettori e testi letterari, respingendo una visione della letteratura come immutabile museo delle cere, interrogando i testi, come abbiamo cercato di fare, anche sotto il profilo emozionale e presentando le biografie delle autrici e degli autori, grandi e meno grandi, non come freddo insieme di nozioni da imparare, ma come racconti di vite vissute, con gioie, dolori, passioni, ma anche limiti e debolezze, come è la vita per ogni essere umano.

La letteratura come lettura del mondo Accanto alla competenza emotiva, alla conoscenza di sé, non è certo meno importante la capacità che gli studenti devono acquisire di interpretare il proprio tempo, i miti e i modelli di comportamento che lo governano. Anche in questo ambito la letteratura può e deve avere un ruolo fondamentale. La letteratura vive infatti nel mondo e il mondo rappresenta attraverso i testi e la personale interpretazione, il personale sguardo, di chi scirve. Perché la letteratura possa diventare strumento chiave di interpretazione critica del presente va costantemente ricercata e proposta, come abbiamo cercato di fare, l’interazione tra tendenze letterarie e visione del mondo, modelli comportamentali, nuclei dell’immaginario presenti nelle varie epoche. Questa visione coesa del sapere oltre tutto risulta, a nostro parere, molto più motivante per gli studenti e le studentesse di oggi che non lo studio asettico di autori e correnti a se stanti.

La letteratura come educazione ai valori civili I grandi temi socio-politici, le dinamiche del potere, la disuguaglianza, i rapporti tra le generazioni, la condizione femminile, l’ambiente, il valore dell’istruzione, non sono certo estranei alla letteratura e sono ben presenti sia nelle scelte testuali, sia nelle parti esercitative di questa opera: essa non si propone di formare specialisti in campo letterario, ma cittadini e cittadine consapevoli, sensibili ai valori civili e ai diritti dell’umanità. Gli autori

V


Attraverso il libro

L’amorosa inchiesta

Struttura del testo Questa nuova storia e antologia della letteratura italiana prevede una struttura composta da Scenari socio-culturali e Capitoli. Gli Scenari analizzano l’interazione della letteratura con la cultura, con la società e con i grandi temi e sono suddivisi in quattro sezioni: 1. La visione del mondo. Figure, luoghi e centri della cultura 2. I modelli del sapere e le tendenze filosofico-scientifiche 3. I caratteri e le forme della letteratura (nelle diverse epoche); il dibattito culturale 4. L’evoluzione della lingua La trattazione degli Scenari è anticipata da una sezione, Sguardo sulla storia, dedicata a ricostruire il contesto storico con immagini e cronologia interattiva. Gli Scenari si chiudono con un percorso intitolato Libri, lettori, lettura ed uno spazio rivolto all’Arte, presentato con schede informative di inquadramento del periodo e letture iconologiche di opere esemplari per i vari periodi cronologici. I capitoli sono dedicati a generi, autori o temi ed i materiali sono organizzati in modo da creare una forte interazione tra profilo e testi. Sono presenti sia testi (T) sia documenti (D), entrambi con numerazione progressiva indipendente. I testi sono commentati mediante l’Analisi del testo, mentre per i documenti sono messi in evidenza solo i Concetti chiave. • Nei testi o nei documenti che presentino tematiche riconducibili a temi

di EDUCAZIONE CIVICA questo aspetto è messo in evidenza. Nella parte degli esercizi relativi al brano c’è almeno un’attività finale che chiede di lavorare su quest’aspetto.

Le rubriche Il testo è corredato da numerose rubriche: • Parola chiave : definisce in sintesi le idee guida, i motivi di un’epoca, di un genere o

dell’universo tematico di un autore. • PER APPROFONDIRE : schede che consentono al docente o allo studente di

approfondire maggiormente un aspetto della trattazione, senza creare eccessive digressioni nel profilo. Gli approfondimenti sono sempre posizionati vicino alla parte del profilo da cui scaturiscono. • VERSO IL NOVECENTO : ai testi del passato si accostano testi del Novecento e oltre, scelti

per l’affinità dei temi trattati o a volte anche per contrasto, per evidenziare come certe esperienze o sensazioni ritornino nel tempo o si trasformino, assumendo nuovi significati in un’ottica di intertestualità;

VI ATTRAVERSO IL LIBRO


• EDUCAZIONE CIVICA secondo le Nuove Linee Guida / PARITÀ DI GENERE : l’attenzione a quest’aspetto

è stata tradotta in due direzioni. Tutti i testi antologizzati che presentino tematiche riconducibili ai tre nuclei: Costituzione, Sviluppo economico e Sostenibilità e Cittadinanza digitale e le relative competenze contenute nelle Nuove Linee Guida per l’insegnamento dell’educazione civica o ai Global Goals (17 obiettivi) dell’Agenda 2030, sono segnalati con evidenza. Questa indicazione è completata nella parte degli esercizi relativi al brano con almeno un’attività finale che chieda di lavorare su questi aspetti. Inoltre sono state realizzate schede di educazione civica su temi di interesse collettivo come la diversità, la parità di genere, la guerra, seguite da spunti di riflessione o attività didattiche; • LEGGERE LE EMOZIONI / EDUCAZIONE ALLE RELAZIONI : questa rubrica intende stimolare nei

giovani la competenza emozionale e relazionale, in modo che la riflessione su loro stessi, sul loro vissuto personale e sulla realtà che li circonda li aiuti a crescere con maggiore consapevolezza; • Sguardo su… : è fondamentale comunicare l’idea che il sapere non sia isolato, ma

che dialoghi in continuazione anche con ambiti diversi. Nel manuale vengono dunque istituite numerose connessioni tra la letteratura e altre discipline come Storia, Filosofia, Arte, Letterature straniere, Musica, Teatro e Cinema; • Testi in dialogo : a numerosi testi vengono accostati brani di altri autori; questo

perché si ritiene che il confronto sia prezioso, per sviluppare capacità critiche e riflessive che servono per orientarsi meglio nelle scelte di vita; • INTERPRETAZIONI CRITICHE/INTERPRETAZIONI CRITICHE A CONFRONTO : il testo propone

numerosi passi critici legati alla trattazione o ai testi, scelti in base a una reale accessibilità di lettura e comprensione per gli studenti. I passi scelti vengono presentati sotto due forme: o un passo di un solo critico (Interpretazioni critiche) o passi di due critici messi a confronto sul medesimo tema (Interpretazioni critiche a confronto); la parte esercitativa di entrambe è stata concepita come tipologia B dell’esame di Stato, per far esercitare sull’analisi e la produzione di un testo argomentativo; • I LUOGHI DELLA CULTURA : mette in evidenza i luoghi-simbolo del periodo di

riferimento a seconda dei secoli analizzati sia attraverso la descrizione dei luoghi (monastero, castello, corte ecc.) sia attraverso le immagini.

Apparato didattico • Esercitare le competenze : i testi antologizzati sono corredati da un apparato

suddiviso in due parti: “Comprendere e analizzare” e “Interpretare”. Nel “Comprendere e analizzare” sono stati inseriti esercizi di parafrasi, sintesi, comprensione, tecnica narrativa, analisi, lessico e stile; nell’”Interpretare” esercizi di scrittura, scrittura creativa, scrittura argomentativa, esposizione orale, testi a confronto e competenza digitale. Le attività proposte sono volte al consolidamento delle competenze di lettura, di scrittura e di analisi testuale. • Verso l’esame di Stato : vengono proposte, sia in itinere sia in alcune zone di ciascun

volume, prove simili a quelle previste per la prima prova dell’esame di Stato secondo le tre tipologie A, B e C; • Zona competenze : al termine degli Scenari e di ciascun capitolo sono proposte attività

che attivano competenze trasversali, disciplinari e interdisciplinari in situazione nuove e per compiti svolti in autonomia, in forma individuale o di gruppo. ATTRAVERSO IL LIBRO VII


Nell’opera è offerta inoltre una serie di supporti allo studio per favorire un apprendimento consapevole e duraturo. • Fissare i concetti : al termine di parti significative di profilo negli Scenari e nei

capitoli di genere/tema e al termine di ciascun autore vengono proposte domande che servono allo studente per individuare i punti chiave della trattazione, per ripassare i passaggi più significativi e per esercitarsi nell’esposizione orale. • Analisi passo dopo passo : annotazioni esplicativo-critiche, a lato del testo, che ne

accompagnano la lettura e aiutano a visualizzarne i principali elementi tematicostilistici. • Collabora all’analisi : consiste in un coinvolgimento diretto del giovane lettore nel

processo interpretativo: l’analisi, che segue le tradizionali partizioni (Comprendere e analizzare e Interpretare), “dialoga” attraverso specifiche richieste con lo studente, in modo tale che lo stesso studente dia il proprio contributo attivo al lavoro sul testo. • Lessico : sono stati inseriti nel corso della trattazione dei riquadri laterali di

definizioni in cui si spiegano i concetti più complessi o si definiscono termini specialistici o disciplinari. • Sintesi : alla fine di ogni capitolo sono state poste le sintesi, anche in formato audio,

che riassumono i contenuti principali della trattazione. Esse rappresentano un utile contributo per lo studio, la memorizzazione e il ripasso. • Studiare con l’immagine : pitture, sculture, fotografie corredate di didascalie ricche

e interessanti consentono la percezione immediata, visiva, di alcuni aspetti della letteratura e del suo contesto storico: attraverso l’immagine si riflette per comprendere meglio l’autore, l’opera o il contesto storico-sociale di riferimento. • Schemi: sistematica presenza di schemi e visualizzazioni che semplificano

l’apprendimento.

La didattica orientativa La didattica orientativa è un approccio educativo e formativo che ha come finalità quella di aiutare gli studenti a sviluppare una maggiore consapevolezza di sé, delle proprie attitudini e delle proprie capacità; può essere svolta in classe grazie all’aiuto della rubrica Leggere le emozioni e a tutti i numerosi spunti, come ad esempio le attività contemplate nell’Interpretare e nella Zona Competenze, e grazie ai testi segnalati, utili per svolgere attività di orientamento. Esse risultano disseminate in tutto il manuale al fine di sviluppare competenze di auto-orientamento e supportare l’assunzione di decisioni consapevoli riguardo a sé e alle proprie scelte professionali future. Aiutare lo studente a conoscere meglio se stesso, le sue inclinazioni, le sue attitudini, i suoi interessi e le sue aspirazioni farà sì che con più facilità sia orientato a una comunicazione efficace, a realizzare relazioni rispettose, a prendere decisioni e a sviluppare pensiero critico, pensiero creativo, empatia. Ogni volta che insieme a obiettivi di natura disciplinare si perseguono anche obiettivi di tipo orientativo si può parlare di didattica orientativa.

VIII ATTRAVERSO IL LIBRO


La didattica multimediale Nelle pagine sono inserite icone che indicano la presenza e il tipo di contenuti digitali disponibili sul libro. I contenuti digitali sono fruibili sul sito www.gruppoeli.it , sull’eBook+ e con l’App librARsi.

Contenuti digitali integrativi • Testi aggiuntivi integrati alla scelta su carta • Per approfondire

• Interpretazioni critiche

• Contributi Audio e Video

• Verso il Novecento

• Verso l’esame di Stato

• Sguardo su…

• Gallery gallerie di immagini

Attivazioni operative • Videolezioni mirano al racconto della biografia degli autori maggiori, ripercorrendone in maniera dinamica i momenti salienti e a fornire un quadro esaustivo delle opere principali dei medesimi autori, attraverso una narrazione accattivante. • Lezioni in PowerPoint percorsi didattici semplici e intuitivi che coincidono con l’accesso a dei Power Point modificabili e relativi ai principali contesti culturali in cui vengono concepite le opere della nostra letteratura e anche ai loro principali autori, di cui si riassumono i tratti biografici, la produzione e le opere maggiori. • Immagini interattive • Audioletture di alcuni testi scelti • Carte dei luoghi interattive consentono una lettura interattiva e agile della biografia dei classici della nostra letteratura. In particolare, le carte geografiche permettono di percorrere diacronicamente e collocare visivamente gli autori nei luoghi che ne hanno scandito la vita, dalla formazione alla nascita delle opere di maggior rilievo, dando accesso a dei contenuti multimediali come link, immagini, audio e video. • Mappe interattive e interdisciplinari incentrate sui temi più rilevanti, individuati all’interno delle opere e dei periodi letterari di maggior spessore consentono di svolgere un percorso interattivo e un’analisi trasversale di tematiche che dal passato affiorano fino ai giorni nostri, per mezzo di collegamenti para-testuali, garantiti dalla presenza di contenuti multimediali di vario tipo. • Cronologie interattive • Analisi interattive • Classe capovolta Sistema Digitale Accessibile

Il Sistema Digitale Accessibile soddisfa pienamente le esigenze della didattica inclusiva con queste funzionalità di base:

• carattere specifico ad alta leggibilità e alto contrasto • sintesi vocale dei contenuti testuali (audiolibro) • pagine “liquide” con possibilità d’ingrandimento

IX IX


Indice Seicento Scenari socio-culturali L’età del Barocco

3

Sguardo sulla storia 4

1 La visione del mondo. Figure, luoghi e centri della cultura 6 1 Un “cielo nuovo” 6 2 L’immagine dell’uomo e dell’esistenza: instabilità e mutamento 7 PER APPROFONDIRE Il tema delle metamorfosi e il gusto barocco 8

3 I valori e i modelli di comportamento 9 Torquato Accetto D1 Una “legittima difesa” da un potere dispotico: l’“onesta dissimulazione”

LEGGERE LE EMOZIONI

EDUCAZIONE ALLE RELAZIONI

10

Della dissimulazione onesta

4 Il ruolo dell’intellettuale SGUARDO SUL CINEMA Giordano Bruno, il film

12 13

Tommaso Campanella D2 Al carcere 14 I sonetti

Tommaso Campanella

online D3 A certi amici I sonetti

5 Due città in conflitto: Roma, città dei papi, e Venezia, “porta dell’Italia verso l’eresia”

15

Paolo Sarpi online D4 Le speranze deluse dal Concilio di Trento Istoria del Concilio tridentino, Proemio

6 I centri della cultura 17 I LUOGHI DELLA CULTURA Le accademie scientifiche 18

2 Modelli del sapere e tendenze filosofico-scientifiche 19 1 Contro il principio di autorità: la ricerca del metodo e la nascita della scienza 19 PER APPROFONDIRE Scienziati e maghi 21

3 Caratteri e forme della letteratura 22 1 Il Barocco e la ricerca del “nuovo” 22

X

INDICE


2 La poetica dell’“ingegno” e la centralità della metafora 23 Emanuele Tesauro D5 La metafora come un «pien teatro di meraviglie» 24 Il Cannocchiale aristotelico

3 Il rinnovamento dei generi letterari 26 VERSO IL NOVECENTO Dalla condanna all’attualità del Barocco

26

4 L’evoluzione della lingua 28 1 Tra vecchio e nuovo: la lingua del Seicento 28 Francesco Redi online D6 Il nuovo linguaggio della scienza: la descrizione della vipera Osservazioni intorno alle vipere

LIBRI, LETTORI, LETTURA Leggere in età barocca 30 EDUCAZIONE CIVICA secondo le NUOVE I regimi che proibiscono i libri EDUCAZIONE CIVICA Linee guida

31

ARTE NEL TEMPO

Tra Cinquecento e Seicento La pittura di Caravaggio 32 1. La Vocazione di san Matteo di Caravaggio 32 Il Barocco romano 33 1. Estasi di santa Teresa di Gian Lorenzo Bernini 33 online 2. San Carlino alle Quattro Fontane e la cupola di Sant’Ivo alla Sapienza di Francesco Borromini online 3. SIl Trionfo del nome di Gesù di Giovan Battista Gaulli e la Glorificazione di sant’Ignazio di Loyola di Andrea Pozzo Sintesi con audiolettura 34

online

Zona Competenze 36

Lezione in Power Point Cronologia interattiva Mappa interattiva Le scoperte scientifiche nella dimensione europea

1 Marino e la lirica barocca

Per approfondire Una frattura epocale nel sistema del sapere: dalla somiglianza alla differenza Immagini interattive

37

1 Una nuova lirica 38 1 La poetica barocca della meraviglia 38 2 La rivisitazione dei motivi della tradizione 38 SGUARDO SULL’ARTE Due esempi dell’immaginario manieristico e barocco 39

INDICE

XI


2 Marino, il maggior poeta barocco 40 1 Una vita irrequieta e avventurosa 40 2 L’Adone, poema barocco del piacere sensuale 41 3 Le principali raccolte liriche 43 Giambattista Marino T1 Elogio della rosa 44 L’Adone III, ott. 156-161

3 I poeti “marinisti” 47 1 La personalità letteraria di Marino 47 T2 Immagini di donna “a sorpresa” 48 Giambattista Marino T2a Donna che si pettina 48 La Lira VIII

Anton Maria Narducci T2b Sembran fere d’avorio in bosco d’oro 50 Claudio Achillini online T2c La spiritata

2 Il Barocco moraleggiante e l’allegorismo 51 T3

L’orologio, emblema della fuga del tempo

Ciro di Pers T3a Orologio da rote

LEGGERE LE EMOZIONI

52

52

Giacomo Lubrano Oriuolo ad acqua

online T3b

SGUARDO SULL’ARTE L’orologio “barocco” di Dalí 54 Giovan Leone Sempronio Quid est homo?

online T4

LEGGERE LE EMOZIONI

La selva poetica online T5

Gli inganni dello specchio

Girolamo Preti Per la sua donna specchiantesi

online T5a

Giovan Battista Marino online T5b Mentre la sua donna si specchiava La Lira, XI

Tommaso Stigliani online T5c Scherzo d’immagini Canzoniere

SGUARDO SULL’ARTE Immagini allo specchio 55

4 Contro gli “eccessi”: il classicismo barocco 56 Gabriello Chiabrera online T6 Riso di bella donna Canzonette

XII

INDICE


5 La grande lirica europea 57 1 La lirica spagnola del Siglo de oro

57

2 La “poesia metafisica” inglese 58 T7

Riflessioni sul tempo

59

Luis de Góngora T7a Mentre per emulare i tuoi capelli 59 Francisco de Quevedo online T7b Ehi, della vita! Nessuno risponde? Sonetti amorosi e morali

LEGGERE LE EMOZIONI

William Shakespeare T7c Guerra contro il tempo 61 Sonetti XV

Sintesi con audiolettura 63

online

Zona Competenze 64

Interpretazioni critiche a confronto I due volti del Barocco: crisi conoscitiva e arte dell’infinito. Calcaterra, «L’anima in barocco» vs Hauser, Il barocco, arte dell’infinito Interpretazioni critiche Giovanni Getto Gli orologi e il tema barocco del tempo Audioletture

Gallery Allegorie secentesche Per approfondire La crisi dell’antropocentrismo nelle testimonianze letterarie Verso il Novecento Emblemi barocchi nella poesia moderna: l’orologio, la clessidra, lo specchio

2 La scena del mondo: il teatro nel Seicento

65

1 Il Seicento, il secolo del teatro 66

1 La centralità del teatro nel Seicento 66

2 Il teatro in Francia 68 1 L’opera di Corneille 68 Pierre Corneille online T1 Il conflitto di don Rodrigo tra amore e dovere Il Cid, atto I, scene V-VI

2 Il teatro classicistico di Racine 69 SGUARDO SULLA FILOSOFIA Il giansenismo 70 Jean Racine online T2 La confessione di Fedra e la potenza incoercibile della passione

LEGGERE LE EMOZIONI

EDUCAZIONE ALLE RELAZIONI

Fedra, atto I, scena III

3 Il teatro di Molière 70 INDICE

XIII


Molière T3 Argante: despota in famiglia, ma succube dei medici 72 Il malato immaginario atto I, scena V; atto III, scena V; atto III, scena X

T3a Il miglior genero? Un medico!

EDUCAZIONE CIVICA

secondo le NUOVE Linee guida

PARITÀ DI GENERE equilibri

72

#PROGETTOPARITÀ

T3b L’ira del dottor La Squacquera contro il malato “ribelle” 73 T3c Il falso luminare 74

3 Il teatro in Spagna 79 1 Calderón de la Barca e La vita è sogno

Pedro Calderón de la Barca T4 Il “disinganno” e la scelta del bene

79 LEGGERE LE EMOZIONI

81

La vita è sogno, atto II, scene XVIII e XIX

T4a Il risveglio di Sigismondo 81 T4b La vittoria del libero arbitrio 83

4 Il teatro in Inghilterra 85 1 Il teatro elisabettiano 85 2 William Shakespeare 85 La vita 86 Le opere teatrali 87 I drammi storici 87 Le commedie 88 Le tragedie 89 I drammi romanzeschi 91 Un teatro “cosmico” 92 PER APPROFONDIRE Da Machiavelli a Shakespeare 93 William Shakespeare online T5 Un’analisi della folla degna del Principe Giulio Cesare, atto III, scena II

T6

Un eroe moderno in un mondo machiavellico

LEGGERE LE EMOZIONI

94

Amleto, atto III, scena I

T7

Il dubbio di Macbeth: “spegnere” il re Duncan o ascoltare la voce della coscienza? 96

Macbeth, atto I, scena VII

T8

Machiavelli sbarca sull’isola 99

La tempesta, atto II, scena I INTERPRETAZIONI CRITICHE

Erich Auerbach La tempesta, un mondo teatrale che oltrepassa la realtà visibile

101

PER APPROFONDIRE Dal testo alle interpretazioni teatrali e cinematografiche 102

5 La scena teatrale in Italia 103 1 Il teatro tragico italiano 103 Federico Della Valle secondo le NUOVE online T9 Il coro dei soldati: la parola agli oppressi EDUCAZIONE CIVICA Linee guida Judith, Coro

XIV

INDICE


2 Due nuovi generi destinati a un travolgente successo 104 Sintesi con audiolettura 107

online

Zona Competenze 109

Interpretazioni critiche Ermanno Caldera La vita è sogno, dramma filosofico e religioso

Audioletture Immagine interattiva

3 Galileo Galilei

110

1 Ritratto d’autore 112 1 Le prime fasi di una vita votata alla scienza 112 2 La battaglia per un nuovo sapere 114 3 Il processo, la sconfitta, l’abiura 115 PER APPROFONDIRE Il rapporto tra Galileo e la Chiesa: gli sviluppi recenti 115 SGUARDO SUL CINEMA Il Galileo di Liliana Cavani 116 Alceste Santini online D1 L’ultimo interrogatorio di Galileo, la sentenza di condanna e l’abiura Il caso Galilei

4 La fiducia nella ragione e la fondazione del metodo scientifico 117

2 Galileo scienziato-scrittore 118 1 Il Sidereus Nuncius 118 T1

Non esiste differenza tra terra e cielo

LEGGERE LE EMOZIONI

119

Sidereus Nuncius

2 Le Lettere copernicane 121 T2

Il rapporto tra scienza e Sacre Scritture COLLABORA ALL'ANALISI 121

Lettera a Benedetto Castelli

3 Il Saggiatore T3

125

L’universo è un libro scritto in caratteri matematici 126

Il Saggiatore online T4 All’origine dei suoni Il Saggiatore

PER APPROFONDIRE Un’immagine chiave: il libro della natura 127 INTERPRETAZIONI CRITICHE

Maria Luisa Altieri Biagi Galileo, grande scrittore

4 Il Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo tolemaico e copernicano

128 129

T5

La critica dell’ipse dixit ANALISI PASSO DOPO PASSO 132 Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo tolemaico e copernicano

INDICE

XV


VERSO IL NOVECENTO La Vita di Galileo di Bertolt Brecht 136 Bertolt Brecht, «Siamo come intrappolati dentro» 136 Vita di Galileo, scena I VERSO L’ESAME DI STATO

Tipologia A Analisi e interpretazione di un testo letterario italiano Galileo Galilei L’intelligenza umana è simile a quella divina

139

Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo tolemaico e copernicano

Tipologia B Analisi e produzione di un testo argomentativo Eugenio Garin Scienza e vita civile nel Rinascimento italiano Tipologia C Riflessione critica di carattere espositivo-argomentativo su tematiche di attualità

140 142

Sintesi con audiolettura 143

online

Zona Competenze 146

Lezione in PowerPoint Videolezioni La vita Dialogo sopra i due massimi sistemi Carta dei luoghi interattiva Cronologia interattiva

Per approfondire Il confronto tra Galileo e Giordano Bruno nel film Galileo di Liliana Cavani Il sistema dei personaggi come chiave di lettura del Dialogo sopra i due massimi sistemi Audioletture Immagine interattiva

4 Il rinnovamento delle forme narrative

147

1 Le fiabe, il poema “eroicomico” e il romanzo 148 1 La ripresa barocca della fiaba: Lo cunto de li cunti di Giovan Battista Basile 148 Giovan Battista Basile online T1 La fiaba delle metamorfosi: Peruonto Lo cunto de li cunti overo lo trattenemiento de’ peccerille, Trattenimento terzo della giornata prima

PER APPROFONDIRE Le metafore come micro-racconti 150

2 Il poema “eroicomico”: il rovesciamento ironico dell’epos 150 Alessandro Tassoni T2 Il proemio: Elena trasformata in una secchia di legno 151 La secchia rapita canto I, ottave 1-2

3 Il nuovo genere del romanzo 153 online T3

L’apprendistato dell’eroe picaresco

online T3a L’insegnamento del cieco: «saperne una più del diavolo»... Lazarillo de Tormes secondo le

NUOVE online T3b Lazarillo mette a profitto la lezione con il prete avaro EDUCAZIONE CIVICA Linee guida Lazarillo de Tormes

2 Alle origini del romanzo moderno: il Don Chisciotte

155

1 Una vita “da romanzo” 155 2 L’intreccio e le fonti del Don Chisciotte 156 3 Le modalità narrative, i temi e i personaggi 158 4 Il «prospettivismo» del Don Chisciotte 160

XVI

INDICE


5 Le interpretazioni del romanzo 161 Miguel de Cervantes T4 Da lettore a protagonista: Don Chisciotte decide di diventare cavaliere errante 163 Don Chisciotte della Mancia, I, 1 VERSO L’ESAME DI STATO

Tipologia C Riflessione critica di carattere espositivo-argomentativo su tematiche di attualità

166

online T5 L’investitura cavalleresca di Don Chisciotte Don Chisciotte della Mancia, I, 3 online T6 I perseguitati vanno difesi a ogni costo... anche se sono burattini ANALISI PASSO DOPO PASSO Don Chisciotte della Mancia, II, 26 online T7 L’avventura del mulino ad acqua ANALISI PASSO DOPO PASSO Don Chisciotte della Mancia, II, 29

T8

Le ragioni dello spirito e quelle del corpo 167

Don Chisciotte della Mancia, II, 68

online

Sintesi con audiolettura 170 Zona Competenze 172 Interpretazioni critiche a confronto Martín de Riquer vs Francisco Rico La dialettica dei personaggi: Don Chisciotte e il suo scudiero Sancio Audioletture

Verso il Novecento Attualità del Don Chisciotte: interpretazioni artistiche, cinematografiche, musicali Sguardo sull’arte La miseria nell’arte del Seicento

ONLINE

5 L’Utopia: mondi (im)possibili

173

1 Immaginare un mondo perfetto 1 La nascita della letteratura utopica 2 I caratteri delle opere utopiche 3 I principali trattati utopici Tommaso Moro secondo le NUOVE T1 I nobili svaghi della città di Utopia EDUCAZIONE CIVICA Linee guida

PARITÀ DI GENERE equilibri

Utopia

#PROGETTOPARITÀ

Tommaso Campanella T2 L’educazione naturale dei «Solari»

EDUCAZIONE CIVICA

secondo le NUOVE Linee guida

La Città del Sole

Cyrano de Bergerac T3 I libri parlanti

L’altro mondo o Stati e Imperi della Luna

VERSO IL NOVECENTO Dall’utopia alla distopia Romanzi distopici del Novecento Aldous Huxley T4 I bambini condizionati a odiare i libri e i fiori Il mondo nuovo. Ritorno al mondo nuovo

Sintesi con audiolettura Zona Competenze

INDICE

XVII


Settecento Scenari socio-culturali L’età dell’Illuminismo

177

Sguardo sulla storia 178

1 La visione del mondo. Figure, luoghi e centri della cultura 181 1 L’Illuminismo 181 PER APPROFONDIRE La metafora della luce e il termine “Illuminismo”

181

2 Dalla visione teologica alla visione razionale-scientifica del mondo 182 SGUARDO SULL’ARTE Ritratti di scienziati 183 Voltaire online D1 Che cosa significa essere teista Dizionario filosofico, s.v. “Teista” online D2 Critica della fede nei miracoli Dizionario filosofico, s.v. “Miracoli”

Paul-Henry d’Holbach D3 La visione materialistico-meccanicistica dell’universo

LEGGERE LE EMOZIONI

184

Il buon senso o idee naturali contrapposte alle idee soprannaturali

3 Una nuova immagine del mondo naturale e dell’uomo 186 4 Il tema della felicità e il mito del progresso 187 PER APPROFONDIRE Il sensismo 187 Pietro Verri online D4 La diffusione dei lumi e i progressi della civiltà europea Del piacere e del dolore

5 Una nuova figura di intellettuale: il philosophe

189

online D5 Identikit del philosophe Enciclopedia o Dizionario ragionato delle scienze delle arti e de’ mestieri ordinatoda Diderot e d’Alembert, s.v. “Filosofo”

6 Nuovi luoghi per la circolazione delle idee: salotti e caffè 191 7 I valori e i modelli di comportamento 193 PER APPROFONDIRE Il nuovo volto delle accademie 193 Voltaire online D6 La virtù come valore sociale Dizionario filosofico, s.v. “Virtù”

PER APPROFONDIRE Il Grand Tour 196 VERSO L’ESAME DI STATO

Tipologia B Analisi e produzione di un testo argomentativo Voltaire Virtù è far del bene al prossimo 197 online TESTI IN DIALOGO • Razionalità vs passione

Daniel Defoe online D7a I bilanci razionali di Robinson Le avventure di Robinson Crusoe, cap. 6

XVIII INDICE

LEGGERE LE EMOZIONI


Jean-Jacques Rousseau online D7b La voce della passione e del sentimento Le confessioni

2 Modelli del sapere e tendenze filosofico-scientifiche 198 1 L’educazione “illuminata” 198 online D8

Il ruolo centrale dell’educazione. Alcune testimonianze Gaetano Filangieri online D8a I vantaggi della scuola pubblica La scienza della legislazione, libro IV

Jean-Jacques Rousseau online D8b Fate il contrario di ciò che è in uso Emilio, libro I

Sebastiano Franci online D8c Le carenze dell’educazione femminile Difesa delle donne

J. Antoine-Nicolas Condorcet online D8d Istruzione e uguaglianza Abbozzo di un quadro storico dei progressi dello spirito umano EDUCAZIONE CIVICA

secondo le

NUOVE CIVICA «I lumi smorzati»: l’educazione femminile EDUCAZIONE Linee guida

PARITÀ DI GENERE equilibri

199

#PROGETTOPARITÀ

2 Il progetto di un nuovo sapere e l’Enciclopedia EDUCAZIONE CIVICA

secondo le

NUOVE CIVICA Dall’Encyclopédie all’IA EDUCAZIONE Linee guida

200

202

online D9

Il ruolo centrale dell’educazione. Alcune testimonianze Denis de Diderot online D9a La rivalutazione delle “arti meccaniche” e il ruolo degli artigiani come consulenti nell’Encyclopédie Encyclopédie, Prospectus online D9b

Le arti liberali devono contribuire a eliminare i pregiudizi verso le arti meccaniche

Encyclopédie s.v. “Arte”

3 La cultura come impegno civile e battaglia ideologica 202 Montesquieu online D10 La libertà politica non può esistere dove vi sia abuso di potere Lo spirito delle leggi, libro XI, capp. III-IV, VI

Voltaire D11 Requisitoria contro l’intolleranza Trattato sulla tolleranza, XXII

EDUCAZIONE CIVICA

secondo le NUOVE Linee guida

206

Jean-Jacques Rousseau secondo le NUOVE D12 Alle radici della diseguaglianza e del patto sociale EDUCAZIONE CIVICA Linee guida

209

Discorso sull’origine e i fondamenti della diseguaglianza

3 Caratteri e forme della letteratura nel Settecento 212 1 Un quadro delle tendenze letterarie del Settecento 212 INDICE

XIX


2 Estetica del sensismo, del sublime e neoclassica: tre modelli per la letteratura e l’arte del secondo Settecento 215

4 L’evoluzione della lingua 218 1 Il problema della lingua in Italia al tempo dell’Illuminismo 218 Alessandro Verri online D13 Per una lingua antiaccademica Dei difetti della letteratura e di alcune loro cagioni

LIBRI, LETTORI, LETTURA

I libri e la lettura nell’età dei lumi 220 Giornali e pamphlet: la nascita dell’opinione pubblica 222 Cesare Beccaria online D14 Lode dei giornali De’ fogli periodici

Gaetano Filangieri online D15 Il tribunale dell’opinione pubblica La scienza della legislazione

Voltaire

online D16 Difesa della libertà di stampa L’orribile pericolo della lettura ARTE NEL TEMPO

Il Rococò 223 1. Il boudoir della regina di Napoli 223 Il vedutismo 224 1. Piazza San Marco di Canaletto e Francesco Guardi 224 2. Capriccio con edifici palladiani di Canaletto 224 Sintesi con audiolettura 225

online

Zona Competenze 228

Per approfondire La visione preevoluzionistica di Buffon Il nettare nero che ha trasformato il costume La storia della massoneria Una tormentata storia editoriale Gallery Le tavole dell’Enciclopedia Verso il Novecento Eugenio Scalfari In viaggio con Diderot

Sguardo sul cinema Immagini del Settecento Un antieroe settecentesco: Barry Lyndon Lezione in PowerPoint Cronologia interattiva Immagini interattive Mappa interattiva I viaggi culturali degli illuministi in Europa

6 Letteratura e cultura nel primo Settecento

229

1 Il sogno regressivo dell’Arcadia 230 1 “Buon gusto” e ripresa del classicismo 230 2 La poesia arcadica 231

XX

INDICE


Giambattista Felice Zappi T1 In quell’età ch’io misurar solea 232 Rime

Jacopo Vittorelli online T2 Una lirica tardo-arcadica Anacreontiche a Irene, V

Paolo Rolli online T3 Solitario bosco ombroso Ode d’argomenti amorevoli

2 Pietro Metastasio e la riforma del melodramma 233 1 Il rinnovamento del melodramma 233 Pietro Metastasio online T4 Un’aria metastasiana: È la fede degli amanti Demetrio, atto II, scena III

Carlo Goldoni online T5 Regole assurde per i compositori di melodrammi Memorie, I, XXVIII

SGUARDO SULLA MUSICA Il melodramma 235 Pietro Metastasio T6 Il conflitto di Enea 236 Didone abbandonata, I, xviii (vv. 526-553)

Lorenzo Da Ponte LEGGERE

EDUCAZIONE

online T7 L’aria di Cherubino LE EMOZIONI ALLE RELAZIONI Le nozze di Figaro, atto II, scena III

3 Due grandi voci isolate: il pre-Illuminismo di Muratori e il pre-Romanticismo di Vico 238 1 Muratori: l’erudizione al servizio di un nuovo sapere 238 2 Vico e la Scienza nuova

239

Giambattista Vico online T8 Ma Omero è esistito veramente? La Scienza nuova, III, I

T9

Alcune «degnità» vichiane 242

La Scienza nuova, XXXV-XXXVII, L, LIII

Sintesi con audiolettura 244

online

Zona Competenze 246

Video L’aria da Le nozze di Figaro su YouTube.com

INDICE

XXI


7 La svolta illuminista in Italia

247

1 Caratteri generali dell’Illuminismo italiano 248 1 Un Illuminismo riformista e moderato 248 Pietro Verri T1 «Cos’è questo Caffè? È un foglio di stampa…» 251 «Il Caffè», Introduzione online T2 Contro la società delle “buone maniere” «Il Caffè», La buona compagnia

2 L’opera più celebre dell’Illuminismo italiano: Dei delitti e delle pene di Cesare Beccaria 254 1 Il problema della riforma del diritto e l’opera di Cesare Beccaria 254 2 La vita 254 3 Un libro “di gruppo”? Come nacque Dei delitti e delle pene 255 4 Il contenuto e le novità di un libro di enorme successo 256 EDUCAZIONE CIVICA NUOVE Una riflessione giuridica di sorprendente attualità EDUCAZIONE CIVICA Linee guida secondo le

257

Cesare Beccaria online T3 Autodifesa Dei delitti e delle pene, Premessa online T4 Contro l’oscurità delle leggi Dei delitti e delle pene, capp. V e XLI

T5

NUOVE La tortura è una consuetudine barbara EDUCAZIONE CIVICA Linee guida secondo le

259

Dei delitti e delle pene, cap. XVI

NUOVE T6 Le pene eccessivamente crudeli e la pena di morte EDUCAZIONE CIVICA Linee guida sono disumane e inutili per prevenire i delitti 261 secondo le

Dei delitti e delle pene, capp. XXVII-XXVIII EDUCAZIONE CIVICA NUOVE Il cammino verso l’abolizione della pena di morte in Italia EDUCAZIONE CIVICA Linee guida secondo le

265

INTERPRETAZIONI CRITICHE

Franco Venturi Un libro pericoloso

266

Sintesi con audiolettura 267

online

Zona Competenze 268 Interpretazioni critiche Dorinda Outram L’Illuminismo e l’esotico

Immagine interattiva Audioletture

8 Il boom del romanzo, specchio della società borghese

269

1 La nascita del romanzo borghese 270 XXII INDICE


2 Il realismo e i nuovi personaggi del romanzo settecentesco 272 Robinson Crusoe di Daniel Defoe 274 PER APPROFONDIRE Il mito di Robinson 276 Daniel Defoe T1 Robinson modello dell’intraprendenza borghese

277

T1a «Questa estrema necessità mi spronò al lavoro»

EDUCAZIONE CIVICA

secondo le NUOVE Linee guida

277

Le avventure di Robinson Crusoe

T1b Un’esaltazione della ragione 278 Le avventure di Robinson Crusoe online T2 Robinson medita sui veri valori dell’esistenza Le avventure di Robinson Crusoe

Moll Flanders di Daniel Defoe 280 online T3 Un episodio cruciale nella vita di Moll Flanders Fortune e sfortune della famosa Moll Flanders online T4 Moll Flanders diventa una ladra Fortune e sfortune della famosa Moll Flanders

Pamela o la virtù ricompensata di Samuel Richardson 281 Samuel Richardson secondo le EDUCAZIONE PARITÀ NUOVE DI GENERE online T5 Una cameriera virtuosa (ma anche battagliera) CIVICA Linee guida equilibri

Pamela o la virtù ricompensata, Lettera XVI

#PROGETTOPARITÀ

Henry Fielding online T6 Un elogio dei diritti del corpo: la grande abbuffata di Tom Jones Tom Jones, vol. 1, ix, v

3 Le tipologie del romanzo settecentesco 282 I viaggi di Gulliver di Jonathan Swift 284 Jonathan Swift secondo le NUOVE 285 T7 Una guerra per stabilire da che parte si rompono le uova EDUCAZIONE CIVICA Linee guida I viaggi di Gulliver, I, iv

Giulia o La nuova Eloisa di Jean-Jacques Rousseau 288 Jean-Jacques Rousseau T8 Il pentimento di Giulia

LEGGERE LE EMOZIONI

EDUCAZIONE ALLE RELAZIONI

290

Giulia o La nuova Eloisa, Lettera XXXII, risposta

Jacques-Henri Bernardin de Saint-Pierre online T9 Un’appassionata esaltazione dello stato di natura Paolo e Virginia

Candido di Voltaire 292 Voltaire online T10 Come Candide fu allevato in un bel castello e come ne fu cacciato

LEGGERE LE EMOZIONI

Candido, I secondo le

NUOVE T11 Un eroico macello EDUCAZIONE CIVICA Linee guida

294

Candido, III online T12 Candido e Cacambó in Eldorado, «il paese dove tutto va bene» Candido, XVIII

INDICE XXIII


online T13 Gli orrori dello schiavismo Candido, XIX

T14 «Bisogna coltivare il nostro giardino»: il finale aperto e problematico del romanzo 297 Candido, XXX

VERSO IL NOVECENTO Il Candido di Leonardo Sciascia 300 Vita e opinioni di Tristram Shandy, gentiluomo di Laurence Sterne 302 Laurence Sterne T15 Un esempio di metanarrazione

LEGGERE LE EMOZIONI

304

La vita e le opinioni di Tristram Shandy, gentiluomo, VI VERSO L’ESAME DI STATO

Tipologia B Analisi e produzione di un testo argomentativo Italo Calvino Robinson Crusoe, il giornale delle virtù mercantili

307

Sintesi con audiolettura 309

online

Zona Competenze 311

Interpretazioni critiche Ian Watt L’«orientamento individualista e innovatore» del novel Giuseppe Sertoli Tristram: un «io che vive fra le “cose” della mente»

Audiolettura Verso il Novecento L’eredità del romanzo settecentesco

9 Giuseppe Parini

312

1 Ritratto d’autore 314 1 Una vita tutta milanese 314 2 L’ideologia: un illuminista moderato 317 3 La sfida di Parini: una poesia “alta” per la modernità 318 online D1 Un nobile e un poeta si confrontano dopo la morte Dialogo sopra la nobiltà, Conclusione

2 Il libro delle Odi

320

1 Un genere poetico antico per una poesia moderna 320 2 La prima fase: la poesia al servizio dell’impegno civile 320 3 Le odi della seconda fase 322 4 Lo stile delle Odi: tra sensismo e (neo)classicismo 324 PER APPROFONDIRE Il neoclassicismo pariniano: un problema critico 324 T1

La salubrità dell’aria

EDUCAZIONE CIVICA

Odi, II

secondo le NUOVE Linee guida

325

PER APPROFONDIRE I problemi igienico-sanitari (o ecologici) di Milano nel Settecento 330 online T2 La caduta Odi, XV

XXIV INDICE

LEGGERE LE EMOZIONI


online T3 Il bisogno Odi, IV

3 Il giorno

331

1 Un poemetto satirico 331 2 L’articolazione dei contenuti 331 PER APPROFONDIRE All’incrocio di diversi generi 331

3 Le modalità narrative 333 I personaggi 334 Il modello spazio-temporale 335 PER APPROFONDIRE La composizione del Giorno: un’intricata questione filologica 335

4 Le caratteristiche stilistiche e metriche 337 PER APPROFONDIRE Perché Il giorno non fu terminato? Alle radici di una crisi di ispirazione 337 INTERPRETAZIONI CRITICHE

Dante Isella Parini e l’eredità del classicismo

339

online T4 Il prologo del Giorno nella prima redazione Il mattino, I vv. 1-30

T5

Il «giovin signore» si risveglia 341

Il mattino, II vv. 1-91

T6

Caffè o cioccolata? 346

Il mattino, II vv. 92-124

T7

Un mondo di oggetti e di status symbol COLLABORA ALL'ANALISI

348

Il mattino, II vv. 909-927; 933-972 online T8 La favola del Piacere Il meriggio, vv. 250-338

T9

La vergine cuccia 352

Il meriggio, vv. 659-697

T10 online

Due interventi metaletterari: il congedo dal personaggio e quello dal precettore-narratore

online T10a Il congedo del protagonista La notte, vv. 70-77 online T10b ... e quello del narratore-precettore La notte, vv. 248-259 online T11

La parodia della sfilata degli eroi epici

La notte, vv. 351-382; 440-455

4 La figura morale di Parini: un mito per le generazioni future 355 VERSO L’ESAME DI STATO

Tipologia A Analisi e interpretazione di un testo letterario italiano Giuseppe Parini Le letture alla moda, Il meriggio, vv. 970-990 358

Sintesi con audiolettura 360 Zona Competenze 363 INDICE

XXV


online

Lezione in PowerPoint Videolezioni La vita Il giorno Carta interattiva dei luoghi Cronologia interattiva Audioletture

Interpretazioni critiche Giuseppe Petronio Un cauto riformatore Sergio Antonielli Il «giovin signore» «cavaliere inesistente» Per approfondire L’allestimento del libro delle Odi Un mondo di automi Analisi interattive

10 Carlo Goldoni

364

1 Ritratto d’autore 366 1 Una vita per il teatro 366

2 I Mémoires

370

1 Goldoni racconta Goldoni 370 online D1

Il viaggio da Rimini a Chioggia. L’incontro con la mamma

LEGGERE LE EMOZIONI

EDUCAZIONE ALLE RELAZIONI

Memorie I, iv-v

PER APPROFONDIRE Venezia nel Settecento: la capitale dell’editoria e dello spettacolo 371

3 La riforma del teatro comico 372 1 Motivazioni, caratteri e storia della riforma goldoniana 372 online D2

Il teatro comico: una commedia sul nuovo modo di fare teatro

online D2a Bisogna innovare con gradualità Il teatro comico II, x online D2b Da che cosa deriva il successo della commedia di carattere Il teatro comico II, i online D3 I primi passi della riforma nel ricordo di Goldoni Memorie I, xl VERSO L’ESAME DI STATO

Tipologia A Analisi e interpretazione di un testo letterario italiano Carlo Goldoni Il «Mondo» e il «Teatro» in Goldoni

376

4 I temi, l’ideologia, la lingua 378 1 La radiografia delle classi sociali 378 PER APPROFONDIRE La famiglia, i giovani, le donne: una visione progressista? 379

2 Le lingue di Goldoni 380 online T1 Un tributo alla commedia dell’arte: Arlecchino diventa “armeno” La famiglia dell’antiquario I, xvi-xvii online T2 Oltre la commedia dell’arte: il nuovo volto di Pantalone La famiglia dell’antiquario I, xviii; II, xi

XXVI INDICE

EDUCAZIONE CIVICA

secondo le NUOVE Linee guida


EDUCAZIONE

secondo le

NUOVE DI GENERE T3 Lo studio del “carattere” entro una CIVICA Linee guida categoria sociale: due «rusteghi» COLLABORA ALL'ANALISI 382 PARITÀ

equilibri

#PROGETTOPARITÀ

I rusteghi, II, v

5 La locandiera

388

1 La locandiera e la nuova commedia 388 2 La vicenda e i personaggi 389 3 La struttura drammaturgica 391 T4

La locandiera, atto I 392

secondo le NUOVE T4a Il marchese di Forlipopoli e il conte d’Albafiorita a confronto EDUCAZIONE CIVICA Linee guida

392

La locandiera I, i

T4b L’entrata in scena della protagonista

394

La locandiera I, v secondo le NUOVE T4c Il primo monologo di Mirandolina EDUCAZIONE CIVICA Linee guida

PARITÀ DI GENERE equilibri

La locandiera I, ix

396

#PROGETTOPARITÀ

secondo le NUOVE T4d Il confronto tra Fabrizio e Mirandolina EDUCAZIONE CIVICA Linee guida

PARITÀ DI GENERE equilibri

La locandiera I, x

LEGGERE LE EMOZIONI

EDUCAZIONE ALLE RELAZIONI

397

#PROGETTOPARITÀ

T4e L’inizio della sfida di Mirandolina al cavaliere misogino

398

La locandiera I, xv-xvi

T5

La locandiera, atto II

404

T5a La tattica psicologica di Mirandolina: abbattere le difese del cavaliere

404

La locandiera II, iv

T5b Il gioco degli “a parte”

408

La locandiera II, vi

T5c Lo svenimento di Mirandolina: un magistrale colpo di mano

EDUCAZIONE CIVICA

secondo le NUOVE Linee guida

PARITÀ DI GENERE equilibri

411

#PROGETTOPARITÀ

La locandiera II, xvii

T6

La locandiera, atto III

414

T6a Il cavaliere innamorato

414

La locandiera III, vi

T6b Le pragmatiche riflessioni di Mirandolina

416

La locandiera III, xiii

T6c Le carte si scoprono... e il cavaliere è sconfitto La locandiera III, xviii

EDUCAZIONE CIVICA

secondo le NUOVE Linee guida

417

INTERPRETAZIONI CRITICHE A CONFRONTO

Ugo Dèttore «Mirandolina è forse il più decisamente femminile dei personaggi goldoniani»

422

Roberto Alonge Il ruolo maschile di Mirandolina

422

Guido Davico Bonino Una piccolo-borghese in cerca d’identità

423

Sintesi con audiolettura 426 Zona Competenze 429 INDICE XXVII


online

Per approfondire Il modello narrativo dei Mémoires: tra autobiografia, romanzo e teatro Autobiografia in scena: Goldoni rappresenta Goldoni

Lezione in PowerPoint Videolezioni La vita La locandiera Carta interattiva dei luoghi Cronologia interattiva Audioletture

Cronistoria della commedia goldoniana Interpretazioni critiche Franco Fido Le commedie del biennio 1760-62 e la proposta di una morale borghese più moderna

11 Vittorio Alfieri

430

1 Ritratto d’autore 432 1 Una vita “contro” 432 online D1 L’autoritratto di un aristocratico viziato e prepotente Vita, Epoca terza, cap. XII

SGUARDO SULL’ARTE Il ritratto nel Settecento 434 D2

La “conversione” alla letteratura 435

Vita, Epoca terza, cap. XV online D3 Come Alfieri scriveva i testi tragici Vita, Epoca quarta, cap. IV

2 La visione del mondo. L’immagine del poeta e il ruolo della poesia 437 1 Un filo rosso tra le opere: il tema chiave della libertà 437 2 Un nuovo modello umano e una nuova idea di poesia 438 3 Un autoritratto in versi: le Rime 439 online T1 Rime

T2

Sublime specchio di veraci detti Tacito orror di solitaria selva

LEGGERE LE EMOZIONI

LEGGERE LE EMOZIONI

440

Rime

4 I trattati politici: il tema del potere e della libertà 442 Della tirannide 442 secondo le NUOVE T3 La definizione di tirannide EDUCAZIONE 443 CIVICA Linee guida Della tirannide I, II

Del principe e delle lettere

444

PER APPROFONDIRE Gobetti e Alfieri 444 online T4 Il potere e la cultura hanno fini opposti Del principe e delle lettere I, IV; III, X

5 Un’opera affascinante e attuale: la Vita online T5 La lettura di Plutarco, «il libro dei libri» LEGGERE LE EMOZIONI Vita, Epoca terza, cap. VII

XXVIII INDICE

445


online T6 Alfieri, uomo libero di fronte ai sovrani assoluti Vita, Epoca terza, cap. VII

T7

La libertà dello spirito nella natura selvaggia della Svezia invernale LEGGERE LE EMOZIONI 447

Vita, Epoca terza, capp. VIII-IX

SGUARDO SUL CINEMA L a Vita di Alfieri e il film Into the Wild di Sean Penn: un possibile confronto? 449

6 Le tragedie 450 La scelta del genere tragico e la riforma della tragedia 450 Il corpus delle tragedie: dal conflitto tiranno-uomo libero al conflitto interiore 451 Il Filippo, archetipo delle tragedie alfieriane “di libertà” 452 online T8 Il conflitto fra il tiranno Filippo e l’uomo libero Carlo Filippo, atto V, scene III-IV

Saul e il conflitto interiore del tiranno 453 online T9 Il sogno e la follia di Saul Saul, atto II, scena I

T10 La fine di Saul LEGGERE LE EMOZIONI

EDUCAZIONE ALLE RELAZIONI

455

Saul, atto V, scene III-V

La Mirra e il tormento interiore della passione illecita 460 online T11 La forza incoercibile dell’eros e il matrimonio incompiuto Mirra, atto IV, scena III

T12 La confessione di Mirra COLLABORA ALL'ANALISI 462 Mirra, atto V, scene II e IV INTERPRETAZIONI CRITICHE

Ezio Raimondi Alfieri, fra i lumi e «le ombre sull’abisso» online

465

3 Alfieri e le generazioni successive

Sintesi con audiolettura 467 Zona Competenze 469 VERSO L’ESAME DI STATO

online

Tipologia A Analisi e interpretazione di un testo letterario italiano Vittorio Alfieri Virginia, Virginia, II, i 470 Tipologia B Analisi e produzione di un testo argomentativo Mario Fubini La Vita di Alfieri 472 Tipologia C Riflessione critica di carattere espositivo-argomentativo su tematiche di attualità 474

Per approfondire Il registro ironico come espressione del distanziamento critico dal passato Il Filippo: un re “tiranno” e il conflitto padre-figlio Lezione in PowerPoint Videolezioni La vita Le tragedie

Carta interattiva dei luoghi Cronologia interattiva Immagine interattiva Analisi interattiva Audioletture

INDICE XXIX


ONLINE

12 Libertini e letteratura libertina

475

1 La figura del libertino

1

Un nuovo protagonista del dibattito culturale

2 Giacomo Casanova: vita di un libertino

Giacomo Casanova D1 «Coltivare il piacere dei sensi»

LEGGERE LE EMOZIONI

Storia della mia vita

SGUARDO SUL CINEMA Giacomo Casanova secondo Fellini

2 Il filone libertino della letteratura settecentesca 1 La letteratura libertina 2 Il Don Giovanni di Mozart-Da Ponte PER APPROFONDIRE Don Giovanni: dal personaggio al mito Lorenzo Da Ponte secondo le PARITÀ NUOVE T1 Il catalogo del seduttore EDUCAZIONE CIVICA DI GENERE Linee guida equilibri

Don Giovanni, I, v

#PROGETTOPARITÀ

T2 L’etica di Don Giovanni Don Giovanni, II, i

3 Libertinismo al femminile: la marchesa di Merteuil

e Le relazioni pericolose

Pierre Choderlos de Laclos secondo le NUOVE T3 La formazione di una libertina EDUCAZIONE CIVICA Linee guida

PARITÀ DI GENERE equilibri

Le relazioni pericolose

7

#PROGETTOPARITÀ

4 Dal cinismo alla perversione: il marchese de Sade T4 Una fredda teorizzazione del piacere Justine

Sintesi con audiolettura Zona Competenze

Ottocento Scenari socio-culturali Neoclassicismo e Romanticismo

479

Sguardo sulla storia 480 L’età napoleonica 480 L’Italia 481 La Restaurazione in Europa 481 Il Quarantotto 482 Il Risorgimento italiano e l’Unità 483

XXX INDICE


1 La visione del mondo. Figure, luoghi e centri della cultura 484 1 Un trauma storico 484 2 Un nuovo immaginario e un nuovo universo tematico 485 L’eroe romantico 485 François-René de Chateaubriand D1 Le inquietudini di René, prototipo dell’eroe romantico 486 La scoperta del lato “notturno” dell’io 488 G.H. von Schubert online D2 Il linguaggio del sogno La simbolica del sogno

Una nuova visione della natura 489 Il mito del paradiso perduto e il “male del desiderio” 490 TESTI IN DIALOGO • La comunione Io-natura e il “male del desiderio”

491

Johann Wolfgang Goethe D3a La vita sacra della natura e l’aspirazione dell’uomo all’infinito 491 I dolori del giovane Werther, lettera del 18 agosto

Friedrich Hölderlin D3b Alla natura 492 La rinascita dell’interesse per la dimensione spirituale e trascendente 494 Novalis online D4 Erano belli i tempi in cui l’Europa era una terra cristiana La cristianità ovvero l’Europa

La riscoperta della storia e l’emergere dell’idea di nazione 495 Johann Gottlieb Fichte online D5 Popolo e patria Discorsi alla nazione tedesca, discorso VIII

Giuseppe Mazzini online D6 La “religione della Patria” e il nuovo linguaggio politico Dei doveri dell’uomo INTERPRETAZIONI CRITICHE

Federico Chabod Romanticismo e concetto di nazione

497

3 I valori e i modelli di comportamento 498 Una rivoluzione antropologica 498 Il modello borghese della famiglia 499 L’amore-passione 500 Niccolò Tommaseo online D7 Amore e morte Fede e bellezza

Francesco Maria Piave online D8 «Piangi, o misera!»: l’etica borghese e l’amore romantico La Traviata, atto II, scena V

4 La fisionomia e la condizione degli intellettuali 501 INDICE XXXI


Alessandro Manzoni online D9 Un autore-editore di fronte al problema delle edizioni pirata Lettere

PER APPROFONDIRE Vivere da letterati nel primo Ottocento: quattro casi emblematici 503 Due poli culturali a confronto: Roma e Milano 505

2 Modelli del sapere e tendenze filosofico-scientifiche 506 1 Il divorzio tra filosofia e scienza e l’inizio della separazione tra le “due culture” 506 2 Il ruolo egemone della filosofia tedesca 507 Giacomo Leopardi online D10 I limiti della conoscenza delle leggi di natura Zibaldone [4189-4190]

F. W. J. von Schelling online D11 La superiorità dell’arte come mezzo di conoscenza Sistema dell’Idealismo trascendentale

3 Caratteri e forme della letteratura nella prima metà dell’Ottocento 509

1 Il panorama dei generi letterari 509 2 La lirica 509 3 Il romanzo 511

4 L’evoluzione della lingua 514 1 Il problema della lingua nel primo Ottocento 514 LIBRI, LETTORI, LETTURA

Nuovi libri, nuovi modi di leggere 516 Honoré de Balzac online D12 Un cinico libraio-editore Illusioni perdute

Giacomo Leopardi online D13 La vita effimera dei libri d’oggi Zibaldone [4269-4270] ARTE NEL TEMPO

Il Neoclassicismo Tra mito ed etica 518 Amore e Psiche di Antonio Canova: la creazione del canone di perfezione 518 Il Romanticismo in Europa Immaginazione e sentimento 519 L’incendio delle camere dei Lord di William Turner 519 La nascita della fotografia Tra realismo e messa in scena 520 Autoritratto come annegato di Hippolyte Bayard 520 Sintesi con audiolettura 521 Zona Competenze 523

XXXII INDICE


VERSO L’ESAME DI STATO

online

Tipologia C Riflessione critica di carattere espositivo-argomentativo su tematiche di attualità

Lezione in PowerPoint Cronologia interattiva Audio Un Notturno di Fryderyk Chopin Al chiaro di Luna di Beethoven Chopin, La caduta di Varsavia Dalla Traviata di Verdi: Pura siccome un angelo

524

Per approfondire Il problema del diritto d’autore Saperi alternativi nella medicina del primo Ottocento: Mesmerismo e omeopatia Mappa interattiva Rivolte napoleoniche e flussi letterari Immagini interattive

13 Tra Neoclassicismo e Preromanticismo

525

1 Il Neoclassicismo 526 Johann Joachim Winckelmann D1 L’Apollo del Belvedere 527 Storia dell’arte nell’antichità

SGUARDO SULL’ARTE Il mito della romanità e gli usi politici del Neoclassicismo 529

2 Vincenzo Monti: la fedeltà al classicismo 530 Vincenzo Monti T1 La traduzione dell’Iliade: protasi del poema 532 L’Iliade di Omero, vv. 1-41 online T2

Prosopopea di Pericle

3 Il Preromanticismo 534 1 In Germania: il gruppo dello Sturm und Drang Friedrich Schiller online T3 Il credo ribellistico degli Stürmer

534

LEGGERE LE EMOZIONI

I masnadieri, II scena

2 In Inghilterra: la poesia sepolcrale e i Canti di Ossian TESTI IN DIALOGO • Due esempi della poesia preromantica inglese

535 537

Thomas Gray 537 T4a Elegia scritta in un cimitero campestre James Macpherson T4b La notte 538 Canti di Ossian

4 Goethe, un genio poliedrico 539 1 Una vita in multiforme e instancabile attività 539 2 I dolori del giovane Werther: il manifesto della sensibilità preromantica

540

PER APPROFONDIRE Un segno di protesta generazionale 542 INDICE XXXIII


Johann Wolfgang Goethe T5 Werther e Albert a confronto: il tema del suicidio come parametro di due opposte visioni del mondo

LEGGERE LE EMOZIONI

543

I dolori del giovane Werther, lettera del 12 agosto

3 Dall’autodistruzione di Werther alla formazione di Wilhelm Meister

547

PER APPROFONDIRE Le caratteristiche dei romanzi di formazione 548 Johann Wolfgang Goethe online T6 Gli ideali educativi della «Società della Torre» Wilhelm Meister. Gli anni dell’apprendistato VIII, V

4 Faust, una moderna “Commedia” 549 La trama 549 Johann Wolfgang Goethe online T7 Il carcere dei libri e l’ansia della conoscenza Faust, Parte prima, Notte

PER APPROFONDIRE L’attualità del Faust 552 Johann Wolfgang Goethe T8 Il patto tra Faust e Mefistofele

LEGGERE LE EMOZIONI

553

Faust, Parte prima, Studio [II] online T9 L’utopia di Faust Faust, Parte seconda, atto quinto

5 Natura e civiltà: il romanzo alchemico delle Affinità elettive

555

Sintesi con audiolettura 557 Zona Competenze 559 VERSO L’ESAME DI STATO

Tipologia A Analisi del testo

Johann Wolfgang Goethe Due visioni del mondo 560 I dolori del giovane Werther, lettera del 29 giugno

online

Tipologia C Riflessione critica di carattere espositivo-argomentativo su tematiche di attualità Gallery Lo “stile neoclassico”

561

Immagini interattive Audiolettura

Per approfondire Massoneria e Bildungsroman Interpretazioni critiche Ugo Foscolo Un giudizio severo sulla figura di

Monti

14 Ugo Foscolo

562

1 Ritratto d’autore 564 1 Una vita inquieta, pienamente vissuta 564

XXXIV INDICE


2 Le lettere 569 Ugo Foscolo online T1 «La nostra salute sta nelle mani di un conquistatore» Scritti letterari e politici: testi dal 1796 al 1808, Lettera dedicatoria dell’“Ode a Bonaparte Liberatore” online T2 Il linguaggio della passione Lettera ad Antonietta Fagnani Arese

LEGGERE LE EMOZIONI

PER APPROFONDIRE Foscolo critico 569 Ugo Foscolo T3 Foscolo motiva la dolorosa scelta dell’esilio

EDUCAZIONE CIVICA

secondo le NUOVE Linee guida

570

Epistolario online T4 Il caro prezzo della libertà Epistolario

3 La funzione e i caratteri della poesia 572 online T5

La parola, formatrice dell’animo umano

Ugo Foscolo online T5a La responsabilità degli «uomini letterati» Lettera apologetica online T5b Il valore formativo dei racconti poetici sui «cuori palpitanti» dei giovani Dell’origine e dell’ufficio della letteratura online T5c La poesia rivelatrice di una «universale secreta armonia» Principi di critica poetica

2 La letteratura come autoritratto 573 1 Le Ultime lettere di Jacopo Ortis: i caratteri generali, la trama, la storia editoriale 573 2 I modelli letterari 575 3 La sovrapposizione autore/personaggio e l’intreccio amore/politica 575 4 Lo stile appassionato di un romanzo imperfetto 576 EDUCAZIONE CIVICA

L’Ortis come libro di educazione patriottica

EDUCAZIONE CIVICA

secondo le NUOVE Linee guida

PARITÀ DI GENERE equilibri

577

#PROGETTOPARITÀ

Il successo tra il pubblico femminile

EDUCAZIONE CIVICA

secondo le NUOVE Linee guida

PARITÀ DI GENERE equilibri

577

#PROGETTOPARITÀ

Ugo Foscolo T6 L’apertura drammatica del romanzo

EDUCAZIONE CIVICA

secondo le NUOVE Linee guida

578

Ultime lettere di Jacopo Ortis

T7

La passeggiata ad Arquà: l’affinità romantica tra Jacopo e Teresa 580

Ultime lettere di Jacopo Ortis online T8 Il Giovine Eroe si mostra per quello che è: «un animo basso e crudele» Ultime lettere di Jacopo Ortis

T9

Dopo quel bacio... il tema delle illusioni

LEGGERE LE EMOZIONI

582

Ultime lettere di Jacopo Ortis online T10 La visita alle tombe di Santa Croce e i fantasmi di Montaperti Ultime lettere di Jacopo Ortis

INDICE XXXV


T11 Il colloquio fra Jacopo e Parini

EDUCAZIONE CIVICA

secondo le NUOVE Linee guida

584

Ultime lettere di Jacopo Ortis

T12 La natura “sublime” e la riflessione sulla storia: LEGGERE la lettera da Ventimiglia LE EMOZIONI 588 Ultime lettere di Jacopo Ortis online T13 Il quadro dipinto da Teresa e l’amore oltre la morte Ultime lettere di Jacopo Ortis

5 Autobiografia foscoliana in versi: le Odi e i Sonetti Ugo Foscolo T14 All’amica risanata

LEGGERE LE EMOZIONI

EDUCAZIONE ALLE RELAZIONI

593

595

Odi

T15 Alla sera 601 Sonetti

T16 A Zacinto 604 Sonetti

T17 In morte del fratello Giovanni COLLABORA ALL’ANALISI 608 Sonetti INTERPRETAZIONI CRITICHE

Carlo Dionisotti Foscolo esule

610

3 Poesia, valori e civiltà: dai Sepolcri alle Grazie

612

1 Dei sepolcri: la genesi e la tipologia testuale 612 2 La visione filosofica e i temi: tra Illuminismoe proto-Romanticismo 614 3 Lo stile e la struttura 616 Ugo Foscolo T18 Dei Sepolcri

EDUCAZIONE CIVICA

secondo le NUOVE Linee guida

LEGGERE LE EMOZIONI

EDUCAZIONE ALLE RELAZIONI

618

PER APPROFONDIRE Il dibattito europeo sulle sepolture e l’editto di Saint-Cloud 618

4 Un alter ego ironico e disincantato: Didimo Chierico 636 online T19 Didimo, un Ortis «più disingannato che rinsavito» Notizia intorno a Didimo Chierico VII; XI-XIII

LEGGERE LE EMOZIONI

5 Le Grazie: alla ricerca di un’«universale secreta armonia»

637

SGUARDO SULL’ARTE Le Grazie nel mito e nell’arte 640 Ugo Foscolo online T20 Proemio e dedica a Canova Le Grazie, vv. 1-26 online T21 L’apparizione delle Grazie Le Grazie, Inno I, vv. 65-86 online T22 Inno II Le Grazie, vv. 111-125

PER APPROFONDIRE Il fascino misterioso dell’«isola non trovata» da Foscolo a Guccini 640 Ugo Foscolo T23 Il velo delle Grazie 641 Le Grazie, Inno III, vv. 31-85

XXXVI INDICE


online 6

Foscolo ieri e oggi

Sintesi con audiolettura 645 Zona Competenze 648 VERSO L’ESAME DI STATO

online

Tipologia A Analisi del testo Ugo Foscolo Non son chi fui, perì di noi gran parte 649 650 Tipologia B Analisi e produzione di un testo argomentativo 652 Tipologia C Riflessione critica di carattere espositivo-argomentativo su tematiche di attualità

Lezione in PowerPoint Videolezioni La vita Le ultime lettere di Jacopo Ortis Odi e Sonetti Cronologia interattiva Carta interattiva dei luoghi Interpretazioni critiche

Giovanni Getto Il tema del tempo nei Sepolcri

Per approfondire Alter ego ed eteronimi: da Foscolo a Pessoa Gadda contro Foscolo Analisi interattive Immagini interattive Audiolettura Verso il Novecento Erri De Luca Il tema dei valori nella poesia del Duemila

15 Romanticismo/romanticismi

653

1 Un fenomeno complesso 654 2 La concezione estetica del Romanticismo 656 Novalis online D1 Il poeta veggente Frammenti di letteratura

D2 La contrapposizione antichi/moderni 659 Friedrich Schiller D2a La poesia moderna nasce dal sentimento 659 Sulla poesia ingenua e sentimentale

PER APPROFONDIRE Chi sono i moderni per i romantici? Tutta l’arte moderna è romantica? 658 August Wilhelm Schlegel D2b La poesia moderna è frutto della visione cristiana 662 Corso di letteratura drammatica

Victor Hugo online D3 Poesia romantica e grottesco Cromwell

Sintesi con audiolettura 664 Zona Competenze 664

16 La rivoluzione della poesia in Europa

665

1 Una nuova sensibilità poetica 666 2 La poesia romantica in Germania 667 INDICE XXXVII


1 Novalis: la poesia come esperienza esoterica 667 Novalis T1 Primo inno alla notte

LEGGERE LE EMOZIONI

668

Inni alla notte, I

PER APPROFONDIRE Dal mito illuminista della luce alla predilezione romantica per la notte 671

2 La poesia di Hölderlin: tra “assenza” e “rifondazione” 672 Friedrich Hölderlin online T2 Quand’ero fanciullo online T3 La struggente aspirazione al divino Canto del destino di Iperione

3 La poesia romantica in Inghilterra 674 1 La prima generazione romantica 674 Samuel Coleridge T4 La ballata del vecchio marinaio

EDUCAZIONE CIVICA

secondo le NUOVE Linee guida

675

I, vv. 51-82; II, vv. 107-142

2 La seconda generazione romantica 679 George Byron T5 Il pellegrinaggio del giovane Aroldo 682 John Keats T6 Ode su un’urna greca 683 Percy Bysshe Shelley online T7 Un inno all’amore universale Filosofia dell’amore

T8

Inno alla Bellezza intellettuale 687

Vv. 1-26; 54-85

Sintesi con audiolettura 690 Zona Competenze 690

17 Il romanzo europeo

691

1 Il successo del genere romanzo 692 2 Il romanzo storico e realista 694 1 Il romanzo storico 694 Walter Scott T1 L’agnizione dell’eroe: il misterioso «cavaliere Diseredato» si svela come Ivanhoe

LEGGERE LE EMOZIONI

Ivanhoe, XII

Victor Hugo online T2 Il gobbo di Notre-Dame: la storia si tinge di gusto dell’orrido Notre-Dame de Paris I, 5; XI, 4

XXXVIII INDICE

697


2 Il romanzo a impianto realista 700 Jane Austen T3 L’orizzonte esistenziale di un’anziana coppia di borghesi campagnoli Orgoglio e pregiudizio, I

EDUCAZIONE CIVICA

secondo le NUOVE Linee guida

PARITÀ DI GENERE equilibri

707

#PROGETTOPARITÀ

online T4 Lo scontro tra Lizzy e Lady Catherine Orgoglio e pregiudizio, III, LVI

Stendhal T5 Le scelte opportunistiche di Julien Sorel, un giovane ambizioso cresciuto nel mito di Napoleone

LEGGERE LE EMOZIONI

710

Il rosso e il nero, cap. V

Honoré de Balzac T6 La costruzione di un ambiente e di un microcosmo sociale: la pensione Vauquer 712 Papà Goriot, I online T7 La costruzione di un personaggio: il signor Grandet Eugénie Grandet, I

3 Verso il Naturalismo: Madame Bovary

716

1 Gustave Flaubert 716 2 Madame Bovary: uno scandaloso romanzo di successo 716 EDUCAZIONE CIVICA

La condizione di impotenza della donna e il fenomeno secondo le NUOVE CIVICA del “bovarismo” EDUCAZIONE Linee guida

PARITÀ DI GENERE equilibri

721

#PROGETTOPARITÀ

PER APPROFONDIRE Un realismo venato di simbolismo 722 Gustave Flaubert online T8 Una distorta educazione sentimentale Madame Bovary, parte I, cap. VI

T9

Le delusioni di un matrimonio piccolo-borghese

Madame Bovary, parte I, cap. VII

EDUCAZIONE CIVICA

secondo le NUOVE Linee guida

PARITÀ DI GENERE equilibri

723

#PROGETTOPARITÀ

SGUARDO SUL CINEMA Madame Bovary, un “soggetto” di successo 727 Gustave Flaubert online T10 La scintillante chimera dell’“altrove”: il ballo al castello Madame Bovary, parte I, cap. VIII online T11 L’ebbrezza dell’amore adultero: Emma e Rodolphe Madame Bovary, parte II, cap. IX online T12 La morte di Emma Madame Bovary, parte III, cap. VIII

Sintesi con audiolettura 728

online

Zona Competenze 730 Per approfondire Eugénie Grandet

INDICE XXXIX


ONLINE

18 La narrativa fantastica e il fascino del lato buio

731

1 L’emergere della narrativa di carattere fantastico 1 Alle origini del genere “fantastico” 2 Il romanzo gotico 3 Il maestro del terrore e dell’orrore: Edgar Allan Poe Edgar Allan Poe T1 La rivisitazione del codice gotico Il ritratto ovale

T2

La poetica dell’effetto e dell’eccesso

La maschera della Morte Rossa

Ann Radcliffe D1 Un castello misterioso I misteri di Udolpho

4 Il fantastico visionario di Hoffmann Ernst Theodor Amadeus Hoffmann T3 L’Orco Insabbia: tra incubo e realtà

LEGGERE LE EMOZIONI

L’Orco Insabbia

5 Il tema del vampiro Théophile Gautier T4 Il mistero di Clarimonda si svela La morta innamorata

6 Frankenstein: la modernità come mostro Mary Shelley T5 La creazione dell’uomo artificiale

LEGGERE LE EMOZIONI

EDUCAZIONE ALLE RELAZIONI

Frankenstein, o il Prometeo moderno, capp. III-IV

SGUARDO SUL CINEMA Il mito di Frankenstein

INTERPRETAZIONI CRITICHE Silvia Albertazzi Significato dell’irrompere del fantastico sulla scena letteraria

Sintesi con audiolettura Zona Competenze VERSO L’ESAME DI STATO

Tipologia C Riflessione critica di carattere espositivo-argomentativo su tematiche di attualità

19 Il Romanticismo italiano e la letteratura risorgimentale

733

1 Il dibattito sul Romanticismo in Italia 734 1 Un nuovo movimento 734 PER APPROFONDIRE La «Biblioteca italiana» (1816-1840) 734 Altre due importanti riviste: «L’Antologia» e «Il Politecnico» 738 D1

La polemica classico-romantica 739

Pietro Giordani online D1a “Un italiano” risponde al discorso della de Staël «Biblioteca italiana», aprile 1816

XL

INDICE


Arnaldo online D1b Una parodia dei seguaci del Romanticismo Parodia dello statuto d’una immaginaria Accademia romantica

Pietro Borsieri online D1c Elogio del romanzo Avventure letterarie di un giorno

Giovanni Berchet D1d Il nuovo pubblico della letteratura romantica

LEGGERE LE EMOZIONI

739

Lettera semiseria di Grisostomo al suo figliuolo

2 Il genere egemone del Romanticismo italiano: il romanzo storico 743

2 Le confessioni di un italiano di Nievo: un romanzo all’incrocio dei generi 745 1 L’autore 745 2 Il romanzo 745 Ippolito Nievo online T1 L’esordio del romanzo Le confessioni di un italiano, cap. I online T2 Il conte di Fratta, emblema della società feudale Le confessioni di un italiano, cap. I online T3 Carlo Altoviti incontra un Napoleone molto diverso dal mito Le confessioni di un italiano, cap. X online T4 La bufera della storia e la fine di un mondo Le confessioni di un italiano, cap. XVIII

T5

LEGGERE LE EMOZIONI

La Pisana, una figura femminile fuori dagli stereotipi

EDUCAZIONE CIVICA

Le confessioni di un italiano, cap. VIII

secondo le NUOVE Linee guida

PARITÀ DI GENERE equilibri

748

#PROGETTOPARITÀ

3 Letteratura e Risorgimento: alla ricerca di un’identità nazionale 752 1 Il problema dell’identità: «fare gli italiani» 752 PER APPROFONDIRE Il dibattito sul carattere dei popoli 753

2 Andare al passato per costruire il futuro: le memorie dei patrioti 754 Luigi Settembrini online T6 Una conversazione tra compagni di cella Ricordanze della mia vita, Tre giorni in cappella, 1

Giuseppe Cesare Abba online T7 «Cavalcava un baio da gran Visir»: l’apparizione dell’eroe Da Quarto al Volturno. Noterelle d’uno dei Mille

3 Il best seller del Risorgimento: Le mie prigioni di Silvio Pellico 756 Silvio Pellico T8 La comune umanità di carcerati e carcerieri

LEGGERE LE EMOZIONI

757

Le mie prigioni, LXII online T9 «Ho io a cessare d’esser uomo per quella canaglia di chiavi?»: il carceriere Schiller Le mie prigioni, LXVIII

INDICE

XLI


4 La celebrazione epica del Risorgimento: la lirica patriottica 760 Goffredo Mameli D2 Il canto degli italiani

EDUCAZIONE CIVICA

secondo le NUOVE Linee guida

762

PER APPROFONDIRE Gli ideali in musica: il melodramma ottocentesco 764 Giuseppe Verdi (librettista Temistocle Solera) online T10 Va’, pensiero, sull’ali dorate: il canto struggente di un popolo in prigionia Coro del terzo atto del Nabucco

VERSO IL NOVECENTO Il Risorgimento fallito: l’amara visione di tre scrittori siciliani

765

Federico De Roberto online T11 Il Risorgimento da farsa degli Uzeda I Viceré, I, 8

Sintesi con audiolettura 766

online

Zona Competenze 768 Verso il Novecento Il Risorgimento rivisitato di Luciano Bianciardi Per approfondire Il Risorgimento al cinema I vecchi e i giovani di Luigi Pirandello

Sguardo sul cinema Noi credevamo: il Risorgimento visto attraverso la lente della disillusione Verso l’esame di Stato Tipologia B Analisi e produzione di un testo argomentativo

20 La poesia dialettale

769

1 La poesia in dialetto, lingua del “vero” 770 2 I poeti dialettali 771 1 Carlo Porta, un testimone della storia milanese 771 PER APPROFONDIRE La “linea lombarda”: realismo, moralità, sperimentazione linguistica 773 T1 Due momenti della storia nella poesia di Porta 774 Carlo Porta online T1a Paracarr che scappee de Lombardia Poesie, 22

T1b La preghiera

EDUCAZIONE CIVICA

secondo le NUOVE Linee guida

774

2 Giuseppe Gioachino Belli e la voce del popolo di Roma 780 Giuseppe Gioachino Belli online T2 Il programma di Belli: un ritratto fedele del popolo romano Introduzione ai Sonetti online T3 La vita da cane Sonetti, 515 online T4

La Roma dei papi: una città violenta

online T4a L’aducazzione Sonetti, 2 online T4b Chi ccerca trova Sonetti, 399

XLII INDICE

EDUCAZIONE CIVICA

secondo le NUOVE Linee guida


online T5

La miseria del popolo di Roma

online T5a La bbona famijja Sonetti, 47 online T5b La famijja poverella Sonetti, 413

T6 La filosofia e la teologia dei popolani 783 LEGGERE T6a Er caffettiere fisolofo LE EMOZIONI 783 Sonetti, 180

T6b La creazzione der monno 785 Sonetti, 20

Sintesi con audiolettura 788 Zona Competenze 789 VERSO L’ESAME DI STATO

Tipologia A Analisi e interpretazione di un testo letterario italiano Giuseppe Gioachino Belli Er giorno der giudizzio

789

Sonetti, 37

online

Tipologia B Analisi e produzione di un testo argomentativo

Verso il Novecento La poesia dialettale nel Novecento

790

Interpretazioni critiche Giuseppe Petronio Roma e il mondo nello specchio deformante dell’ottica popolare

21 Alessandro Manzoni

792

1 Ritratto d’autore 794 1 Una vita schiva e riservata 794 PER APPROFONDIRE La ricerca di figure paterne sostitutive 796 SGUARDO SULL’ARTE La “scena di conversazione” 799

2 La visione politica, storica e religiosa 800 Alessandro Manzoni online D1 «Un utopista e un irresoluto»: una spietata autoanalisi Lettera a Giorgio Briano

EDUCAZIONE CIVICA

secondo le NUOVE Linee guida

LEGGERE LE EMOZIONI

online D2 Una religiosità problematica e tormentata Lettera a Diodata Saluzzo di Roero online D3 Un Dio implacabile Il Natale del 1833

3 Il rapporto con il Romanticismo e la poetica del vero 801 TESTI IN DIALOGO • La poetica del vero: una letteratura al servizio dell’etica

803

Alessandro Manzoni D4a «Sentir e meditar» 803 Carme in morte di Carlo Imbonati, vv. 202-215

D4b Il vero dello storico e il vero del poeta 804 Lettre à Monsieur Chauvet

INDICE

XLIII


D4c «L’utile per iscopo, il vero per soggetto e l’interessante per mezzo» 805 Lettera sul Romanticismo online D5 Contro lo «spirito romanzesco» Lettera a Claude Fauriel del 29 maggio 1822

2 Il poeta cristiano alla ricerca di un proprio linguaggio: gli Inni sacri e le odi civili 807 1 Il progetto di una nuova epica cristiana: gli Inni sacri Alessandro Manzoni secondo le NUOVE T1 La Pentecoste EDUCAZIONE CIVICA Linee guida

807

809

Inni sacri

2 La poesia civile 814 Alessandro Manzoni secondo le NUOVE online T2 Marzo 1821 EDUCAZIONE CIVICA Linee guida T3

Il cinque maggio

816

3 La produzione tragica: il Carmagnola e l’Adelchi

821

1 Il dibattito sul paradigma classico e i caratteri della tragedia manzoniana

821

2 Il conte di Carmagnola

823

LEGGERE LE EMOZIONI

Alessandro Manzoni online T4 «S’ode a destra uno squillo di tromba» Il conte di Carmagnola, coro del II atto, vv. 1-32; 121-128 online T5 Il monologo di Marco: il dramma dell’amicizia sconfitta Il conte di Carmagnola, atto IV, scena II, vv. 270-350

3 Adelchi

825

PER APPROFONDIRE L’opposizione tra personaggi del “fare” e personaggi del “sentire” 827 Alessandro Manzoni T6 «Dagli atrii muscosi…»

EDUCAZIONE CIVICA

secondo le NUOVE Linee guida

828

Adelchi, coro del III atto

T7

«Sparsa le trecce morbide…»

EDUCAZIONE CIVICA

Adelchi, coro del IV atto

T8

Il testamento spirituale di Adelchi

secondo le NUOVE Linee guida

PARITÀ DI GENERE equilibri

832

#PROGETTOPARITÀ

EDUCAZIONE CIVICA

secondo le NUOVE Linee guida

837

Adelchi, atto V, scena VIII, vv. 336-362

4 I promessi sposi

840

1 La scelta del romanzo come “letteratura del vero” 840 2 Le fonti e i modelli letterari 841 3 Una storia redazionale lunga e tormentata 843 4 L’espediente dell’anonimo e lo statuto del narratore 846 5 La trama, gli itinerari della narrazione, il rapporto tra macrostoria e microstoria 847

XLIV INDICE


PER APPROFONDIRE Tempo del narrato e tempo della narrazione 850

6 Il sistema dei personaggi e la raffigurazione della società secentesca 851 7 L’ideologia del romanzo 852 8 La Storia della colonna infame: tra responsabilità individuali e silenzio della provvidenza 855 9 Le scelte linguistiche e stilistiche 858 PER APPROFONDIRE Una riflessione mai esaurita 860 T9 La voce narrante nei Promessi sposi 861 Alessandro Manzoni T9a «Quel ramo del lago di Como»: lo sguardo onnisciente del narratore 861 I promessi sposi, I online T9b Il narratore esibisce il proprio ruolo registico I promessi sposi, XI online T9c Il rapporto narratore-anonimo I promessi sposi, XXVII; XXXVIII online T9c1 La “scienza” di don Ferrante, erudito del Seicento I promessi sposi, XXVII online T9c2 Il sipario del romanzo si chiude I promessi sposi, XXXVIII

T10 I luoghi del romanzo e la rappresentazione dello spazio 864 LEGGERE T10a L’occhio del cuore e della memoria: «Addio, monti...» LE EMOZIONI 864 I promessi sposi, VIII online T10b La natura “umanizzata” (o la natura specchio): la fuga di Renzo I promessi sposi, XVII

T10c La valle e il castello dell’Innominato: un esempio di cronotopo 868 I promessi sposi, XX online T10d La natura senza idillio I promessi sposi, IV; XXXIII online T10d1 I segni della carestia I promessi sposi, IV online T10d2 La vigna di Renzo: una raffigurazione dichiaratamente simbolica I promessi sposi, XXXIII

T11 Gli inganni della parola e il potere sociale della lingua 871 T11a Renzo e don Abbondio: la subdola violenza del latinorum

EDUCAZIONE CIVICA

secondo le NUOVE Linee guida

871

I promessi sposi, II online T11b Renzo e l’Azzeccagarbugli I promessi sposi, III

PER APPROFONDIRE Gli inganni della lingua e gli ostacoli della comunicazione tra i ceti sociali nei Promessi sposi 875 T12 La logica oppositiva dei personaggi 876 online T12a Fra Cristoforo affronta don Rodrigo I promessi sposi, V-VI

T12b «Come un pulcino negli artigli del falco»: don Abbondio e il cardinale Federigo 877 I promessi sposi, XXV COLLABORA ALL’ANALISI online T13

Le “voci” della folla in rivolta e il giudizio del narratore

I promessi sposi, XII-XIII ANALISI PASSO DOPO PASSO

INDICE

XLV


T14 Il volto problematico della provvidenza e il «sugo di tutta la storia» 880 online T14a Il filo inaspettato (ma illusorio) della provvidenza:

il vecchio servitore di don Rodrigo

I promessi sposi, VI online T14b Una provvidenza dall’inaspettato volto turpe: Renzo e i monatti I promessi sposi, XXXIV

T14c La “peste-provvidenza” di don Abbondio 881 I promessi sposi, XXXVIII INTERPRETAZIONI CRITICHE

Ezio Raimondi Sul concetto di provvidenza nei Promessi sposi

882

T14d Il «sugo» della storia 883 I promessi sposi, XXXVIII online T15 Una scena “gotica”. La cavalcata infernale di don Rodrigo Fermo e Lucia, IV; IX online

5 La ricezione dei Promessi sposi

online 1

Un romanzo destinato a colpire l’immaginario collettivo

online 2

sacro e il profano: il romanzo tra riprese, trascrizioni, Il parodie e appropriazioni indebite

online 3

Manzoni e il Novecento: alcuni esempi

Sintesi con audiolettura 886 Zona Competenze 889 VERSO L’ESAME DI STATO

Tipologia A Analisi e interpretazione di un testo letterario italiano Alessandro Manzoni Una bellezza sbattuta, sfiorita e, direi quasi, scomposta 890 I promessi sposi, IX

online

Tipologia B Analisi e produzione di un testo argomentativo

XLVI INDICE

Lezione in PowerPoint Videolezioni La vita La produzione tragica: il Carmagnola e l’Adelchi I Promessi sposi Cronologia interattiva Carta interattiva dei luoghi Gallery Iconografia manzoniana Verso il Novecento Marguerite Yourcenar, Un imperatore di fronte alla morte: Adriano La letteratura dell’ordine opposta al caos del mondo La “lettura con la lente” di uno scrittore: Primo Levi

891

Interpretazioni critiche Umberto Eco Manzoni, narratore che crea un mondo Lanfranco Caretti La portata innovativa del romanzo manzoniano Audio e Video Brani video degli sceneggiati televisivi di Vittorio Gassman (1961) con lo stesso Gassman e di Orazio Costa (1974) con Gabriele Lavia Mappa interattiva Vite a confronto delle figure femminili nei Promessi sposi I promessi sposi: i personaggi Analisi interattiva Immagini interattive Audioletture


Seicento


2


Seicento

Scenari socio-culturali L’età del Barocco

LEZIONE IN POWERPOINT

Il Seicento è un’epoca di forte crisi segnata dall’instabilità ma anche da un profondo rinnovamento. La recessione economica, iniziata nella seconda metà del Cinquecento, si aggrava. L’Europa è dilaniata dalla guerra dei Trent’anni che ne ridefinisce la carta politica. Le scoperte scientifiche di Galileo Galilei contribuiscono all’affermazione della rivoluzione copernicana e allo sviluppo di una nuova concezione del mondo. Scoprire che la Terra non è al centro dell’universo è una ferita traumatica per l’orgoglio dell’umanità, che accentua il senso della vanità dell’esistenza umana. La cultura del Seicento è inoltre segnata dal crollo del paradigma aristotelico della conoscenza e dall’inizio della rivoluzione scientifica. Da questo mutamento di paradigma nasce la moderna idea di progresso. Nella produzione culturale e artistica si afferma un nuovo stile: il Barocco. Caratteristiche del Barocco sono il rifiuto dei modelli classici e di ogni tipo di regola, la ricchezza di decori e, in ambito letterario, di ingegnose metafore, volta a stupire il lettore. In campo linguistico l’aspetto più significativo è la scelta di Galileo e di altri scienziati a lui vicini di fare del volgare la lingua della scienza nascente.

1 La visione del mondo. Figure, luoghi e centri della cultura 2 Modelli del sapere e tendenze filosofico-scientifiche 3 Caratteri e forme della letteratura 4 L’evoluzione della lingua 3


Seicento Sguardo sulla storia Il quadro europeo L’aggravarsi della crisi economica e demografica La recessione economica, iniziata nella seconda metà del XVI secolo, si aggrava nel Seicento per molteplici fattori: dalla diminuzione della domanda delle merci e del loro prezzo al calo della produzione agricola e manifatturiera. Si verifica un crollo drastico della popolazione, causato dalle guerre, dalle carestie, dalle epidemie (devastanti quelle di peste). I ceti più deboli sono i più colpiti dalla crisi e vanno incontro a un grave impoverimento. La nascita delle compagnie commerciali Emerge però una situazione differenziata sulla base delle aree geografica coinvolte. Rispetto agli stati affacciati sul mar Mediterraneo, per i quali già nella seconda metà del Cinquecento era iniziata una fase di decadenza, gli stati che si affacciano sull’Atlantico sono invece favoriti dalle nuove rotte commerciali: con la nascita, prima in Inghilterra e in Olanda e in seguito in Francia, delle compagnie per lo sfruttamento delle colonie, lo sviluppo dei commerci rafforza i settori artigianali più qualificati e accresce il potere della borghesia mercantile, creando all’interno della compagine sociale una situazione dinamica. Monarchia assoluta e nuovi modelli politico-istituzionali La forma di governo dominante in questa fase è la monarchia assoluta, che assume nella Francia di Luigi XIV, il re Sole (1643-1715), l’espressione più compiuta, con la concentrazione di tutti i poteri nella persona del sovrano e la creazione di un nuovo apparato amministrativo borghese che esautora di fatto la nobiltà dal governo effettivo. In alcuni stati nello stesso periodo si affermano però nuove forme di governo, destinate a sostituire nel tempo il potere assoluto del sovrano. In Inghilterra, fallito nella prima metà del Seicento il tentativo degli Stuart di esautorare il Parlamento, dopo i conflitti politici e religiosi della rivoluzione guidata da Oliver Cromwell, si afferma con la seconda rivoluzione (1688) una monarchia costituzionale che sarà un modello per tutta Europa. L’Olanda, liberatasi dal dominio spagnolo, è protagonista di un rapido sviluppo economico e sociale che sostiene un modello politico repubblicano, basato sulla tolleranza religiosa e la libertà di pensiero.

Cronologia interattiva 1603

Fine del lungo regno di Elisabetta I d’Inghilterra.

1600

1600

Fondazione in Inghilterra della Compagnia delle Indie Orientali.

1610

1602

Fondazione della Compagnia olandese delle Indie Orientali.

4 Seicento Scenari socio-culturali

1618-1648

Guerra dei Trent’anni, all’inizio tra le forze cattoliche imperiali e i principi protestanti in Germania e successivamente con il coinvolgimento di tutti gli stati europei.

1620

1630

1630-1631

Diffusione della peste nel Ducato di Milano.

1642-1660

La rivoluzione inglese a opera del Parlamento contro il tentativo degli Stuart di attuare il potere assoluto; dopo il protettorato di Oliver Cromwell, tornano gli Stuart.

1640

1650 1648

Pace di Vestfalia, a conclusione della guerra dei Trent’anni: è confermata la pace di Augusta, con il riconoscimento della sovranità degli Stati a prescindere dalla fede religiosa; i sovrani si impegnano a rispettare le minoranze religiose.


La guerra dei Trent’anni e la nuova “carta” politica d’Europa Nella prima metà del Seicento la guerra dei Trent’anni (1618-1648), originata dai conflitti religiosi e dalla volontà di supremazia tra gli stati, devasta ampie zone d’Europa. Alla sua conclusione la pace di Westfalia (1648) ridefinisce i rapporti di potere nel vecchio continente, con la fine del ruolo egemone della Spagna, sostituito dal predominio politico della Francia e dell’Inghilterra. L’impero degli Asburgo risulta fortemente ridimensionato nel suo prestigio europeo e la Germania esce dal conflitto con un’economia distrutta e indebolita dalla divisione in una molteplicità di piccoli stati. La fine dei conflitti religiosi tra gli Stati e il perdurare dell’intolleranza La fase delle guerre di religione è chiusa ufficialmente dalla pace di Westfalia (1648), che ribadisce il principio del “cuius regio eius religio”, già sancito dalla pace di Augusta (1555), in base al quale i sudditi seguono la religione del loro sovrano, al quale è riconosciuta la libertà di scelta. Rispetto al trattato precedente viene inoltre stabilito il rispetto delle minoranze religiose. Continuano tuttavia a manifestarsi forme di intolleranza nei confronti di queste: in Francia nel 1685 la revoca da parte di Luigi XIV dell’editto di Nantes (che aveva concesso la libertà di culto agli ugonotti) causa l’esodo di circa duecentomila protestanti verso l’Europa settentrionale; l’anno successivo (1686) in Piemonte si compie uno sterminio dei valdesi. La decadenza della penisola In Italia la nuova realtà politica, segnata dal predominio della potenza spagnola sulla maggior parte della penisola, aggrava la situazione economica e sociale, compromessa dallo spostamento dei commerci dal Mediterraneo all’Atlantico e dalla crisi delle manifatture, a cui corrisponde il prevalere dell’attività agricola. Ne deriva un processo di concentrazione della proprietà fondiaria nelle mani di poche grandi famiglie, interessate ad avere una rendita senza preoccuparsi di modernizzare la produzione e di migliorare le condizioni di vita dei contadini. Anche nella Repubblica Veneta, tradizionalmente dedita all’attività mercantile, la terra diventa un bene rifugio per gli investimenti del patriziato cittadino. Nei primi decenni del Seicento la popolazione della penisola diminuisce drasticamente a causa delle carestie e delle epidemie di peste nei territori coinvolti nella guerra dei Trent’anni, in particolare nel milanese. Le condizioni di vita sono rese ancor più drammatiche dalla pesante politica fiscale di imposte indirette del governo spagnolo che colpisce i beni di consumo e quindi i ceti più poveri, determinando in alcuni casi sollevazioni popolari come la rivolta di Napoli del 1647, guidata dal popolano Masaniello. 1661

1685

Assunzione del potere da parte di Luigi XIV, dopo la reggenza del cardinale Mazzarino (dal 1643) e affermazione in Francia della monarchia assoluta.

1660

1670

Revoca dell’editto di Nantes a opera di Luigi XIV con abolizione dei diritti da questo riconosciuti agli ugonotti.

1680

1690

1700

1689

Seconda rivoluzione in Inghilterra: inizio del regno di Guglielmo III d’Orange e Maria II Stuart e affermazione della monarchia costituzionale.

Sguardo sulla storia  5


1

La visione del mondo. Figure, luoghi e centri della cultura 1 Un “cielo nuovo”

Due dei primi telescopi di Galileo (Firenze, Museo Galileo).

Galileo, il cannocchiale e la Luna Nel 1543, con la pubblicazione del De revolutionibus orbium caelestium l’ipotesi copernicana, che poneva il Sole al centro dell’universo e vedeva la Terra ruotare, con la Luna e gli altri pianeti, intorno ad esso, aveva innescato una serie di conseguenze che avevano iniziato a minare l’intero sistema cosmologico basato sulla concezione aristotelico-tolemaica. Tuttavia, più che con l’opera di Copernico, inizialmente conosciuta soltanto da una cerchia ristretta di studiosi (matematici, astronomi e scienziati), la nuova visione dello spazio celeste si impose con il Sidereus Nuncius (1610) di Galileo. Nel trattato lo scienziato pisano descrive le osservazioni astronomiche da lui effettuate con il cannocchiale: in particolare dimostra che la Luna era assai simile alla Terra, e dotata di una superficie irregolare, con valli, montagne, crateri (➜ C3 T1 ) smentendo inequivocabilmente l’idea che la Terra e gli astri fossero composti di materia differente, l’una caduca, l’altra perfetta ed eterna. Veniva così vanificata l’immagine di uno spazio cosmico disomogeneo e gerarchicamente ordinato, come lo si era concepito nel Medioevo, ed appariva sempre più plausibile l’ipotesi che la materia degli spazi terrestri e celesti fosse accomunata da leggi uniformi. Ipotesi poi confermata dalla teoria gravitazionale di Newton, che avrebbe unificato la spiegazione dei fenomeni terrestri e celesti. Inoltre il cannocchiale aveva rivelato la natura della Via Lattea come un agglomerato di stelle, troppo poco luminose per poter essere distinte a occhio nudo, aveva permesso di scoprire quattro satelliti di Giove, e molte stelle ancora sconosciute, rivelando così l’esistenza di un universo più ampio, vario e complesso di quanto si fosse potuto immaginare fino ad allora. Nel Sidereus Nuncius Galileo accompagna le sue osservazioni scientifiche con chiari disegni esplicativi, rendendo le questioni astronomiche finalmente accessibili anche a chi non fosse in possesso di una preparazione scientifica: un “cielo nuovo” si apriva così all’immaginazione dei contemporanei di Galileo, che ne riportarono un’impressione straordinaria, come provano molteplici testimonianze letterarie e artistiche dell’epoca. Ad esempio il poeta Marino (➜ C1) nell’Adone (canto X, ottave 39-40) fa descrivere da Mercurio il satellite terrestre con parole che riprendono quasi alla lettera la descrizione in latino nel Sidereus Nuncius (a dimostrazione della diffusione del trattato tra gli intellettuali anche non specialisti), facendole significativamente seguire da un elogio di Galileo e del suo telescopio:

6 Seicento Scenari socio-culturali


[...] Or io ti fo saver che quel pianeta1 non è, com’altri vuol, polito e piano2, ma ne’ recessi suoi profondi e cupi ha, non men che la terra, e valli e rupi. 40. La superficie sua mal conosciuta dico ch’è pur come la terra istessa, aspra, ineguale e tumida e scrignuta3, concava in parte, in parte ancor convessa. [...] 39.

1 quel pianeta: la Luna. 2 polito e piano: naturalmente levigato e liscio. Secondo la teoria aristotelica, i corpi celesti erano costituiti di materia perfetta e incorruttibile (etere o quintessenza). 3 tumida e scrignuta: rigonfia e fortemente incurvata.

L’idea di un universo infinito Una volta dimostrata l’inesistenza del “cosmo chiuso” della tradizione medievale, divenne accessibile all’immaginazione l’idea, affascinante e insieme sconcertante, di un universo infinito: un’ipotesi già formulata, nell’antichità, da Epicuro, e ripresa nel Quattrocento dal filosofo neoplatonico Cusano, ma che, una volta messo in crisi il modello cosmologico geocentrico, appariva ora maggiormente plausibile. La nuova immagine di un universo infinito suscitò opposte reazioni. Se Giordano Bruno (1548-1600) nella Cena delle ceneri (1584) l’aveva evocata entusiasticamente e aveva espresso lo slancio di un’immaginazione che, libera finalmente dai “ceppi” della concezione cosmologica tolemaica, spaziava negli infiniti spazi cosmici, compenetrata nella vita divina dell’universo, in altri, come il grande filosofo Blaise Pascal (1623-1662), produce invece un angoscioso smarrimento.

2 L’immagine dell’uomo e dell’esistenza: instabilità e mutamento

Anonimo francese, Vanitas, prima metà del XVII sec., Museo del Louvre, Parigi.

La scoperta dell’universale caducità Alla base della visione del mondo di questa epoca, che si riflette nell’arte e nella letteratura del Barocco, sta certamente lo sconvolgimento conoscitivo prodotto dal crollo del paradigma cosmologico geocentrico e dalla fine, in un breve arco di tempo, di secolari certezze: persino il mondo celeste, essendo del tutto simile a quello terrestre, contrariamente a quanto si era sempre creduto, è destinato a corrompersi e a decadere, così come è fugace e caduca ogni cosa terrena. Inevitabilmente si diffonde un senso di precarietà, di IMMAGINE INTERATTIVA

Un esempio del motivo della vanitas, tipico della pittura del Seicento, è un quadro conservato al Louvre, dipinto da un anonimo pittore francese del Seicento, in cui, su un fondo oscuro, emergono vari simboli del memento mori (in latino “ricorda che devi morire”, ovvero il monito a tenere presente la mortalità dell’essere umano): un teschio, che sembra guardare verso di noi, riflesso in uno specchio (simbolo dell’illusorietà e fugacità dell’esistenza), una borsa di denaro, delle carte da gioco aperte da un asso di cuori, una scacchiera (simboli di ricchezza e di fortuna), armi (che rappresentano la forza e il potere); e, d’altra parte, una chitarra con una corda rotta, dei libri chiusi, dei fiori recisi: la vita dell’uomo è trascorsa, lasciando poche, labili tracce. Tutto, si ricorda nel quadro, è destinato ad appassire, come i fiori recisi, e a svanire nel nulla, come la musica suonata dallo strumento ormai abbandonato. Gli stessi colori del quadro, dai toni pallidi e smorti, sottolineano la fugacità della vita, mentre la posizione obliqua e instabile dello specchio ne evidenzia la precarietà.

La visione del mondo. Figure, luoghi e centri della cultura 1 7


instabilità: emblema di tale visione è il motivo iconografico della vanitas, ricorrente, come si vedrà, nell’arte e nella letteratura, che ricorda attraverso immagini allegoriche (come le candele spente, le bolle di sapone, i fiori recisi) la fugacità della gloria mondana e l’incombere costante della morte. Si tratta di un tema radicato nell’immaginario del tempo anche in rapporto alla visione controriformistica che, in contrasto con la prospettiva laica propria del Rinascimento, svalutava la vita terrena e induceva a riflettere sui limiti dell’uomo, sulla transitorietà e insignificanza delle cose del mondo rispetto all’eterno. Non certo irrilevante, inoltre, è stata la tragica esperienza della peste: il quotidiano spettacolo di morti repentine ha certamente condizionato l’immagine dell’esistenza, ponendo in primo piano il tema della precarietà della vita umana e la presenza minacciosa della morte.

PER APPROFONDIRE

Il mondo come teatro Smarrito ogni senso di ordine e di armonia, il senso diffuso della mutevolezza investe l’identità stessa dell’uomo del Seicento: «Quando l’uomo di questa epoca tenta di definirsi, lo fa sempre in termini di instabilità, di fluidità, di fuga» (Rousset). Lo dimostra in modo esemplare l’opera del grande artista Gian Lorenzo Bernini (1598-1680): nelle sue sculture predilige la rappresentazione di miti incentrati sulla metamorfosi, come il celeberrimo gruppo scultoreo di Apollo e Dafne, e, secondo le testimonianze dell’epoca, aveva adottato un modo nuovo di ritrarre i suoi modelli: non fermi in posa, ma in movimento. Nella visione seicentesca della realtà non a caso domina l’equivalenza mondo-teatro: ciò che cade sotto i sensi può rivelarsi solo illusoria parvenza, “scenario teatrale” che può improvvisamente cambiare volto. Gli uomini stessi si scoprono “attori” che recitano una parte.

Il tema delle metamorfosi e il gusto barocco La metamorfosi è un elemento ricorrente nella letteratura, ma particolarmente congeniale al Barocco, che si impernia su una visione cangiante e mutevole del mondo. Tra metamorfosi e metafora, due modalità centrali dello stile barocco, esiste una stretta connessione. Ad esempio: se con una metafora, diciamo che un uomo crudele è una belva feroce, nell’immaginario delle metamorfosi, la trasformazione avviene realmente (un uomo crudele, Licaone, nelle Metamorfosi di Ovidio è trasformato in lupo); se un giovane è di una bellezza fresca e delicata, può subire negli antichi miti la trasformazione in un fiore (Narciso, che, innamorato della propria immagine, si specchia nell’acqua, è trasformato nel fiore omonimo, che ama l’acqua e inclina verso il basso il suo calice). Pur alludendo a mondi immaginari più complessi, lo stretto rapporto tra metamorfosi e metafora può essere evidenziato anche nella letteratura moderna, come nella trasformazione mostruosa del dottor Jekyll in mister Hyde del romanzo di Stevenson, o in quella surreale e simbolica di un uomo in scarafaggio nella Metamorfosi di Kafka. Il tema della metamorfosi, legato all’idea di un mondo instabile, in continuo divenire, trova un modello fondamentale nelle Metamorfosi di Ovidio, non a caso onnipresenti nell’arte e nella letteratura barocca. Anche nel Medioevo il poema ovidiano spesso era stato ripreso ma interpretato in un’ottica cristiana. Nella Divina Comme-

8 Seicento Scenari socio-culturali

dia i miti ovidiani, in un mondo ordinato da precise gerarchie dell’essere, assumono il significato di una salita e di una discesa nella scala dei viventi. Le trasformazioni di Pier della Vigna in albero e dei ladri in serpenti, nell’inferno, rappresentano la discesa dei dannati nella scala degli esseri. All’opposto, la metamorfosi del pastore Glauco nel paradiso è per Dante la rappresentazione figurata dell’accesso ad una dimensione superiore a quella umana, il «trasumanar». Nel mondo barocco, come in quello ovidiano, invece, non esistono gerarchie ontologiche (che cioè riguardano il divino), e la sola legge cosmica è l’universale incessante divenire.

Testi di riferimento: J. Rousset, La letteratura dell’età barocca in Francia. Circe e il pavone, Il Mulino, Bologna 1985; G.M. Anselmi, Metamorfosi, metafora e conoscenza nel Rinascimento, in AA.VV., Metafora e conoscenza, a c. di A.M. Lorusso, Bompiani, Milano 2005.


3 I valori e i modelli di comportamento Un’epoca in cui non si ride Proprio della visione controriformistica è il richiamo all’austerità del comportamento: ridere in questo periodo viene considerato inopportuno se non addirittura colpevole. Non è quindi certo casuale il fatto che, nei ritratti dell’epoca, si vedano personaggi austeri, spesso vestiti di nero, dai volti severi, raramente sorridenti. La” dissimulazione onesta” Una virtù caratteristica del secolo, oltre all’obbedienza assoluta ai dettami della Chiesa, è l’“onesta dissimulazione”, la prudenza e la riservatezza necessarie per sopravvivere in un’epoca priva di libertà e in cui, comunque, i comportamenti individuali erano soggetti a un rigido controllo. Il letterato Torquato Accetto (1600 ca. - 1640) nel trattato Della dissimulazione onesta (1641) cerca di delineare il sottile confine che intercorre tra la colpevole menzogna e le scelte necessarie per sopravvivere in un regime tirannico (➜ D1 ). Dall’“onesta dissimulazione” all’ipocrisia il passo è breve, e l’ipocrisia è presentata non a caso nella letteratura e nel teatro come uno dei vizi del secolo: ad esempio nel Don Giovanni di Molière (➜ C12 OL), a un certo punto il protagonista spiega al servo Sganarello di voler assumere la maschera dell’ipocrita, “di moda” in quell’epoca: «l’ipocrisia è una moda; e tutti i vizi di moda passano per virtù. Il personaggio del virtuoso è dunque il migliore che si possa oggigiorno recitare e come professione quella dell’ipocrita offre vantaggi sorprendenti».

IMMAGINE INTERATTIVA

La scultura di Bernini evidenzia la nuova concezione della forma del Barocco, non statica, ma in movimento: colta in un momento che è una fase momentanea di un incessante divenire. Il corpo di Apollo esprime il dinamismo della corsa, improvvisamente bloccata, con un moto di stupore evidenziato dal braccio che non si protende per afferrare, ma sembra di colpo ritrarsi. Dafne è colta nel pieno della metamorfosi: la spinta in avanti della corsa è bloccata e il corpo sembra improvvisamente stirarsi verso l’alto, mentre le forme umane, a partire dalle estremità, trapassano in quelle vegetali. Lo spettatore non ha di fronte la rigidità di una statua, ma l’immagine di un rapido divenire, ed è indotto egli stesso a girare intorno alla statua, che da ogni angolazione presenta un aspetto diverso. Gian Lorenzo Bernini, Apollo e Dafne, 1623-25 (Roma, Galleria Borghese).

La visione del mondo. Figure, luoghi e centri della cultura 1 9


Parola chiave

Il culto dell’onore e l’epoca dei duelli Tra la seconda metà del Cinquecento e il Seicento la classe aristocratica assume nuovamente un ruolo preminente nell’ordine sociale. Per questo fenomeno si parla di “rifeudalizzazione”, anche perché la crisi commerciale del Mediterraneo, dovuta alle nuove rotte atlantiche, deprime i commerci, favorendo gli investimenti in possedimenti terrieri. Il ruolo dei nobili di quest’epoca è però totalmente diverso da quello medievale quando la cavalleria aveva un’importante funzione militare, in seguito vanificata dall’invenzione delle armi da fuoco. Perduta l’originaria funzione, per legittimare la loro superiorità i nobili danno grande importanza ai loro titoli e assumono un contegno contrassegnato dal fasto, dall’alterigia e, spesso, dalla violenza. Proprio come li ritrae Manzoni nei Promessi sposi, usavano circolare per le strade sempre armati di spada, circondati dai loro “bravi”; le questioni di etichetta diventano fondamentali, e non essere trattati in modo conforme al proprio rango nobiliare diviene un’offesa da riparare con il sangue, come testimoniano innumerevoli opere romanzesche e teatrali del tempo. Ne è un esempio il Cid di Corneille (➜ C2 T1 OL). Il Seicento è dunque l’epoca dei duelli, considerati non soltanto legittimi per dirimere ogni questione controversa, ma addirittura doverosi. Neppure la Chiesa condannava con decisione tale pratica: il filosofo Blaise Pascal denunciava l’ipocrisia dei gesuiti, ricordando come essi tentassero di giustificare i duelli tra nobili con pretestuose sottigliezze dialettiche, sostenendo che i delitti commessi per ragioni d’onore potevano essere perdonati da Dio.

onore Nella gerarchia dei valori del secolo ha un posto di primo piano l’onore. Però, diversamente che in passato, quando era legato all’adempimento dei doveri imposti dal proprio ruolo (soprattutto il coraggio per chi combatte, senza il quale si è disonorati), ora l’onore dipende dal riconoscimento altrui. Nel Seicento i titoli nobiliari sono puntigliosamente esibiti ed è

necessario che gli altri li riconoscano nel loro prestigio. Quando ciò non avviene, l’onore deve essere tutelato, e chi ha mancato di rispetto deve essere punito: se nobile con una sfida a duello, se plebeo con un’azione esemplare degli sgherri e dei “bravi”. I duelli e le violenze imposte dal codice stesso di comportamento nobiliare segnarono il costume di tutta un’epoca.

Torquato Accetto

D1

Una “legittima difesa” da un potere dispotico: l’“onesta dissimulazione”

LEGGERE LE EMOZIONI

EDUCAZIONE ALLE RELAZIONI

Della dissimulazione onesta Politici e moralisti del Seicento, a cura di B. Croce e S. Caramella, Bari, Laterza, 1930

Torquato Accetto, letterato napoletano vissuto nella prima metà del Seicento, ha legato il suo nome a un trattato uscito nel 1641, Della dissimulazione onesta, in cui delinea una strategia difensiva per evitare le più gravi conseguenze del dispotismo.

La frode è proprio mal dell’uomo, essendo la ragione il suo bene, di che quella è abuso1; onde nasce ch’è impossibile di trovar arte alcuna che la riduca a segno di poter meritar lode2. Pur si concede talor il mutar manto per vestir conforme alla stagion della fortuna3, non con intenzion di fare, ma di non patir4 danno, ch’è quel 5 solo interesse col quale si può tollerar chi si vuol valere della dissimulazione, che 1 La frode… abuso: riferimento a un verso dantesco, «Ma perché frode è de l’uom proprio male, / più spiace a Dio» (Inferno XI 25-26). Il senso è che la frode è un cattivo uso della ragione, che perverte la dote migliore dell’uomo.

10 Seicento Scenari socio-culturali

2 onde… lode: di qui deriva che è impossibile trovare alcun modo di giustificarla, tanto da poterla lodare. 3 Pur si concede… fortuna: tuttavia, pur senza esercitare la frode (che è a danno degli altri), è lecito qualche volta dissimu-

lare, per assumere un’apparenza adatta ai tempi. L’autore indica la dissimulazione con la metafora di un manto, che non lascia trasparire quanto in certi tempi può essere motivo di ostilità o di persecuzione. 4 patir: subire.


però non è frode; e anche in senso tanto moderato5, non vi si dee poner mano6 se non per grave rispetto7, in modo che si elegga8 per minor male, anzi con oggetto di bene9. Sono10 alcuni che si trasformano con mala piega di non lasciarsi mai intendere11; e, spendendo questa moneta con prodiga mano12 in ogni picciola occorrenza13, 10 se ne trovano scarsi dove più bisogna14, perché, scoperti e additati per fallaci15, non è chi loro creda. Questo è per avventura il più difficile in tal’industria16, perché, se in ogni altra cosa giova l’uso continuo, nella dissimulazione si esperimenta il contrario, poi che il dissimular sempre mi par che non si possa metter in pratica di buona riuscita. È, dunque, dura impresa il far con arte perfetta quello che non si 15 può esercitar in ogni occasione. 5 in senso tanto moderato: in senso tanto ristretto, utilizzandola cioè non per recare danno, ma per non subirne. 6 non vi si dee… mano: non vi si deve ricorrere. 7 rispetto: motivo. 8 si elegga: si scelga (di utilizzarla).

9 con oggetto di bene: con uno scopo benefico. 10 Sono: ci sono. 11 si trasformano… intendere: fingono, con la cattiva abitudine di non farsi mai comprendere. 12 spendendo… mano: la metafora indica

che queste persone usano mentire con grande frequenza (prodiga, “generosa”). 13 in ogni picciola occorrenza: anche in questioni poco importanti. 14 bisogna: è necessario. 15 fallaci: menzogneri. 16 industria: abilità, arte.

Concetti chiave La differenza tra “onesta dissimulazione” e frode

La tesi dell’autore, espressa con un periodare tortuoso, specchio della delicatezza dell’argomento trattato, è che in certe particolari circostanze può essere utile non dire tutta la verità, a patto che la dissimulazione non danneggi nessuno e non diventi una regola di vita. Si potrebbe ricordare che nel Principe Machiavelli suggeriva di saper «essere gran simulatore e dissimulatore» (cap. XVIII). Sebbene il trattato secentesco mostri l’influenza dello storico fiorentino, se ne discosta sul piano etico, distinguendo i casi in cui si può operare la dissimulazione (perché non danneggerebbe nessuno) da quelli in cui sarebbe da condannare (perché rivolta a intenzioni dannose verso il prossimo). Inoltre, a differenza di Machiavelli, Accetto non rivolge il suo scritto a chi detiene il potere o aspira ad averlo, ma a chi lo subisce, sperimentandone il volto tirannico. L’“onesta dissimulazione” si distingue dunque dalla frode, perché, lungi dall’istigare alla menzogna o alla doppiezza, mira a contenere i danni della cattiva condotta altrui.

L’attualità del trattato

Il Seicento non fu l’unico periodo in cui si apprezzò il valore dell’“onesta dissimulazione”. L’opera di Torquato Accetto venne scoperta e pubblicata da Benedetto Croce nel 1928, durante il periodo fascista, e apparve illuminante a un intellettuale che, come Croce, non volle mai cedere al fascismo, ma preferì esercitare la sua opposizione in modo prudente e misurato, senza gesti clamorosi, riuscendo a evitare le persecuzioni del regime e a risultare, nello stesso tempo, un punto di riferimento fondamentale per gli antifascisti.

Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

COMPRENSIONE 1. Perché Torquato Accetto definisce «onesta» la dissimulazione? ANALISI 2. Secondo quanto è detto nel brano, la «dissimulazione onesta» coincide con la frode (rr. 2-3)? STILE 3. Evidenzia le metafore del brano, spiegandone il significato.

Interpretare

LEGGERE LE EMOZIONI

EDUCAZIONE ALLE RELAZIONI

ESPOSIZIONE ORALE 4. Sei d’accordo con quanto l’autore del brano esprime in merito all’importanza della dissumulazione per non subire danni o ne dissenti in tutto o in parte? In entrambi i casi argomenta la tua risposta.

La visione del mondo. Figure, luoghi e centri della cultura 1 11


4 Il ruolo dell’intellettuale Il perdurante influsso della Controriforma e il drammatico problema della libera espressione del pensiero Nel corso del Seicento l’influsso della Controriforma permea in Italia ogni aspetto della vita e della cultura, grazie a un’azione capillare di propaganda (che investe anche l’ambito artistico), al rilancio dell’educazione cattolica, affidate entrambe all’ordine dei gesuiti, e al perfezionamento di un sistema repressivo della libertà di pensiero molto efficiente, attraverso l’Inquisizione (in cui i domenicani ebbero ruoli di primo piano) e la Congregazione dell’Indice, pronte a censurare ogni voce dissidente (o presunta tale). Nel clima opprimente della Controriforma, la maggior parte degli intellettuali rinuncia così ad un’azione critica, sceglie la “dissimulazione” prudente delle proprie idee e spesso si limita a pubblicare all’estero le proprie opere (è il caso dell’Adone di Marino, il maggior poeta del tempo, pubblicato in Francia nel 1623). Gli intellettuali dissidenti Ma non mancano intellettuali “dissidenti”, afferenti soprattutto all’ambito filosofico-scientifico, che avvertono la responsabilità del loro ruolo e si battono per difendere la libera espressione del pensiero e per riportare l’umanità ai giusti valori. Per lo più essi pagano a caro prezzo la loro indipendenza: da Giordano Bruno, la cui morte sul rogo come eretico (1600) apre emblematicamente il secolo, a Tommaso Campanella (1568-1639), che passa in carcere la maggior parte della sua vita, a Galileo, costretto alla resa umiliante dell’abiura (cioè la rinuncia sotto giuramento alle idee in cui credeva). In un sonetto, che riportiamo, Campanella presenta significativamente come inevitabile approdo dei sostenitori del libero pensiero il carcere (➜ D2 ) Altra figura di intellettuale critico, appartenente però all’ambito della storiografia, è quella di Paolo Sarpi, sostenitore dell’autonomia tra stato e Chiesa e autore dell’Istoria del Concilio tridentino, da lui considerato l’esito della grave decadenza della Chiesa. Giordano Bruno Giordano Bruno può essere considerato un eroe del libero pensiero. Frate domenicano, inizia ben presto a manifestare uno spirito indipendente e ribelle e viene perciò denunciato all’Inquisizione. Dopo un primo processo, abbandona Napoli e inizia una vita errabonda, che lo conduce in diversi paesi europei (Svizzera, Francia, Inghilterra, Germania). Le nuove prospettive aperte dalla rivoluzione copernicana lo entusiasmano, ma, andando oltre Copernico, ipotizza che l’universo sia infinito. Le sue teorie sono considerate sospette dall’Inquisizione, che avvia un procedimento nei suoi confronti. Il processo, iniziato a Venezia nel 1592, in seguito a una denuncia del patrizio veneziano Giovanni Mocenigo (che lo aveva ospitato, ma era poi entrato in conflitto con il filosofo), dall’anno seguente prosegue a Roma presso il Sant’Uffizio. Giordano Bruno è inizialmente fiducioso nel dialogo e nella forza delle idee: cerca perciò di confrontarsi intellettualmente coi teologi del Sant’Uffizio, ma alla fine, dopo un processo durato otto anni, è posto di fronte a un aut-aut, l’abiura o la condanna a morte. Considerando la dignità del proprio pensiero più importante della vita stessa, il filosofo sceglie la condanna a morte. Condannato al rogo, sarà giustiziato nel febbraio del 1600 a Campo de’ Fiori a Roma, dove ancor oggi, a ricordo della sua eroica difesa della libertà di pensiero, campeggia una sua statua. Quel giorno non potrà dire nulla alla folla riunita per assistere all’esecuzione, perché la sua libertà di parola, temuta dagli inquisitori, sarà impedita bloccandogli la lingua con una morsa.

12 Seicento Scenari socio-culturali


Le sue rivoluzionarie teorie cosmologiche sono esposte in tre dialoghi in volgare scritti nel 1584: La cena de le ceneri, De la causa, principio et uno e De l’infinito universo et mondi, in cui Bruno non solo sostiene la teoria copernicana, ma anche l’infinità dello spazio cosmico e l’esistenza di innumerevoli mondi. Sempre in volgare sono i tre dialoghi morali: Spaccio de la bestia trionfante, Cabala del cavallo Pegaseo e De gl’heroici furori. Particolarmente significativa è l’esaltazione dell’”eroico furore”, inteso come passione conoscitiva che porta l’uomo a comprendere la forza inesauribile e creativa della natura. Giordano Bruno è anche autore della commedia Il Candelaio. Tommaso Campanella Tommaso Campanella nelle sue numerose opere, scritte per lo più in carcere, conduce una coraggiosa battaglia per illuminare le coscienze dei contemporanei, convinto, sulla scia di Dante, della missione profetica dell’intellettuale. Nato nel 1568 a Stilo, un paese della Calabria da una famiglia povera (il padre, analfabeta, era calzolaio), Campanella entra, ancora adolescente, nell’ordine domenicano e inizia ben presto a peregrinare per l’Italia. Animato da un’intensa religiosità, denuncia senza esitazioni la Chiesa controriformistica, accusandola di aver tradito il compito affidatole da Dio. Gli interessi di Campanella spaziano dall’astrologia alla magia, dalla filosofia naturalistica di Telesio al modello cosmologico copernicano, tutti campi allora “sospetti” del pensiero; viene perciò ben presto accusato di eresia ed è più volte arrestato e imprigionato (anche a Roma nelle carceri del Sant’Uffizio). Tornato in Calabria, partecipa a una congiura contro il dominio degli spagnoli e della Chiesa, volta a instaurare una maggiore giustizia sociale. Arrestato e tradotto nelle carceri di Napoli nel 1599, Campanella riesce a evitare la pena di morte fingendosi folle, nonostante le reiterate torture. Resta nelle carceri napoletane ben ventisette anni, durante i quali scrive molte opere: trattati filosofici, politici e anche poesie di carattere filosofico-religioso, in cui si avverte la lezione di Dante. Fra tutte le opere spicca il trattato utopico La Città del Sole (➜ C5 OL), che amici fidati riescono a diffondere e a far pubblicare, nella versione latina, nel 1623 (e quindi, a Parigi, nel 1637). Rimesso in libertà nel 1626, si reca a Roma, dove, dopo essere stato di nuovo arrestato, riesce a ottenere la protezione di papa Urbano VIII, interessato alle sue dottrine astrologiche. Qualche anno dopo, su consiglio dello stesso papa, fugge in Francia dove è accolto con favore dal re, e dove rimane fino alla morte, nel 1639.

Sguardo sul cinema Giordano Bruno, il film Il film Giordano Bruno di Giuliano Montaldo (1973) racconta gli ultimi nove anni della vita del filosofo, presentato nella sua complessa umanità, in un’interpretazione dell’attore Gian Maria Volonté di grande forza espressiva. Contribuisce all’efficacia del film la splendida fotografia, che sottolinea il contrasto tra la sontuosità barocca degli ambienti aristocratici veneziani e della curia vaticana, e l’aspra durezza delle carceri dell’Inquisizione. Anche nella parte iniziale del Galileo di Liliana Cavani (1968) è rappresentata suggestivamente la figura di Giordano Bruno. Una scena significativa è quella in cui si immagina un colloquio tra Bruno e Galileo, quando entrambi si trovavano nello stato veneziano, in cui se ne mettono in luce affinità e differenze.

Fotogramma dal film Giordano Bruno di Giuliano Montaldo.

La visione del mondo. Figure, luoghi e centri della cultura 1 13


Tommaso Campanella

D2

Al carcere I sonetti

T. Campanella, Le poesie, a c. di F. Giancotti, Einaudi, Torino 1998

Tema del sonetto è la condizione del pensatore libero nel periodo della Controriforma e l’orrore delle carceri del Sant’Uffizio. Di incerta datazione, è probabilmente da riferire al breve periodo (1594-1595?) in cui Campanella, arrestato per eresia, fu imprigionato a Roma insieme a Giordano Bruno, Francesco Pucci e altri pensatori liberi.

Come va al centro ogni cosa pesante dalla circonferenza1, e come ancora in bocca al mostro, che poi la devora, 4 donnola incorre timente e scherzante2; cosí di gran scienza ognuno amante, che audace passa dalla morta gora al mar del vero, di cui s’innamora, 8 nel nostro ospizio alfin ferma le piante.3 Ch’altri l’appella antro di Polifemo, palazzo altri d’Atlante, e chi di Creta 11 il laberinto, e chi l’Inferno estremo (ché qui non val favor, saper, né pièta), io ti so dir4; del resto, tutto tremo, 14 ch’è ròcca sacra a tirannia segreta5.

La metrica: Sonetto con schema ABBA ABBA CDC DCD. 1 Come… circonferenza: come ogni oggetto pesante tende a cadere dalla superficie verso il centro della terra. 2 come… scherzante: come la donnola corre per istinto naturale (perciò timente, “timorosa”, ma anche scherzante, quasi spensierata) nelle fauci del rospo, da cui è attratta, e che poi la divora. La credenza

in misteriose “simpatie” naturali tra esseri diversi, di cui Campanella parla nel libro Senso delle cose, è propria della magia naturale, di cui Campanella era seguace. Le due similitudini sottolineano l’inevitabilità delle persecuzioni per chiunque ricercasse la verità nel periodo oscuro della Controriforma. 3 cosí… piante: così ogni amante della conoscenza che, con coraggio, passi dalla morta palude (gora) delle opinioni im-

poste dalla Chiesa, al mare aperto della verità, di cui si innamora, termina inevitabilmente il suo cammino nel luogo che ci ospita (il carcere del Sant’Uffizio). L’espressione morta gora (“fossato d’acqua paludosa e stagnante”) è tratta dall’Inferno dantesco (VIII 31, in riferimento alla palude Stigia) e anticipa le immagini di luoghi infernali rappresentati nelle terzine. 4 Ch’altri… dir: perché io ti so dire che alcuni chiamano questo luogo antro di Polifemo, altri palazzo di Atlante, altri labirinto di Creta (in cui era rinchiuso il Minotauro), altri il profondo dell’inferno (perché qui non esistono benevolenza, sapienza né pietà). I luoghi mitici e immaginari, enumerati con un climax che significativamente giunge fino all’inferno, suggeriscono un senso di smarrimento, di chiusura e di oppressione. 5 del resto… segreta: per il resto, tremo nel parlarne, perché (il carcere) è la roccaforte di una misteriosa tirannia. Campanella vuole suggerire che il carcere del Sant’Uffizio non è consacrato al bene, e perciò a Dio, ma al male, e perciò al suo avversario, il demonio.

Concetti chiave Il carcere del Sant’Uffizio, convegno di spiriti liberi e luogo infernale

Nella prima parte del sonetto, costituita dalle quartine, attraverso due similitudini, l’una tratta dall’osservazione della natura (la pietra che cade verso terra), l’altra dalla concezione magica delle “simpatie occulte” (la donnola attratta dal rospo), l’autore vuole evidenziare come il carcere del Sant’Uffizio fosse l’inevitabile approdo di chi aspirasse ai vasti e liberi orizzonti della verità. Nelle terzine, immagini tratte dalla letteratura e dal mito mettono in luce le connotazioni “infernali” delle carceri dell’Inquisizione, delineando la rappresentazione claustrofobica di un luogo chiuso, oppressivo, sepolto nelle profondità della terra, fortificato (rocca), alla cui potenza tirannica non si sfugge.

14 Seicento Scenari socio-culturali


La simbologia dello spazio

Il contrasto fra l’intellettuale libero e il potere tirannico è evidenziato dalla simbologia dello spazio, caratterizzata da marcate opposizioni: all’orizzonte aperto e libero del pensiero, il mar del vero, la cui vastità è resa dall’enjambement dei vv. 6-7 e dall’aggetivo audace in apertura di verso, a suggerire lo slancio di una navigazione verso lontani orizzonti, si contrappone l’angustia della morta gora delle opinioni imposte dalla Chiesa: un sapere morto, limitato da angusti confini.

Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

PARAFRASI 1. Fai la parafrasi della poesia. STILE 2. I temi della poesia sono espressi attraverso metafore legate a immagini concrete: indica in modo schematico le metafore del sonetto, evidenziando il rapporto con i temi.

Interpretare

COMPETENZA DIGITALE 3. Fai una ricerca sui rimandi letterari presenti nel sonetto e condividi i risultati della ricerca in classe.

online D3 Tommaso Campanella A certi amici I sonetti

città in conflitto: Roma, città dei papi, e Venezia, “porta 5 Due dell’Italia verso l’eresia” Roma barocca, centro di potere e di cultura Nel Seicento, come già fin dalla seconda metà del Cinquecento, Roma e Venezia si confermano due poli in contrapposizione. Roma è la capitale di una Chiesa cattolica sempre più simile a una monarchia assoluta. La stessa configurazione urbanistica della città tende in quest’epoca a sottolineare tale ruolo attraverso una sfarzosa e scenografica architettura barocca, dove spicca il colonnato di piazza San Pietro, il cui significato ideologico è sintetizzato dall’autore, Gian Lorenzo Bernini (1598-1680): «essendo San Pietro quasi matrice di tutte le chiese, doveva haver un portico che dimostrasse di ricevere a braccia aperte maternamente i cattolici per confermarli nella credenza, gli heretici per riunirli alla Chiesa, e gli infedeli per illuminarli alla vera fede». La città eterna in quest’epoca si consolida come centro di potere e di cultura, dove hanno sede non solo le istituzioni legate alla Chiesa, come il Sant’Uffizio e il Collegio romano dei gesuiti, ma anche l’accademia dei Lincei e, più tardi (dal 1690), quella dell’Arcadia. Venezia: da «porta dell’Italia verso l’eresia» a capitale dell’edonismo A Roma si contrappone Venezia: fin dal periodo della Riforma, Venezia era considerata «la porta dell’Italia verso l’eresia» (Ricci), la città più aperta ai contatti con i protestanti. Nella città lagunare si potevano trovare facilmente libri proibiti; nei salotti veneziani, in cui intervenivano anche numerosi intellettuali europei, si discuteva con una La visione del mondo. Figure, luoghi e centri della cultura 1 15


libertà impensabile nelle altre città italiane. Non sorprende perciò che Venezia si sia posta più volte in contrasto con la Chiesa romana, fino ad arrivare a un vero e proprio scontro, la cosiddetta “contesa dell’interdetto”, tra il 1606 e il 1607, che fece persino temere il passaggio di Venezia al campo protestante. La “contesa dell’interdetto” All’origine della contesa è il tentativo del papa Paolo V di limitare l’indipendenza della Repubblica di Venezia, contestando l’emanazione da parte di quest’ultima, tra il 1604 e il 1605, di leggi che impedivano di costruire chiese o di cedere beni a ordini religiosi senza l’autorizzazione del Senato veneziano, e soprattutto l’arresto, disposto dai magistrati veneziani, di due ecclesiastici, accusati di reati comuni. Il papa intimò a Venezia di annullare tali disposizioni e di consegnare i due religiosi alla Santa Sede. Al netto rifiuto del governo veneziano, Roma rispose con la scomunica e l’interdetto, ossia il divieto di celebrare funzioni religiose nel territorio. Come difensore, Venezia scelse Paolo Sarpi, frate appartenente all’ordine dei Serviti, uomo di legge e sostenitore convinto del dialogo e della libertà di coscienza. Venezia capitale del divertimento Quando la frattura fu ricomposta, Venezia abbandonò quasi del tutto le aspirazioni al rinnovamento religioso, ma non quelle alla libertà. Assunse allora i caratteri di una gaudente capitale dell’edonismo, così attraente per i viaggiatori da essere denominata la «calamita d’Europa». In questo periodo Venezia scoprì la sua vocazione per il teatro, che tanti frutti avrebbe dato nel secolo successivo. Nel 1637 vi si aprì il primo teatro pubblico a pagamento, il San Cassiano. Alla fine del secolo i teatri sarebbero stati almeno diciotto.

Veduta di Venezia, incisione di Hogenberg e Braun dal Civitates Orbis Terrarum, 1571-1617.

Paolo Sarpi e l’Istoria del Concilio tridentino Paolo Sarpi, veneziano (1552-1623), apparteneva all’ordine dei frati serviti. Uomo di vastissima cultura, esperto di teologia e di diritto, era consulente della Repubblica di Venezia e in questo ruolo stese vari rapporti consultivi. In occasione del conflitto con la Curia pontificia, Sarpi, che credeva fermamente nell’autonomia dello Stato dalla Chiesa, difese con grande vigore la Repubblica veneziana dall’ingerenza della Curia romana. Nonostante la protezione del Senato veneziano, subì diversi attentati e, nel 1607, venne scomunicato. Dopo che la contesa venne risolta, Sarpi tradusse la sua visione etico-religiosa nell’Istoria del Concilio tridentino (➜ D4 OL), un trattato in otto libri pubblicato nel 1619 in Inghilterra con lo pseudonimo di Pietro Soave Polano. Per le idee espresse l’opera venne immediatamente messa all’Indice. L’Istoria del Concilio tridentino ricostruisce in modo analitico, sulla base dei documenti, le vicende che portarono al Concilio di Trento e il suo svolgimento fino alla conclusione del Concilio stesso. Si tratta di un testo “militante” in un duplice senso: alla base dell’opera sta una grande passione etico-religiosa e in essa la lettura dei fatti è soggetta alla tesi che Sarpi vuole sostenere. Per lo storico veneziano il Concilio è stato un’operazione fallimentare perché fin dall’inizio la Chiesa

16 Seicento Scenari socio-culturali


cattolica, ormai lontana dallo spirito evangelico che avrebbe dovuto ispirarla, si era proposta di condannare la riforma protestante e di ribadire l’autorità assoluta del papa e della Chiesa di Roma sui credenti. Non gli ideali religiosi, ma la ragion di Stato, la volontà di mantenere e accrescere il potere temporale della Chiesa, hanno agito, secondo Sarpi, nelle vicende conciliari. Nonostante la vis polemica che lo stimola a scrivere, Sarpi utilizza uno stile controllato, rigorosamente razionale, lontano dall’enfasi propria di molta prosa barocca.

6 I centri della cultura Il declino della corte e la crisi dell’università Nel corso del Seicento, anche in rapporto alla grave crisi politica ed economica che investe l’Italia, le corti perdono sempre più il ruolo di centri propositivi di modelli culturali capaci di influenzare la visione del mondo, come era stato l’Umanesimo, e assumono il volto di complesse strutture burocratiche che necessitano di efficienti (e obbedienti) funzionari o di tecnici, più che di intellettuali creativi e autonomi. A loro volta le università cadono in un rigido conformismo, rinunciano, anche in rapporto al plumbeo clima controriformistico, a sviluppare la ricerca intellettuale e si limitano a custodire e tramandare un sapere acquisito una volta per tutte, fondato, in ambito filosofico-scientifico, sul dogmatico rispetto dei testi di Aristotele. Il proliferare delle accademie Per tutto il Seicento l’Italia vede la nascita di innumerevoli accademie, non solo nelle grandi città, ma anche in centri minori. Il fenomeno può essere spiegato con il bisogno, avvertito dagli uomini di cultura, di ritrovarsi in ambienti riservati solo agli adepti, in cui poter dialogare lontano dalle pretese e dal controllo del potere. I soci delle accademie assumevano nomi fittizi, usavano linguaggi cifrati e rispettavano minuziose regole sugli argomenti da trattare (nella maggior parte dei casi erano programmaticamente esclusi campi pericolosi come la teologia o la politica). Limite delle accademie letterarie, a parte rarissimi casi, fu l’autoreferenzialità, cioè il fatto che i destinatari dei contenuti prodotti coincidessero con i produttori dei medesimi, senza che fosse previsto uno scambio con l’esterno, un confronto reale. Il ruolo delle accademie scientifiche nella costruzione di un nuovo sapere Nel Seicento acquistano particolare rilevanza le accademie scientifiche. La più importante fu l’Accademia dei Lincei, fondata a Roma nel 1603, di cui fu membro anche Galileo (fu proprio l’Accademia a pubblicare nel 1623 il Saggiatore): il nome Lincei, riferito allo sguardo acuto e penetrante della lince, rappresenta il programma di ricerca dell’accademia, ossia l’intento di cogliere i segreti più nascosti della realtà. A Firenze, nel 1657, fu fondata da allievi di Galileo l’Accademia del Cimento, con l’obiettivo di mantenere vivo e proseguire l’insegnamento del grande scienziato. Ne fecero parte figure importanti di naturalisti e medici, come Francesco Redi, Marcello Malpighi e Lorenzo Magalotti. online D4 Paolo Sarpi Le speranze deluse dal Concilio di Trento Istoria del Concilio tridentino, Proemio

La visione del mondo. Figure, luoghi e centri della cultura 1 17


I LUOGHI DELLA CULTURA

Le accademie scientifiche Nel Seicento un luogo di aggregazione fondamentale per gli intellettuali sono le accademie, tra le quali acquistano particolare rilevanza le accademie scientifiche, come quella del Lincei, fondata a Roma nel 1603. Le accademie scientifiche in quest’epoca sono un luogo di cultura contrapposto alle università: se queste infatti erano rivolte alla divulgazione di un sapere già acquisito, le accademie miravano a uno sviluppo costante delle conoscenze; inoltre, mentre la cultura universitaria era fondata prevalentemente su libri, quella delle accademie dava spazio all’osservazione diretta e alla sperimentazione, avvalendosi dei nuovi

strumenti allora inventati, quali cannocchiali e microscopi. Le accademie erano anche dotate di laboratori, giardini botanici, raccolte museali, fondamentali per un sapere vivo e in continua evoluzione, costruito sull’osservazione diretta e sulla sperimentazione. Nelle università il rapporto tra docente e discepoli era asimmetrico e gerarchico, mentre nelle accademie era fondato sulla parità e sulla collaborazione reciproca. Anche i libri prodotti dalle accademie erano di tipo nuovo: erano infatti arricchiti da illustrazioni precise e dettagliate e scritti con un linguaggio adatto alla comunicazione scientifica, chiaro, univoco e preciso.

Tavole illustrate corredavano i volumi dell’accademia dei Lincei: ne sono esempio il Tèsoro messicano, con illustrazioni di piante e animali scoperti nelle nuove terre americane, e il Persia tradotto in verso sciolto e dichiarato, pubblicato nel 1630, una traduzione e commento delle Satire del poeta latino Persio, accompagnata da tavole illustrative, tra le quali una dedicata alle api, importante perché costituisce iI primo esempio di illustrazione ricavata da un’analisi al microscopio con la riproduzione dei singoli particolari dell’insetto in scala ingrandita.

università

accademie

• sapere già assodato • strumento principale: i libri • rapporto gerarchico • lingua della comunicazione: il latino

• sapere da costruire • vari strurnenti: libri, ma anche telescopi, microscopi, giardini botanici... • rapporto paritario • lingua della comunicazione: italiano

18 Seicento Scenari socio-culturali


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Modelli del sapere e tendenze filosofico-scientifiche il principio di autorità: la ricerca del metodo e la nascita 1 Contro della scienza

online

Mappa interattiva Le scoperte scientifiche nella dimensione europea

Una nuova concezione, antidogmatica e dinamica, e del sapere Nel Seicento al modello culturale imposto dai gesuiti, fondato sul principio di autorità, si contrappone una nuova idea del sapere che è alla base della rivoluzione scientifica e che viene sostenuta da filosofi e scienziati del tempo (in questo periodo filosofia e scienza non sono ancora nettamente distinte, ma si avviano ad esserlo), accomunati da un’ottica razionalistica e dal desiderio di rifondare, secondo nuovi principi metodologici, l’approccio alla conoscenza della realtà. Essi rifiutano il principio di autorità, il dogmatismo, respingono l’idea medievale di una verità data una volta per tutte, contrapponendole una concezione del sapere come ricerca inesauribile, le cui acquisizioni sono destinate a essere rimesse in discussione e ad accrescersi nel tempo, senza però pretendere di giungere a una verità definitiva. Il dubbio diventa un principio metodologico imprescindibile; così nel fondamentale Discorso sul metodo (1637) in cui Cartesio (René Descartes, 15961650), padre della filosofia moderna, prospetta la necessità che la ricerca filosofica e scientifica sia guidata dal dubbio metodico, si liberi da qualsiasi preconcetto e usi esclusivamente la guida della ragione nel processo conoscitivo: l’unico criterio di verità diventa l’evidenza razionale. Secondo questa concezione del sapere, il primo passo da compiere è liberare la mente dalle idee errate che inutilmente l’affollano, impedendo la costruzione di un nuovo sapere: “nuovo” è un termine chiave della rivoluzione scientifica, ricorrente anche nei titoli di numerose opere filosofiche e scientifiche, come il Novum organon (1620; significativamente contrapposto all’Organon aristotelico) del filosofo inglese Bacone (Francis Bacon, 1561-1626), considerato uno dei “padri” della nuova scienza. Bacone definisce idoli gli ostacoli sulla via della verità, ossia entità immaginarie, come le teorie e i pregiudizi perpetuati per generazioni, che «assediano le menti in modo da rendere difficile l’accesso alla verità» (trad. di P. Rossi). L’ostacolo principale per Bacone è proprio l’ossequio al metodo aristotelico-scolastico nel campo delle scienze, che ha prodotto in esse un danno infinito, impedendone di fatto il progresso. Un ossequio che è messo in crisi innanzitutto dalle rivoluzionarie scoperte astronomiche descritte da Galileo e Keplero (1571-1630) già nel primo decennio del secolo, la cui portata era tale da comportare inevitabilmente lo scontro con la tradizione aristotelica. La nuova astronomia trovò poi il suo punto più avanzato nella teoria della gravitazione universale, formulata da Isaac Newton nel 1686. La differenziazione della scienza dalla filosofia La scienza va definendo rapidamente la sua fisonomia e il suo campo d’azione rispetto alla filosofia, o quantomeno alla filosofia tradizionale: mentre la filosofia aspira a cogliere l’essenza e Modelli del sapere e tendenze filosofico-scientifiche 2 19


a comprendere il fine, la scienza vuole invece comprendere come funzionano le cose e scoprire le leggi che regolano i fenomeni naturali, rinunciando programmaticamente a qualsiasi implicazione trascendente. Naturalmente questo non significa negare l’esistenza di Dio, ma Dio è l’“architetto” di un universo concepito come una macchina, il cui movimento è regolato da leggi proprie. Il metodo sperimentale Di centrale importanza nella fondazione della scienza è l’adozione del metodo sperimentale di cui proprio Galileo pone le basi: la conoscenza dei fenomeni naturali non deve fondarsi sull’autorità dei libri e neppure sulla sola speculazione teorica, ma sull’osservazione diretta della realtà, sulla raccolta sistematica di dati, la cui interpretazione conduce a ipotesi che vanno poi validate attraverso prove sperimentali adeguatamente predisposte (le “sensate esperienze”) fino alla formulazione di leggi di valore scientifico, espresse in linguaggio matematico. Un metodo rigoroso, i cui risultati possono essere razionalmente trasmessi ad altri scienziati e da essi, altrettanto razionalmente, discussi. La valorizzazione della tecnica Molto importante per la nascita della scienza moderna è l’idea che la testimonianza dei sensi possa essere resa più attendibile e precisa grazie agli strumenti approntati dalla tecnica, come il cannocchiale e i primi microscopi, inventati appunto nel secolo XVII (a cui si aggiunsero il termometro e il barometro). Si tratta di un concetto per noi moderni del tutto ovvio, ma tale non era ai tempi di Galileo, in cui vigeva l’autorità indiscussa e indiscutibile della parola di Aristotele. All’entusiasmo suscitato dalla possibilità, grazie al telescopio, di vedere la Luna come se fosse improvvisamente divenuta molto più vicina, si affiancano in quest’epoca lo stupore e la meraviglia di scorgere un universo in miniatura in una goccia d’acqua, in un filo d’erba, in un insetto, guardandoli attraverso una lente. I primi microscopi rivelano una realtà davvero sorprendente, in cui appaiono esseri viventi prima invisibili all’occhio umano, come protozoi e batteri. Un microscopio inglese del XVII secolo appartenuto al filosofo e scienziato Robert Hooke.

online

Per approfondire Una frattura epocale nel sistema del sapere: dalla somiglianza alla differenza

I modelli culturali del Seicento sistema scolastico

moderno metodo scientifico

• principio di autorità (freno alle innovazioni) • dogmatismo • aristotelismo

• sapere come ricerca inesauribile • esercizio sistematico del dubbio • adozione del metodo sperimentale • valorizzazione degli strumenti tecnici

20 Seicento Scenari socio-culturali


PER APPROFONDIRE

Scienziati e maghi Dal mago rinascimentale allo scienziato Tra la seconda metà del Cinquecento e il Seicento una nuova figura si contrappone a quella del mago rinascimentale, per diversi aspetti sua “erede”: lo scienziato. Sia il mago sia lo scienziato ricercano infatti un’unità profonda tra i fenomeni; entrambi – diversamente dal filosofo di stampo aristotelico – si propongono come fine un’azione pratica sulla natura. Altrettanto evidenti sono tuttavia le differenze: se il mago rinascimentale tentava di dominare la natura come se si trattasse di un essere vivente da influenzare con tecniche simili a quelle usate per gli esseri umani, lo scienziato assimila l’universo a un meccanismo, simile a un orologio meccanico, creato da un artefice divino. Ne derivò un approccio “matematizzante” allo studio della fisica, che consentì un rapido progresso della scienza; lo stesso corpo umano fu assimilato da Cartesio a una macchina, un’analogia che permise di fondare una fisiologia scientifica, tuttora alla base della medicina moderna. Un altro tratto che differenzia gli scienziati dai maghi è l’idea di un sapere razio-

nale e comunicabile, aperto alla condivisione della comunità scientifica. Il persistente fascino della magia Però la figura dello scienziato non arriva a oscurare nell’immaginario comune il fascino che ha ancora la magia in quest’epoca: tra Cinquecento e Seicento si leggevano con passione i libri di Paracelso (14931541), medico e alchimista, che si vantava di poter creare un homunculus, forma embrionale di uomo, straordinariamente sapiente (una leggenda che avrebbe affascinato Goethe, ispirando varie scene del Faust). I filosofi Bruno e Campanella erano noti come maghi. Del resto, anche vari artefici della rivoluzione scientifica (Copernico, Keplero, Newton) coltivavano letture magiche ed ermetiche. Non è perciò un caso che la letteratura proprio in quest’epoca sia popolata di figure di maghi: dal maligno incantatore della selva di Gerusalemme, Ismeno, al benefico mago di Ascalona nella Gerusalemme liberata, al Dottor Faust di Marlowe, a Prospero della Tempesta shakespeariana.

Allievo di David Teniers il Giovane, Un alchimista nel suo laboratorio, XVII secolo (Londra, Wellcome Collection).

Modelli del sapere e tendenze filosofico-scientifiche 2 21


3 Caratteri e forme della letteratura 1 Il Barocco e la ricerca del “nuovo”

L’indipendenza dai modelli e il culto dell’originalità Utilizzato a partire dal Settecento, il termine “barocco” designa le manifestazioni artistiche e letterarie di ampia parte del Seicento, ma anche la visione del mondo ad esse sottesa, caratterizzata da una condizione psicologica di crisi e incertezza conseguente al crollo di una millenaria immagine dell’universo. L’abbandono dell’armonia rinascimentale, il gusto per l’irregolarità e una certa eccentricità, che già erano state peculiarità del Manierismo, sono accentuate nel Barocco: rifiutando ogni principio di imitazione, gli artisti barocchi rivendicano un’assoluta indipendenza da qualunque modello. La vera regola del Barocco, come afferma il poeta Marino, è «saper rompere le regole». Si cerca la novità, l’originalità a tutti i costi: come osserva il critico spagnolo José A. Maravall, il Seicento, epoca rigida e conservatrice nei modelli di comportamento, assume una tendenza opposta in ambito artistico-letterario, probabilmente perché le forze innovatrici vengono incanalate nei campi in cui non possono risultare eversive e pericolose come lo sarebbero in quello sociale. L’arte e la letteratura del Barocco perseguono l’obiettivo di incuriosire, di stupire il pubblico e non è certo un caso: mentre il Manierismo è ancora legato alle corti rinascimentali e ad un pubblico elitario e raffinato, il Barocco si rivolge a un’utenza più ampia, che va conquistata con nuovi mezzi. Il Barocco è lo stile adottato anche dalla Chiesa controriformistica: le sorprendenti strutture architettoniche di molti edifici religiosi e la ricerca di effetti spettacolari nelle rappresentazioni teatrali sono volti a coinvolgere emotivamente le masse, così da conquistarne il favore. In ambito artistico il Barocco infrange i canoni di equilibrio e armonia propri del Rinascimento: si ricerca la varietà, il dinamismo delle forme, si prediligono le curve rispetto alla linearità. Tipiche dell’arte barocca – in architettura, in pittura – sono la grandiosità dell’insieme e la ricchezza dei particolari, che si moltiplicano disordinatamente, con l’effetto di sovraccarico tipico di questo stile. In ambito letterario il gusto barocco supera gli schemi del classicismo in modo ben più radicale dell’anticlassicismo cinquecentesco, stravolgendo anche i generi canonici come il poema e la lirica (➜ PAG. 26). Inoltre, nonostante il clima ideologico della Controriforma tenda a riproporre con forza la missione etico-pedagogica dell’arte, i teorici barocchi prospettano piuttosto come fine il diletto, il piacere che deriva dalla meraviglia, dallo stupore che il poeta sa suscitare, come recita la celeberrima affermazione di Marino: «È del poeta, il fin la meraviglia / (parlo de l’eccellente e non del goffo): / chi non sa far stupir, vada alla striglia!». Il termine “barocco”: un’etimologia incerta Il termine “barocco” si afferma nel Settecento, con un’accezione negativa, come sinonimo di “bizzarro, irregolare”. Due sono le possibili etimologie del termine: la parola “barocco” rinvia forse al portoghese barroco, che indica una perla di forma asimmetrica, irregolare. Una seconda possibilità rimanda a un ambito semantico completamente diverso, quel-

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lo della logica medievale: “barocco” indicava nella filosofia scolastica un tipo di sillogismo particolarmente cavilloso, corretto in apparenza ma in realtà ingannevole. Comunque stiano le cose, in entrambe le etimologie è implicito un giudizio negativo, proprio del gusto razionalistico settecentesco, severamente critico verso le manifestazioni artistiche e letterarie del Seicento, considerate bizzarre, irrazionalistiche, contrarie al buon gusto. Il termine continua oggi a essere usato, ma ha ovviamente perso ogni connotazione negativa per designare una stagione importantissima della cultura europea.

Il Barocco epoca

caratteristiche

definizione

concetti chiave

il Seicento

• indipendenza da modelli e originalità • grandiosità e ricchezza di particolari • stile enfatico e ridondante • coinvolgimento emotivo del pubblico

doppia etimologia: • una perla di forma asimmetrica • un ragionamento logicamente corretto, ma che può condurre a paradossi

• abbandono di ogni principio di imitazione a favore di una ricerca di originalità • il diletto come fine, che deriva dalla meraviglia

2 La poetica dell’“ingegno” e la centralità della metafora La teorizzazione dello stile barocco Nel Seicento, la più nota opera sulla poetica barocca è Il cannocchiale aristotelico di Emanuele Tesauro (Torino 1592-1675), sacerdote dell’ordine dei gesuiti, poi precettore alla corte sabauda. Ammiratore di Marino e del nuovo stile barocco, nel Cannocchiale aristotelico (pubblicato in edizione definitiva nel 1670) Tesauro ne definisce i tratti fondamentali, individuando la qualità caratteristica dei poeti del nuovo stile nell’“ingegno”, capaci di cogliere nessi inediti tra i diversi aspetti della realtà. A ben vedere, il titolo del trattato di Tesauro, Il cannocchiale aristotelico, è esso stesso “ingegnoso”, perché collega due elementi apparentemente incompatibili: le dottrine retoriche aristoteliche e il cannocchiale, strumento simbolo della rivoluzione scientifica anti-aristotelica. Per Tesauro, componente chiave del nuovo stile è la figura retorica della metafora, che egli considera come un illusionistico «teatro di meraviglie», capace di mostrare aspetti nuovi e inconsueti della realtà, suscitando nel lettore il piacere della sorpresa. La metafora barocca La metafora è stata sempre presente nelle opere letterarie, in particolare nella poesia. Prima del Barocco, tuttavia, i poeti seguivano i precetti retorici di Aristotele, che raccomandava di non utilizzare metafore fondate su elementi troppo distanti fra loro, perché sarebbero apparse forzate. I poeti barocchi invece non si pongono più limiti nella creazione di ardite e stravaganti metafore (ad esempio il poeta Tommaso Stigliani definisce la Luna come una «celeste frittata»). Nella creazione di metafore originali i poeti barocchi esibiscono dunque una sfrenata originalità, una straordinaria abilità virtuosistica, come evidenziano i versi del più famoso dei poeti barocchi italiani, Giambattista Marino. Caratteri e forme della letteratura 3 23


Emanuele Tesauro

D5

La metafora come un «pien teatro di meraviglie» Il Cannocchiale aristotelico

Trattatisti e narratori del Seicento, a c. di E. Raimondi, Ricciardi, MilanoNapoli 1960

Le riflessioni qui riportate sono tratte dal Cannocchiale aristotelico di Emanuele Tesauro, pubblicato in edizione definitiva nel 1670, in cui l’autore mette in luce l’originalità del Barocco. Nel passo proposto l’autore analizza la metafora, la figura retorica che, mostrando nuovi e inattesi rapporti tra le cose, porta l’immaginazione del lettore a spaziare da un oggetto all’altro, ponendo davanti agli occhi di chi legge «un pien teatro di meraviglie».

Ed eccoci alla fin pervenuti grado per grado1 al più alto colmo2 delle figure ingegnose, a paragon delle quali tutte le altre figure fin qui recitate3 perdono il pregio, essendo la metafora il più ingegnoso e acuto, il più pellegrino4 e mirabile, il più gioviale e giovevole5, il più facondo6 e fecondo parto7 dell’umano intelletto. Inge5 gnosissimo veramente, però che, se l’ingegno consiste (come dicemmo) nel ligare insieme le remote e separate nozioni degli propositi obietti8, questo apunto è l’officio9 della metafora, e non di alcun’altra figura: perciò che, traendo la mente, non men che la parola, da un genere all’altro10, esprime un concetto per mezzo di un altro molto diverso, trovando in cose dissimiglianti la simiglianza11. Onde conchiude 10 il nostro autore12 che il fabricar metafore sia fatica di un perspicace e agilissimo ingegno. E per conseguente ell’è fra le figure la più acuta: però che l’altre quasi grammaticalmente si formano e si fermano nella superficie del vocabulo, ma questa riflessivamente13 penetra e investiga le più astruse nozioni per accoppiarle; e dove quelle14 vestono i concetti di parole, questa veste le parole medesime di concetti15. 15 Quinci16 ell’è di tutte l’altre la più pellegrina per la novità dell’ingegnoso accoppiamento: senza la qual novità l’ingegno perde la sua gloria e la metafora la sua forza. Onde ci avisa il nostro autore che la sola metafora vuol essere da noi partorita17, e non altronde, quasi supposito parto, cercata in prestito18. E di qui nasce la meraviglia, mentre che l’animo dell’uditore, dalla novità soprafatto, considera l’acutezza 20 dell’ingegno rappresentante e la inaspettata imagine dell’obietto19 rappresentato. Che s’ella è tanto ammirabile, altretanto gioviale e dilettevole convien che sia20: però che dalla maraviglia nasce il diletto, come da’ repentini cambiamenti delle scene e da’ mai più veduti spettacoli tu sperimenti21. Che se il diletto recatoci dalle

1 grado per grado: gradualmente. 2 al più alto colmo: al vertice. 3 recitate: elencate. 4 pellegrino: originale. 5 gioviale e giovevole: allegro e utile. Da notare il gioco di parole tipico del gusto barocco. 6 facondo: eloquente. 7 parto: prodotto, generato. L’espressione è metaforica. 8 ligare… obietti: collegare le idee più lontane e separate tra loro dei soggetti trattati. 9 l’officio: il compito, la funzione. 10 traendo… altro: trasportando la mente, come la parola, da un genere di oggetti all’altro.

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11 trovando… somiglianza: trovando la somiglianza in cose (apparentemente) dissimili. 12 il nostro autore: Aristotele, di cui Tesauro commenta in questo passo il trattato della Retorica. 13 riflessivamente: attraverso la riflessione, il gioco dell’intelligenza. 14 quelle: le altre figure retoriche. 15 vestono… concetti: il senso è che le altre figure retoriche riguardano l’espressione, mentre la metafora nasce da uno studio più profondo dei concetti. 16 Quinci: di qui, di conseguenza. 17 vuol… partorita: deve essere inventata da noi.

18 altronde… prestito: presa in prestito da un’altra fonte, come un parto non nostro (supposito come sostantivo è colui a cui è attribuito uno stato di famiglia non corrispondente al vero, come un bambino scambiato alla nascita). 19 obietto: oggetto. 20 gioviale… sia: conviene che sia piacevole e dilettevole. 21 come… sperimenti: come tu sperimenti dagli improvvisi cambiamenti di scena e dagli spettacoli mai visti prima. Tesauro collega la metafora con il teatro barocco, caratterizzato da scenografie spettacolari e da rapidi mutamenti di scena.


retoriche figure procede (come ci ’nsegna il nostro autore) da quella cupidità22 delle 25 menti umane d’imparar cose nuove senza fatica e molte cose in piccol volume23, certamente più dilettevole di tutte l’altre ingegnose figure sarà la metafora: che, portando a volo la nostra mente da un genere all’altro, ci fa travedere24 in una sola parola più di un obietto. Perciò che se tu di’25: «Prata amoena sunt»26, altro non mi rappresenti che il verdeggiar de’ prati; ma se tu dirai: «Prata rident»27, tu mi farai 30 (come dissi) veder la terra essere un uomo animato, il prato esser la faccia, l’amenità il riso lieto. Talché in una paroletta transpaiono tutte queste nozioni di generi differenti: terra, prato, amenità, uomo, anima, riso, letizia. E reciprocamente con veloce tragitto osservo nella faccia umana le nozioni de’ prati e tutte le proporzioni che passano fra queste e quelle, da me altra volta non osservate28. E questo è quel 35 veloce e facile insegnamento da cui ci nasce il diletto, parendo alla mente di chi ode vedere in un vocabulo solo un pien teatro di meraviglie. 22 cupidità: desiderio. 23 in piccol volume: in modo concen-

25 di’: dici. 26 «Prata… sunt»: “i prati sono piacevoli

trato, rapido. 24 travedere: vedere insieme.

27 «Prata rident»: “i prati ridono”.

(belli)”.

28 le proporzioni… osservate: le somiglianze che intercorrono fra le due nozioni, da me precedentemente non osservate.

Concetti chiave La poetica barocca e la metafora

Il passo del Cannocchiale aristotelico di Emanuele Tesauro mette in luce alcuni aspetti fondamentali della poetica barocca, mostrando come essa risponda a un fine insieme edonistico e conoscitivo: il “diletto” barocco, cioè la piacevolezza dello stile, deriva infatti dalla sorpresa di vedere la realtà sotto un aspetto nuovo. Perciò fondamentale è la metafora, capace di instaurare un rapporto tra elementi distanti; con un’efficace immagine Tesauro afferma che essa apre al lettore «un pien teatro di meraviglie».

Le caratteristiche del poeta barocco: “perspicacia” e “agilità”

In rapporto a tali fini della poesia, Tesauro individua come qualità fondamentale per il poeta barocco un ingegno «perspicace», ossia capace di cogliere gli aspetti profondi della realtà, e «agilissimo», ossia in grado di passare rapidamente da una nozione all’altra, individuando inedite relazioni tra le cose. Fautore dello stile barocco, Tesauro lo adotta anche per il suo trattato, caratterizzato da innumerevoli figure retoriche, giochi di parole, immagini suggestive, come quella della mente del lettore portata a volo dallo slancio creativo del poeta attraverso un caleidoscopio di immagini.

Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

COMPRENSIONE 1. Quali sono secondo Tesauro i fini della poetica barocca? 2 Quando la metafora è più piacevole secondo Tesauro? Per quali ragioni? ANALISI 3. Indica le qualità che, secondo Tesauro, un poeta barocco dovrebbe possedere. LESSICO 4. Individua nel testo le espressioni che suggeriscono un’idea di movimento, come se la poesia barocca fosse assimilabile a un viaggio della fantasia.

Interpretare

ESPOSIZIONE ORALE 5. Spiega perché Tesauro ritenga la metafora la più significativa tra le figure retoriche.

Caratteri e forme della letteratura 3 25


3 Il rinnovamento dei generi letterari La crisi dei generi tradizionali Il Seicento è un’epoca di forte rinnovamento dei generi letterari, in rapporto al rifiuto del principio dell’imitazione classicistica: nascono così generi nuovi (come il melodramma e il romanzo moderno), mentre quelli tradizionali sono profondamente trasformati. La lirica La lirica italiana del Seicento abbandona (a parte alcuni difensori della tradizione classicistica) l’ossequio obbligato a Petrarca ed è caratterizzata dalla sperimentazione di nuovi contenuti e nuove forme espressive. Ai canzonieri del Quattrocento e del primo Cinquecento, che, a imitazione del modello petrarchesco, ripercorrevano una vicenda interiore legata al tema dell’amore, si sostituiscono raccolte organizzate in modo più libero, spesso per generi; il repertorio dei temi trattati si amplia fino a includervi soggetti originali e bizzarri. Anche la figura femminile viene rappresentata in modi inusuali, che non escludono la bruttezza e persino la deformità, nell’obiettivo di stupire il lettore. Di livello artistico ben più alto è la lirica europea, che dà spazio soprattutto ai grandi temi dell’esistenza, in particolare la fugacità del tempo e della vita: ne sono grandi testimoni in Spagna Luis de Góngora e Francisco de Quevedo, in Inghilterra John Donne e William Shakespeare.

VERSO IL NOVECENTO

Il poema L’anticlassicismo del Seicento si manifesta anche nel poema. Questo genere letterario, appartenente alla grande tradizione classica e che Tasso nel secondo Cinquecento aveva riproposto, con la Gerusalemme Liberata, nella forma del poema “eroico”, non incontra più il favore del pubblico, in rapporto alla decadenza dei valori epici o eroici. Nell’Adone di Marino, principale poema del tempo, è centrale non la guerra ma la sensualità dell’amore, e la struttura tradizionale è dissolta dalla proliferazione di digressioni descrittive o liriche. In La secchia rapita di Alessandro Tassoni il poema epico e i suoi valori vengono sottoposti alla deformazione parodica, dando vita al poema “eroicomico”: la guerra (in questo caso tra modenesi e bolognesi) è originata dal furto di una vecchia

Dalla condanna all’attualità del Barocco La condanna settecentesca del Barocco I teorici del Settecento, fautori del classicismo e del razionalismo, utilizzano il termine barocco in un’accezione spregiativa, a indicare una tendenza artistica che essi giudicano folle e delirante. Tale connotazione negativa permane a lungo, sebbene il Barocco abbia prodotto grandi capolavori nell’arte e nella letteratura, in particolare in alcuni paesi, come la Spagna, dove l’epoca della sua fioritura è designata come Siglo de oro, ossia il secolo d’oro della letteratura. Solo in tempi relativamente recenti, dopo la fine dell’Ottocento, il Barocco viene decisamente rivalutato, nel momento in cui è messo in relazione con la visione del mondo da cui trae origine. Il Barocco, arte dell’infinito Inaugura tale tendenza lo storico dell’arte Heinrich Wölfflin che, in un suo saggio (Rinascimento e Barocco, 1888), mette in luce significative corrispondenze tra le forme dinamiche e movimentate del Barocco e la rivoluzione cosmologica. Se nell’arte rinascimentale si fissava l’immagine di un cosmo statico, perfetto, razionale, l’arte barocca rispecchia un mondo dalla labirintica complessità, fluido, dinamico, in divenire.

26 Seicento Scenari socio-culturali

L’attualità del Barocco In questo senso il Barocco trova un’evidente analogia con l’epoca attuale, per la sua idea di realtà complessa e multiforme: il semiologo e studioso del linguaggio dei media e delle arti visive Omar Calabrese (1949-2012), nel suo L’età neobarocca (1987), non a caso ha definito “neobarocco” il postmoderno di fine Novecento: secondo lo studioso accomunerebbe le due tendenze una crisi nella concezione tradizionale dello spazio e del tempo (crisi del modello spaziale aristotelico tolemaico nel caso del Barocco, e crisi del concetto lineare del tempo e della percezione dello spazio, continuamente modificati dall’evolversi rapidissimo dei media, nell’epoca moderna). Nell’ultima delle sue Lezioni americane, dedicata alla Molteplicità, Italo Calvino evidenzia come la complessità, tipica caratteristica barocca, contraddistingua anche molte opere letterarie del Novecento, come quelle di Gadda (secondo il quale «barocco è il mondo, e il Gadda ne ha percepito e ritratto la baroccaggine»), di Joyce e di Borges, in cui «il discorso s’allarga a comprendere orizzonti sempre più vasti, e se potesse continuare a svilupparsi in ogni direzione arriverebbe ad abbracciare l’intero universo».


secchia di legno. La tradizionale situazione dell’epica è degradata dal riferimento a un oggetto della quotidianità, come appunto la secchia. La decadenza della novella e la nascita del romanzo Nel Seicento la novella, genere molto fortunato nella cultura italiana dal Duecento al Cinquecento, decade. L’unica opera significativa è in dialetto napoletano: Lo cunto de li cunti, raccolta di cinquanta novelle di carattere per lo più fiabesco, di Giambattista Basile. Emerge nel Seicento una forma narrativa del tutto nuova, destinata a secolare successo: il romanzo. In Italia si diffondono romanzi dall’intreccio avventuroso, magari avvincenti, ma di scarsa qualità. In Spagna si afferma il genere del romanzo picaresco, che narra le avventurose vicende di personaggi di bassa condizione sociale (i picari) che cercano di sopravvivere in un mondo ostile. Sempre in Spagna si ritrova il capostipite del romanzo moderno, uno dei capolavori della letteratura occidentale: Don Chisciotte di Miguel de Cervantes. Il teatro La tendenza all’innovazione segna anche il teatro secentesco. Si affermano in Italia due generi teatrali nuovi, destinati ad una straordinaria fortuna europea: la commedia dell’arte e il melodramma. La commedia dell’arte, indirizzata a un vasto pubblico, fonda la sua attrattiva sulle abilità, gestuali e di improvvisazione, di attori specializzati nella parte di un determinato personaggio. Il melodramma, destinato a successo nel tempo soprattutto in Italia, è un testo teatrale musicato e cantato, che all’inizio (ha origine nel tardo Cinquecento a Firenze) utilizza gli scenari e i temi della mitologia e della tradizione bucolica. Mentre il teatro italiano tradizionale non offre un panorama particolarmente interessante, nel Seicento il teatro europeo conosce una straordinaria stagione, che produce veri e propri capolavori: dall’Inghilterra, in cui spicca il genio multiforme di Shakespeare, alla Spagna, con Lope de Vega e Calderón de la Barca, alla Francia, in cui la tragedia raggiunge grandi livelli artistici con Corneille e Racine, e la commedia trova un interprete magistrale in Molière. Il trattato Nel Quattro-Cinquecento il genere tipicamente umanistico del trattato era stato il terreno elettivo del confronto di idee: tendeva perciò ad assumere la forma di un dialogo aperto e tollerante, in cui potevano trovare posto opinioni contrastanti. Con il tramonto del Rinascimento non c’è più posto per tale forma dialogica. I trattati sono ora volti a sostenere tesi ben precise o sono impiegati a fini prettamente espositivi, come Il cannocchiale aristotelico di Emanuele Tesauro o Della dissimulazione onesta di Torquato Accetto. Novità del periodo sono i trattati scientifici, contraddistinti da un ben preciso criterio di organizzazione testuale e dalla volontà di comunicare con precisione i risultati della ricerca (➜ D6 OL). A questa trattatistica di livello alto e ideologicamente impegnata si accompagna nel Seicento un’ampia produzione didascalica di minor impegno teorico, che regola i più diversi ambiti della vita sociale (la vita di corte, i duelli e così via). Le relazioni di viaggio e la Istoria della Compagnia di Gesù Nel secondo Cinquecento e nel Seicento va diffondendosi la letteratura di viaggio. Tra le opere riconducibili a questo campo vanno ricordati i resoconti del missionario gesuita Matteo Ricci (1552-1610): giunto in Cina, impara perfettamente la lingua e decide poi di vivere nel paese orientale, dove compie un’importante opera di mediazione culturale, traducendo in cinese testi fondamentali della letteratura occidentale e descrivendo la cultura e la civiltà cinese in molti scritti, fra cui Della entrata della Compagnia di Giesù e Christianità nella Cina, pubblicata postuma. Caratteri e forme della letteratura 3 27


4 L’evoluzione della lingua 1 Tra vecchio e nuovo: la lingua del Seicento

Il volgare italiano: il modello bembiano e l’Accademia della Crusca Nel sistema linguistico dell’Italia del Seicento coesistono, con diverse funzioni, il volgare letterario italiano, i dialetti, e il latino. Il volgare italiano, derivato dal toscano letterario, nel Seicento si va consolidando come lingua letteraria nazionale, secondo la tesi di Pietro Bembo, soprattutto nella letteratura “alta”, in particolare nella poesia e nel teatro. Ma già a partire dal secondo Cinquecento, secondo gli appartenenti alla corrente dei “puristi”, nel canone della lingua modello avrebbero dovuto rientrare non solo i grandi trecentisti (in particolare Petrarca e Boccaccio), ma tutti gli scrittori fiorentini, anche minori, dell’aureo Trecento. È l’Accademia della Crusca (tuttora attiva), fondata a Firenze nel 1585, ad assumere in campo linguistico un ruolo normativo in una direzione puristica e arcaizzante (separando idealmente così la “farina” dalla “crusca”): consacrare ufficialmente vocaboli ed espressioni dell’uso trecentesco impiegati dagli scrittori fiorentini (cui si affiancano in un secondo tempo alcuni selezionati non fiorentini o scrittori del Quattro-Cinquecento, ma in sottordine). A questo scopo, gli accademici della Crusca approntano uno strumento lessicografico fondamentale: il Vocabolario della Crusca (la prima edizione è del 1612). L’opera degli accademici della Crusca ha il merito di aver reso più facilmente accessibile ai letterati di tutta Italia il modello linguistico scelto; al contempo la lingua scritta veniva fissata in uno stadio arcaico, bloccandone la naturale evoluzione. La voce del dialetto Per reazione sono rivalutati i dialetti, che continuavano a essere usati come lingua del parlato quotidiano e non solo a livello popolare. In ambito letterario i dialetti sono visti come uno strumento linguistico più espressivo e legato alla vita reale: fra le tradizioni letterarie dialettali spiccano il napoletano, usato da Giovan Battista Basile (1575-1632) nella raccolta di novelle Lo cunto de li cunti, e il milanese, destinato a futuri grandi sviluppi nell’ottocentesca opera di Carlo Porta, impiegato nel teatro da Carlo Maria Maggi (1630-1699), autore di commedie in versi in cui alcuni personaggi parlano in dialetto. Il latino, lingua della Chiesa e delle università Nel Seicento, in Italia, il latino è ancora la lingua d’uso nella Chiesa, nelle università, nelle scuole dei gesuiti, la cui Ratio studiorum, cioè l’ordinamento scolastico dei collegi dell’ordine, esplicitamente prescriveva di «vigilare sulla diligente osservanza dell’uso interno della lingua latina fra gli studenti. Dall’obbligo di parlare latino gli studenti non devono mai essere esonerati, tranne che nei giorni di vacanza». A differenza dei paesi protestanti – in cui, per il principio del libero esame, i fedeli leggono la Bibbia in traduzione – in Italia la Chiesa controriformista lo vieta. Sul piano linguistico le conseguenze sono molto negative, perché, mentre nei paesi protestanti la lettura quotidiana della Bibbia costituisce la base per la diffusione delle lingue nazionali, in Italia i meno colti perdono tale importante occasione di servirsi di un idioma comune a tutta la penisola. Il fatto che il latino sia usato nelle università lo rende invece lo strumento di comunicazione internazionale, che permette lo scambio e la circolazione di idee in tutta l’Europa.

28 Seicento Scenari socio-culturali


La scelta di Galileo: rinnovare la lingua per rinnovare gli schemi di pensiero Dall’uso del latino come lingua dello studio, della filosofia e della scienza si discostano Galileo e i suoi seguaci, che, con un’audace innovazione, adottano il volgare per il trattato scientifico. Dopo aver esordito in latino, pubblicando nel 1610 il Sidereus nuncius, in seguito Galileo passa al volgare, che padroneggiava con rara eleganza. La prima motivazione di questa scelta è quella di rivolgersi a un pubblico più ampio e composito: in una lettera, a proposito di una sua opera (Istoria e dimostrazioni intorno alle macchie solari), afferma: «Io l’ho scritta vulgare perché ho bisogno che ogni persona la possi leggere». Inoltre Galileo è indotto ad adottare il volgare anche da un’altra importante ragione: i termini latini del lessico filosofico e scientifico erano ormai indissolubilmente legati alla fisica aristotelica. Grazie all’uso del volgare, Galileo può staccarsi dagli schemi di pensiero aristotelici, per riportare la scienza a un rapporto diretto con la realtà: costruisce così in volgare un sistema lessicale del tutto nuovo, che sarà sviluppato dai seguaci del suo metodo, mutando volto alla scrittura scientifica.

Il sistema linguistico italiano del Seicento volgare letterario italiano

dialetti

latino

• si consolida come lingua letteraria nazionale, secondo la tesi di Bembo • con l’Accademia della Crusca si cristallizza su un modello linguistico influenzato dalle tendenze puriste e arcaicizzanti

• vengono rivalutati, non solo a livello popolare • in ambito letterario vengono utilizzati a fini espressivi e per avvicinare il testo al parlato reale

resiste nella Chiesa e come lingua internazionale del sapere

online D6 Francesco Redi Il nuovo linguaggio della scienza: la descrizione della vipera Osservazioni intorno alle vipere

Fissare i concetti L’età del Barocco 1. Perché la pubblicazione degli studi di Galileo Galilei furono fondamentali per l’affermazione della rivoluzione eliocentrica iniziata da Copernico? 2. Perché nel Seicento scienziati e filosofi furono perseguitati? 3 Quale concezione del sapere fu introdotta da scienziati e filosofi fondatori del nuovo metodo scientifico e si contrapponeva al modello culturale promosso dalle scuole gesuitiche? 4. Quali sono le caratteristiche del Barocco in letteratura e nell’arte? 5. Quali sono gli aspetti principali del processo di rinnovamento che coinvolge gran parte dei generi letterari nel Seicento? 6. Che cosa caratterizza il sistema linguistico del Seicento?

L’evoluzione della lingua 4 29


Libri, lettori, lettura

Leggere in età barocca Come si eludevano i divieti imposti dal Concilio I divieti imposti dalla censura controriformistica non furono sempre rispettati: si escogitarono infatti modi ingegnosi per eluderli come quello, più volte praticato dagli editori veneziani, di celare opere sospette con titoli falsamente innocui. Inoltre, contrariamente a quanto si potrebbe supporre, spesso i lettori di libri condannati dalla Chiesa erano proprio gli ecclesiastici: i religiosi impegnati in attività inquisitorie, come i domenicani e i gesuiti, dovevano infatti conoscere i contenuti filosofici e teologici delle opere vietate, conservate allo scopo nelle biblioteche monastiche. Non è un caso che Bruno e Campanella, coinvolti fin dalla giovinezza in processi per eresia, si fossero formati in monasteri domenicani. Già nel Seicento gli Stati assoluti, in grado di porsi in contrasto con la Chiesa, posero dei limiti alla censura; in seguito l’Illuminismo aprì la strada alla libertà di stampa, proclamata dalla Francia nel 1789, con la Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino. I limiti alla censura La Congregazione dell’Indice durò tuttavia fino al 1917; in seguito i suoi compiti furono trasferiti al Sant’Uffizio. Possedere opere all’Indice non era più un reato punibile per legge ma un divieto per i fedeli, tenuti a chiedere ai confessori il permesso di consultare le opere segnalate. Una disposizione abolita da papa Paolo VI soltanto nel 1965, anno in cui il Sant’Uffizio divenne la Congregazione per la dottrina della fede.

Jan Davidsz de Heem, Natura morta con libri, 16288 (L’Aia, Maurithshuis).

Gabriel Metsu, Uomo che scrive una lettera, 1664-1666 (Dublino, National Gallery of Ireland).

30 Seicento Scenari socio-culturali

Venditore ambulante di opuscoli, pamphlets e opere popolari, dipinto di scuola francese, 1623 ca. (Parigi, Musée du Louvre).


EDUCAZIONE CIVICA

EDUCAZIONE CIVICA

I regimi che proibiscono i libri L’articolo 21 della nostra Costituzione sancisce la libertà di stampa: «Tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione. La stampa non può essere soggetta ad autorizzazioni o censure […]». Il diritto alla libertà di stampa è uno dei più importanti diritti democratici, da sempre negato dai regimi totalitari. Così avvenne ad esempio per il nazismo: nel maggio del 1933, pochi mesi dopo la nomina di Hitler a cancelliere, cominciarono i roghi dei libri. A Berlino, la sera del 10 maggio, migliaia di studenti si recarono nella piazza di fronte all’università e bruciarono circa 20.000 libri: opere di Freud, Thomas Mann, Einstein, Brecht, Remarque, ma anche Jack London, Zola, Proust, che si riteneva potessero «minare il pensiero tedesco, la patria tedesca e le forze che guidano il nostro popolo». Anche in altre città vi furono roghi di libri; contemporaneamente erano tolte dai musei tedeschi opere dell’arte considerata da Hitler «degenerata», come i dipinti di Cézanne, Van Gogh, Gauguin, Matisse, Picasso. Nella piazza dove avvenne il rogo dei libri (Bebelplatz), un monumento semplice ma suggestivo ricorda ancora oggi l’infausto evento: una botola nell’asfalto, chiusa da una spessa lastra di vetro, da cui si scorge una stanza bianca con ripiani per i libri, vuoti. Anche nella Russia staliniana, come ricorda la storica e filosofa Hannah Arendt (1906-1975), gli autori sospetti al regime furono perseguitati insieme ai loro libri. Ma ancora oggi vi sono paesi che non accettano la libertà di stampa: basti ricordare il caso della Cina, in cui quanto è stampato è sottoposto a censura e continuamente vengono

nucleo Costituzione competenza 1

bloccati siti Internet con contenuti non accetti al regime. Il tema della distruzione dei libri è entrato nell’immaginario letterario e cinematografico; basti ricordare Fahrenheit 451 (1953) di Ray Bradbury (1920-2012), da cui il regista François Truffaut trasse l’omonimo film del 1966, in cui è immaginata una società anti-utopica, nella quale leggere e possedere libri è un reato e una squadra di “vigili del fuoco” perquisisce le case per bruciare i libri che vi fossero nascosti. Per difendere la memoria e la lettura, ciascuno impara a memoria un libro, tanto che alla fine diventa quasi un tutt’uno con il libro prediletto, con cui viene identificato. Una situazione che può ricordare l’idea di Milton, che un libro, frutto della ragione, è qualcosa di molto simile a un uomo. iferimenti bibliografici: W.L. R Shirer, Storia del Terzo Reich, trad. di G. Glaesser, Einaudi, Torino 1962; H. Arendt, Le origini del totalitarismo, Edizioni di Comunità, Torino 1999.

Copertina di un’edizione statunitense di Fahrenheit 451 di Ray Bradbury.

Rogo di libri a Berlino. Questi roghi vennero organizzati nel 1933 dalle autorità della Germania nazista per bruciare le pubblicazioni non corrispondenti all’ideologia nazista.

L’evoluzione della lingua 4 31


Arte nel tempo

Tra Cinquecento e Seicento La pittura di Caravaggio

L’arte figurativa di Michelangelo Merisi da Caravaggio (1571-1610) incarna le complessità del clima culturale degli ultimi anni del Cinquecento e anticipa la sensibilità del secolo successivo. Da un lato la sua pittura è radicata nella realtà e ispirata al dato naturale, rivolgendo un’attenzione al quotidiano che incontra sia le necessità della Controriforma sia l’interesse razionale seicentesco verso la realtà. Dall’altro mostra un interesse crescente verso il movimento e il dinamismo, aspetti cardini del Barocco.

11 La Vocazione di san Matteo di Caravaggio La Vocazione di san Matteo (1600) è parte del ciclo realizzato per la Cappella Contarelli nella chiesa romana di San Luigi dei Francesi, prima importante commissione pubblica per Caravaggio, trasferitosi a Roma dopo la formazione a Milano presso Simone Peterzano ed entrato in contatto con il mecenatismo romano attraverso il cardinale Federico Maria del Monte. La scena rappresenta l’entrata di Cristo accompagnato da san Pietro in una locanda, spoglia ed essenziale. L’aspetto quotidiano del tavolo e delle sedute dove è riunito il gruppo di uomini, vestiti di abiti seicenteschi, collocano la scena al tempo di Caravaggio. Il braccio proteso di Cristo, gesto della vocazione, rimanda alla Creazione michelangiolesca della Sistina ed è accompagnato da un fascio di luce proveniente da destra dove si vede una finestra chiusa, a sottolineare che la luce non proviene da una fonte naturale, ma è

la luce della grazia. All’apparizione di Cristo gli uomini reagiscono voltandosi e uno di essi, identificato come il santo, riprendendo il gesto di Cristo, si indica come a chiedere “è proprio me che stai chiamando?”. Un’interpretazione recente identifica invece san Matteo con il giovane a capotavola con il capo ancora abbassato che conta il denaro, interpretando il gesto dell’uomo anziano come rivolto verso il giovane. La chiarezza narrativa, la concretezza dell’ambientazione, il naturalismo con cui le figure si muovono nello spazio caratterizzano il lessico pittorico di quest’opera della prima maturità del pittore. Caravaggio fonda il colorismo della sua tavolozza nel contrasto tra luce e ombra allegoria della manifestazione di Dio. Nei suoi dipinti le scene accadono con un realismo essenziale ed espressivo, in cui le figure appaiono animate nel presente. Caravaggio, Vocazione di san Matteo, 1600, olio su tela (Roma, San Luigi dei Francesi, Cappella Contarelli).

32 Seicento Scenari socio-culturali


Il Barocco romano

Il Seicento è un secolo caratterizzato da tensioni culturali divergenti, in cui convivono il fermento religioso delle guerre di religione, l’avanzamento tecnologico della Rivoluzione inglese, e l’interesse per un pensiero più razionale che parta dall’osservazione del reale e che si concretizza con la nascita del metodo scientifico. Dal punto di vista della produzione figurativa e dell’architettura, si assiste all’affermazione di forme intricate e complesse e di una teatralità illusionistica, che saranno definite usando il termine Barocco. Roma nel Seicento è luogo di grande fermento costruttivo e di importanti committenze, trasformata da una serie di interventi urbani monumentali tesi a soddisfare le esigenze monumentali della Chiesa controriformata. Il cosiddetto Barocco romano è opera di grandi personalità come Gian Lorenzo Bernini, Francesco Borromini, Pietro da Cortona, le cui opere sono caratterizzate da una radicale e coinvolgente visionarietà trasformativa.

La 1 Estasi di santa Teresa di Gian Lorenzo Bernini La concezione integrata di scultura e architettura alla base della pratica di Gian Lorenzo Bernini (1598-1680) guida l’intervento nella Cappella Cornaro in Santa Maria della Vittoria a Roma, dove l’artista lavora dal 1647 al 1652. La scultura è pensata per invadere lo spazio caratterizzato da un vivace colorismo marmoreo che coinvolge il fedele dentro la rappresentazione sacra. Al centro del complesso decorativo Bernini inserisce il gruppo scultoreo Estasi di santa Teresa d’Avila, dove rappresenta la transverberazione della santa, riversa su una nuvola mentre un angelo le solleva la veste con una mano e con l’altra tiene una freccia con cui sta per trafiggerla. Le due figure realizzate in un marmo bianchissimo sono inserite

in una struttura classicheggiante movimentata dalla curva dell’architrave e del timpano. Dietro alle sculture, dei raggi dorati vibranti della luce naturale che entra da un’apertura nascosta movimentano la scena. Il complesso decorativo marmoreo è completato da due finti palchi teatrali dai quali si affacciano i membri della famiglia Cornaro come se stessero assistendo a uno spettacolo. Il vitalismo e l’estrema espressività dei personaggi accentuano il dinamismo dell’insieme, che è un esempio del “bel composto” tra le arti berniano e della capacità dell’artista di progettare uno spazio teso a stupire in senso scenografico, dove l’immagine si fa illusione di presenze reali. online

Arte nel tempo San Carlino alle Quattro Fontane e la cupola di Sant’Ivo alla Sapienza di Francesco Borromini Il Trionfo del nome di Gesù di Giovan Battista Gaulli e la Glorificazione di sant’Ignazio di Loyola di Andrea Pozzo

Gian Lorenzo Bernini, Estasi di santa Teresa d’Avila, marmi policromi, stucco, bronzo e affresco, 1647-1652 (Roma, Santa Maria della Vittoria, Cappella Cornaro).

Arte nel tempo 4

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Seicento Scenari socio-culturali L’età del Barocco

Sintesi con audiolettura

1 La visione del mondo. Figure, luoghi e centri della cultura

Un “cielo nuovo” Con la pubblicazione del Sidereus Nuncius (1610) di Galileo Galilei, la rivoluzione eliocentrica di Copernico inizia a diffondersi e ad affermarsi anche al di là di una stretta cerchia di intellettuali e scienziati. Attraverso le osservazioni astronomiche con il cannocchiale, Galileo dimostra somiglianze tra la Terra e la Luna, sfidando la dicotomia Terra-cielo e favorendo l’idea di leggi uniformi. Le scoperte astronomiche di Galileo cambiano la visione del cosmo. Il cannocchiale svela la natura stellare della Via Lattea e nuovi corpi celesti, ampliando la percezione dell’universo. L’immagine dell’uomo e dell’esistenza: instabilità e mutamento La rivoluzione copernicana e le scoperte di Galilei influenzano profondamente la visione del mondo. Con l’adozione dell’eliocentrismo, cade l’ipotesi medievale di un ordine celeste prestabilito da Dio, portando alla riflessione sulla transitorietà delle cose terrene. Questa visione, espressione anche del clima controriformistico, influisce sull’arte e sulla letteratura barocca, evidenziata dall’iconografia della vanitas, che simboleggia la precarietà e l’inevitabilità della morte. Smarrito ogni senso di ordine e di armonia, il senso della mutevolezza investe l’identità stessa dell’uomo. Nella visione della realtà domina l’equivalenza mondo-teatro: ciò che cade sotto i sensi può rivelarsi una parvenza illusoria. I valori e i modelli di comportamento In quest’epoca il comportamento è improntato all’austerità e le virtù fondamentali sono quelle dell’obbedienza e dell’“onesta dissimulazione”, fondata sulla prudenza e sulla riservatezza. La classe aristocratica, tornata ad avere un ruolo preminente nell’ordine sociale (rifeudalizzazione), assume un contegno

34 Seicento Scenari socio-culturali


contrassegnato dal fasto, dall’alterigia e dalla violenza. I modelli di comportamento si irrigidiscono: il Seicento è il periodo in cui i duelli, per ragioni d’onore, divengono una consuetudine. Il ruolo dell’intellettuale Nel corso del Seicento l’influsso della Controriforma limita la libertà di pensiero e, in questo clima di oppressione, la maggior parte degli intellettuali sceglie la “dissimulazione” prudente delle proprie idee. Ci sono però scrittori che non accettano tali restrizioni e assumono un ruolo di coscienza critica. È il caso di Giordano Bruno, denunciato dall’Inquisizione per le sue teorie sull’universo, che egli considera infinito, e morto sul rogo come eretico, di Tommaso Campanella, convinto sostenitore della missione profetica dell’intellettuale e perseguitato dalla Chiesa controriformistica da lui accusata di aver tradito il compito affidatole. Anche lo storico Paolo Sarpi esercita tale ruolo di intellettuale critico, denunciando lo strapotere della Chiesa. Due città in conflitto: Roma, città dei papi, e Venezia, “porta dell’Italia verso l’eresia” Nel Seicento Roma e Venezia si configurano come due città in contrapposizione. La prima si presenta come una monarchia assoluta, centro di potere e di cultura; la seconda si dimostra una città aperta ai contatti con i protestanti e una capitale del divertimento. Chi sostenne Venezia dall’ingerenza della Chiesa fu Paolo Sarpi, autore dell’Historia del Concilio tridentino, opera subito messa all’Indice. I centri della cultura In Italia nasce un gran numero di accademie e acquistano particolare rilevanza quelle scientifiche, la più importante delle quali fu l’Accademia dei Lincei di cui fu membro anche Galileo. Le accademie scientifiche miravano a uno sviluppo costante delle conoscenze e si contrapponevano alle università, rivolte alla trasmissione di un sapere tradizionale autorevole.

2 Modelli del sapere e tendenze filosofico-scientifiche

Contro il principio di autorità: la ricerca del metodo e la nascita della scienza. Al principio di autorità si oppongono i fondatori del nuovo metodo scientifico, convinti di dover ristrutturare dalle fondamenta l’edificio del sapere, basato sui princìpi aristotelici, di cui si era mostrata l’infondatezza. Il dubbio diviene ora il nuovo principio metodologico imprescindibile. Si afferma la nuova figura dello scienziato, che affianca il sapere intellettuale a quello tecnico, ripreso dalle arti meccaniche, e adotta il metodo sperimentale.

3 Caratteri e forme della letteratura

Il Barocco e la ricerca del nuovo Nel Seicento si afferma nell’arte figurativa e in letteratura il Barocco, che si stacca dai modelli classici e tende al nuovo, seguendo una sola regola: «saper rompere le regole», come afferma Marino. La letteratura barocca è caratterizzata dalla volontà di stupire e da una continua ricerca di originalità, per cui i generi e i modelli tradizionali sono profondamente rinnovati. Il termine “barocco”, dall’etimologia incerta, rinvia forse al portoghese barroco, che indica una perla di forma asimmetrica o a un tipo di sillogismo medioevale particolarmente astruso. La poetica dell’“ingegno” e e la centralità della metafora Come in arte, così in letteratura, il Barocco è uno stile ricco e sovrabbondante, per la profusione di figure retoriche e soprattutto di metafore, volutamente originali per illuminare aspetti nuovi della realtà e per la capacità di aprire un «pien teatro di meraviglie», come scrive nel suo trattato sul Barocco il letterato secentesco Emanuele Tesauro. L’evoluzione Sintesi dellaSeicento lingua 4 35


Il rinnovamento dei generi letterari Il Seicento è un’epoca di grande rinnovamento dei generi letterari. Da un lato i generi tradizionali assumono una nuova veste — la lirica si caratterizza per la grande sperimentazione e l’obiettivo di stupire il lettore; il poema per l’anticlassicismo; il trattato per la finalità di sostenere una tesi) —, dall’altro nascono nuovi generi come il melodramma, la commedia dell’arte, il trattato scientifico e il romanzo.

4 L’evoluzione della lingua

Tra vecchio e nuovo: la lingua del Seicento In ambito linguistico nel XVII secolo il volgare, derivato dal toscano letterario, si consolida come lingua letteraria nazionale, secondo la tesi sostenuta da Bembo. Una data importante nella storia della lingua è il 1585, anno in cui viene fondata l’Accademia della Crusca. In ambito letterario vengono rivalutati anche i dialetti per la loro ricchezza espressiva. Il latino continua a essere lingua della Chiesa e delle università e strumento di comunicazione internazionale. Un’audace innovazione è quella di Galileo che, superando la tradizione dell’uso del latino nello studio della filosofia e della scienza, adotta il volgare per il trattato scientifico.

Zona Competenze Scrittura creativa

1. Immagina di essere un poeta barocco e prova a scrivere almeno tre esempi di metafore che suscitino meraviglia e stupore nei lettori per l’originalità degli accostamenti ideati.

Competenza digitale

2. Utilizzando Google Maps crea due itinerari virtuali alla scoperta di luoghi emblematici del ruolo che le città di Roma e Venezia ebbero nel Seicento.

Discussione orale

3. Scegliete una o più tematiche di studio tra quelle proposte di seguito e avviate una discussione in classe su caratteristiche in comune e aspetti divergenti rispetto alla realtà contemporanea. Prendete nota degli interventi e tenete traccia di eventuali documenti utilizzati durante la discussione in classe. • Il ruolo dell’intellettuale nella società • Il sistema di valori della società del Seicento • La concezione del sapere • Il sistema linguistico del Seicento

Scrittura

4. In un breve testo espositivo-argomentativo (max 20 righe) spiega i rapporti tra il clima storico, sociale e culturale e le espressioni letterarie fiorite tra la fine del Cinquecento e il Seicento.

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Seicento CAPITOLO

1 Marino e la lirica barocca

La lirica è uno dei generi in cui emergono maggiormente la ricerca del nuovo e la volontà sperimentale del Barocco. Emblematico è il poema Adone di Giambattista Marino, che ai temi e ai valori eroici dell’epos contrappone il piacere, la pace, la scienza. Le raccolte poetiche del Seicento testimoniano una netta rottura rispetto al petrarchismo e si riferiscono a diverse aree tematiche. Nella poesia “marinista” la tradizionale lode della donna è sovvertita, secondo la “poetica della meraviglia”. Ne derivano nuove rappresentazioni del femminile che accolgono il difforme, l’inusuale, persino il brutto e il patologico. Temi tipici della lirica barocca sono l’illusorietà del reale, la brevità e vanità della vita e l’ossessione della morte, che caratterizzano anche la grande lirica europea, dalla Spagna con Góngora e Quevedo, all’Inghilterra con John Donne e Shakespeare.

1 Una nuova lirica il maggior poeta 2 Marino, barocco 3 I poeti “marinisti” gli “eccessi”: il 4 Contro classicismo barocco 5 La grande lirica europea 37


1 Una nuova lirica 1 La poetica barocca della meraviglia La lirica barocca è caratterizzata soprattutto dalla ricerca di originalità. Giambattista Marino, indiscusso caposcuola della lirica barocca italiana – che in Italia, perciò, sarà anche definita “marinista” –, afferma nella sua Murtoleide (XXXIII fischiata, vv. 9-11) che lo scopo fondamentale di un poeta è quello di suscitare la «meraviglia» dei lettori: «È del poeta il fin la meraviglia / (parlo de l’eccellente, non del goffo): / chi non sa far stupir, vada a la striglia». I poeti barocchi rifiutano perciò le regole classicistiche, che erano considerate imprescindibili nel primo Cinquecento, e abbandonano l’autorevole modello petrarchesco. Significativamente il critico Carlo Calcaterra intitola un suo importante saggio (del 1940) sulla poesia barocca Il Parnaso in rivolta: il Parnaso (il monte dove, secondo la mitologia, soggiornavano le Muse) simboleggia infatti l’armonia della poesia classica, volutamente sovvertita dai poeti marinisti nella loro ricerca di novità: una ricerca che investe sia i temi, sia lo stile, in particolare attraverso la moltiplicazione e l’estrema creatività (ai limiti dell’astrusità) delle metafore, che collegano realtà tra loro molto distanti per creare punti di vista nuovi e originali (➜ PAG. 23).

2 La rivisitazione dei motivi della tradizione online

Interpretazioni critiche a confronto I due volti del Barocco: crisi conoscitiva e arte dell’infinito. Calcaterra, «L’anima in barocco» vs Hauser, Il barocco, arte dell’infinito

Anche motivi topici della tradizione letteraria sono rinnovati dal particolare “sguardo” barocco: ad esempio, nel celebre sonetto di Marino Onde dorate, e l’onde eran capelli (➜ T2a ), il motivo topico dell’elogio della bellezza della donna amata risulta trasformato dall’insistenza su un singolo dettaglio (la bionda chioma ondulata della donna) e dalla serie di fantasiose metafore impiegate dal poeta per descriverlo (le onde dei capelli divengono un mare dorato in tempesta, in cui naufraga il cuore dell’amante).

Pieter Paul Rubens, Toeletta di Venere, 1628 ca. (Madrid, Museo Thyssen– Bornemisza).

38 Seicento 1 Marino e la lirica barocca

Dalla vicenda amorosa “esemplare” alla varietà tematica L’originalità della poesia barocca emerge anche nell’organizzazione dei canzonieri: non si tende più (come avveniva nel Quattro-Cinquecento) a riprodurre il modello petrarchesco di una storia esemplare, spesso culminante nel pentimento conclusivo; quello amoroso diviene uno dei tanti temi di una lirica che punta più sulla varietà degli argomenti che sull’approfondimento delle vicissitudini interiori incentrate su un amore idealizzato, nutrito della visione neoplatonica, come avviene nel classicismo cinquecentesco. Il maggiore poeta barocco italiano è Gianbattista Marino, a cui in vario modo si richiamano i cosiddetti “marinisti”, ai quali faremo riferimento specifico in seguito.


Sguardo sull’arte Due esempi dell’immaginario manieristico e barocco Arcimboldo, pittore della «maraviglia» La ricerca di originalità della lirica manieristica e barocca trova un corrispettivo artistico nella pittura di Giuseppe Arcimboldi, detto l’Arcimboldo (1527-1593), famoso per i suoi volti costruiti con un insieme di diversi elementi, fiori, frutti, pesci, animali, ma anche un bibliotecario tutto fatto di libri: l’equivalente in pittura dell’originalità delle metafore barocche, che associano elementi tra loro eterogenei. Ad esempio, L’Ortolano (1590 ca.): il dipinto sembra un viso, ma, capovolto appare come una ciotola di vegetali. Bomarzo, un luogo della «maraviglia» barocca Il bizzarro immaginario manieristico e barocco sembra concretizzarsi nel Parco dei Mostri di Bomarzo (in provincia di Viterbo), fatto costruire da Vinicio Orsini nel secondo Cinquecento. A Bomarzo si trova tutto ciò che può suscitare meraviglia: una casa pendente, una gigantesca tartaruga bizzarramente sormontata da una figura statuaria drappeggiata, elefanti, animali fantastici, draghi, esseri mitologici, l’enorme testa di un orco che emerge dal verde con gigantesche fauci spalancate, in cui si trova un minuscolo vano, dove possono entrare i visitatori (la bocca dell’Orco).

Giuseppe Arcimboldi, detto l’Arcimboldo, L’Ortolano, 1590 ca. (Cremona, Museo Civico Ala Ponzone).

L’Orco all’interno del Parco dei Mostri di Bomarzo (Viterbo), progettato e realizzato nel 1547 da Pirro Ligorio.

Una nuova lirica 1 39


2 Marino, il maggior poeta barocco 1 Una vita irrequieta e avventurosa

La formazione di un intellettuale cortigiano Il poeta più famoso e rappresentativo dello stile barocco in Italia è sicuramente Giambattista Marino. Nato a Napoli nel 1569, inizia la sua carriera di poeta cortigiano nelle piccole corti napoletane. Qui comincia a coltivare la passione per l’arte, che avrebbe in seguito ispirato una delle sue raccolte più originali, La Galeria (1619), in cui, come in una collezione d’arte, descrive una serie di dipinti e sculture, gareggiando nei suoi versi con le arti visive. Ma, accanto ai lussi e alle raffinatezze della vita cortigiana, due soggiorni in carcere (il primo per motivi non chiari, il secondo per un falso in atti processuali) testimoniano il carattere irrequieto e insubordinato del poeta. Alla corte dei Savoia Costretto dalle vicissitudini giudiziarie a lasciare Napoli, cerca riparo prima a Roma, dove entra a servizio del cardinale Aldobrandini, nipote del papa, e diviene famoso con le sue Rime, stampate a Venezia (1602); in seguito a Torino, accolto alla corte del duca di Savoia, da cui per meriti poetici viene nominato cavaliere (per questo è famoso anche come ˝il cavalier Marino˝). L’onore ricevuto gli inimica un poeta rivale a corte, Gaspare Murtola, che Marino, con spregiudicatezza, scredita con ogni mezzo e contro cui scrive la Murtoleide, un’opera satirica in cui non gli risparmia le ingiurie e le offese pesanti, definendo il rivale «matto», «incesto di porco e di castrone», «gaglioffo» e augurandosi, dopo averne visto appeso il ritratto, di «vedere anche impiccato l’esemplare». Esasperato, l’avversario risponde a colpi di pistola, che lasciano illeso Marino. In seguito entra in contrasto anche con il duca di Savoia, che lo tiene in prigione per più di un anno. A Parigi: l’apoteosi della fama e del successo Finalmente liberato, il poeta, ormai celebrato come massimo esponente del nuovo gusto alla moda, è accolto a Parigi alla corte di Maria de’ Medici, reggente per Luigi XIII, dove raggiunge ciò che da sempre desiderava: fama, successo, ricchezza. Al culmine della sua carriera di poeta cortigiano, può scrivere: «Qui me ne sto come un papa ed ho tanti quattrini che non so quel che farne».

Frans Pourbus il giovane, Ritratto virile (probabilmente Giambattista Marino), 1619 ca. (Institute of Arts, Detroit).

40 Seicento 1 Marino e la lirica barocca

La pubblicazione dell’Adone Lontano dallo stretto controllo della censura ecclesiastica, che da tempo lo teneva d’occhio per i suoi versi considerati immorali, in Francia Marino dà alle stampe quasi tutti i suoi scritti, e in particolare, nel 1623, pubblica L’Adone, la sua opera più importante. Il poema, a cui lavorava da tempo, riceve una struttura definitiva proprio negli anni parigini, quando (come ha dimostrato il critico Giovanni Pozzi) Marino vi include i temi più innovativi, nati dal contatto con intellettuali francesi come Cartesio, Gassendi, e i libertini (➜ C12 OL). Raggiunta con L’Adone l’apoteosi della fama e del successo, nel 1623 torna in Italia, dove viene accolto trionfalmente.


Il poema e la censura controriformistica Ben presto però cominciano i problemi con la censura ecclesiastica. Marino aveva tentato di eludere i sospetti della Chiesa, premettendo a ogni canto improbabili allegorie moraleggianti. Nonostante i goffi tentativi di camuffare il vero significato del poema (Marino afferma che «quanto vi è di lascivo, è tutto indirizzato al fine della moralità»), nel suo fluviale sviluppo, L’Adone presenta contenuti non certo allineati all’ortodossia (un elogio di Galileo, critiche alla stessa Chiesa controriformistica, la celebrazione di comportamenti sensuali o lascivi, che arrivano fino a una ripresa parodica di motivi religiosi), e fiancheggia idee decisamente in contrasto con i princìpi religiosi (su tutto una concezione del mondo materialistica). Non c’è dunque da sorprendersi se, dopo la morte del poeta, avvenuta nel 1625, l’opera viene inserita nell’Indice dei libri proibiti.

2 L’Adone, poema barocco del piacere sensuale

Veronese, Venere e Adone, 1580 (Museo del Prado, Madrid).

La vicenda Per una vendetta di Amore, Venere si innamora del bellissimo Adone, giunto a Cipro, dimora della dea. Con la guida di Mercurio, lo conduce all’interno del suo palazzo, nel Giardino del Piacere, dove ci sono cinque zone che rappresentano i cinque sensi; nel giardino più interno, quello del tatto, gli amanti sono congiunti in matrimonio da Mercurio. Adone e Venere si recano poi all’isola della Poesia, dove viene introdotta una rassegna di poeti, greci, latini e italiani. Dall’isola della Poesia, Adone intraprende una sorta di viaggio dantesco nei cieli più vicini alla terra secondo la cosmologia tolemaica: sulla luna Adone visita la grotta della Natura, su Mercurio il palazzo dell’Arte, in cui sono raccolti gli esemplari di tutte le future invenzioni e di tutti i libri importanti; in una digressione a proposito del cannocchiale, il poeta elogia Galileo. Dopo altre vicissitudini, Adone è eletto re di Cipro. Ottiene poi da Venere il permesso di cacciare in una riserva piena di belve feroci, dove è ucciso da un cinghiale inviato da Marte, amante di Venere e geloso di Adone. Ai giochi funebri in onore di Adone partecipano vari nobili cavalieri, fra i quali Fiammadoro, che rappresenta la Francia. Su uno scudo donato da Venere a Fiammadoro sono rappresentate le guerre di religione combattute in Francia, per la quale, dopo il tragico periodo dei conflitti religiosi, si apre una nuova era di pace. I caratteri dell’opera L’Adone di Marino rappresenta in pieno il gusto barocco, in evidente contrasto con il poema eroico del cattolicesimo controriformista, la Gerusalemme liberata (non a caso l’Adone è stato definito dal critico Giovanni Pozzi «un’antigerusalemme»). Innanzitutto la vicenda narrata non Marino, il maggior poeta barocco 2 41


è storica ma mitologica: il poema narra infatti gli amori di Venere e del bellissimo giovinetto Adone, con una chiara ripresa dalle Metamorfosi di Ovidio. Rispetto alla concezione cristiana ed eroica della Gerusalemme liberata il punto di vista nell’Adone è ribaltato: cardine dell’azione del poema mariniano è la ricerca del piacere sensuale da parte del protagonista, per il quale non è previsto né alcun ripensamento né una qualsiasi maturazione etica e religiosa, come invece avviene ad esempio per l’eroe tassiano Rinaldo. Adone non ha più nulla dello status di eroe epico: non è investito di alcuna missione, non è votato ad alcuna causa, non è nemmeno identificabile da un insieme di prerogative etiche, ideologiche o almeno psicologiche tipicamente sue, ma esclusivamente dal suo aspetto seducente (è eletto re di Cipro non per qualche impresa eroica, ma perché vincitore di un concorso di bellezza). Adone è il suo corpo e le varie sensazioni che ne ricava. I nuovi valori del poema Il poema di Marino tuttavia non è del tutto disimpegnato: esprime infatti dei valori, seppur ormai differenti da quelli epici. Il primo è la pace. L’Adone è un «poema di pace», come già lo definiva il critico francese Jean Chapelain, in un’introduzione pubblicata a Parigi insieme all’opera. L’antagonista di Adone nel poema è Marte, dio della guerra, che lo fa uccidere da un cinghiale, mentre gli sono favorevoli Venere, dea dell’amore, e Mercurio, divinità ingegnosa e pacifica, che lo guida in un percorso di conoscenza, prima in giardini dedicati alle esperienze dei cinque sensi, poi nei cieli della Luna, di Mercurio e di Venere. Durante tale viaggio emerge un secondo tema portante dell’opera: l’esaltazione della scienza, messa in luce nell’elogio di Galileo e nella celebrazione delle più moderne scoperte scientifiche e dei ritrovati della tecnica. L’amplificazione barocca e la dissoluzione del poema epico L’Adone è il poema più lungo della letteratura italiana: Marino arriva a trasformare un episodio narrato da Ovidio in 73 versi in un poema di oltre 40.000 versi, in venti canti. L’esile trama principale è continuamente intersecata da innumerevoli digressioni, dalla costante germinazione di episodi secondari, da molteplici indugi descrittivi che infrangono l’unità del poema, conferendogli una natura mutevole e policentrica. Per questi caratteri, frutto del rifiuto delle regole classicistiche e dell’esuberanza immaginativa tipica del Barocco (Giulio Ferroni ha parlato di un «esuberante repertorio del visibile»), oltre che per gli aspetti tematici di cui si è parlato, l’Adone rappresenta la definitiva crisi del poema epico.

L’Adone Genere

«poema di pace» che si configura come un “antigerusalemme”

Struttura

20 canti in oltre 40.000 versi (è il poema più lungo della letteratura italiana)

Datazione

1623

Contenuti

storia d’amore tra Amore e Venere, esaltazione della scienza; valorizzazione della pace; digressioni su molteplici argomenti, episodi mitologici

42 Seicento 1 Marino e la lirica barocca


Lo stile Anche lo stile del poema riflette il gusto barocco, nell’impiego insistito, soprattutto nelle parti descrittive, di metafore inusuali, a volte in sequenza, che istituiscono collegamenti arditi, anche se Marino, rispetto ad altri poeti del tempo, è sempre attento a salvaguardare la comprensibilità del testo. Molto ricco e ricercato è il tessuto retorico, con l’impiego in particolare di antitesi, anafore, e di figure di suono, in particolare allitterazioni. Prerogativa di Marino infine è la ripresa di forme, stilemi e registri di tutta la tradizione letteraria, rivisitati però e miscelati tra loro e con forme nuove, così da risultare nuovi a loro volta.

3 Le principali raccolte liriche

Agnolo Bronzino, Allegoria, 15401545 (Londra, National Gallery).

Dopo la pubblicazione nel 1602 delle Rime, che lo fanno conoscere al pubblico e agli scrittori del tempo, più di un decennio dopo, nel 1614, Marino procede a una selezione del materiale poetico precedente, vi aggiunge una ampia nuova sezione e pubblica tre volumi di liriche raccolte sotto il nome complessivo La lira, con riferimento alla musicalità dei suoi versi, che gli assicura grande fama ed esercita forte influenza sui poeti del tempo, i quali guarderanno a lui come principale modello. Marino ricerca consapevolmente il favore del pubblico, aprendo la poesia a nuovi temi, accanto a quelli tradizionali. Al centro rimane comunque il tema dell’amore, ma Marino si lascia alle spalle la tradizione petrarchista, l’interesse per complesse analisi introspettive, per dare spazio a una poesia sensuale e preziosamente descrittiva. Molto spesso, come è stato osservato, Marino utilizza materiali precedenti della intera tradizione letteraria – come afferma egli stesso nella prefazione alla raccolta La Sampogna, era solito «leggere col rampino» (“uncino”, “gancio”) i testi di altri autori, per attingervi materiale e riutilizzarlo nelle proprie opere –, che assumono però, in un diverso contesto e filtrati da una nuova sensibilità, un volto rinnovato; una tendenza, quella del “riuso” di molteplici fonti letterarie, che ritornerà in d’Annunzio, anche per altri aspetti spesso paragonato al Marino. Il gusto della descrizione è ulteriormente accentuato in La galeria (1619), in cui le liriche traggono spunto da opere d’arte (Marino era anche un appassionato collezionista) che vengono in un certo senso “catalogate” come appunto nelle gallerie pubbliche o, più spesso, private, di cui Marino era frequentatore. La raccolta, che evidenzia il legame tra le varie arti, tipico del gusto barocco, avrebbe dovuto essere illustrata da riproduzioni delle opere a cui si fa riferimento, ma l’operazione fu abbandonata perché sarebbe risultata troppo dispendiosa. Marino, il maggior poeta barocco 2 43


Giambattista Marino

T1

Elogio della rosa L’Adone III, ott. 156-161

G.B. Marino, L’Adone, a c. di G. Pozzi, Mondadori, Milano 1976

La dea Venere, punta da una rosa, ne tinge i petali di sangue, colorandoli di vermiglio. Recandosi a una fonte per bagnare la ferita, incontra Adone, di cui si innamora; rivolge perciò un elogio alla rosa, indiretta causa dell’incontro amoroso. Da tale esile pretesto narrativo si sviluppa uno dei passi più noti dell’Adone, e uno dei più significativi esempi dello stile barocco, caratterizzato dalla sontuosa ricchezza delle metafore, risplendenti di luci e di colori. Il passo costituisce pertanto un’efficace esemplificazione del «pien teatro di meraviglie» prodotto, secondo Tesauro, dalla poetica barocca.

156 Rosa riso1 d’amor, del ciel fattura2, rosa del sangue mio fatta vermiglia3, pregio del mondo e fregio di natura4, 4 dela terra e del sol vergine figlia, d’ogni ninfa e pastor delizia e cura, onor dell’odorifera famiglia5, tu tien d’ogni beltà le palme prime6, 8 sovra il vulgo de’ fior donna sublime7. 157 Quasi in bel trono imperadrice altera siedi colà su la nativa sponda8. Turba d’aure vezzosa e lusinghiera 12 ti corteggia dintorno e ti seconda9 e di guardie pungenti armata schiera10 ti difende per tutto e ti circonda. E tu fastosa del tuo regio vanto 16 porti d’or la corona e d’ostro il manto11. 158 Porpora de’ giardin, pompa12 de’ prati, gemma di primavera, occhio d’aprile13,

La metrica Ottave di endecasillabi, con

5 odorifera famiglia: la specie dei fiori

schema ABABABCC

profumati. 6 tu tien… prime: tu ottieni il primo premio in ogni gara di bellezza. Presso gli antichi, un ramo di palma era simbolo di vittoria. 7 sovra… sublime: sopra il popolo dei fiori signora eminente. Viene anticipato il tema della rosa come regina dei fiori. 8 siedi… sponda: siedi (come su un trono) nel luogo in cui sei nata. 9 Turba… seconda: una folla di venti leggeri, come se ti vezzeggiassero, ti fa da corteo regale e ti segue. I venti sono per-

1 Rosa riso: la metafora è sottolineata dalla paronomasia e dall’allitterazione. 2 del ciel fattura: opera divina. È da notare il chiasmo, che conferisce simmetria al verso. 3 del sangue… vermiglia: secondo il mito, la rosa, prima bianca, diviene rossa perché macchiata dal sangue di Venere. 4 pregio… di natura: cosa preziosa del mondo e ornamento della natura. È da notare la rima interna (pregio : fregio), che accresce la musicalità del testo.

44 Seicento 1 Marino e la lirica barocca

sonificati, secondo l’uso della mitologia. 10 di guardie… schiera: si riferisce alle spine, che difendono il fiore. Anche questo verso è costruito a chiasmo. 11 porti… manto: porti una corona dorata (gli stami del fiore) e un mantello di porpora (i petali vermigli). A completare la metafora della rosa regina dei fiori, vengono evidenziati i segni del fasto regale. 12 pompa: splendore. 13 occhio d’aprile: la rosa sembra aprirsi come un occhio nel prato, per il contrasto di colori.


di te le Grazie e gli Amoretti alati fan ghirlanda ala chioma, al sen monile14. Tu qualor torna agli alimenti usati ape leggiadra o zefiro15 gentile, dai lor da bere in tazza di rubini16 24 rugiadosi licori17 e cristallini18. 20

159 Non superbisca19 ambizioso il sole di trionfar20 fra le minori stelle, ch’ancor tu fra i ligustri e le viole 28 scopri le pompe tue superbe e belle21. Tu sei con tue bellezze uniche e sole splendor di queste piagge22, egli di quelle, egli nel cerchio suo, tu nel tuo stelo, 32 tu sole in terra, ed egli rosa in cielo. 160 E ben saran tra voi conformi voglie23, di te fia ’l sole e tu del sole amante. Ei de l’insegne tue, dele tue spoglie 36 l’Aurora vestirà nel suo levante24. Tu spiegherai ne’ crini e nele foglie la sua livrea dorata e fiammeggiante25; e per ritrarlo ed imitarlo a pieno 40 porterai sempre un picciol sole in seno26. 14 monile: gioiello, collana. 15 zefiro: vento primaverile. Anche in questo caso il vento è personificato. 16 tazza di rubini: il calice rosso del fiore. 17 licori: liquori, bevande. 18 cristallini: limpidi, puri. 19 superbisca: insuperbisca. 20 trionfar: la forma tronca del verbo conferisce maggior rilievo e sonorità al

verso. L’incontro vocalico io presente in ambizioso e trionfar prolunga la durata dei versi e ne rafforza la sonorità trionfale. 21 ch’ancor… belle: che anche tu fra i ligustri (piante con fiori bianchi) e le viole manifesti orgogliosamente la tua superiorità. 22 piagge: regioni; si riferisce alla terra. 23 conformi voglie: desideri in armonia, amore ricambiato.

24 Ei… levante: al suo sorgere, l’Aurora vestirà il sole, dei suoi colori rosati, simili ai tuoi; spoglie in questo caso sono le vesti, altra metafora per i petali della rosa. 25 Tu spiegherai… fiammeggiante: tu mostrerai nella corolla i suoi colori dorati e splendenti. 26 un picciol… seno: un piccolo sole nella tua corolla (gli stami).

Cornelis Holsteyn, Venere e Cupido piangono la morte di Adone, 1655 (Haarlem, Frans Hals Museum).

Marino, il maggior poeta barocco 2 45


Analisi del testo Lo stile barocco della meraviglia Il passo è un esempio dell’illusionistico «teatro di meraviglie» prodotto dalle metafore, di cui parla Tesauro nel Cannocchiale aristotelico. Nella tradizione letteraria, la bellezza della rosa era associata all’effimero splendore della giovinezza, e se ne ricavavano diversi ammonimenti, come quello medievale a trascurare le realtà effimere del mondo e quello opposto, rinascimentale, a goderne finché fosse possibile. A Marino interessa il gioco delle metafore più della morale che può trarne: egli vuole sorprendere il lettore, secondo la poetica barocca, e perciò associa alla rosa non una, ma molte metafore, in un sorprendente caleidoscopio di immagini in continuo mutamento. La prima, che vede la rosa come regina dei fiori, è sviluppata in una serie di metafore secondarie, che evocano uno splendido ambiente regale: lo stelo è il trono, le spine guardie armate, i venti un corteo regale, i petali purpurei il manto, il pistillo dorato la corona. L’atmosfera preziosa della descrizione è sottolineata dall’elaborata tessitura fonica dei versi, ricchi di allitterazioni («Rosa riso d’amor», r. 1) e rime interne (pregio : fregio, al v. 3, ecc.); tra le figure retoriche predominano il parallelismo e il chiasmo, che evidenziano una tendenza alla simmetria, tipica di questo poeta.

Il moltiplicarsi delle metafore Alla prima metafora, come è caratteristico dello stile barocco, ne succedono altre sempre più inconsuete e originali (la rosa, che spicca purpurea sul verde dei prati, è paragonata a un occhio e a una tazza di rubini, in cui si dissetano le api e i venti primaverili). Le metafore si susseguono a grappolo subentrando l’una all’altra, cosicché, secondo una caratteristica del Barocco, «l’una estromette l’altra in un continuo gioco di sostituzioni, come se ciascuna, lasciata a sé stessa, non dovesse bastare a raggiungere lo scopo» (Rousset). L’immagine iniziale della rosa sembra così continuamente trasformarsi, in una serie di metamorfosi, che culminano in quella finale, in uno scenario cosmico: la rosa è paragonata al sole e, specularmente, anche il sole diviene «rosa in cielo».

Il rapporto tra rivoluzione cosmologica e stile barocco Il punto di vista passa così improvvisamente dalla terra al cielo, rovesciando la prospettiva. Lo stile barocco del passo sembra porsi in rapporto con la rivoluzione cosmologica: probabilmente non è un caso che il poeta, autore di un elogio a Galileo (X, 42-47), proponga all’immaginazione del lettore prospettive interscambiabili, prima dalla Terra al Sole, poi dal Sole alla Terra, evocando così il mutamento del punto di vista prodotto dalla rivoluzione copernicana.

Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

SINTESI 1. Sintetizza il contenuto del brano in un breve testo (max 5 righe). ANALISI 2. Il critico Giovanni Getto nota che nell’Adone si osserva la tendenza a «tradurre i particolari del mondo fisico in oggetti sontuosi». Indica nel passo gli esempi di questo orientamento, individuando i termini che evocano un’atmosfera di lusso, ricchezza e preziosità. LESSICO 3. Analizza il lessico: individua i principali campi semantici e i temi a essi legati. STILE 4. Individua le metafore presenti nel testo e prepara uno schema indicando quelle che si sviluppano in vari elementi. 5. Individua nel testo un esempio per ognuna di queste figure retoriche: metafora, metonimia, apostrofe, personificazione, paronomasia, parallelismo, chiasmo, anafora.

Interpretare

SCRITTURA 6. Contestualizza il testo, ponendolo in relazione alla “poetica della meraviglia” e al Barocco.

46 Seicento 1 Marino e la lirica barocca


3 I poeti “marinisti” 1 La personalità letteraria di Marino Marino è sicuramente la figura di riferimento dei poeti del tempo, sia quando, per lo più, ne seguono l’esempio, sia quando se ne discostano: in ogni caso il panorama della lirica del tempo è posto sotto il segno del “marinismo”, con cui è spesso identificata, anche nella tradizione critica, la lirica barocca italiana. Non si può parlare propriamente di una “scuola”, ma semplicemente della fortissima influenza di una personalità letteraria di spicco e della presenza di comuni tendenze e scelte tematiche. Tra i principali “marinisti” figurano: il bolognese Claudio Achillini, il napoletano Giacomo Lubrano, il friulano Ciro di Pers. L’ampliamento del campo del poetabile La ricerca di novità dei poeti marinisti si manifesta innanzitutto nell’esplorazione di nuovi soggetti poetici al di fuori della tradizione: tratti dal campo della natura (ogni specie di fiori, di piante, di animali, in particolare quelli più singolari ed esotici, dal pappagallo al pavone; oppure – con il gusto barocco del minuscolo – ogni tipo di insetti: ragni, api, vespe, farfalle, formiche, pulci, lucciole) ma anche dal campo della tecnica, che in questo periodo produce innovativi strumenti (dal cannocchiale al microscopio (l’«occhialino»), agli orologi meccanici). Un campo privilegiato della sperimentazione marinista: l’immagine femminile I poeti barocchi abbandonano il modello femminile stereotipato dipinto dalla tradizione letteraria illustre e dal Canzoniere petrarchesco per dare spazio a tipi femminili del tutto inusuali in un ricco catalogo che non poteva non sorprendere il lettore del tempo: la donna viene ritratta in atteggiamenti e attività inconsueti, che ne infrangono l’immagine tradizionale, statica e ispirata al decoro. Nei canzonieri secenteschi troviamo la donna che cuce e che si pettina, o addirittura che si dedica allo sport: la bella donna a cavallo, la bella nuotatrice, la tuffatrice, la saltatrice, l’acrobata. Un’immagine che non ha alcun corrispettivo realistico (diversamente dal Rinascimento, nel periodo controriformistico l’educazione trascurava l’armonico sviluppo del corpo e le donne non godevano certo della libertà che avrebbe consentito loro di praticare un’attività sportiva), ma è dettata dal desiderio di stupire il lettore oltre che da un interesse estetico per il corpo in movimento, tipico dell’arte barocca. I poeti barocchi fanno a gara per dimostrare la propria abilità anche ritraendo donne dall’aspetto sgradevole o affette da imperfezioni o menomazioni: la «bella donna con gli occhiali», descritta in un sonetto di Giuseppe Artale, «la bella zoppa», «la bella nana», «la bella tartagliante» (cioè balbuziente) di Paolo Abriani, la «bella donna impazzita (Tommaso Gaudiosi), la «bellissima spiritata» (Claudio Achillini (➜ T2c OL)) e persino «la bella donna con un occhio di vetro» di Giovan Leone Sempronio! Si arriva, per rinnovare a tutti i costi l’immagine femminile, a varcare i confini del buon gusto, come nel sonetto di Anton Maria Narducci, Sembran fere d’avorio in bosco d’oro: le «fere» evocate dal titolo sono i pidocchi che infestano le chiome dorate della donna (➜ T2b ).

I poeti “marinisti” 3 47


T2

Immagini di donna “a sorpresa” La ricerca della meraviglia attraverso tre liriche dedicate alla figura femminile: con grande maestria, i tre poeti presentano, con soluzioni tecniche tipiche del gusto barocco, l’immagine di donne molto diverse fra loro.

Giambattista Marino

T2a

Donna che si pettina La Lira VIII

Marino e i marinisti, a c. di G. Getto, Utet, Torino 1962

AUDIOLETTURA

Il sonetto, sicuramente uno dei più riusciti dell’autore, è tratto da una raccolta di poesie del Marino, intitolata La Lira. Come accade spesso nella poesia barocca, non presenta un ritratto della donna, ma è incentrato su un dettaglio, la chioma bionda e ondulata. Attraverso la metafora delle onde marine, il poeta trasfigura le chiome ondulate in un sorprendente paesaggio dai colori dorati e splendenti, del tutto fantasioso.

Onde dorate, e l’onde eran capelli, navicella d’avorio un dì fendea1; una man pur d’avorio la reggea2 4 per questi errori prezïosi e quelli3; e, mentre i flutti tremolanti4 e belli con drittissimo solco dividea5, l’òr de le rotte fila Amor cogliea, 8 per formarne catene a’ suoi rubelli6. Per l’aureo mar, che rincrespando apria il procelloso suo biondo tesoro, 11 agitato il mio core a morte gìa7. Ricco naufragio, in cui sommerso io moro8, poich’almen fûr ne la tempesta mia, 14 di diamante lo scoglio e ’l golfo d’oro9!

La metrica Sonetto a schema ABBA, ABBA, CDC, DCD

1 Onde… fendea: un giorno, una navicella d’avorio (il pettine) solcava un mare dorato, le cui onde erano i capelli (della donna). Il primo verso, attraverso la particolare costruzione sintattica con il complemento oggetto preposto a soggetto e verbo, evidenzia la parola chiave del sonetto, onde, due volte ripetuta nel primo verso. Tutti gli elementi della descrizione sono reinterpretati a livello metaforico e riferiti a un paesaggio marino; così il pettine che divide i capelli diviene una nave, che solca le onde del mare dorato. 2 una… reggea: una mano, anch’essa d’avorio, reggeva il pettine. L’avorio, comune

48 Seicento 1 Marino e la lirica barocca

alla descrizione della donna e degli oggetti che la circondano, conferisce alla scena un’atmosfera di preziosità. 3 per… quelli: attraverso le ondulazioni dei capelli, che evocano i movimenti erranti (errori) di una nave sulla distesa marina. 4 i flutti tremolanti: le onde dei capelli in movimento. Diversamente dalla parola onde, che può essere riferita anche ai capelli, flutti rende evidente il piano metaforico della descrizione. 5 con... dividea: divideva con una scriminatura diritta (simile alla scia di una nave che solca il mare). 6 l’òr… suoi rubelli: Amore raccoglieva l’oro dei capelli separati dal pettine per formarne catene che leghino quelli restii

(rubelli “ribelli”) all’amore (che si innamorano della donna, guardandola mentre si pettina). 7 che… gìa: che, increspandosi, apriva il suo tempestoso (per le onde mosse) biondo tesoro, il mio cuore agitato andava (gìa) incontro alla morte. 8 moro: muoio. 9 poich’almen… oro: poiché, nella mia tempesta, almeno lo scoglio fu di diamante e il golfo d’oro. A livello referenziale, di diamante è un elemento dell’acconciatura della donna, probabilmente un fermaglio; a livello metaforico, nel naufragio, il mare (golfo) è d’oro e lo scoglio su cui si va a infrangere la nave è di diamante.


Analisi del testo Metafora e metamorfosi Nel sonetto, prendendo spunto da un elemento convenzionale nella tradizione letteraria, cioè la lode della bionda chioma della donna amata, il poeta sviluppa una serie di immagini metaforiche riccamente fantasiose. Dall’ondulazione della chioma deriva la metafora che associa i capelli alle onde di un mare dorato. Secondo una tendenza della lirica barocca, e in particolare della poesia di Marino, la metafora principale è sviluppata in diversi elementi, qui relativi al campo semantico del mare. Così, se la chioma è una distesa marina, il pettine è una nave, e il fermaglio uno scoglio; le onde suscitano l’idea di un mare in tempesta, che produce il naufragio da cui è travolto il cuore dell’amante. Il colore dorato dei capelli evoca inoltre l’idea di un tesoro, da cui derivano l’immagine delle catene d’oro con cui Amore imprigiona il poeta innamorato. Come se tutti gli elementi della descrizione subissero una metamorfosi davanti agli occhi del lettore, la chioma bionda si trasforma in un paesaggio marino del tutto irreale, attraverso il fluire seducente delle immagini, che prescinde di fatto da una articolazione propriamente logica.

La poetica marinista: immaginazione e preziosità Come si nota anche in questa lirica, Marino rinuncia all’analisi psicologica a favore di un’attenzione ad aspetti esteriori e visivi: mentre nella poesia petrarchesca la ricorrente metafora del naufragio era associata a sentimenti di tristezza e angoscia del poeta, Marino, la associa a un elemento tutto esteriore: l’ondulazione dei capelli. Un altro elemento tipicamente barocco è il dinamismo della scena. Marino riesce a costruire una situazione movimentata anche se non si può definire drammatica, con un effetto di climax: prima le onde, poi il naufragio e infine la morte dell’amante, corrispondente al cedimento di fronte alla bellezza travolgente della donna. Anche un naufragio riesce a essere occasione per uno sfoggio verbale di preziosità: ricorrente è l’immagine dell’oro, in ciascuna delle quartine e delle terzine, secondo la «fondamentale legge di splendore e di lusso» (G. Getto) propria della poesia di Marino, sempre segnata dal preziosismo delle immagini.

Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

ANALISI 1. La lirica può essere suddivisa in due parti, una corrispondente alle quartine, l’altra alle terzine. Indica il tema di ciascuna e gli elementi stilistici che le contraddistinguono. LESSICO 2. Riporta i termini relativi al campo semantico del lusso e della preziosità. STILE 3. Individua nel sonetto i termini e le espressioni riferite alla preziosità del colore dorato dei capelli e quelli riferiti alla metafora delle onde del mare, e trascrivili in uno schema simile a questo; indica anche le espressioni in cui in modo “concettoso” sono associati i due campi metaforici. metafora dei capelli

Interpretare

metafora delle onde del mare

metafore “concettose”

TESTI A CONFRONTO 4. Confronta il sonetto con l’Elogio della rosa (➜ T1 ) e individua gli elementi comuni.

I poeti “marinisti” 3 49


Anton Maria Narducci

T2b Marino e i marinisti, a cura di G.G. Ferrero, Ricciardi, Milano-Napoli 1954.

Sembran fere d’avorio in bosco d’oro Un tipico esempio del “cattivo gusto” barocco, al tempo apprezzato dal pubblico che ne era divertito, è un sonetto di Anton Maria Narducci (1585 ca.- XVII secolo). Con questo sonetto, che esemplifica la tendenza dell’epoca a trattare con grande serietà e impegno stilistico argomenti irrilevanti, l’autore ribalta con tono polemico e autoironia l’immagine femminile.

Sembran fere d’avorio1 in bosco d’oro2 le fere erranti onde sì ricca siete; anzi, gemme son pur che voi scotete 4 da l’aureo del bel crin natio tesoro3; o pure, intenti a nobile lavoro, così cangiati gli Amoretti avete, perché tessano al cor la bella rete 8 con l’auree fila ond’io beato moro4. O fra bei rami d’or volanti Amori, gemme nate d’un crin fra l’onde aurate,5 11 fere pasciute di nettarei umori6; deh, s’avete desio7 d’eterni onori, esser preda talor non isdegnate 14 di quella preda onde son preda i cori8! La metrica Sonetto con schema delle rime ABBA ABBA CDC DCD 1 fere d’avorio: fiere d’avorio (per il colore biancastro).

2 bosco d’oro: secondo una consueta metafora, la chioma dorata della donna.

3 gemme… tesoro: costruisci così: “son pur (solo) gemme che voi scotete dall’aureo (dorato) tesoro natio del bel crin”. 4 beato moro: felice, muoio (d’amore). 5 aurate: dorate. 6 fere… umori: fiere nutrite di liquidi rugiadosi. 7 desio: desiderio.

Georges de La Tour, La serva con la pulce, 1638 ca. (Nancy, Musée Historique Lorrain).

8 esser… cori: lasciatevi qualche volta afferrare da colei che è vostra preda e della quale sono preda i cuori. Il senso della conclusione del sonetto, retoricamente elaborata e concettosa (preda ritorna tre volte nei due versi), è l’augurio alla donna di liberarsi dai pidocchi.

Analisi del testo Un tema bizzarro Pur di suscitare meraviglia e incredulità, il poeta non si tira indietro nel dare spazio a un soggetto disturbante e bizzarro quale quello dei pidocchi, inserendolo, con un effetto shock per il lettore, nell’ambito di uno scenario tradizionale (i capelli biondi della donna, il «bosco d’oro»). Il rifiuto della poetica tradizionale, attenta a mettere in luce quegli aspetti che meglio rispondevano a un ideale di bellezza, si traduce così in nell’immagine di una bella donna dai lunghi capelli biondi, come da tradizione, ma deturpati dai pidocchi, che simili a fiere d’avorio si muovono nel «bel crin» dorato. Nonostante il soggetto decisamente “basso”, il sonetto di Narducci è ineccepibile dal punto di vista formale e ricco di metafore e di artifici stilistici secondo il gusto proprio della lirica barocca che intendeva stupire il lettore.

50 Seicento 1 Marino e la lirica barocca


Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

COMPRENSIONE 1. A chi si rivolge il poeta nelle quartine del sonetto? E nelle terzine? Rende esplicito l’argomento di cui sta parlando (i pidocchi) o lo lascia indovinare al lettore? Per quale ragione? LESSICO 2. Ricerca nel sonetto tutti i termini che impreziosiscono l’argomento trattato. STILE 3. Per verificare l’abilità tecnica del poeta, riporta in uno schema le metafore riferite alla chioma e quelle attribuite alle «fere».

Interpretare

SCRITTURA 4. In un testo scritto (max 10 righe) spiega, attraverso esempi tratti dal testo, perché il sonetto di Narducci è ben rappresentativo della lirica barocca. SCRITTURA CREATIVA 5. Accanto a una estetica del bello, che aveva caratterizzato la produzione poetica precedente, si afferma in questo periodo quella che possiamo definire una estetica del brutto. Prova a descrivere una persona con un evidente difetto fisico, senza rinunciare però alla ricercatezza del lessico e alla cura formale.

online T2c Claudio Achillini

La spiritata

2 Il Barocco moraleggiante e l’allegorismo Accanto alla tradizionale lirica amorosa, si sviluppa una poesia concettistica e moraleggiante, diffusa in Italia soprattutto a partire dal terzo decennio del Seicento, anche in relazione alle condizioni storiche della penisola che, tra guerre, carestie, pestilenze e rivolte popolari, non sembrava ormai più indurre all’edonismo disimpegnato. È una lirica che non rinuncia alla “meraviglia” di stampo barocco, ma se ne avvale per imprimere nella mente del lettore riflessioni, ammonimenti, insegnamenti morali. È il caso di Ciro di Pers (1599-1663 ➜ T3a ) e di Giacomo Lubrano (1619-1693) (➜ T3b ), la cui lirica «innovativa e ardita [...] dissolve in vertiginose catene di metafore l’immagine della realtà» (G. Jori). I campi da cui Lubrano trae le sue metafore spaziano dal regno naturale (come i sonetti dedicati al Verme villan, il baco da seta, che, trasformandosi in farfalla, diventa simbolo dell’ascesa dell’anima al cielo) alle più recenti innovazioni della tecnica, come il sonetto dedicato all’occhialino, il microscopio, in cui l’evocazione di una realtà microscopica ingigantita agli occhi dell’osservatore è finalizzata alla riflessione morale su come l’uomo amplifichi enormemente, in una prospettiva illusoria, i beni fragili e fugaci della vita terrena. online Verso il Novecento La poesia barocca tende spesso a rappresentare i temi cari alla nuova senEmblemi barocchi sibilità attraverso oggetti-simbolo. nella poesia moderna: l’orologio, la clessidra, In rapporto alla centralità del tema del tempo nell’immaginario barocco, l’emlo specchio blema più frequente è l’orologio, la cui presenza domina ossessiva la poesia Charles Baudelaire L’orologio di quei decenni: orologi meccanici a ruote dentate, meridiane, clessidre a I fiori del male, Spleen e polvere e ad acqua invadono le raccolte di poesia barocca, rendendo tangibile ideale LXXXV agli occhi del lettore il silenzioso scorrere delle ore (➜ T3 ). Nelle innumereGiuseppe Ungaretti Variazioni su nulla voli poesie sugli orologi del Seicento, ogni elemento del meccanismo può Terra promessa rappresentare una diversa allegoria dello scorrere inesorabile del tempo: Jorge Luis Borges Gli specchi il movimento incessante delle lancette ne raffigura la fuga veloce, mentre L’artefice il suono dell’orologio che batte le ore, in un famoso sonetto di Ciro di Pers I poeti “marinisti” 3 51


(➜ T3a ), richiama alla mente la tromba del giudizio universale e, nella concettosa immagine finale, ispirata al gusto macabro dell’epoca, una mano che bussa alla tomba. La fugacità della vita, nella poesia barocca, è comunque evocata da infiniti oggetti, analogamente al motivo della vanitas nella pittura: ad esempio, in un sonetto, Giovan Leone Sempronio (➜ T4 OL), interrogandosi sull’essenza dell’uomo, la definisce attraverso una serie di immagini di cose labili, mutevoli e in rapido movimento: la spuma del mare, il fumo, il baleno, la nebbia, lo strale lanciato da un arco. Un altro oggetto-simbolo prediletto dal Barocco è lo specchio, che, moltiplicando le immagini, rende incerta la distinzione tra reale e illusorio, divenendo così emblema del disorientamento e dell’incertezza conoscitiva del Seicento (➜ T5 OL). Già Tasso, nella Gerusalemme liberata, aveva rappresentato lo specchio come simbolo della seduzione ingannevole di Armida, inaugurando quello che, in diverse variazioni, sarebbe divenuto un topos della poesia barocca, la donna che si specchia. La «ricerca, propria del Barocco, di prospettive artificiali, di immagini in cui la realtà sfuma in illusione» (Getto) trova un emblema nella superficie riflettente dell’acqua, che, analogamente allo specchio, moltiplica le apparenze e suscita miraggi. Ne è un esempio un suggestivo madrigale di Tommaso Stigliani, animato da un concettistico gioco barocco: il poeta, dietro le spalle della donna, la contempla mentre si ammira allo specchio; ma tale immagine è a sua volta raddoppiata, perché riflessa dalla superficie del mare. In questo gioco di rispecchiamenti l’immagine della donna perde la propria consistenza, si dissolve nel suo riflesso, «l’ombra de l’ombra» (➜ T5c OL). Allo specchio è associato il mito di Narciso, tratto in inganno dalla propria immagine riflessa e condotto alla morte da una parvenza illusoria. Quello di Narciso non a caso è uno dei miti prediletti del Seicento, rappresentato in un celeberrimo quadro di Caravaggio e più volte ripreso da Marino e da altri poeti. Alla complessità dell’universo, rivelata dalla rivoluzione cosmologica, è invece connessa l’immagine del labirinto: già simbolo universale e leggendario fin dall’antichità, allude a una realtà disorientante, difficilmente padroneggiabile.

La lirica barocca

Principali caratteristiche

T3

• Ricerca della novità: il fine della poesia è suscitare nel lettore “la meraviglia” • Sovvertimento del modello petrarchesco • Rovesciamento del modello femminile • Varietà tematica • Ampio uso di metafore originali e bizzarre • Ricorso a oggetti emblematici con significato allegorico

L’orologio, emblema della fuga del tempo Il tempo e la sua misurazione scandiscono la vita che fugge e, inesorabilmente, l’avvicinarsi della morte. La «voce» dell’orologio ricorda l’inarrestabile lotta contro il tempo e diviene metafora di un destino inevitabile.

52 Seicento 1 Marino e la lirica barocca


Ciro di Pers

T3a Marino e i marinisti, a c. di G.G. Ferrero, Ricciardi, Milano-Napoli 1954

LEGGERE LE EMOZIONI

Orologio da rote

Molte liriche della poesia riflessiva e meditativa di Ciro di Pers (1599-1663), uno dei maggiori poeti del Barocco italiano, sono dedicate al tema del tempo. Il celebre sonetto qui riportato è dedicato all’orologio.

Mobile ordigno di dentate rote1 lacera il giorno e lo divide in ore, ed ha scritto di fuor con fosche note2 4 a chi legger le sa: sempre si more. Mentre il metallo concavo percuote3, voce funesta mi risuona al core; né del fato spiegar meglio si puote 8 che con voce di bronzo il rio tenore4. Perch’io non speri mai riposo o pace, questo, che sembra in un timpano e tromba5, 11 mi sfida ognor contro all’età vorace6. online T3b Giacomo

Lubrano Oriuolo ad acqua

E con que’ colpi, onde il metal rimbomba, affretta il corso al secolo7 fugace, 14 e perché s’apra, ognor picchia a la tomba8.

La metrica Sonetto con schema ABAB

3 il metallo… percuote: la campana dell’o-

ABAB CDC DCD

rologio batte i colpi. 4 né del fato… tenore: né si può esprimere meglio il carattere funesto del destino (del fato… il rio tenore) che con il rintocco del bronzo. 5 sembra… tromba: sembra insieme un timpano (strumento a percussione) e una tromba (questa allude al giudizio universale, e quindi richiama l’immagine della morte).

1 Mobile… rote: meccanismo in movimento di ruote dentate dell’ingranaggio. 2 con fosche note: con caratteri oscuri. Si può pensare a una scritta sull’orologio, oppure si intende che il continuo movimento degli ingranaggi, con il perenne scorrere del tempo, fa pensare all’inevitabilità della morte.

6 mi sfida…vorace: mi sfida continuamente a lottare contro il tempo che tutto divora. L’immagine del tempo divoratore rinvia ai versi iniziali. 7 secolo: tempo. 8 ognor… tomba: in ogni momento bussa alla tomba. I rintocchi dell’orologio sono come il bussare alla tomba, perché ogni momento di tempo consumato fa avvicinare la morte.

Analisi del testo L’orologio e il tempo divoratore online

Interpretazioni critiche Giovanni Getto Gli orologi e il tema barocco del tempo

Il sonetto è incentrato sull’immagine simbolica dell’orologio: sull’oggetto meccanico si proiettano le connotazioni angoscianti del tempo. Nella prima quartina c’è un’immagine visiva: gli ingranaggi meccanici dell’orologio, costituiti di ruote dentate, appaiono come emblema del tempo divoratore, e anche il termine «ordigno» assume un tono minaccioso e inquietante. Il verbo «lacera» suggerisce l’idea che il meccanismo faccia a pezzi qualcosa di estremamente fragile: il tempo fugace e invisibile. Nella seconda quartina subentrano impressioni uditive, accomunate a quelle visive dalle connotazioni minacciose. Il rintocco dell’orologio risuona inquietante, sia per il timbro metallico del bronzo, sia per il crescendo suggerito al v. 12 dal verbo «rimbomba», sia per il paragone con il suono di una «tromba» (v. 10, in rima), che evoca il giorno del giudizio. Scandito dal ritmo ossessivo dei rintocchi dell’orologio, lo scorrere del tempo conduce verso la morte, che appare in primo piano nell’ultima immagine, in cui, come sempre nella poesia barocca, si concentra l’“acutezza” del componimento: se ogni istante trascorso avvicina l’uomo alla morte, i battiti dell’orologio sono come il bussare dell’uomo alla propria tomba. Il poeta riesce a concentrare in pochi versi molte immagini, tutte intonate a una stessa atmosfera meditativa, cupa, funerea: l’immaginazione del lettore spazia dall’orologio al tempo, alla morte, alla tomba, al giudizio finale.

I poeti “marinisti” 3 53


Lo stile della poesia Il lessico sottolinea i temi del sonetto: predominano i campi semantici della distruzione («lacera», «vorace») e i termini intonati a un’atmosfera «funerea: «fosche», «si more», «funesta», «tomba». All’efficacia del sonetto contribuisce l’andamento ritmico: le rime delle quartine sono legate da assonanze (ote, ore), che producono l’effetto di un battito regolarmente variato; i versi, quasi privi di punteggiatura, non presentano enjambements e assumono perciò una cadenza uniforme, che riproduce la regolarità meccanica dell’orologio; tale scansione, isolando ogni singolo verso con la breve pausa finale, ferma l’attenzione del lettore sulle parole in rima, che culminano in tre termini evocativi: «tromba» : «rimbomba» : «tomba».

Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

SINTESI 1. Sintetizza il contenuto del sonetto in circa 3 righe. LESSICO 2. Riporta i termini relativi al campo semantico della fuga del tempo e della morte. STILE 3. Descrivi il livello fonico-ritmico del sonetto.

Interpretare LEGGERE LE EMOZIONI

SCRITTURA 4. Dal sonetto emerge la visione della vita come di un qualcosa di fugace ed effimero, divorata dal tempo che scorre senza sosta. Sei d’accordo con questa posizione o ti sembra un po’ troppo cupa e pessimista? Pensi che rifletta una particolare situazione storico-culturale o piuttosto voglia solo provocare il lettore inducendolo a considerazioni più profonde? Motiva il tuo pensiero in un testo scritto (max 15 righe). SCRITTURA CREATIVA 5. Il sonetto riflette il tema dell’inarrestabile scorrere del tempo. Con quale altra immagine potresti alludere allo stesso tema? Prova a idearne una diversa da quella proposta nel sonetto.

Sguardo sull’arte L’orologio “barocco” di Dalí Il famoso artista catalano offre un significativo esempio di un’analogia tra l’immaginario barocco e quello del Novecento. Dalí era un ammiratore delle bizzarrie del Barocco; ne diede prova, come ricorda Mario Praz, con il suo entusiasmo per i mostri di Bomarzo, le colossali e bizzarre sculture realizzate da Vinicio Orsini nel tardo Cinquecento. Nel quadro intitolato La persistenza della memoria (1931) ricorre l’immagine emblematica degli orologi e vi si può riscontrare un procedimento analogo a quello della metafora barocca: l’artista mostra la «perspicacia e versatilità» dell’ingegno nell’attuare collegamenti acuti e originali, teorizzata da Emanuele Tesauro nel Cannocchiale aristotelico. Gli orologi infatti appaiono di una consistenza quasi fluida, molli, e richiamano alla mente lo scorrere del tempo (e l’impossibilità di ricondurlo nel corso della vita di ognuno a una condizione lineare; in pieno Novecento, rimanderà anche alla concezione della sua relatività). online T4 Giovan Leone Sempronio Quid est homo? La selva poetica

online

Gallery Allegorie secentesche

54 Seicento 1 Marino e la lirica barocca

Salvador Dalí, La persistenza della memoria, 1931 (Moma, New York).

online T5 Gli inganni dello specchio T5a Girolamo Preti

Per la sua donna specchiantesi

T5b Giovan Battista Marino Mentre la sua donna si specchiava La Lira, XI

T5c Tommaso Stigliani Scherzo d’immagini Canzoniere


Sguardo sull’arte Immagini allo specchio Il madrigale dello Stigliani (➜ T5c ) può essere paragonato a un Autoritratto (1646) del pittore Johannes Gumpp, conservato agli Uffizi di Firenze, in cui l’artista ritrae sé stesso nell’atto di rappresentare sulla tela la propria immagine riflessa in uno specchio. Un virtuosismo che anticipa le moderne incisioni e i disegni dell’artista olandese Maurits Cornelis Escher (1898-1972), sottolineando una volta di più la sorprendente attualità del Barocco e la sua consonanza con la cultura novecentesca. La mano dell’artista (disegnata con cura iperrealista) sostiene una sfera riflettente. In questa sorta di “specchio” egli vede l’immagine di sé e dell’ambiente circostante molto più ampia di quella che avrebbe attraverso la visione diretta. Lo spazio complessivo che lo circonda – le pareti, il pavimento, il soffitto della camera – infatti è rappresentato, anche se distorto e compresso, nel disco della sfera. La testa dell’artista, o, più precisamente, il punto fra i suoi occhi, si trova nel centro. In qualsiasi direzione si giri, egli rimane il punto focale. Johannes Gumpp, Autoritratto, 1646 (Firenze, Galleria degli Uffizi).

Maurits Cornelis Escher, Mano con sfera riflettente, litografia, 1935 (Utrecht, M.C. Escher Foundation).

Il celebre quadro di Diego Velázquez (1599–1660), Las meninas, rappresenta una scena probabilmente avvenuta alla corte di Spagna, nel palazzo dell’Alcázar, a Madrid, ma soprattutto propone una riflessione sulla visione, in cui lo specchio assume un grande ruolo. Creando quello che nel linguaggio cinematografico sarà chiamato il “fuori campo”, Velázquez al centro del quadro non dipinge quello che sarebbe dovuto esserne l’elemento più importante, il punto focale, cioè Filippo IV e Maria Anna d’Austria, ma ne rivela la presenza riflessa in uno specchio appeso sulla parete di fondo dell’atelier. Il pittore, a sua volta, si autorappresenta, con il pennello in mano, davanti alla tela vista da dietro, mentre guarda da lontano i reali dipinti e al contempo indirizza lo sguardo verso lo spettatore. Il re e la regina sono dunque nella stanza, anche se fuori dallo spazio centrale dell’“inquadratura”, e non in primo piano. Sullo sfondo, nel vano di una porta, in controluce, si staglia la silhouette di uno dei consiglieri di corte. Ma che cosa rappresenta la scena del quadro? Forse, mentre il pittore sta lavorando al ritratto della coppia reale, l’infanta Margherita (al centro, in abito bianco), è venuta in visita ai suoi genitori con le sue damigelle d’onore, las meninas del titolo, come ritengono alcuni interpreti del quadro (ad esempio il filosofo e sociologo francese Michel Foucault; oppure lo specchio riflette solo una parte del quadro, che in realtà ritrae tutta la famiglia reale, compresa l’infanta in posa (come suggerisce lo storico della filosofia tedesco Reinhard Brandt). In ogni caso, in quest’opera enigmatica lo specchio (e il gioco degli sguardi di osservatori e osservati) diviene emblema dell’incertezza e della molteplicità di prospettive della visione, con la consapevolezza che nessuna di esse può mostrarci tutta la realtà. IMMAGINE INTERATTIVA

Diego Velázquez, Las meninas, 1656 (Madrid, Museo del Prado).

I poeti “marinisti” 3 55


5

4

Contro gli “eccessi”: il classicismo barocco La lirica barocca si presenta come rottura della tradizione classicistica ormai considerata non più rispondente al bisogno dell’epoca di originalità, «maraviglia», arguzia concettuale. Seppure minoritaria, tuttavia, è presente nello stesso periodo anche una diversa tendenza poetica, rappresentata dal cosiddetto “classicismo barocco”, a volte definito anche “antimarinismo”: alcuni poeti rifiutano gli eccessi della «maraviglia» marinista, in nome di un ideale poetico ispirato alla moderazione, all’equilibrio e all’armonia (con risvolti per certi aspetti anche etici, per lo meno per alcuni di essi). Anche in questi poeti è presente la ricerca dell’innovazione e lo sperimentalismo barocco, che si manifestano tuttavia in ambito metrico e linguistico anziché nell’appariscente virtuosismo marinista. D’altra parte, è evidente un richiamo alla tradizione e alla lezione dei classici. Il più famoso esponente della tendenza classicistica nella lirica del Seicento è il savonese Gabriello Chiabrera (1552-1638), che antepone la semplicità, la chiarezza e l’armonia all’artificiosità barocca, sebbene anch’egli non sia estraneo a una ricerca di originalità, soprattutto a livello metrico e nella ricerca di effetti musicali. I suoi testi poetici, ispirati a un ideale classico di misura ed eleganza, riprendono i modelli del latino Orazio e del greco Anacreonte (che Chiabrera leggeva in traduzione latina). Chiabrera introduce nella poesia italiana la “canzonetta”, un’ode costituita da versi brevi e caratterizzata da estrema musicalità, grazia e leggerezza: un esempio famoso è la poesia Riso di bella donna (➜ T6 OL). Oltre che ai modelli classici, Chiabrera si ispirava al francese Pierre de Ronsard (1524-1585), esponente della scuola poetica classicistica della Pléiade. Non è un caso: tra la fine del Cinquecento e il Seicento, in ambito europeo, la Francia, in cui già nel Seicento emerge una tendenza razionalistica, è il paese meno favorevole al gusto barocco. Significativamente proprio dalla Francia proviene, alla fine del XVII secolo, la più decisa contestazione delle stravaganze dei poeti barocchi italiani, con Nicolas Boileau e la sua Arte poetica (1674): «Coi loro versi mostruosi dimostrano / di ritenersi umiliati a pensar come gli altri. / Evitiam questi eccessi: lasciamo all’Italia / la splendida follia di questo falso oro» (trad. di S. Guglielmino). La lirica semplice e musicale di Chiabrera sarà particolarmente apprezzata dai poeti dell’Arcadia (una scuola poetica fondata a Roma nel 1690; ➜ C6), e darà vita a una tradizione che si manterrà viva fino alle odi ottocentesche di Foscolo, Manzoni e Carducci. Un altro importante esponente del classicismo secentesco italiano è il ferrarese Fulvio Testi (1593-1646). Testi rifiuta la poesia barocca ma per ragioni diverse da quelle di Chiabrera: in nome di una concezione impegnata della letteratura che si rifà ai modelli dell’antichità, affronta temi civili in modi che desteranno l’entusiasmo degli scrittori dell’Ottocento romantico (da Foscolo a Leopardi a Manzoni) e di Carducci.

online T6 Gabriello Chiabrera

Riso di bella donna Canzonette

56 Seicento 1 Marino e la lirica barocca


5 La grande lirica europea

La diffusione nel Seicento di una poesia riflessiva e moraleggiante non è una peculiarità solo italiana, ma più generalmente europea. Tra il secondo Cinquecento e il Seicento il genere lirico conosce una grande fortuna in tutta Europa. Ovunque il modello di riferimento è la poesia italiana, in particolare Petrarca, la cui lezione, rivisitata da una nuova sensibilità, apre la strada a nuove direzioni poetiche. Contemporaneamente, tuttavia, l’Italia perde il suo primato letterario: mentre per il nostro paese si parla, per l’età del Barocco, di una sostanziale decadenza, in altri paesi la poesia raggiunge vertici altissimi: è il caso dell’Inghilterra e della Spagna, in cui l’epoca della sua fioritura è chiamata Siglo de oro (“secolo d’oro”). La lirica europea si caratterizza per una considerevole omogeneità di temi e di motivi: tra di essi assume particolare rilievo il tema del tempo, congeniale alla sensibilità barocca, ossessionata dalla fugacità della vita, dalla precarietà di ogni cosa terrena e dalla minaccia incalzante della morte.

1 La lirica spagnola del Siglo de oro Il tema barocco dello scorrere inesorabile del tempo accomuna i due più grandi lirici della letteratura spagnola, Góngora e Quevedo, che tuttavia si ispirarono a una diversa poetica e furono divisi da rivalità e polemiche. Luis de Góngora (1561-1627) è il maggiore esponente del “culteranesimo” (che poi da lui prese il nome anche di “gongorismo”), una lirica musicale e raffinata, intessuta di echi e citazioni colte, talvolta oscura ed ermetica. Góngora affida la suggestione dei suoi versi a figure retoriche ricercate (soprattutto metafore, ma anche iperbati, sinestesie, allitterazioni). Le sue liriche lasciano nella memoria del lettore non tanto immagini nitide e concrete, quanto suggestioni musicali e coloristiche, spesso intensamente luminose, come nel testo antologizzato Mentre per emulare i tuoi capelli (➜ T7a ), in cui il poeta descrive nei dettagli la trionfante bellezza di una giovane donna, per poi mostrarne, con un effetto di contrasto, la rovina e l’annullamento nella morte, quando di quella bellezza seducente non sarebbe restato che «terra, fumo, polvere, ombra, niente». Francisco de Quevedo (1580-1645) tratta temi affini a quelli di Góngora, ma sulla base di una poetica differente, il “concettismo”, che si affida soprattutto all’ingegnosità delle analogie, all’esasperazione delle metafore e a una originale e profonda riflessione, nutrita di filosofia. La lirica di Quevedo, celebre anche come narratore (il suo romanzo picaresco El Buscón è considerato un capolavoro del genere), non è però intellettualistica e astratta, ma coglie la drammaticità della condizione umana. Ne è un esempio il sonetto Ehi, della vita! Nessuno risponde? (➜ T7b OL). Qui il tema della fuga del tempo è presentato attraverso una sorta di monologo teatrale. Il poeta associa sapientemente, e con esemplare concisione, una profonda meditazione filosofica sul tempo, che richiama pagine di Seneca e sant’Agostino, a immagini concrete e realistiche, come quella dell’uomo che bussa alla porta del tempo trascorso, per richiamarlo, e, non ottenendo risposta, inutilmente si ribella allo sfuggire della vita. La grande lirica europea 5 57


2 La “poesia metafisica” inglese online

Per approfondire La crisi dell’antropocentrismo nelle testimonianze letterarie

Come la lirica spagnola, anche quella inglese si ispira al modello petrarchesco e lo sviluppa nella direzione del concettismo. Per la letteratura inglese i critici utilizzano di preferenza la categoria di “poesia metafisica”, a indicare una lirica caratterizzata dalla concettosità della riflessione filosofica e dallo sforzo di rappresentare idee e pensieri astratti in immagini concrete; il principale esponente della “poesia metafisica” è considerato l’inglese John Donne (1571 o 1572-1631). I Sonetti di Shakespeare Anche nei Sonetti di William Shakespeare (editi nel 1609 in una raccolta probabilmente non curata dall’autore) ricorre il tema della fuga del tempo, spesso in antitesi con l’arte eternatrice; ne è un esempio il sonetto XV, in cui il Tempo sottrae gioventù e bellezza a uno splendido giovane, ma lo scrittore, immortalandone il ricordo nella poesia, può restituire all’amico quanto gli è stato tolto (➜ T7c ).

Balthasar van der Ast, Natura morta con frutta, conchiglie e tulipano, 1620 ca. (L’Aia, Mauritshuis).

La lirica barocca in Europa Spagna Siglo de oro

Luis de Góngora 1561-1627 “culturanesimo” o gongorismo poesia colta e sofisticata, musicalmente suggestiva; spesso oscura per le figure retoriche e i riferimenti ricercati

Francisco de Quevedo 1580-1645 “concettismo” ingegnose analogie, antitesi e artificiose metafore, suggerite dalla riflessione filosofica

58 Seicento 1 Marino e la lirica barocca

Inghilterra poesia metafisica

rappresentazione di idee e concetti filosofici in immagini e forme poetiche

John Donne 1573-1631

William Shakespeare 1573-1616 Sonetti


T7

Riflessioni sul tempo L’incessante fluire del tempo costituisce uno dei motivi più suggestivi della lirica barocca. L’uomo medita sulla vita che fugge e sulla morte, attraverso immagini ossessive e tragiche di distruzione e sepoltura.

Luis de Góngora

T7a L. de Góngora, Le solitudini e altre poesie, a c. di Norbert von Prellwitz, Rizzoli, Milano 1984

Mentre per emulare i tuoi capelli Attraverso la descrizione della sfolgorante bellezza di una fanciulla, il sonetto (del 1582) suona come un invito perché ne goda prima che l’effimera giovinezza sia fuggita.

Mentre per emulare i tuoi capelli oro brunito1 al sole splende invano, mentre sdegnosa2 guarda in mezzo al piano 4 la tua candida fronte il giglio bello, mentre più del garofano precoce3 il tuo labbro trascina avidi sguardi, e mentre trionfa con gagliardo orgoglio 8 il tuo collo gentile sul cristallo4, godi5 collo, capelli, fronte e labbro, prima che quanto fu in età dorata6 11 oro, giglio, garofano, cristallo, non solo in viola mozza7 o in argento si muti, ma tu e tutto unitamente 14 in terra, fumo, polvere, ombra, niente.

La metrica Sonetto, come l’originale spagnolo. La traduzione non mantiene lo schema delle rime del testo originale, ma presenta solo alcune rime sparse. 1 brunito: fiammeggiante, fulgido. 2 sdegnosa: la fronte guarda con disprez-

zo i bei gigli, perché li supera in candore.

3 precoce: fiorito per primo. 4 trionfa… cristallo: costruisci: la tua gola delicata con baldanzosa fierezza trionfa sul cristallo (per la purezza della linea del collo e per la sottile fragilità). 5 godi: l’invito è rivolto alla giovane fan-

ciulla. 6 in età dorata: nella giovinezza. 7 mozza: recisa, e perciò appassita. Il viola, il nero e l’argento sono i colori penitenziali e funerari nella liturgia ecclesiastica.

Analisi del testo Il tema della vanitas Il sonetto riprende il tema del carpe diem, l’invito a “cogliere l’attimo”, alla luce della sensibilità barocca. Costituito da un solo, ampio periodo, articolato in quattro subordinate temporali, scandite dall’anafora di «mentre», rende efficacemente il senso del fluire del tempo e del continuo mutare, e degradarsi, della realtà sensibile. A livello lessicale, è incentrato su due parole chiave, il verbo «godi» (che apre le terzine), e il sostantivo «niente» (che le chiude), a sottolineare la parabola dello splendore terreno, destinato a dissolversi. Il tema barocco della vanitas è evidenziato dal climax discendente dell’ultimo verso, in cui, con un effetto di dissolvenza, della bellezza radiosa della donna non rimane che «terra, fumo, polvere, ombra, niente».

La grande lirica europea 5 59


Una descrizione impressionistica La fanciulla è descritta con un lessico che ne evoca la fulgida bellezza e il carattere orgoglioso («sdegnosa», «trascina avidi sguardi», «trionfa»). Secondo una caratteristica tipica della lirica barocca, più che un completo ritratto femminile, emergono dettagli, di cui, con effetto impressionistico, risaltano i vivi colori. Colori sottolineati dai paragoni con le sostanze più preziose della natura, l’oro risplendente del sole (v. 2), il candore dei gigli (v. 4), il rosso del garofano (v. 5), la trasparenza del cristallo (v. 8), ripresi poi al verso 11, su cui tuttavia vince la bellezza della donna. I colori sono posti in risalto anche quando la parabola si incurva nel suo corso discendente, allorché, con un effetto di metamorfosi, l’oro, il candore di giglio della carnagione, il rosso delle labbra, si spengono nelle tinte funeree del viola e dell’argento (v. 12).

Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

COMPRENSIONE 1. Quale ammonimento il poeta rivolge alla fanciulla? ANALISI 2. Rintraccia le espressioni che nella prima parte del sonetto compongono il ritratto della donna nel pieno fulgore della sua bellezza. 3. Con quali espressioni, invece, il poeta allude al dissolversi della giovinezza?

Interpretare

SCRITTURA 4. Qual è a tuo parere il tema centrale del sonetto, il carpe diem o la vanitas? Motiva la scelta attraverso l’analisi testuale.

online T7b Francisco de Quevedo

Ehi, della vita! Nessuno risponde? Sonetti amorosi e morali

Jan Miense Molenaer, Allegoria della vanità, 1633 (Toledo, USA, Toledo Museum of Art).

60 Seicento 1 Marino e la lirica barocca


William Shakespeare

T7c

Guerra contro il tempo Sonetti XV

William Shakespeare, Sonetti, a c. di A. Serpieri, Rizzoli, Milano 1998

Molti dei Sonetti shakespeariani si incentrano sul tema del tempo che fugge. Leggiamone uno.

Quando considero che tutto ciò che cresce solo un breve momento si regge in perfezione, che questo immenso palcoscenico presenta solo apparenze 4 su cui le stelle con segreto influsso fanno commenti1; quando percepisco che gli uomini come piante si ingrandiscono incoraggiati e contrastati dal medesimo cielo2, si vantano della loro giovane linfa, in vetta decrescono3, 8 e consumano il loro superbo stato al di là della memoria4; allora il pensiero di questo incostante stare5 ti pone ricchissimo di giovinezza davanti alla mia vista, dove il Tempo devastatore dibatte con Rovina 12 per mutare il tuo giorno di giovinezza in lurida notte6; e in piena guerra col Tempo, per amor tuo, di quanto egli ti toglie io ti innesto nuovo7. La metrica Sonetto elisabettiano (tre quartine seguire da un distico a rima baciata).

1 questo immenso… commenti: con una metafora frequente nella letteratura barocca, il poeta presenta la vita come una recita su un palcoscenico teatrale. È originale l’immagine delle stelle che, come spettatori nelle gallerie del teatro elisabettiano, assistono allo spettacolo del mondo, e lo influenzano misteriosamente (con segreto influsso). 2 incoraggiati… cielo: le medesime leg-

gi naturali fanno crescere e decadere gli uomini. 3 in vetta decrescono: quando sono giunti al culmine della giovinezza cominciano a decadere. 4 consumano… memoria: consumano la gloria della giovinezza senza che ne rimanga il ricordo. 5 incostante stare: è una sorta di ossimoro che sottolinea la precarietà di ogni condizione terrena, in questo caso della bellezza del giovane. 6 dove… notte: dove il Tempo distruttore

si accorda con la Rovina per trasformare la tua giovinezza, luminosa come il giorno, nella turpe notte della vita (la vecchiaia e la morte). Il Tempo e la Rovina sono personificati come in una scena di teatro allegorico medievale. 7 in piena… nuovo: la metafora dell’innesto indica che, in contrasto con l’azione distruttrice della natura, attraverso la poesia, il poeta restituisce al giovane la bellezza che gli è sottratta dal Tempo.

Analisi del testo L’arte supera la natura Argomento del sonetto è la guerra contro il tempo, su cui il poeta riporta una piena vittoria grazie all’immortalità della sua opera. La precarietà della bellezza e della giovinezza deriva da una legge naturale, per cui tutte le cose crescono, raggiungono il pieno splendore, poi declinano e muoiono. La poesia però può sottrarle alla loro effimera durata, rendendole eterne. Ne emerge il contrasto tra la natura e l’arte, interpretato nel senso che l’arte supera la natura e ne colma le manchevolezze. È significativa a questo proposito la metafora botanica dell’“innesto”, a indicare che l’arte perfeziona la natura, senza contrapporsi ad essa. Un concetto che accomuna il sonetto alla Tempesta, uno dei capolavori del teatro shakespeariano (➜ C2). Nella ricca serie di metafore del testo è particolarmente suggestiva, e tipicamente barocca, quella che rappresenta la fugacità della vita come uno spettacolo, a cui le stelle assistono dall’alto, come se guardassero dalla galleria di un teatro.

La grande lirica europea 5 61


Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

COMPRENSIONE 1. Quali riferimenti al teatro sono presenti nel testo? ANALISI 2. Nella scena descritta si possono individuare un protagonista, un antagonista e un aiutante. Prova a identificarli. STILE 3. Individua e fai una schedatura delle varie metafore del testo.

Interpretare

TESTI A CONFRONTO 4. Confronta il sonetto shakespeariano con quello di Góngora (➜ T7a ), individuando elementi comuni e differenze.

Fissare i concetti Marino e la lirica barocca 1. Qual è il tratto caratteristico della lirica barocca? In che cosa si concretizza? 2. In che cosa la lirica barocca si allontana dalla tradizione? 3. Perché l’Adone di Marino risponde in pieno al gusto barocco? Quali valori vengono esaltati nel poema? 4. Quali sono le principali raccolte liriche di Marino? Quali temi trattano? 5. Chi sono i poeti “marinisti”? Qual è il campo privilegiato della sperimentazione marinista? 6. Da che cosa sono mossi i poeti barocchi nella rappresentazione dell’immagine della donna? Come vengono ritratte le figure femminili? 7. Quali sono gli oggetti-simbolo attraverso cui la poesia barocca rappresenta i temi cari alla nuova sensibilità? Qual è il loro significato? 8. Quali sono le caratteristiche e i temi affrontati nella poesia barocca spagnola? Quali i maggiori rappresentanti? 9. Qual è il significato dell’espressione “poesia metafisica”? 10. Qual è uno dei temi più ricorrenti nella poesia lirica barocca? In che modo viene tradotto?

Autoritratto con i simboli della vanità di David Bailly, 1651 (Leida, Museo De Lakenhal).

62 Seicento 1 Marino e la lirica barocca


Seicento Marino e la lirica barocca

Sintesi con audiolettura

1 Una nuova lirica

La rivisitazione dei motivi della tradizione Carattere fondamentale della lirica barocca è l’originalità, il fine è la «maraviglia» del lettore. Il modello petrarchesco viene totalmente sovvertito. L’organizzazione delle raccolte non traccia più una storia esemplare come nel Canzoniere, ma si basa in genere su un criterio tematico. La varietà tematica Allo stile petrarchesco, composto e armonioso, si sostituisce uno stile ricco di metafore. Queste ultime dominano la lirica barocca: sono sempre originali, spesso stravaganti, bizzarre, volte a colpire l’immaginazione del lettore.

2 Marino, il maggior poeta barocco

L’Adone, poema barocco del piacere sensuale Il poeta più rappresentativo dello stile barocco in Italia è il napoletano Gianbattista Marino (1569-1625). Autore del più celebre poema del tempo, L’Adone (1623) – il poema più lungo della letteratura italiana con i suoi oltre 40.000 versi –, Marino celebra non la guerra ma la sensualità dell’amore, la pace, il piacere, in un poema la cui struttura tradizionale è dissolta dalla prevalenza di digressioni descrittive e liriche. Ma l’Adone non è soltanto un’opera disimpegnata, perché propone anche nuovi valori come quello dell’esaltazione della scienza. Le principali raccolte liriche Oltre all’Adone, Marino compone diverse raccolte poetiche, incentrate prevalentemente sul tema dell’amore; tra queste ricordiamo in particolare La lira (1614) e La galeria (1619).

3 I poeti “marinisti”

La personalità letteraria di Marino La forte personalità poetica di Marino esercita una grande influenza nel suo tempo e diviene punto di riferimento per poeti che vengono definiti “marinisti”, in quanto sviluppano tendenze e temi affrontati da Marino. Essi sono spinti dalla ricerca della novità e dell’ampliamento del campo del poetabile: campo privilegiato della sperimentazione marinista è quello femminile. Viene abbandonata l’immagine della donna tradizionale e il modello femminile del Canzoniere è rovesciato: nuovi tipi femminili, spesso, a sorpresa, poco attraenti e perfino mostruosi (la “donna zoppa”, la “nana”, la “bella pidocchiosa”...) entrano in scena; alla donna angelicata della lirica stilnovistica si contrappone l’indemoniata. La donna non è più legata al decoro, è ritratta in atteggiamenti e attività inconsueti; la nuova immagine, però, non rispecchia la realtà, ma è dettata dal desiderio dei poeti di stupire il lettore. La lode di “donne brutte” è pertanto un banco di prova per mostrare l’abilità poetica di valorizzare imperfezioni e menomazioni. Il Barocco moraleggiante e l’allegorismo Accanto alla tradizionale lirica amorosa, si sviluppa anche una poesia concettista e moraleggiante. Essa non rinuncia alla ricerca della “meraviglia”, ma se ne avvale per imprimere nei lettori insegnamenti morali. Temi chiave di questa tendenza poetica sono ad esempio quelli della riflessione sul tema del tempo o del disorientamento conoscitivo, concretizzati in oggetti-simbolo come l’orologio o lo specchio. Sintesi Seicento

63


4 Contro gli “eccessi”: il classicismo barocco

Anche se minoritario, nello stesso periodo si afferma anche un “classicismo barocco”, talvolta definito anche “antimarinismo”. Gli esponenti di questa tendenza poetica, di cui ricordiamo il savonese Gabriello Chiabrera (1552-1648), rifiutano gli eccessi della “meraviglia” marinista, in nome di un ideale poetico ispirato alla moderazione e all’equilibrio.

5 La grande lirica europea

La lirica spagnola del Siglo de oro La diffusione della poesia riflessiva e moraleggiante nel Seicento è un fenomeno europeo. Mentre l’Italia perde il suo primato letterario, la Spagna (è il Siglo de oro) vede poeti del calibro di Góngora e Quevedo; in Inghilterra si parla di “poesia metafisica” il cui principale modello è John Donne. La “poesia metafisica” La lirica europea si caratterizza per l’omogeneità di temi e motivi che vertono principalmente sul tema del tempo e della precarietà delle cose terrene. Anche nei Sonetti di Shakespeare (1609) è presente il tema della fuga del tempo.

Zona Competenze Scrittura

1. Rifletti sulle coordinate storico-culturali in cui si inscrive la lirica barocca per illustrarne sinteticamente la possibile influenza sul sorgere e sull’affermarsi di una linea esistenziale e moraleggiante (max 30 righe).

Lavoro di gruppo

2. Avete il compito di allestire una mostra a scuola su “Il Barocco e l’arte della meraviglia”. In piccoli gruppi occupatevi di: – ricercare e selezionare il materiale artistico da proporre; – progettare e curare lo spazio espositivo; – realizzare il materiale esplicativo (didascalie e pannelli ecc.) e quello promozionale (locandina, volantini, ecc.) – promuovere la mostra sul sito della scuola (o sul giornalino scolastico) scrivendo un articolo.

Scrittura argomentativa

3. È del poeta il fin la meraviglia

(parlo de l’eccellente e non del goffo): chi non sa far stupir, vada alla striglia! Giambattista Marino, Murtoleide, XXXIII fischiata

I versi qui riportati, rappresentano il manifesto poetico di Marino e della sua epoca. Argomenta questa affermazione con opportuni riferimenti ai brani antologici che hai letto. Scrittura creativa

4. “Rivisita” in chiave contemporanea uno degli emblemi o delle metafore o delle allegorie su cui è costruito uno dei componimenti antologizzati, a tua scelta: la vanitas, lo scorrere del tempo, il moltiplicarsi delle immagini riflesse, l’elogio di bellezze femminili (o maschili) fuori dai canoni ecc. Adotta la forma lirica e la struttura metrica che credi più adatte alla tua scrittura poetica.

64 Seicento 1 Marino e la lirica barocca


Seicento CAPITOLO

2 La scena del mondo: il teatro nel Seicento

Il teatro è forse il genere più rappresentativo del Seicento, sia per la sua diffusione a livello europeo, sia perché molti dei maggiori autori del periodo scrivono per il teatro. La produzione è estremamente varia: dalla commedia alla tragedia, ai drammi “metafisici” di Calderón, al teatro di Shakespeare, che supera ogni categoria, per assurgere a una dimensione “cosmica”. Dal secondo Cinquecento il teatro si stacca completamente dai modelli classici, per trovare forme e modi del tutto originali, che rispondono all’esigenza barocca della spettacolarità. Un ruolo di primo piano ha l’Italia, dove sono create due nuove forme teatrali: il teatro dell’arte e il melodramma. Nel teatro barocco si manifesta l’immaginario di un secolo fantasioso, amante delle apparenze fastose e della “meraviglia”, ma anche pronto ad andare oltre le apparenze, ragionando sugli inganni dei sensi, sul rapporto tra umano e divino: mai come in quest’epoca la metafora della vita come teatro è stata più veritiera.

Seicento, il secolo del 1 Ilteatro 2 Ilinteatro Francia 3 Il teatro in Spagna Il teatro 4 in Inghilterra scena teatrale 5 Lain Italia 6565


1

Il Seicento, il secolo del teatro 1 La centralità del teatro nel Seicento Il secolo del teatro Il Seicento è considerato il secolo del teatro: molti capolavori dell’epoca sia in Inghilterra sia in Spagna e in Francia, appartengono al genere teatrale e, non a caso, è diffusa nella letteratura del tempo la metafora che rappresenta la vita come uno spettacolo teatrale. La centralità del teatro nella cultura e nella società del tempo è da attribuire a diverse ragioni. • La crisi gnoseologica, prodotta dalla rivoluzione scientifica, e la visione religiosa controriformista fanno percepire la vita terrena come parvenza effimera di una più vera realtà, quasi avesse la durata provvisoria di uno spettacolo. E il teatro è il genere più adatto a esprimere questa visione. • I modelli di comportamento dell’epoca inducono a vedere la vita come una sorta di recitazione in cui ciascuno interpreta una parte, che non sempre coincide con il proprio intimo sentire. • La Chiesa promuove l’uso strumentale del teatro come mezzo di diffusione dei valori cristiani. Molti autori, come lo spagnolo Calderón de la Barca, collaborano con la Chiesa proponendo drammi su figure esemplari di santi e martiri e incentrati su temi teologici. Nuove funzioni e nuovi temi del teatro In questo periodo il teatro, in particolare in Europa, non è soltanto un mezzo per avvincere gli spettatori, ma assume un ruolo culturale chiave nei veicolare nuovi e importanti contenuti, diventa occasione di profonda riflessione sull’uomo e sulla società: ne sono esempio, in Francia, la proposta di modelli ideali di comportamento (come nel Cid di Corneille), la rappresentazione di drammatici conflitti interiori (come nella Fedra di Racine) o la rappresentazione critica della società (in particolare nel teatro di Molière). Ma il teatro barocco talvolta mette in scena vicende che assumono complesse significazioni metafisiche, dando voce al dibattito del tempo su importanti temi teologici, come quello del libero arbitrio, di cui è un esempio il celebre dramma dello spagnolo Calderón de la Barca, La vita è sogno. Ricchissimo di temi sorprendentemente moderni è poi, in Inghilterra, il teatro di Shakespeare. La trasformazione della scena teatrale In rapporto alla più generale trasformazione della visione del mondo e dell’idea di teatro che si afferma nel Seicento, si verifica una trasformazione dello spazio scenico. Il palcoscenico si amplia; la scenografia statica, a prospettiva centrale, adottata nel Cinquecento e adatta per un teatro classicistico (fondato sulle unità di tempo e di luogo), viene sostituita da sfondi più fantasiosi ed elaborati: non solo vie cittadine ma scene boschive, distese marine, in quiete o in tempesta, e anche, sempre più spesso, ambienti fantastici e soprannaturali. Grazie a quinte scorrevoli si realizzano rapidi cambiamenti di scena che strappano applausi agli spettatori: sul palcoscenico possono avvenire incendi e naufragi, spalancarsi abissi infernali, aprirsi aeree prospettive celesti. Questo illusionismo, proprio del gusto barocco della metamorfosi e della spettacolarità, richiede l’opera di abili scenografi: agli spettacoli teatrali vengono perciò chiamati

66 Seicento 2 La scena del mondo: il teatro nel Seicento


a collaborare artisti famosi, come lo scultore Gian Lorenzo Bernini (1598-1680) che, a Roma, allestì diverse rappresentazioni. Al gusto della spettacolarità si collegano i due generi teatrali nuovi che si affermarono in Italia nel periodo barocco: la commedia dell’arte e il melodramma.

Parola chiave

Il teatro nel teatro La visione “teatrale” della vita propria del tempo produce la tendenza a mescolare vita e teatro, a far corrispondere (o a sovrapporre) finzione teatrale e vita reale, come se l’esistenza si svolgesse su un palcoscenico. Tendenza che si esprime spesso in forme di metateatro attraverso l’artificio del “teatro nel teatro”. Un esempio canonico è l’Amleto di Shakespeare, in cui il giovane principe di Danimarca fa rappresentare a una compagnia di attori itineranti l’assassinio di un re, con lo scopo di sondare le reazioni dell’usurpatore Claudio e della propria madre assistendo a una scena simile a quella che Amleto suppone sia avvenuta nella realtà (➜ T7 ).

metateatro Con metateatro si intende un teatro che riflette sul teatro stesso. Tipico procedimento metateatrale è quello del “teatro nel teatro” che consiste nell’inserire, all’interno di un’opera drammatica, come parte integrante della vicenda che si svolge sul palcoscenico, la messinscena di un altro spettacolo, in cui gli attori recitano, ma anche discutono, esprimono le loro idee (e

indirettamente quelle dell’autore) sull’attività teatrale stessa, talvolta anche rivolgendosi al pubblico e coinvolgendolo. Questa pratica teatrale – che pone l’accento sul carattere illusorio della rappresentazione, dello spazio scenico, degli spettatori stessi – è stata riproposta nel primo Novecento dal teatro pirandelliano (il testo più emblematico è Sei personaggi in cerca d’autore).

Attori francesi e italiani sul palco, opera anonima del 1670 ca.

Il Seicento, il secolo del teatro 1 67


2 Il teatro in Francia

Nel XVII secolo il teatro in Francia si emancipa dalla scarsa considerazione nei confronti delle compagnie di attori itineranti, che si esibivano nelle piazze per un pubblico eminentemente popolare; si formano compagnie stabili e il teatro, particolarmente favorito (e finanziato) dalla politica culturale della corte di Francia, acquista dignità e prestigio grazie all’opera di grandi autori come Corneille e Racine, che danno vita a una drammaturgia tragica di alto livello e di impronta classicistica, a cominciare dal rispetto delle unità aristoteliche. Dal canto suo Molière inaugura un nuovo genere di commedia che, senza rinunciare agli espedienti comici cari al pubblico ed enfatizzati dalla commedia dell’arte, introduce una corrosiva critica dei difetti umani diffusi nella società del suo tempo.

1 L’opera di Corneille La biografia Pierre Corneille (1606-1684), compiuti gli studi presso i gesuiti, si dedicò all’attività teatrale, cimentandosi sia nel genere comico sia in quello tragico, in cui riscosse maggior successo, per lo meno fino a quando Racine non gli sottrasse il favore del pubblico. I personaggi del teatro di Corneille Essi rappresentano il suo ideale umano, elevato ed eroico: il più famoso è il Cid, protagonista dell’omonima tragedia, ispirata a un dramma spagnolo di ambientazione medievale. Altri personaggi di drammi di successo sono tratti dalla storia romana, come Orazio, Cinna o Poliuto, protagonisti delle omonime tragedie. Nei suoi drammi Corneille presenta situazioni conflittuali, in cui la volontà dei protagonisti riesce però a trionfare su ogni umana debolezza, secondo la lezione “ottimistica” della pedagogia dei gesuiti (nella quale Corneille era stato formato) che esaltava il valore del libero arbitrio, sostenuto dalla forza di volontà dell’individuo. Pierre Corneille in un ritratto attribuito a Charles Le Brun, XVII secolo.

Il Cid, dramma dell’onore Ne è un esempio Il Cid (rappresentato con successo nel 1637), il cui protagonista è un personaggio storico, Rodrigo Díaz de Vivar, soprannominato il Cid Campeador, vissuto nell’XI secolo, eroe nazionale spagnolo per le sue imprese contro i musulmani durante la Reconquista. Per vendicare l’onore del padre, il Cid, ancora giovanissimo, uccide il padre della donna amata, Scimena, il quale aveva schiaffeggiato l’anziano genitore del Cid: per la mentalità dell’epoca un oltraggio di questo genere doveva essere vendicato con il sangue. L’onorabilità appare un valore così fuori discussione tra i nobili che, sebbene addolorata per la morte del padre, Scimena non può disapprovare il comportamento del Cid, riconoscendolo come l’unico possibile in quella situazione; tuttavia anche lei, aderendo allo stesso codice etico, si vede moralmente costretta ad anteporre l’onore all’amore e a denunciare l’amato, chiedendone la morte, per vendicare a sua volta il proprio padre (➜ T1 OL). La difficile situazione si apre a una possibile soluzione, allorché il Cid è chiamato a difendere un valore ancora superiore all’onore online familiare, la difesa della patria, attaccata dai musulmani; T1 Pierre Corneille parte così per la guerra, in cui raccoglierà tanta gloria da Il conflitto di don Rodrigo tra amore e dovere fargli acquistare fama immortale e, probabilmente, al ritorIl Cid, atto I, scene V-VI no, ottenere il perdono di Scimena.

68 Seicento 2 La scena del mondo: il teatro nel Seicento


2 Il teatro classicistico di Racine L’influenza del giansenismo su Racine Il conflitto tra passioni e ragione è al centro dei drammi dell’altro grande tragediografo francese del tempo: Jean Racine (1639-1699), a lungo rivale di Corneille, che alla fine egli sostituì nell’apprezzamento del pubblico. Educato nel convento di Port-Royal, il principale centro del giansenismo francese (➜ SGUARDO SULLA FILOSOFIA, PAG. 70) a cui il tragediografo rimase legato per tutta la vita, fu influenzato nella sua concezione del mondo dalla visione pessimistica della natura umana, propria del giansenismo. Con Racine il teatro classicistico raggiunge il suo più alto livello, anche per la straordinaria eleganza dello stile: si tratta di un teatro deliberatamente rivolto al pubblico selezionato della corte reale di Francia. Per la sua poetica classicistica Racine trae per lo più i soggetti dei suoi drammi dagli autori antichi e dal mito: da Andromaca (1667) a Mitridate, a Ifigenia, a Fedra. Ma il drammaturgo legge in chiave moderna i personaggi antichi, mettendo in particolare in luce la loro fragilità umana di fronte alla forza dirompente delle passioni: i suoi personaggi sono travolti da esse e sono incapaci di risalire la china che li conduce alla perdizione, sebbene tentino con ogni mezzo di farlo. La razionalità di cui dispongono consente loro di ravvisare gli errori in cui sono caduti, ma non di risollevarsene.

JeanBaptiste Santerre, Ritratto di Racine, XVII secolo.

Fedra, vittima di una devastante passione L’opera più famosa di Racine è Fedra (1677), il cui soggetto è ripreso dall’Ippolito del tragico greco Euripide: Fedra, sposa di Teseo, si innamora del figliastro Ippolito, ma viene da lui rifiutata. Per la vergogna si uccide, dopo aver lasciato credere che sia stato il figliastro a usarle violenza (ma Racine fa ricadere la colpa soprattutto sulle macchinazioni della nutrice Enone). Teseo maledice allora l’innocente Ippolito e, per effetto di un dono in passato ricevuto da Nettuno, la maledizione si avvera, provocando la morte atroce del figlio, travolto dai suoi cavalli terrorizzati da un mostro apparso dalle profondità marine. Differenziandosi da Euripide, Racine sposta l’interesse della tragedia da Ippolito alla donna innamorata (come rivela già il titolo dell’opera, a sua volta ripreso dal tragico latino Seneca) e incentra la propria analisi sull’esperienza dirompente dell’eros. Come lo stesso Racine sottolinea nella prefazione, Fedra «non è assolutamente colpevole, né assolutamente innocente», perché la passione è più forte di ogni sua resistenza. Preda di un delirio d’amore irrefrenabile, Fedra è anche cosciente della follia del suo sentimento: perciò vive un dramma interiore devastante in quanto diventa giudice implacabile di se stessa, e la sua razionalità rende la colpa insostenibile (➜ T2 OL). Ma l’oscuro destino che ne decreta la sorte infelice non le consente di esercitare una libera volontà di scelta. Racine interpreta così un personaggio del mito greco alla luce di una moderna sensibilità, che, mentre riflette la sfiducia giansenistica sulla possibilità umana di resistere alla tentazione della colpa, fa presentire le oscure forze dell’inconscio della psicoanalisi novecentesca. Il teatro in Francia 2 69


Sguardo sulla filosofia Il giansenismo Nel corso del Seicento, all’interno del dibattito teologico su questioni dogmatiche e morali, si affermano il pensiero del teologo olandese Cornelio Giansenio (1585-1638) e il movimento che da lui prende il nome. Il giansenismo è un movimento di profondo rinnovamento della vita religiosa che si propone un ritorno alla spiritualità delle origini cristiane e una revisione dei fondamenti dogmatici della fede. L’attenzione di Giansenio, che per più di venti anni si era dedicato allo studio di Agostino, si concentra sul problema della salvezza e della predestinazione: egli sostiene che gli uomini, in conseguenza del peccato originale, sono per natura inclini al peccato e che soltanto la grazia può aprire

loro la strada della salvezza, teorizzando così – in contrasto con i gesuiti e vicino alle posizioni protestanti (per questo alcune proposizioni del giansenismo furono condannate da papa Innocenzo X nel 1653) – la debolezza del libero arbitrio. Secondo Giansenio, infatti, non basta la volontà dell’uomo per ottenere la salvezza, che solo la grazia divina può offrire ai predestinati, agli eletti, indipendentemente dai meriti, di cui l’umanità tutta è totalmente priva. Intorno a queste posizioni si scatenò una lunga battaglia, durata più di un secolo, che vide da una parte i gesuiti e gli organi della Chiesa, i quali non tardarono a condannare come eretico il giansenismo, e dall’altra i seguaci di Giansenio, sempre più numerosi, soprattutto in Olanda e Francia.

Due diversi punti di vista Corneille

Racine

• studi presso i gesuiti • importanza del libero arbitrio • l’uomo, sostenuto dalla forza di volontà, è capace di vincere le passioni e l’inclinazione al male

• educato secondo il pensiero giansenista • debolezza del libero arbitrio • l’uomo è per natura incline al male, che non può vincere se non è salvato dalla grazia

online T2 Jean Racine

La confessione di Fedra e la potenza incoercibile della passione Fedra, atto I, scena III

3 Il teatro di Molière Una vita per il teatro Un’importante funzione del teatro francese nel Seicento è quella di fornire una rappresentazione critica della società. Una tendenza riflessa soprattutto nelle commedie di Molière, lucido osservatore dei costumi della sua epoca, ma anche dei comportamenti umani d’ogni tempo: non a caso le sue commedie sono tuttora rappresentate con successo. Nato da una ricca famiglia borghese, Molière (1622-1673), pseudonimo di JeanBaptiste Poquelin, dedica tutta la sua vita al teatro: dopo aver frequentato il collegio gesuitico di Clermont e studiato diritto, abbandona ben presto l’avvocatura per unirsi a un gruppo di attori itineranti con cui fonda una compagnia teatrale. Svolgendo il triplice ruolo di attore, capocomico e autore, vive girovagando per la provincia francese in precarie condizioni economiche; in seguito, il re Luigi XIV diviene suo

70 Seicento 2 La scena del mondo: il teatro nel Seicento


ammiratore e lo accoglie a corte, proteggendolo dall’ostilità e dalle critiche feroci dei benpensanti e degli aristocratici, offesi dal realismo della sua drammaturgia. Dal canto suo Luigi XIV, oltre ad apprezzare l’arte di Molière, la considerava un’alleata per contrastare il potere dell’aristocrazia e del clero, la cui propaganda ideologica veniva fortemente messa in discussione dal razionalismo dell’autore. Molière muore nel 1673, proprio mentre recitava la parte del protagonista nella sua ultima, poi celeberrima, opera: Il malato immaginario.

Ritratto di Molière nel ruolo di Giulio Cesare in La morte di Pompeo di Pierre Corneille, in un dipinto di Nicolas Mignard, 1656 (Parigi, Museo Carnavalet).

Il “realismo critico” di Molière Obiettivo primario del teatro di Molière è rappresentare caratteri veri, ripresi dal mondo reale, per denunciarne errori, vizi, storture: «il compito della commedia è quello di rappresentare in assoluto i difetti degli uomini, in particolare degli uomini del nostro tempo», così afferma nell’opera metateatrale L’improvvisazione di Versailles lo stesso commediografo. Attento osservatore dell’animo umano e acuto analista dei meccanismi che regolano i comportamenti sociali, Molière denuncia come vizi dell’epoca il conformismo, l’ipocrisia, la tendenza ad adeguarsi passivamente alle mode e ai ruoli sociali codificati, l’abitudine a voler apparire diversi da ciò che si è in realtà. È quello che accade nel Borghese gentiluomo (1670), in cui un borghese arricchito si sforza di apparire un aristocratico, con esiti comici; o nelle Donne sapienti (1672), in cui alcune donne letterate, per adeguarsi alla moda del tempo, risultano in realtà soltanto ridicole. Nemico di ogni atteggiamento artefatto, attraverso il suo teatro Molière cerca di far comprendere come le norme di comportamento non debbano essere dettate dall’esterno, ma ciascuno debba trovarle dentro di sé, facendosi guidare dalla ragione e dalla natura. Spesso l’analisi di Molière parte dal microcosmo della famiglia. Al centro di molte sue commedie (ad esempio L’Avaro) è un padre di famiglia che esercita la propria tirannia fra le mura domestiche. L’esempio forse più famoso è Argante, protagonista del testo più celebre di Moliere, Il malato immaginario, che impone alla figlia la propria volontà, cercando di impedirle di sposare l’uomo che ama, ma nel dirigere la propria vita si affida a dei ciarlatani, i medici detestati da Molière (allora lontani da un approccio scientifico della medicina). Le opere più importanti del commediografo francese, in cui maggiormente si esplicita la corrosiva critica sociale propria del suo teatro, sono Tartufo (1664), Don Giovanni o il convitato di pietra (1665), liberamente tratto da un dramma dello spagnolo Tirso de Molina (1579-1648), Il misantropo (1666), L’avaro (1668), e Il malato immaginario (1673). In particolare Tartufo, che attacca una religiosità bigotta e formalista, mettendo in scena un truffatore che si finge religiosissimo, e Don Giovanni, il cui protagonista è un libertino che irride le leggi terrene e divine, furono accusati di empietà dagli ambienti ecclesiastici e ne fu proibita la rappresentazione, se non a costo di rilevanti rimaneggiamenti. Per la funzione critica esercitata dal suo teatro Molière è stato avvicinato ai grandi moralisti francesi del Seicento, come François de La Rochefoucauld (1613-1680) e Jean de La Bruyère (1645-1696). Il teatro in Francia 2 71


Molière

T3

Argante: despota in famiglia, ma succube dei medici Il malato immaginario atto I, scena V; atto III, scena V; atto III, scena X

Molière, Il malato immaginario, a c. di S. Bajini, Garzanti, Milano 1991

Argante, il protagonista del Malato immaginario, è il tipico ipocondriaco. Credendosi gravemente malato, trascorre le sue giornate sottoponendosi a continue cure, obbediente fino allo scrupolo ai medici, a cui si affida ciecamente.

EDUCAZIONE CIVICA

T3a

Il miglior genero? Un medico!

nucleo Costituzione competenza 3

PARITÀ DI GENERE equilibri #PROGETTOPARITÀ

Argante in famiglia è dispotico, tanto da voler imporre come marito il nipote del suo medico alla figlia Angelica, in realtà innamorata del giovane Cleante. In difesa di Angelica interviene Antonietta, cameriera dal carattere vivace e ricco di arguzia.

Atto I Scena V Antonietta, Argante, Angelica [...] ANTONIETTA Come? avete pensato davvero a un progetto così grottesco? Con tutti i soldi che avete, vorreste dare vostra figlia a un medico? ARGANTE Sì. A te che importa, sciagurata, svergognata che non sei altro? ANTONIETTA Dio mio! chetatevi: passate subito agli insulti. È mai possibile che non si possa discutere insieme senza perdere la pazienza? 5 Su, ragioniamo serenamente. Per quale motivo, sentiamo, siete favorevole a questo matrimonio? ARGANTE Per il motivo che, invalido e malato come mi ritrovo, voglio farmi tra i medici un genero e delle amicizie, al fine di assicurarmi ogni soccorso possibile contro la mia malattia, di avere 10 in famiglia la fonte stessa dei rimedi che mi sono necessari, e di disporre a piacimento di tutti i consigli e di tutte le ricette che desidero. ANTONIETTA Benissimo! questo significa fornire un motivo, e fa piacere sentirsi rispondere con dolcezza. Ma, Signore, mettetevi una 15 mano sulla coscienza: siete davvero malato, voi? ARGANTE Come, sciagurata, mi chiedi se sono malato? Se sono malato io, o spudorata? ANTONIETTA Va bene! siete malato, Signore, non parliamone più; d’accordo, siete malatissimo, anzi molto più malato di quel che pensate: 20 questo è un fatto. Ma vostra figlia deve avere un marito suo; e non essendo malata, non è necessario che sposi un medico. ARGANTE È per me che deve sposare un medico; e una brava figliola dev’essere felicissima di sposare ciò che riesce utile alla salute di suo padre. 25

72 Seicento 2 La scena del mondo: il teatro nel Seicento


T3b

L’ira del dottor La Squacquera contro il malato “ribelle” Su invito del fratello Beraldo, Argante chiede di rimandare una cura al giorno dopo. Il dottor La Squacquera giudica la proposta «un’aperta ribellione di un malato al proprio medico» e reagisce con furia vendicativa.

Atto III Scena V Il dottor La Squacquera, Argante, Beraldo, Antonietta DOTTOR LA SQUACQUERA

e ho sentite delle belle, giù alla porta: qui ci si prende N gioco delle mie prescrizioni, ci si rifiuta di assumere i rimedi che ho ordinato. ARGANTE Signore, non è... 5 DOTTOR LA SQUACQUERA Ci vuole un bel coraggio, siamo di fronte all’aperta ribellione di un malato al proprio medico. ANTONIETTA È spaventoso. DOTTOR LA SQUACQUERA Un clistere, che avevo con tanto piacere ideato io stesso. ARGANTE Io non... 10 DOTTOR LA SQUACQUERA Composto e formato secondo le regole dell’arte. ANTONIETTA Ha sbagliato. DOTTOR LA SQUACQUERA E che avrebbe prodotto nelle viscere un effetto meraviglioso. ARGANTE Mio fratello... DOTTOR LA SQUACQUERA Mandarlo indietro con disprezzo! 15 ARGANTE È stato lui... DOTTOR LA SQUACQUERA Un’autentica diffamazione. ANTONIETTA È vero. DOTTOR LA SQUACQUERA Nella fattispecie, un reato contro la medicina. ANTONIETTA Che ha causato... 20 DOTTOR LA SQUACQUERA Un delitto di lesa-Facoltà, che non sarà mai punito abbastanza. ANTONIETTA Avete ragione. DOTTOR LA SQUACQUERA Vi dichiaro che interromperò il mio rapporto con voi. ARGANTE È stato mio fratello... DOTTOR LA SQUACQUERA E non voglio più imparentarmi con voi1. 25 ANTONIETTA Fate benissimo. [...] DOTTOR LA SQUACQUERA Ma poiché non avete voluto essere guarito dalle mie mani. ARGANTE Non è colpa mia. DOTTOR LA SQUACQUERA Poiché vi siete sottratto all’obbedienza che si deve al medico. 30 ANTONIETTA È una cosa che grida vendetta. DOTTOR LA SQUACQUERA Poiché vi siete dichiarato ribelle ai rimedi che vi ordinavo... ARGANTE Ma niente affatto.

1 non voglio... voi: il medico, offeso, manda a monte il matrimonio tra il ni-

pote e la figlia di Argante, organizzato dal malato immaginario per imparentar-

si con un medico che l’avrebbe sempre curato.

Il teatro in Francia 2 73


DOTTOR LA SQUACQUERA Devo comunicarvi che vi abbandono alla vostra cattiva complessione2, all’intemperie3 delle vostre viscere, alla cor35 ruzione del vostro sangue, all’acredine della vostra bile, alla fecciosità4 dei vostri umori. ANTONIETTA Ben fatto. ARGANTE Dio mio! DOTTOR LA SQUACQUERA E voglio vedervi cadere, fra quattro giorni, in uno stato di 40 incurabilità. ARGANTE Ah! misericordia! [...] 2 complessione: costituzione fisica.

T3c

3 intemperie: alterazione della costituzione naturale.

4 fecciosità: impurità.

Il falso luminare Dopo che il dottor La Squacquera, offeso, abbandona Argante, la serva Antonietta inventa un astuto espediente per guarire Argante dall’eccessiva fiducia nei medici: veste i panni di un luminare della medicina e propone al malato immaginario cure a dir poco sconcertanti...

[...] ANTONIETTA

Atto III Scena X Antonietta, vestita da medico; Argante

Spero che non consideriate disdicevole la curiosità che ho avuto di conoscere un illustre malato come voi; la vostra reputazione, che si estende dovunque, può scusare la libertà che mi sono presa. ARGANTE Servitor vostro, Signore. 5 ANTONIETTA Vedo, Signore, che mi state osservando attentamente. Quanti anni mi date? ARGANTE Penso che possiate avere, al più, ventisei o ventisette anni. ANTONIETTA Ah, ah, ah, ah, ah! ne ho novanta. ARGANTE Novanta? 10 ANTONIETTA Sì. È un effetto della mia arte, conosco il segreto per mantenermi fresco e vigoroso. ARGANTE Veramente, un vegliardo d’aspetto giovanile, per i suoi novant’anni. ANTONIETTA Sono un medico per così dire di passo, vado di città in città, di provincia in provincia, di regno in regno, alla ricerca di casi 15 clinici illustri e degni delle mie capacità, di malati di cui valga la pena di occuparsi, in grado di valorizzare i grandi e bellissimi segreti che ho scoperto nella medicina. Non mi degno di gingillarmi con la minutaglia delle malattie comuni, con sciocchezzuole come i reumatismi, le flussioncelle1, le febbricole, i vapori2, i mal 1 flussioncelle: le flussioni sono infiammazioni provocate da un eccessivo afflus-

so di sangue in una parte del corpo. 2 vapori: esalazioni o vampate di calore.

74 Seicento 2 La scena del mondo: il teatro nel Seicento


20

di testa. Io esigo malattie di qualche portata: belle febbri continue con interessamento cerebrale, belle febbri esantematiche3, belle pestilenze, buone idropisie4 conclamate, buone pleuriti con infiammazioni broncopolmonari: è lì che mi sento appagato, è lì che trionfo; e vorrei, Signore, che voi soffriste di tutte le malat25 tie che ho elencato, che foste abbandonato da tutti i medici, in una situazione disperata, in agonia, per mostrarvi quanto siano efficaci i miei rimedi, e quanto grande il desiderio di rendervi un servigio. ARGANTE Vi sono obbligato, Signore, per tutte le gentilezze che mi dimo30 strate. ANTONIETTA Datemi il polso. Su, coraggio, qui bisogna pulsare come si deve. Ahi, vi insegno io adesso come dovete fare. Oh! ma questo polso fa i capricci: come si vede che ancora non mi conosce. Chi è il vostro medico? 35 ARGANTE Il dottor La Squacquera. ANTONIETTA Non è presente nella lista che ho compilato dei grandi medici. Secondo lui, di che cosa siete malato? ARGANTE Dice che è malato il fegato, mentre altri dicono che è la milza. ANTONIETTA Sono tutti ignoranti: malati sono i polmoni. 40 ARGANTE I polmoni? ANTONIETTA Sì. Che cosa vi sentite? ARGANTE Ogni tanto, mal di testa. ANTONIETTA Proprio così. I polmoni. ARGANTE Talvolta mi pare di avere un velo davanti agli occhi. 45 ANTONIETTA I polmoni. ARGANTE Ho talvolta dolori al cuore. ANTONIETTA I polmoni. ARGANTE Accuso anche una certa stanchezza in tutte le membra. ANTONIETTA I polmoni. 50 ARGANTE E qualche volta mi prendono dolori al ventre, come se fossero coliche. ANTONIETTA I polmoni. Mangiate con appetito? ARGANTE Sì, Signore. ANTONIETTA I polmoni. Vi piace bere un po’ di vino? 55 ARGANTE Sì, Signore. ANTONIETTA I polmoni. Vi prende un certo torpore dopo il pasto e vi fa piacere schiacciare un sonnellino? ARGANTE Sì, Signore. ANTONIETTA I polmoni, i polmoni, vi dico. Che dieta vi ha prescritto il vostro 60 medico?

3 esantematiche: che si manifestano con la comparsa di eruzioni cutanee (come per il morbillo o la varicella).

4 idropisie: l’idropisia è una raccolta di liquido trasudato.

Il teatro in Francia 2 75


ARGANTE ANTONIETTA ARGANTE ANTONIETTA 65 ARGANTE ANTONIETTA ARGANTE ANTONIETTA ARGANTE 70 ANTONIETTA ARGANTE ANTONIETTA ARGANTE ANTONIETTA 75

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ARGANTE ANTONIETTA ARGANTE ANTONIETTA 85 ARGANTE ANTONIETTA ARGANTE ANTONIETTA 90 ARGANTE ANTONIETTA

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ARGANTE ANTONIETTA ARGANTE ANTONIETTA

Una dieta a base di minestre. Che ignorante. Di carne di pollo. Che ignorante. E di vitello. Che ignorante. Di brodi ristretti. Che ignorante. Di uova fresche. Che ignorante. E la sera prugne cotte per l’intestino. Che ignorante. E soprattutto bere sempre vino molto annacquato. Ignorantus, ignoranta, ignorantum. Il vino dev’essere puro; e per ispessire il vostro sangue, che è troppo fluido, ci vuole del buon sano manzo, del buon sano maiale, del buon formaggio olandese, avena e riso, e castagne e pasticceria fresca, a scopo amalgamante e conglutinante. Il vostro medico è un somaro. Ve ne manderò uno io, e verrò a vedervi di tempo in tempo, mentre rimarrò in questa città. Vi sono molto obbligato. E di quel braccio lì, cosa ne fate? Come? Se fossi in voi, questo braccio me lo farei tagliare immediatamente. E perché? Non vedete che trae a sé tutto il nutrimento, e che impedisce all’altro di disporne adeguatamente? Sì, ma del mio braccio io ho bisogno. Anche l’occhio destro mi farei cavare, se fossi in voi. Cavare un occhio? Non vedete che è di ostacolo all’altro e gli sottrae tutto il nutrimento? Credetemi, fatevelo cavare al più presto, vedrete assai meglio con l’occhio sinistro. Non c’è fretta. Vi saluto. Mi dispiace di lasciarvi così presto; ma devo partecipare a un importante consulto, per un uomo che è morto ieri. Per un uomo che è morto ieri? Sì, dobbiamo rifletterci sopra, e vedere che cosa si sarebbe dovuto fare per guarirlo. Arrivederci.

[...]

76 Seicento 2 La scena del mondo: il teatro nel Seicento


Analisi del testo I motivi comici della commedia Il teatro di Molière – come ben si evidenzia nel Malato immaginario – coniuga gli elementi comici, per cui l’autore sa mettere a frutto la lezione della commedia dell’arte italiana, con un’analisi psicologica degna dei grandi moralisti francesi. Nelle scene proposte spiccano diversi motivi comici, come quello del travestimento e della parodia del medico, sfacciatamente sicuro di sé nonostante le sciocchezze che dice. Un altro motivo comico, già presente nelle commedie di Plauto e poi ripreso da tutto il teatro europeo, è quello del servo (qui della servetta) più astuto del padrone e capace di cavarsela in ogni situazione.

Un’analisi psicologica approfondita Sotto l’apparente leggerezza, l’autore francese scava nel profondo dei personaggi, come si può notare a proposito di Argante. È evidente il contrasto fra il despota in famiglia e l’uomo debole e sprovveduto nei rapporti con i medici, che sente superiori a sé: una tipologia psicologica tutt’altro che rara. Come padre, Argante è così severo che la figlia non osa esporre le proprie ragioni quando il genitore vorrebbe imporle il matrimonio con il nipote del suo medico, sebbene lei sia innamorata del giovane Cleante; solo la cameriera Antonietta, estranea alla famiglia, ha il coraggio di prendere le difese della ragazza. Ma l’atteggiamento prevaricatorio di Argante è l’altra faccia del suo egoismo, dato che il malato immaginario è troppo impegnato a pensare a sé stesso e alla sua salute per preoccuparsi degli altri. Naturalmente lo sciagurato matrimonio non andrà in porto, ma darà luogo ad altre scene godibili della commedia, come quella in cui compare il pretendente della ragazza, una caricatura dello sciocco pedante, che, per offrire uno svago alla ragazza, non trova di meglio che invitarla ad assistere a un’autopsia!

Il motivo della servetta astuta Anche la scena del falso medico è accuratamente studiata dal punto di vista psicologico: prima Antonietta conquista la simpatia di Argante mostrandogli di ritenerlo un malato eccezionale, incompreso dai comuni medici, poi, con un acume e una sensibilità psicologica notevoli, gli dà una lezione che per un po’ gli toglierà l’eccessiva fiducia nei luminari della scienza. Il motivo del servo astuto che si fa beffe del padrone è canonico nella commedia fin dai tempi di Plauto, ma Molière lo approfondisce dotandolo di nuove sfumature, perché, in accordo con la sua convinzione che la natura e la ragione insegnino più di molti libri, ama mettere in ridicolo la pedanteria libresca e l’alterigia dei potenti; perciò nelle sue commedie i servitori mostrano spesso buon senso e perspicacia ben superiori a quelli dei loro padroni.

Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

SINTESI 1. Sintetizza il dialogo fra Antonietta e Argante circa il matrimonio della figlia di quest’ultimo. COMPRENSIONE 2. In che modo reagisce il dottor La Squacquera di fronte alla richiesta di quest’ultimo? Quali espressioni evidenziano maggiormente il suo disappunto? 3. In tutte le tre scene la serva Antonietta, personaggio chiave della commedia, dà prova di intelligenza e arguzia: in quali modi? In particolare, come riesce a convincere Argante di essere un luminare della scienza medica? ANALISI 4. Descrivi il diverso comportamento che Argante assume in famiglia e con i medici. STILE 5. Individua nelle tre scene gli espedienti teatrali e stilistici che fanno di quest’opera una commedia comica.

Il teatro in Francia 2 77


Interpretare

SCRITTURA 6. La figura del malato immaginario, “inventata” dalla straordinaria forza drammaturgica di Molière, ha avuto una godibile rivisitazione cinematografica nell’omonimo film di Tonino Cervi (1979), con Alberto Sordi nei panni di Argante, e la trasposizione delle vicende nella Roma papalina ottocentesca. Fai un confronto tra l’opera di Molière e la trasposizione cinematografica.

Alberto Sordi nei panni di Argante nel film Il malato immaginario di Tonino Cervi del 1979.

EDUCAZIONE CIVICA

nucleo

Costituzione

competenza 3

PARITÀ DI GENERE equilibri #PROGETTOPARITÀ

7. Per assicurarsi un medico in casa, Argante impone a sua figlia di sposare il nipote del suo medico personale. Di fronte a questa sua decisione, Antonietta mostra tutto il suo disappunto esclamando: “Ma vostra figlia deve avere un marito suo”. Seppur nella leggerezza e comicità del passo, il tema può avviare considerazioni profonde. Il matrimonio combinato, infatti, non è una pratica appartenente al passato; ancora oggi in molti Paesi è previsto questo contratto di convenienza per “sistemare” le figlie. Sei a conoscenza di storie del genere? Hai letto sui giornali o visto in televisione testimonianze su questo problema? Pensi che si tratti di una forma di discriminazione e violenza? Come potrebbe, secondo te, essere superata?

Fissare i concetti La centralità del teatro nel Seicento. Il teatro in Francia 1. Quali sono le ragioni della centralità del teatro nel Seicento? 2. Qual è la funzione del teatro nel Seicento? 3. In che modo si modifica la scena teatrale? 4. Chi sono, nel Seicento, i maggiori rappresentanti del teatro in Francia? 5. Che cosa viene messo in luce nelle opere di Corneille? 6. A chi si ispira Racine per i suoi drammi? 7. In che cosa differiscono Corneille e Racine riguardo alla posizione dell’uomo? 8. Qual è l’intento di Molière nelle sue commedie? 9. Perché Molière riceve critiche e persecuzioni? Da chi viene difeso? Per quale motivo?

78 Seicento 2 La scena del mondo: il teatro nel Seicento


3 Il teatro in Spagna

Nel Seicento, il Siglo de oro, il teatro conosce un enorme sviluppo in Spagna; in particolare viene impiegato dalla Chiesa controriformista per spettacoli volti a colpire i credenti con effetti scenografici. I drammi religiosi (autos sacramentales) vengono rappresentati nelle ricorrenze dei giorni dedicati ai santi o in occasione della festa del Corpus Domini con l’intento di risvegliare il senso religioso delle folle, che a questo tipo di spettacoli partecipano molto numerose. Nell’ambito del teatro laico, rilevante è l’opera di Lope de Vega (1562-1635), fondatore del teatro nazionale spagnolo, autore molto prolifico in vari generi letterari (poemi, poemetti, liriche, drammi), che riscosse enorme successo di pubblico. Altro grande rappresentante del teatro spagnolo è Calderón de la Barca (1600-1681), le cui numerosissime opere trattano temi morali e religiosi.

1 Calderón de la Barca e La vita è sogno La biografia Nato a Madrid da nobile famiglia nel 1600, Pedro Calderón de la Barca scrisse più di duecento lavori teatrali di vario genere, un certo numero dei quali su temi religiosi, che egli aveva approfondito grazie agli studi di teologia. Dopo essersi dedicato alla carriera militare, a 51 anni si fece ordinare sacerdote, e divenne poi cappellano di corte; morì nel 1681. La vita è sogno Il suo dramma più noto è la commedia filosofica La vita è sogno (1635), considerata una delle espressioni più significative del teatro barocco. La vicenda Basilio, re di Polonia ed esperto di astrologia, è atterrito dagli spaventosi prodigi che accompagnano la nascita del figlio Sigismondo e, dall’esame del suo terribile oroscopo, trae la convinzione che questi sarebbe diventato un re crudele e scellerato. Lo fa quindi rinchiudere in una torre, in un luogo nascosto e isolato, alla sola presenza di un custode-precettore, il nobile Clotaldo. In seguito, assalito da dubbi, decide però di metterlo comunque alla prova: lo farà portare nella reggia mentre dorme, per valutarne il comportamento; se sarà quello crudele predetto dagli oroscopi, Sigismondo sarà ricondotto alla torre e gli si farà credere che abbia soltanto sognato. Così infatti avviene, ma a questo punto si verificano alcuni eventi inaspettati: Sigismondo viene liberato da una rivolta popolare e, avendo appreso la lezione della precarietà del privilegio e del potere, si comporta in modo più saggio ed equilibrato, perdonando il padre e rinunciando al dispotismo e alla violenza. Il suo libero arbitrio trionfa così sulle malvagie inclinazioni istintive e su tutte le più funeste previsioni. Il tema teologico Il tema fondamentale della Vita è sogno è il libero arbitrio. La vicenda del dramma infatti va interpretata come un’allegoria, volta a illustrare la visione cattolica, fiduciosa nella capacità dell’uomo di vincere l’innata tendenza al peccato, in contrapposizione all’idea protestante della predestinazione alla grazia: per Calderón, l’uomo può sempre scegliere il bene (secondo un punto di vista che riflette la posizione dei gesuiti, presso i quali l’autore era stato educato). Così Sigismondo, comprendendo che nella generale vanità di tutte le cose l’unica che non viene perduta è il bene compiuto, impara a non abusare del proprio potere. Il teatro in Spagna 3 79


Il tema filosofico-gnoseologico Un altro tema fondamentale dell’opera è quello della conoscenza, su cui l’autore si mostra invece pessimista. Secondo la visione del tempo, Calderón considera quasi nulla la possibilità di cogliere la vera essenza della realtà. L’uomo si trova proiettato in un’esistenza terrena simile a un sogno per la sua incertezza e precarietà: solo la fede può aiutarlo a orientarsi in un mondo ambiguo e ingannevole. Il dubbio sulla consistenza della realtà e sulla possibilità di conoscerla sarà sviluppato in termini filosofici, nel Discorso sul metodo (1637) di Cartesio, di due anni posteriore al dramma.

online

Interpretazioni critiche Ermanno Caldera La vita è sogno, dramma filosofico e religioso

Il tema del rapporto fra genitore e figlio Un terzo tema dell’opera è il rapporto padre-figlio: Basilio è convinto dagli oroscopi che Sigismondo sarà violento e crudele, ma non capisce che egli stesso crea le condizioni perché lo diventi davvero, chiudendolo in una torre e isolandolo dal consorzio umano, senza permettergli di esercitare responsabilmente la sua libertà. Dalla psicologia moderna il comportamento di Basilio verrebbe definito una profezia che si autoavvera (per il fatto stesso di essere formulata e accolta, tende a tradursi in realtà in quanto un figlio tende a conformarsi al giudizio che i genitori hanno di lui). Tuttavia alla fine, pur dopo aver commesso degli errori, Sigismondo si dimostra capace di smentire ogni triste previsione paterna. Ciò non significa che l’opera affermi il diritto alla ribellione, anzi, secondo il codice gerarchico proprio dell’epoca, tende al contrario ad affermare il principio dell’autorità, sia paterna, sia regale: alla fine Sigismondo, nonostante abbia vinto il padre in battaglia, gli si sottomette, e punisce il soldato che aveva provocato la rivolta. Le immagini allegoriche La vita è sogno è percorsa da una fitta rete di allegorie che rappresentano in forma emblematica i temi dell’opera: così l’iniziale irrazionalità ferina di Sigismondo è simboleggiata dall’ippogrifo su cui, al principio del dramma, la bella Rosaura (figlia di Clotaldo) giunge presso la sua prigione; la torre in cui egli è rinchiuso allude alla caverna platonica (la configurazione mitica immaginata dal filosofo greco per gli uomini, che possono vedere solo le ombre riflesse dagli oggetti reali sulla parete di fondo, incatenati come sono al dominio dell’opinione e del divenire, non ancora emersi alla luce del vero), mentre la sontuosa reggia in cui è trasportato può essere un’allusione al paradiso. Dalla cella della sua torre, Sigismondo vede ovunque immagini della libertà di cui Dio ha dotato il mondo: il volo degli uccelli, le fiere libere in caccia, i pesci che misurano l’immensità degli abissi; egli solo, incatenato, ne è privo, ma nel corso del dramma arriverà a comprendere che la forma più alta di libertà è proprio quella che Dio riserva all’uomo, la scelta del bene. In questo senso è come se Sigismondo ripercorresse la storia cristiana dell’umanità, dal peccato originale alla redenzione.

Fissare i concetti Il teatro in Spagna 1. Qual è nel Seicento la principale funzione del teatro in Spagna? 2. Chi sono i maggiori rappresentanti nell’ambito del teatro laico? 3. Qual è il tema fondamentale del dramma La vita è sogno? 4. In che cosa consiste la visione fiduciosa di Calderón nell’uomo? E invece riguardo a che cosa mostra di avere una visione pessimista?

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Pedro Calderón de la Barca

Il “disinganno” e la scelta del bene

T4

LEGGERE LE EMOZIONI

La vita è sogno, atto II, scene XVIII e XIX Le scene evidenziano il cammino di maturazione di Sigismondo. Riportato dalla reggia (dove era stato messo alla prova nel suo ruolo di principe ereditario, e dove si era comportato in modo crudele e tirannico) alle catene della sua cella, quando gli viene detto che ha soltanto sognato (sebbene in realtà ciò non fosse vero), è costretto a riflettere sulla precarietà del potere e dei beni terreni, il che lo porta, come gli aveva suggerito il suo precettore Clotaldo, ad adottare per l’avvenire un comportamento più responsabile e saggio.

P. Calderón de la Barca, La vita è sogno, a c. di C. Acutis, trad. di A. Gasparetti, Einaudi, Torino 1980

Il risveglio di Sigismondo

T4a

[Essendosi comportato in modo crudele, Sigismondo è narcotizzato e riportato nella torre per ordine del padre, che, avvolto in un mantello per non farsi riconoscere, viene a osservarne le reazioni al risveglio.] Scena XVIII Entra Basilio, avvolto in un mantello. BASILIO CLOTALDO BASILIO 5

CLOTALDO BASILIO

CLOTALDO BASILIO 10 SIGISMONDO CLOTALDO BASILIO CLOTALDO 15 BASILIO SIGISMONDO

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BASILIO SIGISMONDO

1 l’oppio... vigore: Sigismondo era stato fatto addormentare con un potente sonni-

Clotaldo. Signore! Vostra Maestà qui, solo? Ahimè, mi ha spinto a venir qui di nascosto l’inutile curiosità di vedere che cosa accadrà a Sigismondo, al risveglio. Guardalo, è di nuovo ridotto nel suo miserabile stato. Sventurato principe, nato sotto cattiva stella! Cerca di ridestarlo; l’oppio che ha bevuto gli ha tolto forza e vigore1. Si agita inquieto nel sonno, signore, e mormora qualche cosa. Che starà sognando? Ascoltiamo. (dormendo) Chi castiga i tiranni è un principe pietoso. Ucciderò di mia mano Clotaldo, mio padre dovrà baciarmi i piedi. Mi minaccia di morte. A me promette violenze e oltraggi. Mi vuol togliere la vita. Sogna di abbattermi ai suoi piedi. (sognando) Scenda sulla vasta piazza del gran teatro del mondo questo valore che non ha uguali; sia fatta vendetta, e gli uomini vedano il principe Sigismondo che trionfa sul proprio padre. (Si desta). Povero me! Dove sono? Non deve vedermi. (A Clotaldo) Tu sai già quel che devi fare2. Io vado di là, potrò sentire quel che dice. (Si ritira). Sono dunque io? Sono io che mi ritrovo ridotto in questo stato, imprigionato e in catene? E tu, torre, sei il mio sepolcro? Sì. Signore Iddio, quante cose ho sognato! fero, prima di riportarlo nella torre.

2 Tu sai... fare: Clotaldo deve fingere che

Sigismondo sia sempre rimasto nella torre addormentato, e che perciò abbia sognato.

Il teatro in Spagna 3 81


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CLOTALDO SIGISMONDO CLOTALDO

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SIGISMONDO

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CLOTALDO SIGISMONDO CLOTALDO SIGISMONDO

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(tra sé) Ora tocca a me andare a disilluderlo del tutto. È già ora di svegliarsi? Sì, è già ora di svegliarsi. Vuoi restare tutto il giorno a dormire? Da quando io seguii col tardo volo delle parole il volo dell’aquila e poi ti lasciai solo, non ti sei mai ridestato3? No; e nemmeno ora sono desto, Clotaldo; a quel che mi par di capire, sto ancora dormendo. E non credo d’ingannarmi di molto. Se è stato sognato quel che vidi chiaro e certo, dev’essere incerto quel che vedo ora. Non è dunque strano che, ridotto a questa miseria, sogni stando sveglio, dal momento che veglio dormendo. Dimmi che cosa hai sognato. Anche supponendo che sia stato un sogno, non dirò quel che ho sognato, Clotaldo, ma quel che ho veduto. Che lusinga crudele! Mi ridestai e mi vidi in un letto che per luci e colori avrebbe potuto essere un giaciglio di fiori tessuto dalla primavera. E là mille gentiluomini, chinandosi ai miei piedi, mi chiamavano loro principe e mi aiutavano a vestire abiti, gioielli e ornamenti. E tu trasformavi in felicità lo sbalordimento dei sensi, parlandomi della mia sorte: anche se ora mi vedo in questo stato, ero il principe di Polonia. Avrai ricompensato la mia cortesia. No, in verità. Per due volte tentai di ucciderti, con cuore ardito e crudele, perché eri un traditore. Tanta ira contro di me? Ero signore di tutti, e di tutti mi vendicavo. Amavo soltanto una donna. Quasi mi persuado che era tutto vero; ogni altra cosa è finita, ma questo amore non si è spento.

Il re se ne va. CLOTALDO

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(tra sé) Il re se n’è andato, intenerito... (A Sigismondo) Siccome s’era parlato di quell’aquila, una volta nel sonno hai sognato un impero. Ma anche in sogno sarebbe bene rendere onore a chi ti ha allevato con tanta devozione, Sigismondo; anche in sogno non si perde il bene che si fa. (Esce).

3 Da quando... ridestato: prima di farlo addormentare per portarlo alla reggia Clotaldo aveva parlato a Sigismondo del volo di un’aquila.

82 Seicento 2 La scena del mondo: il teatro nel Seicento

Presunto ritratto di Pedro Calderón de la Barca.


T4b

La vittoria del libero arbitrio Scena XIX

AUDIOLETTURA

SIGISMONDO È vero. Reprimiamo dunque questa fiera inclinazione, questa furia, quest’ambizione, perché forse stiamo sognando. Faremo così, se viviamo in un mondo tanto singolare che il vivere non è che sognare. L’esperienza mi ha insegnato che l’uomo che vive sogna di essere 5 quel che è, fino a quando si desta. Il re sogna d’esser re, e così ingannato vive comandando, disponendo e governando; e l’applauso che riceve in prestito lo scrive nel vento, e la morte lo muta in cenere. Sventura immensa! È possibile che ci sia chi cerca di regnare, se sa che poi dovrà ridestarsi nel sonno della morte? Il ricco sogna 10 le sue ricchezze che gli procurano affanni; il povero sogna di soffrire la sua miserabile povertà; sogna chi comincia a prosperare; sogna chi s’affanna a correr dietro agli onori; sogna chi insulta e offende. In conclusione, tutti nel mondo sognano di essere quel che sono, anche se nessuno se ne rende conto. Io sogno d’essere qui, oppresso da 15 queste catene, e ho sognato che mi vedevo in altra condizione, ben più lusinghiera. Che è la vita? Una frenesia. Che è la vita? Un’illusione, un’ombra, una finzione. E il più grande dei beni è poca cosa, perché tutta la vita è sogno, e i sogni sono sogni.

Analisi del testo L’uomo come essere libero Le due scene (la seconda delle quali è un monologo) rappresentano il momento di svolta di un dramma in cui gli eventi interiori sono più importanti di quelli esterni: Sigismondo (ma la sua esperienza può essere estesa a ogni essere umano) si riconosce come essere libero e capace di scelta morale, che può trionfare su qualunque condizionamento negativo. Tale scoperta è in contrasto con l’opinione del padre Basilio, convinto determinista, che, escludendo la possibilità di un mutamento del figlio verso il bene, lo fa riportare nella torre convinto di doverlo abbandonare là per sempre, perché incorreggibilmente votato al male; perciò, assistendo (senza essere visto) al risveglio di Sigismondo, lo compatisce («Sventurato principe, nato sotto cattiva stella!»).

L’esperienza filosofico-gnoseologica di Sigismondo Il principe ha superato l’istintività irriflessa grazie a una duplice esperienza “filosofica”: la presa di coscienza di quanto sia incerta – e potenzialmente ingannevole – la testimonianza dei sensi, e la constatazione di quanto possano essere effimere gloria e potenza terrene. Sigismondo non può stabilire con certezza se ha vissuto o sognato i momenti trascorsi nella reggia: la vividezza delle impressioni lo fa propendere per la loro realtà, ma Clotaldo asserisce si tratti di un sogno; d’altra parte, è solo al risveglio che ci si accorge di aver sognato, ed egli, come ogni altro giorno, si è ritrovato nella sua solita, triste cella, senza che nulla apparentemente sia cambiato. Ma se quello così vividamente impresso nella memoria era soltanto un sogno, non potrebbe essere lo stesso per ogni altro giorno della vita? Interrogativo che segna il “risveglio filosofico” di Sigismondo, rispecchiando l’incertezza gnoseologica di un secolo che aveva visto vanificarsi una delle più radicate certezze dei sensi: che sia il Sole a “sorgere” e a “tramontare” ruotando intorno alla Terra. Ma si tratta anche di un secolo ossessionato dalla vanitas, la fugacità della vita terrena, a cui riporta l’altra decisiva esperienza del giovane principe, passato in così breve tempo dal fasto regale (il letto che sembrava un «giaciglio di fiori», i gentiluomini che gli si prostravano) alla condizione più misera immaginabile, quella del prigioniero incatenato, in uno stato simile alla morte, come mostra il termine «sepolcro», con cui designa la torre della sua prigionia.

Il teatro in Spagna 3 83


Il paradosso della libertà Eppure, paradossalmente, proprio quando è di nuovo in catene, e dopo aver sperimentato la precarietà e i limiti della condizione umana, Sigismondo scopre la libertà. Comprende infatti come l’uomo, distinguendosi dagli animali dominati dall’istinto, possa esercitare il dominio razionale degli impulsi e la scelta morale: ammaestrato da Clotaldo, decide di reprimere la «fiera inclinazione» che lo spinge all’egoistica volontà di potenza, per meritare il premio più alto riservato a chi opera il bene.

Il messaggio dell’opera e le caratteristiche dello stile Calderón riesce a dar voce al modo di sentire degli uomini della sua epoca, e, allo stesso tempo, a drammatizzare un’esperienza universale, il cammino dell’uomo come essere morale e libero di scegliere, che passa dalla violenza istintiva a un civile e controllato modo di relazionarsi con gli altri. Allo stesso tempo Calderón ribadisce il suo messaggio cristiano: prendere coscienza della vanità della vita terrena e disporsi a meritare il premio eterno.

Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

COMPRENSIONE 1. Quale effetto inaspettato scaturisce dalla messa in scena del piano ideato per mettere alla prova Sigismondo? 2. Quali temi possono essere riportati al modo di sentire del Seicento? 3. Qual è la riflessione finale di Sigismondo? LESSICO 4. Individua le occorrenze della parola sogno e del verbo sognare. Quali diversi significati assumono? Qual è il motivo della reiterazione quasi ossessiva dei due termini? 5. Individua i termini relativi al campo semantico della vanitas.

Interpretare LEGGERE LE EMOZIONI

SCRITTURA ARGOMENTATIVA 6. Come definiresti la visione che l’autore ha dell’uomo: ottimistica o pessimistica? Per quali ragioni? Pensi di condividerne qualche aspetto, e perché?

Antonio de Pereda, Il sogno del nobiluomo, 1670 ca. (Madrid, Museo de la Real Academia de Bellas Artes de San Fernando).

IMMAGINE INTERATTIVA

Il quadro rivela fin dal titolo di ispirarsi al famoso dramma di Calderón, a cui è posteriore di circa trent’anni. Davanti al giovane addormentato sono posati gli emblemi della vita di un nobile del Seicento: vi sono infatti simboli della ricchezza e della fortuna (spada e armi da fuoco, un globo terrestre) associati a emblemi di caducità (orologio, candela, teschio), secondo la tipologia della vanitas: la vita, come nel dramma di Calderón, è quindi rappresentata come un sogno breve e fugace. È significativa anche la maschera, simbolo del divario tra essere e apparire, che si collega alla consueta metafora secentesca della vita come teatro.

84 Seicento 2 La scena del mondo: il teatro nel Seicento


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Il teatro in Inghilterra 1 Il teatro elisabettiano

Frontespizio di un’edizione secentesca della Tragica storia del dottor Faust di Christopher Marlowe.

Con teatro elisabettiano si designa in genere il teatro inglese sotto il regno di Elisabetta I (1558-1603) e del suo successore Giacomo I Stuart (1603-1625), un periodo di grande splendore culturale, in particolare per quanto riguarda il teatro. La sovrana incoraggia e protegge lo sviluppo del teatro e degli spettacoli, riconoscendo la figura dell’attore professionista, che si esibisce in spettacoli su tematiche non religiose nei primi veri e propri teatri. Le rappresentazioni di piazza lasciano il posto a teatri con programmi giornalieri, in cui recitano compagnie permanenti di attori che offrono un intrattenimento fondato spesso su un realismo assai pungente, per un pubblico appartenente a qualsiasi classe sociale. Le rappresentazioni teatrali si svolgevano in origine in strutture molto semplici, costituite da uno spazio aperto, di forma circolare o poligonale, circondato da gallerie poste su più piani; il palcoscenico si protendeva su tre lati in mezzo alla folla che assisteva in piedi: il pubblico parlava, mangiava, beveva e commentava ad alta voce ciò che avveniva sul palco. La vicinanza tra gli attori e il pubblico determinava la particolare importanza della parola dell’attore, ascoltata da distanza ravvicinata, mentre erano praticamente assenti le scenografie, che si svilupparono solo in un secondo tempo, quando furono edificati anche dei teatri chiusi. Oltre all’opera di Shakespeare, si annoverano in questo periodo anche quelle di altri importanti drammaturghi inglesi, fra cui Ben Jonson (1572-1637), autore dalla forte vena satirica, e Christopher Marlowe (1564-1593), spirito irrequieto, libero pensatore, morto a soli ventinove anni in una rissa, la cui opera maggiore è La tragica storia del dottor Faust, con la creazione di un personaggio destinato a grande fortuna nella cultura europea.

2 William Shakespeare Un autore al centro del canone occidentale Il critico americano Harold Bloom (1930-2019), in un celebre (e discusso) saggio, ha collocato William Shakespeare (1564-1616), insieme a Dante, al centro del “canone” della letteratura occidentale, ossia della lista di autori europei che ogni persona di cultura dovrebbe conoscere. Non solo Shakespeare è senza dubbio il più grande drammaturgo di tutti i tempi, ma è un autore sorprendentemente attuale, come dimostra il costante successo delle sue opere, non soltanto nelle messe in scena teatrali, ma anche nelle numerose trasposizioni cinematografiche. Le ragioni di tale attualità stanno in primo luogo nella ricchezza e varietà dei temi, nella capacità di Shakespeare di inconIl teatro in Inghilterra 4 85


trare i gusti di un pubblico variegato, sia raffinato sia popolare, ma soprattutto nella creazione di indimenticabili personaggi, alcuni dei quali, come Amleto, appartengono all’immaginario di ogni epoca.

La vita La famiglia e la formazione La figura storica di Shakespeare appare tuttora avvolta nel mistero. Possediamo tuttavia alcuni documenti che ci permettono di avere qualche informazione sicura. Nasce nel 1564 a Stratford-upon-Avon, terzo di otto figli, da una famiglia della agiata borghesia: il padre era un commerciante di pellami. Sugli studi del grande autore inglese non si ha una documentazione precisa; alla Grammar School certamente studiò il latino, come dimostra la sua approfondita conoscenza di scrittori come Plauto e Ovidio, mentre sembra accertato che non abbia frequentato nessuna università. A diciotto anni Shakespeare sposa la ventiseienne Anne Hathaway, dalla quale avrà tre figli, uno dei quali, Hamnet, morirà ancora bambino. La vita londinese e il successo teatrale Lo ritroviamo a Londra qualche anno dopo come promettente attore e autore teatrale: non sono pervenuti documenti, quali lettere, diari o memorie, in cui William parli della sua attività teatrale, tuttavia è documentato fin dal 1592 il suo crescente successo sulle scene londinesi. L’attore-autore venuto dal nulla seppe inoltre conquistarsi la stima e l’amicizia di un nobile colto e raffinato, il conte di Southampton, che diventerà il suo protettore e mecenate. Nel 1593 i teatri chiudono a causa della peste e Shakespeare si dedica intensamente alla poesia: i suoi sonetti (poi pubblicati senza la sua autorizzazione nel 1609) sono già di per sé testimonianza di un grande scrittore. Dopo la riapertura dei teatri nel 1594, Shakespeare entra a far parte della compagnia nota come i Lord Chamberlain’s Men, che ottiene grande successo mettendo in scena i suoi testi. In pochi anni il drammaturgo riesce a diventare comproprietario del Globe Theatre, il maggior teatro londinese.

Ritratto di Shakespeare (noto come “il ritratto di Chandos”) di John Taylor, 1600-1610 ca. (Londra, National Portrait Gallery).

Un periodo drammatico in cui nascono grandi capolavori Nel 1601 il conte di Essex organizza una congiura contro la regina Elisabetta in cui sono coinvolti sia il conte di Southampton, sia, indirettamente, gli attori della compagnia di Shakespeare (a essi i congiurati avevano imposto di preparare gli animi dei londinesi a un colpo di stato rappresentando il Riccardo II, dello stesso Shakespeare, incentrato sulla deposizione di un monarca incapace). La congiura è scoperta, il conte di Essex è condannato a morte e il conte di Southampton imprigionato. La difficile situazione storica e il personale coinvolgimento di Shakespeare nelle vicende suddette si riflettono nella visione pessimistica della storia e dei destini umani maturata dal drammaturgo, che caratterizzerà poi i capolavori tragici: Otello, Macbeth, Re Lear. Gli ultimi anni Nel 1603, alla morte di Elisabetta, sale sul trono d’Inghilterra Giacomo I, figlio di Maria Stuarda, designato come erede dalla regina stessa. Il nuovo

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re apprezza Shakespeare e invita spesso a corte la compagnia teatrale, che il sovrano fa chiamare King’s Men, “Compagnia del re”, ufficializzandone così il ruolo. Negli ultimi anni della sua vita, pur continuando a collaborare con le compagnie teatrali londinesi, Shakespeare si ritira nella grande proprietà acquistata a Stratford-upon-Avon, dove muore nel 1616. L’autore di alcuni dei maggiori capolavori della letteratura mondiale non aveva mai provveduto a curarne personalmente l’edizione; pertanto, pochi anni dopo la sua morte, nel 1623, due amici e collaboratori del poeta pubblicarono un’importante raccolta delle opere teatrali shakespeariane, conosciuta come “primo in folio” (in folio erano chiamati i volumi di grande formato, larghi 30 e alti 38 centimetri all’incirca).

Le opere teatrali

Il Globe Theatre ai tempi di Shakespeare in un disegno acquerellato (Londra, British Museum).

Un teatro innovativo Nella sua non lunga vita Shakespeare esplora e innova tutte le forme teatrali presenti al suo tempo: dai drammi storici alle commedie e alle tragedie. Occorre precisare che Shakespeare non crea soggetti e intrecci originali, ma li trae dalla storia e dalla tradizione letteraria: per i drammi storici inglesi attinge alle cronache, per i drammi storici classici alla storia antica, per le commedie usa come fonti le commedie e soprattutto le novelle italiane, per le tragedie, oltre alla novellistica italiana, attinge alle leggende medievali e ad altre fonti Ma in ogni caso l’originalità dell’autore è evidente nel modo nuovo di trattare personaggi e situazioni, con particolare attenzione alle dinamiche psicologiche, oltre che nella rinuncia al repertorio mitologico e al rispetto delle unità aristoteliche in nome della libertà inventiva dell’autore.

I drammi storici Nei primi dieci anni della sua attività Shakespeare si dedica ampiamente al genere tipicamente inglese dei cronicle plays, tradizionale espressione dell’orgoglio e dell’identità nazionale, che mettevano in scena le vicende della monarchia inglese attraverso le figure dei sovrani. Appartengono a questo genere drammi come Riccardo III, Riccardo II, Enrico IV, Enrico V e altri. In essi Shakespeare, lontano da ogni prospettiva celebrativa e idealizzante, riflette sul tema del potere politico, delineando figure potenti di regnanti nelle loro virtù (intese soprattutto come capacità di arginare la violenza e il disordine nello stato) e nei loro vizi. Un vero eroe del male, dominato dall’ambizione del potere, è Riccardo III. Oltre che nei drammi storici relativi alla storia inglese, il tema politico assume un’importanza nodale nei drammi storici d’argomento classico, come Giulio Cesare, Antonio e Cleopatra, Coriolano. Diversamente dagli umanisti, Shakespeare Il teatro in Inghilterra 4 87


non propone a modello i personaggi dell’antichità, ma li presenta in una prospettiva realistica e demistificante, cogliendo l’occasione per un’analisi spregiudicata e critica dei meccanismi della politica. Ne è un esempio Giulio Cesare, in cui le nobili e idealistiche ragioni del repubblicano Bruto sono vanificate dall’astuzia di Antonio, che con la sua abilità oratoria riesce a suscitare contro di lui l’odio della folla. In questa trageonline dia Shakespeare dà del popolo una rappresentazione negativa, William Shakespeare T5 Un’analisi della folla degna del Principe in tutto simile a quella di Machiavelli (➜ PER APPROFONDIRE, Da Giulio Cesare, atto III, scena II Machiavelli a Shakespeare, PAG. 93; ➜ T5 OL).

Le commedie Fin dai primissimi anni della sua attività di autore per il teatro Shakespeare scrive commedie. In esse si avverte l’influenza della novellistica italiana e della commedia italiana cinquecentesca, da cui Shakespeare ricava i soggetti e gli elementi canonici dell’intreccio, di derivazione plautina, come equivoci e scambi di persona. Tra le prime commedie, alcune privilegiano il gusto per l’intreccio, come La commedia degli equivoci, altre, come La bisbetica domata, sono invece fondate sul gustoso ritratto di un carattere. Sempre nella prima fase si colloca poi una commedia “romanzesca”, Sogno di una notte di mezza estate: in una notte incantata si susseguono incantesimi, trasformazioni, ed entrano in scena figure fiabesche come fate e folletti. Più o meno coeva al Sogno di una notte di mezza estate (1596?) è un’opera definibile secondo alcuni come “tragicommedia”: Il mercante di Venezia, in cui, all’interno di uno schema da commedia canonica, con relativo lieto fine, emerge in primo piano un sinistro personaggio, l’usuraio ebreo Shylock.

David Garrick nei panni di Riccardo III in un dipinto di William Hogarth, 1745 (Liverpool, Walker Art Gallery).

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In alcune commedie, scritte tra la fine del cinquecento e i primi anni del seicento (Tutto è bene quel che finisce bene, Misura per misura) l’atmosfera leggera dei primi testi sembra essersi del tutto diradata per l’emergere di elementi cupi, ma anche di aspetti problematici, “dissonanti” rispetto alle convenzioni del genere. Difficile catalogare questi testi, proprio per la loro natura ibrida: tragicommedie, drammi dialettici, ossia problematici?

Le tragedie

Johann Heimrich Füssli, Titania e Oberon con le orecchie d’asino, 17921793 (Zurigo, Kunsthaus).

Al primo periodo dell’attività di Shakespeare appartiene la tragedia lirica Romeo e Giulietta (1592-1594). Qualche anno dopo (1600-1602) il drammaturgo scrive Amleto, la sua opera in assoluto più celebre. Durante i primi anni del regno di Giacomo I (1603-1608) Shakespeare scrive le grandi tragedie a cui è maggiormente legata la sua fama: Otello, Macbeth, Re Lear. Nelle quattro tragedie maggiori si esprime pienamente la poetica anticlassicistica di Shakespeare, che fonda il dramma moderno in netta contrapposizione alla tragedia francese (➜ PAG. 68). Sorprendentemente moderni sono innanzitutto i protagonisti, il cui segno distintivo è una inedita complessità psicologica con la presenza di conflitti interiori indagati e rappresentati da Shakespeare con straordinaria efficacia. Romeo e Giulietta Ambientata a Verona, la tragedia è la storia dello sfortunato amore tra due giovanissimi, le cui famiglie, i Montecchi e i Capuleti, sono ferocemente rivali. Le riconcilierà solo la triste fine dei due innamorati, dovuta a un tragico equivoco: dopo varie vicissitudini Romeo, credendo morta Giulietta, mentre è solo stordita da una pozione, si uccide vicino a lei. A sua volta la giovane, risvegliatasi e trovato morto l’amato, si toglie la vita. Incentrata sul tema della travolgente forza di un amore adolescenziale, Romeo e Giulietta è una tragedia lirica, per la preminenza dei versi rispetto alla prosa e lo stile raffinato, di gusto barocco (secondo la lezione dell’eufuismo, versione inglese del concettismo ➜ C1, PAG. 57). Amleto Composto tra il 1600 e il 1601, Amleto è la tragedia più lunga e complessa di Shakespeare, ma paradossalmente è anche il suo dramma più popolare, in particolare per il celeberrimo monologo del protagonista nell’atto III. La vicenda è desunta da una cronaca medievale, ma Shakespeare varia considerevolmente la trama, ponendo nettamente in primo piano la figura del protagonista, che non ha mai smesso di affascinare il lettore di ogni tempo. Al giovane principe ereditario di Danimarca appare lo spettro del padre, che gli rivela di essere stato ucciso dal fratello Claudio, il quale ha usurpato il trono e ha sposato Gertrude, la madre di Amleto. Il principe si trova di fronte all’obbligo morale della vendetta. Si finge allora pazzo per indagare senza suscitare sospetti e poter così vendicare il padre; ma Amleto non è un eroe tragico classico, che sa che cosa deve fare e lo fa: dubbi e irresolutezza ne paralizzano la volontà. Per smascherare il re, organizza uno spettacolo teatrale a corte, il cui soggetto riproduce il delitto Il teatro in Inghilterra 4 89


(una sorta di “teatro nel teatro”), ed effettivamente Claudio mostra forte turbamento. Ma ancora Amleto esita. Con l’intento di farlo uccidere, il re lo manda in missione in Inghilterra, ma il piano fallisce. Rientrato in Danimarca, Amleto viene a sapere della morte di Ofelia, un tempo amata: respinta da Amleto, resa folle dalla morte del padre Polonio, ucciso proprio da Amleto per errore, è annegata. Il fratello Laerte, desideroso di vendicarsi, sfida a duello Amleto. Entrambi soccombono. Ma prima di morire Amleto ferisce a morte il re e lo costringe a vuotare una coppa avvelenata a lui destinata e che già ha causato la morte della regina. L’Amleto si inscrive a prima vista nel genere della “tragedia di vendetta”, che consegue a un conflitto tra i personaggi, ma il dramma shakespeariano sposta il conflitto all’interno della coscienza del protagonista, lo interiorizza. L’Amleto shakespeariano appare come un personaggio moderno, un antieroe che si interroga sul senso delle sue azioni e della vita stessa, rimanendo prigioniero di un eccesso di autocoscienza. Il rovello della ragione finisce per avere un potere distruttivo e ne fa un precursore dell’inettitudine dei personaggi novecenteschi. Specchio delle contraddizioni del suo animo è il suo linguaggio, in cui sarcasmo, ironia, tendenza al paradosso, rovesciano ogni asserzione nel suo contrario (➜ T6 ). Macbeth Il dramma è ispirato a fatti storici e a personaggi reali, come Macbeth stesso, ridisegnati liberamente, come di consueto, da Shakespeare. La tragedia si apre con l’apparizione, nella brughiera squassata da una tempesta, di tre streghe a Macbeth e Banquo, generali del re di Scozia Duncan: al primo profetizzano che sarà re, al secondo che sarà padre di re. Istigato dalla moglie, che riesce a vincere le sue remore e paure di fronte all’azione scellerata che si prepara a compiere, Macbeth uccide il re nel sonno e ne prende il posto. Fa poi uccidere anche Banquo, per cercare di sconfiggere la profezia, ma lo spettro dell’amico assassinato lo perseguita, materializzando i suoi sensi di colpa. Intanto Malcom, figlio di Banquo, prepara una spedizione per rovesciare Macbeth, ormai preda di una follia sanguinaria, che lo porta anche a sterminare la famiglia del nobile Macduff, suo avversario. Oppressa dal peso delle sue colpe e dal sangue versato per le ambizioni sue e del marito, lady Macbeth è preda di un angoscioso delirio e poi muore. Informato della sciagura proprio mentre si prepara ad affrontare sul campo i suoi avversari, Macbeth enuncia amare considerazioni sulla vita e la morte prima dello scontro finale in cui perderà la vita. Secondo la profezia, Malcom diventerà re. La tragedia è incentrata sul contrasto tra le ragioni machiavelliche della politica, dettate dall’ambizione personale di Macbeth, che lo portano a commettere atroci delitti, e quelle della coscienza, che lo tormenta attraverso i rimorsi e che vorrebbe inutilmente tacitare (➜ T7 ).

Re Lear Il tema del potere è centrale anche in Re Lear, una tragedia particolarmente cupa e sanguinosa. Il protagonista è un vecchio re che non sa comprendere chi gli è davvero fedele (l’unico nella corte a dirgli la verità è un fool, un buffone vile e disprezzato da tutti) e agisce così in modo capriccioso e dispotico: disereda e bandisce Cordelia, l’unica figlia che gli vuole bene, e nomina sue eredi le altre due figlie, malvagie e assetate di potere, credendo alle loro dichiarazioni ipocrite di amore filiale. Dopo aver rinunciato al trono in favore delle due figlie, sarà da loro cacciato (ma la sete di potere finirà per distruggerle) e vagherà quasi impazzito nella brughiera, mentre imperversa la tempesta. Re Lear morirà dalla disperazione per la morte della figlia Cordelia, con cui si era riconciliato.

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I drammi romanzeschi Le ultime opere di Shakespeare (1608-1611 circa) prima del suo ritiro dal teatro sono difficilmente catalogabili: per lo più sono definite drammi romanzeschi per la presenza di elementi avventurosi e di peripezie simili a quelle dei romanzi. Sono testi teatrali ricchi di elementi magici e favolistici. Pur presentando temi affini alle altre opere, sono inoltre caratterizzati dal lieto fine e in genere da un clima rasserenato. Ne fanno parte Cimbelino, Il racconto d’inverno e La tempesta, ultimo dramma composto da Shakespeare e considerata uno dei suoi capolavori. La tempesta Il titolo allude alla prima scena dell’opera: una violenta tempesta causa il naufragio di una nave. La tempesta è provocata dalle arti magiche di Prospero, protagonista dell’opera. Dodici anni prima Prospero, duca di Milano, era stato spodestato dal malvagio fratello Antonio e abbandonato, con la piccola figlia Miranda, alla deriva su una barca. Approdato su un’isola sperduta, Prospero ne diviene il signore, aiutato dallo spirito buono Ariel, che diventa suo devoto assistente. Sull’isola vive anche il selvaggio Calibano, figlio di una strega e di un demonio, che Prospero ha ridotto in schiavitù. Naufragano sull’isola proprio Antonio, il re di Napoli Alonso, con il fratello Sebastiano e il figlio Ferdinando. Antonio e Sebastiano progettano una congiura contro il re Alonso, ma, spaventati dagli spiriti dell’isola, attivati da Ariel e da Prospero, si pentiranno. Ferdinando a sua volta, prigioniero delle magie di Prospero in un’altra parte dell’isola, dopo una serie di prove, verrà liberato e sposerà Miranda. Prospero perdona il fratello Antonio, riprende il proprio titolo di duca di Milano e abbandona la magia, lasciando il governo dell’isola a Calibano, che a sua volta aveva progettato di ribellarsi a Prospero e al suo potere. Il «mare tranquillo» che Prospero promette a tutti per il ritorno diventa così metafora della pacificazione, della riconciliazione, che sostituisce le violenze, il sangue, le vendette. La tempesta è un testo teatrale breve, che rispetta le unità di tempo e di luogo, ambientata su un’isola in cui regna la magia buona di Prospero e in cui si sentono musiche meravigliose. L’opera riprende in una felice sintesi temi e situazioni di altre opere: gli amori tra due giovani figli di nemici (Romeo e Giulietta), la congiura machiavellica per il potere (Macbeth), la dimensione magico-fantastica (Sogno di una notte di mezza estate), il tema del perdono e della riconciliazione (Misura per misura). Vari e complessi sono i temi dell’opera, come ad esempio il rapporto tra civilizzazione e stato di natura, che emergerà nel Settecento. Dal mondo civilizzato arrivano sull’isola solo valori negativi, incarnati dalla maggior parte dei naufraghi: corruzione, cinismo, smania di potere e di guadagno. Ma al contempo Shakespeare non esalta lo stato di natura, rappresentato dal bestiale Calibano, irriducibile a ogni tentativo di educazione da parte del saggio Prospero. I valori positivi sono incarnati da Prospero, saggio e capace di rinunciare alla vendetta per la clemenza e il perdono. Fondamentale è il riferimento alla magia, imperante nella cultura del Rinascimento italiano, ma trattato nel suo Faust (1588) anche da Marlowe. L’addio finale di Prospero alla magia è stato diversamente interpretato: potrebbe simboleggiare l’addio di Shakespeare alla magia del teatro, ma rappresentare anche la consapevolezza del grande drammaturgo che il sapere magico non sia più attuale di fronte al nuovo mondo “fuori di squadra” che la scienza stava rivelando e in cui l’uomo, secondo le parole di Amleto, non è che una «quintessenza di polvere». Il teatro in Inghilterra 4 91


Un teatro “cosmico” Un’esplorazione a tutto campo della realtà L’opera teatrale di Shakespeare è caratterizzata da una tale straordinaria complessità e varietà di temi e personaggi che «dà piuttosto l’immagine d’un cosmo che d’una singola mente» (Praz): i drammi e le commedie del drammaturgo inglese rappresentano infatti con grande originalità ogni aspetto della vita e della natura umana, dall’amore, all’etica, alla dimensione politica e sociale, esplorano le passioni più rovinose, i dilemmi più profondi. Ancora oggi psicoanalisti, filosofi, teologi considerano le sue opere (su tutte, Amleto) come una fonte inesauribile per lo studio dell’animo umano e della condizione esistenziale. Diversi drammi shakespeariani sono incentrati su aspetti della politica e su argomenti storici, con vari scenari e ambientazioni, dall’antichità (Giulio Cesare e Coriolano) all’epoca della monarchia inglese, con una galleria di re dai caratteri indimenticabili per vizi (Riccardo III) e per virtù (Enrico V). I cosiddetti “drammi politici” sono particolarmente interessanti per il rapporto con la letteratura italiana e con l’opera machiavelliana: «senza Machiavelli, il teatro tragico di Shakespeare non sarebbe stato lo stesso» (Franco Ferrucci). “Dalla terra al cielo” Ma accanto all’esplorazione dei molteplici aspetti del reale, il teatro di Shakespeare dà largo spazio anche alla dimensione del fantastico, con frequenti incursioni nel fiabesco e nel magico-ultraterreno (ne sono esempio lo spettro dell’Amleto, le streghe di Macbeth, gli elfi, le fate e il folletto Puck del Sogno d’una notte di mezza estate), gli spiriti della Tempesta (➜ T8 ). Una poetica enunciata dallo stesso Shakespeare nel Sogno d’una notte di mezza estate: «L’occhio del poeta, rapito dal suo bel delirio, passa dal paradiso alla terra e dalla terra al paradiso; e, come la fantasia riesce a dar corpo a quello che non conosce, così la penna del poeta riesce a dare a un’aerea chimera, una solida dimora e un nome definito» (trad. di P. Ojetti). Una straordinaria galleria di personaggi Straordinario conoscitore dell’animo umano, Shakespeare ha creato una galleria di indimenticabili personaggi, alcuni dei quali sono addirittura assurti a emblemi della natura umana: dal raziocinante Amleto, all’invidioso e malvagio Jago, al passionale Otello, alla spietata lady Macbeth. I personaggi del teatro shakespeariano non sono mai però semplici tipizzazioni: sono vivi e realistici, ma anche estremamente complessi (e proprio per questo moderni), ricchi di sfumature e di contraddizioni irrisolte, che li rendono affascinanti, ma spesso enigmatici, agli occhi del lettore.

Parola chiave

Una rappresentazione polifonica per una visione del mondo complessa e problematica Secondo il critico Alessandro Serpieri, il teatro di Shakespeare può essere definito polifonico , in quanto mette a confronto personaggi con le più diverse idee e visioni del mondo, senza che nessuno di essi appaia esplicitamente come portavoce dell’autore; la capacità del drammaturgo di adottare il punto di vista dei

polifonia Il termine, derivato dal linguaggio musicale, indica un insieme di voci in cui ciascuna mantenga una propria, distinta individualità. Il critico russo Michail Bachtin applica il termine alla letteratura, analizzando in particolare un certo filone del romanzo – rappresentato soprattutto dall’opera del romanziere russo Fëdor Dostoevskij – caratterizzato dal dialogo tra personaggi che esprimono punti di vista diversi, senza che

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nessuno sia proposto come verità assoluta. Bachtin stabilisce un rapporto tra la polifonia letteraria e il moderno relativismo gnoseologico, conoscitivo; dopo di lui altri critici hanno esteso questa categoria interpretativa dal romanzo ad altri generi letterari, tra cui il teatro, come, appunto, avviene nel caso di Shakespeare.


più disparati personaggi è tale che risulta impossibile distinguere con sicurezza le idee dei personaggi da quelle dello scrittore. Paradossalmente i più nobili discorsi, e quelli che si presume coincidano con idee dello stesso Shakespeare, sono spesso attribuiti a personaggi per nulla ammirevoli o persino negativi: è il caso del Mercante di Venezia, in cui l’ebreo Shylock, per il resto gretto e meschino, pronuncia un commovente discorso sui diritti di ciascun essere umano; o di Macbeth, spietato assassino, che alla fine della tragedia giunge a comprendere la vita guardandola come dall’esterno e, riflettendo sulla propria esperienza, esprime pensieri altissimi, ricchi di umanità e di saggezza. Significativa è poi la capacità demistificante, coincidente con una vera e propria saggezza, attribuita in vari testi al fool, il buffone di corte, che, considerato come un pazzo innocuo, può impunemente dire tutto ciò che gli passa per la mente, introducendo un punto di vista alternativo sulla realtà e mostrando l’inconsistenza delle certezze assolute. Dal complesso di queste scelte dell’autore il lettore o spettatore ricava una visione della realtà non univoca, appunto, ma complessa e problematica.

PER APPROFONDIRE

La mescolanza degli stili e la mutevolezza del mondo Shakespeare supera la separazione classicistica degli stili: associa infatti in uno stesso testo il comico e il tragico, il linguaggio elevato e quello realistico e quotidiano, così da trasmettere – attraverso la mescolanza degli stili – il senso della mutevolezza e complessità del mondo. Importante è la scelta di Shakespeare di alternare, anche all’interno di una stessa opera, prosa e versi secondo criteri del tutto liberi: la prosa ha in genere a che fare con la dimensione della spontaneità o del ragionamento, mentre ai versi sono affidati pensieri elevati ed effusioni liriche. Attraverso un linguaggio estremamente duttile, Shakespeare mette in luce le più complesse sfumature del carattere dei personaggi (la nobiltà di carattere di Otello, l’astuzia insinuante di Jago, la profondità di Amleto). Altrettanto abile è nell’evocare quasi visivamente i luoghi in cui si svolgono le vicende. Tale qualità del linguaggio shakespeariano è anche da porre in rapporto con le caratteristiche del teatro elisabettiano, in cui le opere venivano solitamente rappresentate in teatri all’aperto e mancava quasi totalmente la scenografia, che doveva perciò essere evocata dall’immaginazione degli spettatori. Caratteristico dello stile shakespeariano è infine l’uso di metafore creative e spesso molto elaborate, che rimandano alla ricca gamma del concettismo barocco.

Da Machiavelli a Shakespeare Alla fine del Cinquecento, in Inghilterra, Machiavelli è famoso ma accompagnato da una fama sinistra, anche perché associato all’Italia, terra del cattolicesimo romano, avversato dai protestanti inglesi. Nell’immaginario britannico, l’Italia, «sanguinaria, fraudolenta, empia» (Praz), era un paese abitato da cinici e scellerati assassini, ideale per ambientarvi vicende di orrori, malvagità e delitti, di cui l’autore fiorentino era considerato un ispiratore, tanto che il drammaturgo Christopher Marlowe fa recitare proprio a Machiavelli il prologo dell’Ebreo di Malta (1589), un dramma infarcito di azioni crudeli e delittuose. Il Principe fornisce però alla letteratura inglese ed europea anche uno strumento di analisi politica, di cui sa avva-

lersi Shakespeare, che nelle sue opere teatrali spesso mette in scena temi machiavellici, quali la rappresentazione del popolo come mutevole e succube degli inganni dei potenti (➜ T5 ), ponendo spesso l’attenzione sul contrasto tra i successi di scelte politiche spregiudicate e la coscienza devastata dal rimorso per gli inganni, gli assassinii, i tradimenti. Nei principi e nei re, inoltre, Shakespeare vede sempre anche degli uomini, travolti dal meccanismo della storia, e nei drammi come Macbeth e Re Lear ne rappresenta i conflitti interiori, approfondendone la psicologia. Anche Amleto pone al suo centro la figura di un principe, ma l’opera va ben oltre la dimensione politica per investire aspetti più profondi di carattere filosofico e morale.

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William Shakespeare

T6

LEGGERE LE EMOZIONI

Un eroe moderno in un mondo machiavellico Amleto, atto III, scena I

W. Shakespeare, Amleto, a c. di N. D’Agostino, Garzanti, Milano 2004

AUDIOLETTURA

Questo è il terzo monologo di Amleto, forse il testo più famoso del teatro mondiale. Amleto, che si era allontanato dal regno per i suoi studi, ritorna alla corte di Danimarca, contristata da un clima di doppiezze, intrighi, crudeltà. Il padre è stato ucciso a tradimento dal fratello Claudio, zio di Amleto, e il suo spettro appare al figlio a rivelargli l’accaduto e a chiedere vendetta; la madre, presto dimentica del primo marito, ha sposato l’usurpatore. Il giovane principe, per sua natura malinconico e irresoluto, esita, incerto su come fronteggiare una situazione che richiederebbe una tempra più salda della sua, e nel monologo dà sfogo alla propria disperata irresolutezza.

AMLETO Essere, o non essere1, è questo che mi chiedo: se è più grande l’animo che sopporta i colpi di fionda e i dardi della fortuna insensata, o quello che si arma contro un mare di guai 5 e opponendosi li annienta2. Morire... dormire, null’altro. E con quel sonno mettere fine allo strazio del cuore e ai mille traumi che la carne eredita3: è un consummatum4 da invocare a mani giunte. Morire, dormire, – 10 dormire, sognare forse – ah, qui è l’incaglio: perché nel sonno della morte quali sogni possano venire, quando ci siamo districati da questo groviglio funesto5, è la domanda che ci ferma – ed è questo il dubbio 15 che dà una vita così lunga alla nostra sciagura. Perché, chi sopporterebbe le frustate e le ingiurie del tempo, il torto dell’oppressore, l’oltraggio del superbo, le angosce dell’amore disprezzato, le lentezze della legge, l’insolenza delle autorità, e le umiliazioni 20 che il merito paziente riceve dagli indegni, quando, da sé, potrebbe darsi quietanza6 con un semplice colpo di punta7? Chi accetterebbe di accollarsi quelle some8, e grugnire e sudare sotto il peso della vita, 25 se non fosse il terrore di qualcosa dopo la morte, la terra sconosciuta da dove non torna mai nessuno, a paralizzarci

1 Essere, o non essere: vivere, affrontando fino in fondo i compiti della vita, o darsi la morte. 2 quello... annienta: si riferisce a colui che con il suicidio pone fine ai mali della vita. Le due metafore guerresche indicano

i tormenti dell’esistenza, con le due alternative possibili per Amleto: sopportarle o togliersi la vita. 3 traumi... eredita: sofferenze connaturate alla vita terrena. 4 un consummatum: una fine.

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5 groviglio funesto: dell’anima e del corpo. 6 darsi quietanza: porre fine a tutto. La quietanza è la ricevuta di pagamento che il creditore rilascia al debitore, dopo che questi ha saldato il suo debito. 7 punta: pugnale. 8 quelle some: quei pesi.


la volontà, e farci preferire i mali che abbiamo ad altri di cui non sappiamo niente? Così 30 la coscienza ci rende codardi, tutti, e così il colore naturale della risolutezza s’illividisce all’ombra pallida del pensiero9 e imprese di gran rilievo e momento10 per questo si sviano dal loro corso 35 e perdono il nome di azioni. [...]

9 il colore... pensiero: l’eccessiva riflessione blocca la spontaneità dell’azione.

10 momento: importanza.

Analisi del testo I dubbi di Amleto Dal confronto con il mondo spregiudicato e cinico della corte scaturisce la crisi morale di Amleto, giovane sensibile, meditativo e idealista. Anziché vendicare subito il padre, il principe è incerto, esita, tentenna, quasi paralizzato dalle sue stesse ponderazioni. Da questa situazione conflittuale nasce l’occasione del monologo, diventato uno dei più celebri del teatro d’ogni tempo, in cui Amleto soppesa le possibili alternative. La prima è quella che si sarebbe posto un antico romano, uno stoico: vendicare il padre o togliersi la vita per ribellarsi a un mondo senza giustizia. Ma per un cristiano – anche se pieno di dubbi come Amleto – le cose non sono così semplici: sia uccidere sia suicidarsi è un peccato mortale. Nonostante le tante sofferenze della vita, che Amleto passa in rassegna, il timore della morte, «la terra sconosciuta da dove non torna mai nessuno», induce gli uomini a vivere. Combattuto fra due sistemi di valori, terreni e religiosi, la riflessione non lo guida all’azione, ma lo paralizza. Amleto rappresenta l’eroe del dubbio e dell’irresolutezza, chiamato a riportare una giustizia in cui non crede, in un tempo che, egli dice, gli appare «scardinato». Attraverso le parole di Amleto, Shakespeare esprime la crisi della sua epoca, quando il firmamento, non più manifestazione visibile di un armonioso ordine cosmico, è ormai «una massa lurida e pestifera di vapori».

Interpretazioni di Amleto Un personaggio così ricco di sfumature e ambivalenze è stato, ed è tuttora, oggetto di molteplici interpretazioni. • Considerato come incarnazione del temperamento melanconico (che nell’immaginario simbolico moderno rimanda immediatamente alle raffigurazioni della Melancholia di Dürer). • Visto come il frutto del dubbio come metodo esistenziale, proposto nei Saggi di Montaigne, a cui, secondo il critico statunitense Harold Bloom (1930-2019), il personaggio pare ispirarsi. • Psicanalizzato e considerato, in una famosa pagina dell’Interpretazione dei sogni di Sigmund Freud (1856-1939), incapace di vendicarsi perché lo zio Claudio ha realizzato ciò che egli stesso, per il complesso di Edipo nei confronti del padre-re, inconsciamente, aveva desiderato. Sono interpretazioni che non giungono al fondo del personaggio, ma gettano soltanto sprazzi di luce su una figura affascinante proprio per il suo mistero.

Laurence Olivier nel ruolo di Amleto in una scena tratta dall’omonimo film, diretto e interpretato dallo stesso Olivier nel 1948.

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Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

COMPRENSIONE 1. Quali sono i dubbi che assalgono Amleto? 2. Secondo le parole di Amleto, che cosa trattiene l’uomo dal compiere la scelta suicida? 3. Il monologo evidenzia una concezione pessimistica del mondo: quali affermazioni lo comprovano? ANALISI 4. Quali sono i mali della vita che Amleto elenca? Credi che l’elenco prenda in esame soltanto la prospettiva di un principe o che abbia una valenza universale, rispecchiando il pensiero dello stesso Shakespeare? Motiva la tua risposta. STILE 5. Sottolinea le metafore presenti nel monologo e spiegane il significato.

Interpretare LEGGERE LE EMOZIONI

SCRITTURA ARGOMENTATIVA 6. In che senso si può affermare che Amleto rappresenti l’eroe tragico moderno, tormentato dai dubbi? Argomenta le tue riflessioni con opportuni riferimenti al testo (max 10 righe). 7. Amleto è stato definito “l’eroe del dubbio”, lacerato interiormente da impulsi opposti. E l’espressione “dubbio amletico” che noi oggi utilizziamo fa proprio riferimento a un dubbio che appare difficilmente risolvibile e che per questo tormenta. Ti è mai capitato di vivere una situazione, se non così estrema come quella di Amleto, almeno in parte simile? Quali dubbi sono sorti in te paralizzando qualsiasi tua scelta? Racconta in un testo scritto max 10 righe.

William Shakespeare

T7

Il dubbio di Macbeth: “spegnere” il re Duncan o ascoltare la voce della coscienza? Macbeth, atto I, scena VII

W. Shakespeare, Macbeth, trad. di U. Dèttore, in Tutto il teatro, vol. V, Newton Compton, Roma 1990

Dopo che il re legittimo Duncan è giunto al suo castello, a Macbeth, generale di Duncan, si presenta l’occasione di uccidere a tradimento il sovrano, ma è interiormente combattuto.

Atto I Scena VII MACBETH, LADY MACBETH MACBETH Se una volta compiuto fosse realmente compiuto, sarebbe bene farlo subito. Se l’assassinio potesse ingabbiare le conseguenze e, troncandone il corso, afferrare d’un tratto il successo così che questo colpo fosse tutto qui, tutto concluso quaggiù, ma quaggiù, 5 su questa labile spiaggia di tempo... balzerei allora con un salto verso il futuro. Ma in questi casi noi dobbiamo subire un giudizio anche quaggiù, perché non facciamo che dare sanguinosi insegnamenti che, una volta appresi, si ritorcono a colpire il maestro. Così la retta mano della giustizia avvicina alle nostre labbra il 10 calice avvelenato che noi stessi mescemmo1. Egli riposa qui su di una duplice fiducia: anzitutto perché io sono suo congiunto e suo soggetto2, due validi freni contro il delitto; poi perché sono 1 Così... mescemmo: Macbeth sostiene che ci sarà una giustizia e che il colpevole sarà punito con le sue stesse armi. La me-

tafora del calice avvelenato ricorda una situazione dell’Amleto, quando la madre di Amleto beve la coppa avvelenata che l’u-

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surpatore Claudio aveva destinato al figlio. 2 suo congiunto e suo soggetto: suo parente e suo suddito.


suo ospite e dovrei come tale sbarrar la porta all’omicida anzi che impugnare io stesso il pugnale. Inoltre, questo Duncan ha esercitato così mitemente i suoi poteri, è stato così illuminato nel 15 suo alto ufficio, che le sue virtù, come angeli dalle squillanti tube, invocherebbero una eterna condanna per la sua soppressione; e la pietà, come un nudo fanciullino appena nato che viene fra i nembi, o un celeste cherubino che cavalchi gli invisibili corsieri dell’aria, soffierà negli occhi di tutti l’orribile misfatto, così che 20 le lacrime soffocheranno perfino il vento. Io non ho sproni per pungere i fianchi del mio intento, ma solo un’ambizione impetuosa che minaccia di saltare oltre il segno e cadere dall’altra parte. (Entra lady Macbeth.) Ebbene? Che c’è di nuovo? 25 LADY MACBETH Ha quasi finito di cenare. Perché avete lasciato la stanza? MACBETH Ha chiesto di me? LADY MACBETH Lo sai bene. MACBETH Non andremo più oltre in questo affare: proprio adesso egli mi ha colmato di onori, e io ho acquistato presso tutti una reputazione dorata di cui devo rivestirmi ora che essa è nel suo recente 30 splendore, e non gettarla subito da parte. LADY MACBETH Era dunque una speranza ubriaca quella in cui ti eri ammantato? E si era poi addormentata per svegliarsi adesso livida e tremante dinanzi a ciò che voleva fare così baldamente? Da questo momento considero alla stessa stregua il tuo amore. Hai dunque 35 paura di essere nell’azione e nel coraggio quello stesso che sei nel desiderio? Vorresti avere quello che consideri l’ornamento della vita e vivere da vigliacco nella tua stessa stima, lasciando che il «non oso» stia al servizio del «vorrei», come il miserabile gatto del proverbio3? 40 MACBETH Taci, ti prego. Io oso fare tutto ciò che si conviene a un uomo; ma non è uomo chi osa far di più. LADY MACBETH Che essere eri, allora, quando mi confidasti questo disegno? Quando osasti farlo eri un vero uomo, e più ancora lo saresti nell’essere da più di quel che eri allora. Non ti si offrivano né 45 il tempo né il luogo, e tuttavia volevi crearli entrambi; adesso si offrono da sé, e la loro opportunità stessa ti distrugge. [...] MACBETH E se il colpo fallisse? LADY MACBETH Fallire! Inchioda il tuo coraggio su solido sostegno, e non falliremo. Quando Duncan sarà addormentato, e la fatica del viaggio 50 lo inviterà a un profondo sonno, abbrutirò talmente i suoi due ciambellani nel vino e nelle gozzoviglie, che in loro la memoria, guardiana del cervello, sarà fumo e la sede della ragione un semplice lambicco4. E quando le loro energie ubriache si abbandonino come morte in un sonno bestiale, che cosa non potremo 55 compiere noi due su Duncan indifeso? Che cosa non potremo 3 il miserabile gatto del proverbio: al-

4 lambicco: alambicco, apparecchio per

lusione al proverbio «Il gatto desidera i pesci, ma non vuol bagnarsi le zampe».

distillare. La metafora indica che, come nell’alambicco si trova il vapore, così la

coscienza dei ciambellani ubriachi sarà evaporata, svanita.

Il teatro in Inghilterra 4 97


addossare a quei suoi ufficiali fradici come spugne, che dovranno portare la colpa del nostro delitto? MACBETH Genera soltanto figli maschi, perché la tua tempra indomabile 60 non può concepire nulla che non sia maschio. Quando avremo imbrattato di sangue quei due che dormono nella sua stanza e adoprato i loro stessi pugnali, si crederà che siano stati loro? LADY MACBETH Chi oserà credere altrimenti, quando noi faremo ruggire le nostre grida di dolore sulla sua morte? 65 MACBETH Ho deciso: tendo ogni energia del mio corpo a questo terribile atto. Andiamo, e inganniamo il tempo con il più lieto aspetto: un volto falso deve nascondere quello che sa un cuore falso. (Escono.)

Analisi del testo La scelta di Macbeth Il passo presenta il conflitto interiore del protagonista, giunto a un bivio tra il bene e il male, tra la conquista del potere e la lealtà al sovrano: Macbeth è combattuto dall’incertezza se uccidere a tradimento il suo re, nel sonno, o risparmiarlo, rinunciando alle proprie ambizioni. Da una parte ci sono le ragioni del machiavellismo: l’occasione di assassinare il re che, fidente e inerme, riposa nel suo castello, e di soddisfare la sua sete di potere, subentrandogli nel regno, è irripetibile. Dall’altra parte, uccidere il re significa violare i princìpi di ospitalità e umanità, tradirne la fiducia, assassinare un sovrano buono e giusto, che lo aveva beneficato e che, tra l’altro, era suo parente. Nonostante i pro e i contro e fra mille esitazioni, spinto anche dalla moglie e dalla sua stessa sete di dominio, Macbeth decide comunque di mettere in atto il regicidio. Ne pagherà immediatamente le conseguenze: conscio che neppure tutta «l’acqua dell’immenso oceano» potrebbe lavare le sue mani impure, Macbeth si rende conto di aver perso per sempre la serenità: per lui non ci sarà più «l’innocente sonno» che scioglie gli affanni; il potere conquistato con la violenza e la frode non gli darà nessuna gioia, ma lo spingerà a una catena di delitti, finché, odiato da tutti, andrà incontro a una morte disperata.

Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

COMPRENSIONE 1. Quali sono i dubbi che assalgono Macbeth di fronte alla possibilità di uccidere il re Duncan? 2. Di che cosa Lady Macbeth accusa il protagonista? Qual è il suo piano? ANALISI 3. Evidenzia gli elementi machiavellici che ricorrono nella scena del Macbeth. Confronta le tesi di Machiavelli con le riflessioni di Macbeth. STILE 4. Come è nello stile di Shakespeare, il testo è caratterizzato da metafore concettose. Individuale e indica in modo schematico il loro rapporto con i temi del dramma.

Interpretare

TESTI A CONFRONTO 5. Confronta il monologo di Amleto con quello di Macbeth: quali analogie presentano? Quali differenze puoi invece individuare? SCRITTURA ARGOMENTATIVA 6. Qual è il tuo giudizio sul personaggio di Macbeth, così come appare in queste pagine? Rispondi in un testo scritto di max 15 righe.

98 Seicento 2 La scena del mondo: il teatro nel Seicento


William Shakespeare

T8

Machiavelli sbarca sull’isola La tempesta, atto II, scena I

W. Shakespeare, La tempesta, a c. e trad. di A. Lombardo, Garzanti, Milano 1984

Acquietatasi la tempesta suscitata dal mago Prospero, i naufraghi si trovano dispersi in diverse parti dell’isola. Alonso, re di Napoli, è insieme al fratello Sebastiano, ad Antonio, usurpatore del ducato di Milano, e ad altri cortigiani. A un tratto, un misterioso assopimento coglie tutti i naufraghi, salvo Antonio e Sebastiano, che vorrebbero approfittare dell’occasione per realizzare un piano machiavellico: “spegnere” il re per usurparne il potere e impadronirsi dell’isola.

SEBASTIANO ANTONIO SEBASTIANO 5 ANTONIO 10 15 20 25 SEBASTIANO ANTONIO 30 SEBASTIANO ANTONIO 35

Quale strano torpore li possiede! È la qualità del clima. Ma allora perché non abbassa le palpebre anche a noi? Io non ho sonno. Nemmeno io, i miei sensi sono svegli. Costoro sono caduti tutti insieme, come per un accordo. Sono piombati a terra Come schiantati dal fulmine. Cosa non si potrebbe, degno Sebastiano... Cosa non si potrebbe? Basta. E tuttavia mi sembra di vedere sul tuo viso ciò che dovresti essere: l’occasione ti chiama e la mia accesa fantasia vede una corona cadere sul tuo capo. [...] Immagina che il sonno che li ha presi fosse morte [...] Oh, se anche in te vivessero i miei pensieri! Che sonno sarebbe questo per la tua ascesa! Mi capisci? Credo di sì. E come gradisci la tua buona fortuna? Tu hai spodestato, ricordo, tuo fratello Prospero. È vero: e guarda come quegli abiti mi stanno bene addosso. Molto meglio di prima. Allora i servi di mio fratello erano miei uguali – ora, Il teatro in Inghilterra 4 99


SEBASTIANO ANTONIO 40 45

appartengono a me. Ma la tua coscienza? E dove sta di casa, costei? Se fosse un gelone farebbe almeno portare le pantofole – Ma io non sento nel petto questa divinità. Anche venti coscienze messe tra me e Milano dovrebbero gelare e poi sciogliersi prima di infastidirmi. [...]

[Mentre Antonio e Sebastiano sguainano la spada per uccidere Alonso e Gonzalo, Prospero invia lo spirito buono Ariel a risvegliare con un canto il leale cortigiano Gonzalo, che sventa la congiura.]

Analisi del testo Shakespeare e Machiavelli La scena della Tempesta potrebbe essere un capitolo del Principe reso azione teatrale. Non soltanto Antonio incita Sebastiano alla slealtà e al tradimento, ma lo invita a cogliere l’«occasione», facendo suo uno dei più importanti insegnamenti machiavellici. Alla visione della politica in un’ottica machiavellica, Shakespeare contrappone spesso nei suoi drammi considerazioni che riguardano la coscienza. Nella Tempesta Antonio dice di averla messa a tacere da tempo; allo stesso modo, nel Riccardo III, un sicario, prima di compiere un delitto, dice della coscienza: «Non voglio averci a che fare; fa di un uomo un vigliacco [...]; chiunque intende vivere bene cerca di affidarsi a se stesso e di vivere senza di lei».

La vittoria del bene Ma gli scrupoli morali, messi a tacere nel momento dell’azione, fatalmente tendono a riemergere con il tempo. È quanto accade nel Macbeth, in cui le azioni sleali e crudeli del protagonista, iniziate proprio con l’uccisione a tradimento del re Duncan nel sonno (➜ T7 , in una situazione simile a quella che si prospetta nella Tempesta), dapprima hanno successo, ma poi lo trascinano alla rovina e alla disperazione. Nonostante il tema sia analogo, l’atmosfera della Tempesta è lontana dalla cupa tragicità del Macbeth: nel “mondo possibile” dell’isola – migliore di quello reale – a stornare il delitto ordito dai due malvagi cortigiani interviene Ariel, lo spirito che opera per il bene.

Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

COMPRENSIONE 1. In che cosa consiste l’occasione di cui parla Antonio? Quali elementi favorevoli la predispongono? ANALISI 2. Il passo mette bene in luce il perfido carattere di Antonio: come lo descriveresti?

Interpretare

SCRITTURA 3. Quali riferimenti a Machiavelli puoi cogliere nel testo (max 15-20 righe)?

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INTERPRETAZIONI CRITICHE

Erich Auerbach La tempesta, un mondo teatrale che oltrepassa la realtà visibile E. Auerbach, Il principe stanco, in Mimesis, Einaudi, Torino 1956

Nel brano riportato da Mimesis. Il realismo nella letteratura occidentale, libro fondamentale per la critica letteraria, Erich Auerbach (1892-1957) spiega le correlazioni fra lo stile di Shakespeare (il critico parla di «mescolanza di stili») e la sua concezione del mondo, sottolineando come, a quel tempo, l’ampliamento dell’orizzonte geografico avesse fornito un quadro più vasto e complesso della società umana. Da questo allargamento di prospettiva deriva l’idea di fondo del teatro di Shakespeare, che le condizioni della vita umana possano essere infinitamente varie e collegate da innumerevoli nessi. Il saggio aiuta dunque a comprendere meglio la varietà tematica e stilistica della Tempesta e i molteplici rapporti tra diverse vicende che intessono l’opera.

A Shakespeare e a molti dei suoi contemporanei ripugna isolare dal nesso generale dell’azione una singola vicissitudine del destino di una o molte persone in un unico piano stilistico, come fecero i poeti tragici dell’antichità, superati in ciò qualche volta dai loro imitatori nei secoli XVI e XVII. Questo procedimento 5 isolante, che si spiega coi presupposti mitici e tecnici del teatro antico, è in contrasto con la visione di un mondo magico e polifonico che sorse nel Rinascimento. Il teatro di Shakespeare non rappresenta colpi del destino isolati che capitino dall’alto e le cui conseguenze colpiscano poche persone, mentre il mondo interno si riduce a poche persone, assolutamente necessarie allo svolgersi dell’azione – 10 bensì rappresenta intrecci immanenti, risultanti da determinate situazioni e dal concerto di molteplici caratteri. Anche il mondo esterno, perfino il paesaggio e gli spiriti dei defunti e altri esseri soprannaturali vi partecipano, mentre le parti dei personaggi spesso non contribuiscono affatto, o solo in misura minima, al progredire dell’azione, ma consistono in un giuoco simpatetico pro e contro su 15 diversi piani stilistici. [...]. L’economia dei drammi di Shakespeare è di una generosa prodigalità; essa dimostra la sua gioia di dar forma ai fenomeni piú svariati della vita e a sua volta si ispira alla concezione del nesso universale del mondo, cosicché ogni corda del destino umano appena toccata desta infinite voci [...]. Lo stile è di una tale 20 varietà da percorrere tutta la gamma dei sentimenti, dal sublime al farsesco e allo stolto. [...] Non è soltanto la grande quantità di fenomeni e la mescolanza in gradi sempre diversi del sublime e dell’umile, del solenne e del quotidiano, del tragico e del comico che dobbiamo mettere in evidenza, ma è la concezione, difficilmente espri25 mibile con parole chiare, di un mondo rinnovantesi di continuo e legato in tutte le sue parti, concezione che rende impossibile l’isolamento di un avvenimento solo e di un piano stilistico. [...] Con ciò è anche detto che in Shakespeare è contenuta sì la realtà terrena con le sue forme più comuni, in mille rifrazioni e combinazioni, ma che l’intenzione di 30 Shakespeare oltrepassa di molto la rappresentazione della realtà nei suoi rapporti puramente terreni; egli abbraccia la realtà e anche la supera. Prove ne sono la presenza di spiriti e streghe e lo stile caratteristicamente concreto, ma spesso non realistico, nel quale si fondono gli influssi di Seneca, del petrarchismo e di altre

Il teatro in Inghilterra 4 101


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tendenze alla moda; inoltre la struttura interna degli avvenimenti che spesso e proprio nei drammi piú importanti sono realistici solo saltuariamente, e spesso hanno la tendenza a sfociare nel fiabesco o in un giuoco fantastico o nell’ultraterrenodemoniaco.

Analisi e produzione di un testo argomentativo Comprensione e analisi

PER APPROFONDIRE

Produzione

1. Secondo Auerbach, quale concezione del mondo è alla base della tendenza di Shakespeare a unire nello stesso testo stili diversi? 2. Che cosa significa nel testo critico l’espressione «le parti dei personaggi spesso non contribuiscono affatto, o solo in misura minima, al progredire dell’azione, ma consistono in un giuoco simpatetico pro e contro su diversi piani stilistici» (rr. 12-15)? Quale esempio di questa tendenza potresti citare nella Tempesta? 3. Secondo il critico, la visione di Shakespeare può essere definita “realistica”? Per quale ragione? Elabora le tue riflessioni al riguardo sviluppandole in un testo argomentativo in cui tesi e argomenti siano organizzati in un discorso coerente e coeso.

Dal testo alle interpretazioni teatrali e cinematografiche Mettere in scena La tempesta è sempre stata considerata una difficile sfida per la ricchezza e la complessità tematica del testo, che ha dato luogo a interpretazioni molto diverse: così, ad esempio, Eduardo De Filippo (1900-1984), che tradusse La tempesta in napoletano, ammirava «la tolleranza, la benevolenza che pervade tutta la storia» e considerava la bontà di Prospero come una lezione sempre attuale. Invece altri hanno visto nel rapporto tra Prospero e Calibano il simbolo dello sfruttamento colonialista e l’isola come un luogo niente affatto idillico: un’«Arcadia amara», secondo lo studioso di teatro Jan Kott (1914-2001). La figura di Prospero e il suo rapporto con Calibano, così variamente interpretati, ispirano scelte registiche diverse: nel suo famoso allestimento Giorgio Strehler rappresenta il mago come direttore d’orchestra e regista teatrale; il regista cinematografico Fred Wilcox, nel film Pianeta proibito del 1956, traspone la vicenda in chiave fantascientifica, raffigurandolo come lo scienziato Morbius, giunto con la figlia su un altro pianeta, grazie a una navicella spaziale. Più di recente, nel film L’ultima tempesta del 1991, il regista Peter Greenaway ha focalizzato la sua attenzione sui libri

di Prospero (il titolo originale del film è Prospero’s Books), raffigurandoli come compendio di tutto lo scibile occidentale fino al Seicento, sullo sfondo di un’isola dai caratteri strani e inquietanti. Il mondo fantastico della Tempesta ha ispirato diverse opere in cui si intrecciano realtà e fantasia, fra le quali è da annoverare Il flauto magico di Mozart, due atti in musica del 1791, ambientati in una specie di Egitto fantastico, che con l’opera shakespeariana ha in comune diversi temi, dalle prove iniziatiche cui è sottoposto un giovane principe, al valore magico della musica, al contrasto tra personaggi che rappresentano l’uomo “secondo natura” (Calibano in Shakespeare e Papageno, fedele compagno di avventura del principe Tamino, in Mozart) e quello modellato dai valori della civiltà. Sono state infine anche sottolineate le analogie fra La tempesta e il moderno genere fantasy, dato che in entrambi il contrasto tra bene e male è rappresentato in una dimensione fantastica; ricorrono anche personaggi simili, come Gollum del Signore degli anelli di J. R. R. Tolkien (1892-1973), mostro informe, simbolo della malvagità istintiva, che può ricordare Calibano.

Fissare i concetti Il teatro in Inghilterra 1. Che cosa si intende per teatro elisabettiano? Quali sono le novità più importanti? 2. In che cosa consiste l’attualità dell’opera di Shakespeare? 3. Perché l’opera di Shakespeare è stata definita “cosmica”? 4. Quali sono i temi affrontati, quali le caratteristiche dei personaggi? 5. Qual è la visione della realtà che si ricava dall’opera di Shakespeare? Motiva la tua risposta. 6. Quali sono le caratteristiche dello stile di Shakespeare? 7. In che modo Shakespeare si avvale del modello di Machiavelli? 8. Qual è l’idea di re che emerge nei drammi shakespeariani?

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5 La scena teatrale in Italia 1 Il teatro tragico italiano I drammaturghi italiani del Seicento non hanno una spiccata rilevanza nell’ambito europeo, tuttavia non mancano autori relativamente interessanti come Federico Della Valle e Carlo de’ Dottori, entrambi autori di tragedie, il cui motivo predominante è la proposta di modelli di comportamento esemplare.

Michelangelo Merisi, detto Caravaggio, Giuditta e Oloferne, 1599 ca. (Roma, Galleria nazionale d’Arte antica di palazzo Barberini).

Le eroine di Federico Della Valle Federico Della Valle, nato intorno al 1560, ad Asti, visse alla corte dei Savoia e poi presso il governatore spagnolo di Milano, dove morì tra il 1628 e il 1629. Le sue opere più importanti sono: Judith (pubblicata nel 1627) in cui è rappresentata la storia di Giuditta, l’eroina biblica che con la sua straordinaria bellezza seduce Oloferne, nemico del popolo ebraico, e riesce così a ucciderlo (➜ T9 OL); Esther (anch’essa edita nel 1627), la cui protagonista, moglie di un re assiro, salva il popolo ebraico dalla distruzione; La reina di Scotia (composta in prima stesura nel 1595, poi ripresa e pubblicata nel 1628), in cui è narrata la vicenda – allora davvero attuale – di Maria Stuarda, regina cattolica di Scozia, fatta giustiziare (nel 1587) da Elisabetta d’Inghilterra per alto tradimento. Protagoniste delle sue più importanti tragedie sono dunque delle donne: donne eroiche, dall’immensa forza d’animo, accomunate dalla fede, che le sostiene nell’affrontare le più terribili prove (la decapitazione per Maria Stuarda, l’uccisione di Oloferne per Judith). Accanto alla fede, il valore che emerge nella Reina di Scotia è la regalità, una dignità che, nell’epoca del potere assoluto, era considerata inscindibile da chi la possedeva: perciò, anche in carcere, Maria Stuarda resta sempre una regina e tale è considerata da quanti la circondano. La regina di Scozia rappresenta un modello di comportamento anche per la sua sottomissione all’autorità ecclesiastica. Nel momento della morte, Maria afferma la sua obbedienza alla Chiesa cattolica e al papa, e muore come una martire cristiana, moralmente vittoriosa sulla sua avversaria Elisabetta, rappresentata come crudele incarnazione della “ragion di Stato”. Anche la più famosa tragedia di Carlo de’ Dottori (1618-1680), l’Aristodemo (1657), ha come protagonista una donna, Merope, un’eroina che, secondo un mito classico, accetta di essere sacrificata per espiare le colpe della città greca di Messene. Come Della Valle, anche Carlo de’ Dottori traccia con finezza la psicologia della sua protagonista, conferendole un’ammirevole forza d’animo, «che sembra comunicare al personaggio un’anima squisitamente cristiana» (Getto). online T9 Federico Della Valle

Il coro dei soldati: la parola agli oppressi Judith, Coro

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2 Due nuovi generi destinati a un travolgente successo La nascita della commedia dell’arte Il teatro, e in particolare quello italiano, a partire dal tardo Rinascimento e ancor più con il Barocco, sviluppa anche una componente edonistica e spettacolare, che incontra il gusto di un vastissimo pubblico. In Italia nascono infatti due generi nuovi, destinati a una straordinaria fortuna: la commedia dell’arte e il melodramma. Nel corso del Cinquecento comincia ad affermarsi la cosiddetta commedia dell’arte (dell’arte significa “di mestiere”), la cui fortuna durerà per circa due secoli e mezzo fino alla riforma teatrale goldoniana. La denominazione di “commedia dell’arte” si diffonde nel corso del Settecento per identificare l’attività e il tipo di spettacolo prodotto da attori professionisti, organizzati in compagnie teatrali, delle quali, in contrasto con la tradizione teatrale e suscitando la diffidenza dei moralisti, facevano parte anche donne. Queste compagnie cominciarono a costituirsi stabilmente in Italia verso il 1560 (il primo contratto ufficiale di cui abbiamo menzione è del 1545), tramandandosi di generazione in generazione un sapere teatrale ormai codificato. La novità della commedia dell’arte si lega sostanzialmente a due aspetti: la trasformazione della figura dell’attore da dilettante, qual era fino al Rinascimento, in professionista dello spettacolo e la trasformazione dell’attività teatrale da rito cortigiano, legato alle feste di corte, in prodotto commerciale che si propone di conquistare i favori di un pubblico sempre più eterogeneo. Un insieme di elementi dotti e popolari Per le esigenze dell’intrattenimento, i comici dell’arte seppero realizzare un’abile fusione di temi e forme della commedia dotta con componenti della cultura popolare, propria degli intrattenitori di piazza, eredi della tradizione giullaresca: dall’esasperazione della mimica alle abilità acrobatiche, alla gestualità, alle battute rivolte al pubblico. Inoltre la commedia dell’arte privilegia rispetto al testo scritto la recitazione improvvisata, ma occorre precisare che si tratta di un’improvvisazione relativa: l’attore poteva infatti innanzitutto contare sulla presenza di un canovaccio (ce ne sono pervenuti moltissimi), che conteneva indicativamente la trama, la divisione in atti e la traccia delle scene principali; inoltre gli attori utilizzavano, secondo la loro personale abilità e creatività, zibaldoni di materiali in cui si trovavano, già pronti per le diverse situazioni teatrali, monologhi e dialoghi, lazzi, ovvero battute marcatamente comiche, repertori di idee, rime ecc. La tipizzazione dei personaggi Dalla struttura della commedia erudita la commedia dell’arte ricavò invece soprattutto i “tipi” tradizionali dei personaggi: i vecchi, gli innamorati, i servi, che i commediografi rinascimentali avevano tratto a loro volta dalla commedia latina di Plauto e Terenzio. La commedia dell’arte utilizza la professionalità degli attori, inclini a specializzarsi in un particolare ruolo in cui distinguersi, per rendere i personaggi sempre più fissi nei gesti, nel linguaggio, nei costumi, così da essere immediatamente riconoscibili dagli spettatori, i quali finivano spesso per identificare l’attore con il “suo” personaggio. Le maschere La tipizzazione marcata dei personaggi comportava anche l’uso della maschera, poi diventata un elemento caratteristico del carnevale. Non tutti i personaggi però usavano la maschera, ma solo quelli cui erano affidati i ruoli marcatamente comici, in particolare i servi ridicoli di campagna, gli Zanni (nome

104 Seicento 2 La scena del mondo: il teatro nel Seicento


forse derivato da Giovanni, diffuso tra i contadini veneti): tra di essi Arlecchino, col suo tipico abito variamente colorato, Brighella, il napoletano Pulcinella e i loro padroni, come Pantalone (vestito come i ricchi veneziani) o il Dottor Balanzone bolognese, che si esprime in un tipico linguaggio misto di dialetto bolognese e citazioni latine. Se per i ruoli comici è usata la maschera e sono impiegati i dialetti con funzione espressiva, gli innamorati e le innamorate (di solito due coppie in una compagnia di attori) recitano invece senza maschera e in lingua, utilizzando anche forme auliche, in rapporto a situazioni lirico-sentimentali. Nella commedia dell’arte coesistono dunque per la prima volta in un originale amalgama tradizioni teatrali e specializzazioni diverse degli attori: lingua letteraria/dialetti; personaggi con maschera/senza maschera; scene sentimentali/scene farsesche; recitazione raffinata/buffonesca (in particolare, la prima degli innamorati, e la seconda degli Zanni, specializzati in una comicità bassa e nell’impiego virtuosistico delle capacità mimico-acrobatiche). Il successo della “commedia all’italiana” Il teatro dell’arte italiano, non impegnato, ma spettacolare e divertente, era molto gradito dal pubblico. Celebre in tutta Europa – dove era identificato come “commedia all’italiana” – ha il merito di aver insegnato i segreti dell’arte teatrale a grandi autori come Molière e Goldoni. Con il tempo, tuttavia, la concorrenza per conquistare il favore del pubblico induce le compagnie teatrali ad abbassare sempre più il livello degli spettacoli, a cercare il successo con mezzi sempre più facili e scontati (come oggi accade per lo più negli spettacoli televisivi): una scelta che porterà inevitabilmente alla decadenza del genere e che sarà giudicata severamente dai letterati settecenteschi che riformeranno il teatro comico, Goldoni in testa. La nascita del melodramma Dal dramma pastorale, il cui archetipo è l’Aminta di Tasso, trae origine, dalla fine del Cinquecento, un genere nuovo, destinato a una grande fortuna europea: il melodramma. I versi dei drammi pastorali, a cominciare dall’Aminta, erano dotati di una particolare musicalità, e adatti a essere cantati; inoltre era usuale, tra un atto e l’altro delle rappresentazioni cortigiane, inserire intermezzi cantati e musicati. Alla fine del Cinquecento, a Firenze, un gruppo di letterati e musicisti (fra i quali anche il padre di Galileo, Vincenzo Galilei), riuniti nella cosiddetta Camerata dei Bardi, cominciarono a pensare a un dramma tutto cantato (“recitar cantando”): li incoraggiava il fatto che nell’antica tragedia greca venissero intonati canti corali (inoltre si credeva erroneamente che nel teatro greco anche le parti recitate dai singoli attori fossero cantate). Venne così elaborata una nuova forma artistica, che avrebbe in seguito costituito un vanto per la cultura italiana: uno spettacolo in cui la bellezza delle scenografie, la poesia del testo e il fascino della musica si fondessero in un insieme armonioso. I primi melodrammi furono ispirati a temi mitologici e bucolici. Ne sono esempio la Dafne (1594) di Ottavio Rinuccini (1562-1621), musicata da Iacopo Peri (15611633), l’Euridice (1600) degli stessi Rinuccini e Peri, l’Orfeo (1607), musicato da Claudio Monteverdi (1567-1643), e l’Arianna, con testo di Rinuccini e musica di Monteverdi (1608). In seguito si affermarono anche soggetti di carattere storico o tratti da opere letterarie. La struttura del melodramma si perfezionò nel tempo, assumendo la sua forma canonica. La scena teatrale in Italia 5 105


La nuova forma artistica suscitò l’entusiasmo del pubblico che accorreva non soltanto nelle corti, ma anche nei teatri pubblici, soprattutto a Venezia. Il nuovo genere sembrava realizzare in pieno l’idea della spettacolarità barocca: fusione di arte figurativa, musica e recitazione, che si realizzava attraverso la grandiosità delle scene e degli apparati, la suggestione della musica e l’abilità dei cantanti.

Due novità nel panorama teatrale del Seicento Commedia dell’arte

• costituirsi di compagnie teatrali • attori professionisti • spettacolo commerciale vero e proprio • recitazione improvvisata su un canovaccio • maschere e tipizzazione dei personaggi

Melodramma

• nasce dal dramma pastorale e dal “recitar cantando” della Camerata de’ Bardi a Firenze • azione scenica recitata e musicata su temi mitologici e bucolici • grandiosità delle scene e degli apparati

Fissare i concetti La scena teatrale in Italia 1. Chi sono gli autori di tragedie più importanti in Italia? 2. Chi sono i protagonisti delle tragedie di questi autori? Quali le loro caratteristiche? 3. Che cos’è la commedia dell’arte? Che novità propone? Per che cosa si caratterizza? 4. Che cos’è il melodramma? Da che cosa trae origine? Dove iniziò a svilupparsi?

Scenografia di un melodramma barocco, Il pomo d’oro (1668) di Antonio Cesti.

106 Seicento 2 La scena del mondo: il teatro nel Seicento


Seicento La scena del mondo: il teatro nel Seicento

Sintesi con audiolettura

1 Il Seicento, il secolo del teatro

La centralità del teatro nel Seicento Il Seicento è il secolo del teatro, spesso visto dagli autori del tempo come metafora della vita, In questo secolo l’arte scenica assume un ruolo culturale chiave. È usata per proporre modelli di comportamento esemplare (Corneille) o conflitti tragici (Racine), per rappresentare criticamente la società (Molière) o mettere in scena temi del dibattito filosofico del tempo (Calderón). Nel XVII secolo si verifica anche una trasformazione dello spazio scenico: la scenografia statica viene sostituita da sfondi più fantasiosi ed elaborati ispirati al gusto barocco per l’illusionismo.

2 Il teatro in Francia

L’opera di Corneille In Francia nel Seicento il teatro – finanziato e favorito dalla politica culturale della corte – acquista dignità e prestigio grazie a drammaturghi come Corneille e Racine. Nel suo teatro Corneille presenta situazioni conflittuali, in cui la volontà dei protagonisti riesce tuttavia a trionfare su ogni umana debolezza. Personaggio simbolo del teatro di Corneille è il Cid, al centro dell’omonima tragedia. Il gusto classicistico di Racine Racine pone al centro della sua produzione teatrale la lotta fra passione e ragione, interpretata alla luce del suo pessimismo e della sua formazione giansenista. Esemplare nella Fedra, tragedia ispirata a un mito classico, l’analisi sull’esperienza dirompente dell’eros, evidenziata attraverso la vicenda della protagonista, che, pur dolorosamente consapevole di cadere nel peccato, non riesce a sottrarsi alla potenza della passione e ne è sovrastata. Il teatro di Molière Nel Seicento sui palcoscenici di Francia spopolano le commedie di Molière, che denuncia i vizi della sua epoca. Il suo teatro colpisce i conformismi, le ipocrisie, la pigra assuefazione alle mode e ai ruoli sociali codificati, mettendo in scena una galleria di personaggi umani ancora di grande modernità. Spesso l’analisi di Molière parte dal microcosmo della famiglia, come ad esempio nell’Avaro o nel Malato immaginario.

3 Il teatro in Spagna

Calderón de la Barca e La vita è sogno In Spagna, nel XVII secolo, il Siglo de oro, ha la sua apoteosi il teatro, sia quello di contenuti religiosi, sia quello laico, in cui temi teologici e metafisici trovano espressione in opere di spessore filosofico, come nel capolavoro del genere, La vita è sogno di Calderón de la Barca. In quest’opera, in linea con la morale gesuitica, si sostiene l’idea del libero arbitrio, rappresentato dalla vicenda di Sigismondo, principe di Polonia. Costui, contro ogni predestinazione maligna degli influssi astrali, si rivela capace di scegliere il bene anziché il male quando comprende la vanità della vita e l’inganno delle apparenze.

Sintesi Seicento

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4 Il teatro in Inghilterra

Il teatro elisabettiano Con teatro elisabettiano si designa il teatro inglese sotto il regno di Elisabetta I (1558-1603) e del suo successore Giacomo I Stuart (1603-1625). In questo contesto viene riconosciuta la figura dell’attore professionista che si esibisce in spettacoli su tematiche non religiose, nei primi veri e propri teatri. William Shakespeare William Shakespeare è ritenuto uno dei più importanti drammaturghi della cultura occidentale. La sua produzione è estremamente varia: poemi, sonetti e, in ambito teatrale, drammi storici, commedie e tragedie; oltre a un genere nuovo, i drammi romanzeschi, connotati da elementi fantastici e dal lieto fine. Il teatro di Shakespeare è innovativo: anche se l’autore non crea soggetti e intrecci originali, propone un modo nuovo di trattare i personaggi, dando importanza alle dinamiche psicologiche che caratterizzano il loro comportamento. Nei drammi storici Shakespeare riflette sul tema del potere politico attraverso una prospettiva realistica e demistificante; nelle commedie si avverte l’influenza della novellistica italiana e della commedia italiana del Cinquecento, in merito al tema degli equivoci e degli scambi di persona. Ma la fama di Shakespeare deriva soprattutto dalle tragedie imperniate sull’indagine dei conflitti interiori. Romeo e Giulietta, Amleto, Macbeth, Otello e Re Lear sono le più celebri. Tra i drammi romanzeschi ricordiamo, in particolare, La tempesta. La grandezza di Shakespeare risiede nella sua capacità di creare una straordinaria galleria di personaggi e di rappresentare la complessità del reale da un punto di vista alternativo e demistificante.

5 La scena teatrale in Italia

Il teatro tragico italiano I drammaturghi italiani del Seicento non hanno grande rilevanza in ambito europeo; tuttavia, non mancano autori interessanti come Federico Della Valle e Carlo de’ Dottori, entrambi autori di tragedie, finalizzate a fornire un modello di comportamento esemplare. Protagoniste delle più importanti tragedie di Della Valle e Dottori sono delle donne: donne eroiche, dall’immensa forza d’animo che le sostiene nell’affrontare le più terribili prove. Due nuovi generi destinati a travolgente successo aIn Italia inizia a svilupparsi un altro genere originale di intrattenimento: la commedia dell’arte. Diffusasi verso la metà del Cinquecento, è portata in scena da compagnie di professionisti (comprendenti anche donne), con attori specializzati in un ruolo di cui assumono la maschera. La novità di questo nuovo genere risiede nella trasformazione della figura dell’attore da dilettante in professionista dello spettacolo e nella trasformazione dell’attività teatrale da rito cortigiano in prodotto commerciale. Nella commedia dell’arte manca un testo scritto, sostituito da un canovaccio, che comprende l’argomento, la divisione in atti e le scene principali. Ampio spazio è lasciato all’improvvisazione. Sempre in Italia, si avvia il melodramma, genere nuovo di dramma cantato e musicato, che muove i primi passi a fine Cinquecento a opera dei musicisti della fiorentina Camerata de’ Bardi.

108 Seicento 2 La scena del mondo: il teatro nel Seicento


Zona Competenze Sintesi

1. Costruisci una tabella per presentare sinteticamente alla classe, attraverso le opere trattate nel profilo, i caratteri e le funzioni assunti dal teatro nel corso del Seicento.

Lavoro di gruppo

2. Documentatevi in Rete riguardo ai recenti allestimenti e rappresentazioni teatrali del capolavoro di Molière Il malato immaginario: ricercate le informazioni e la documentazione ed esponete in classe i risultati. Organizzate poi un dibattito sull’opportunità, e i modi, di attualizzare i testi teatrali, sulla base anche di esperienze personali di spettacoli visti.

Testi a confronto

3. Spiega in che senso si può parlare di “machiavellismo” nel teatro di Shakespeare e illustra sinteticamente attraverso uno schema i rapporti fra il pensiero di Machiavelli e l’opera del drammaturgo.

Scrittura argomentativa

4. Scegliendo uno dei drammi antologizzati – o anche un’opera che conosci per tua esperienza personale – in un testo di max 20 righe argomenta sulla modernità del teatro shakespeariano.

Scrittura creativa

5. Immagina di scrivere una recensione della commedia di Molière che possa invogliare i tuoi compagni ad andare alla rappresentazione teatrale organizzata dalla scuola Il malato immaginario 2.0: presenta gli aspetti della commedia che ti sembrano più stimolanti, significativi e soprattutto moderni. 6. Immagina di essere un regista teatrale e di dover preparare una rappresentazione della Vita è sogno di Calderón de la Barca, scegliendo i personaggi e dando indicazioni per le scenografie, i costumi, gli effetti teatrali. 7. Sei stato testimone del dramma vissuto da Amleto: scrivi un breve testo (max 20 righe) che fornisca una cronaca o una narrazione documentaria della vicenda.

Sintesi Seicento

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Seicento Quattrocento e Cinquecento CAPITOLO

3 Galileo Galilei LEZIONE IN POWERPOINT

L’uomo Galileo visto da sé medesimo...  In una lettera scritta a Cristina di Lorena, madre del granduca di Toscana Cosimo de’ Medici, che fa parte delle Lettere copernicane, Galileo mostra tutta la sua fiducia nel fatto che la verità, vista con i suoi occhi così luminosa nel cielo, non avrebbe tardato a farsi strada e a trionfare; una verità che si schierava contro la Chiesa cattolica, la cui posizione si fondava sugli antichi e autorevoli testi di Aristotele e Tolomeo, suffragata dall’autorità delle Sacre Scritture. Ma di lì a poco una denuncia contro Galileo sarebbe stata inoltrata al Sant’Uffizio, aprendo così una lunga strada di battaglie e umiliazioni.

Se per rimuover dal mondo questa opinione e dottrina (copernicana) bastasse il serrar la bocca ad un solo, come forse si persuadono quelli che, misurando i giudizi degli altri co’l loro proprio, gli par impossibile che tal opinione abbia a sussistere e trovar seguaci, questo sarebbe facilissimo a farsi; ma il negozio cammina altramente; perché, per eseguire una tal determinazione, sarebbe necessario proibir non solo il libro del Copernico e gli scritti degli altri autori che seguono l’istessa dottrina, ma bisognerebbe interdire tutta la scienza d’astronomia intiera, e più, vietar a gli uomini guardare verso il cielo, acciò non vedessero Marte e Venere or vicinissimi alla terra or remotissimi con tanta differenza che questa si scorge 40 volte, e quello fa 60, maggior una volta che l’altra, ed acciò che la medesima Venere non si scorgesse or rotonda or falcata con sottilissime corna, e molte altre sensate osservazioni, che in modo alcuno non si possono adattare al sistema Tolemaico, ma son saldissimi argumenti del Copernicano. G. Galilei, Lettera a madama Cristina di Lorena, in Opere, a c. di F. Flora, Ricciardi, Milano-Napoli 1953

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Galileo ha un ruolo chiave nella storia del pensiero scientifico perché a lui si deve l’elaborazione del metodo scientifico moderno, basato sull’osservazione dei fenomeni, sulla loro analisi sistematica con l’apporto della matematica e della geometria, sulla formulazione di ipotesi razionali verificate mediante esperimenti. Con Galileo la figura stessa dello scienziato si definisce. Lasciato alle spalle il principio di autorità, riallacciandosi allo spirito razionale e critico del Rinascimento, Galileo si propone nei suoi scritti in un modo del tutto nuovo: un ricercatore inesausto della verità, spinto dalla volontà di accrescere le conquiste dell’umano sapere, mettendo in dubbio le certezze passivamente accettate per secoli, e un divulgatore appassionato delle nuove conquiste conoscitive, rese accessibili grazie alla scelta del volgare e alla chiarezza cristallina dei suoi saggi. Il conflitto drammatico con la Chiesa del tempo, la condanna e l’abiura di Galileo suscitano interrogativi ancor oggi attuali sul ruolo dello scienziato e sul rapporto tra scienza e potere.

1 Ritratto d’autore Galileo 2 scienziato-scrittore 111 111


1 Ritratto d’autore 1 Le prime fasi di una vita votata alla scienza VIDEOLEZIONE

La formazione Galileo Galilei nasce nel 1564, a Pisa, da una famiglia fiorentina che poi si trasferirà nuovamente a Firenze. Il padre Vincenzo è un commerciante, ma anche un valente musicista: fa infatti parte della Camerata de’ Bardi, a cui si riconduce il rinnovamento della musica che porta alla nascita del melodramma. Il giovane Galileo intraprende a Pisa gli studi universitari di medicina, tuttavia il suo interesse è tutto per la matematica e la fisica. Studia Aristotele, ma legge con maggiore passione Euclide e Archimede. Dotato di straordinarie capacità di osservazione, preferisce scrutare il mondo reale che apprendere le conoscenze solo dai libri: appena diciannovenne, osservando, nel duomo di Pisa, il movimento oscillatorio di una lampada, formula le leggi sull’isocronismo del pendolo, che poi utilizza in campo medico per misurare la frequenza del polso. Pochi anni dopo, applicando le leggi di Archimede, Galileo inventa una bilancia idrostatica, che descrive in una dissertazione apprezzata negli ambienti scientifici del tempo. L’insegnamento universitario La fama ben presto conseguita gli consente di accedere alla cattedra universitaria di matematica a Pisa, pur senza essere in possesso della laurea. Nel 1592, avendo ottenuto una cattedra di matematica, Galileo si trasferisce a Padova, nell’ambiente culturalmente stimolante della Repubblica veneziana, dove trascorre i «diciotto anni migliori» della sua vita, come avrebbe in seguito ricordato. I suoi interessi sono molteplici e non solo teorici. Frequenta gli artigiani dell’Arse-

CARTA INTERATTIVA DEI LUOGHI

Cronologia interattiva

1616 Un decreto del Sant’Uffizio vieta di sostenere il copernicanesimo.

1560

1600

1618 Evento astronomico delle tre comete.

1610

1620

1564

Nasce a Pisa.

1609

1592

Insegna matematica presso lo Studio di Padova.

Scoperte con il cannocchiale: mostra che il presupposto aristotelico di una differenza tra la materia terrestre e celeste è infondato. 1610

Pubblica il Sidereus Nuncius. Diviene matematico di corte del granduca di Toscana. 1613-1615

Lettere copernicane: Galileo teorizza che le scoperte scientifiche non possano essere contestate se in contrasto con la Bibbia.

112 Seicento 3 Galileo Galilei

1623

Pubblica Il Saggiatore: discorso metodologico contro il principio di autorità e per il nuovo metodo scientifico. 1615

Lettera a madama Cristina di Lorena.


nale veneziano, mette a frutto le competenze acquisite nel progettare fortificazioni e strumenti ingegneristici per la Repubblica di Venezia, ed esegue esperimenti che rendono più appassionanti le sue lezioni e rappresentano una novità didattica. In breve tempo guadagna numerosi seguaci e ammiratori entusiasti, ma si crea anche parecchi nemici, che lo denunciano al tribunale dell’Inquisizione di Padova, accusandolo per l’eccessiva libertà di pensiero e per la relazione con Marina Gamba da cui, senza essere sposato, Galileo avrà tre figli, Virginia, Livia e Vincenzio. Il governo veneziano, tuttavia, lo protegge, e la denuncia non ha seguito. Le scoperte astronomiche, il Sidereus nuncius, la notorietà Nel 1608 Galileo viene a sapere che in Olanda era stato costruito uno strumento ottico che consentiva di ingrandire gli oggetti lontani. Nel 1609 ne potenzia e perfeziona la struttura, ideando il suo famoso cannocchiale e lo dona al doge di Venezia, mettendone in luce le grandi potenzialità strategiche per una grande potenza marittima come era ancora Venezia. Dal canto suo Galileo impiega il cannocchiale non per fini pratici, ma per osservare il cielo, compiendo rivoluzionarie scoperte astronomiche: il cannocchiale rivelava (a cominciare dalla superficie lunare) un cielo nuovo, del tutto diverso da quello che si era prima immaginato sulla scorta di Aristotele, mettendo in crisi la visione cosmologica sostenuta dalla Chiesa. Lo scienziato espone le sue scoperte nel Sidereus nuncius (“Avviso astronomico”) del 1610. L’opera, scritta in latino, lo rende famoso non solo in Italia, ma in tutta Europa.

1822 Il Dialogo dei massimi sistemi è rimosso dall’Indice dei libri proibiti.

Disegno delle fasi lunari da una copia del Sidereus Nuncius (Firenze, Biblioteca Nazionale Centrale).

1630

1640

1638

Pubblica i Discorsi.

1650

1992

Galileo è ufficialmente riabilitato da papa Giovanni Paolo II.

1990

1642

Muore ad Arcetri.

1633

Condannato per eresia è costretto alla pubblica abiura. 1632

Pubblica il Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo tolemaico e copernicano.

Ritratto d’autore 1 113


2 La battaglia per un nuovo sapere Il difficile tentativo di dialogo con la Chiesa controriformistica La fama acquisita consente a Galileo di trasferirsi a Firenze, come matematico di corte del granduca di Toscana, a cui aveva dedicato il Sidereus Nuncius: un ruolo che non prevede l’obbligo di insegnare e gli consente di dedicarsi soltanto agli studi. Ma c’è un rovescio della medaglia: Firenze, rispetto alla repubblica di Venezia, è più strettamente controllata dall’Inquisizione. Probabilmente Galileo si illude di essere ormai abbastanza autorevole, vista la sua fama europea, da far rivedere alla Chiesa la presa di posizione netta contro il copernicanesimo: si accinge dunque con determinazione e fiducia al compito di conquistare l’adesione degli ambienti più influenti della Chiesa alle nuove teorie cosmologiche. Già nel 1611 si reca una prima volta a Roma, diventa membro dell’autorevole Accademia dei Lincei e stringe amicizia con i principali cultori di scienza: tra di essi vi è il cardinale fiorentino Maffeo Barberini, destinato a diventare papa nel 1623 con il nome di Urbano VIII. Le Lettere copernicane Tra il 1613 e il 1615 Galileo scrive quattro lettere a diversi destinatari, poi definite Lettere copernicane, in cui affronta il rapporto tra scienza e verità di fede, teorizzando la necessità di una autonomia tra i due ambiti (➜ T2 ). Le lettere, anche se diffuse solo in forma manoscritta, suscitano un dibattito tra gli intellettuali; se però Galileo sperava ne emergesse un orientamento favorevole al copernicanesimo, dovette rimanere ben presto deluso: nel febbraio 1616 il Sant’Uffizio promulgò il divieto ufficiale di sostenere il copernicanesimo e Galileo, che si trovava nuovamente a Roma, fu ammonito e diffidato dal seguire e pubblicizzare una teoria condannata dalla Chiesa come eretica. In seguito lo scienziato avrebbe adottato una strategia più prudente, evitando di pronunciarsi sul tema, particolarmente insidioso, del rapporto tra scienza e fede, sul quale le Lettere copernicane rimangono la testimonianza più significativa: proprio a esse, in tempi vicini a noi, si è riferito papa Giovanni Paolo II per accettare finalmente, dopo tanti secoli, le idee di Galileo. Il Saggiatore Galileo non rinuncia, però, a cercare conferme all’ipotesi copernicana e a difendere e diffondere le sue idee. Un’occasione gli è offerta nel 1618 da un evento astronomico: nel cielo appaiono tre comete, su cui si interrogano non soltanto gli astronomi, ma anche la gente comune, allarmata per quello che si riteneva essere un infausto presagio. Come esperto di astronomia, Galileo è chiamato in causa, e scrive sull’argomento una delle sue opere più importanti, Il Saggiatore, in cui espone e difende i princìpi del nuovo metodo scientifico. Il Saggiatore è pubblicato nel 1623, un anno che sembrava promettere una svolta positiva per Galileo, perché il cardinale Maffeo Barberini, uomo colto e aperto, che si era dichiarato suo ammiratore, era stato eletto pontefice con il nome di Urbano VIII, e a lui lo scienziato sceglie deliberatamente di dedicare l’opera. Nicolò Tornioli, Gli astronomi, sec. XVIII (Galleria Spada, Roma). Probabile raffigurazione di un confronto fra Tolomeo (a sinistra) e Copernico (al centro).

114 Seicento 3 Galileo Galilei


3 Il processo, la sconfitta, l’abiura Il Dialogo sopra i due massimi sistemi Ripresa, con l’elezione di Urbano VIII, la speranza di far accettare dalla Chiesa il sistema copernicano, Galileo inizia a elaborare il Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo tolemaico e copernicano (➜ T5 ), incentrato su un confronto tra la cosmologia copernicana e quella aristotelico-tolemaica, e i due connessi sistemi di pensiero. Per ottenere il consenso del Sant’Uffizio alla pubblicazione, Galileo dichiara nel proemio di avere assunto una posizione neutrale tra i due sistemi. Naturalmente, non è questa la verità: un’attenta lettura del libro svela, senza possibilità di dubbio, la posizione dello scienziato a favore delle nuove teorie cosmologiche. Il processo e l’abiura Galileo viene convocato a Roma per essere interrogato dall’Inquisizione; accusato di eresia, è minacciato di tortura e costretto alla pubblica abiura, che avviene il 22 giugno del 1633, in un convento di Roma (➜ D1 OL). online Il Dialogo è inserito nell’Indice dei libri proibiti. Vista la tarda età e la D1 Alceste Santini fama, non gli viene imposto il carcere, ma una sorta di detenzione L’ultimo interrogatorio di Galileo, la sentenza di condanna e l’abiura domiciliare, prima nella casa dell’arcivescovo di Siena, poi nella proIl caso Galilei pria dimora di Arcetri, vicino a Firenze. L’inesausta passione per la scienza: le opere dell’ultimo periodo Ancora una volta, tuttavia, Galileo mostra la determinazione del suo carattere e la propria passione per la scienza; riprende i suoi studi e i contatti con i numerosi discepoli e, di nascosto dagli inquisitori, lavora al suo ultimo libro, i Discorsi (il titolo completo è Discorsi e dimostrazioni matematiche intorno a due nuove scienze, attinenti alla meccanica e i movimenti locali), opera che, pubblicata fuori dall’Italia, a Leida, nel 1638, «costituisce, dal punto di vista strettamente scientifico, il suo vero capolavoro» (Geymonat) e, sebbene risulti più tecnica e meno divulgativa, non è meno copernicana delle precedenti.

PER APPROFONDIRE

Il “caso Galileo” non è concluso con la morte dello scienziato Nel 1642, Galileo muore, a 77 anni. Ma il “caso Galileo” non si esauriva con la sua scomparsa: il Dialogo dei massimi sistemi è rimosso dall’Indice dei libri proibiti soltanto nel 1822. Per la riabilitazione completa di Galileo si dovrà attendere il pontificato di Giovanni Paolo II, che la dichiarò ufficialmente nel 1992.

Il rapporto tra Galileo e la Chiesa: gli sviluppi recenti La condanna della tesi di Galileo sul rapporto tra scienza e fede Quando la Chiesa condanna Galileo (perché le sue scoperte scientifiche sono in contrasto con un’interpretazione letterale della Bibbia) e non accetta la tesi espressa nelle Lettere copernicane dell’autonomia della scienza rispetto alla fede, si pone di fatto in contrasto con l’evoluzione della scienza e, di conseguenza, con il mondo moderno. Una questione che rimase in sospeso per più di tre secoli, durante i quali tra mondo scientifico e mondo religioso sorsero altre occasioni di contrasto (in particolare, nell’Ottocento, nel caso delle teorie di Darwin). Nel secondo Novecento la Chiesa “apre” alle tesi di Galileo Tanto più significativa, perciò, appare la svolta che si verifica nella seconda metà del Novecento, quando la questione galileiana è stata nuovamente affrontata dalla Chiesa, con un deciso ripensamento. L’occasione è rappresentata dal concilio

Vaticano II (1962-1965), indetto da Giovanni XXIII e condotto a termine da Paolo VI, volto a colmare il distacco tra la Chiesa e il mondo moderno. In tale contesto appariva necessario riprendere in esame anche il rapporto tra Chiesa e scienza, riconoscendo la necessità di superare i contrasti risalenti al tempo di Galileo e – per la prima volta – di affermare l’autonomia della scienza. Nel 1979 Giovanni Paolo II propone finalmente un riesame del “caso Galileo”, volto ad accertare le ragioni e i torti, «da qualunque parte provengano» e a rimuovere le reciproche diffidenze, per giungere alla «concordia tra scienza e fede, tra Chiesa e mondo»; due anni dopo, nel 1981, allo scopo istituisce una commissione di studio. Le ragioni del riesame sono messe in luce in un discorso del 1983, in occasione del 350° anniversario dalla pubblicazione del Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo tolemaico e copernicano, in cui papa Wojtyla ribadisce come la scienza e

Ritratto d’autore 1 115


PER APPROFONDIRE

la tecnica, con il loro immenso potere utilizzabile per il bene dell’umanità, ma anche per la sua distruzione, non possano più essere ignorate da una Chiesa che si proponga di intrattenere un dialogo con il mondo attuale e si rivolge agli scienziati, esortandoli a usare in modo responsabile le loro capacità.

Il mondo scientifico, ormai divenuto uno dei principali settori dell’attività della società moderna, manifesta anch’esso, alla luce della riflessione e dell’esperienza, l’ampiezza e nel contempo la gravità delle sue responsabilità. La scienza moderna e la tecnica che ne deriva sono diventate un vero potere e sono l’oggetto di politiche o strategie socio-economiche, che non sono neutre per l’avvenire dell’uomo. Signore e Signori, voi che coltivate le scienze, fruite di un potere e di una responsabilità considerevoli, che possono divenire determinanti nell’orientare il mondo di domani. […] Voi sapete che è necessario uno sforzo morale, se si vuole che le risorse scientifiche e tecni-

che di cui dispone il mondo attuale, siano realmente poste al servizio dell’uomo. Cit. da A. Santini, Il caso Galilei. La lunga storia di un “errore”, SEI, Torino 1995

Un ammonimento che, pur con le dovute differenze, può ricordare il discorso attribuito dal drammaturgo tedesco Bertolt Brecht proprio al personaggio di Galileo (➜ VERSO IL NOVECENTO, PAG. 136). La riabilitazione ufficiale di Galileo Nel 1992 la commissione presenta le sue conclusioni, riabilitando completamente lo scienziato toscano. Lo stesso papa ammette gli errori dei teologi controriformisti, che avevano trasposto «indebitamente nel campo della dottrina della fede una questione di fatto appartenente alla ricerca scientifica», e arriva ad affermare che «paradossalmente, Galileo, sincero credente», si era mostrato «su questo punto più perspicace dei suoi avversari teologi». È significativo che il papa citi in proposito proprio un passo della Lettera a Benedetto Castelli, manifesto galileiano dell’autonomia della scienza: «Se bene la Scrittura non può errare, potrebbe nondimeno talvolta errare alcuno de’ suoi interpreti».

Sguardo sul cinema Il Galileo di Liliana Cavani Alla figura di Galileo è dedicato anche il film (del 1968) di Liliana Cavani, Galileo, in cui il grande scienziato è visto come un uomo desideroso di dialogare con la Chiesa ma sconfitto dalla rigidità delle istituzioni ecclesiastiche. La figura di Galileo, con i suoi difficili rapporti con la Chiesa, appariva nel 1968 particolarmente attuale: il concilio Vaticano II era da poco terminato e aveva messo in luce la spaccatura tra una parte del mondo ecclesiastico, arroccata sulle proprie posizioni, e un’altra aperta al rinnovamento. La regista non realizza un film puramente biografico, ma inserisce la figura di Galileo nel quadro vivo del dibattito culturale del tempo, facendolo incontrare con altri intellettuali suoi contemporanei: nel film hanno infatti una parte non marginale personaggi storici reali come Paolo Sarpi (che rappresenta la Chiesa più aperta), il filosofo Giordano Bruno, il grande artista Lorenzo Bernini, posti a confronto dialettico con lo scienziato. Inserito in questa rete di rapporti, il protagonista appare come una figura umana colta nella sua complessità, non riducibile a una sola interpretazione. Centrale è, in particolare, il confronto tra Galileo e Giordano Bruno: la coraggiosa sfida del filosofo all’Inquisizione, che lo porterà al martirio del rogo, in nome delle sue idee, e l’accettazione da parte di Galileo dell’autorità della Chiesa istituzionale per non mettere in discussione i capisaldi della fede.

La locandina del film Galileo di Liliana Cavani.

online

Per approfondire Il confronto tra Galileo e Giordano Bruno nel film Galileo di Liliana Cavani

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Una scena tratta da una rappresentazione della Vita di Galileo di Brecht andata in scena a Cleveland nel 2011.


4 La fiducia nella ragione e la fondazione del metodo scientifico Uno scienziato in lotta per il progresso Galileo si trovò a vivere in un’epoca molto complessa, in cui avvenne, anche grazie alla sua opera, una transizione tra un mondo, un modello di sapere secolare e nuove prospettive nell’indagine della natura e dell’universo, che non potevano non sgomentare, anche perché implicitamente mettevano in discussione l’autorità assoluta della Chiesa, che nell’età controriformistica era impegnata a ribadire con ogni mezzo il proprio ruolo nella società e nella cultura. Proprio con la Chiesa, che pure avrebbe voluto avere come alleata forte nella diffusione di un nuovo sapere scientifico, Galileo si trovò inevitabilmente in conflitto e alla fine ne fu sconfitto. Ma per la maggior parte della sua vita e della sua attività di scienziato, non mancò mai di sperare nella possibilità di conquistare, grazie alla fiducia nella ragione e nelle indiscutibili verità scientifiche che andava scoprendo, l’alleanza della Chiesa e l’adesione di essa alla causa del progresso. Il metodo sperimentale Di fatto quello che urtava e preoccupava le autorità culturali tradizionali erano le asserzioni di Galileo riguardo al metodo della ricerca, che scuotevano le fondamenta di tutta una tradizione secolare, fondata sul principio di autorità e sul dogmatismo. Per Galileo non esiste corretta indagine che abbia pretese di scientificità senza il ricorso all’esperienza sensibile: alla base per la nuova scienza vi è sempre l’osservazione diretta dei fenomeni naturali, che si traduce nella formulazione di ipotesi, che vanno poi verificate attraverso esperimenti finalizzati per arrivare alla definizione di leggi espresse in linguaggio matematico. Galileo credeva infatti che il “libro della natura” fosse scritto in caratteri matematici (➜ PER APPROFONDIRE Un’immagine chiave: il libro della natura, PAG. 127).

Il metodo scientifico sperimentale di Galileo individuazione di un fenomeno da studiare

osservazione diretta dei fenomeni così come li percepiscono i sensi

valutazione razionale dei dati emersi dall’osservazione e formulazione di un’ipotesi Il “nuovo” metodo si articola in: verifica sperimentale dell’ipotesi attraverso altre esperienze

rielaborazione dei dati raccolti sulla base di modelli matematici

formulazione di una teoria che spiega il fenomeno e ha validità generale

Ritratto d’autore 1 117


2 Galileo scienziato-scrittore

Uno scienziato accolto nel canone letterario Galileo, fin dal periodo della sua formazione, ha interessi eclettici: non dedica il suo tempo soltanto agli studi scientifici, ma coltiva anche la musica, il disegno e la letteratura; legge e annota i classici greci e latini, e gli autori italiani, fra i quali predilige Dante e soprattutto Ariosto. Grazie a tale tirocinio, Galileo acquisisce le qualità letterarie (e le competenze retoriche) che gli permetteranno di interessare un vasto pubblico, divulgando in modo accattivante, ma anche con estrema chiarezza, le sue scoperte scientifiche e la sua innovativa visione del sapere. Proprio per la straordinaria qualità della sua scrittura, come ricorda Maria Luisa Altieri Biagi, Galileo è uno dei pochi scienziati che siano stati accolti nel canone dei maggiori autori della letteratura italiana (➜ INTERPRETAZIONI CRITICHE Galileo, grande scrittore, PAG. 128). Non è un caso che la sua prosa abbia affascinato Giacomo Leopardi il quale, curando un’antologia della prosa italiana per l’editore milanese Stella, include ben 17 testi di Galileo e che Italo Calvino, a sua volta scrittore appassionato di scienza, abbia ammirato e considerato un modello il modo di scrivere di Galileo, che aveva definito il più grande scrittore italiano di ogni secolo.

1 Il Sidereus Nuncius La prima opera pubblicata da Galileo (1610), con cui si presenta autorevolmente alla comunità scientifica, è il Sidereus Nuncius, scritto in latino: una sorta di puntuale rendiconto in cui lo scienziato riferisce, nell’ordine sequenziale in cui le ha compiute, le importanti osservazioni astronomiche dovute all’impiego del cannocchiale. Dopo aver illustrato la costruzione del prezioso strumento tecnico, innanzitutto descrive la conformazione irregolare della superficie della Luna, in cui si rivelano monti e avvallamenti, non diversi da quelli terrestri, quindi illustra la scoperta che la Via Lattea non è una nebulosa, ma è costituita da un numero incredibile di stelle, e infine l’identificazione dei quattro satelliti di Giove, da lui ribattezzati “medicei” in onore di Cosimo II de’ Medici.

Il primo pittore che offre una rappresentazione del cielo riconducibile alla descrizione del Sidereus Nuncius è il tedesco Adam Elsheimer (15781610). Nella sua Fuga in Egitto, dipinta a Roma nel 1609 (Alte Pinakothek, Monaco), il pittore, che aveva probabilmente avuto notizia delle scoperte di Galileo nell’ambiente scientifico romano e aveva forse egli stesso effettuato osservazioni astronomiche con il cannocchiale, dipinge la Via Lattea come un agglomerato di stelle e rappresenta con precisione le macchie lunari. Adam Elsheimer, Fuga in Egitto, 1609, (Monaco, Alte Pinakothek).

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Galileo Galilei

T1

Non esiste differenza tra terra e cielo

LEGGERE LE EMOZIONI

Sidereus Nuncius G. Galilei, Sidereus Nuncius, a c. di A. Battistini, Marsilio, Venezia 1993

In questo passo Galileo esprime la sua emozione per lo spettacolo straordinario della volta celeste, che egli ha potuto contemplare per primo ma che può rivelarsi agli occhi di tutti grazie alla straordinaria invenzione del telescopio.

Grandi invero sono le cose che in questo breve trattato io propongo alla visione e alla contemplazione degli studiosi della natura. Grandi, dico, sia per l’eccellenza della materia per sé stessa, sia per la novità loro non mai udita in tutti i tempi trascorsi, sia anche per lo strumento1, in virtù del quale quelle cose medesime si 5 sono rese manifeste al senso nostro. Gran cosa è certo l’aggiungere, sopra la numerosa moltitudine delle Stelle fisse che fino ai nostri giorni si son potute scorgere con la naturale facoltà visiva, altre innumerevoli Stelle non mai scorte prima d’ora, ed esporle apertamente alla vista in numero più che dieci volte maggiore di quelle antiche e già note. 10 Bellissima cosa e oltremodo a vedersi attraente è il poter rimirare il corpo lunare, da noi remoto per quasi sessanta semidiametri2 terrestri, così da vicino, come se distasse di due soltanto di dette misure; sicché il suo diametro apparisca quasi trenta volte maggiore, la superficie quasi novecento, il volume poi approssimativamente ventisettemila volte più grande di quanto sia veduto ad occhio nudo: e quindi, con 15 la certezza che è data dall’esperienza sensibile3, si possa apprendere non essere affatto la Luna rivestita di superficie liscia e levigata, ma scabra e ineguale, e, allo stesso modo della faccia della Terra, presentarsi ricoperta in ogni parte di grandi prominenze, di profonde valli e di anfratti4. Di più, l’aver rimosso le controversie riguardo alla Galassia, o Via Lattea, con l’aver 20 manifestato al senso, oltre che all’intelletto, l’essenza sua non è da ritenersi, mi pare, cosa di poco conto; come anche il mostrare direttamente essere la sostanza di quelle Stelle, che fin qui gli Astronomi hanno chiamato Nebulose, di gran lunga diversa da quel che fu creduto finora, sarà cosa molto bella e interessante. Ma quello che supera di gran lunga ogni immaginazione, e che principalmente ci 25 ha spinto a farne avvertiti tutti gli Astronomi e Filosofi5, è l’aver noi appunto scoperto quattro Stelle erranti6, da nessun altro prima di noi conosciute né osservate, le quali, a somiglianza di Venere e di Mercurio intorno al Sole, hanno lor propri periodi7 intorno a una certa Stella principale8 del numero di quelle conosciute, e ora la precedono, or la seguono, senza mai allontanarsi da essa fuor dei loro limiti 30 determinati. Le quali cose furono tutte da me ritrovate e osservate or non è molto, mediante un occhiale che io escogitai, illuminato prima dalla divina grazia. […]

1 lo strumento: il cannocchiale. 2 semidiametri: raggi. 3 la certezza… esperienza sensibile: la certezza data dall’esperienza dei sensi (la vista, potenziata dal cannocchiale).

4 anfratti: profondi affossamenti di un terreno roccioso. 5 farne...Filosofi: farle conoscere a tutti gli astronomi e i filosofi della natura.

6 Stelle erranti: astri in movimento, ovvero i satelliti di Giove.

7 lor propri periodi: le loro specifiche orbite.

8 Stella principale: Giove.

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Analisi del testo Galileo, grande comunicatore: il lessico “della meraviglia” Il Sidereus Nuncius è scritto da Galileo in latino (ne abbiamo presentato un passo in traduzione italiana). In seguito, nelle successive opere, lo scienziato utilizzerà il toscano, con una scelta radicalmente innovativa, dettata dall’intento di comunicare le novità scientifiche a un pubblico più largo. Tuttavia, anche dal trattato latino si possono già arguire le non comuni capacità comunicative di Galileo. Prima di tutto, lo scienziato sottolinea l’importanza delle sue osservazioni, sia per l’oggetto della ricerca (l’universo), sia per le straordinarie novità scoperte, sia per l’utilizzo di uno strumento (il cannocchiale) capace di moltiplicare enormemente la potenza dello sguardo. A tal fine, Galileo impiega uno stile che da una parte richiama quello barocco, in particolare per il lessico della “meraviglia” e le espressioni volte a sottolineare l’eccezionalità dello spettacolo offerto dal cannocchiale («la novità loro non mai udita in tutti i tempi trascorsi», «innumerevoli Stelle non mai scorte prima d’ora») evidenziate da figure retoriche come l’anafora dell’aggettivo grande a introduzione delle tre frasi iniziali.

Lo stile dell’esattezza scientifica Tuttavia, per altri aspetti il linguaggio di Galileo è molto distante dallo stile barocco, perché caratterizzato da una rigorosa argomentazione e dalla precisione della descrizione degli oggetti e dei fenomeni osservati. Lo scienziato indica con chiarezza e precisione, e con l’ausilio di dati numerici, quanto la vista potenziata dal cannocchiale superi quella a occhio nudo, e fa comprendere al lettore l’importanza decisiva dello strumento per porre fine a controversie nate dall’imperfetta testimonianza dei sensi, come quella sulla natura della Via Lattea, e quella sulla materia dei corpi celesti. Il cannocchiale aveva infatti rivelato come tali corpi fossero simili alla terra, mettendo definitivamente in crisi uno dei presupposti fondamentali della teoria aristotelica: la radicale diversità della materia terrestre da quella celeste, erroneamente creduta eterna e incorruttibile, diversità considerata un presupposto certo e incontrovertibile della concezione dell’universo.

Il riferimento alla Grazia divina Seppur consapevole della portata rivoluzionaria delle proprie scoperte, Galileo mantiene un atteggiamento prudente: cerca di conquistarsi il favore della Chiesa attribuendo la scoperta a un’illuminazione della Grazia divina ed evita di sottolineare in modo esplicito come la scoperta che la Luna è di una materia affine a quella terrestre demolisca uno dei pilastri della cosmologia aristotelico-tolemaica, confermando quindi indirettamente la teoria copernicana.

Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

COMPRENSIONE 1. Perché le osservazioni effettuate da Galileo con il cannocchiale mutarono la percezione dell’universo dei suoi contemporanei? LESSICO 2. Individua i termini relativi al lessico della meraviglia e le espressioni che, invece, mostrano la precisione scientifica dello scritto di Galileo. Quale rapporto si può istituire tra i due campi semantici?

Interpretare

LEGGERE LE EMOZIONI

SCRITTURA ARGOMENTATIVA 3. Spiega e commenta in un breve testo argomentativo (max 20 righe) questa affermazione di Galilei, facendo l’opportuna contestualizzazione: «Le quali cose furono tutte da me ritrovate e osservate or non è molto, mediante un occhiale che io escogitai, illuminato prima dalla divina grazia». SCRITTURA 4. Nel brano ben si coglie l’entusiasmo e lo stupore di Galileo nell’aver scoperto, grazie all’uso del suo canocchiale, nuovi mondi. Pensi che tali emozioni siano condivisibili? Considerando anche altri campi, quali scoperte degli ultimi anni secondo te possono aver suscitato lo stesso entusiasmo e lo stesso stupore? Ti è mai capitato di vivere un’esperienza simile? Se sì, per che cosa o in quale occasione? Come ti sei sentito?

120 Seicento 3 Galileo Galilei


2 Le Lettere copernicane Un manifesto per l’autonomia della scienza Tutte le opere di Galileo, che dopo il Sidereus Nuncius (➜ T1 ) adotta il volgare per rivolgersi a un più largo pubblico, sono animate da un intento comunicativo e persuasivo. Tale carattere è già evidente nelle quattro Lettere copernicane (scritte nel periodo successivo al trasferimento a Firenze, tra il 1613 e il 1615), che possono essere considerate un manifesto per l’autonomia della scienza. Sono indirizzate a diversi personaggi, ma la vera destinataria è la Chiesa, che Galileo avrebbe voluto indurre a una maggiore apertura alle novità in campo scientifico. Non è perciò un caso che tre lettere siano dirette a religiosi: la prima e la più importante, del 1613, indirizzata a padre Benedetto Castelli, discepolo e amico di Galileo, matematico all’università di Pisa, e le due successive a monsignor Pietro Dini, un ecclesiastico influente nella curia romana. L’ultima, del 1615, è diretta alla granduchessa di Toscana Cristina di Lorena e riprende le tesi già esposte nelle precedenti, ma con un carattere più ufficiale e uno stile più elaborato retoricamente. Nel periodo in cui scrive le Lettere copernicane Galileo è ormai pienamente convinto della verità dell’ipotesi copernicana. Uomo di fede sincera, era desideroso di convincerne le alte sfere della Chiesa, ma non ignorava certo le difficoltà che si frapponevano al suo progetto. Sceglie così di affidare la sua opinione su un punto nodale e molto delicato, cioè il rapporto tra verità scientifica e Sacre scritture, alla forma epistolare. Quest’ultima, dato il suo carattere privato e informale, avrebbe forse potuto eludere la censura. D’altra parte Galileo sperava che i suoi tre interlocutori, una volta convinti dalle sue argomentazioni, avrebbero divulgato tra gli uomini di cultura le sue osservazioni. Così fu: la circolazione delle lettere, agevolata dalla scelta della lingua volgare, fu molto estesa. Ma quanto all’esito, le speranze di Galileo andarono ben presto deluse. Il rapporto tra scienza e Sacre Scritture Nella Lettera a Benedetto Castelli, la prima e più importante delle Lettere copernicane, Galileo difende la teoria eliocentrica dall’accusa di essere in contrasto con la Bibbia, e più precisamente con un passo del Libro di Giosuè (10, 12) secondo cui Dio, per prolungare la durata del giorno e consentire a Giosuè di battere i suoi nemici, avrebbe fermato il sole. Secondo il testo biblico dunque, il Sole sarebbe stato in movimento, come da sempre si credeva secondo il sistema tolemaico geocentrico. Come scienziato e come credente, Galileo affronta su un piano più generale il rapporto tra Sacre Scritture e ricerca scientifica, respingendo la tesi che la Bibbia possa essere utilizzata come autorità indiscussa anche quando si affrontano temi scientifici. (➜ T2 ).

Collabora all’analisi

T2

Galileo Galilei

Il rapporto tra scienza e Sacre Scritture Lettera a Benedetto Castelli

G. Galilei, Lettera a Benedetto Castelli, in Opere, a c. di F. Flora, Ricciardi, MilanoNapoli 1953

La Lettera a Benedetto Castelli, del 1613, prima delle Lettere copernicane, è incentrata sul rapporto tra verità scientifica e verità rivelata nella Bibbia. Galileo si rivolge a Benedetto Castelli, un religioso suo amico, che durante una discussione tenuta alla corte del granduca di Toscana aveva difeso la teoria copernicana contro un interlocutore che la condannava, perché in contrasto con la Bibbia. Galileo sostiene con pacate argomentazioni l’autonomia delle due sfere: le rivelazioni delle verità di fede nelle Sacre Scritture rispetto alla conoscenza dei fenomeni della natura che l’uomo può studiare e acquisire con i metodi della scienza. Galileo scienziato-scrittore 2 121


[...] I particolari che ella disse, referitimi dal signor Arrighetti1, m’hanno dato occasione di tornar a considerare alcune cose in generale circa ’l portar la Scrittura Sacra in dispute di conclusioni naturali2, ed alcun’altre in particolare sopra ’l luogo di Giosuè, propostoli, in contradizione della mobilità della Terra e stabilità del Sole3, 5 dalla Gran Duchessa Madre4, con qualche replica della Serenissima Arciduchessa5. Quanto alla prima domanda generica di Madama Serenissima, parmi che prudentissimamente fusse proposto6 da quella e conceduto e stabilito dalla Paternità Vostra7, non poter mai la Scrittura Sacra mentire o errare, ma essere i suoi decreti8 d’assoluta ed inviolabile verità. Solo avrei aggiunto, che, se bene la Scrittura non può errare, 10 potrebbe nondimeno talvolta errare alcuno de’ suoi interpreti ed espositori9, in varii modi: tra i quali uno sarebbe gravissimo e frequentissimo, quando volessero fermarsi sempre nel puro significato10 delle parole, perché così vi apparirebbono11 non solo diverse contradizioni, ma gravi eresie e bestemmie ancora; poi che sarebbe necessario dare12 a Iddio e piedi e mani e occhi, e non meno affetti corporali e 15 umani13, come d’ira, di pentimento, d’odio, e anco talvolta l’obblivione14 delle cose passate e l’ignoranza delle future. Onde, sì come nella Scrittura si trovano molte proposizioni le quali, quanto al nudo senso15 delle parole, hanno aspetto16 diverso dal vero, ma son poste in cotal guisa17 per accomodarsi all’incapacità del vulgo18, così per quei pochi che meritano d’essere separati dalla plebe è necessario che i 20 saggi espositori produchino i veri sensi19, e n’additino le ragioni particolari per che siano sotto cotali parole stati profferiti20. Stante, dunque, che la Scrittura in molti luoghi è non solamente capace, ma necessariamente bisognosa d’esposizioni diverse dall’apparente significato delle parole21, mi par che nelle dispute naturali22 ella dovrebbe essere riserbata nell’ultimo luogo; 25 perché, procedendo di pari dal Verbo divino la Scrittura Sacra e la natura23, quella come dettatura dello Spirito Santo, e questa come osservantissima24 esecutrice de gli ordini di Dio; ed essendo, di più, convenuto nelle Scritture, per accomodarsi all’intendimento dell’universale, dir molte cose diverse, in aspetto e quanto al significato delle parole, dal vero assoluto25; ma, all’incontro26, essendo la natura inesorabile27 e 30 immutabile e nulla curante28 che le sue recondite29 ragioni e modi d’operare sieno

1 Arrighetti: Niccolò Arrighetti, fiorentino, riferì a Galileo la discussione sulla teoria copernicana a cui Castelli aveva partecipato, tenuta alla corte del granduca di Toscana. 2 in dispute… naturali: in discussioni su questioni riguardanti la natura. 3 sopra… Sole: sul passo di Giosuè, citato come prova contraria al movimento della Terra e alla fissità del Sole. Nel passo biblico del libro di Giosuè, 10, 12-13, Giosuè chiede al Signore di far fermare il Sole finché non si fosse vendicato dei suoi nemici. Secondo il testo biblico, la richiesta fu esaudita: «E il sole si fermò in mezzo al cielo». 4 Gran Duchessa Madre: è la madre del granduca Cosimo II, la granduchessa Cristina di Lorena; poi Madama Serenissima. 5 Serenissima Arciduchessa: Maria Maddalena d’Austria. 6 prudentissimamente fusse proposto: fosse stato affermato saggiamente. 7 dalla Paternità Vostra: da don Benedet-

122 Seicento 3 Galileo Galilei

to Castelli, a cui Galileo si rivolge.

8 i suoi decreti: le sue affermazioni. 9 interpreti ed espositori: interpreti e commentatori. Galileo afferma che la Bibbia non può sbagliare, ma possono sbagliare i suoi interpreti. 10 nel puro significato: al significato letterale. 11 apparirebbono: apparirebbero. 12 dare: attribuire. 13 non meno… e umani: anche passioni legate alla natura corporea degli uomini. 14 anco… l’obblivione: anche talvolta la dimenticanza. 15 al nudo senso: al senso letterale. 16 aspetto: apparenza. 17 in cotal guisa: in tal modo. 18 per accomodarsi… vulgo: per adattarsi alla ristretta capacità di comprensione delle persone incolte. 19 produchino i veri sensi: spieghino il senso reale.

20 n’additino… profferiti: indichino le particolari ragioni per cui il senso vero sia stato celato sotto un’espressione allegorica. 21 è non solamente… parole: non solo può, ma necessariamente deve essere spiegata in modo diverso dal significato letterale. 22 naturali: sulla natura. 23 procedendo… natura: poiché la Bibbia e la natura derivano entrambe da Dio. 24 osservantissima: precisissima. 25 essendo… vero assoluto: poiché nelle Scritture, per adattarsi alla capacità di intendere della gente comune, è risultato necessario dire cose diverse dalla verità assoluta, sia nelle immagini, sia nelle parole. 26 all’incontro: al contrario. 27 inesorabile: rigidamente vincolata da leggi. 28 nulla curante: indifferente. 29 recondite: nascoste.


o non sieno esposti alla capacità de gli uomini30, per lo che ella non trasgredisce mai i termini delle leggi imposteli; pare31 che quello de gli effetti naturali32 che o la sensata esperienza33 ci pone innanzi a gli occhi o le necessarie dimostrazioni ci concludono, non debba in conto alcuno esser revocato in dubbio34 per luoghi 35 della Scrittura ch’avesser nelle parole diverso sembiante35, poi che non ogni detto della scrittura è legato a obblighi così severi com’ogni effetto di natura. Anzi, se per questo solo rispetto36, d’accomodarsi alla capacità de’ popoli rozzi e indisciplinati37, non s’è astenuta la Scrittura d’adombrare38 de’ suoi principalissimi dogmi, attribuendo sino all’istesso Dio condizioni lontanissime e contrarie alla sua essenza, 40 chi vorrà asseverantemente39 sostenere che ella, posto da banda cotal rispetto40, nel parlare anco incidentemente41 di Terra o di Sole o d’altra creatura, abbia eletto42 di contenersi con tutto rigore dentro a i limitati e ristretti significati delle parole? […] Stante questo, ed essendo di più manifesto che due verità non posson mai contrariarsi43, è ofizio44 de’ saggi espositori affaticarsi per trovare i veri sensi de’ luoghi 45 sacri, concordanti con quelle conclusioni naturali delle quali prima il senso manifesto o le dimostrazioni necessarie ci avesser resi certi e sicuri45. […]

30 esposti… uomini: comprensibili agli uomini. 31 pare: appare evidente. Introduce la conclusione del ragionamento. 32 quello… naturali: quei fenomeni naturali. 33 sensata esperienza: esperienza dei sensi. 34 non debba… in dubbio: non debba in alcun conto essere messo in dubbio. 35 sembiante: significato apparente.

36 rispetto: motivo. 37 d’accomodarsi… indisciplinati: di adattarsi alla capacità di popoli rozzi e incolti. 38 d’adombrare: di esporre in modo oscuro e allusivo. 39 asseverantemente: con convinzione. 40 posto… rispetto: trascurata questa accortezza. 41 anco incidentemente: anche di passaggio. 42 eletto: scelto.

43 contrariarsi: essere in contraddizione. 44 ofizio: dovere. 45 affaticarsi… sicuri: impegnarsi per comprendere il vero senso dei passi della Scrittura, (in modo tale) che possa concordare con quelle verità della scienza di cui in precedenza l’evidenza dei sensi o la necessità delle dimostrazioni ci avessero resi del tutto sicuri.

Collabora all’analisi Comprendere e Analizzare

La tesi fondamentale della lettera è che avevano torto i teologi i quali, come prova contro la teoria copernicana, citavano il passo biblico di Giosuè in cui Dio fa fermare il Sole. Secondo Galileo, infatti, la Bibbia non ha alcun valore nei dibattiti di natura scientifica, poiché presenta alcune verità in forma semplificata e allegorica per adattarsi alla limitata cultura dell’antico popolo ebraico: ad esempio, attribuisce a Dio forma corporea, passioni umane («d’ira, di pentimento, d’odio»), e persino, in contraddizione con l’onniscienza divina, dimenticanza delle cose passate e ignoranza di quelle future. 1. Indica le eresie che secondo Galileo scaturirebbero da una lettura letterale della Bibbia. A Dio si attribuirebbero, infatti,.... Non è quindi ragionevole leggere la Sacra Scrittura come se fosse un trattato scientifico. Alla Bibbia Galileo oppone la natura, che, derivando anch’essa da Dio, opera secondo leggi certe e rigorose. Perciò, egli argomenta, se le verità della scienza possono servire a interpretare correttamente la Bibbia, non può avvenire l’inverso. D’altra parte, lo scopo delle Scritture non è fornire un’informazione scientifica, ma un insegnamento morale e religioso: come Galileo affermerà nella Lettera alla granduchessa Cristina di Lorena, la Bibbia insegna «come si vadia [vada] al cielo, e non come vadia il cielo». La lettera è un esempio di chiara ed efficace argomentazione. Come prevede la retorica classica, si apre con un breve sommario degli argomenti poi successivamente trattati, detto divisio (rr. 1-5),

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che delinea una divisione in due parti: una prima più generale, dedicata al rapporto tra Sacre Scritture e scienza, e una seconda dedicata in modo più specifico al passo biblico di Giosuè in cui Dio ordina al sole di fermarsi. 2. Sintetizza in una frase i successivi punti dell’argomentazione: «Quanto alla prima domanda… profferiti» (rr. 6-21) «Stante, dunque, che la Scrittura…. natura» (rr. 22-36) «Anzi, se per questo solo rispetto… parole?» (rr. 36-42) «Stante questo… sicuri» (rr. 43-46) Lo stile è caratterizzato dalla chiarezza e dalla consequenzialità. Predomina l’ipotassi e lo sviluppo dell’argomentazione è rigorosamente scandito da nessi logici come nondimeno, poi che, Onde, dunque. Vengono, inoltre, spesso adottate forme verbali di significato impersonale (non poter, è necessario, non debba, è offizio) che evidenziano il carattere di rigorosa necessità del ragionamento. 3. Sottolinea i principali nessi logici, individuando i tipi di frase che ne dipendono e i rapporti che stabiliscono tra i concetti collegati. Alla chiarezza argomentativa contribuisce un’altra caratteristica dello stile di Galileo (messa in luce dalla

Lessico tema/rema In linguistica con rema si intende la parte di un enunciato o di una serie di enunciati che aggiunge informazioni a ciò di cui si parla e che è già noto (tema).

studiosa Maria Luisa Altieri Biagi) (➜ INTERPRETAZIONI CRITICHE Galileo, grande scrittore, PAG. 128): l’abitudine a suddividere i paragrafi in due sezioni complementari, rispettivamente dedicate al tema e al rema . La prima, introdotta nel passo proposto da espressioni come stante (rr. 22, 43), o «per questo solo rispetto» (r. 37), riassume quanto è già noto al lettore (il tema), la seconda presenta gli elementi nuovi dell’argomentazione (il rema). Ad esempio:

«Anzi, se per questo solo rispetto, d’accomodarsi alla capacità de’ popoli rozzi e indisciplinati, non s’è astenuta la Scrittura d’adombrare de’ suoi principalissimi dogmi, attribuendo sino all’istesso Dio condizioni lontanissime e contrarie alla sua essenza, (tema) chi vorrà asseverantemente sostenere che ella, posto da banda cotal rispetto, nel parlare anco incidentemente di Terra o di Sole o d’altra creatura, abbia eletto di contenersi con tutto rigore dentro a i limitati e ristretti significati delle parole?» (rema) 4. Individua nella lettera altri esempi di questo tipo di struttura argomentativa. Per quanto riguarda il lessico, nella lettera ricorrono termini che, riferiti alla natura, sottolineano come essa sia sottoposta a leggi inderogabili e precise (inesorabile, immutabile, «non trasgredisce mai»). La ricorrenza di tale campo semantico evidenzia la distanza dalla visione medievale, per la quale il miracoloso si intreccia di continuo con la realtà quotidiana; si distanzia però anche dalla concezione della magia rinascimentale nella quale il mago, con le sue capacità straordinarie, può sovvertire il normale andamento della natura. L’immagine di una natura «indifferente», caratterizzata da leggi immutabili, sarà alla base della concezione moderna ed eserciterà suggestioni profonde sul modo di pensare il mondo: basti considerare un autore come Leopardi. 5. Riporta i passi in cui emerge l’immagine di una natura «indifferente» e costante nelle sue leggi.

Interpretare

6. Galileo propone alcuni princìpi per l’interpretazione del testo biblico: quali aspetti della Bibbia mette in luce? Quali conseguenze ne fa derivare? 7. Sintetizza le differenze che, secondo Galileo, sussistono tra l’interpretazione della Bibbia e quella dei fenomeni naturali. 8. Nei casi in cui emerga una contraddizione tra le scoperte scientifiche e la Bibbia, secondo Galileo, chi può meglio capire quale sia la verità: gli scienziati o i teologi? Per quali ragioni? Perché questo risultava difficilmente accettabile per la Chiesa del tempo? 9. Indica altri casi a te noti, oltre al copernicanesimo, in cui le scoperte scientifiche si siano rivelate in contrasto con un’interpretazione letterale del testo biblico, suscitando riserve e polemiche.

124 Seicento 3 Galileo Galilei


3 Il Saggiatore Un fondamentale “discorso sul metodo” Il coraggioso tentativo delle Lettere copernicane fallisce: nel 1616 la Chiesa promulga un decreto che vieta di sostenere la teoria copernicana; di conseguenza, per un certo tempo, Galileo rinuncia alla difesa di questa posizione, ma nel frattempo attende ad altre opere importanti, come Il Saggiatore. Il Saggiatore, scritto tra il 1621 e il 1622, è pubblicato nel 1623, nell’anno in cui viene eletto papa Urbano VIII (a cui l’opera è dedicata), che aveva mostrato di apprezzare l’opera di Galileo e che rappresentava l’ala più aperta della Chiesa. L’elezione del nuovo pontefice creò dunque negli intellettuali e negli uomini di scienza un clima di fiduciosa speranza. Il Saggiatore trae spunto da una polemica di Galileo con l’astronomo gesuita Orazio Grassi. Nel 1618 erano apparse tre comete: sia Grassi, sia Galileo cercarono, con due brevi scritti, di interpretare il fenomeno. Grassi, con lo pseudonimo di Lotario Sarsi, ribadisce le sue idee nel testo Libra astronomica et philosophica, nel quale, riflettendo sulla natura delle comete, attacca la visione astronomica di Galileo. Quest’ultimo risponde con Il Saggiatore, provocatorio già nel titolo: alla Libra (che significa “bilancia”) di Grassi, di cui vengono citati ampi passi, Galileo contrappone il “saggiatore”, un bilancino di precisione utilizzato dagli orefici per “saggiare”, cioè pesare l’oro e altri metalli preziosi: nel trattato diviene simbolo del metodo scientifico, preciso e rigoroso. Nell’opera – e si tratta di una prospettiva del tutto innovativa – Galileo prospetta un ordine naturale fondato su regole matematiche e geometriche. Secondo lo scienziato, matematica e geometria rendono finalmente possibile leggere il “libro dell’universo” senza rischiare di perdersi in un oscuro labirinto; nella sua ricerca, lo scienziato è guidato non più dal rispetto dell’auctoritas ma dall’indagine sperimentale, che sola può fornirgli misure e dati quantitativi (➜ T3 ). Il fatto che sulle comete Galileo sostenga una tesi erronea (riteneva infatti si trattasse di un’illusione ottica), nulla toglie al valore fondamentale dell’opera, esemplare per chiarezza e costruzione logico-argomentativa, e in più, proprio perché intende rivolgersi a un pubblico vasto ed eterogeneo, scritta in volgare: una scelta rivoluzionaria in una trattazione scientifico-filosofica, usualmente in latino. Non solo: come avviene anche in altre opere, Galileo ricorre spesso all’uso di aneddoti e di brevi narrazioni per suscitare l’interesse del lettore: giustamente celebre è nel Saggiatore l’apologo sull’origine dei suoni (➜ T4 OL), impiegato per affermare esemplarmente il ruolo della ricerca sperimentale, ma al contempo il carattere sempre in divenire della conoscenza.

La critica del metodo tradizionale le Sacre Scritture non vanno intese alla lettera quando toccano fenomeni naturali o questioni Galileo, contro il metodo tradizionale, sostiene che

le affermazioni di Aristotele non sono da prendersi in considerazione se vanno contro l’esperienza

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Galileo Galilei

L’universo è un libro scritto in caratteri matematici

T3

Il Saggiatore Nel passo, tratto dal Saggiatore (1623), Galileo contrappone agli scritti di Aristotele un ben diverso libro, l’universo, che può essere letto direttamente e senza intermediari da chi ne possieda il codice, fondato sulla matematica e sulla geometria.

G. Galilei, Il Saggiatore, a c. di L. Sosio, Feltrinelli, Milano 1992

AUDIOLETTURA

Parmi, oltre a ciò, di scorgere nel Sarsi1 ferma credenza2, che nel filosofare3 sia necessario appoggiarsi all’opinioni di qualche celebre autore, sì che la mente nostra, quando non si maritasse col discorso d’un altro4, ne dovesse in tutto rimanere sterile ed infeconda; e forse stima che la filosofia sia un libro e una fantasia d’un uomo, 5 come l’Iliade e l’Orlando furioso, libri ne’ quali la meno importante cosa è che quello che vi è scritto sia vero. Signor Sarsi, la cosa non istà così. La filosofia è scritta in questo grandissimo libro che continuamente ci sta aperto innanzi a gli occhi (io dico l’universo), ma non si può intendere se prima non s’impara a intender la lingua, e conoscer i caratteri, ne’ quali è scritto. Egli è scritto in lingua matematica, 10 e i caratteri5 son triangoli, cerchi, ed altre figure geometriche, senza i quali mezi6 è impossibile a intenderne umanamente parola; senza questi è un aggirarsi vanamente per un oscuro laberinto.

1 Sarsi: è lo pseudonimo adottato dal gesuita Orazio Grassi, che aveva polemizzato contro Galileo con la Libra astronomica ac philosophica, a cui Galileo risponde con Il Saggiatore.

2 ferma credenza: salda certezza. 3 filosofare: ricercare la verità. 4 non… altro: non si appoggiasse al ragionamento di un altro (metafora).

5 i caratteri: gli elementi del linguaggio della natura. 6 mezi: mezzi. Matematica e geometria sono gli strumenti per comprendere le leggi della natura.

Analisi del testo Un nuovo modo di fare e pensare la scienza Lo scritto può essere considerato come un manifesto del nuovo metodo scientifico di Galileo, di un nuovo modo di indagare la natura e di pensare la scienza, in aperta polemica con quello della tradizione aristotelica. Galileo combatte l’autoritarismo degli aristotelici che, anziché applicarsi allo studio del «libro» dell’universo «che continuamente ci sta aperto innanzi agli occhi», si appoggiano al sapere precostituito dei libri del loro filosofo di riferimento; si oppone al loro dogmatismo in nome di una ricerca continua basata sull’applicazione della matematica alla fisica. Ed è questo che forse rappresenta, ancor più delle sue scoperte astronomiche, il contributo fondamentale dato allo sviluppo del pensiero scientifico moderno.

Lo stile Assai significativo è inoltre, come si può notare anche da questo breve passo, lo stile incisivo impiegato da Galileo per sostenere le sue opinioni, che certo i lettori del tempo potevano meglio apprezzare, perché contrapposto ai paludati passi in latino di Grassi/Sarsi, inseriti nel testo del Saggiatore e discussi puntualmente da Galileo. Lo scienziato espone le proprie idee in modo chiaro e semplice, ma utilizza anche suggestive metafore, come quella dell’«oscuro laberinto» in cui si è costretti ad aggirarsi se non si conosce il codice matematico, l’unico con cui poter interpretare il libro dell’universo.

126 Seicento 3 Galileo Galilei


Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

COMPRENSIONE 1. Che cosa sostiene Galileo a proposito della matematica e della geometria? 2. Che cosa rappresenta, nel testo, l’immagine del labirinto? 3. Qual è la differenza evidenziata da Galileo tra i libri di Omero e quelli di Aristotele? STILE 4 Qual è la metafora centrale del brano? Che cosa vuole sottolineare l’autore con l’uso di questa metafora?

Interpretare

SCRITTURA ARGOMENTATIVA 5. Per quali aspetti il testo inaugura una mentalità scientifica moderna? Motiva la tua risposta.

Studiare con l’immagine Esposizione orale 6. Osserva Il geografo (1668) del pittore olandese Jan Vermeer (1632-1675). Quale elemento del quadro suggerisce una concezione dell’esplorazione della natura che potrebbe ricordare quella del Saggiatore? IMMAGINE INTERATTIVA

Jan Vermeer, Il geografo, olio su tela, 1668 (Francoforte sul Meno, Städelsches Kunstinstitut).

online T4 Galileo Galilei

PER APPROFONDIRE

All’origine dei suoni Il Saggiatore

Un’immagine chiave: il libro della natura La metafora del “libro del mondo” Come ricorda Italo Calvino, un’immagine chiave dell’opera di Galileo è quella del libro della natura. È un’immagine che ha una lunga storia nella letteratura, poiché «raccoglie in sé, nei suoi vari sensi, il variare di una visione del mondo e del sapere» (E. Garin). Nel suo saggio La leggibilità del mondo. Il libro come metafora della natura, il filosofo tedesco Hans Blumenberg (1920-1996) evidenzia come la metafora del libro sia impiegata quando si voglia evidenziare nella natura un carattere di totalità, di unità onnicomprensiva, al di là della dispersione dei singoli fenomeni. Ma il carattere di tale unità varia nelle diverse epoche. Nel Medioevo, ad esempio, il libro della natura è specchio della realtà ultraterrena, è un’opera scritta da Dio per illuminare gli uomini sulle realtà metafisiche. Il “libro dell’universo” vs i libri autorevoli Anche per Galileo il libro della natura è scritto da Dio, ma non rimanda più a una realtà ultraterrena. Piuttosto, l’immagine assume una connotazione polemica, perché la lettura del libro del mondo è contrapposta a quella indiretta, desunta da libri che hanno il valore di auctoritates: Aristotele e la Bibbia. Dopo Galileo, l’immagine del libro del mondo ricorrerà in vari autori per

evidenziare la contrapposizione tra l’universo chiuso dei libri e quello aperto della realtà. Il codice matematico del “libro dell’universo” Un altro aspetto importante sono i caratteri in cui il libro della natura è scritto: per Galileo non sono più i simboli medievali, né i misteriosi geroglifici dei maghi e degli alchimisti, ma «triangoli, cerchi, ed altre figure geometriche», ossia un sistema razionale e univoco di segni. Anche il lettore del libro del mondo è mutato: non è più, come nel Medioevo, l’uomo religioso, ma lo scienziato, il solo che ne possiede la chiave interpretativa: la matematica e la geometria, senza cui l’universo non è che un «oscuro laberinto», nel quale dunque, ci si aggira senza poterne comprendere nulla.

Testi di riferimento: E. Garin, La nuova scienza e il simbolo del “libro”, in La cultura filosofica del Rinascimento italiano, Sansoni, Firenze 1992 (ora Bompiani, Milano 2001); H. Blumenberg, La leggibilità del mondo. Il libro come metafora della natura, Il Mulino, Bologna 2009; I. Calvino, Il libro della natura in Galileo, in Perché leggere i classici, Mondadori, Milano 1995, pp. 90-97.

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INTERPRETAZIONI CRITICHE

Maria Luisa Altieri Biagi Galileo, grande scrittore M.L. Altieri Biagi, Dialogo sopra i due massimi sistemi di Galileo Galilei, in LIE, Le opere, II, CinquecentoSettecento, Einaudi, Torino 1993

Maria Luisa Altieri Biagi (1930-2017), importante linguista e storica della lingua, evidenzia il rapporto tra l’organizzazione del pensiero galileiano e quella del suo discorso, per mettere in luce le qualità dello stile di uno scienziato entrato nel canone dei grandi della letteratura italiana.

Galileo è uno dei pochi scienziati che abbiano costantemente attirato l’attenzione di letterati e di critici; uno dei pochissimi che – sia pure con criteri ispirati al prelievo antologico – siano stati accolti nel canone letterario e quindi entrati a far parte dell’enciclopedia mentale dell’uomo di cultura media. […] 5 L’elemento comune ai giudizi positivi e a quelli negativi che – nel corso di trecentocinquant’anni – sono stati espressi su Galileo scrittore sembra essere il rilievo di un perfetto equilibrio statico della sua prosa. Da tale equilibrio la maggioranza dei lettori ha tratto un’impressione di chiarezza, precisione, limpidezza, eleganza, copia, purità, luminosa evidenza. […] [A queste caratteristiche la studiosa aggiunge la semplificazione, di cui precisa il significato.]

A questo punto è opportuno […] chiarire che cosa esattamente si intenda per semplificazione della struttura sintattica. Il periodo di Galileo è infatti, di norma, tutt’altro che semplice. Fra le definizioni che la prosa galileiana ha prodotto, passando per i circuiti mentali dei diversi lettori nelle diverse epoche, compaiono spesso quelle di «chiarezza», di «evidenza», di «efficacia», di «eleganza», perfino 15 quella di «naturalezza»; mai – se il ricordo è esatto – di semplicità. La sintassi galileiana è fortemente ipotattica, anche se episodicamente disponibile alla coordinazione, all’accelerazione dei ritmi, perfino a quello stile “spezzato” (periodi di una sola frase, o comunque fortemente segmentati da una punteggiatura di tipo emotivo1) che pure è una delle manifestazioni caratteristiche del secolo. […] 20 Nonostante questi contro-esempi2, l’«equilibrio» della prosa galileiana si affida di solito e principalmente alla perfetta coerenza logica e coesione linguistica con cui le molte unità ospitate nel periodo sono gerarchicamente strutturate e saldate fra loro. Sicché, parlando di mezzi che producono la semplificazione, intendiamo quelli che consentono al periodo galileiano di rimanere lucido e lineare nonostante 25 la forte complessità della sua struttura. La linearità di cui si tratta è quella che emerge come nitida e ben stagliata dorsale da un complesso sistema orografico3. Come ottiene, lo scrittore, questo risultato? Si potrebbe dire che […] il ramo principale del periodo conserva la sua portata, senza depauperarsi4 in rivoli o ristagnare nelle numerose anse. È l’organizzazione gerarchica delle unità interne al periodo 10

1 di tipo emotivo: che cerca di esprimere attraverso i segni della punteggiatura anche aspetti legati a emozioni e impressioni. 2 contro-esempi: esempi che sembrano

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smentire quanto affermato.

3 La linearità… sistema orografico: la linearità nell’articolata struttura prosastica di Galileo è paragonata dalla studiosa al crinale, alla linea di rilievo (dorsale)

delle cime di un complesso sistema montuoso (orografico). 4 depauperarsi: impoverirsi, indebolirsi.


(corrispettivo linguistico di una disciplina mentale abituata a graduare l’importanza degli argomenti, a discernere l’essenziale dall’accessorio) che consente il fluire maestoso del discorso e del pensiero. La sensazione di pesantezza che alcuni lettori hanno provato, nel leggere la prosa galileiana, dipende forse dal fatto che la straordinaria capacità di programmazione 35 sintattica del periodo, da parte dell’autore, esige un’altrettanto sviluppata capacità di attenzione e di memorizzazione da parte del lettore. La prosa di Galileo non tollera una lettura di tipo intuitivo né una ricezione frettolosa, distratta. La mediazione intellettuale – sempre indispensabile, anche per testi specificamente letterari – deve essere massima in rapporto a una scrittura tutt’altro che neutra dal punto 40 di vista emotivo, ma che filtra razionalmente, con calviniana «esattezza»5, anche le componenti affettive e passionali. […] Si può concludere che l’evidenza, la chiarezza, l’eleganza, l’efficacia della prosa galileiana sono il risultato di scelte attentamente calibrate: c’è un’“officina” linguistica che Galileo frequenta non meno di quella meccanica, anche se poi il risultato 45 non rivela fatica, e l’effetto può essere quello della «naturalezza» […]. 30

5 calviniana «esattezza»: l’esattezza è una delle caratteristiche costante-

mente ricercate anche nella scrittura di Italo Calvino (ed oggetto delle sue

riflessioni in una delle Lezioni americane, 1985).

Analisi e produzione di un testo argomentativo Comprendere e analizzare Produzione

1. Quale elemento comune caratterizza i giudizi espressi su Galileo scrittore? 2. Quale tipo di sintassi utilizza Galileo? 3. Che cosa nello stile di Galileo può essere ricondotto al secolo in cui vive? 4. Definisci gli aspetti che connotano lo stile di Galilei e che, a giudizio di Calvino, ne fanno «il più grande scrittore della letteratura italiana d’ogni secolo». Quale rapporto si instaura fra sintassi e organizzazione del pensiero? Sintetizza i dati raccolti in un breve testo (max 15 righe).

4 Il Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo tolemaico e copernicano

VIDEOLEZIONE

Il manifesto di una nuova ottica culturale Il capolavoro di Galileo (a causa del quale fu processato e costretto all’abiura) è il Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo tolemaico e copernicano, pubblicato nel 1632. Come ricorda il filosofo della scienza Ludovico Geymonat (1908-1991), il Dialogo (una «comedia filosofica» secondo un’efficace definizione di Tommaso Campanella) non è tanto un trattato scientifico, quanto un «manifesto diretto a rinnovare la cultura», finalizzato a distruggere i pregiudizi e le abitudini mentali consolidate da una lunga tradizione di pensiero, fondata sull’aristotelismo e sull’ossequio al principio di autorità. L’opera ebbe enorme successo, ma, già pochi mesi dopo la pubblicazione, la Chiesa impone il ritiro delle copie in circolazione e Galileo viene convocato a Roma dal Sant’Uffizio. Ne seguirà il processo e l’umiliante abiura. La ripresa del dialogo umanistico e l’ambientazione veneziana In pieno Seicento, adattandolo ai temi nuovi e attuali della rivoluzione scientifica, Galileo riprende il dialogo di tipo umanistico, evidenziando così la continuità della nuova scienza con la cultura del Rinascimento e con i suoi valori: apertura, tolleranza, libero confronto. Galileo scienziato-scrittore 2 129


La discussione libera e pacata del Dialogo, serenamente rivolta alla ricerca della verità, è ambientata, secondo le consuetudini del dialogo umanistico, in un luogo reale: il palazzo di Giovanfrancesco Sagredo, affacciato sul Canal Grande a Venezia, nello stato in cui Galileo (ormai da anni a Firenze) aveva trascorso anni sereni e proficui nell’insegnamento padovano, in un clima culturale aperto e tollerante, per quanto l’epoca lo consentiva. La struttura e i temi del Dialogo Nelle quattro giornate della discussione il sistema aristotelico è attaccato dalle fondamenta, a cominciare dalla distinzione tra il mondo terrestre, corruttibile, e quello celeste, immutabile, argomento del primo libro. Il secondo e il terzo libro sono volti a confutare rispettivamente le obiezioni contro il moto di rotazione della terra intorno al proprio asse e contro il movimento annuo della terra intorno al Sole; il quarto e ultimo libro è dedicato al fenomeno delle maree, che Galileo erroneamente riteneva prova del movimento terrestre. Frequenti, e particolarmente importanti, sono gli enunciati metodologici inframezzati alla trattazione scientifica dei vari temi. Una caratterizzazione dei personaggi non neutrale Secondo una tradizione propria dei dialoghi classici e rinascimentali, Galileo fa rivivere nella sua opera personaggi reali morti da tempo, introducendo come interlocutori due suoi carissimi amici ormai non più in vita, il nobile veneziano Giovanfrancesco Sagredo (1571-1620), uomo attivo e impegnato nella politica della Repubblica, e il fiorentino Filippo Salviati (1582-1614), che era stato Accademico dei Lincei. I due personaggi, come ha osservato Calvino in una delle Lezioni americane, raffigurano «due diverse sfaccettature del temperamento di Galilei»: Salviati «è il ragionatore metodologicamente rigoroso, che procede lentamente e con prudenza» e a lui sono affidate nel Dialogo le esposizioni più “tecniche”, ma anche il “discorso sul metodo”, la distinzione tra Aristotele, grande filosofo, e gli aristotelici, suoi mediocri seguaci; Sagredo, dilettante nella scienza, rappresenta la curiosità, l’apertura mentale, lo spirito pratico: capace, grazie alla velocità del suo pensiero, di comprendere immediatamente le novità del sistema copernicano esposte da Salviati, se ne fa entusiastico sostenitore, suggerendo ingegnose nuove applicazioni. L’aristotelico Simplicio è invece un personaggio di invenzione. Il suo nome, ispirato a quello di un antico commentatore di Aristotele, denota un’intenzione ironica: Simplicio è l’interprete, erudito ma ingenuo, di una visione semplice dell’universo, opposta alla complessità che di giorno in giorno la scienza andava rivelando. Galileo ne fa impietosamente un personaggio quasi comico, perdente rispetto alla spietata razionalità degli altri due interlocutori.

Antiporta (la pagine che precede il frontespizio) della prima edizione del Dialogo sopra i due massimi sistemi.

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online

Per approfondire Il sistema dei personaggi come chiave di lettura del Dialogo sopra i due massimi sistemi

Il copernicanesimo del Dialogo Galileo era stato costretto dal decreto anticopernicano del 1616 a presentare il Dialogo come una disamina imparziale dei due sistemi, tolemaico e copernicano (da qui il titolo), ma già il Proemio, in cui la disposizione che proibiva la diffusione delle idee copernicana da parte della Chiesa è definita «salutifero editto» con evidente tono ironico, mostra la posizione dell’autore in merito. Il sistema dei personaggi attivi nel dialogo rivela poi, senza possibilità di dubbio, l’adesione di Galileo al copernicanesimo. A ogni lettore appare infatti evidente la superiorità dei due fautori delle teorie copernicane, Sagredo e Salviati: diversi, come si è detto, nella cultura e nel carattere, sono accomunati da quella libera ricerca della verità, senza pregiudizi di sorta, che per Galileo è propria non soltanto degli scienziati, ma di tutti gli uomini colti; esce invece sminuito dal confronto l’aristotelico Simplicio che, tentato dall’aperto «mar del vero», se ne ritrae ogni volta, atterrito dai precetti dei religiosi e dall’autorità di Aristotele. Fu proprio la caratterizzazione dei personaggi a suscitare la reazione dell’Inquisizione: in particolare era apparso provocatorio che, alla fine del Dialogo, Galileo facesse pronunciare al più limitato degli interlocutori (appunto Simplicio) la professione di superiorità della fede sulla scienza che gli era stata espressamente richiesta per consentire la pubblicazione dell’opera. Lo stile Per questa sua opera, che considerava assai importante, Galileo sceglie un linguaggio informale, a volte vicino al parlato, anche se sempre elegante, per rendere l’idea di una reale conversazione tra persone colte: una scelta motivata dal desiderio di comunicare le idee scientifiche a un nuovo pubblico, interessato alle novità della scienza, sottraendole all’ambito ristretto dei dotti e alle aule universitarie. Il prevalente ricorso, sul piano sintattico, alla subordinazione, necessario a rendere la complessità dei problemi trattati, non produce nel lettore un senso di pesantezza, perché domina la prosa galileiana la vocazione alla chiarezza e alla coerente enunciazione dei concetti.

Galileo Galilei: le opere Opere in latino

Opere in volgare

Sidereus nuncius 1610

Lettere copernicane 1613-1615

Il Saggiatore 1623

Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo tolemaico e copernicano 1632

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Analisi passo dopo passo

T5

Galileo Galilei

La critica dell’ipse dixit Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo tolemaico e copernicano

G. Galilei, Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo, tolemaico e copernicano, a c. di L. Sosio, Einaudi, Torino 1970

In questo famoso passo, posto all’inizio della seconda giornata del Dialogo sopra i due massimi sistemi, Simplicio si dichiara affascinato dalle novità scientifiche emerse nel dibattito del giorno precedente; ma è restio ad accettarle, perché non osa mettere in dubbio l’autorità di Aristotele. La sua ingenua dichiarazione suscita l’ilarità di Sagredo, che ricorda un episodio analogo a cui aveva personalmente assistito, quando un aristotelico, seguace del cosiddetto ipse dixit, aveva rifiutato di accettare una dimostrazione anatomica vista coi suoi stessi occhi, perché contrastava con quanto il filosofo aveva affermato. Lo scienziato Salviati trae spunto dai due esempi per proporre un importante discorso metodologico, in cui contrappone i princìpi della ricerca scientifica sperimentale, realizzata da chi «ha gli occhi nella fronte e nella mente», al «mondo di carta» delle citazioni libresche. L’esortazione ad abbandonare i pregiudizi scolastici, per leggere i sempre nuovi e affascinanti insegnamenti del “libro della natura”, è costante nell’opera di Galileo, di cui rappresenta un vero e proprio filo conduttore.

SIMP. Io vi confesso che tutta questa notte sono andato ruminando le cose di ieri1, e veramente trovo di molte2 belle nuove e gagliarde3 considerazioni; con tutto ciò mi sento stringer4 assai più dall’autorità di tanti grandi scrittori, ed in particolare...5 Voi scotete la testa, signor Sagredo, e sogghignate, come se io 5 dicessi qualche grande esorbitanza6. SAGR. Io sogghigno solamente, ma crediatemi ch’io scoppio nel voler far forza di ritener le risa maggiori7, perché mi avete fatto sovvenire8 di un bellissimo caso, al quale io mi trovai presente non sono molti anni, insieme con alcuni altri nobili 10 amici miei, i quali vi potrei ancora nominare. SALV. Sarà ben che voi ce lo raccontiate, acciò forse il signor Simplicio non continuasse di creder d’avervi esso mosse le risa. SAGR. Son contento. Mi trovai un giorno in casa un medico9 molto stimato in Venezia, dove alcuni per loro studio, ed altri per 15 curiosità, convenivano10 tal volta a veder qualche taglio di notomia11 per mano di uno veramente non men dotto che

Per contestare il ricorso al principio di autorità nelle questioni scientifiche, Galileo mette in scena una situazione da commedia, orchestrando sapientemente il gioco delle parti tra i personaggi. L’aristotelico Simplicio, incerto se prestare fede a tesi che gli apparirebbero decisamente convincenti, se non fossero in contrasto con i testi di Aristotele, appare comico, e suscita perciò l’ilarità del nobile veneziano Sagredo. La scena è presentata con vivacità: mentre Simplicio sta per pronunciare il venerato nome di Aristotele, è interrotto dalla mimica di Sagredo che, impaziente per l’atteggiamento ostinato e ottuso dell’interlocutore, trattiene a stento le risa.

Prototipo del dilettante curioso in ogni ambito del sapere, Sagredo ricorda di aver assistito a una dissezione anatomica, che aveva mostrato inequivocabilmente come i nervi prendano origine dal cervello e non dal cuore, come aveva creduto Aristotele e come si ostinavano a sostenere gli aristotelici troppo rispettosi del principio dell’ipse dixit. Ai lettori secenteschi del Dialogo, il nesso tra anatomia e astronomia risultava evidente, dato che in pochi anni entrambe le discipline avevano subìto un’analoga rivoluzione metodologica: proprio nel 1543, l’anno della pubblicazione del De revolutionibus orbium coelestium di Copernico, era stato pubblicato anche il trattato De humani corporis fabrica di Andrea Vesalio, anatomista fiammingo che aveva insegnato a Padova, in cui si dava un’impostazione scientifica alla disciplina. 1 ruminando le cose di ieri: rimuginando, continuando a meditare le cose discusse ieri (nella prima giornata del Dialogo). 2 di molte: molte. 3 gagliarde: valide, convincenti. 4 stringer: vincolare, costringere. 5 in particolare…: Simplicio sta per cita-

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re Aristotele, ma è trattenuto dal sorriso sarcastico di Sagredo. L’ellissi del discorso di Simplicio conferisce vivacità alla scena e contribuisce a caratterizzare i due personaggi, mostrando l’abilità letteraria di Galileo. 6 esorbitanza: sciocchezza.

7 crediatemi… maggiori: credetemi (quando dico) che scoppio nello sforzarmi di trattenere maggiori risa. 8 sovvenire: ricordare. 9 in casa un medico: in casa di un medico. 10 convenivano: si radunavano. 11 taglio di notomia: dissezione anatomi-


diligente e pratico12 notomista. Ed accadde quel giorno, che si andava ricercando l’origine e nascimento de i nervi, sopra di che è famosa controversia tra i medici galenisti13 ed i 20 peripatetici14; e mostrando il notomista come, partendosi dal cervello e passando per la nuca, il grandissimo ceppo15 de i nervi si andava poi distendendo per la spinale16 e diramandosi per tutto il corpo, e che solo un filo sottilissimo come il refe17 arrivava al cuore, voltosi ad un gentil uomo ch’egli conosceva 25 per filosofo peripatetico, e per la presenza del quale egli aveva con estraordinaria diligenza scoperto e mostrato il tutto, gli domandò s’ei restava ben pago e sicuro, l’origine de i nervi venir dal cervello e non dal cuore18; al quale il filosofo, doppo essere stato alquanto sopra di sé19, rispose: «Voi mi avete fatto 30 veder questa cosa talmente aperta e sensata20, che quando il testo d’Aristotile non fusse in contrario21, che apertamente dice, i nervi nascer dal cuore, bisognerebbe per forza confessarla per vera». 35 SIMP. Signori, io voglio che voi sappiate che questa disputa dell’origine de i nervi non è miga così smaltita22 e decisa come forse alcuno si persuade. SAGR. Né sarà mai al sicuro, come si abbiano di simili contradittori23; ma questo che voi dite non diminuisce punto la stravaganza della risposta del Peripatetico, il quale contro a così sensata 40 esperienza non produsse altre esperienze o ragioni d’Aristotile, ma la sola autorità ed il puro ipse dixit24. […] SIMP. Io credo, e in parte so, che non mancano al mondo de’ cervelli molto stravaganti, le vanità25 de’ quali non dovrebbero ridondare in pregiudizio d’Aristotile26, del quale mi par che voi 45 parliate talvolta con troppo poco rispetto; e la sola antichità, e ’l gran nome27 che si è acquistato nelle menti di tanti uomini segnalati, dovrebbe bastar a renderlo riguardevole28 appresso di tutti i letterati.

ca; più avanti notomista, “anatomista”. 12 non men… pratico: non meno esperto che scrupoloso e abile. 13 galenisti: seguaci del medico e filosofo greco Galeno (129-200 ca); sostenevano correttamente che il sistema nervoso ha origine dal cervello, mentre Aristotele riteneva erroneamente si sviluppasse dal cuore. 14 i peripatetici: i seguaci di Aristotele. 15 ceppo: fascio. 16 la spinale: la spina dorsale. 17 refe: filo resistente, ottenuto accoppiando due filati di lino, canapa o altra fibra.

18 s’ei… cuore: se egli era sicuro e convinto che i nervi si dipartono dal cervello e non dal cuore. 19 doppo… sopra di sé: dopo aver riflettuto alquanto. 20 aperta e sensata: chiara e percepibile con i sensi. 21 quando… contrario: se il testo di Aristotele non affermasse il contrario. 22 non è… smaltita: non è affatto così risolta. 23 Né sarà… contradditori: né lo sarà mai sicuramente, se si abbiano avversari di questo genere (che, anziché essere convinti da

Alla parte dedicata al resoconto della sensata esperienza segue un altro scambio di battute “da commedia”, in cui, con leggerezza comica, si delinea il contrasto tra la mentalità moderna di Sagredo, insofferente del medievale principio di autorità, e quella di Simplicio, vincolato dall’antichità e dalla fama al rispetto per Aristotele e incapace di andare oltre l’ipse dixit. Il dialogo evidenzia la perfetta padronanza della lingua e dello stile di Galileo: agli scambi dialogici rapidi e incisivi della prima parte succede, nel passo in cui Sagredo descrive la dissezione anatomica, un discorso articolato in periodi dalla complessa struttura ipotattica, sempre però agile e funzionale allo scopo. Il racconto, preciso e circostanziato, mantiene sospesa l’attenzione del lettore grazie a una struttura sintattica definita da Maria Luisa Altieri Biagi «a piramide rovesciata»: la reggente gli domandò, nella parte conclusiva del paragrafo, è infatti anticipata da una serie di subordinate, che forniscono le circostanze utili a illuminare ogni aspetto della situazione descritta, per consentire di trarne le dovute conclusioni.

una dimostrazione sperimentale, continuano ad anteporle l’autorità di Aristotele). 24 ipse dixit: egli stesso (Aristotele) lo ha detto. Famosa espressione con cui gli aristotelici invocavano l’autorità del maestro per risolvere ogni disputa. 25 vanità: sciocchezze. 26 non dovrebbero… Aristotile: non dovrebbero ricadere a danno di Aristotele. 27 nome: fama. Simplicio sostiene il principio dell’auctoritas: le tesi di Aristotele si dovrebbero accettare per la sua antichità e per la sua autorevolezza. 28 riguardevole: degno di rispetto.

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SALV. Il fatto non cammina così, signor Simplicio: sono alcuni suoi seguaci troppo pusillanimi29, che danno occasione, o, per dir meglio, che darebbero occasione, di stimarlo meno, quando noi volessimo applaudere alle loro leggereze30. E voi, ditemi in grazia, sete così semplice31 che non intendiate 55 che quando Aristotile fusse stato presente a sentir il dottor che lo voleva far autor32 del telescopio, si sarebbe molto più alterato33 contro di lui che contro quelli che del dottore e delle sue interpretazioni si ridevano? Avete voi forse dubbio che quando Aristotile vedesse le novità scoperte in cielo, e’ 60 non fusse per mutar opinione34 e per emendar i suoi libri e per accostarsi alle più sensate dottrine35, discacciando36 da sé quei così poveretti di cervello37 che troppo pusillanimamente s’inducono a voler sostenere ogni suo detto, senza intendere che quando Aristotile fusse tale quale essi se lo figurano, 65 sarebbe un cervello indocile38, una mente ostinata, un animo pieno di barbarie39, un voler tirannico40, che, reputando tutti gli altri come pecore stolide41, volesse che i suoi decreti42 fussero anteposti a i sensi, alle esperienze, alla natura istessa? Sono i suoi seguaci che hanno data l’autorità ad Aristotile, e 70 non esso che se la sia usurpata o presa; e perché43 è più facile il coprirsi sotto lo scudo d’un altro che ’l comparire a faccia aperta, temono né si ardiscono d’allontanarsi un sol passo, e più tosto che mettere qualche alterazione nel cielo di Aristotile44, vogliono impertinentemente45 negar quelle che veggono 75 nel cielo della natura. […] SIMPL. Ma quando si lasci Aristotile, chi ne ha da essere scorta46 nella filosofia? nominate voi qualche autore. SALV. Ci è bisogno di scorta ne i paesi incogniti47 e selvaggi, ma ne i luoghi aperti e piani i ciechi solamente hanno bisogno di gui80 da; e chi è tale, è ben che si resti in casa, ma chi ha gli occhi nella fronte e nella mente48, di quelli si ha da servire per iscorta49. Né perciò dico io che non si deva ascoltare Aristotile, anzi laudo50 il vederlo e diligentemente studiarlo, e solo biasimo il darsegli in preda51 in maniera che alla cieca si sottoscriva a 50

29 pusillanimi: timorosi (della verità). 30 applaudere… leggereze: acconsentire alle loro sciocchezze.

31 sete… semplice: siete così ingenuo. 32 autor: inventore. 33 alterato: adirato. 34 e’ non fusse… opinione: non avrebbe mutato opinione.

35 per emendar… dottrine: non avrebbe corretto i suoi libri e non si sarebbe accostato a dottrine più attente alla testimonianza dei sensi. 36 discacciando: scacciando.

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37 poveretti di cervello: stolti, privi di cervello (sono gli aristotelici). 38 un cervello indocile: una mente refrattaria a ogni argomento razionale. 39 un animo... barbarie: un animo rozzo e primitivo. 40 un voler tirannico: una volontà dispotica. 41 stolide: stupide. 42 i suoi decreti: le sue affermazioni. 43 perché: dato che. 44 piú tosto… Aristotile: piuttosto che introdurre qualche variante nelle conce-

Con l’appassionato intervento di Salviati, il discorso si eleva dai casi concreti a un livello teorico. Il passaggio dal registro comico iniziale allo stile alto e solenne del monito di Salviati, reso veemente e incisivo dal succedersi delle interrogative retoriche, sottolinea l’importanza del “discorso sul metodo” che Galileo qui formula per bocca del suo portavoce. Emerge la capacità dello scienziato-scrittore di creare immagini incisive, che si imprimono con forza nella mente del lettore, come quella degli aristotelici, paragonati a «pecore stolide» che, anziché proseguire nella ricerca sulla natura, accettano in modo acritico e passivo tutte le conclusioni di Aristotele. Il monologo di Salviati si incentra sul problema del metodo: per lui (e per Galileo) essere scienziato significa essere attento osservatore della realtà, non subire il freno di un’autorità libresca, ma possedere «occhi nella fronte e nella mente». Con questa espressione Galileo sottolinea non solo l’importanza dei sensi, e in particolare della vista, per l’indagine scientifica, ma anche la necessità che le esperienze sensibili siano guidate dalla riflessione teorica e da leggi generali di interpretazione. Nel Dialogo emerge così con il contrasto fra due idee della verità: una la considera fissata per sempre negli scritti di Aristotele, l’altra la ritiene figlia del tempo; una la cerca nel mondo sensibile, l’altra in un mondo di carta.

zioni cosmologiche di Aristotele. 45 impertinentemente: in modo sfacciato, con sciocca insolenza. 46 scorta: guida. 47 incogniti: sconosciuti. 48 ha gli occhi… mente: espressiva ed efficacissima metafora, che afferma che “sa osservare con gli occhi e riflettere con la mente”. 49 si ha da servire per iscorta: si deve servire come guida. 50 laudo: lodo, apprezzo. 51 biasimo… in preda: disapprovo il fatto di farsi preda (della sua dottrina).


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ogni suo detto e, senza cercarne altra ragione52, si debba avere per decreto inviolabile; il che è un abuso che si tira dietro un altro disordine53 estremo, ed è che altri non si applica54 più a cercar d’intender la forza delle sue dimostrazioni. E qual cosa è più vergognosa che ’l sentir nelle publiche dispute, mentre si tratta di conclusioni dimostrabili55 uscir un di traverso56 con un testo, e bene spesso scritto in ogni altro proposito57, e con esso serrar58 la bocca all’avversario. Ma quando pure voi vogliate continuare in questo modo di studiare, deponete il nome di filosofi, e chiamatevi o istorici o dottori di memoria; ché non conviene che quelli che non filosofano mai, si usurpino l’onorato titolo di filosofo. Ma è ben ritornare a riva, per non entrare in un pelago59 infinito, del quale in tutt’oggi non si uscirebbe. Però, signor Simplicio, venite pure con le ragioni e con le dimostrazioni, vostre o di Aristotile, e non con testi e nude autorità, perché i discorsi nostri hanno a essere intorno al mondo sensibile60, e non sopra un mondo di carta.

52 ragione: dimostrazione. 53 disordine: modo di procedere errato. 54 altri non s’applica: alcuni non si impegnano. 55 conclusioni dimostrabili: teorie che è possibile dimostrare. 56 un di traverso: a sproposito. 57 e bene… proposito: e molto spesso scritto con tutt’altro intento. 58 serrar: chiudere. 59 pelago: mare (latinismo). 60 sensibile: esperito, testimoniato dai sensi.

Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

SINTESI 1. Sintetizza l’episodio narrato da Sagredo; spiegane il significato e il rapporto con l’intento del Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo tolemaico e copernicano. COMPRENSIONE 2. Spiega che cosa si intende con l’espressione latina ipse dixit. 3. Quali critiche Salviati rivolge a Simplicio? ANALISI 4. Indica le caratteristiche dei personaggi del Dialogo che emergono nel passo. STILE 5. Nel testo ci sono alcune metafore riferite alla scienza. Individuale e spiegane il significato. 6. Che cosa indica la similitudine delle «pecore stolide»? A chi si riferisce?

Interpretare

SCRITTURA 7. Metti a confronto le opinioni di Simplicio, Sagredo e Salviati sul principio di autorità (max 15 righe). SCRITTURA ARGOMENTATIVA 8. Spiega in che senso la polemica di Galileo è rivolta non contro Aristotele ma contro gli aristotelici. 9. Spiega quale idea della scienza emerge dalle parole di Salviati. TESTI A CONFRONTO 10. La figura di Simplicio viene presentata da Galileo in modo quasi caricaturale, perché riflette una visione medievale del mondo. Il suo modo di ragionare, anacronistico e ridicolo nel Seicento, sarebbe stato perfettamente legittimo qualche secolo prima. Prova a confrontare la sua visione della cultura con quella di un intellettuale medievale come Dante. LETTERATURA E NOI 11. Galileo polemizza contro chi, come Simplicio, nel discutere si affida alle citazioni autorevoli più che alla forza intrinseca dei ragionamenti. Ritieni che tale mentalità sia superata o che invece ne restino ancora tracce nel mondo attuale? Sai proporre qualche esempio?

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VERSO IL NOVECENTO

La Vita di Galileo di Bertolt Brecht Il “caso Galileo”: paradigma della responsabilità etica e del rapporto tra scienziato e potere Lo scontro di Galileo con la Chiesa mette in luce il problema del rapporto tra scienza e potere. Problema che oggi appare sempre più complesso, dati gli sviluppi della scienza precedentemente inimmaginabili (come le armi atomiche, l’ingegneria genetica o le biotecnologie). In questa prospettiva la vicenda di Galileo è sorprendentemente attuale e la sua figura, paradigmatica per il Novecento tecnologico, ha ispirato e continua tutt’oggi a ispirare opere letterarie, teatrali e cinematografiche. Il Galileo di Bertolt Brecht Una lettura fortemente “attualizzante” (e ideologicamente connotata) del personaggio dello scienziato e della sua vicenda è già stata proposta verso la fine degli anni Trenta del secolo scorso dal drammaturgo tedesco Bertolt Brecht (1898-1956) in una delle sue opere teatrali più significative: la Vita di Galileo. Del testo brechtiano esistono diverse, successive, versioni; le principali sono quella scritta durante il periodo nazista, tra il 1938 e il 1939, e quella composta negli Stati Uniti tra il 1945 e il 1947, dopo lo scoppio della bomba atomica di Hiroshima, quando emerse ancor più drammaticamente la responsabilità etica degli scienziati. Il primo Galileo: l’intellettuale oppresso da un potere tirannico In entrambe le versioni della Vita di Galileo il tema centrale è quello del rapporto tra lo scienziato e il potere. Nella prima versione dell’opera, scritta durante il periodo nazista, la scelta di Galileo di cedere all’Inquisizione e di pronunciare l’abiura è vista da Brecht positivamente, perché consente allo scienziato di sopravvivere e di portare avanti la sua ricerca: la morale del dramma – secondo lo storico della letteratura tedesca Ladislao Mittner – «potrebbe essere contenuta nell’affermazione di Andrea [Andrea Sarti, discepolo di Galileo] che è meglio avere le mani macchiate che le mani vuote». Costretto ad abbandonare la Germania per continuare in esilio la sua battaglia contro il nazismo, Brecht si identifica

con Galileo e ne trae un’indicazione di comportamento per gli intellettuali sotto un regime tirannico: evitare il “bel gesto” individuale e sacrificare qualcosa sul piano dei valori ideali per continuare a svolgere un’azione concreta e pragmatica, che contribuisca a sconfiggere l’avversario. Perciò ad Andrea che, dopo l’abiura, gli rinfaccia il cedimento (poco eroico) all’Inquisizione (scena XIII): «Sventurata la terra che non ha eroi!», Galileo ribatte: «No. Sventurata la terra che ha bisogno di eroi». Il secondo Galileo e la responsabilità etica degli scienziati Nell’estate del 1945 viene lanciata la prima bomba atomica su Hiroshima. Brecht annota nel suo Diario di lavoro: «La bomba atomica ha effettivamente trasformato i rapporti fra società e scienza in una questione di vita e di morte». E allora il drammaturgo ritorna al suo personaggio secondo una nuova ottica: Galileo non gli interessa più come intellettuale ma come scienziato. La sua figura acquista perciò nuove connotazioni e diviene simbolo del “peccato originale” degli scienziati, asserviti alle pressioni dei potenti; ora la sua abiura appare a Brecht come una prefigurazione dell’atteggiamento arrendevole verso il potere dei moderni scienziati atomici, della loro colpevole indifferenza morale di fronte all’uso delle loro scoperte. Brecht inserisce perciò verso la conclusione dell’opera un monologo, divenuto famoso, in cui Galileo pronuncia una severa autocritica per aver ceduto al potere tirannico dell’Inquisizione, vedendo nella sua ritrattazione una sconfitta non soltanto personale, ma della scienza. Un testo teatrale di successo La Vita di Galileo, considerata ancor oggi un testo di grande attualità, è stata spesso portata sulla scena teatrale: ricordiamo, in Italia, l’allestimento del Piccolo Teatro di Milano di Giorgio Strehler, con Tino Buazzelli; quello, del 2007, di Antonio Calenda, sempre al Teatro Strehler, con Franco Branciaroli; quello del 2015 diretto e interpretato da Gabriele Lavia. Nel 1973 dal testo di Brecht fu tratto un film, Galileo, del regista statunitense Joseph Losey.

Bertolt Brecht «Siamo come intrappolati dentro» Vita di Galileo, scena I B. Brecht, Vita di Galileo, in I capolavori, a c. di H. Riediger, vol. II, Einaudi, Torino 1998

La scena iniziale della Vita di Galileo presenta in poche battute i temi principali dell’opera: il copernicanesimo come nuova visione del mondo, la speranza in una nuova età di progresso e di libertà, la complessa figura di Galileo e il contesto sociale e culturale che lo circonda.

I. Galileo Galilei, docente di matematiche a Padova, cerca le prove del nuovo sistema cosmico di Copernico. Nell’anno milleseicentonove splendé chiara la luce della scienza da una piccola casa di Padova. Galileo Galilei accertò coi suoi calcoli che il sole sta fermo e la terra si muove.

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Stanza di lavoro, miseramente arredata, di Galileo a Padova. È il mattino. Un ragazzetto, Andrea, figlio della governante, entra recando un bicchiere di latte e un panino. GALILEO (si lava a torso nudo, sbuffando allegramente) Posa il latte sul tavolo, ma non chiudermi i libri. ANDREA La mamma ha detto che c’è da pagare il lattaio. Sennò quello, tra poco, girerà al largo della nostra casa, signor Galileo. GALILEO Di’ meglio: descriverà un cerchio intorno a noi. ANDREA Come volete. Se non paghiamo, descriverà un cerchio intorno a noi, signor Galileo. GALILEO E invece il signor Cambione, l’usciere giudiziario, viene qui dritto: dunque, che linea sceglie fra due punti? ANDREA (con un ghignetto) La piú corta. GALILEO Bravo. Ho qualcosa da mostrarti. Guarda dietro quelle mappe stellari. Da dietro le mappe Andrea tira fuori un grande modello in legno del sistema tolemaico ANDREA Cos’è? GALILEO Un astrolabio: un aggeggio che fa vedere come si muovono gli astri intorno alla terra, secondo l’opinione degli antichi. ANDREA E come? GALILEO Esaminiamolo. Cominciamo dal principio: descrizione. ANDREA In mezzo c’è un sassolino. GALILEO È la terra. ANDREA Tutt’intorno, una sopra l’altra, delle calotte. GALILEO Quante? ANDREA Otto. GALILEO Sono le sfere di cristallo. ANDREA Alle calotte sono attaccate delle palline... GALILEO Le costellazioni. ANDREA E qui ci sono dei nastri, con dipinte sopra delle parole. GALILEO Che parole? ANDREA I nomi degli astri. GALILEO Per esempio? ANDREA La pallina piú in basso è la luna; c’è scritto su. Quella sopra, il sole. GALILEO Avanti, fa’ muovere il sole. ANDREA (muove le calotte) Bello. Ma noi siamo come intrappolati dentro. GALILEO (asciugandosi) Già. Anche a me, la prima volta che lo vidi, fece lo stesso effetto. A certi, lo fa. (Getta la salvietta ad Andrea perché gli asciughi le spalle) Muri e calotte: ogni cosa immobile! Per duemila anni l’umanità ha creduto che il sole e tutte le costellazioni celesti le girassero attorno. Il Papa, i cardinali, i principi, gli scienziati e condottieri, mercanti, pescivendole e scolaretti hanno creduto di starsene immobili dentro questa calotta di cristallo. Ma ora ne stiamo uscendo fuori, Andrea, e sarà un grande viaggio. Perché l’evo antico è finito e siamo nella nuova era.

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Galileo, un eroe umano La prima apparizione del protagonista, presentato mentre si lava a torso nudo, sbuffando allegramente, dice già molto del carattere del personaggio: non un filosofo chiuso nel suo studio, ma un uomo vivo e vitale, fatto di materia e di spirito. L’elemento umano, costituito anche di debolezze, condizionerà infatti molte scelte del Galileo brechtiano, compresa l’abiura: tra le motivazioni del cedimento dello scienziato all’Inquisizione, secondo l’interpretazione di Brecht, si dovrebbe prendere in considerazione anche il timore fisico della tortura. Nel passo vengono inoltre messe in evidenza le difficoltà economiche di Galileo: questo elemento, che sarebbe stato tralasciato da molti scrittori come troppo prosaico, viene giustamente sottolineato da Brecht, dato che ebbe in effetti un peso determinante (testimoniato da lettere di Galileo) su alcune scelte dello scienziato, come quella di abbandonare Padova per Firenze. Il personaggio di Andrea Accanto ai numerosi personaggi reali del dramma, il piccolo Andrea, figlio della governante dello scienziato, è una figura di invenzione. Brecht circonda il suo Galileo di popolani, per sottolinearne l’intento di divulgare il più possibile il sapere e per evidenziare il ruolo sociale che la scienza avrebbe potuto assumere, se fosse stata rivolta al bene del popolo e dei più poveri. Nell’opera teatrale Andrea, crescendo, diverrà un allievo di Galileo e lo accompagnerà sino alla fine del dramma, quando metterà in discussione le scelte del suo maestro, assumendo il ruolo di coscienza critica. Con un’invenzione

teatrale di notevole efficacia, nella prima scena Andrea è rappresentato mentre osserva un modellino del sistema tolemaico; lo ammira per la simmetria e la bellezza, ma, con infantile intuizione, osserva: «siamo come intrappolati dentro». Lo scienziato è pienamente d’accordo e gli promette il dischiudersi di un’epoca nuova di progresso e di libertà. Sarà perciò proprio Andrea, dopo l’abiura, a rimproverare a Galileo il tradimento di quell’ideale.

L’attore Tino Buazzelli in uno storico allestimento della Vita di Galileo con la regia di Giorgio Strehler (Piccolo Teatro di Milano, stagione 1962-63).

Fissare i concetti Galileo Galilei Ritratto d’autore 1. Quali studi intraprende il giovane Galileo? Qual è il suo vero interesse? 2. Quale incarico gli viene affidato a Padova? Perché Galileo definisce il suo soggiorno a Padova «i diciotto anni migliori» della sua vita? 3. Perché l’anno 1609 segna una tappa importante nella vita di Galileo? 4. Per quale motivo Galileo viene condannato? Che cosa è costretto a fare? 5. Quale atteggiamento, nel corso della sua vita, Galileo assume nei confronti della Chiesa? Perché si sottomette all’abiura? 6. Quando e grazie a chi Galileo sarà definitivamente riabilitato? Galileo scienziato-scrittore 7. Per quale motivo Galileo adotta come lingua il volgare? 8. Chi è la vera destinataria delle Lettere? 9. Qual è l’intento delle Lettere? 10. Qual è la posizione di Galileo nei confronti della Bibbia? 11. Secondo Galileo grazie a che cosa è possibile esaminare il “libro del mondo”? 12. Qual è il significato del titolo dell’opera Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo tolemaico e copernicano? 13. Qual è il tema fondamentale dell’opera? 14. Da che cosa è guidato lo scienziato nella sua ricerca? 15. Con quale scopo Galileo scrive questo trattato? 16. Che cosa rappresentano i tre personaggi protagonisti del trattato? 17. Appare evidente la posizione di Galileo, oppure viene abilmente dissimulata? Motiva la tua risposta. 18. Che cosa apparve provocatorio al tribunale dell’Inquisizione?

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Verso l’esame di Stato Tipologia A Analisi e interpretazione di un testo letterario italiano

Galileo Galilei

L’intelligenza umana è simile a quella divina Testo tratto da G. Galilei, Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo, tolemaico e copernicano, a c. cura di L. Sosio, Einaudi, Torino 1970

Dialogo sopra i due massimi sistemi SIMP. O io non sono un di quegli uomini che intendano1, o ’n questo vostro discorso è una manifesta contradizione. Voi tra i maggiori encomii2, anzi pur per il massimo di tutti, attribuite all’uomo, fatto dalla natura, questo dell’intendere; e poco fa dicevi con Socrate3 che ’l suo intendere non era nulla; adunque bisognerà dire che né anco la natura abbia inteso il modo 5 di fare un intelletto che intenda. SALV. Molto acutamente opponete4; e per rispondere all’obbiezione, convien ricorrere a una distinzione filosofica, dicendo che l’intendere si può pigliare in due modi, cioè intensive, o vero extensive5: e che extensive, cioè quanto alla moltitudine degli intelligibili6, che sono infiniti, l’intender umano è come 10 nullo, quando bene egli intendesse mille proposizioni, perché mille rispetto all’infinità è come un zero; ma pigliando l’intendere intensive, in quanto cotal termine importa intensivamente7, cioè perfettamente, alcuna proposizione, dico che l’intelletto umano ne intende alcune cosí perfettamente, e ne ha cosí assoluta certezza, quanto se n’abbia l’istessa natura; e tali sono 15 le scienze matematiche pure, cioè la geometria e l’aritmetica, delle quali l’intelletto divino ne sa bene infinite proposizioni di piú, perché le sa tutte, ma di quelle poche intese dall’intelletto umano credo che la cognizione agguagli8 la divina nella certezza obiettiva, poiché arriva a comprenderne la necessità, sopra la quale non par che possa esser sicurezza maggiore. 20 SIMP. Questo mi pare un parlar molto resoluto ed ardito. SALV. Queste son proposizioni comuni e lontane da ogni ombra di temerità9 o d’ardire e che punto non detraggono di maestà alla divina sapienza, sí come niente diminuisce la Sua onnipotenza il dire che Iddio non può fare che il fatto non sia fatto. Ma dubito, signor Simplicio, che voi pigliate ombra10 per 25 esser state ricevute da voi le mie parole con qualche equivocazione11. Però, per meglio dichiararmi, dico che quanto alla verità di che ci danno cognizione le dimostrazioni matematiche, ella è l’istessa che conosce la sapienza divina; ma vi concederò bene che il modo col quale Iddio conosce le infinite proposizioni, delle quali noi conosciamo alcune poche, è sommamente piú 30 eccellente del nostro, il quale procede con discorsi e con passaggi di conclusione in conclusione, dove il Suo è di un semplice intuito12. 1 intendano: comprendono, sono intelligenti. 2 encomii: lodi. 3 con Socrate: riferendoti a Socrate. 4 opponete: sollevate l’obiezione. 5 intensive, o vero extensive: riguardo alla profondità della comprensione (intensive) e riguardo alla sua estensione quan-

titativa, cioè all’ampiezza della conoscenza. 6 moltitudine… intelligibili: gran numero delle cose che si possono conoscere. 7 importa intensivamente: comporta di comprendere pienamente. 8 la cognizione agguagli: la conoscenza uguagli.

9 temerità: sfrontatezza. 10 pigliate ombra: vi insospettiate. 11 equivocazione: equivoco, errore. 12 discorsi… intuito: ragionamenti discorsivi, che implicano diversi passaggi logici, mentre la conoscenza divina è immediata e intuitiva.

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Puoi rispondere punto per punto oppure costruire un unico discorso che comprenda le risposte a tutte le domande proposte.

Comprendere e analizzare

1. Dividi il passo in sequenze, assegnando a ciascuna un titolo e sintetizzandone i contenuti. 2. Riassumi (in 3 righe) l’idea espressa da Salviati sull’intelligenza. 3. Dai un nuovo titolo al brano proposto affinché evidenzi il concetto secondo te più importante. 4. Quale distinzione viene introdotta da Salviati tra intelletto umano e divino? 5. Quale ruolo viene assegnato da Salviati alla matematica e alla geometria? 6. Ricostruisci per punti il procedere logico del ragionamento di Salviati. 7. Come le battute attribuite a Salviati e a Simplicio valgono a caratterizzare le due figure? Quale appare essere il carattere di ciascuno dei due personaggi? Eventualmente puoi fare riferimento alla caratterizzazione complessiva dei due personaggi nell’intero Dialogo.

Interpretazione

Confrontando il passo con altri testi di Galileo da te letti, spiega qual è il ruolo attribuito da Galileo alla matematica e alla geometria, e quale il rapporto fra queste due discipline, il mondo e Dio. Indica l’importanza che il passo del Dialogo assume nell’insieme delle opere di Galilei.

Verso l’esame di Stato Tipologia B Analisi e produzione di un testo argomentativo Testo tratto da E. Garin, Scienza e vita civile nel Rinascimento italiano, Laterza, Bari 1980

In verità, una nuova svolta si ebbe in Galileo tra il 1609 e il 1610. Fino a quel momento erano stati in lui dominanti i problemi del moto, in una teoria generale della realtà come materia, di una natura che non inganna né può essere ingannata dalle macchine, perché ha leggi rigorose ed accertabili. La 5 teoria copernicana era stata il fondamento delle nuove coordinate mentali, il suo nuovo orizzonte: aveva costituito quella «rivoluzione» teorica, senza cui a nulla giovano le tecniche, gli strumenti, i dati sperimentali. La costruzione del cannocchiale e, nel gennaio del ’10, la scoperta dei satelliti di Giove, seguita, via via, dalle osservazioni sui tre corpi di Saturno, sulle macchie solari, sulle 10 fasi di Venere, lo portarono in piena cosmologia. La veduta copernicana gli si trasformò da concetto generale in rigorosa integrazione di sensate esperienze e dimostrazioni matematiche. Fu allora, proprio nel punto in cui il copernicanesimo cessò di essere una filosofia di tipo bruniano1, presupposta all’esperienza, e divenne una teoria verificata e progressivamente verificabile, che Galileo fu e 15 si sentì flosofo in senso tutto nuovo: era un filosofo che «vedeva» che il mondo non era quello d’Aristotele, che vedeva «nuovi» cieli. Studioso del movimento, destinato da Dio, come diceva Fra’ Paolo Sarpi2, a definire le leggi universali del moto, pensava di ridurre ad esse tutto il mondo della vita e perfino i fenomeni psichici e gli atti volontari. La conoscenza del reale e le sue guise3 gli si 20 andavano precisando nella reciproca connessione di sensate esperienze e certe 1 di tipo bruninano: che si rifà a Giordano Bruno. Sostenitore delle teorie copernicane, non su basi scientifiche ma filosofiche (Galileo semplicemente “sapeva”, mentre Bruno “credeva”), Giordano Bruno pensava che l’universo fosse infinito, in quanto manifestazione di Dio, di un Dio però che non è trascendente, ma che

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è nel mondo, presente in tutto. Anche per questa sua posizione circa l’immanenza di Dio, Bruno fu considerato un eretico e, non accettando di abiurare, venne arso sul rogo. 2 Fra’ Paolo Sarpi: uomo di chiesa e teologo, si distinse per le sue capacità di studioso, sia nel settore umanistico sia in quello

scientifico. Scrisse L’Istoria del Concilio tridentino, in cui critica i risultati del concilio, colpevole di aver rafforzato l’assolutismo della curia di Roma e allo stesso tempo aver reso definitivo lo scisma tra cattolivi ce protestanti. L’opera venne subito inserita nell’Indice dei libri proibiti. 3 guise: sembianze, aspetti.


dimostrazioni; la struttura della realtà e il fondamento della validità oggettiva della matematica, i limiti e insieme il valore della scienza umana, gli apparivano chiari. Nella stessa misura gli si svelavano fino in fondo gli equivoci che la confusione peripatetica4 fra fisica e teologia aveva introdotto sul terreno reli25 gioso. La scienza umana è valida nella misura in cui si rende conto dei propri limiti, che sono i limiti della propria verificabilità. Reale, perché di cose reali, non mera ipotesi matematica per salvare i fenomeni, la visione copernicana si spoglia di tutte le sue implicanze metafisiche e mitizzanti; scrivendo al Cesi, e sbagliando, Galilei ne difende gli errori, ma proprio in nome dell’obbedienza 30 che la filosofia deve alla realtà, della sua rispondenza alle cose. Conoscenza del finito per ragioni matematiche ed esperienze, la filosofia si stacca dalla fede: due libri, due linguaggi, due modi di leggerli. Fondata su esigenze diverse, la fede si muove su altro piano – la scienza non la tocca: non la appoggia né la nega, non la sostituisce né può confermarla o smentirla. Terre35 stre, sempre limitata ma in perenne progresso, la filosofia è umana: conoscenza mondana, di cose mondane, capace di salda verità, ma anche fallibile e integrabile. Nell’orizzonte fisico non si incontrano i cieli incorruttibili, o gli eterni moti della astrale teologia aristotelica. L’ambito dell’esperienza è mondano e corruttibile; è limitato e conscio del limite. Deserta di presenze ultramondane, 40 la scienza mondana riconosce l’esistenza di un’altra esperienza: la fede; conflitto tra le due non può esserci, quando sia eliminata la confusione aristotelica fra fisica e teologia. Ed è qui, forse, che nasce il più profondo interrogativo di Galileo. Quella veduta tutta terrestre del sapere e dell’uomo, lascia davvero un margine alla fede? quel vuoto, che la religione vuol colmare, è veramente un 45 senso positivo dell’assoluto, o è solo la consapevolezza, tutta negativa, di un limite che la ricerca non ha più l’illusione di superare? Galileo trova la sua risposta in un cristianesimo sincero, riconosciuto nella sua funzione pedagogica e morale. La sua lotta contro il peripatetismo si presenta insieme come lotta per la liberazione degli uomini attraverso la verità e la fe50 condità della scienza, e come una sorta di nuova apologetica5 di un Dio molto lontano dal Dio dei filosofi. Serena la sua fede, liberatrice la sua scienza: i cieli scoperti, gli strumenti costruiti, gli danno un senso di forza, di fiducia. Proprio per questo la proclamazione della verità, a tutti, nel suo straordinario volgare, assume ai suoi occhi valore di missione. Sagredo lo implora invano di 55 non «mettere in discorso cose dimostrative» e di lasciar perdere gl’ignoranti: «Se i predicatori non muoiono dietro gli ostinati peccatori, perché ella Vuole martirizzarsi da se stessa per convertire gli ignoranti, i quali infine, non essendo predestinati o eletti, bisogna lasciarli cadere nel fuoco dell’ignoranza». Vincat veritas! risponde Galileo; alla verità è intrinseca la necessità di comunicarsi a 60 tutti e di operare per il bene di tutti. Qui l’inizio e la fondazione, non la crisi delle scienze europee. 4 peripatetica: relativa alla tradizione filosofica antica che faceva capo all’insegnamento di Aristotele.

5 apologetica: parte della teologia che ha lo scopo di difendere la verità di una data religione contro religioni diverse.

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Puoi rispondere punto per punto oppure costruire un unico discorso che comprenda le risposte a tutte le domande proposte.

Comprendere e analizzare

1. In che cosa consiste la svolta a cui allude lo storico della filosofia Eugenio Garin, autore del testo, a proposito della realizzazione del cannocchiale e delle scoperte che ne seguirono? 2. Perché, nelle parole di Garin, Galileo si sente filosofo «in senso tutto nuovo» (r. 15)? Che cosa gli appare chiaro? 3. Qual è il rapporto fra fede e filosofia messo in luce nel testo? 4. Con quali aggettivi viene definita la filosofia? 5. Qual è il compito della verità? Perché la scelta del volgare?

Produzione

Galileo rappresenta l’immagine del nuovo scienziato, che combatte la cultura scientifica tradizionale (di stretta osservanza aristotelica) in nome di una verità scientifica basata su «sensate esperienze» e «necessarie dimostrazioni». Come sostiene l’autore del testo Garin, però, non per questo egli nega l’esperienza della fede: scienza e fede non sono in conflitto perché si muovono su piani diversi, sono due diversi sguardi sul mondo, indipendenti fra loro. In questi ultimi anni la scienza ha compiuto passi da gigante, arrivando a conquiste considerate impensabili solo qualche tempo fa (pensa all’ingegneria genetica, per fare solo un esempio); ma ciò ha sollevato anche interrogativi e delicate questioni. Tu che cosa pensi a questo proposito? Ritieni che lo sviluppo della scienza possa attaccare la possibilità di una fede o, al contrario, arricchisca la sua complessità? Esprimi le tue considerazioni su questo aspetto sulla base delle tue conoscenze, sviluppandole in un testo argomentativo in cui tesi e argomenti siano organizzati in un discorso coerente e coeso.

Verso l’esame di Stato Tipologia C Riflessione critica di carattere espositivo-argomentativo su tematiche di attualità Testo tratto dal discorso di Rita Levi Montalcini tenuto il 13.2.2001 nella sala della Biblioteca di Montecitorio

«Ho speso tutta la mia vita per la libertà della scienza e non posso accettare che vengano messi dei chiavistelli al cervello: l’ingegno e la libertà di ricerca è quello che distingue l’Homo sapiens da tutte le altre specie… Solo in tempi bui la scienza è stata bloccata. Oggi più che mai bisogna affermare il principio 5 che gli scienziati hanno il diritto di partecipare alle decisioni politiche piuttosto che essere vittime di movimenti oscurantisti ed antiscientisti».

Alla luce delle parole di Rita Levi Montalcini, sviluppa il tema del difficile rapporto tra libertà di pensiero, autonomia della ricerca scientifica e potere politico. Ritieni che la rivendicazione di autonomia della scienza possa rappresentare ancora oggi una minaccia per il potere? Pensi che il dialogo tra gli scienziati, in quanto intellettuali, possa incidere sulle scelte e sul destino delle nazioni? Sviluppa sul tema una tua riflessione critica, facendo riferimento a tue conoscenze ed esperienze. Puoi articolare il tuo elaborato in paragrafi opportunamente titolati e presentarlo con un titolo complessivo che ne esprima sinteticamente il contenuto.

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Seicento Galileo Galilei

Sintesi con audiolettura

1 Ritratto d’autore

Le prime fasi di una vita votata alla scienza Galileo Galilei nasce a Pisa nel 1564 da famiglia fiorentina. Nel 1592, pur non essendo laureato (aveva interrotto gli studi di medicina, ma i suoi interessi si erano rivolti sin da subito alla matematica), ottiene la cattedra universitaria di matematica a Padova, dove, grazie alle sue opere ingegneristiche e ai suoi esprimenti, ha un vasto consenso, ma si fa anche numerosi nemici che lo denunciano al Tribunale dell’Inquisizione. Nel 1609 idea il cannocchiale con il quale osserva il cielo e compie straordinarie scoperte astronomiche, che mettono in crisi la visione cosmologica sostenuta dalla Chiesa. L’anno successivo con la pubblicazione del Sidereus nuncius raggiunge la notorietà. La battaglia per un nuovo sapere Nodo cruciale della vicenda umana e professionale di Galileo è il contrastato rapporto che egli ha con la Chiesa – acuitosi a partire dal suo arrivo a Firenze, dove svolge l’incarico di matematico di corte del granduca di Toscana – che osteggia le teorie copernicane. Nel 1611 diventa membro dell’Accademia dei Lincei; tra il 1613 e il 1615 scrive quattro lettere, poi definite Lettere copernicane,

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in cui affronta il rapporto tra scienza e verità di fede, teorizzando la necessità di una autonomia tra i due ambiti; nel 1623, anno dell’elezione al soglio pontificio con il nome di Urbano VIII di Matteo Barberini, uomo colto e aperto, Galileo espone le teorie del nuovo metodo scientifico nel Saggiatore. Il processo, la sconfitta, l’abiura Nella speranza di far accettare le teorie copernicane alla Chiesa, Galileo inizia a elaborare il Dialogo sopra i massimi sistemi del mondo tolemaico e copernicano che verrà pubblicato nel 1632. La Chiesa reagisce convocandolo a Roma, dove egli viene accusato di eresia, torturato e costretto alla pubblica abiura nel giugno del 1633; il Dialogo viene inserito nell’Indice dei libri proibiti. Nonostante le ingiustizie subite e la successiva condanna a una sorta di detenzione domiciliare, Galileo continua a lavorare di nascosto alle sue ricerche, i cui risultati sono raccolti nei Discorsi, che vengono pubblicati fuori dall’Italia, a Leida, nel 1638. Nel 1642 Galileo muore ad Arcetri all’età di 77 anni. Nel 1822 il Dialogo viene rimosso dall’Indice dei libri proibiti e, soltanto nel 1992, la figura dello scrittore-scienziato viene pienamente riabilitata, su iniziativa di papa da papa Giovanni Paolo II. La fiducia nella ragione e la fondazione del nuovo metodo scientifico Galileo per tutta la vita spera nella possibilità di conquistare, grazie alla fiducia nella ragione e nelle indiscutibili verità della scienza, l’adesione della Chiesa alla causa del progresso. Aspirazione che si rivela irrealizzabile perché la Chiesa non accetterà mai un metodo di ricerca – fondato sull’esperienza sensibile e l’osservazione diretta - che mina alle radici il principio di autorità e il dogmatismo.

2 Galileo scienziato-scrittore

Galileo è una figura eclettica: si occupa di scienza ma anche di arte e di letteratura. Da ciò deriva la sua abilità come divulgatore chiaro e capace di interessare un vasto pubblico. La qualità letteraria delle opere di Galileo permette di ascrivere lo scrittore tra i grandi della letteratura italiana. Il Sidereus Nuncius La prima opera pubblicata di Galileo è il Sidereus Nuncius (1610), scritto in latino, nel quale egli espone i risultati delle sue osservazioni astronomiche effettuate con l’impiego del cannocchiale. Le Lettere copernicane Tutte le opere di Galileo dopo il Sidereus Nuncius sono scritte in volgare, in quanto animate da un intento comunicativo e persuasivo e dall’esigenza di rivolgersi a un ampio pubblico. Ciò si riscontra sin dalla pubblicazione delle cosiddette Lettere copernicane, quattro lettere scritte tra il 1613 e il 1615, che possono essere considerate un manifesto per l’autonomia della scienza. Sono indirizzate a diversi personaggi, ma la vera destinataria è la Chiesa. La prima è rivolta a padre Benedetto Castelli e le due successive a monsignor Pietro Dini; l’ultima è diretta alla Granduchessa di Toscana Cristina di Lorena. In esse Galileo si occupa del rapporto tra verità scientifiche e Sacre Scritture. La scelta di comunicare questi importanti argomenti attraverso la forma epistolare è forse legata al tentativo di eludere la censura, grazie al carattere informale dell’opera. Il saggiatore Nel 1616 la Chiesa vieta la diffusione e il sostegno delle teorie copernicane e Galileo indirizza i suoi studi verso altri settori. Nel 1623 pubblica Il Saggiatore, opera che trae spunto da una polemica di Galileo con l’astronomo gesuita Orazio Grassi, in merito al fenomeno dell’apparizione delle comete. Nel testo l’autore chiarisce il senso di un metodo scientifico fondato su regole matematiche e geometriche, guidato non dal rispetto dell’auctoritas ma dall’indagine sperimentale.

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Le teorie di Galileo sulla natura delle comete si rivelano infondate, ma nulla toglie al valore del Saggiatore, esemplare per chiarezza e costruzione logico-argomentativa e rivoluzionaria per l’uso del volgare in una trattazione scientifico-filosofica. Il Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo tolemaico e copernicano Il capolavoro di Galileo è il Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo tolemaico e copernicano pubblicato nel 1632, che può essere definito un «manifesto diretto a rinnovare la cultura». L’opera, che intende sostenere la superiorità del copernicanesimo sul geocentrismo e sulle teorie di Aristotele, si configura come un dialogo di tipo umanistico, condotto attraverso una discussione libera e pacata che si immagina aver luogo in quattro giornate a Venezia, nel palazzo di Giovanfrancesco Sagredo, in un clima culturale aperto e tollerante. I tre interlocutori – Simplicio, Salviati e Sagredo – raffigurano rispettivamente l’intellettuale tradizionale che perpetua la visione aristotelica della realtà, lo scienziato autorevole e il dilettante entusiasta delle recenti scoperte, curioso delle novità e dotato di senso pratico. Proprio la caratterizzazione dei personaggi suscita la reazione dell’Inquisizione: in particolare, il fatto che Galileo faccia pronunciare la professione di superiorità della fede sulla scienza (richiesta per consentire la pubblicazione dell’opera) al più sciocco degli interlocutori (Simplicio, appunto). Lo stile del dialogo è caratterizzato da un linguaggio informale, a volte vicino al parlato ma pur sempre elegante.

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Zona Competenze Scrittura

1. Il nuovo metodo scientifico di Galilei: spiegane le procedure e la portata rivoluzionaria; confrontalo poi con i metodi tradizionali di studio e di ricerca tipici della mentalità medievale. 2. Il Saggiatore: esponi argomento, caratteristiche stilistiche e le ragioni che hanno portato Galileo alla scelta del titolo. Perché quest’opera diviene simbolo di un metodo scientifico preciso e rigoroso?

Lavoro di gruppo

3. Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo. Proemio.

Al discreto lettore Si promulgò a gli anni passati in Roma un salutifero editto1, che, per ovviare a’ pericolosi scandoli dell’età presente, imponeva opportuno silenzio all’opinione Pittagorica della mobilità della Terra2. Non mancò chi temerariamente asserí, quel decreto essere stato parto non di giudizioso esame, ma di passione troppo poco informata, e si udirono querele che consultori totalmente inesperti delle osservazioni astronomiche non dovevano con proibizione repentina tarpar l’ale a gl’intelletti speculativi. Non poté tacer il mio zelo in udir la temerità di sí fatti lamenti3. Giudicai, come pienamente instrutto di quella prudentissima determinazione, comparir publicamente nel teatro del mondo4, come testimonio di sincera verità. […] A questo fine ho presa nel discorso la parte Copernicana, procedendo in pura ipotesi matematica […]. Spero che da queste considerazioni il mondo conoscerà, che se altre nazioni hanno navigato piú, noi non abbiamo speculato meno, e che il rimettersi ad asserir la fermezza della Terra, e prender il contrario solamente per capriccio matematico, non nasce da non aver contezza di quant’altri ci abbia pensato, ma, quando altro non fusse5, da quelle ragioni che la pietà, la religione, il conoscimento della divina onnipotenza, e la coscienza della debolezza dell’ingegno umano, ci somministrano».

1 salutifero editto: riferimento alla cen-

3 si udirono... lamenti: si sentirono la-

4 Giudicai... mondo: pienamente consa-

sura, operata dal Sant’Uffizio il 24 febbraio 1616, delle tesi dell’immobilità del Sole e del movimento della Terra. 2 opinione... Terra: il pitagorico Filolao (sec. V a.C.) per primo intuì il moto terrestre.

mentele secondo cui teologi del Sant’Uffizio, inesperti di osservazioni astronomiche, non avrebbero dovuto, con una decisione così drastica, tarpare le ali ai ricercatori. Non potei non dissentire su queste sconsiderate lamentele.

pevole di quella decisione molto saggia, ritenni doveroso dichiarare pubblicamente le mie convinzioni. 5 altro non fusse: non vi fosse altra ragione.

Partendo dall’analisi e dall’interpretazione di questi passi tratti dal Proemio al Dialogo, che Galileo dovette concordare con un frate domenicano per ottenere l’autorizzazione alla stampa, preparate una relazione da presentare alla classe allo scopo di ricostruire l’atteggiamento che lo scienziato sostenne nei confronti della Chiesa e le diverse forme con cui tentò di aggirarne le restrizioni e i divieti. Scrittura argomentativa

4. Il conflitto fra scienza e potere caratterizza, in maniera più o meno profonda, le società di ogni tempo, non solo quelle di epoche remote. Nelle discussioni che su questo aspetto si sono accese in anni recenti entrano naturalmente in gioco anche interessi economici, i quali condizionano qualsiasi tipo di scelta e posizione. Sapresti fare qualche esempio a questo proposito? Quale pensi che dovrebbe essere, in una società ideale, il giusto rapporto fra scienza e potere? Motiva la tua risposta in uno scritto di max 15 righe.

146 Seicento 3 Galileo Galilei


Seicento CAPITOLO

4 Il rinnovamento delle forme narrative

Il periodo a cavallo tra Cinquecento e Seicento si contraddistingue per una marcata tendenza all’innovazione che si manifesta nel Manierismo e nel Barocco. Le tensioni all’innovazione, anche in ambito formale, si esplicano nella prosa di Giovan Battista Basile, che per il suo Cunto de li cunti opta per un dialetto espressivo e artisticamente elaborato. Contemporaneamente al decadere dell’epos si sviluppa il romanzo, destinato a diventare il genere della modernità. Il Don Chisciotte di Cervantes segna il confine tra due epoche. Posto a conclusione di una lunga tradizione letteraria che va dalle chansons de geste ai poemi cavallereschi, al capolavoro ariostesco, innestati sullo scenario realistico del romanzo picaresco spagnolo, il fulcro tematico del Don Chisciotte – il contrasto tra il punto di vista immaginoso ed esaltato del protagonista e la prosaica realtà che lo circonda – anticipa il relativismo conoscitivo del Novecento e lo rende il primo vero romanzo moderno. Raramente un libro ha saputo coniugare mondo popolare e mondo colto, facendo riflettere su temi universali come il rapporto tra letteratura e vita, la verità e l’illusione, la diversità dei punti di vista, il valore degli ideali che trasfigurano la vita.

fiabe, il poema 1 Le“eroicomico” e il romanzo

origini del 2 Alle romanzo moderno: il Don Chisciotte

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Le fiabe, il poema “eroicomico” e il romanzo ripresa barocca della fiaba: 1 La Lo cunto de li cunti di Giovan Battista Basile La metamorfosi barocca e le fiabe Come si è detto, una delle principali caratteristiche dello stile barocco è il susseguirsi incalzante di immagini e di metafore, a produrre l’effetto di un continuo processo metamorfico. Ed è per questo motivo che le fiabe – da sempre animate da trasformazioni “meravigliose” e improvvise, da cambiamenti di stato e di natura inaspettati e fantastici –, tramandate in tradizioni secolari per lo più solo orali, almeno inizialmente, assumono per la prima volta nel Seicento una dignità letteraria. E non è allora un caso che il capolavoro della letteratura italiana barocca in prosa sia considerato Lo cunto de li cunti di Giovan Battista Basile. La raccolta, la prima del genere in Europa, fu tradotta in diverse lingue e divenne modello per gli autori di fiabe europei, da Charles Perrault ai fratelli Grimm. L’autore Giovan Battista Basile nasce verso il 1570, probabilmente a Napoli, dove trascorre la prima giovinezza. Soldato nell’esercito veneziano, in seguito diventa cortigiano a Mantova e in alcune piccole corti del napoletano, dove svolge mansioni di segretario, di organizzatore di feste, di compositore di poesie e di canzoni. Ha una certa fortuna come autore in lingua, e soltanto nei suoi ultimi anni si dedica alla produzione in dialetto. Dopo la sua morte (nel 1632) fu pubblicato Lo cunto de li cunti, il suo capolavoro, in cinque volumi, editi tra il 1634 e il 1636.

Giovan Battista Basile in un’incisione del XVII secolo.

Il rovesciamento ironico del Decameron Lo cunto de li cunti overo lo trattenemiento de’ peccerille (“Il racconto dei racconti ovvero l’intrattenimento dei fanciulli”) è una raccolta di fiabe, che Basile attinse dalla cultura popolare e rielaborò in forma artistica, scrivendole in dialetto napoletano, in un estroso e vivace stile barocco. Destinate a essere lette ad alta voce durante gli svaghi cortigiani, le fiabe mantengono la vivacità della narrazione orale, ma rivelano anche una notevole raffinatezza letteraria. Già la struttura del libro fonde elementi colti e popolari: riprende infatti la struttura a cornice del Decameron (e delle Mille e una notte), con dieci narratori (in questo caso narratrici), che raccontano una novella al giorno; siccome le giornate in cui si raccontano le novelle sono cinque, le fiabe sono complessivamente cinquanta, per cui il libro fu detto anche Pentamerone. Rispetto al Decameron, tuttavia, la situazione è comicamente rovesciata. Ai giovani nobili e cortesi della raccolta boccaccesca si sostituiscono vecchie popolane dall’aspetto grottesco e deforme, come indicano i loro soprannomi, che alludono a vari difetti fisici: vi sono una “nasuta”, una “gozzuta”, una “labbrona”, e così via.

148 Seicento 4 Il rinnovamento delle forme narrative


La struttura Nel racconto principale, che costituisce la cornice del libro, ne sono incastonati altri 49 (di qui il titolo Lo cunto de li cunti), con una struttura che si ispira al modello orientale delle Mille e una notte. La trama Un re è preoccupato perché la figlia, la principessa Zosa, è sempre triste, perciò fa porre davanti al palazzo una fontana d’olio, per provocare qualche scena divertente e farla ridere, e così avviene. Un dispettoso paggio di corte, infatti, con una sassata rompe l’oliera di una vecchietta intenta ad attingere l’olio; questa prorompe in epiteti così coloriti che Zosa non può trattenere le risa. Offesa, l’anziana donna le lancia una maledizione: la fanciulla potrà sposarsi soltanto con un principe che giace addormentato, svegliandolo dopo aver riempito una brocca di lacrime. Zosa sta per riuscire nel suo intento, quando, sfinita, si addormenta; allora una schiava nera, Lucia, fa credere di essere stata lei la salvatrice del principe, che, ingannato, la sposa. Zosa però non si arrende: si trasferisce in una casa vicina a quella dei due sposi e riesce a suscitare nella rivale il desiderio di ascoltare fiabe. Il principe chiama allora dieci novellatrici, ma il quinto e ultimo giorno la principessa si sostituisce a una di queste e narra tutta la sua disavventura. L’inganno è così svelato: Lucia viene condannata e Zosa può finalmente sposare il principe. La prevalenza della fortuna sulle capacità umane Anche a livello tematico Lo cunto de li cunti si contrappone al Decameron, che celebrava il trionfo di virtù borghesi come l’intelligenza e l’iniziativa personale. Le fiabe di Basile riflettono invece lo spirito di un’epoca meno fiduciosa nelle possibilità umane di dominare l’irrazionalità degli eventi: i successi dipendono perciò più dal caso che dall’iniziativa umana. Ne è un esempio il protagonista della terza fiaba della prima giornata (➜ T1 OL), Peruonto, il quale, pur essendo definito dallo stesso narratore «il più disgraziato, il più grosso stupido e il più solenne babbeo che la Natura avesse mai prodotto», alla fine è premiato con nozze principesche. Lo stile, tra barocco e folclore napoletano I racconti di Basile sono uno splendido esempio di stile barocco, in cui, con estrema originalità, il napoletano popolaresco e i dettagli realistici attinti alla vita quotidiana si fondono con citazioni colte, riferimenti letterari peregrini, metafore fantasiose. I diversi livelli stilistici si armonizzano grazie all’ironia, uno dei maggiori pregi del libro.

Lo cunto dei cunti e Decameron a confronto

Lo cunto de li cunti, un “anti-Decameron”

perché

• i narratori non sono giovani, ma donne anziane dall’aspetto grottesco • le storie narrate non sono storie realistiche, ma fiabe • prevalgono non l’ingegno e le capacità umane, ma i capricci della fortuna

online T1 Giovan Battista Basile

La fiaba delle metamorfosi: Peruonto Lo cunto de li cunti overo lo trattenemiento de’ peccerille, Trattenimento terzo della giornata prima

Le fiabe, il poema “eroicomico” e il romanzo 1 149


PER APPROFONDIRE

Le metafore come micro-racconti Le favole di Basile forniscono uno degli esempi meglio riusciti della creatività inesauribile delle metafore barocche. Così ad esempio, le indicazioni delle ore del giorno in cui si svolgono le favole, e in particolare l’alba e il tramonto, assumono un volto sempre nuovo, quasi di micro-racconti inseriti nella narrazione principale, grazie a metafore tratte dai più diversi ambiti della realtà: la cavalleria, l’esercito, il tribunale, gli sbirri, la scuola, il banco dei creditori, la medicina, le fatiche dei contadini, le faccende domestiche. • «quando gli uccelli, trombettieri dell’Alba, suonano il “tutti a cavallo”, affinché le ore del giorno si mettano in sella» • «era uscita l’Alba a ungere le ruote del carro del Sole e, per la fatica di togliere con la mazza l’erba dal mozzo della ruota, s’era fatta rossa come una mela vermigliona» • «prima che il Sole prendesse a istruire i suoi cavalli a saltare per il cerchio dello zodiaco»

• «quando il Sole, giocando a dare mani con lo spadone della luce in mezzo alle stelle, grida: “indietro, canaglia!”» • «Tostoché per la visita del Sole, furono liberate tutte le ombre che erano state messe in carcere dal tribunale della Notte» • «quando le ombre della Notte, perseguitate dagli sbirri del Sole, sfrattano il paese» • «Già gli uccelli riferivano all’ambasciatore del Sole tutti gli imbrogli e le trappolerie che s’erano fatte nella notte» • «tosto che il Sole aprí banco per liberare il deposito della luce ai creditori del giorno» • «quando al mattino la Luna, maestra delle ombre, concede feria alle discepole per la festa del Sole» • «innanzi che l’Alba spandesse la coperta di Spagna rossa per scuotere le pulci alla finestra d’oriente». Esempi tratti da I. Calvino, La mappa delle metafore, Prefazione a G. Basile, Fiabe, a c. di B. Croce, Laterza, Roma-Bari 1974

2 Il poema “eroicomico”: il rovesciamento ironico dell’epos Il poema “eroicomico” La tendenza a contaminare generi e linguaggi letterari e popolari riscontrata nei racconti di Basile è una caratteristica tipicamente barocca. Un altro esempio, anche in questo caso segnato dalla rivisitazione ironica, è l’invenzione secentesca del poema “eroicomico”, con La secchia rapita (stampata a Parigi nel 1622 e poi a Venezia nel 1630) di Alessandro Tassoni (1565-1635), in cui il genere epico è parodizzato attraverso un gioco di alternanze tra serio e comico. Da un punto di vista formale, La secchia rapita è un poema epico: è incentrato infatti su un episodio bellico, il conflitto tra i due comuni rivali di Modena e di Bologna, e presenta le principali caratteristiche del genere, dall’invocazione alle Muse agli interventi divini, alla scelta metrica dell’ottava. L’intento parodico Tuttavia l’opera ha un intento parodico e mescola dichiaratamente gli schemi propri della poesia epica con elementi propri di quella comicorealistica (così lo stesso Tassoni: «l’autore compose questo poema [...] per passatempo e per curiosità di vedere come riuscivano questi due stili mischiati insieme, grave e buffonesco»): la guerra, infatti, non è scatenata dal rapimento di una donna bellissima come Elena di Troia, ma da quello di una comune secchia di legno, “rapita” a un pozzo bolognese; il conflitto non coinvolge l’intera cristianità, ma è soltanto una scaramuccia fra due comuni rivali (➜ T2 ). Il protagonista stesso del poema, il conte di Culagna, non è un eroe, ma è un vile, ed è talmente inetto che riesce a sconfiggere un avversario soltanto perché un incantesimo lo aveva destinato a cedere al più codardo e inetto dei cavalieri. In questa mescolanza e di materiali e di stili consiste la novità del poema, di cui Tassoni stesso, come abbiamo visto, si vanta: «è la scoperta della relatività di tutti i linguaggi: eroico, comico, lirico, burlesco, dotto, cavalleresco» (Bàrberi Squarotti).

Il poema "eroicomico": La secchia rapita La secchia rapita, una parodia del poema epico

150 Seicento 4 Il rinnovamento delle forme narrative

• inizia dal rapimento non di una donna (come Elena di Troia), ma di una secchia di legno • il protagonista non è un eroe, ma un inetto • lo stile, spesso aulico, è infarcito di elementi comici


Alessandro Tassoni

T2

Il proemio: Elena trasformata in una secchia di legno La secchia rapita canto I, ottave 1-2

A. Tassoni, La secchia rapita, a c. di F.L. Mannucci, Utet, Torino 1928

Presentiamo le due ottave proemiali della Secchia rapita, che mettono in luce la commistione di serio e di comico che caratterizza il poema.

1 Vorrei cantar quel memorando sdegno1, ch’infiammò già ne’ fieri petti umani2, un’infelice e vil3 secchia di legno, che tolsero ai Petroni4 i Gemignani5. Febo, che mi raggiri entro lo ’ngegno6 l’orribil guerra e gli accidenti7 strani, tu, che sai poetar, servimi d’aio8 e tiemmi per le maniche del saio9. 2 E tu, nipote del rettor del mondo, del generoso Carlo ultimo figlio10, ch’in giovinetta guancia e ’n capel biondo copri canuto senno, alto consiglio11; se dagli studi tuoi di maggior pondo volgi tal or, per ricrearti, il ciglio12, vedrai s’al cantar mio porgi l’orecchia, Elena trasformarsi in una secchia13.

La metrica: Ottave di endecasillabi, con schema ABABABCC 1 memorando sdegno: ira memorabile. L’inizio del poema riprende con intento parodico il più famoso poema epico, l’Iliade, che si apre con l’ira di Achille. 2 ch’infiammò… umani: che un tempo suscitò negli spietati animi degli uomini. Il soggetto è la secchia del v. 3. 3 un’infelice e vil: un’infausta e misera. 4 ai Petroni: ai bolognesi, indicati con il nome del loro patrono, san Petronio. 5 i Gemignani: gli abitanti di Modena, il cui patrono è san Geminiano (o Gimignano, Gemignano). 6 Febo… lo ’ngegno: Apollo, tu che ispiri

alla mia mente. È l’invocazione, elemento canonico del proemio dei poemi epici. 7 accidenti: avvenimenti. 8 servimi d’aio: fammi da precettore. 9 tiemmi… saio: tienimi per le maniche della veste, ovvero chiede ad Apollo di seguirlo passo passo tenendolo per mano, come un bambino che stia imparando a camminare. Il tono elevato dei primi versi dell’ottava si abbassa bruscamente, scendendo ad un livello popolaresco, e il dio Apollo viene degradato al rango di un precettore che guida il discepolo irrequieto e svogliato. 10 E tu… figlio: il poema è dedicato al giovane Antonio Barberini, figlio di Carlo, e nipote di papa Urbano VIII.

11 ch’in giovinetta… consiglio: che sotto il viso da giovinetto e i capelli biondi celi una saggezza da uomo anziano (canuto, “dai capelli bianchi”), e una profonda sapienza. Il ragazzo era soltanto diciassettenne quando gli fu dedicato il poema. 12 dagli studi… ciglio: volgi ogni tanto, per distrarti da studi di maggior impegno, gli occhi. Lo stile è ironicamente sostenuto: pondo, “peso”, è un latinismo; ciglio è una metonimia per “occhi”. Il riferimento a studi molto impegnativi del giovane ragazzo è probabilmente ironico. 13 Elena… secchia: come Elena fu causa della guerra di Troia, così la secchia è causa del conflitto tra Modena e Bologna.

Le fiabe, il poema “eroicomico” e il romanzo 1 151


Analisi del testo Un poema eroico ineccepibile dal punto di vista formale Le due ottave mostrano le caratteristiche dell’opera, dal punto di vista formale perfettamente in linea con il canone del poema epico. Secondo il canone del genere, il proemio è costituito da tre parti: l’esposizione dell’argomento, l’invocazione e la dedica. Spiccano i riferimenti al più antico modello epico, l’Iliade, con il tema dell’ira, provocata là, nell’opera omerica, dal rapimento di Elena, qui dalla sottrazione di un oggetto prosaico come una secchia. Anche i sentimenti eroici dei protagonisti sembrerebbero degni di un poema epico: si parla infatti di «memorando sdegno», di «fieri petti», di «orribil guerra». Tipica del poema epico è poi l’invocazione, in questo caso, ad Apollo. Anche lo stile è retoricamente elaborato e sostenuto, impreziosito da figure retoriche (ad es., il chiasmo «l’orribil guerra e gli accidenti strani» al verso 6 (ott. 1), le metonimie, la perifrasi iperbolica con cui è indicato il papa al verso 1 dell’ottava 2, con un lessico ricco di latinismi e di aggettivi che, com’è nel genere epico, sottolineano eventi e personaggi, accrescendone l’importanza: «memorando», «fieri», «orribil», «generoso Carlo».

La mescolanza di livelli stilistici contrastanti Lo stile sostenuto non è però uniforme, bensì caratterizzato da cadute parodiche nel prosastico e nel comico, che suscitano un effetto di sorpresa, tipicamente barocco, per lo scarto tonale e per gli accostamenti inaspettati, come quello fra l’ardimento dei combattenti e la viltà dell’oggetto di contesa, o fra il dio mitologico ispiratore della poesia e il prosastico precettore, o, negli ultimi due versi, la metamorfosi della bellissima Elena, causa di guerra per gli antichi greci, nella «vil» secchia. Diversamente da quanto avviene nei poemi epici, in cui il distico finale dell’ottava tende a innalzarsi di tono, nel poema di Tassoni il livello stilistico tende ad abbassarsi proprio a fine ottava, come un controcanto ironico all’eroica intonazione iniziale.

La polemica contro le vuote forme del classicismo Più che per il suo valore letterario, non eccelso, il poema è significativo per il ripudio del classicismo. In tutte le sue opere, Tassoni contesta il principio di imitazione: critica il petrarchismo nelle Considerazioni sopra le rime del Petrarca; contesta il modello linguistico di Bembo, ritenendo che la lingua debba evolversi nel tempo in piena libertà, senza costrizione di modelli del passato; sostiene la superiorità dei moderni sugli antichi. Con l’operazione parodica della Secchia rapita lo scrittore intende mostrare che le regole classicistiche costituiscono solo degli schemi formali adattabili a ogni contenuto, anche a quelli poco importanti o addirittura marginali o insignificanti. Il rischio della poetica dell’imitazione, da cui l’autore vuole mettere in guardia, è quello di considerare le forme più importanti dei contenuti e di bloccare la naturale evoluzione dei generi nel loro adattamento ai tempi

Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

SINTESI 1. Indica con i versi corrispondenti le tre parti in cui, secondo le regole classicistiche, il proemio può essere suddiviso e fai la sintesi di ciascuna parte. LESSICO 2. Redigi una tabella costituita da due colonne: nella prima inserisci i termini e le espressioni che appartengono al registro alto tipico della poesia epica; nella seconda quelli propri dello stile comico-prosastico.

Interpretare

TESTI A CONFRONTO 3. Presenta oralmente (max 3 minuti) un confronto tra la dedica della Secchia rapita e quella dell’Orlando Furioso, mettendo in luce come quella di Tassoni rappresenti una parodia quasi puntuale dei versi di Ariosto.

152 Seicento 4 Il rinnovamento delle forme narrative


3 Il nuovo genere del romanzo Dall’epos al romanzo Il genere più significativo della letteratura del Seicento nell’ambito delle forme narrative, è il romanzo in prosa, che in questo periodo comincia ad assumere quel ruolo predominante nel panorama letterario e nel costume sociale che sarebbe andato via via crescendo nel tempo fino all’epoca attuale. A differenza dell’epos, che rappresenta i valori di una collettività, ormai ben poco sentiti, il romanzo si incentra sul singolo individuo e sul suo rapporto con il mondo che lo circonda; come genere non vincolato a un sistema di regole classicistiche, perché nato nella tarda antichità, era particolarmente adatto allo spirito innovativo della letteratura barocca. E il pubblico mostrò di apprezzare particolarmente il nuovo genere, tanto da stimolare una vastissima produzione, destinata però a vita breve. Come spiega il critico Michail Bachtin (1895-1975) nel suo importante studio Estetica e romanzo, in origine due sono i tipi di romanzo: «di avventure e di prove» (di matrice ellenistica) e «di avventure e di costume» (nato in età imperiale romana). Entrambe le tipologie sono testimoniate nella cultura del XVII secolo. Il romanzo di evasione Il primo tipo di romanzo ha un carattere di intrattenimento; in genere narra le vicende di due giovani, che, separati da avverse fortune, possono incontrare i più vari ostacoli (naufragi, tempeste, rapimenti, assalti di pirati, riduzione in schiavitù, morti presunte, travestimenti, scambi di persona, rapine di briganti, tentativi di seduzione), ma alla fine si riuniscono felicemente e coronano il loro amore. In epoca barocca i romanzi di questo genere sono numerosi; in Italia il più celebre è il Calloandro fedele (1653), scritto da un ecclesiastico genovese, Giovanni Ambrogio Marini, che introduce nella sua narrazione numerosi elementi tratti dal poema cavalleresco, soprattutto dalla Gerusalemme liberata. Nella trama dominano gli equivoci, i travestimenti, gli scambi di persona, in particolare quelli tra i due protagonisti, Calloandro e Leonilda, che, nati nello stesso istante, sono quasi identici avendo ricevuto i medesimi influssi astrologici. Il romanzo come rappresentazione realistica e critica Il secondo tipo di romanzo (i cui modelli sono latini: il Satyricon di Petronio e L’asino d’oro di Apuleio) ha un intento non di evasione, ma di rappresentazione oggettiva e critica. L’ambiente sociale che circonda il protagonista assume un’importanza centrale ed è posto in rilievo dal punto di vista “straniato” dell’osservatore: nel Satyricon quello di avventurieri di dubbia moralità, nel romanzo di Apuleio quello del protagonista Lucio, che, per magia, si trasforma in asino; ritenendolo una bestia, nessuno alla sua presenza ha ritegno a comportarsi nei modi più immorali, che lo scrittore ritrae con crudo realismo. online

Sguardo sull’arte La miseria nell’arte del Seicento

Il romanzo picaresco spagnolo Questa prospettiva di osservazione “dal basso” caratterizza anche il romanzo picaresco spagnolo, che ha per protagonista il pícaro, un popolano scaltro e privo di scrupoli, il quale per campare vive mille avventure. Il romanzo picaresco è inaugurato da un’opera di autore anonimo, Lazarillo de Tormes, pubblicata con grande successo nel 1544. Lo schema narrativo è semplice: un ragazzo poverissimo passa, come servitore, da un padrone all’altro, affinando l’arte di sopravvivere attraverso i più vari espedienti: ha così modo di conoscere diverse categorie sociali e vari ambienti della Spagna del tempo che rivelano ai suoi occhi una realtà fatta di miseria, sfruttamento, abiezione.

Le fiabe, il poema “eroicomico” e il romanzo 1 153


Il pícaro non ha morale e perciò si adatta a tale realtà degradata. Il suo unico scopo è sopravvivere: perciò cerca di comprendere i meccanismi, spesso immorali e spietati, del mondo che lo circonda, per poterli sfruttare a proprio vantaggio, nella sua continua lotta per non soccombere (➜ T3 OL). Date le misere origini, i protagonisti dei romanzi picareschi devono costantemente combattere contro la miseria e la fame, fame che è il vero filo conduttore di questi romanzi, il motore dell’azione, l’inseparabile compagna del pícaro. L’intento principale del romanzo picaresco è una critica della società, di cui l’autore non si assume la responsabilità in prima persona, ma che affida allo sguardo ingenuo, e allo stesso tempo disincantato, del protagonista. online T3 L’apprendistato dell’eroe picaresco T3a L’insegnamento del cieco: «saperne una più del diavolo»... Lazarillo de Tormes T3b Lazarillo mette a profitto la lezione con il prete avaro Lazarillo de Tormes

Fissare i concetti Le fiabe, il poema “eroicomico” e il romanzo 1. In che modo l’epoca barocca segna una svolta per il genere della fiaba? 2. In quali aspetti la raccolta di fiabe Lo cunto de li cunti di Giovan Battista Basile riprende il Decameron, il capolavoro di Giovanni Boccaccio? Quali aspetti di originalità presenta? 3. Qual è l’intento dei poemi “eroicomici”? 4. Quali caratteristiche del poema epico sono rintracciabili nel poema La secchia rapita di Alessandro Tassoni? Quali della poesia comico-realistica? 5. Quali sono i tratti caratteristici del pícaro? 6. In che modo si esprime la tendenza all’innovazione nella produzione letteraria del Seicento?

Caravaggio, I bari, 1595 (Fort Worth, Kimbell Art Museum): un giovane ingenuo sta pensando a quale carta giocare, mentre un uomo alle sue spalle sbircia il suo mazzo e fa segno con le dita quale ne sia il valore al complice, che estrae dalla cintura una delle carte preventivamente nascoste.

154 Seicento 4 Il rinnovamento delle forme narrative


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Alle origini del romanzo moderno: il Don Chisciotte

Il Don Chisciotte, di Miguel de Cervantes, è sicuramente uno dei capolavori della letteratura europea. Pubblicato in due parti, la prima nel 1605, la seconda nel 1615, il romanzo è incentrato sulla figura e le avventure di un rappresentante della piccola nobiltà di provincia. Fanatico lettore di romanzi cavallereschi, a un certo punto decide di farsi cavaliere errante, per riportare nel mondo il bene e la giustizia. Don Chisciotte si immedesima a tal punto nella parte da trasfigurare la realtà, vedendola attraverso il filtro delle letture predilette, senza accorgersi che il mondo del suo tempo è ben lontano da quello idealizzato delle narrazioni cavalleresche. Dal contrasto tra la realtà del tempo di Cervantes, squallida e prosaica, del tutto aliena dagli ideali cavallereschi, e la sua trasfigurazione nell’immaginazione visionaria del protagonista scaturiscono innumerevoli situazioni umoristiche e paradossali che Presunto ritratto di Miguel de Cervantes, attribuito a Juan de Jauregui (Madrid, Reale non solo divertono, ma fanno riflettere: le vicende di Accademia spagnola della lingua). Don Chisciotte, infatti, inducono il lettore a mettere in discussione l’idea di una realtà univoca e monolitica e a comprendere che esistono tanti modi di vedere il mondo quanti sono gli uomini. Da qui la modernità dell’opera: non solo una narrazione coinvolgente, ma anche una riflessione profonda sul rapporto fra l’uomo, con gli ideali e i mondi fantastici che occupano la sua fantasia, e la realtà in cui vive. Una profondità che fa del capolavoro di Cervantes il primo, grande romanzo moderno della letteratura occidentale.

1 Una vita “da romanzo” Miguel de Cervantes nasce nel 1547 ad Alcalá de Henares da una modesta famiglia. Nella prima giovinezza fugge dalla Spagna, ricercato per aver ferito un cortigiano in duello; si reca allora in Italia, dove soggiorna a Roma e a Napoli, acquisisce un’approfondita conoscenza della letteratura italiana rinascimentale ed entra nell’esercito imperiale. Nel 1571, a ventiquattro anni, Cervantes combatte eroicamente a Lepanto, perdendo per un’archibugiata l’uso della mano sinistra; in seguito dichiarerà di essere fiero della ferita riportata in una giornata così gloriosa per la cristianità, e non interromperà la carriera militare che aveva intrapreso. Nel 1575, di ritorno in Spagna, è catturato dai pirati e venduto come schiavo ad Algeri. Dopo vari tentativi di fuga, poiché la sua famiglia è riuscita a pagare l’oneroso riscatto, può finalmente tornare in Alle origini del romanzo moderno: il Don Chisciotte 2 155


Spagna. Continua a servire nell’esercito, ma come addetto all’approvvigionamento, incarico per cui deve viaggiare nei più sperduti villaggi della Spagna, dove entra in contatto con contadini, nobili di campagna, preti, viandanti conosciuti nelle locande in cui pernotta, giocolieri e saltimbanchi, proprio quel «mondo multicolore e vario che verrà meravigliosamente ritratto nel Chisciotte» (M. de Riquer). In questo periodo conosce anche il carcere, a causa del fallimento di una banca in cui aveva depositato le riscossioni statali; ed è probabilmente lì che concepisce il Don Chisciotte (El ingenioso hidalgo don Quijote de la Mancha), pubblicato nel 1605. L’opera è premiata con un meritato successo e Cervantes, prima considerato nell’ambiente letterario poco più che un dilettante, raggiunta una discreta sicurezza economica, può finalmente dedicarsi solo alla scrittura; compone così la seconda parte del Don Chisciotte (pubblicata nel 1615), le Novelle esemplari (1613) e il romanzo Le peripezie di Persile e Sigismonda, pubblicato un anno dopo la sua morte, avvenuta nel 1616.

2 L’intreccio e le fonti del Don Chisciotte La struttura e l’intreccio Il protagonista, Don Chisciotte, è un hidalgo, un piccolo nobile decaduto, appassionato lettore di romanzi cavallereschi, che, immerso nel suo mondo libresco, perde la ragione. Constatando la decadenza della Spagna e del mondo, si convince che solo i cavalieri erranti possano risollevare le sorti compromesse dell’umanità e decide di intraprendere egli stesso questa missione. Elegge una contadina, Aldonza Lorenzo, a nobile oggetto del suo amore, ribattezzandola con il pomposo nome di Dulcinea del Toboso, e si fa ordinare cavaliere da un oste (in realtà un furfante) in una taverna che scambia per un castello. Dà inizio così a una serie di avventure, (celeberrimo l’episodio in cui Don Chisciotte, convinto di affrontare dei giganti, si scontra contro i mulini a vento), accompagnato dal fedele scudiero Sancio Panza, un contadino analfabeta del luogo. Alle imprese di Don Chisciotte e del suo scudiero si intrecciano altri episodi, spesso narrati da personaggi incontrati lungo il cammino, e si aggiungono le beffe giocate da un gruppo di nobili che si diverte alle spalle del protagonista, fingendo di aderire alla sua follia cavalleresca, e i tentativi degli amici di Don Chisciotte (un barbiere, un curato, un vicino che si finge cavaliere) di riportarlo a casa per guarirlo dalla sua follia, cosa che avviene alla fine della prima parte. Nella seconda parte – meno felice, considerata dalla critica quasi un secondo, diverso, libro – Don Chisciotte e Sancho affrontano nuove avventure fino al definitivo ritorno a casa del protagonista, al suo ravvedimento che lo induce, prima di morire, a rinnegare gli ideali cavallereschi. Il rapporto con la tradizione letteraria Il Don Chisciotte è un libro che, con grande originalità, dialoga con la tradizione letteraria europea. In primo luogo con la letteratura italiana: tra le fonti di ispirazione del capolavoro di Cervantes – come i critici hanno ormai da tempo riconosciuto – è fondamentale l’Orlando Furioso, a riprova di quanto la letteratura italiana rinascimentale sia modello di riferimento per la letteratura europea. Cervantes, che aveva soggiornato a lungo nel nostro paese e conosceva la nostra letteratura, cita più volte nel suo romanzo il poema ariostesco e all’inizio dell’opera pone un sonetto in cui immagina che Orlando si rivolga a Don Chisciotte: «Orlando io son, Chisciotte, che perduto / da Angelica

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Gustave Doré, Ritratto di Don Chischiotte e Sancio Panza, illustrazione del 1863 per un’edizione dell’opera di Cervantes.

vagai per tanti mari», sottolineando così il rapporto di filiazione tra i due personaggi. Già Ludovico Ariosto aveva trasformato il poema cavalleresco da “favola” in moderna riflessione critica sul rapporto tra l’uomo e il mondo, e aveva posto al centro del suo poema la follia, vista come esito estremo di un mancato rapporto con la realtà (la pazzia del paladino è infatti scatenata dall’eccessiva idealizzazione della donna amata, Angelica). Un altro tema che lega l’Orlando furioso al romanzo di Cervantes è quello dell’inattualità dei valori cavallereschi nel mondo moderno: Ariosto l’aveva collegata a innovazioni tecnologiche come l’invenzione delle armi da fuoco, che, mutando radicalmente le tecniche belliche, non assicuravano la vittoria del più abile e valoroso ma, spesso, del più vile e scorretto. Non è un caso che Don Chisciotte, in un mondo in cui si utilizzano ormai comunemente le artiglierie, recuperi le arcaiche armi cavalleresche «piene di ruggine e di muffa» dei suoi antenati, «dimenticate in un cantuccio» (➜ T4 ). L’altro importante modello letterario del Don Chisciotte è il romanzo picaresco (➜ PAG. 153). La dimensione comica e spesso grottesca propria del romanzo di Cervantes deriva dall’incontro-scontro creato dall’autore tra l’ideale cavalleresco, che domina l’immaginario del protagonista, e una realtà popolaresca e degradata, ritratta con realismo, propria del romanzo picaresco. Pur in chiave ironica, il Don Chisciotte riprende dai romanzi picareschi la rappresentazione della Spagna dell’epoca che, sotto la grandezza imperiale, celava una profonda decadenza e una grave crisi sociale ed economica. Comune al genere picaresco è inoltre il motivo topico del viaggio, con le avventure e gli incontri inaspettati che ne derivano. Tra realtà concreta e fantasia romanzesca La geniale contaminazione tra due generi letterari così diversi, uno ancorato a una realtà corposa e concreta, l’altro alle creazioni leggere della fantasia, si riflette nella struttura del Don Chisciotte, che da una parte presenta allusioni a eventi della Spagna dell’epoca, come l’espulsione dei moriscos (i discendenti dei conquistatori saraceni), dall’altra abbonda di elementi del tutto fantasiosi, come i pastori arcadici, di origine tutta letteraria, che sembrerebbero popolare le campagne della Mancia, cantando i loro amori infelici, e di coincidenze romanzesche, come quelle dell’osteria in cui, a un certo punto, per i capricci della sorte, convergono innumerevoli personaggi.

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3 Le modalità narrative, i temi e i personaggi L’iterazione dello schema narrativo: un cavaliere in lotta con i suoi antagonisti La struttura del Don Chisciotte, come quella dei romanzi picareschi, si fonda su unità narrative potenzialmente ripetibili all’infinito, con uno schema costante: l’hidalgo incontra una realtà comune e prosaica, ma, interpretandola sul modello dei prediletti romanzi cavallereschi, l’affronta come avrebbero fatto i più famosi cavalieri. Combatte valorosamente contro una incredibile varietà di “nemici”: i mulini a vento, scambiati per giganti, un mulino ad acqua scambiato per un castello incantato (➜ T7 OL); assale greggi di pecore, ritenendoli smisurati eserciti nemici; libera dai devoti attoniti una statua della Madonna in processione, credendola una donzella rapita. Si scontra con persone delle più diverse tipologie sociali: frati (che crede rapitori di una donna), popolani (avventori dell’osteria, pastori, mulattieri, burattinai); nobili, a cui si aggiunge un falso cavaliere, il vicino di casa Sansone Carrasco (che più volte lo sfida per convincerlo a rinunciare alle sue follie; vinto la prima volta, la seconda sconfigge Don Chisciotte, costringendolo a rinunciare per un anno – ma sarà per sempre – alla sua missione di cavaliere errante). All’interno della trama principale si inseriscono poi molteplici digressioni, anche metaletterarie, che conferiscono al romanzo una struttura composita, che non ha precedenti nella tradizione e anticipa forme narrative moderne (si pensi anche solo ad alcuni romanzi pirandelliani). Il fallimento della missione di Don Chisciotte Sebbene non sia fisicamente molto prestante, non sempre (come si potrebbe pensare) Don Chisciotte è sconfitto in questi scontri, anzi molto spesso ne esce vittorioso. Ciò in cui invece l’illuso protagonista fallisce sempre è il tentativo di rendere il mondo più giusto e conforme ai suoi nobili ideali: così, ad esempio, ordina a un contadino di giurare che avrebbe smesso di frustare un suo giovane servo e riparte convinto che questi avrebbe lealmente tenuto fede al giuramento, ma, non appena si allontana, il contadino raddoppia la dose

Antonio Perez Rubio, Don Chisciotte attacca la processione dei penitenti, 1881 (Madrid, Museo del Prado).

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Don Chisciotte ordina a un contadino di non frustare il suo servo, illustrazione di Gustave Doré per un’edizione del Don Chisciotte del 1863.

di percosse, lasciando il ragazzo mezzo morto; oppure, avendo liberato dei galeotti incatenati, argomenta con impareggiabile eloquenza su come sia un delitto togliere agli uomini la libertà, ma i delinquenti, per nulla commossi dalla nobiltà dei suoi intenti, lo deridono e lo sbeffeggiano. Le innumerevoli delusioni, tuttavia, non distolgono Don Chisciotte dal compito assunto di cavaliere errante e dal suo fermo proposito di agire secondo il “copione” dei romanzi prediletti, ora incarnando il ruolo di vendicatore di torti, ora di difensore di fanciulle indifese, ora di uccisore di mostri e di feroci avversari. Oltre agli avversari visibili, tuttavia, Don Chisciotte è convinto di essere perseguitato da un nemico ben più insidioso e invisibile, un malvagio incantatore, che trasfigurerebbe la realtà, rendendola squallida e prosaica, e trasformerebbe i giganti in mulini a vento e le belle principesse in rozze contadine: il supposto incantatore agirebbe dunque in senso contrario alla sua immaginazione esaltata. Sarà proprio questo avversario, l’unico veramente temuto dal coraggioso Don Chisciotte, a incrinare infine la sua fiducia di poter raddrizzare i torti del mondo e in definitiva a sconfiggerlo. Don Chisciotte e Sancio Panza, due personaggi in continuo dialogo Nel romanzo intervengono numerosi personaggi, appartenenti ai più diversi strati sociali, ma i soli a tutto tondo sono quelli di Don Chisciotte e Sancio Panza. I due, che non sono tanto opposti quanto complementari, intrattengono un dialogo costante, amichevole e franco, e, nonostante la diversità di vedute, di cultura, di classe sociale, e le continue discussioni e battibecchi, riescono a comprendersi, tanto che alla fine il contadino ignorante «assorbirà l’ingegno di don Chisciotte e verrà pure contagiato dalla sua pazzia» (M. de Riquer). Il complesso rapporto tra i due ha sempre costituito una delle componenti del fascino del romanzo ed è stato perciò sempre privilegiato dai critici e dagli artisti che si sono ispirati al capolavoro di Cervantes. Lo scudiero di Don Chisciotte, tipica figura dell’astuto popolano e del servo più saggio del padrone, riesce a vedere quella realtà che il padrone interpreta attraverso il filtro della sua immaginazione esasperata, e spesso, come intermediario tra Don Chisciotte e il mondo reale, tenta di difenderlo da chi prova ad approfittare del suo idealismo e della sua generosità. Spinto da un naturale rispetto verso un padrone tanto virtuoso e colto, che gli promette favolose largizioni e persino il governo di un’isola, Sancio Panza è sempre tentato di credergli, e rimane ogni volta esterrefatto dagli esiti disastrosi delle azioni di chi è tanto saggio a parole quanto folle nella pratica. Sancio è analfabeta, ma non sciocco; ha la cultura di un popolano, costruita attraverso la sapienza secolare dei proverbi che, in ogni occasione, snocciola in abbondanza, suscitando l’irritazione di Don Chisciotte. I proverbi, infatti, sono adatti ad affrontare la realtà spicciola ma non offrono un punto di vista coerente sul mondo; tale difetto è opposto a quello della cultura libresca di Don Chisciotte, la quale si presenta come una totalità così coerente da rifiutare ogni smentita da parte della realtà. Alle origini del romanzo moderno: il Don Chisciotte 2 159


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Interpretazioni critiche a confronto Martín de Riquer vs Francisco Rico La dialettica dei personaggi: Don Chisciotte e il suo scudiero Sancio

A differenza del suo ascetico padrone, per Sancio valgono le ragioni del corpo, e per nessun ideale accetterebbe di digiunare, di rinunciare al sonno e alle comodità né di essere malmenato (➜ T8 ). Tuttavia lo scudiero non è affatto insensibile al fascino avventuroso delle imprese in cui Don Chisciotte lo trascina, ed è sempre felice di seguirlo e di continuare a sognare il governatorato di un’isola (che alla fine otterrà, anche se non proprio di un’isola si tratta), piuttosto che tornare alla prosaica realtà di tutti i giorni: con questo Cervantes dimostra che un po’ di “donchisciottismo” è in ciascuno di noi, e non si potrebbe vivere senza.

4 Il «prospettivismo» del Don Chisciotte Non una, ma molteplici realtà Già Don Chisciotte e Sancio rappresentano due modi diversi di interpretare la realtà, mettendo in evidenza un tema fondamentale del Don Chisciotte, che il critico Leo Spitzer (1887-1960) definisce «prospettivismo»: l’idea che il mondo appaia diverso a seconda della prospettiva di chi lo guarda e vi immette la propria cultura, i propri valori, i propri criteri interpretativi, il proprio orizzonte immaginario. Domina nell’opera di Cervantes una visione aperta e relativa del mondo. A livello delle strutture narrative il molteplice rifrangersi di una realtà che nel romanzo perde ogni consistenza monolitica è evidenziato dal gioco letterario della moltiplicazione dei narratori. Riprendendo un motivo topico dei romanzi cavallereschi, Cervantes finge di avere attinto la storia di Don Chisciotte a narrazioni preesistenti e invoca per gli eventi più inverosimili l’autorità di un fantomatico Turpino. Ma a rendere più articolato e complesso il gioco narrativo, e a sottolineare quanto ogni ricostruzione della realtà sia deformata dal punto di vista soggettivo di chi la guarda, egli vi aggiunge un’immaginaria fonte araba, che riferisce il punto di vista degli “infedeli”: il libro di un fantomatico storico musulmano, più volte definito «menzognero», Cide Hamete Benengeli, inattendibile per definizione (in quanto appunto “infedele”). Don Chisciotte: il più folle o il più saggio degli uomini? In un romanzo così complesso, anche il punto di vista dell’autore nel proporre il suo eroe appare sfaccettato: intende raffigurarlo soltanto come un “folle”, con la stessa distanza critica riservata da Ariosto ad Orlando nel Furioso? O in qualche modo intende proporlo come modello positivo? Della follia di un personaggio che scambia i mulini a vento per giganti non possiamo dubitare, ma in Don Chisciotte c’è anche altro. Ad esempio, in svariate occasioni questi dà prova di una straordinaria saggezza. L’autore gli concede spesso la parola, in momenti digressivi del romanzo che si alternano alle avventure e agli episodi d’azione, e, in amichevoli conversazioni con altri personaggi, gli fa dibattere con ammirevole competenza ed equilibrio i più importanti temi della cultura del tempo, dalla letteratura alla linguistica, all’etica, all’arte della guerra, al modo di governare uno Stato. Quando non è preda degli accessi di follia perché toccato nel suo punto debole, la mania cavalleresca, Don Chisciotte è il personaggio più amabile che si possa immaginare: la sua conversazione è piacevole e affabile; le maniere misurate e gentili; è pacato, saggio, capace di dispensare avveduti consigli; è urbano e tollerante; a differenza della maggior parte dei nobili dell’epoca, è cortese e amichevole anche con gli

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appartenenti a una classe sociale inferiore e dialoga con il contadino Sancio Panza come con un suo pari. Inoltre, per realizzare i suoi nobili ideali, Don Chisciotte dà prova di un coraggio davvero eroico e non si risparmia fatiche, sacrifici e sofferenze. Ma anche quando Don Chisciotte è preda della sua “follia cavalleresca”, che lo rende ridicolo e spesso oggetto di scherno per chi lo incontra, si può davvero considerare del tutto insensato il suo comportamento? Sicuramente la più grande pazzia di Don Chisciotte è credere che nella realtà si possano realizzare i valori dei romanzi: la giustizia, la lealtà cavalleresca, la difesa dei più deboli, la vittoria del bene. Ma non è ancora più folle – sembra suggerire l’autore – chi rinuncia a tutto questo soltanto perché non potrà vederlo realizzato? E si può davvero vivere senza alcun ideale?

Don Chisciotte: nasce il romanzo moderno romanzo picaresco spagnolo

poema cavalleresco (Orlando furioso) Don Chisciotte della Mancia (1605-1615) il primo romanzo della modernità

rapporto vita-letteratura

molteplicità di punti di vista («prospettivismo»)

interazione verità-illusione

5 Le interpretazioni del romanzo La polemica-parodia nei confronti della letteratura cavalleresca Le tante sfaccettature del personaggio di Don Chisciotte sono da porre in relazione con la ricchezza e la profondità di un romanzo che non si lascia ridurre a un unico punto di vista, ma apre la strada a molteplici prospettive di significato, che hanno dato luogo, nel tempo, a interpretazioni anche alquanto difformi. All’epoca di Cervantes nel Don Chisciotte si colse soprattutto la parodia dei romanzi cavallereschi, una vera e propria mania nella Spagna dell’epoca. I contemporanei leggevano l’opera come un libro comico si divertivano a scoprire come il protagonista si ingegnasse nel seguire i modelli letterari di cavaliere, incorrendo in esilaranti disavventure: basti pensare all’episodio in cui, non distinguendo la realtà dalla finzione scenica, l’hidalgo distrugge un teatro di marionette per salvare due innamorati (in realtà due burattini) dai crudeli Mori (➜ T6 OL); o come esponga sé e il povero Sancio al rischio di essere fatto a pezzi dalle pale di un mulino scambiato per un castello fatato (➜ T7 OL); o come l’oste che lo arma cavaliere pronunci un discorso a doppio senso in cui, facendole apparire come nobili atti cavallereschi, enunci in realtà le proprie furfanterie (➜ T5 OL). Oltre la comicità, l’umorismo Pur essendo davvero divertente, il capolavoro di Cervantes non si può tuttavia ridurre al solo aspetto comico, come ben vide Luigi Pirandello (1867-1936), grande ammiratore dell’opera. Nel suo saggio L’umorismo (1908), lo scrittore siciliano lo considerava come l’archetipo dell’arte umoristica, da lui stesso coltivata in romanzi, novelle e drammi, un’arte capace di veicolare, attraverso la Alle origini del romanzo moderno: il Don Chisciotte 2 161


comicità appariscente di casi paradossali, riflessioni profonde sulla vita. Pirandello osservava che, nonostante le imprese raccontate spesso muovano al riso, il Don Chisciotte non può essere considerato «una satira» dello spirito cavalleresco, perché, se le disgrazie del personaggio «da un canto ci fanno ridere, dall’altro ci commuovono profondamente» e ce lo fanno amare, in quanto ne riconosciamo la nobiltà d’animo. Il rapporto tra letteratura e vita Sicuramente centrale nel romanzo è il tema del rapporto fra la letteratura – e più in generale fra la dimensione fittizia dell’immaginario, che, al giorno d’oggi, oltre che nei libri, si esprime nei film, nei programmi televisivi, nei video – e la vita. Per questo aspetto Don Chisciotte può essere assimilato ad altri famosi personaggi, la Francesca di Dante e Madame Bovary, eroina dell’omonimo romanzo ottocentesco di Gustave Flaubert (1821-1880), perché le letture ne condizionano la visione del mondo; anzi, nel caso di Don Chisciotte addirittura la distorcono, cosicché alla fine egli non riesce più a distinguere il suo mondo immaginario da quello reale.

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Verso il Novecento Attualità del Don Chisciotte: interpretazioni artistiche, cinematografiche, musicali

Il Don Chisciotte, romanzo filosofico Nell’Ottocento i filosofi romantici come i fratelli Schlegel, Schelling ed Hegel mostrano grande interesse per il romanzo di Cervantes, facendolo oggetto di saggi teorici e di appassionate discussioni e a cui riconoscono una natura “filosofica”: mettendo in secondo piano la componente ironica del libro, essi fanno di Don Chisciotte il rappresentante di un ideale etico assoluto, che per la sua stessa natura non può trovare riscontro nella realtà, manchevole e imperfetta. Tale linea interpretativa sarà sviluppata nel Novecento dal filosofo e scrittore spagnolo Miguel de Unamuno (1864-1936), che nel suo libro Vita di Don Chisciotte e Sancio Panza (1905) contrappone, con una certa forzatura, Don Chisciotte, cavaliere dell’ideale, al gretto materialismo di Sancio Panza. Unamuno arriva ad affermare che il personaggio di Don Chisciotte prefigurerebbe, anticipandolo di secoli, l’ideale romantico. In questa prospettiva, il cavaliere della Mancia non è uno sconfitto, ma l’unico vero vincente. E forse è proprio questa la lezione ancora attuale del romanzo: il rifiuto di venire a patti con una realtà deludente, la volontà utopica di credere in un mondo migliore di quello che la realtà ci offre, di cercare di far vivere a tutti i costi gli ideali. In una lettera inviata ai familiari, nel 1965, Ernesto Che Guevara (1928-1967) si identifica nel personaggio da lui prediletto, appunto don Chisciotte, con queste parole: «Miei cari, ancora una volta sento sotto i talloni le costole di Ronzinante; mi rimetto in cammino col mio scudo al braccio». È una prova dell’immortale vitalità di Don Chisciotte, un personaggio nato dalla fantasia di uno scrittore, ma capace a distanza di secoli di rivivere nell’immaginazione, proponendosi come, pur imperfetto, modello per chi combatte animato da un suo ideale di giustizia, e testimoniando così l’incessante dialogo tra letteratura e vita.

Fissare i concetti Alle origini del romanzo moderno: il Don Chisciotte 1. Quali aspetti di modernità presenta Don Chisciotte, il romanzo capolavoro di Cervantes? 2. Quali aspetti accomunano Miguel de Cervantes e il suo personaggio più famoso? 3. Quali sono i modelli di riferimento a cui Cervantes si è ispirato per il Don Chisciotte? 4. Come è strutturato lo schema narrativo del Don Chisciotte? 5. Come potrebbe essere definito il rapporto tra Don Chisciotte e il suo scudiero Sancio Panza? Giustifica la tua risposta. 6. Perché il rapporto tra realtà e letteratura è uno dei temi cardine del romanzo capolavoro di Miguel de Cervantes?

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Miguel de Cervantes

T4

Da lettore a protagonista: Don Chisciotte decide di diventare cavaliere errante Don Chisciotte della Mancia, I, 1

M. de Cervantes, Don Chisciotte della Mancia, a c. di C. Segre e D. Moro Pini, Mondadori, Milano 1985 AUDIOLETTURA

Dopo aver letto molti, o meglio troppi, libri di genere cavalleresco (di cui lo stesso Cervantes era appassionato), Don Chisciotte decide di abbandonare il ruolo passivo di lettore per diventare egli stesso cavaliere errante ed emulare le imprese dei suoi eroi.

In un borgo della Mancia, di cui non voglio ricordarmi il nome, non molto tempo fa viveva un gentiluomo di quelli con lancia nella rastrelliera, scudo antico, ronzino magro e can da séguito. Qualcosa in pentola, più spesso vacca che castrato, quasi tutte le sere gli avanzi del desinare in insalata, lenticchie il venerdì, un gingillo il 5 sabato, un piccioncino ogni tanto in più la domenica, consumavano tre quarti delle sue rendite; il resto se ne andava tra una casacca di castoro con calzoni e scarpe di velluto per le feste, e un vestito di fustagno1, ma del più fino, per tutti i giorni. Aveva una governante che passava i quarant’anni, una nipote che non arrivava ai venti e un garzone capace per il campo come per il mercato, buono a sellare il ron10 zino come a menar la roncola2. L’età del nostro gentiluomo rasentava la cinquantina: era di complessione robusta, asciutto di corpo, magro di viso, molto mattiniero e amante della caccia. Voglion dire che avesse il soprannome di Chisciada o Chesada (perché a questo proposito c’è qualche discrepanza tra gli autori che ne hanno scritto), ma da congetture assai verosimili si arguisce che si chiamava Chisciana. Ma 15 questo importa poco pel nostro racconto: basta che nell’esposizione dei fatti non ci si scosti una linea dalla verità. Bisogna poi sapere che questo gentiluomo, nei periodi di tempo in cui non aveva nulla da fare (cioè la maggior parte dell’anno), si dedicava alla lettura dei romanzi cavallereschi e a poco per volta ci si appassionò tanto, che dimenticò quasi del tutto 20 la caccia e anche l’amministrazione del suo patrimonio; anzi, la sua curiosità e la smania di questa lettura arrivarono a tal segno, che vendé parecchi appezzamenti di terreno, e di quello buono anche, per comprarsi dei romanzi cavallereschi. [...]. Insomma, si sprofondò tanto in quelle letture, che passava le notti dalla sera alla mattina, e i giorni dalla mattina alla sera, sempre a leggere; e così, a forza di dormir 25 poco e di legger molto, gli si prosciugò talmente il cervello, che perse la ragione. Gli si riempì la fantasia di tutto quello che leggeva nei suoi libri: incanti, litigi, battaglie, sfide, ferite, dichiarazioni, amori, tempeste e stravaganze impossibili; e si ficcò talmente nella testa che tutto quell’arsenale di sogni e d’invenzioni lette ne’ libri fosse verità pura, che secondo lui non c’era nel mondo storia più certa. [...]. 30 E così, perso ormai del tutto il cervello, gli venne il pensiero più stravagante che sia mai venuto a un pazzo; cioè gli parve opportuno e necessario, sia per accrescere il proprio onore, sia per servire il proprio paese, di farsi cavaliere errante, e d’andar per il mondo con le sue armi e il suo cavallo a cercare avventure e a cimentarsi in tutte le imprese in cui aveva letto che si cimentavano i cavalieri erranti, combatten35 do ogni sorta di sopruso ed esponendosi a prove pericolose, da cui potesse, dopo averle condotte a termine, acquistarsi fama immortale. Il pover’uomo si figurava già 1 fustagno: tessuto morbido e robusto.

2 roncola: attrezzo per potare e tagliare i rami.

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di diventare, grazie al valore del suo braccio, per lo meno imperatore di Trebisonda3, e quindi, sospinto da così radiosi pensieri e dalla straordinaria soddisfazione che gli davano, si affrettò a mandare ad effetto il suo desiderio. 40 Anzitutto lucidò certe armi che erano appartenute ai suoi antenati, le quali da parecchi secoli se ne stavano piene di ruggine e di muffa dimenticate in un cantuccio. Le ripulì dunque, e le accomodò alla meglio, ma si accorse che vi mancava un pezzo di grande importanza; perché invece di una celata con la relativa barbozza c’era un semplice morione4. A questa mancanza rimediò ingegnandosi. Con del cartone fece 45 alla peggio una specie di barbozza, che, incastrata nel morione, gli dava l’apparenza di una celata intera. Vero è che per provare se era forte e poteva reggere al rischio di una sciabolata, tratta fuori la spada, le tirò due colpi, ma al primo disfece in un attimo il lavoro di una settimana. La facilità con cui l’aveva tribbiata5 non gli piacque tanto; perciò la rifece di nuovo, mettendoci a traverso dalla parte di dentro 50 delle sbarrette di ferro per garantirsi meglio da ogni pericolo. In questo modo rimase soddisfatto della sua solidità e non volle rifar la prova, ma senz’altro la ritenne una celata di qualità ottima. Dopo andò a fare un’ispezione al suo ronzino e sebbene avesse più guidaleschi6 che il cavallo del Gonnella7, il quale tantum pellis et ossa fuit8, gli parve che né 55 il Bucefalo9 d’Alessandro, né il Babieca del Cid10 gli potessero stare a pari. Stette quattro giorni a pensare che nome gli potesse mettere, perché, diceva lui, non era giusto che il cavallo di un cavaliere così famoso, e poi anche bravo di suo, dovesse rimanere senza un bel nome. Quindi cercava di trovargliene uno che designasse ciò che era stato prima d’entrare nella cavalleria errante, e ciò che era allora. Ed era 60 molto logico che, mutando condizione il padrone, anche il cavallo dovesse mutare il nome e prendersene uno pomposo e risonante, come era conveniente al nuovo ordine e all’uffizio nuovo che ormai assumeva. Quindi, dopo d’aver nel suo cervello inventati e poi scartati, allungati ed accorciati, disfatti e rifatti una gran quantità di nomi, finì col chiamarlo Ronzinante; nome, secondo lui, maestoso, sonoro, e che 65 significava molto bene ciò che era stato, quando era stato ronzino, di fronte a ciò che era ora, cioè un ronzino «innante11» a tutti i ronzini del mondo. Messo un nome, e un nome tanto di suo gusto, al cavallo, volle metterselo anche per sé, e stette altri otto giorni a pensarci, finché decise di chiamarsi Don Chisciotte; e di qui, come si è già detto, presero occasione gli autori di questa verissima storia 70 per affermare che si dovesse chiamar Chisciada e non Chesada, come altri invece vollero sostenere. Ma ricordandosi che il valoroso Amadigi12 non si era contentato di chiamarsi puramente Amadigi, ma aveva aggiunto l’indicazione del suo regno e della sua patria per renderla famosa, e si era dato il nome di Amadigi di Gaula, anch’egli volle da buon cavaliere aggiungere quello della patria al proprio nome e 75 chiamarsi Don Chisciotte della Mancia. Così gli parve di avere manifestato, in modo molto chiaro, lignaggio e origini, e di aver reso alla patria il dovuto onore prendendo da essa il proprio cognome. 3 Trebisonda: città sulle coste del mar Nero. 4 invece... morione: invece di un elmo che copriva tutta la testa c’era un semplice morione (un elmo medievale che non copriva per intero la testa). La barbozza è la parte dell’armatura che si aggiunge

alla celata per proteggere la parte inferiore del viso. 5 tribbiata: sfasciata. 6 guidaleschi: piaghe provocate dall’attrito dei finimenti. 7 Gonnella: famoso buffone della corte di Ferrara.

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8 tantum... fuit: era soltanto pelle e ossa. 9 Bucefalo: famoso cavallo di Alessandro Magno. 10 Cid: eroe spagnolo della reconquista. 11 innante: innanzi. 12 Amadigi: Amadigi di Gaula, protagonista di un famoso poema cavalleresco.


Analisi del testo La presentazione del protagonista Nel passo l’autore presenta il protagonista del suo libro, un anziano nobiluomo di campagna, di condizione modesta: non ricco, né giovane, né forte, non ha nessuna delle caratteristiche di un cavaliere errante, ma si è così immedesimato nelle sue letture da identificarsi con i protagonisti dei romanzi e da decidere di emularne le gesta. Il primo passo per il cambiamento di identità di Don Chisciotte è attribuire a sé e a quelli che lo circondano nuovi nomi, più nobili di quelli reali: il suo ronzino diviene così Ronzinante, ed egli stesso assume un nome adatto a un cavaliere, Don Chisciotte della Mancia; in seguito muterà il nome della contadina Aldonza Lorenzo, che sceglie come amata, nell’aulico Dulcinea del Toboso. Questo particolare evidenzia quello che sarà un tratto costante dell’atteggiamento di Don Chisciotte: imitare in ogni dettaglio i suoi prediletti eroi cavallereschi. Per dedicarsi al compito di cavaliere, Don Chisciotte rispolvera le armi, ormai in disuso, appartenute ai suoi antenati. È da notare che lancia e spada, le armi di Don Chisciotte, sono ormai del tutto superate, dato che da più di un secolo erano in uso le armi da fuoco (lo stesso Cervantes era stato archibugiere). Questo particolare evidenzia l’anacronismo della figura del cavaliere errante, e mette in luce il rapporto tra il Don Chisciotte e l’Orlando furioso, che aveva attribuito il declino dei valori cavallereschi proprio all’invenzione delle armi da fuoco, che, eliminando la necessità del corpo a corpo, consentono Don Chisciotte di vincere anche ai vili e agli inetti, se e i personaggi immaginari ben armati: con la sua povera lancia e dei suoi libri, l’armatura raffazzonata, l’hidalgo è già illustrazione di in partenza destinato alla sconfitta. Gustave Doré Nella figura di Don Chisciotte alcuni per un’edizione del Don hanno visto anche un simbolo della Chisciotte del stessa Spagna, ancora legata agli anti1863. chi valori cavallereschi, ma ormai economicamente e militarmente avviata a un malinconico declino.

Un narratore non attendibile La disquisizione sul vero nome di Don Chisciotte, infine, fa luce sul narratore del romanzo, non onnisciente, e sul suo complesso rapporto con gli eventi narrati. Nel mostrarsi solo parzialmente attendibile, il narratore costringe il lettore ad assumere un ruolo critico rispetto agli eventi narrati; anche in questo intento di straniamento l’opera di Cervantes mostra un evidente rapporto con il poema ariostesco.

La fantasia visionaria di Don Chisciotte è ben rappresentata in questa famosa illustrazione di Gustave Doré. Don Chisciotte, circondato da libri sparsi dappertutto, legge con aria esaltata, brandendo la spada; attorno a lui la stanza si popola di donzelle in pericolo, di cavalieri armati di spada, di mostri. Sul pavimento, un personaggio sembra appena uscito da un libro, mentre dalle tende spunta una testa gigantesca, e due cavalieri minuscoli combattono a cavallo di topi.

Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

COMPRENSIONE 1. Perché Don Chisciotte è considerato pazzo? ANALISI 3. Individua nel testo gli indizi che fanno intuire al lettore che Don Chisciotte è un nobile decaduto.

Interpretare

ESPOSIZIONE ORALE 4. Spiega in un breve discorso il significato di questa frase del narratore della storia: «basta che nell’esposizione dei fatti non ci si scosti una linea dalla verità». SCRITTURA 5. Illustra in un breve testo (max 15 righe) il rapporto fra il passo letto e le illustrazioni riprodotte qui sopra e alla pagina seguente.

Alle origini del romanzo moderno: il Don Chisciotte 2 165


Nel disegno di Francisco Goya Don Chisciotte è appoggiato su un ginocchio, in una posa instabile, con il cane e la spada al fianco e, rivolto verso l’osservatore, indica un passo del libro che sta leggendo. In alto sono sospese figure bizzarre, che si volgono verso di lui, alcune minacciose e inquietanti, altre affascinanti: un’emanazione della sua fantasia.

Don Chisciotte ossessionato da mostri, disegno di Francisco Goya.

Verso l’esame di Stato Tipologia C  Riflessione critica di carattere espositivo-argomentativo su tematiche di attualità Testo tratto da S. Battaglia, Mitografia del personaggio, Liguori, Napoli 1991

Don Chisciotte è sullo stesso piano degli eroi ariosteschi, che s’aggirano nell’incanto illusorio del castello d’Atlante o si vanificano nel vallone della luna. Ma egli non è vittima d’una magia né d’una coscienza dissennata. Quel ch’egli crede è consegnato nei libri, dentro le storie, nei miti dell’umanità, è documen5 tato da mille testimonianze letterarie. Il torto non è suo se questi simulacri non li ritrova nel mondo reale, ma è della vita che non li possiede più o non li ha mai avuti in proprio. La sua follia, che gli appartiene in assoluto, è tuttavia equidistante tra lui e l’esperienza. Se gli uomini che lo considerano fuori di senno vivono come vivono – cioè senza i suoi ideali, sogni, ambizioni, chime10 re – che senso ha per loro la vita? La sua follia è vera, e Miguel de Cervantes è scrupoloso a registrarla minutamente, senza mai scagionarla o dissimularla; ma una volta ch’essa sia stata definita come tale, non per questo la realtà e la condizione umana cessano di permanere incerte, ambigue, contraddittorie [...]. Riflettendo sulle osservazioni del critico letterario, esprimi le tue considerazioni sulla “follia” di battersi per cause e ideali irrealizzabili, ancorché nobili e alti, e di apparire per questo superati e persino ridicoli. Puoi articolare il tuo elaborato in paragrafi opportunamente titolati e presentarlo con un titolo complessivo che ne esprima sinteticamente il contenuto.

online T5 Miguel de Cervantes

L’investitura cavalleresca di Don Chisciotte Don Chisciotte della Mancia, I, 3

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online

T6 Miguel de Cervantes

T7 Miguel de Cervantes L’avventura del mulino ad acqua Don Chisciotte della Mancia, II, 29

Analisi passo dopo passo I perseguitati vanno difesi a ogni costo... anche se sono burattini Don Chisciotte della Mancia, II, 26

166 Seicento 4 Il rinnovamento delle forme narrative

Analisi passo dopo passo


Miguel de Cervantes

T8

Le ragioni dello spirito e quelle del corpo Don Chisciotte della Mancia, II, 68

M. de Cervantes, Don Chisciotte della Mancia, a c. di C. Segre e D. Moro Pini, Mondadori, Milano 1985

Siamo quasi alla fine del romanzo e le avventure cavalleresche di Don Chisciotte sono ormai giunte al termine, dato che egli, vinto dal suo vicino Sansone Carrasco, travestito da cavaliere, ha dovuto giurare che si sarebbe astenuto dalle avventure per un anno. L’atmosfera tranquilla della notte induce Sancio e Don Chisciotte a una delle loro conversazioni più profonde, in cui confrontano le loro diverse visioni della vita.

La notte era piuttosto scura, sebbene ci fosse la luna; la quale tuttavia rimaneva in un punto dove non poteva esser vista; perché a volte la signora Diana1 se ne va a spasso agli antipodi, e lascia i monti nell’ombra, le valli nell’oscurità. Don Chisciotte pagò il suo tributo alla natura dormendo il primo sonno, che però non fu seguìto 5 dal secondo; al contrario di Sancio che non conosceva il secondo sonno, perché dalla sera alla mattina ne faceva tutt’uno; e da questo si poteva capire la sua buona complessione2 e i suoi pochi pensieri. Quelli di Don Chisciotte lo tennero tanto sveglio, che finì con lo svegliare anche Sancio e gli disse: – Io sono stupito dell’indolenza del tuo carattere. Io credo che tu debba essere di 10 marmo o di bronzo, e che tu non abbia quindi né movimento né sentimento. Io veglio e tu dormi, io piango e tu canti, io mi svengo dalla fame e tu te ne stai come un masso, stronfiando3 per aver mangiato troppo. I buoni servitori devon partecipare alle pene dei loro padroni e dividerne i sentimenti, per educazione non foss’altro. Guarda che notte serena! Che solitudine! Tutto c’invita a interrompere il nostro 15 sonno con qualche momento di veglia. Alzati, in nome del cielo: tirati un poco in là e di buon animo con simpatica disinvoltura datti tre o quattrocento frustate in conto di quelle che ti devi dare per il disincanto di Dulcinea4. E questo te lo chiedo con le buone, perché non voglio fare alla lotta con te come l’altra volta, perché so che hai le braccia pesanti. Quando ti sarai frustato, passeremo quel che resta della 20 notte a cantare, io la lontananza della mia dama, e tu la tua costanza, dando fin d’ora principio alla vita pastorale che dobbiamo condurre nel nostro paese5. – Signor padrone – rispose Sancio – non son mica un frate da dovermi levare sul più bello del sonno e disciplinarmi! E ancora meno mi persuade che dallo spasimo delle frustate si possa passar tutto a un tratto al piacere della musica. Mi lasci dunque 25 dormire, e la faccia finita con questa storia del frustarsi, perché se no, glielo dico io, io giuro di non toccarmi neanche il pelo della giacca non che la pelle. – O anima indurita! O scudiero senza pietà! O pane male impiegato, o favori male spesi, quelli che t’ho fatto e quelli che pensavo di farti! Grazie a me ti sei visto governatore, grazie a me puoi dire d’avere fondate speranze di diventar presto conte, 30 o d’ottenere un altro titolo equivalente; né queste speranze tarderanno a realizzarsi oltre l’anno del mio ozio forzato, per ch’io post tenebras spero lucem6. 1 la signora Diana: identificata con la Luna nella mitologia. 2 buona complessione: sana costituzione. 3 stronfiando: russando rumorosamente. 4 per... Dulcinea: Don Chisciotte era convinto che Dulcinea fosse vittima di un incantesimo che la faceva apparire come una contadina, e che fossero necessari riti di

espiazione per farla tornare alla sua vera identità di gentildonna. 5 vita pastorale... paese: Don Chisciotte era stato vinto da un suo vicino travestito da cavaliere, Sansone Carrasco, e costretto a promettere di rinunciare alla cavalleria per un anno. Stava perciò meditando di trascorrere quel periodo vivendo come un

personaggio non più dei romanzi cavallereschi, ma di quelli pastorali. 6 post... lucem: dopo le tenebre, spero nella luce. È una citazione biblica (Giobbe 17, 12), che conferisce alla missione di Don Chisciotte un senso quasi religioso.

Alle origini del romanzo moderno: il Don Chisciotte 2 167


– Questo non lo capisco – replicò Sancio – so solamente che fintanto che dormo, non sento né timori, né speranze, né fatiche, né gloria. Benedetto chi inventò il sonno! È una cappa che copre tutti i pensieri, un vitto che leva la fame, un’acqua 35 che estingue la sete, un fuoco che toglie il freddo, un fresco che tempera il caldo, e finalmente una moneta con cui si compra ogni cosa, una bilancia su cui si eguagliano il pastore col re, lo stolto col saggio. Una sola cosa brutta ha il sonno, come ho sentito dire, ed è che somiglia alla morte, perché tra un addormentato e un morto c’è poca differenza. 40 – È la prima volta che ti sento parlare con delle parole così scelte, Sancio – disse Don Chisciotte – e quindi capisco che è proprio vero il proverbio che qualche volta t’ho sentito dire: «Dimmi chi pratichi e ti dirò chi sei». – Ah perdincina, signor padrone! – replicò Sancio. – Non son io ora che infilzo proverbi! Anche a lei vengono giù dalla bocca a picce7 peggio che a me. Tra i miei 45 e i suoi ci sarà questa differenza, che i suoi calzeranno e i miei no, ma insomma son tutti proverbi. Stavano così discorrendo, quando sentirono un sordo e intenso rumore che si stendeva per tutta la vallata. Don Chisciotte si alzò e tutto turbato mise mano alla spada, mentre Sancio tremando di paura si rannicchiò sotto al ciuco, barricandosi da una 50 parte col basto8 e dall’altra con le armi. Di momento in momento andava crescendo lo strepito e avvicinandosi ai due uomini impauriti, o per lo meno uno, ché dell’altro conosciamo bene il valore. Erano dei porcari, che menavano a vendere a una fiera più di seicento porci, e li facevano camminare a quell’ore di notte. Era tale lo strepito che facevano, il grugnire e lo sbuffare, che Don Chisciotte e Sancio, assorditi, non 55 riescivano a capire che diavolo potesse essere. Arrivò in massa il branco sterminato e grugnitore, e senza portar rispetto all’autorità di Don Chisciotte né a quella di Sancio, passarono di sopra a tutti e due, spianando le trincee di Sancio, rovesciando Don Chisciotte e Ronzinante per giunta. Il gran numero, quei grugniti, la rapidità con cui arrivarono quegli animali immondi sparsero la confusione e rovesciarono 60 sottosopra basto armi ciuco Ronzinante Sancio e Don Chisciotte. Sancio, rizzatosi alla meglio, chiese al suo padrone la spada, dicendogli che voleva ammazzare una mezza dozzina di quei signori villan cornuti di porci, ché ormai li aveva visti bene che eran porci. Ma Don Chisciotte gli disse: – Lasciali stare, amico. Quest’affronto è una punizione pel mio peccato: è un giusto 65 gastigo del cielo che un cavaliere errante vinto sia divorato dai lupi, punto dalle vespe, e calpestato dai porci. – Allora deve essere un gastigo del cielo anche per gli scudieri – disse Sancio – d’esser appinzati dalle mosche, mangiati dai pidocchi e tormentati dalla fame. Se noi scudieri fossimo figli dei cavalieri a cui serviamo, o loro prossimi parenti, non 70 sarebbe tanto strano che ci toccasse a scontare le loro colpe fino alla quarta generazione. Ma che ci hanno che vedere i Panza coi Chisciotte? Basta! Torniamo a sdraiarci, e dormiamo questa po’ di notte che resta: domani qualche santo sarà. – Dormi tu, Sancio – replicò Don Chisciotte – che sei nato per dormire, mentre io son nato per vegliare.

7 a picce: in gran numero (la piccia è una filza di oggetti accoppiati insieme).

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8 basto: rozza sella di legno per asini o muli.


Analisi del testo Due personaggi complementari Semplificando il senso del romanzo, si tende a volte a vedere i due personaggi di Don Chisciotte e Sancio come opposti, Don Chisciotte idealista e Sancio grettamente materialista, mentre in realtà il loro rapporto è molto più sfaccettato e complesso.

L’evoluzione di Sancio e di Don Chisciotte Durante tutta l’opera Sancio si evolve ed entra sempre più in consonanza con il suo padrone, come nel passo proposto constata lo stesso Don Chisciotte, ammirato per l’eloquente discorso del suo ignorante scudiero: Sancio riesce infatti per la prima volta a esprimere una compiuta filosofia di vita, con parole tanto scelte da suscitare meraviglia in Don Chisciotte. La visione del mondo a cui Sancio arriva soltanto per saggezza naturale, dato che è analfabeta, si può avvicinare all’epicureismo poiché pone come principio basilare il piacere, in contrasto con l’etica di Don Chisciotte, tutta imperniata sul senso del dovere e sul perfezionamento di sé. Anche Don Chisciotte però ha imparato qualcosa da Sancio, come dimostra il fatto che adotta la saggezza popolare dei proverbi (e anzi, ricorda proprio un proverbio appreso dal suo scudiero), mentre prima lo aveva sempre rimproverato per la sua mania di citare continuamente motti popolari, come lo stesso Sancio argutamente gli fa notare.

Il tema dell’uguaglianza Nell’elogio che Sancio fa del sonno c’è poi un’idea dalle implicazioni profonde, che il sonno, a tutti necessario, accomuni poveri e ricchi, saggi e stolti. Tale idea dell’uguaglianza in nome di una comune umanità non è per niente ovvia in un’epoca ossessionata dalle gerarchie sociali e dal culto dell’onore, tanto che la maggioranza dei nobili, a differenza di Don Chisciotte, avrebbe considerato disdicevole intrattenere un colloquio amichevole con il proprio servo.

La fine della fantasia incantatrice di Don Chisciotte L’atmosfera serena del colloquio è interrotta, nel modo più brusco e prosaico che si possa immaginare, dall’irrompere di un enorme branco di porci, che però non dà luogo a un’avventura comica come quelle che in precedenza avevano caratterizzato il romanzo. Per la prima volta Don Chisciotte sembra uscire dal mondo cavalleresco creato dalla sua immaginazione e “vedere” la realtà: da un punto di vista psicologico, si può ammirare l’intuizione di Cervantes nell’immaginare che nel suo personaggio, impossibilitato ad agire per aver promesso di astenersi dalle sue imprese dopo la sconfitta nel duello con Sansone Carrasco, venga meno anche il potere trasfigurante della fantasia, che dava un impulso e un significato alle sue azioni. La realtà nel suo aspetto più prosaico, simboleggiata dal branco di porci, ha ormai preso il sopravvento, e Don Chisciotte e Sancio si preparano così, dopo tante avventure, a congedarsi dai loro lettori.

Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

COMPRENSIONE 1. Dove è ambientato l’episodio? SINTESI 2. Sintetizza in un breve testo espositivo il contenuto del discorso di Sancio (max 5 righe). ANALISI 3. Nel suo discorso Don Chisciotte traccia due ritratti per contrapposizione di sé stesso e di Sancio. Individua e sottolinea nel testo le caratteristiche opposte dei due personaggi, secondo il punto di vista del protagonista.

Interpretare

SCRITTURA CREATIVA 4. Immagina un’avventura di Don Chisciotte nel mondo d’oggi. 5. Immagina un discorso in cui Don Chisciotte spieghi come oggi, nel XXI secolo, sia più che mai necessario e urgente ripristinare la cavalleria errante, e indichi i compiti che dovrebbe assumere.

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Seicento Il rinnovamento delle forme narrative

Sintesi con audiolettura

1 Le fiabe, il poema “eroicomico” e il romanzo

La ripresa barocca della fiaba: Lo cunto de li cunti di Giovanni Battista Basile Le fiabe nei Seicento assumono per la prima volta dignità letteraria in quanto, con le loro trasformazioni “meravigliose”, ben interpretano lo spirito metamorfico del Barocco. Un esempio di questo genere è rappresentato da Lo cunto de li cunti (in cinque volumi, editi tra il 1634 e il 1636) di Giovan Battista Basile (1570-1632), raccolta di fiabe che venne tradotta in diverse lingue e che divenne modello per autori di fiabe europei come Perrault e i fratelli Grimm. L’opera si configura come un rovesciamento ironico del Decameron, in quanto i narratori non sono giovani ma donne anziane dall’aspetto grottesco; si raccontano non storie realistiche, ma fiabe; prevalgono non l’ingegno e le capacità umane, ma i capricci della fortuna. La raccolta è scritta in dialetto napoletano ed è caratterizzata da uno stile barocco estroso e vivace, improntato all’ironia. Il poema “eroicomico”: il rovesciamento ironico dell’epos Un ulteriore esempio della ricerca di innovazione della letteratura barocca è La secchia rapita (stampata a Parigi nel 1622 e poi a Venezia nel 1630) di Alessandro Tassoni (1565-1635), parodia del poema epico, perché è rapita non una donna come Elena di Troia ma una secchia di legno, sottratta a un pozzo bolognese, e il conflitto che si scatena in seguito a questo episodio è soltanto una scaramuccia tra due comuni rivali, Modena e Bologna. Lo stesso protagonista non è un eroe ma è un inetto e lo stile dell’opera si fonda sulla mescolanza di diversi registri linguistici. Il nuovo genere del romanzo Nel Seicento il genere più significativo della letteratura è il romanzo in prosa. A differenza dell’epos che rappresenta i valori di una collettività, il romanzo si incentra sul singolo individuo e sul rapporto con il mondo che lo circonda. Si affermano due tipologie del genere: il romanzo di evasione e il romanzo come rappresentazione realistica e critica. Il primo ha un carattere di intrattenimento e, in genere, racconta una storia d’amore contrastata tra due giovani, che alla fine si risolve positivamente. Il secondo tipo, che si ispira al Satyricon di Petronio e alle Metamorfosi di Apuleio, è finalizzato alla rappresentazione oggettiva e critica della realtà, nella quale l’ambiente sociale riveste grande importanza. A questa seconda tipologia, per la medesima prospettiva di osservazione “dal basso”, si può accostare il romanzo picaresco spagnolo – che ha per protagonista il pícaro (popolano scaltro e privo di scrupoli, che vive di espedienti) – inaugurato dall’opera di un autore anonimo, Lazarillo de Tormes (1544).

2 Alle origini del romanzo moderno: il Don Chisciotte

Il Don Chisciotte di Cervantes (pubblicato in due parti, la prima nel 1605 e la seconda nel 1615) può essere considerato il primo grande romanzo moderno della letteratura occidentale: la modernità del libro risiede nel fatto che esso non rappresenta soltanto una narrazione coinvolgente delle avventure di un rappresentante della piccola nobiltà, ma è anche una riflessione profonda sul rapporto tra l’uomo – con gli ideali e i mondi fantastici che occupano la sua fantasia – e la realtà in cui vive.

170 Seicento 4 Il rinnovamento delle forme narrative


Una vita “da romanzo” Miguel de Cervantes nasce nel 1547 in Spagna, ad Alcalá de Henares, da una modesta famiglia e ha una vita avventurosa. Nella prima giovinezza, ricercato per aver ferito un cortigiano in un duello, fugge dalla sua patria e si reca in Italia, dove conosce la letteratura rinascimentale e si arruola nell’esercito imperiale. Nel 1571 combatte nella Battaglia di Lepanto, nella quale perde eroicamente l’uso della mano sinistra; nel 1575, ritornato in Spagna, viene catturato dai pirati e venduto come schiavo ad Algeri; riottenuta la libertà dopo vaie peripezie, rientra in patria, dove entra in contatto con il mondo che in seguito rappresenterà nel suo capolavoro (contadini, nobili di campagna, saltimbanchi ecc.). In questo periodo viene incarcerato e in prigione, con ogni probabilità, concepisce il Don Chisciotte. Muore nel 1616. L’intreccio e le fonti del Don Chisciotte Il protagonista del Don Chisciotte è un hidalgo, un piccolo nobile decaduto, con la passione per i romanzi cavallereschi, il quale, immerso nel suo mondo libresco, perde la ragione. Di fronte alla decadenza del mondo che lo circonda, egli si convince che le sorti dell’umanità siano nelle mani dei cavalieri erranti e decide di intraprendere lui stesso questa missione: si fa ordinare cavaliere da un oste ed elegge una contadina a nobile oggetto d’amore. Dopo una serie di avventure, accompagnato dal suo fedele scudiero Sancio Panza, un contadino analfabeta, fa ritorno a casa, dove, prima di morire, si ravvede e rinnega gli ideali cavallereschi. Due sono gli antecedenti letterari del Don Chisciotte: il poema cavalleresco, in particolare l’Orlando furioso di Ludovico Ariosto che, con la figura di Orlando, introduce il tema della follia e della distanza fra ideale e reale, tema fondamentale dell’opera, che mette in evidenza l’inattualità dei valori cavallereschi nel mondo moderno; e il romanzo picaresco, dal quale Cervantes deriva la dimensione comica e grottesca del suo romanzo e il motivo topico del viaggio. L’opera si presenta come una contaminazione tra generi letterari nella quale sono presenti elementi che rimandano alla realtà concreta e altri che invece sono il frutto della fantasia romanzesca. Le modalità narrative, i temi e i personaggi Il romanzo, diviso in due parti, è costituito da nuclei narrativi dallo schema costante: Don Chisciotte, ossessionato dalle sue continue ed eccessive letture, riconosce nella realtà elementi che gli ricordano le avventure cavalleresche, e si comporta come un cavaliere errante, scontrandosi ogni volta con la più prosaica realtà. All’interno della trama principale si inseriscono inoltre digressioni, anche metaletterarie, che conferiscono all’opera una struttura composita. Tema centrale è quello del fallimento: il protagonista non riesce mai a portare a compimento il tentativo di rendere il mondo più giusto e conforme ai suoi nobili ideali. Nel romanzo sono presenti numerosi personaggi delle più diverse categorie sociali, ma gli unici a tutto tondo sono quelli di Don Chisciotte e Sancio Panza. Sancio

Sintesi Seicento

171


Panza, un popolano analfabeta ma non sciocco, è complementare a Don Chisciotte nel rappresentare lo spirito pratico opposto all’idealismo, ma in realtà è anch’egli dotato di molteplici sfaccettature che non ne fanno soltanto un’antitesi comica del suo padrone, ma un confidente, un seguace e un amico. Il prospettivismo del Don Chisciotte Un aspetto fondamentale del romanzo è la presenza di una visione aperta e relativa del mondo che il critico Leo Spitzer ha definito “prospettivismo”: l’idea che il mondo appaia diverso a seconda della prospettiva di chi lo guarda. Questa visione è rispecchiata dal gioco letterario della moltiplicazione dei narratori. Allo stesso modo, anche il punto di vista dell’autore appare sfaccettato. Da un lato propone Don Chisciotte come un folle e dall’altro come un modello positivo, come un uomo che è in grado di dibattere con competenza ed equilibrio dei più importanti temi della cultura del tempo. Forse, sembra farci intendere Cervantes, è davvero folle chi rinuncia agli ideali di giustizia, soltanto perché non potrà vederli realizzati. Le interpretazioni del romanzo All’epoca di Cervantes, nel Don Chisciotte viene colta soprattutto la divertente parodia dei romanzi cavallereschi. Ma il romanzo non può essere ridotto soltanto all’aspetto comico, come ha ben sottolineato Luigi Pirandello che, nel suo Saggio sull’umorismo (1908), considera Don Chisciotte l’archetipo dell’arte umoristica, arte capace di superare la semplice comicità, per veicolare riflessioni profonde sulla vita. Sicuramente, infatti, è centrale nel romanzo una riflessione sul rapporto tra letteratura e vita. Nell’Ottocento, inoltre, i filosofi romantici riconoscono nell’opera una natura “filosofica”: essi fanno di Don Chisciotte il rappresentante di un ideale etico assoluto, che per sua stessa natura non può trovare riscontro nella realtà. Tale linea interpretativa sarà sviluppata nel Novecento dal filosofo e scrittore spagnolo Miguel de Unamuno.

Zona Competenze Scrittura creativa

1. Delinea il ritratto di un moderno picaro. Traccia le linee essenziali delle possibili avventure e situazioni paradossali e in cui potrebbe imbattersi il tuo personaggio.

Competenza digitale

2. Esponi in un PowerPoint le differenze tra il romanzo picaresco e il Don Chisciotte. In particolare prendi in esame la narrazione (tipo di narratore; realismo del romanzo; intento dell’autore e significato del romanzo) e il protagonista (estrazione sociale e cultura; valori, rapporto con la realtà, esperienze fatte, relazione con le altre persone).

Sintesi

3. Quale visione della realtà emerge dal romanzo Don Chisciotte di Miguel de Cervantes? Presentalo in sintesi in una tabella.

Esposizione orale

4. Prepara un intervento riepilogativo destinato alla classe sulle interpretazioni che nel corso del tempo sono state elaborate del romanzo capolavoro di Miguel de Cervantes. Dopo averle individuate e brevemente illustrate, dedica la parte finale del tuo intervento alla tua personale interpretazione del romanzo e del suo protagonista. Hai a disposizione 10 minuti.

Scrttura argomentativa

5. Quali sono le caratteristiche del narratore del Don Chisciotte? Esprime giudizi espliciti sul protagonista? Ti sembra che nei confronti di Don Chisciotte dimostri ammirazione, simpatia o commiserazione? Motiva la tua risposta con riscontri testuali.

172 Seicento 4 Il rinnovamento delle forme narrative


CAPITOLO

5 L’Utopia: mondi (im)possibili

Con le esplorazioni geografiche, e il confronto con società fondate su regole e princìpi diversi da quelli europei, nasce nel Cinquecento l’aspirazione a prefigurare uno stato ideale e, conseguentemente, un nuovo genere letterario: l’utopia.

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Seicento

Il termine deriva da un libro pubblicato nel 1516 da Tommaso Moro, su un paese immaginario denominato Utopia, in greco “non luogo”, il “paese che non c’è”. Con le utopie si immaginano infatti stati che non esistono, organizzati secondo princìpi diversi da quelli vigenti nella realtà storica. L’utopia ha una notevole fortuna nel Sei-Settecento, in cui assume una funzione di critica dell’organizzazione sociale e di prefigurazione di un mondo migliore: ricordiamo La Città del Sole (1623) di Tommaso Campanella e La Nuova Atlantide (1627) di Francesco Bacone. Nell’Ottocento le utopie assumeranno un carattere più razionale e scientifico. Il Novecento appare più pessimista rispetto alla società futura: nascerà infatti il genere dell’antiutopia, a cui appartengono romanzi e film accomunati da una visione negativa della società del futuro.

un mondo 1 Immaginare perfetto 173 173


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5 L’Utopia: mondi (im)possibili 1 Immaginare un mondo perfetto 1 La nascita della letteratura utopica 2 I caratteri delle opere utopiche 3 I principali trattati utopici Tommaso Moro T1 I nobili svaghi della città di Utopia Utopia

Tommaso Campanella T2 L’educazione naturale dei «Solari»

EDUCAZIONE CIVICA

secondo le NUOVE Linee guida

#PROGETTOPARITÀ

EDUCAZIONE CIVICA

La Città del Sole

Cyrano de Bergerac T3 I libri parlanti L’altro mondo o Stati e Imperi della Luna

VERSO IL NOVECENTO Dall’utopia alla distopia Romanzi distopici del Novecento

Aldous Huxley T4 I bambini condizionati a odiare i libri e i fiori Il mondo nuovo. Ritorno al mondo nuovo

Sintesi con audiolettura Zona Competenze

174 Seicento 5 L’Utopia: mondi (im)possibili

PARITÀ DI GENERE equilibri

secondo le NUOVE Linee guida


Settecento



Settecento

Scenari socio-culturali L’età dell’Illuminismo LEZIONE IN POWERPOINT

Il fenomeno culturale dominante nel Settecento è l’Illuminismo (che in Italia caratterizza in particolare la seconda metà del secolo). Nato in Inghilterra, l’Illuminismo trova le sue manifestazioni più radicali in Francia, con grandi nomi come Voltaire, Diderot, Montesquieu, Rousseau che incarnano una nuova figura di intellettuale: il philosophe, eclettico e impegnato. Caratterizza l’Illuminismo francese un’appassionata battaglia ideologica volta ad affermare, contro pregiudizi secolari e freni posti dall’oscurantismo religioso, la libera ricerca razionale in ogni campo del pensiero e della vita: dall’etica alla politica, alla società, al costume. Gli illuministi lottano per i diritti fondamentali dell’uomo (l’uguaglianza, la libertà) e, in nome di una visione laica e cosmopolita, difendono il valore fondamentale della tolleranza verso gli altri, fiduciosi che il progresso porterà a una società più giusta, una volta che i “lumi della ragione” saranno diffusi. La visione culturale degli illuministi privilegia il nuovo sapere scientifico che, con Newton, ha trasformato irrevocabilmente la visione dell’universo e dell’uomo: essi credono nella necessità di divulgare il più possibile la conoscenza e il moderno sapere. A questo fine risponde la titanica impresa dell’Encyclopédie, ideata da Diderot e d’Alembert e alla quale collaborano con importanti “voci” altri illuministi come Voltaire e Rousseau. In campo linguistico, in Italia, il «Caffè» si batte per un uso moderno e vivo della lingua, contro la dittatura del toscano letterario illustre e contro il culto del “bello stile”.

1 La visione del mondo. Figure, luoghi e centri della cultura 2 Modelli del sapere e tendenze filosofico-scientifiche 3 Caratteri e forme della letteratura nel Settecento 4 L’evoluzione della lingua 177


Settecento Sguardo sulla storia Il secolo delle rivoluzioni Il Settecento è caratterizzato da trasformazioni radicali nell’economia, nella società, nella politica, da nuove concezioni dell’individuo e dello Stato – fondate sui principi di libertà ed eguaglianza –, dallo sviluppo delle scienze e delle tecnologie. Per l’entità di questi cambiamenti nei diversi ambiti gli storici usano il termine “rivoluzione”: la rivoluzione agricola e la rivoluzione industriale (per quanto riguarda la dimensione economica, sociale e tecnologica), la Rivoluzione americana e la Rivoluzione francese (per indicare gli eventi nodali della storia politica). La rivoluzione agricola e industriale Il Settecento rappresenta per tutta l’Europa, pur con differenze tra Stati e aree geografiche, un periodo di ripresa dell’economia, sostenuto dall’aumento demografico. A sua volta, questo è favorito dal miglioramento delle condizioni igienico-sanitarie della popolazione e dall’accresciuta disponibilità alimentare, grazie allo sfruttamento estensivo della terra (ampliamento delle superfici coltivate) e a quello intensivo (reso possibile da nuove tecnologie). All’avanguardia per le innovazioni nell’agricoltura è l’Inghilterra. A livello sociale, al rafforzamento della piccola nobiltà e della borghesia terriera corrisponde l’impoverimento dei contadini, che, estromessi dalla proprietà della terra, si trasformano in proletari urbani, pronti a soddisfare la richiesta di manodopera della nascente industria.

Cronologia interattiva

1748

Pace di Aquisgrana con il riconoscimento del diritto di successione di Maria Teresa d’Austria al trono degli Asburgo.

1715

Fine del regno del re Luigi XIV, il Re Sole.

1710

1713

Pace di Utrecht, a conclusione della guerra di successione spagnola. La Spagna cede all’Austria il Regno di Napoli, la Sardegna e il Ducato di Milano.

178 Settecento Scenari socio-culturali

1720

1730

1740

1738

Pace di Vienna, a conclusione della guerra di successione polacca. Il regno di Napoli passa ai Borbone; Francesco di Lorena ottiene il granducato di Toscana.

1750


Lessico liberismo Dottrina filosofica che promuove la libertà nella produzione e negli scambi, sia a livello nazionale sia internazionale. Secondo Adam Smith, i governi che sostengono la libera iniziativa degli individui agevolano la creazione di un sistema in cui il singolo sarà in grado di scegliere il percorso che massimizzerà i suoi benefici personali e, di conseguenza, contribuirà al bene della collettività nel suo complesso.

Con l’introduzione delle prime macchine a vapore (la filatrice e il telaio) nella produzione dei tessuti, il sistema produttivo inglese muta radicalmente, coinvolgendo altri settori, da quello metallurgico e meccanico ai trasporti. Allo sviluppo economico e dei commerci in Inghilterra concorrono molteplici fattori, tra i quali anche la politica attuata dalla monarchia di tipo costituzionale, che favorisce l’imprenditoria privata, secondo i principi del liberismo teorizzato da Adam Smith. Il ruolo della borghesia La classe sociale protagonista delle trasformazioni nell’economia è fondamentalmente la borghesia, che investe risorse, energie e idee, affiancata in alcuni casi dai settori più avanzati dell’aristocrazia, partecipi anch’essi dell’esigenza di rinnovamento. In conseguenza di questo suo apporto economico la borghesia ritiene di poter aspirare a un adeguato ruolo politico, e trova nel pensiero storico-economico e nell’ideologia dei philosophes illuministi, che dalla Francia si diffonde tra gli intellettuali europei, un sostegno in questo processo di affermazione. La fine dell’Ancien régime e il nuovo assetto politico europeo Mentre il predominio politico della Francia del Re Sole, che aveva contraddistinto gli ultimi decenni del Seicento, subisce un ridimensionamento già all’inizio del nuovo secolo, l’Inghilterra, dopo il ritorno al regime monarchico nel 1688, assume con la monarchia costituzionale, sostenitrice dell’espansione economica e del rinnovamento sociale, un’importanza sempre maggiore nella politica europea. I conflitti militari che dominano la prima metà del Settecento – le guerre per la successione dei troni di Spagna, Polonia e Austria – si concludono con nuovi rapporti di forza tra gli Stati europei. Mentre l’impero spagnolo aggiunge il decadimento politico a quello economico, la pace di Aquisgrana (1748) riconosce il nuovo prestigio dell’Austria guidata

1773

Scioglimento dell’ordine religioso dei gesuiti.

1789

Inizio della Rivoluzione francese e Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino. 1794

Presa del potere della borghesia moderata con il Direttorio.

1763

Fine della guerra dei Sette anni, con la supremazia dell’Inghilterra sulla Francia e inizio dell’impero coloniale inglese.

1760

1770

1763-1789

Assolutismo illuminato, contraddistinto dalle riforme attuate dai sovrani in Austria, Prussia, Russia; e in Italia, nella Lombardia degli Asburgo, nella Toscana dei Lorena, nel regno di Napoli dei Borbone.

1776

1796

Dichiarazione di indipendenza degli Stati Uniti d’America.

1780

Discesa dell’armata francese, guidata dal generale Bonaparte, in Italia.

1800

1790

1792-1793

Destituzione e condanna a morte del re Luigi XVI per tradimento e periodo del Terrore.

Sguardo sulla storia  179


dall’imperatrice Maria Teresa, che si impegna negli anni del suo regno in un’intensa politica di riforme. La fine dell’egemonia della Francia a favore dell’Inghilterra è aggravata dalla perdita francese, sancita dalla pace di Parigi del 1763 a conclusione della guerra dei Sette anni, delle colonie del Canada, della Louisiana e di alcuni insediamenti in Africa, che pongono le basi dell’impero coloniale inglese. L’assolutismo illuminato Nella seconda metà del secolo XVIII in alcuni stati europei (in particolare Russia, Prussia, Austria) si afferma il governo dei “sovrani illuminati”, artefici di riforme politiche e amministrative ispirate dalle idee dei filosofi illuministi, alcuni dei quali loro consiglieri. Tra i provvedimenti, destinati a limitare i privilegi della nobiltà e del clero, vi sono anche l’abolizione di ordini religiosi, tra cui la potente Compagnia di Gesù. La stagione delle riforme in Italia Nella prima metà del Settecento la politica italiana è soggetta all’esito delle guerre di successione, che determina ogni volta cambiamenti dinastici destinati a successive modifiche. Il passaggio del Ducato di Milano dal dominio spagnolo all’Austria, stabilito dopo la guerra di successione spagnola con la pace di Utrecht e ribadito dalla pace di Aquisgrana, coincide con una fase di rinnovamento economico e politico per gli stati italiani, anche se in forme diverse. Nella Lombardia austriaca il processo riformatore è contraddistinto dalla collaborazione tra il governo e i cittadini, con provvedimenti – dalla riforma del catasto (con la conseguente tassazione della proprietà terriera) alle misure riguardanti la Chiesa e l’educazione – che mirano a colpire alcuni privilegi sociali. Anche nel Regno di Napoli, sotto la dinastia dei Borbone vengono attuate riforme di impronta illuministica; lo Stato della Chiesa si mostra subalterno alla politica delle grandi monarchie cattoliche, che impongono la soppressione della Compagnia di Gesù, a cui era assegnata fino a quel momento la formazione delle classi dirigenti, in nome della separazione dello Stato dalla Chiesa. La Rivoluzione americana All’inizio degli anni Settanta del secolo la decisione dell’Inghilterra di imporre nuove tasse alle colonie d’America – che l’avevano sostenuta nella guerra vittoriosa contro la Francia – suscita la loro ribellione. Il rifiuto della madrepatria di accogliere le richieste dei coloni, tra cui quella di avere una rappresentanza nel Parlamento inglese, determina la nascita di un agguerrito movimento autonomista, che dopo vari scontri, porta alla proclamazione nel 1776 dell’indipendenza, con la creazione degli Stati Uniti d’America. Gli ideali illuministici ispirano la Dichiarazione di indipendenza, che afferma il diritto di ogni uomo alla libertà e al «perseguimento della felicità». La Rivoluzione francese La grave crisi economica in Francia nella seconda metà del secolo spinge la borghesia – la cui importanza economica si è accresciuta con la monarchia assoluta – a denunciare con forza gli effetti negativi dei privilegi della nobiltà e del clero, ostili a ogni riforma, e a chiedere di partecipare alla vita politica del paese. La rivoluzione, iniziata nel 1789, afferma nella Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino gli ideali di libertà, eguaglianza e fratellanza sostenuti dagli illuministi. A determinare la fine della monarchia assoluta e l’abolizione dei privilegi feudali sarà la sollevazione del popolo di Parigi e dei contadini nelle campagne. Dopo il periodo del Terrore giacobino e la presa di potere della borghesia moderata del Direttorio, inizia la nuova fase dominata dalla figura di Napoleone Bonaparte.

180 Settecento Scenari socio-culturali


1

La visione del mondo. Figure, luoghi e centri della cultura 1 L’Illuminismo

Lessico razionalismo

PER APPROFONDIRE

In ambito filosofico, corrente, sistema o atteggiamento che considera la realtà retta da un principio razionale e quindi totalmente comprensibile attraverso le facoltà intellettive.

L’Illuminismo, una delle più stimolanti stagioni della storia culturale europea, caratterizza più di ogni altro aspetto la civiltà del Settecento, investendo anche i comportamenti e la visione del mondo. Dell’illuminismo è difficile dare una definizione unitaria, per un insieme di ragioni. • Posizioni diversificate attorno a temi-chiave Gli illuministi non produssero documenti programmatici che consentano di dare una definizione sintetica globale di questo complesso fenomeno culturale. Nella stessa cultura francese, dove si ritrovano i nomi più celebri dell’Illuminismo (Montesquieu, Diderot, Voltaire, Rousseau e altri), le posizioni assunte sono diversificate: in generale si è dato grandissimo spazio nell’idea di illuminismo alla componente razionalistica . Di certo essa è prevalente, ma va ascritto pienamente all’Illuminismo anche il pensiero di Rousseau, sebbene in una posizione isolata rispetto agli altri philosophes per la sua difesa delle componenti sentimentali e passionali dell’uomo (➜ D7b OL) e la sua critica al “progresso” (➜ D12 ). • Illuminismo/illuminismi Inoltre vi furono differenze notevoli tra le varie interpretazioni che dell’Illuminismo diedero i vari paesi (Inghilterra, Francia, Italia, Germania), in rapporto alle prerogative socio-politico-culturali di ognuno di essi. L’Illuminismo nasce in Inghilterra, dove trova un contesto sociale ed economico (lo sviluppo industriale, la crescita di una dinamica classe borghese) particolarmente favorevole al suo sviluppo: le nuove idee ispirano la formazione di una moderna monarchia costituzionale e di una linea politico-economica che risponde ai bisogni di espansione della classe borghese.

La metafora della luce e il termine “Illuminismo” La parola “Illuminismo” (usata in Italia solo a partire dai primi decenni dell’Ottocento) deriva dal termine tedesco Aufklärung (letteralmente “rischiaramento”), impiegato fin dal Settecento per alludere all’azione di illuminazione delle menti grazie alla ragione, capace di disperdere le tenebre dell’ignoranza e della superstizione. La metafora della luce ricorre anche nel termine inglese Enlightenment e nel francese âge des lumières (“età dei lumi”), per designare una nuova età. Immagini metaforiche riferite alla luce sono assai diffuse negli scritti degli illuministi. Per lo più l’immagine della luce è impiegata in modo polemico dagli illuministi per alludere all’azione liberatrice dei “lumi” della ragione: ad esempio nel romanzo Bélisaire (1767) di Jean-François Marmontel (1723-1799) leggiamo: «La verità risplende della propria luce; e non si illuminano le menti con la fiamma dei roghi» (cap. XV). La luce della verità razionale sfida vittoriosamente la fiamma dei roghi, simbolo dell’oscurantismo religioso, contro cui, soprattutto in Francia, gli illuministi condussero una strenua battaglia.

La più nota definizione dell’Illuminismo è quella del filosofo Immanuel Kant (1724-1804): «L’Illuminismo è l’uscita dell’uomo dallo stato di minorità che egli deve imputare a sé stesso. Minorità è l’incapacità di valersi del proprio intelletto senza la guida di un altro. Imputabile a sé stesso è questa minorità, se la causa di essa non dipende dal difetto di intelligenza, ma dalla mancanza di decisione e del coraggio di far uso del proprio intelletto senza essere guidati da un altro. Sapere aude! Abbi il coraggio di servirti della tua propria intelligenza! È questo il motto dell’Illuminismo». Per Kant, dunque, l’Illuminismo corrisponde all’uscita della civiltà europea dalla condizione in cui si ha bisogno di “tutori”, di guide: un bisogno alimentato nei popoli dai tutori stessi, che impedendo il libero utilizzo della ragione ha mantenuto per secoli nella paura e nell’ignoranza i popoli, facendo apparire pericolosi (e peccaminosi) l’esercizio dello spirito critico e l’autonomia di pensiero.

La visione del mondo. Figure, luoghi e centri della cultura 1 181


• Al contrario, le stesse idee si scontrano in Francia con un modello politico-istituzionale ancora assolutistico e fortemente accentrato, sostenuto dal clero e dalla classe nobiliare, un modello secondo il quale i diritti sono quelli del sovrano e delle classi di potere, tese a difendere secolari privilegi. Da qui il carattere battagliero e particolarmente “ideologizzato” dell’Illuminismo francese, che ha finito per essere identificato con l’Illuminismo tutto. D’altra parte, gli scritti degli illuministi francesi hanno inciso in modo più marcato sul dibattito intellettuale. Carattere moderato e riformistico ha l’Illuminismo italiano, anche in rapporto alla politica dei sovrani in Lombardia e nel regno di Napoli, aperta alla collaborazione degli intellettuali. Gli aspetti comuni D’altra parte è indubbio che ci sia stato un terreno comune che giustifica l’utilizzo del termine “illuminismo” per definire un modello di pensiero largamente condiviso, in cui sono identificabili alcuni punti fermi. Tra i principali figurano: • l’esaltazione della ragione, intesa come libero esercizio di critica razionale; • l’idea che la ragione vada liberamente impiegata per il raggiungimento del bene comune, della “felicità pubblica”; • l’orientamento antitradizionalista e l’avversione verso ogni forma di dogmatismo.

2 Dalla visione teologica alla visione razionale-scientifica del mondo

Una nuova mappa culturale: l’età della scienza Nell’età dell’Illuminismo la concezione del mondo, della natura e dell’uomo è la diretta conseguenza dell’estensione del metodo scientifico a tutti i campi del sapere: si rinuncia a ricercare l’essenza delle cose, i fini generali dei fenomeni, per indagarne, attraverso l’osservazione diretta e la verifica sperimentale, le proprietà e le relazioni. Per la prima volta, poi, le principali acquisizioni scientifiche vengono divulgate attraverso la stampa e si crea un inusitato interesse nei confronti della scienza, mitizzata anche in seguito a scoperte di grande impatto sulla vita sociale e sull’immaginario (si pensi agli esperimenti sull’elettricità di Franklin, Galvani e Volta, all’ideazione del pallone aerostatico, del parafulmine e così via). L’universo-macchina di Newton L’adozione del metodo scientifico investe anzitutto il campo fisico-astronomico, dove viene accolta ormai stabilmente non solo la visione copernicano-galileiana, ma anche una concezione meccanicistica dell’universo in quanto soggetto a leggi esprimibili in linguaggio matematico. Già negli ultimi decenni del Seicento con Isaac Newton (1642-1726; Principi matematici di filosofia naturale, 1687) la scienza aveva compiuto un grandissimo passo in avanti per svincolare l’indagine della natura dall’ottica teologica: la teoria della gravitazione universale unisce infatti finalmente mondo terrestre e mondo celeste in un organico universo-macchina, il cui funzionamento può essere conosciuto e rigorosamente descritto. Nel corso del secolo le principali formulazioni dello scienziato vengono divulgate anche tra i non addetti ai lavori: la filosofia newtoniana diventa così un elemento chiave del “codice” culturale del tempo, e Newton stesso assurge a personaggiosimbolo di una nuova era libera finalmente dalla soggezione del soprannaturale. Il problema di Dio La nuova scienza astronomica non espunge Dio dall’universo, anzi proprio nell’armonia dell’universo-macchina Newton ritrova le prove dell’esi-

182 Settecento Scenari socio-culturali


stenza di Dio, come evidenzia anche solo questo passo, tratto dai Principia mathematica (1713): «Questa elegantissima compagine del Sole e dei pianeti poté sorgere soltanto dal disegno e dal volere di un Ente intelligente e potente. E se le stelle fisse sono centri di sistemi consimili, questi sono tutti soggetti al dominio di uno solo [...] che tutto regge non come anima del mondo, ma come signore dell’universo». Per Voltaire, il più noto filosofo illuminista, come l’orologio presuppone l’orologiaio, allo stesso modo le leggi che regolano il movimento degli astri presuppongono la presenza di un “grande geometra”. La nuova visione astronomica non nega dunque Dio, ma libera certamente l’uomo dalla paura fondata sul mistero, una paura che aveva mantenuto per secoli gli uomini in quello stato che Kant, nella sua celebre definizione dell’Illuminismo, chiama di «minorità». Tra deismo e ateismo Almeno nei primi decenni dell’età dei lumi, dunque, non è negata l’esistenza di Dio, ma piuttosto si tende a contestare il ruolo “pubblico” e “politico” della religione, riducendola sempre più a una questione di coscienza individuale, a un rapporto privato tra l’uomo e Dio.

Sguardo sull’arte Ritratti di scienziati Il pittore francese Jacques-Louis David (1748-1825) in un dipintodel1788ritraeloscienziatofranceseAntoine-Laurent de Lavoisier insieme alla moglie Marie-Anne Pierrette Paulze, chimica di formazione. Il personaggio centrale è Marie-Anne Pierrette: con lo sguardo diretto allo spettatore, si appoggia alla spalla del marito e posa la mano destra sul bordo del tavolo su cui, fra penne d’oca, inchiostro e fogli manoscritti, sono in bella vista vari strumenti da chimico, che richiamano gli studi e gli esperimenti. Antoine è seduto al fianco della moglie, il viso rivolto per tre quarti verso di

lei, con espressione sollecita e complice. All’estrema sinistra, in una cartella, si intravedono cartoni da disegno che ricordano come la moglie di Lavoisier, allieva dello stesso David, fosse l’autrice di vari disegni dei loro esperimenti. La tela rimanda un’immagine amabile, quasi borghese, di una coppia, accomunata anche dal lavoro di ricerca scientifica. Nel ritratto dedicato a Isaac Newton, il pittore William Blake (1757-1827) non raffigura realisticamente il grande scienziato, ma ne fa un ritratto simbolico, rappresentandolo come un eroe classico, ripiegato su se stesso e intento a tracciare figure geometriche con il compasso. IMMAGINE INTERATTIVA

Jacques-Louis David, Antoine-Laurent Lavoisier e la moglie Marie-Anne-Pierrette Paulze, 1788 (New York, Metropolitan Museum).

William Blake, Newton, 1798-1805 (Londra, Tate Britain).

La visione del mondo. Figure, luoghi e centri della cultura 1 183


La concezione prevalente in campo religioso (da Voltaire a Montesquieu a Rousseau) è il deismo, una sorta di religione “naturale” e razionale, che non riconosce le religioni rivelate, considerate colpevoli di mantenere l’uomo preda di paure e superstizioni. La morale riconosciuta dai deisti non è frutto di dogmi, ma si fonda sulla tolleranza e sul riconoscimento della fratellanza universale. Concetti espressi con convinzione da Voltaire nella voce “Teista” del suo Dizionario filosofico (occorre preonline cisare che Voltaire usa qui il termine “teismo” sostanzialmente D1 Voltaire come sinonimo di “deismo”; ➜ D1 OL). Che cosa significa essere teista Dizionario filosofico, s.v. "Teista" Nella cultura illuminista francese si afferma però anche l’ateismo: esplicite dichiarazioni di materialismo e ateismo sono presenti in particolare nell’opera del medico-filosofo Julien de La Mettrie (17091751; L’uomo macchina, 1748), ma anche nei gruppi intellettuali che si formarono attorno a Diderot e al barone d’Holbach. Al Dio “geometra” di Newton, d’Holbach contrappone una natura che attraverso leggi meccaniche si autoregola e automantiene (➜ D3 ): una concezione che sarà fatta propria da Giacomo Leopardi, il cui pensiero è profondamente nutrito dal materialismo meccanicistico settecentesco. La battaglia contro la superstizione Una delle manifestazioni che hanno maggiormente inciso sulla mentalità del tempo dei lumi è il processo che i philosophes online istruiscono nei confronti della religione. La cosa non stupiD2 Voltaire sce se si pensa che l’Europa usciva da un’epoca tragicamente Critica della fede nei miracoli segnata da sanguinose guerre di religione e che il concetto Dizionario filosofico, s.v. "Miracoli" della tolleranza religiosa non si era ancora definitivamente imposto. Gli illuministi conducono una strenua battaglia contro la superstizione, il fanatismo, l’irrazionale fede nei miracoli (➜ D2 OL) e attaccano duramente il ruolo di istituzioni religiose repressive come l’Inquisizione (un esempio può essere la lettera XXIX delle Lettere persiane di Montesquieu). Persino nel paese cattolico per eccellenza, ovvero l’Italia, esponenti del clero stesso (come Muratori e Giannone), già prima della battaglia ideologica illuminista, avevano auspicato una religione lontana da fanatismo e superstizioni.

Paul-Henry d’Holbach

D3

La visione materialisticomeccanicistica dell’universo

LEGGERE LE EMOZIONI

Il buon senso o idee naturali contrapposte alle idee soprannaturali P.-H. d’Holbach, Il buon senso, a c. di S. Timpanaro, Garzanti, Milano 1985

Il trattato Il buon senso uscì anonimo nel 1772: in questo scritto del filosofo Paul-Henry d’Holbach (1723-1789), collaboratore dell’Enciclopedia, si esprime, come si può comprendere anche dal brano che segue, una concezione ateistica e rigorosamente materialistico-meccanicistica dell’universo: la natura è regolata da leggi immutabili a cui sottostà ogni elemento, organico e inorganico; tuttavia, alcune di queste leggi non sono conosciute dall’uomo, ed è da qui che per d’Holbach derivano i dubbi e soprattutto le credenze che abdicano al cosiddetto buon senso, come quella in un Dio regolatore dell’universo.

184 Settecento Scenari socio-culturali


Gli adoratori di un Dio trovano soprattutto nell’ordine dell’universo una prova invincibile dell’esistenza di un essere intelligente e saggio che lo governa. Ma quest’ordine non è che un séguito di movimenti necessariamente prodotti da cause o da circostanze che sono talora favorevoli a noi, talaltra contrarie: noi approviamo 5 le une e ci lamentiamo delle altre. La natura segue costantemente lo stesso cammino: vale a dire che le stesse cause producono gli stessi effetti, fin tanto che la loro azione non sia modificata da altre cause che costringono le prime a produrre effetti diversi. Quando le cause delle quali noi sperimentiamo gli effetti sono modificate, nelle loro azioni o movimenti, da altre cause che, per il fatto di esserci ignote, non 10 sono meno naturali e necessarie, noi rimaniamo stupefatti, gridiamo al “miracolo”, e attribuiamo tali effetti ad una causa molto meno nota di tutte le altre che vediamo agire sotto i nostri occhi1. L’universo è sempre in ordine; per esso, non possono esserci disordini. Quando noi ci lamentiamo d’un disordine, è solo la nostra macchina che si trova in stato di 15 sofferenza2. I corpi, le cause, gli esseri contenuti in questo mondo agiscono necessariamente come li vediamo agire, sia che noi approviamo, sia che disapproviamo i loro effetti. I terremoti, i vulcani, le inondazioni, le epidemie, le carestie sono effetti altrettanto necessari – o altrettanto appartenenti all’ordine della natura – quanto la caduta dei gravi, il corso dei fiumi, i movimenti periodici dei mari, il soffiare dei 20 venti, le piogge fecondatrici, gli eventi favorevoli per i quali lodiamo la Provvidenza e la ringraziamo dei suoi benefizi. Essere meravigliati di veder regnare un determinato ordine nel mondo, significa essere sorpresi che le stesse cause producano costantemente gli stessi effetti. Rimanere turbati nel vedere del disordine, significa dimenticare che, se le cause mutano o 25 subiscono interferenze nella loro azione, gli effetti non possono più essere gli stessi.

1 Quando... occhi: anche d’Holbach attacca, come Voltaire, la fede nei miracoli ma con diverse motivazioni: i miracoli sono solo il frutto delle nostre limitate co-

noscenze scientifiche, che non sono in grado di spiegare tutti i fenomeni. 2 è solo... sofferenza: la natura procede sempre attraverso un complesso di leggi,

siamo noi a percepire come negativi determinati fenomeni perché ci provocano sofferenze (ad es. un terremoto, un maremoto e altre calamità, come scrive più avanti).

Concetti chiave Una visione rigorosamente ateistica

D’Holbach polemizza con i credenti nelle religioni, ma anche con i deisti come Voltaire. Sia gli uni sia gli altri ritrovano nell’ordine dell’universo una prova dell’esistenza di Dio: in realtà ciò che percepiamo come un ordine che rispecchia un Dio creatore non è altro che il risultato di cause naturali, alcune favorevoli e altre avverse. L’autore sottolinea che la natura segue costantemente il suo corso, con le stesse cause che producono gli stessi effetti finché non vengono alterate da altre cause naturali e necessarie, anche se sconosciute a noi. La limitatezza delle nostre conoscenze scientifiche attribuisce erroneamente a un “miracolo” gli effetti prodotti da cause non ancora comprese dall’uomo. Le calamità (come i terremoti o le epidemie) sono effetti necessari, dovuti a cause naturali, esattamente come gli eventi naturali per cui ringraziamo la Provvidenza divina. L’autore sostiene che l’universo è sempre in ordine anche quando appare in disordine: semplicemente, mutando le cause, non possono che mutare gli effetti.

La visione del mondo. Figure, luoghi e centri della cultura 1 185


Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

COMPRENSIONE 1. Qual è la tesi che d’Holbach intende sostenere nel brano? 2. Quali affermazioni l’autore formula circa il “disordine” dei fenomeni naturali? LESSICO 3. La concezione che si evince dal passo è definibile come “materialistico-meccanicistica”: spiega il termine in rapporto a quanto si sostiene nel testo.

Interpretare

TESTI A CONFRONTO 4. Confronta la posizione espressa da d’Holbach con quella di Voltaire (➜ D1 OL, ➜ D2 OL), evidenziando i punti di contatto e le differenze tra i due pensatori circa la concezione dell’universo e l’atteggiamento degli uomini di fronte ai fenomeni naturali.

LEGGERE LE EMOZIONI

SCRITTURA 5. La visione ateistica e materialistico-meccanicistica dell’universo proposta da Paul-Henry d’Holbach ha come obiettivo quello di portare ciascun essere umano all’acquisizione di responsabilità verso la propria esistenza agendo in modo diretto e deciso su ciò che percepiamo come “disordine”. Ti trovi d’accordo con la posizione dell’autore? In che modo sviluppare un pensiero critico su sé stessi e sul reale può essere la direzione da seguire per superare la sfida posta da d’Holbach?

3 Una nuova immagine del mondo naturale e dell’uomo Anche la natura è soggetta a leggi Se il cosmo diviene meno misterioso, allo stesso modo anche la concezione della natura si trasforma, una volta indagata senza più pregiudizi e preclusioni. Si fa strada l’idea che la natura, come il cosmo, sia soggetta a leggi. Ancora non esisteva un termine che distinguesse lo studio della natura (che rientrava sempre nell’ambito della “filosofia naturale”), ma già inizia a delinearsi la distinzione tra “scienze della terra” (la geologia e la mineralogia) e “scienze della vita” (botanica e zoologia). In quest’ultimo campo furono fondamentali le acquisizioni del naturalista svedese Carl von Linné (italianizzato in Carlo Linneo, 1707-1778) che sviluppano una sistematica classificazione degli esseri viventi (piante e animali), emancipando definitivamente questo campo di indagine dalle fantasiose ipotesi dei bestiari ed erbari medievali, impregnate di simbolismo religioso.

Esperimenti su animali, illustrazione tratta dalla Storia naturale (17491788) di Georges-Louis Leclerc de Buffon.

186 Settecento Scenari socio-culturali


online

Per approfondire La visione preevoluzionistica di Buffon

Anche l’uomo fa parte della realtà naturale Persino il posto privilegiato dell’uomo nel creato viene messo in discussione dalle nuove concezioni filosofiche: l’uomo non è più un essere superiore, autonomo rispetto alle altre specie, ma a sua volta appare inserito in un mondo naturale soggetto a proprie leggi. Viene abbattuto il dualismo anima-corpo e si comincia a pensare che persino le funzioni superiori dell’essere umano (quelle intellettuali e spirituali) possano dipendere da cause organiche, come prospetta la riflessione filosofica del sensismo (➜ PER APPROFONDIRE Il sensismo). Il medico Georges Cabanis (1757-1808) getta le basi della moderna fisiologia del sistema nervoso, al quale riconduce le attività psichiche. Una volta scalzata la prospettiva metafisica come parametro dominante di interpretazione, tramonta la visione della malattia e delle grandi epidemie come conseguenza del peccato, punizione di Dio; inoltre, si comincia a comprendere l’esigenza dell’igiene personale e si diffonde la preoccupazione della salute pubblica (come ci testimonia anche l’ode pariniana La salubrità dell’aria ➜ C9 T1 ).

4 Il tema della felicità e il mito del progresso

PER APPROFONDIRE

Il piacere e il diritto alla felicità Un tema chiave del pensiero illuminista, profondamente radicato nell’opinione pubblica, è la felicità, argomento di conversazione privilegiato nei salotti intellettuali e soggetto di testi letterari (come il romanzo Candido di Voltaire ➜ C8). Al tema è dedicata anche una voce dell’Enciclopedia. Non è certamente un concetto nuovo (basta pensare agli umanisti), ma nuova è la prospettiva tutta laica e terrena con cui gli illuministi intendono la felicità: l’Illuminismo non demanda all’aldilà la felicità, ma la radica nell’aldiquà e la estende dall’individuo singolo all’intera collettività (si è parlato in proposito di «socializzazione dell’ideale della felicità»). È dovere degli intellettuali battersi perché nella società venga raggiunto il massimo della felicità possibile, abbattendo ogni ostacolo che ne impedisca il conseguimento: istituzioni arcaiche e irrazionali pregiudizi ereditati dal passato. La felicità si connette al tema, centrale nella visione illuminista, del piacere. Secondo l’ottica del sensismo, gli illuministi tendono a ricollegare la dinamica della vita psichica, le scelte fondamentali dell’uomo, al piacere: per sua natura l’uomo ricerca sensazioni piacevoli e rifiuta sensazioni dolorose.

Il sensismo Nel 1754 l’abate francese Etienne Bonnot de Condillac (1714-1780) pubblica il Trattato delle sensazioni, fondamento della filosofia del sensismo in Francia che eserciterà grande influenza anche nell’ambito estetico e letterario. La riflessione di Condillac ha le sue radici nell’empirismo inglese: già Francesco Bacone (1561-1626), nella sua concezione della conoscenza, accanto alla ragione aveva dato spazio all’esperienza. Il ruolo dell’esperienza nel processo conoscitivo è ulteriormente accentuato nella seconda metà del secolo da John Locke (1632-1704), principale teorico della corrente filosofica inglese dell’empirismo, per il quale la ragione trae dall’esperienza, e più precisamente dalla sensazione, i materiali che

fanno conoscere all’uomo le cose esterne (mentre è dalla riflessione che vengono tratti i materiali che la ragione utilizza per conoscere le cose interne). Per Condillac le sensazioni fisiche sono all’origine di tutte le conoscenze e dello sviluppo delle facoltà umane, compresa la vita psichica; e le nostre conoscenze e le nostre passioni sono effetti del piacere e del dolore che accompagnano le impressioni dei sensi. Le teorie sensistiche penetrarono profondamente nella cultura e nella stessa mentalità del Settecento. Anche in Italia ci fu una consistente penetrazione di temi del sensismo, soprattutto nel dibattito sulla natura e i caratteri dell’arte (➜ PAG. 215).

La visione del mondo. Figure, luoghi e centri della cultura 1 187


Lo scienziato francese AntoineLaurent de Lavoisier alle prese con un esperimento in una stampa d’epoca.

L’utopia del progresso Gli illuministi hanno la percezione, altrettanto forte degli umanisti, che si stesse aprendo una nuova età, caratterizzata dalla felicità, dalla fine delle ingiustizie, dall’uguaglianza: insomma, un’età più civile. La storia è quindi vista come progresso (➜ D4 OL) da un passato giudicato negativamente perché dominato dalle tenebre dell’ignoranza e dell’irrazionalità, a un futuro ottimisticamente immaginato come illuminato dalla ragione e dalla scienza, nel quale tutte le facoltà umane sarebbero state potenziate. A questa visione – come vedremo – si contrappone il filosofo ginevrino Jean-Jacques Rousseau (1712-1778), il quale considera “regresso” quello che è chiamato dagli altri philosophes “progresso” e sviluppa nei suoi scritti una visione negativa del divenire storico-sociale (➜ D12 ), che ha allontanato sempre di più l’uomo dai suoi reali bisogni e dalla sua “naturalità”, provocandone inevitabilmente l’infelicità.

online D4 Pietro Verri

La diffusione dei lumi e i progressi della civiltà europea Del piacere e del dolore

I temi centrali del pensiero illuminista sull’esistenza la felicità, intesa in una prospettiva totalmente laica e terrena

TEMI

il piacere, come principio che orienta le scelte degli esseri umani

Parola chiave

il progresso, in prospettiva storica come orizzonte inevitabile di un futuro dominato dalla ragione e dalla scienza

progresso Il termine progresso deriva dal verbo latino progrĕdi che significa “avanzare, procedere”. Nell’Illuminismo è particolarmente diffusa l’identificazione futuro-progresso: una volta diffusi i lumi della ragione, inequivocabilmente l’umanità conoscerà un avanzamento in ogni ambito della società e del costume. Si tratta di una visione utopistica sostenuta dall’incremento, per quei tempi considerevole, delle conoscenze scientifiche. Il mito del progresso sarà ripreso, con connotazioni espressamente scientifico-tecnologiche e in

188 Settecento Scenari socio-culturali

modo addirittura trionfalistico, dalla cultura positivistica nel secondo Ottocento. Nella società contemporanea (che reca ancora i segni del trauma del disastro atomico e che ha davanti a sé lo spettro della catastrofe ecologica) si sta verificando un'inversione di tendenza: al mito del progresso illimitato, in ogni caso da incrementare, si va sostituendo l’idea di uno sviluppo sostenibile, in cui la crescita tenga conto delle risorse del pianeta e del rispetto dell’ambiente.


5 Una nuova figura di intellettuale: il philosophe Un intellettuale battagliero, al servizio del bene comune La grande trasformazione culturale operata dall’Illuminismo non è determinata (almeno in Francia e in Italia) dall’emergere di nuove figure sociali, ma è portata avanti da un’ala progressista della stessa aristocrazia: appartengono infatti al ceto nobiliare Voltaire, d’Alembert, d’Holbach e molte altre figure di spicco dell’Illuminismo francese, come del resto sono nobili in Italia i fratelli Verri e Cesare Beccaria. Il particolare modello di intellettuale che diede vita al movimento illuminista, in particolare in Francia, corrisponde alla figura del philosophe di cui Voltaire rappresenta la perfetta incarnazione, come si può notare anche solo scorrendo i dati della sua biografia (➜ PAG. 190). Il termine francese è sostanzialmente intraducibile e solo in parte può essere reso con “filosofo”: il philosophe ingloba infatti in sé anche il letterato, ma è un letterato che non ha nulla a che fare con l’erudito e che esercita lo spirito critico in campi online socialmente utili, contribuendo alla distruzione dei pregiudizi D5 e di una mentalità superstiziosa e dogmatica (➜ D5 OL). Identikit del philosophe Enciclopedia o Dizionario ragionato delle scienze delle arti e de’ mestieri ordinato da Diderot e d’Alembert, s.v. “Filosofo”

Lessico pamphlet Breve scritto di carattere polemico o satirico.

Jean-Étienne Liotard, Ritratto d’uomo seduto alla scrivania, 1752 (Castello di Schönbrunn di Vienna).

La cultura deve e può cambiare la società Il modello di intellettuale cui diedero vita Voltaire, Diderot, Montesquieu, d’Alembert e altri non si isola più nei chiusi confini della speculazione filosofica ma assume un ruolo attivo e polemico, utilizzando per diffondere le proprie idee nuove forme di comunicazione come i dibattiti, i pamphlet , i giornali, e gli stessi romanzi, che assumono spesso la forma del conte philosophique, il “racconto filosofico”. Mai come nell’età dei lumi si ha fiducia che gli uomini di cultura possano cambiare il mondo (è questa una delle utopie degli illuministi) e per questo il philosophe si attribuisce il diritto-dovere di mobilitare l’opinione pubblica con clamorose prese di posizione. Ad esempio, Voltaire fa conoscere al pubblico un caso giudiziario conclusosi con una faziosa condanna a morte. Il letterato si batte per l’assoluzione e riabilitazione post mortem dell’accusato, un protestante di Tolosa, Jean Calas, torturato e poi giustiziato nel 1762 con l’accusa di aver ucciso il figlio per impedirgli di convertirsi al cattolicesimo. Voltaire riesce a coinvolgere l’opinione pubblica, trasformando in un “caso” la tragica vicenda, così da ottenere la riabilitazione ufficiale del povero Calas. Dalla vicenda lo scrittore trae spunto per il celebre Trattato sulla tolleranza (1763; ➜ D11 ). D’altra parte il philosophe non manca di ricercare la collaborazione dei sovrani, come tenta di fare Voltaire con Federico di Prussia, aspirando a diventarne l’illuminato consigliere, nella convinzione che l’appoggio degli intellettuali al programma di riforme sia necessario per realizzare una società più giusta. In Italia: gli intellettuali-funzionari Sull’esempio dei philosophes, in Italia l’intellettuale si occupa di ambiti diversi e assume a volte ruoli pubblici: in particolare in Lombardia, gli intellettuali mirano a inserirsi nei posti chiave dell’amministrazione pubblica, diventando funzionari governativi, per poter così contribuire concretamente alla “pubblica felicità”: ne è un esempio Pietro Verri (➜ C7), attivo per più di vent’anni nel governo asburgico, ma anche Giuseppe Parini (➜ C9). La visione del mondo. Figure, luoghi e centri della cultura 1 189


Una riunione della Società dei Pugni nel dipinto di un anonimo milanese. Sono ritratti, da sinistra, Alfonso Longo, Alessandro Verri, Giovanni Battista Biffi, Cesare Beccaria, Luigi Lambertenghi, Pietro Verri, Giuseppe Visconti di Saliceto.

La “repubblica cosmopolita” degli intellettuali Nell’età dell’Illuminismo gli intellettuali ricreano su nuove basi la “repubblica dei letterati” nata con l’Umanesimo. Fondamentale strumento di questa nuova unità della società intellettuale sono i viaggi (➜ PAG. 194) grazie ai quali gli intellettuali si aprono a una dimensione europea, acquisendo conoscenza di uomini e usanze diversi. Il cosmopolitismo non è dunque solo un valore a cui gli illuministi credono fermamente, ma la reale condizione di molti di loro. Con l’Illuminismo inizia anche per la nostra cultura una fase di sprovincializzazione in cui l’influenza dei modelli stranieri diventa assai rilevante. Alessandro Verri ad esempio si reca a Parigi con Cesare Beccaria per far conoscere la rivista «Il Caffè»: il viaggio metterà in contatto la Società dei Pugni con i salotti francesi ed è su questa base che si costruirà il trionfo del libretto di Cesare Beccaria (Dei delitti e delle pene) fuori d’Italia. Gli intellettuali sono in contatto tra di loro anche attraverso l’intensificarsi della corrispondenza epistolare, che a quei tempi era lo strumento fondamentale per le relazioni interpersonali. Quella del Settecento non è solo la “civiltà del viaggio”, ma anche quella delle lettere.

Parola chiave

Voltaire, il prototipo del philosophe La figura sicuramente più rappresentativa dell’età dei lumi è Francois-Marie Arouet, detto Voltaire (1694 1778). Nato a Parigi da un’agiata famiglia, è educato in un collegio gesuitico. Fondamentale per la sua formazione ideologica è il periodo in cui vive in Inghilterra (1726-1728) e conosce da vicino il clima di libertà che si respira in un paese moderno e tollerante. Da

cosmopolitismo Dal greco cosmos, “mondo”, e polites, “cittadino”, è la disposizione a considerare tutti gli uomini come cittadini di un’unica patria, rifiutando di conseguenza distinzioni di nazionalità e di razza; cosmopolita è chi si vede un cittadino del mondo e ritiene che il mondo intero sia la sua patria. Nell’età dei lumi il cosmopolitismo assume una valenza del tutto laica: quella illuminista è una “repubblica di spiriti li-

190 Settecento Scenari socio-culturali

beri”, che si battono per promuovere l’emancipazione dell’individuo di qualsiasi nazione. Il cosmopolita del Settecento non si rivolge più ai soli dotti, ma agli uomini senza eccezioni, in nome di valori come “tolleranza”, “ragione”, “uguaglianza”, considerati patrimonio di tutta l’umanità e subentrati a quelli cristiani.


questa esperienza trarrà le Lettere inglesi o Lettere filosofiche (1734) in cui esalta il modello inglese e si scaglia contro il fanatismo e l’intolleranza. Nei dieci anni seguenti, il suo nome diventa sempre più noto, grazie a una produzione finalizzata alla divulgazione di una nuova visione del mondo e di un nuovo sapere. Nel 1745 è nominato ufficialmente storiografo di Francia. Per tre anni (1750 1753) soggiorna presso Federico di Prussia, di cui Voltaire sperava di diventare consigliere, ma i rapporti con il sovrano furono alquanto difficili, nonostante li legasse una stima reciproca. Se il ruolo di consigliere illuminato non ebbe dunque esiti significativi, è attraverso la sua molteplice produzione e attraverso le battaglie condotte per difendere i principi della tolleranza che Voltaire poté conquistare l’opinione pubblica e una fama europea: la sua produzione è sempre brillante e corrosiva, spazia dalla storiografia (Saggio sui costumi e sullo spirito delle nazioni), al romanzo filosofico (Zadig, Candido, Micromega, L’ingenuo), al teatro, al pamphlet, alla poesia di attualità (Poema sul disastro di Lisbona), esempio tangibile di quell’eclettismo che costituiva il nuovo modello di sapere dei philosophes. Partecipa anche alle imprese editoriali dell’Encyclopédie, scrivendo alcune voci, ma poi stenderà quasi in competizione, un suo Dizionario filosofico portatile (1764). Ritiratosi a vivere a Ferney, presso Ginevra (ma in territorio francese), continua un’instancabile attività di polemista e scrittore a favore dei diritti umani e della tolleranza. Assumendosi il ruolo di “avvocato del genere umano”, Voltaire si batte per creare un’opinione pubblica illuminata ➜ D11 ). Divenuto una celebrità, Voltaire riceve nel suo castello personaggi importanti di tutta Europa e continua a intrattenere un fitto epistolario (circa 2000 lettere) con personaggi di spicco. Voltaire muore a Parigi nel 1778, ma è sepolto fuori dalla capitale per l’opposizione del clero. Durante la Rivoluzione francese il suo corpo è traslato con tutti gli onori nel Pantheon.

6 Nuovi luoghi per la circolazione delle idee: salotti e caffè La cultura dell’Illuminismo è fortemente caratterizzata dalla dimensione che è stata definita della “sociabilità”. Ha la sua cifra distintiva nella circolazione e nello scambio delle idee, che continua comunque ad avvenire anche all’interno delle corti o nelle accademie, ma che predilige sempre più le occasioni di incontro informale: dai salotti ai caffè alle società di lettura. I salotti, centro della vita culturale parigina I salotti delle famiglie aristocratiche più aperte furono nel Settecento, in particolare a Parigi, i centri principali del dibattito culturale, in cui scambiarsi idee, discutere in un clima informale sulle tematiche più attuali, elaborare progetti: in questo senso diventavano per l’élite intellettuale veri e propri «luoghi di lavoro», secondo la definizione della storica americana contemporanea Dena Goodman. I salotti parigini erano sapientemente guidati dalle padrone di casa, che orientavano la conversazione cercando di armonizzare gli interventi. Il caffè, spazio per socializzare e conversare in modo nuovo Già negli ultimi decenni del Seicento, l’Inghilterra inaugura l’ambiente del caffè, le famose coffee houses, destinate a essere soppiantate verso il 1720 dai club e dalle tea houses, quando il tè, importato dall’India, diventerà la bevanda nazionale inglese. Per

La visione del mondo. Figure, luoghi e centri della cultura 1 191


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Per approfondire Il nettare nero che ha trasformato il costume

contro, in Francia e Italia, sull’esempio inglese, i caffè si diffondono a macchia d’olio: non è un caso che la principale rivista dell’Illuminismo italiano scelga di denominarsi «Il Caffè» (trasformando così in spazio simbolico uno spazio reale di aggregazione ➜ C7 T1 ) e che Goldoni metta in scena nel 1750 una commedia intitolata proprio La bottega del caffè. In Francia il primo caffè (il celebre Procope) nasce a Parigi addirittura nel 1702, in Italia i primi caffè nascono a Venezia già verso la fine del Seicento, in concorrenza con gli spacci di vino; il celebre caffè Florian a Venezia, ancora oggi esistente, apre i battenti nel 1720. Il caffè è un luogo diverso dal salotto, innanzitutto perché è un luogo aperto, potenzialmente disponibile ad accogliere tutte le classi sociali (in Inghilterra bastava pagare un penny d’entrata), è un luogo non governato dalle padrone di casa, come invece i salotti parigini, e proprio per questo la conversazione è ancora più libera e informale. Nel caffè non vengono più esibiti e “consumati” saperi già conformati e stabili a cui si attribuisce indiscussa autorevolezza, ma si forma collettivamente un nuovo sapere attraverso la libera conversazione. Componente essenziale della “civiltà del caffè” è la diffusione di fogli periodici e gazzette. Lo «Spectator» (1711), il giornale inglese che fece scuola, ha la sua origine proprio nelle coffee houses e presuppone come pubblico i frequentatori dei caffè, di cui diffonde il punto di vista e riproduce le pratiche di conversazione: nei caffè, come sullo «Spectator», si parla di tutto, dal libro appena uscito agli avvenimenti politici, dagli aspetti del costume alla quotidianità. Una forma di associazione segreta: la massoneria All’“apertura” del caffè si contrappone la “segretezza” della massoneria. Oggi può sembrare sconcertante, ma nel Settecento una delle forme di aggregazione più importanti tra le persone di un certo livello sociale (non solo intellettuali) fu la massoneria, istituzione nata con fini umanitari, filantropici e fondata su valori prettamente illuministi come l’uguaglianza. La massoneria nacque nel Medioevo come associazione corporativa legata al mestiere dei muratori (masons) inglesi: originariamente la loggia (termine che poi identifica il singolo gruppo massonico) era la capanna in cui si riunivano operai e tecnici, vicina all’edificio in costruzione. Presto la massoneria accolse anche geometri, architetti, ingegneri, matematici, scienziati in qualche modo collegati al

Charles-Gabriel Lemonnier, Una serata da Madame Geoffrin, 1812 (Rueil-Malmaison, Musée National du Château de Malmaison). Nel salotto della nobildonna è in corso la lettura di una tragedia di Voltaire, allora in esilio, e riuniti intorno al busto dell’autore ci sono, fra gli altri, Rousseau, Montesquieu, Diderot e d’Alembert.

192 Settecento Scenari socio-culturali


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Per approfondire La storia della massoneria

mondo delle costruzioni, per poi aprirsi ad altre categorie professionali e intellettuali, assumendo nel tempo il carattere di associazione segreta. Già nel primo Settecento la massoneria si diffonde nei centri urbani di tutta Europa: in Francia, Spagna, Olanda, Belgio, Italia, Stati tedeschi fino a Praga, Russia, Danimarca e nelle colonie. Le logge massoniche arrivano presto a contare decine di migliaia di adepti (nella sola Francia, alla vigilia della Rivoluzione c’erano 689 logge e dai 35.000 ai 50.000 affiliati).

7 I valori e i modelli di comportamento L’interpretazione laica e sociale della virtù morale La riflessione illuminista mette in discussione la prospettiva metafisica anche in campo etico. Una volta spodestato il parametro di giudizio religioso, ne consegue che non esiste più un criterio assoluto per stabilire che cosa è bene e che cosa è male. La maggior parte degli illuministi tende a identificare ciò che è bene (la virtù) con i comportamenti che perseguono il bene della collettività, e che quindi si legano alla difesa della ragione, al rispetto dei diritti umani, al pacifismo, all’umanitarismo. Se questa è la virtù, il vizio è al contrario l’egoismo, lo sfruttamento degli altri, tutto ciò che incrina e inquina l’armonia della vita civile (una prospettiva, come è facile capire, di grande attualità). In ogni caso, il concetto di virtù per gli illuministi assume sempre un carattere esclusivamente

PER APPROFONDIRE

«The Spectator», quotidiano inglese uscito dal marzo 1711 al dicembre 1712, è considerato uno dei primi esempi di giornalismo moderno.

Il nuovo volto delle accademie Nel Settecento le accademie, tradizionali sedi di aggregazione degli intellettuali, mantengono un ruolo importante e si moltiplicano. Un aspetto nuovo della vita delle accademie nel Settecento è l’emergere di interessi più diversificati (scientifici, economici, giuridici, tecnici ecc.), in rapporto all’evoluzione più generale della società e dell’idea di sapere. Alla nuova natura interdisciplinare delle accademie settecentesche corrisponde la varietà degli adepti (nobili, possidenti, ecclesiastici, funzionari, giuristi, medici, scienziati e altro ancora). Le principali accademie italiane In ambito letterario enorme importanza ebbe l’Accademia dell’Arcadia: sorta nel 1690 a Roma nella residenza romana di Cristina di Svezia, si

diffuse a macchia d’olio in tutta Italia (➜ C6). Espressione della dinamica cultura milanese, nel momento in cui anche l’Italia si apriva a più moderne prospettive culturali, è l’Accademia dei Trasformati, riorganizzata nel 1743 da Carlo Maria Imbonati che la ospita nel suo palazzo e di cui fece parte anche Parini: caratterizza l’orientamento dell’Accademia una prudente, moderata apertura ai temi della cultura contemporanea, ma l’impronta rimane sostanzialmente classicistica. Differente fu la combattiva Società dei Pugni, che solo impropriamente può essere definita un’accademia: si trattò piuttosto di un gruppo informale, che si riuniva nella casa di Pietro Verri e che diede vita per iniziativa dello stesso alla rivista «Il Caffè».

La visione del mondo. Figure, luoghi e centri della cultura 1 193


online D6 Voltaire

La virtù come valore sociale Dizionario filosofico, s.v. "Virtù"

laico, tutto terreno: con la chiarezza che contraddistingue il suo modo di scrivere, ce lo fa ben capire Voltaire nella voce “Virtù” del suo Dizionario filosofico (➜ D6 OL).

L’esaltazione della razionalità e dell’intraprendenza Non sono più i trattati, come nelle epoche precedenti, a delineare i nuovi modelli di comportamento, ma è il romanzo, genere letterario di grande successo: modelli destinati a incidere davvero sulla società, se si considera il rilevante incremento del pubblico, l’estensione della lettura a nuovi strati sociali e anche il diffondersi di nuovi modi di leggere. Uno dei primi esempi è Robinson Crusoe, il fortunato romanzo di Daniel Defoe (1660-1731), che fin dal 1719 propone al pubblico il modello del self-made man, del borghese attivo e intraprendente. Naufragato su un’isola deserta, Robinson non si perde certo d’animo: non solo si garantisce la sopravvivenza ma, grazie a un’associazione fruttuosa tra esperienza e razionalità (➜ D7a OL), ricostruisce sull’isola una condizione “civile” e addirittura agiata, sfruttando abilmente quella che considera a tutti gli effetti la sua “proprietà”. In questo senso la sua vicenda assume il valore di una parabola, volta a esaltare le qualità individuali che fanno di Robinson il prototipo, secondo alcune interpretazioni, del proto-capitalista (➜ C8). Non a caso l’Illuminismo valorizza particolarmente il modello umano del mercante, a cominciare da Voltaire, che dedica un capitolo ammirato delle sue Lettere inglesi al commercio e alla figura del mercante che aveva reso grande l’Inghilterra, facendo di questa nazione un esempio di modernità per gli altri paesi. Commerciare è considerato un fattore di civilizzazione, poiché il commercio comporta la conoscenza di nuovi popoli e lo scambio di idee. Anche il nostro Goldoni prospetta nel personaggio di Pantalone la figura del mercante saggio e onesto (➜ C10). La valorizzazione del sentimento e delle passioni Nei nuovi modelli umani però non sono presenti solo razionalità, ponderazione, intraprendenza: altri romanzi mettono in scena il diritto alle passioni e la verità del sentimento. Ad esempio il fortunato romanzo epistolare Giulia o La nuova Eloisa (Julie ou La nouvelle Héloïse, 1761) di Jean-Jacques Rousseau (➜ C8 T8 OL), narra la storia della passione, socialmente irrealizzabile, tra Julie e il suo precettore. È oltremodo significativa una dichiarazione fatta da Rousseau stesso a proposito dello spirito con cui aveva scritto il romanzo e dei modi con cui esso andava necessariamente letto: «Chiunque, leggendo quelle [...] lettere, non si sente ammollire e fondere il cuore nella tenerezza che me lo dettò, chiuda subito il libro: non è fatto per giudicare di cose di sentimento». La nascita dell’autobiografia moderna: Le Confessioni Proprio intorno agli anni Sessanta del resto Rousseau inizia a scrivere anche le sue Confessioni, un’opera autobiografica che avrà larga influenza sulla cultura romantica, nella quale le passioni non sono soggette al filtro della reticenza dettata dalle regole sociali, ma sono anzi considerate la più autentica espressione della personalità umana dell’autore (➜ D7b OL). Con Rousseau l’autobiografia assumeva il volto moderno di uno scavo nell’interiorità profonda dell’io narrante, che si rivela attraverso i ricordi, soprattutto relativi all’età infantile. L’importanza educativa e conoscitiva del viaggio L’intellettuale ma anche il gentiluomo del Settecento ha un’intensa vita di relazione, partecipa agli eventi mondani, va a teatro, frequenta i salotti e si mostra capace di conversare su ogni

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argomento di attualità. Soprattutto però è un grande viaggiatore, curioso, cosmopolita, aperto al confronto con popoli e culture diverse: nella civiltà del Settecento il viaggio non ha più soltanto scopi commerciali, come il viaggio del mercante, ma diventa una tappa obbligata nella formazione dei ceti dirigenti e degli uomini di cultura, che viaggiano per educarsi attraverso il contatto con altri paesi (➜ PER APPROFONDIRE Il Grand Tour, PAG. 196).

NicolasAndré Monsiau, Luigi XVI dà disposizioni a La Pérouse, 1817 (Palazzo di Versailles).

Lessico filantropia Disposizione d’animo, in un individuo o gruppo sociale, volta a promuovere la felicità e il benessere degli altri.

Dal conquistatore all’esploratore Nel secolo dei lumi continua la grande avventura dell’esplorazione di nuovi mondi; tuttavia, lo spirito con cui questa esperienza viene vissuta nel Settecento è del tutto diverso da quello che aveva animato le grandi scoperte geografiche di fine Quattrocento e nel Cinquecento. Una differenza che può essere sintetizzata nella contrapposizione tra “conquistatore” ed “esploratore”: è questo secondo termine che identifica i protagonisti del XVIII secolo come Louis-Antoine de Bougainville, James Cook, von Humboldt e molti altri. Come i grandi navigatori del Cinquecento, anche gli esploratori del Settecento non si muovono certo singolarmente, ma fanno parte di una missione organizzata dallo Stato; l’obiettivo che queste missioni si propongono non è però quello della conquista, ma quello, ben diverso, della conoscenza. Certo anche nei viaggi di esplorazione settecenteschi non è assente l’obiettivo economico e utilitaristico: nuove strade commerciali verranno aperte ai mercanti e nuovi paesi potranno ospitare colonie. Ma ciò che conta per gli esploratori di questo secolo è l’ampliamento delle conoscenze: l’ottica culturale del Settecento illuminista considera infatti l’incremento di conoscenza un elemento fondamentale del progresso. Il contatto con le popolazioni primitive suscita d’altra parte negli illuministi un dibattito sul rapporto tra civiltà e “natura”, alla quale i “selvaggi” sono rimasti vicini. In ogni caso, la civilizzazione dei nuovi mondi non può prescindere dalla filantropia e dal pacifismo, valori basilari per la cultura illuminista e ignoti ai conquistadores, la cui azione è duramente condannata (da Voltaire a Parini).

I modelli di comportamento Valori e i modelli dell’Illuminismo coincidenza tra virtù e bene della collettività

rispetto dei diritti umani, pacifismo, umanitarismo

esaltazione della razionalità e dell’intraprendenza valorizzazione del sentimento e delle passioni valore educativo e conoscitivo del viaggio

La visione del mondo. Figure, luoghi e centri della cultura 1 195


PER APPROFONDIRE

Il Grand Tour Già Michel de Montaigne aveva compiuto intorno al 1580 un “viaggio d’istruzione” in Italia (di cui parla nel suo Viaggio in Italia (Journal de voyage en Italie, pubblicato solo nel 1774). Negli ultimi decenni del Settecento il viaggio di formazione diventa una consuetudine obbligata per l’uomo colto, all’interno di un’epoca che trova nel viaggio il suo emblema. Il termine Grand Tour per denominare questa esperienza social-culturale diventa d’uso corrente nel corso del Settecento, identificando in generale il viaggio in Europa, ma finendo per lo più per diventare sinonimo del “viaggio in Italia”. Le tappe su cui si incentra il Grand Tour sono sempre le stesse: Venezia, Firenze, a volte Napoli (con le rovine di Ercolano e Pompei, da poco scoperte) e in particolare Roma, mentre sono appena toccate (tranne eccezioni importanti) città pur ricche di testimonianze culturali come Milano o Torino. Il Grand Tour e la visione cosmopolita Nei suoi aspetti più caratteristici, il Grand Tour è l’espressione di un modello di pensiero cosmopolita: gli illuministi pensano che, al di là delle varietà dei costumi, delle leggi, delle lingue, delle mentalità delle varie nazioni e popolazioni, esista una struttura uniforme della natura umana e una morale naturale, un comune linguaggio di riferimento. Questa visione ottimistica nella possibilità, oggi diremmo, del “dialogo interculturale” è «il vero passaporto del Grand Tour» (Brilli), in un’epoca in cui non esistevano ancora i passaporti. Dall’interesse antropologico-culturale al fascino del paesaggio Nell’età dell’Illuminismo il Grand Tour implica soprattutto l’interesse per ambienti e abitudini di vita delle varie zone d’Italia che si confrontano con i propri (ma questa è una più generale caratteristica del viaggio settecentesco); non c’è attenzione invece al paesaggio naturale e alle vibrazioni interiori che il contatto con esso produce. Intorno agli anni Ottanta del XVIII secolo, con l’appannarsi dello spirito illuminista, si afferma invece la preminenza del fascino del paesaggio, preferibilmente aspro, solitario, minaccioso (deserti, vulcani, alte montagne, cascate, baratri), un fascino che si collega alla nascente sensibilità

romantica e trasforma profondamente lo spirito stesso del Grand Tour. Testo di riferimento: A. Brilli, Quando viaggiare era un’arte. Il romanzo del Grand Tour, Il Mulino, Bologna 1995.

Pompeo Batoni, Ritratto del barone Francis Basset, 1778 (Madrid, Museo del Prado). Il nobiluomo è ritratto nel corso del suo Grand Tour, appoggiato a un altare romano (probabilmente fittizio); alle sue spalle Castel Sant’Angelo e la basilica di San Pietro.

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Testi in dialogo Razionalità vs passione

D7a Daniel Defoe

I bilanci razionali di Robinson Le avventure di Robinson Crusoe, cap. 6

D7b Jean-Jacques Rousseau La voce della passione e del sentimento Le confessioni

Fissare i concetti La visione del mondo. Figure, luoghi e centri della cultura 1. Quali sono gli aspetti che accomunano le varie declinazioni del fenomeno culturale dell’Illuminismo? 2. Quali conseguenze ha l’adozione del metodo scientifico come approccio generalizzato alla conoscenza? 3. Qual è il rapporto degli illuministi con la religione? 4. Perché nella visione illuminista della natura e dell’ordine cosmico l’uomo perde la sua centralità? 5. Quali sono i temi al centro del pensiero illuminista? 6. Con quali caratteristiche si configura il philosophe, il prototipo dell’intellettuale impegnato nella società illuminista? 7. Quali sono i nuovi luoghi deputati alla circolazione delle idee? 8. Perché l’Illuminismo valorizza in particolare il modello umano del mercante? 9. Perché la dimensione del viaggio riveste un’importanza fondamentale nella vita culturale degli intellettuali illuministi?

196 Settecento Scenari socio-culturali


Verso l’esame di Stato Tipologia B Analisi e produzione di un testo argomentativo

Virtù è far del bene al prossimo Voltaire, Dizionario filosofico, s.v. “Virtù”, trad. di M. Enoch, Newton Compton, Roma 1991

È l’ultima voce del Dizionario filosofico di Voltaire (ne riproduciamo una parte) e si può dire che ne costituisca la degna e significativa conclusione. Con la passione e insieme la coerenza razionale che contraddistinguono il suo modo di argomentare, Voltaire delinea una nuova visione di virtù.

Che cos’è la virtù? Carità verso il prossimo. Posso chiamare virtù altra cosa da ciò che mi fa del bene? Io sono indigente1, tu sei liberale2; io sono in pericolo, tu accorri in mio aiuto; mi ingannano, tu dici la verità; mi trascurano, tu mi consoli; sono ignorante, tu mi istruisci; non avrò difficoltà a chiamarti virtuoso. Ma che ne sarà delle virtù cardinali e teologali3? Qualcuna resterà nelle scuole. Che m’importa che tu sia temperante? Tu osservi un precetto di salute; starai meglio, e io mi congratulo con te. Tu hai fede e speranza, me ne congratulo ancora di più: esse ti procureranno la vita eterna. Le tue virtù teologali sono doni celesti; le tue virtù cardinali sono eccellenti qualità che servono alla tua condotta di vita; ma non sono affatto virtù nei riguardi del tuo prossimo. Il prudente si fa del bene, il virtuoso ne fa agli uomini. San Paolo ha avuto ragione nel dirti che la carità supera la fede e la speranza. Ma come! si ammetterebbero come virtù solo quelle utili al prossimo? E come posso ammetterne altre? Noi viviamo in società; non esiste dunque vero bene per noi se non ciò che fa il bene della società. Un solitario sarà sobrio, pio; sarà vestito con un cilicio4: ebbene, sarà santo; ma lo chiamerò virtuoso solo quando avrà compiuto qualche atto di virtù da cui altri uomini abbiano tratto profitto5. Fintantoché è solo, non è né benefico né malefico; per noi non è niente. Se san Bruno ha portato la pace nelle famiglie, se ha soccorso l’indigenza, è stato virtuoso; se ha digiunato, pregato in solitudine, è stato un santo. La virtù tra gli uomini è un commercio6 di buone azioni; chi non ha alcuna parte in questo commercio non deve essere contato. Se quel santo vivesse nel mondo, senza dubbio vi farebbe del bene; ma, finché non vi sarà, il mondo avrà ragione di non dargli il nome di virtuoso: sarà buono per sé, ma non per noi. [...] 1 indigente: povero, bisognoso. 2 liberale: qui nel senso di “persona generosa, che dona ciò che ha”. 3 virtù cardinali e teologali: le

virtù cristiane sono distinte in cardinali (temperanza, fortezza, saggezza e giustizia) e in teologali (fede, speranza e carità). 4 cilicio: strumento di peniten-

za (costituito per lo più da una ruvida cinghia posta a diretto contatto della pelle). 5 profitto: vantaggio. 6 commercio: scambio.

Comprensione e analisi

1. Schematizza la struttura argomentativa del brano di Voltaire, individuando la tesi, gli argomenti, le obiezioni e le relative confutazioni. 2. Quale differenza rilevante pone Voltaire tra il «santo» e il «virtuoso»? 3. Dopo aver consultato il vocabolario cartaceo oppure uno online: – cerca i principali significati associati al termine virtù e trascrivili; – rielabora una tua personale definizione di virtù legata all’umanitarismo e all’ideale filantropico del pensiero illuminista.

Produzione

Voltaire rivoluziona il concetto di virtù, come già aveva fatto Machiavelli nel Principe: in un testo coerente e coeso, illustra le differenze che intercorrono al riguardo fra i due scrittori.

La visione del mondo. Figure, luoghi e centri della cultura 1 197


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Modelli del sapere e tendenze filosofico-scientifiche 1 L’educazione “illuminata” Per una formazione moderna La programmatica volontà di eliminare l’ignoranza, che gli illuministi consideravano responsabile della superstizione, del fanatismo, dello stato di “minorità” della popolazione, non poteva che esaltare il ruolo dell’azione educativa, a cui è affidato il compito di plasmare una nuova umanità, più razionale e quindi, secondo l’ottica ottimistica dell’Illuminismo, più felice. Nel prospettare la propria idea educativa l’Illuminismo ha come bersaglio polemico il modello, largamente diffuso nell’Europa cattolica, dei collegi gesuitici: si contesta il monopolio ecclesiastico dell’educazione e si rimprovera alla formazione pedagogica dei gesuiti l’elitaria onnipresenza del latino e l’astrattezza del curriculum scolastico, che, centrato quasi esclusivamente sulla cultura classica, distoglie i giovani dalla contemporaneità. Secondo gli illuministi invece la scuola deve preoccuparsi di formare individui e cittadini responsabili e preparare all’esercizio delle professioni: quindi occorre privilegiare, rispetto al latino, la lingua nazionale, limitare il peso della retorica e del sapere libresco e astratto, per dare invece spazio alle discipline storico-geografiche e soprattutto al moderno sapere scientifico. Educare è dovere dello Stato Proprio per l’importanza che attribuiscono al processo educativo, gli illuministi per primi (e si tratta di una grande novità) ritengono che la gestione dell’educazione spetti allo Stato. Se il livello di civiltà di un popolo si misura sulla quantità di conoscenze possedute, l’educazione collettiva non può essere dispersa in contraddittorie iniziative private, ma deve essere coordinata e subordinata a obiettivi generali ed estesa a tutti i cittadini, come anche in Italia sostiene il giurista Gaetano Filangieri (➜ D8a OL). Un celebre trattato pedagogico: Emilio o dell’educazione di Rousseau La posizione assunta da Rousseau in ambito educativo diverge dalle più generali tendenze illuministe. Gli illuministi valorizzano anche in questo ambito l’uso del vaglio della ragione: il programma educativo delineato dal filosofo ginevrino nel trattato Emilio o dell’educazione (Émile ou de l’éducation, 1762) distingue nettamente l’età infantile da quella adulta e limita rigorosamente l’apprendimento razionale a un’età successiva all’infanzia. Secondo Rousseau non si deve, pena il fallimento dell’azione educativa, considerare il bambino come una sorta di «adulto in miniatura» a cui inculcare precocemente idee e valori attraverso un insegnamento che faccia appello alla ragione: il bambino ha infatti un modo di vedere e pensare tutto suo (certamente una grande intuizione per quei tempi, che è poi stata fatta propria da tutti i modelli moderni dello sviluppo cognitivo e psicologico). Dunque, dalla nascita ai dodici anni vanno educati soprattutto i sensi. Occorre lasciar fiorire liberamente la personalità del bambino sotto la guida della madre, alla quale Rousseau assegna il principale ruolo educativo nei primi anni della formazione (coerentemente alla sua concezione dei compiti femminili). L’educazione del bambino deve avvenire, proprio per evitare influssi negativi, in un ambiente solitario, campestre.

198 Settecento Scenari socio-culturali


Solo dopo i dodici anni si può iniziare un’educazione intellettuale, in cui le scienze devono avere un ruolo importante, ma sempre attraverso un contatto diretto con l’esperienza.

L’educazione “illuminata” concezione statale e collettiva dell’educazione Caratteri del sapere illuministico applicato al campo dell’educazione

volontà di eliminare l’ignoranza, la superstizione, il fanatismo

polemica contro il modello educativo imposto dai gesuiti

privilegiata la formazione filosofica e scientifica

EDUCAZIONE CIVICA

EDUCAZIONE CIVICA

nucleo Costituzione competenza 3

«I lumi smorzati»: l’educazione femminile Nell’età dell’Illuminismo le donne sono spesso protagoniste dei romanzi e partecipano al dibattito intellettuale nello spazio tipico della cultura settecentesca, il salotto. Tuttavia la concezione educativa del tempo tende a relegare il sesso femminile a una posizione di minorità e di subordinazione. Per alludere ai limiti del progetto educativo illuminista nei confronti delle donne la studiosa francese Martine Sonnet (1955) ha usato la suggestiva espressione «i lumi smorzati». Anche a prescindere dalla posizione particolarmente tradizionalista di Rousseau (Sofia o la donna, I parte del V libro del trattato pedagogico Emilio), l’Illuminismo nel complesso ha una visione assai ristretta dell’educazione femminile: se da un lato si sostiene l’uguaglianza fra i sessi (si veda ad esempio la voce “Donna” nell’Enciclopedia), dall’altro si negano alle donne capacità razionali e autonomia di giudizio (qualità

PARITÀ DI GENERE equilibri #PROGETTOPARITÀ

fondamentali nella cultura dei lumi) e le si esclude “per natura” dalla vita politica relegandole all’ambito domestico. L’educazione della donna è volta a sancirne la complementarità, se non addirittura la dipendenza rispetto all’uomo: «Tutta l’educazione delle donne deve essere relativa agli uomini» scrive Rousseau. A Sophie, l’alter ego femminile di Emilio, bastano i rudimenti del sapere e tutto ciò che (danza, musica) può renderla un’aggraziata compagna dell’uomo, ma a nulla le servirebbero le lingue classiche o (peggio) il sapere scientifico. Una limitazione a cui si ribella verso la fine del secolo Mary Wollstonecraft (1759-1797), autrice di un libro polemico: Una difesa dei diritti della donna (1792), in cui stigmatizza l’ambiguità del discorso educativo dei philosophes, che intendevano estendere all’umanità i lumi liberatori della ragione ma davano a tale umanità un volto esclusivamente maschile.

Esercitare le competenze Spunti di riflessione

La dichiarata intenzione illuminista di promuovere l’uguaglianza e la razionalità si dimostra incoerente rispetto alla concezione dell’educazione femminile. Che cosa emerge da questa contraddizione? Perché alle donne era riservata una preparazione volta a ritagliare loro un ruolo complementare o subalterno rispetto all’uomo? Rifletti su come questi temi possano ancora essere rilevanti oggi. In che modo le questioni di genere nell’educazione e nella partecipazione intellettuale continuano a essere oggetto di dibattito e lotta? Quali lezioni possiamo trarre dalla storia illuminista per arricchire le attuali discussioni sulla parità di genere?

online D8 Il ruolo centrale dell’educazione. Alcune testimonianze D8a Gaetano Filangieri D8c Sebastiano Franci

I vantaggi della scuola pubblica La scienza della legislazione, libro IV

Le carenze dell’educazione femminile Difesa delle donne

D8b Jean-Jacques Rousseau Fate il contrario di ciò che è in uso Emilio, libro I

D8d Nicolas de Condorcet Istruzione e uguaglianza Abbozzo di un quadro storico dei progressi dello spirito umano

Modelli del sapere e tendenze filosofico-scientifiche 2 199


2 Il progetto di un nuovo sapere e l’Enciclopedia

JeanBaptisteSiméon Chardin, Gli attributi delle scienze, 1731 (Parigi, Museo JacquemartAndré).

Una nuova gerarchia culturale Nell’età dell’Illuminismo entra in crisi la visione culturale umanistica ed è messo in discussione l’assetto tradizionale della conoscenza: nella gerarchia del sapere, come già si è accennato, al primo posto c’è la scienza, ma anche la tecnica, viene esaltata la filosofia (nella nuova accezione che assume nell’Illuminismo), mentre è sostanzialmente svalutata la letteratura e gli ambiti a essa connessi. L’opera che del nuovo sapere si fa portavoce e ne rappresenta la sintesi è l’Encyclopédie, l’Enciclopedia. L’Enciclopedia L’Illuminismo fa propria una concezione enciclopedica del sapere, ma essa non ha nulla a che fare con l’enciclopedismo medievale: il nuovo enciclopedismo illuminista si fonda sulla convinzione che esista una sostanziale continuità uomo-natura e che i vari campi del sapere siano collegabili in una visione organica. Un ideale tradotto concretamente nella titanica impresa dell’Enciclopedia, iniziata nel 1747 e conclusa nel 1772, tra mille ostacoli e nonostante i freni imposti dalla censura, nella quale trova piena espressione il momento propositivo dell’Illuminismo francese: nelle 72.000 voci, redatte da oltre 150 collaboratori, i responsabili del progetto (fino al 1757 Diderot e d’Alembert, poi solo Diderot) si proponevano di sintetizzare il nuovo sapere prodotto dalla rivoluzione scientifica. All’opera, oltre ai due responsabili, collaborarono i grandi nomi dell’Illuminismo (Voltaire, Rousseau, Montesquieu, d’Holbach, il naturalista Buffon), ma la maggior parte dei redattori erano medici, funzionari, insegnanti, tecnici. Lo scopo dell’opera: la ricerca della pubblica utilità Nel dar vita al loro ambizioso progetto gli enciclopedisti erano spinti dalla ricerca della pubblica utilità. Questo obiettivo, e la marcata attitudine critico-polemica propria della cultura illuminista, differenziano nettamente l’Enciclopedia dalle opere enciclopediche del Seicento, di taglio esclusivamente erudito: già il Discorso preliminare dell’opera, firmato da d’Alembert, contrappone a una concezione sterile e statica di sapere un “nuovo” sapere, sostenuto da una visione sensistico-materialista, che valorizza la scienza e conferisce nuova dignità alle scienze applicate e anche alle arti meccaniche. Un sapere capace di rendere migliore la società, secondo l’ottica culturale e il progetto educativo dell’Illuminismo. Cultura è anche il lavoro manuale La parte dell’opera che oggi è considerata più innovativa è sicuramente quella relativa alle “arti” e ai “mestieri”, cioè alle diverse professioni e lavori manuali. Gli enciclopedisti ebbero il coraggio di superare la tradizionale dicotomia tra arti liberali e arti meccaniche dando forte spazio e rilevanza – in un’opera di cultura generale – proprio alla realtà delle professioni e delle attività manuali (➜ D9 OL), illustrate con magnifiche tavole di incisioni che contribuirono non poco al successo dell’opera. Si trasformava il concetto stesso di cultura, legandosi finalmente alla realtà concreta, e il lavoro manuale – come scrive, a sua volta, con illuministico entusiasmo, il critico Giuseppe Petronio – «entrava a vele spiegate nel mondo della cultura». La formula editoriale e la fortuna La formula editoriale con cui è esposta l’amplissima materia dell’Enciclopedia è quella del dizionario, che consentiva una

200 Settecento Scenari socio-culturali


online Gallery

Le tavole dell’Enciclopedia

online

Per approfondire Una tormentata storia editoriale

online Verso il Novecento Eugenio Scalfari In viaggio con Diderot

consultazione agevole e personalizzata. Il successo dell’operazione fu superiore a ogni più rosea previsione (più di 4000 abbonati in Francia e migliaia all’estero), a conferma che l’opera rispondeva a una domanda di cultura da parte di ampi strati di pubblico. Denis Diderot (1713-1784) conobbe ben presto l’azione repressiva della censura, e persino l’arresto, per alcuni scritti giovanili. Verso la metà del secolo ideò il progetto dell’Encyclopédie, che poi diresse (inizialmente con D’Alembert e poi, dopo la sua rinuncia, da solo) e che portò a termine nel 1772 con l’ultimo volume, nonostante gli ostacoli frapposti più volte dalla censura e i conflitti interni tra i collaboratori e la linea editoriale e ideologica scelta. Tuttavia l’eclettica personalità di Diderot non si esaurisce nella, pur titanica, impresa dell’Encyclopédie. Interessato al teatro, scrive due opere, tra il 1757 e il 1758, che inaugurano il dramma borghese: Il figlio naturale e Il padre di famiglia. Ma, soprattutto, si dedica al genere fortunato del romanzo, che, in quell’epoca, si prestava a farsi veicolo di messaggi attuali, in linea con le idee illuministe: da Il nipote di Rameau a La monaca, a Jacques il fatalista e il suo padrone, esempio paradigmatico di conte philosophique, tutti pubblicati postumi.

L’Enciclopedia Datazione

1747-1772

Responsabili del progetto

fino al 1757 Diderot e d’Alembert, poi solo Diderot

Collaboratori

150, trai quali figurano Voltaire, Rousseau, Montesquieu, d’Holbach, il naturalista Buffon

Scopo

ricerca della pubblica utilità, rivalutazione delle scienze applicate e delle attività meccaniche

Una tavola dell’Enciclopedia che illustra gli stabilimenti di una cartiera nella Loira; in primo piano la ruota di un mulino della stessa fabbrica.

Modelli del sapere e tendenze filosofico-scientifiche 2 201


EDUCAZIONE CIVICA

EDUCAZIONE CIVICA

Dall’Encyclopédie all’IA Già nella cultura medievale era presente il concetto di sapere enciclopedico, ma il termine enciclopedia, che significa letteralmente “istruzione globale” (dal greco enkýklos paidéia), nasce di fatto proprio con l’impresa di Diderot e d’Alembert, fondata sul progetto di una summa del sapere moderno che avrebbe divulgato a più persone possibili una conoscenza razionale e moderna del mondo. Nella cultura italiana un progetto degno di poter essere paragonato all’Encyclopédie nasce solo negli anni Trenta del Novecento, quando fu pubblicata in 35 volumi l’Enciclopedia Treccani (ancora oggi esistente, consultabile anche online dove è costantemente aggiornata). Un altro progetto in Italia degno di nota è quello, estremamente innovativo, dell’Enciclopedia Einaudi (1977-1985), organizzata per grandi "voci" e finalizzata a delineare una visione del sapere problematica più che classificatoria. L’“Enciclopedia” dei tempi d’oggi, nata nell’era digitale come risposta ai bisogni dell’informazione attuali, ha indubbiamente il nome di Wikipedia, l’enciclopedia “libera” online: il termine Wikipedia nasce dalla combinazione tra wiki (termine hawaiano che significa “veloce”) con il suffisso -pedia (dal gr. paidéia, “formazione”). Si tratta di un ambizioso progetto globale, lanciato inizialmente (gennaio 2002) in lingua inglese e oggi (dati aggiornati a ottobre 2024) consultabile in 339 lingue (l’edizione in lingua italiana è del 2005). Wikipedia ha caratteri diversissimi rispetto a un’enciclopedia classica tradizionale e non certo solo perché è nata online (sono ormai anche online le enciclopedie classiche, nate sulla carta), ma perché non si fonda sulla selezione delle voci – i lemmi – da inserire, in base a una visione delle conoscenze che preveda rigorose gerarchie tra ciò che è rilevante e ciò che non lo è, nel quadro del sapere da fissare e da trasmettere (una nuova voce di Wikipedia è magari la recensione a un film appena uscito!). Di conseguenza, Wikipedia consta di un numero

nucleo Costituzione competenza 1, 2 nucleo Cittadinanza digitale competenza 10

incredibilmente ampio di voci (55 milioni di cui, nella sola Wikipedia in italiano, 1.891.676 voci), potenzialmente illimitato, e un numero sempre crescente di utenti (57 milioni registrati nel mondo; 2.573.218 – dati aggiornati il 17 novembre 2024 – in Italia). Caratteristica costitutiva di Wikipedia è il fatto di essere un’enciclopedia “collaborativa”, “aperta”, frutto del libero contributo della Rete, senza alcun filtro selettivo in ingresso sui collaboratori (chi collabora non è dunque necessariamente un esperto): si contribuisce volontariamente (e gratuitamente) e chiunque può inserire una voce, modificare, integrare e aggiornare quelle esistenti. Da questi caratteri derivano, come è intuibile, anche i limiti di Wikipedia, i cui lemmi hanno un differente grado di affidabilità, e richiedono quindi un attento vaglio critico da parte dell’utente. Oggi la fonte del sapere si è arricchita di un altro strumento molto conosciuto dai ragazzi: ChatGPT, che si evolve in continuazione e che elabora informazioni in tempi molto rapidi. Questa tecnologia, frutto di anni di ricerca, si distingue per la capacità di creare contenuti nuovi, andando oltre la semplice classificazione dei dati esistenti. Tale strumento presenta delle potenzialità e dei rischi, di conseguenza per affrontare questa rivoluzione serve una comprensione profonda e consapevole del fenomeno. È chiaro che la collaborazione uomo-IA, se realizzata coscientemente, potrà portare notevoli vantaggi soprattutto per attività che fanno perdere molto tempo all’uomo e che nulla hanno a che fare con la creatività umana. Dovranno, però, essere ben presenti quelli che sono i princìpi etici che dovranno guidare lo sviluppo e l’implementazione dell’intelligenza artificiale, affinché questa tecnologia rimanga sempre al servizio dell’umanità, nel pieno rispetto della dignità, della privacy e dei diritti fondamentali di ogni individuo.

online D9 Il ruolo centrale dell’educazione. Alcune testimonianze D9a Denis de Diderot D9b Denis de Diderot

La rivalutazione delle “arti meccaniche” e il ruolo degli artigiani come consulenti nell’Encyclopédie Encyclopédie, Prospectus

Le arti liberali devono contribuire a eliminare i pregiudizi verso le arti meccaniche Encyclopédie, s.v. "Arte"

3 La cultura come impegno civile e battaglia ideologica Una concezione eclettica di sapere Nell’Illuminismo trova espressione un nuovo tipo di intellettuale che non aderisce ad alcuna presunta verità filosofica, ma assume di fronte al sapere un atteggiamento sostanzialmente eclettico. Nella voce “Eclettismo” dell’Enciclopedia Diderot così definisce l’eclettico: «L’eclettico è un filosofo che calpestando il pregiudizio, la tradizione e l’antichità, il consenso universale, l’autorità [...] osa pensare con la propria testa». La posizione eclettica è dunque conseguenza della più generale prospettiva illuminista, in cui il filosofare non è fine a sé stesso, ma deve essere socialmente utile. Se si scorrono anche solo

202 Settecento Scenari socio-culturali


i titoli della produzione dei philosophes, è facile constatare che mai come in questo periodo gli intellettuali si occupano delle più varie tematiche, tutte però connesse ai grandi temi e problemi della società. La cultura del dibattito Imprescindibile dall’opera degli illuministi è la critica nei confronti del passato, che conferisce ai loro testi un carattere marcatamente polemico; la cultura dell’Illuminismo, in questo senso, è soprattutto una “cultura del dibattito”, come evidenziano le forme stesse della scrittura: anche quando non sono pamphlet, gli scritti degli illuministi sono animati da forte tensione, enfasi, come fossero pensati in risposta a interlocutori-oppositori, che talvolta, per vivacizzare l’esposizione delle idee, vengono iscritti nel testo come veri e propri personaggi dialoganti con l’autore: ne è esempio paradigmatico il testo tratto dal Trattato sulla tolleranza di Voltaire (➜ D11 ) Questo volto polemico e battagliero caratterizza in particolare l’Illuminismo francese: infatti a differenza dell’Inghilterra, dove le idee illuministe trovano un terreno favorevole e ispirano la linea politica di una moderna monarchia liberale, interprete dei bisogni della classe borghese, in Francia le stesse idee, come si è detto, si scontrano con un modello politico-istituzionale ancora assolutistico, sostenuto dal clero e dalla classe nobiliare, per il quale i diritti sono essenzialmente quelli del sovrano e delle classi di potere, mentre i doveri sono solo quelli dei sudditi. Contro questa situazione lottano appassionatamente i philosophes. L’attenzione al tema politico-istituzionale Proprio per questo uno dei principali temi della riflessione illuminista dei philosophes è il tema politico-istituzionale. Le posizioni in campo politico degli illuministi furono molto diverse: Montesquieu pensa a una monarchia costituzionale di stampo inglese; Voltaire a una monarchia illuminata, in cui le riforme siano guidate dai filosofi; Rousseau invece ha in mente una democrazia diretta. Comune fu, tuttavia, il nuovo linguaggio politico coniato dal “partito dei filosofi”, comune, di certo, fu l’obiettivo di rifondare i princìpi della politica in nome della ragione e della giustizia, la visione laica dello Stato e il ripudio dell’idea teocratica di una legittimazione divina del potere, come pure il rifiuto che esista un’ineguaglianza costituzionale tra gli uomini, con la conseguente battaglia per l’uguaglianza.

Lessico giusnaturalismo Corrente di pensiero filosoficogiuridica fondata sull’esistenza di un diritto naturale (conforme, cioè, alla natura dell’uomo) e la sua superiorità sul diritto positivo (il diritto prodotto dagli uomini, le leggi).

Il diritto naturale Alla base del pensiero socio-politico dell’Illuminismo sta il concetto di “stato di natura”. È necessario precisare che si tratta non tanto di una condizione reale, ma di una sorta di ipotesi concettuale, un punto di riferimento, come chiarisce lo stesso Rousseau (a cui il concetto prevalentemente è associato), nella prefazione al suo Discorso sull’origine e i fondamenti dell’ineguaglianza degli uomini (1755). Lo stato di natura è una prospettiva da cui focalizzare innanzitutto i bisogni fondamentali, i “diritti naturali” dell’uomo: dal giusnaturalismo seicentesco l’Illuminismo eredita l’idea di un diritto naturale sovranazionale, ovvero di un insieme di norme non scritte, delle quali poi il diritto positivo deve tenere debito conto. In questa prospettiva “naturale” gli uomini sono tutti uguali, non hanno distinzioni di etnia, sesso, lingua, religione, tutti allo stesso modo hanno diritto alla vita, alla felicità. Il concetto di uguaglianza dunque si laicizza: non ha più a che fare con la visione cristiana che vede gli uomini uguali di fronte a Dio, ma con l’idea che gli uomini, in quanto tali, abbiano la stessa dignità, che esistano valori propri di tutta l’umanità. Da qui il cosmopolitismo (➜ PAROLA CHIAVE PAG. 190) che caratterizza la visione illuminista.

Modelli del sapere e tendenze filosofico-scientifiche 2 203


Diritti imprescindibili sono la libertà, l’inviolabilità della persona e, per la maggior parte degli illuministi, la tutela della proprietà, teorizzata anche da una delle voci dell’Enciclopedia (ma Rousseau, al contrario, considera la proprietà all’origine di tutti i mali sociali ➜ D12 ). Il contratto sociale e la tutela dei diritti civili Dai diritti naturali derivano quelli civili, stabiliti dal contratto sociale che lega gli individui in società: ogni società per gli illuministi si fonda su un patto, un “contratto” (il termine, già proprio della riflessione politica seicentesca, va inteso come categoria concettuale, non in senso letterale), in base al quale la collettività riconosce determinati poteri a un sovrano o a un gruppo, rinunciando a una parte della propria libertà. In base a questo contratto il cittadino è tenuto a rispettare le leggi, il sovrano a esercitare il proprio potere in modo non assoluto e a tutelare tramite le leggi i diritti civili, cioè i diritti del cittadino: la libertà di pensiero, di parola, la sicurezza, l’uguaglianza di fronte alla legge (nella prima generazione di pensatori, tale uguaglianza non è ancora intesa come parità nell’esercizio politico e nemmeno come parità sociale, come la intenderanno poi Rousseau e altri, che ipotizzarono vere e proprie forme di comunismo). La tutela della libertà e dell’uguaglianza implica necessariamente l’esercizio della tolleranza: in questo periodo, che segue una fase della storia contraddistinta da sanguinose guerre di religione, la tolleranza si concretizza soprattutto nell’accettazione di diverse fedi religiose, principio per cui si batte appassionatamente Voltaire nel Trattato sulla tolleranza (Traité sur la tolérance) del 1763 (➜ D11 ). Per questo lo Stato non può che essere laico, l’ambito religioso deve essere nettamente distinto dalla gestione politica: gli illuministi seguono la prospettiva giurisdizionalista, sostengono cioè non solo la netta distinzione tra Stato e Chiesa, ma anche l’autorità della giurisdizione laica su quella ecclesiastica. Lo “stato di diritto” e la distinzione dei poteri D’altra parte il potere politico, come si è detto, deve essere limitato da leggi precise: contro l’assolutismo monarchico gli illuministi sostengono la necessità dello “stato di diritto”. Nella definizione delle prerogative dello “stato di diritto” occupa un posto fondamentale Lo spirito delle leggi (L’esprit des lois) (1748) di Montesquieu, che costituisce la più importante e approfondita riflessione politica dell’Illuminismo e che il suo autore deve difendere dal duro attacco delle autorità ecclesiastiche. Montesquieu fa una rigorosa analisi del rapporto fra sistema giuridico e forme di governo per concludere che, se non esiste uno Stato ideale, tuttavia sono più giusti i governi moderati, in cui il potere è limitato dalle leggi e vi è maggiore garanzia per le libertà dei cittadini. Concentrare il potere in un solo individuo o gruppo è per Montesquieu, che guardava come modello alla monarchia parlamentare inglese, una condizione passibile di degenerare in dispotismo, qualunque sia il tipo di governo. Occorre dunque (➜ D10 OL) che il potere legislativo, quello esecutivo e quello giudiziario siano affidati a organismi diversi, autonomi nel proprio ambito, ma in cui ognuno controlli gli altri, impedendo così pericolosi eccessi di potere. La distinzione dei poteri, posta con lucida chiarezza da Montesquieu, sta alla base degli Stati costituzionali. Montesquieu Charles-Louis de Secondat, barone di Montesquieu, nasce nel 1680 presso Bordeaux. A Parigi riceve una formazione giuridica e viene avviato dalla famiglia alla carriera giudiziaria. Nel 1721 pubblica le Lettere persiane, un’opera che, pur presentandosi sotto la forma di romanzo epistolare, è finalizzata alla riflessione filosofico politica. In essa Montesquieu inaugura l’uso (poi comune tra gli illumi-

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nisti, in particolare Voltaire) del registro ironico e della tecnica dello straniamento: infatti vi è assunto il punto di vista di un viaggiatore persiano per criticare aspetti del costume sociale politico europeo. Il testo ottiene un grande successo. Nel 1748, come abbiamo visto, Montesquieu pubblica Lo spirito delle leggi, che dovrà difendere dall’attacco delle autorità ecclesiastiche. Muore nel 1755. L’originale posizione di Rousseau Diversa la concezione dello Stato di Rousseau, che teorizza una forma di democrazia diretta, in rapporto alla sua idea che occorra stabilire un nuovo e radicale “contratto sociale”, che elimini davvero ogni ineguaglianza e sopraffazione e sia espressione della libera volontà degli uomini. Certo Rousseau pensa non che si debba ritornare allo “stato di natura”, ma che occorra “rinaturalizzare” la società, recuperando i bisogni fondamentali dell’uomo, snaturati dal progresso cosiddetto “civile”, dalla prevalenza di interessi privati egoistici: la pienezza di sentimento, passione e ragione che fanno di un uomo un uomo. Bisogna dire però che molte posizioni di Rousseau, sempre fortemente originali, desteranno non poche perplessità tra gli illuministi e nei salotti. Non a caso le posizioni politiche di Rousseau influenzeranno le correnti più radicali della Rivoluzione francese. Rousseau Jean Jacques Rousseau nasce a Ginevra da una famiglia calvinista nel 1712. La madre muore nel darlo alla luce. Figlio di un modesto artigiano, durante l'adolescenza lavora nella bottega di un incisore. Nel 1728, appena sedicenne, abbandona Ginevra e si reca in Savoia. Ad Annecy conosce madame de Warens, dalla quale viene ospitato, da cui riceve materna protezione e che diventa poi la sua amante. Verso il 1740, incrinatosi il rapporto, Rousseau svolge vari incarichi per vivere, tra cui quello di precettore e copista di testi musicali. Nel 1744 si trasferisce a Parigi, dove convive con una modesta cucitrice, da cui ha cinque figli, tutti lasciati all’orfanotrofio, e che sposerà molti anni dopo. A Parigi inizia a frequentare gli intellettuali più noti, ma le sue prese di posizione, sempre molto originali, suscitano perplessità e polemiche: in particolare quelle espresse nel Discorso sull’origine e i fondamenti dell’ineguaglianza tra gli uomini (1755). Ben presto Rousseau si trova isolato dal gruppo dei philosophes e in aperto contrasto con Voltaire e Diderot. Nel 1756 lascia Parigi e viene ospitato dalla scrittrice Louise d’Épinay, ma l’anno successivo va a vivere in una modesta casa di campagna. Intanto compone, nei primi anni Sessanta, le sue opere più importanti: Il romanzo epistolare Giulia o la nuova Eloisa (1761), il romanzo pedagogico Emilio o dell’educazione (1762) e Il contratto sociale (1762). Opere che da un lato non coincidevano con le principali tesi illuministe, dall’altro incontrarono la dura condanna del potere politico e della Chiesa. Costretto a fuggire per evitare l’arresto, vaga in vari luoghi, fino a approdare in Inghilterra, ospite del filosofo Hume. Ma ovunque si sente perseguitato e la sua salute psichica va incrinandosi. Ritornato in Francia, completa Le confessioni (poi pubblicate postume) e stende le Fantasticherie del viaggiatore solitario. Muore nel 1778.

online D10 Montesquieu

online

online

La libertà politica non può esistere dove vi sia abuso di potere Lo spirito delle leggi, libro XI, capp. III-IV, VI

Immagini del Settecento

Un antieroe settecentesco: Barry Lindon

Sguardo sul cinema

Sguardo sul cinema

Modelli del sapere e tendenze filosofico-scientifiche 2 205


La politica e le istituzioni per gli illuministi rifondazione dei princìpi della politica in nome della ragione e della giustizia caratteri del sapere illuministico applicato al campo politicoistituzionale

visione laica dello Stato tutela dei diritti civili e battaglia per l’uguaglianza concetto di ”diritto naturale“ distinzione fra i tre poteri legislativo, esecutivo, giudiziario

Voltaire

D11

Requisitoria contro l’intolleranza

EDUCAZIONE CIVICA

nucleo Costituzione competenza 1

Trattato sulla tolleranza, XXII Voltaire, Scritti politici, a c. di R. Fubini, UtetTorino 1964

Il Trattato sulla tolleranza trae origine da una precisa, drammatica, occasione: in esso Voltaire difende post mortem l’ugonotto Jean Calas, condannato a morte dal parlamento di Tolosa e giustiziato con la falsa accusa di aver ucciso il figlio per impedirne la conversione al cattolicesimo. Il trattato attacca soprattutto l’intolleranza cristiana e il secolare, funesto, intreccio tra potere politico e potere religioso, ricostruendo il processo storico che aveva portato alle guerre di religione, e si conclude con l’appassionata requisitoria (qui parzialmente presentata) contro le dispute teologiche e l’intolleranza che ne consegue.

Non ci vuole molta abilità e neppure un’eloquenza molto raffinata per dimostrare che i cristiani devono tollerarsi a vicenda. Io vado più lontano: vi dico che bisogna considerare tutti gli uomini come nostri fratelli. Che! Mio fratello turco? mio fratello cinese, ebreo, siamese? Sì, senza dubbio. Non siamo figli dello stesso padre e 5 creature dello stesso Dio? Ma quei popoli ci disprezzano; ma ci trattano da idolatri1! Ebbene, dirò loro che hanno un gran torto. Mi sembra che potrei sconcertare per lo meno l’orgogliosa ostinazione d’un imano2, d’un monaco buddista, se parlassi press’a poco così: «Questo piccolo globo, che è soltanto un punto, ruota, come tanti altri globi, nello 10 spazio. Noi siamo sperduti in questa immensità. L’uomo, alto circa cinque piedi, è sicuramente poca cosa nella creazione. Uno di quegli esseri microscopici dice a qualcuno dei suoi vicini nell’Arabia o nella terra dei Cafri3: Ascoltatemi, perché il Dio di tutti questi mondi mi ha illuminato: vi sono novecento milioni di piccole formiche come noi sulla Terra, ma soltanto il mio formicaio è caro a Dio; tutti gli 15 altri li ha in orrore dall’eternità. Il mio soltanto sarà felice, mentre tutti gli altri saranno eternamente sventurati».

1 ci trattano da idolatri: i popoli appena nominati non ammettono la possibilità di rappresentare l’effigie della divinità. Da

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qui l’accusa di idolatria ai cristiani che invece la accettano. 2 imano: imam, colui che nella religione

musulmana dirige la preghiera comune.

3 Cafri: forma italianizzata per Kafir che significa “infedele, non musulmano”.


Allora mi prenderebbero e mi chiederebbero chi sia quel pazzo che ha detto una tale sciocchezza. Sarei costretto a rispondere: «Voi stessi». [...] Parlerei ora ai cristiani e oserei dire, per esempio, a un domenicano4 inquisitore per 20 la fede: «Fratello, voi sapete che ogni provincia d’Italia ha il suo dialetto e che non si parla a Venezia e a Bergamo come a Firenze. L’accademia della Crusca ha fissato la lingua. Il suo dizionario è una regola, dalla quale non ci si può allontanare [...] ma credete che il console dell’accademia e, in sua assenza, il Buonmattei5, avrebbero potuto in coscienza far tagliare la lingua a tutti i veneziani e a tutti i bergamaschi 25 che avessero perseverato nel loro dialetto?». L’inquisitore mi risponde: «Ma vi è una bella differenza: qui si tratta della salvezza della vostra anima. È per il vostro bene che il direttorio dell’inquisizione ordina che vi si arresti6 in seguito alla deposizione di una sola persona, sia pur essa infame e recidiva; che non abbiate avvocato per difendervi; che il nome del vostro accusatore 30 non vi sia neppure comunicato; che l’inquisitore vi prometta la grazia e poi vi condanni; che vi infligga cinque diverse torture e che poi vi faccia frustare o mettere alle galere o bruciare con tutte le cerimonie [...]». Io mi prenderei la libertà di rispondergli: «Fratello, forse avete ragione. Sono convinto del bene che volete farmi, ma non potrei essere salvato senza tutto questo?». 35 È vero che questi assurdi orrori non sporcano sempre la faccia della terra, ma sono stati frequenti e se ne metterebbe insieme facilmente un volume molto più grosso dei Vangeli che li condannano7. Non soltanto è oltremodo crudele perseguitare in questa breve vita coloro che non pensano come noi, ma non so se non sia molto arrischiato pronunciare la loro eterna dannazione. Mi sembra che non spetti agli atomi 40 di un momento, quali noi siamo, prevenire in questo modo i decreti del Crea­tore. Sono ben lontano dal combattere la massima: «Fuori della Chiesa nessuna salvezza». Io la rispetto come tutto ciò che essa insegna; ma in verità conosciamo tutte le vie del Signore e tutta l’estensione 45 della sua misericordia? Non è lecito sperare in Lui così come temerlo? Non è sufficiente essere fedeli alla Chiesa? Occorrerà dunque che ogni individuo usurpi i diritti della Divinità e decida prima di lei del destino eterno di tutti gli uomini?

Nella caricatura settecentesca, il clero e la nobiltà opprimono il popolo.

4 un domenicano: appartenente all’ordi-

6 ordina che vi si arresti: a questa prima

ne religioso fondato da san Domenico e preposto alla tutela dell’ortodossia. 5 il Buonmattei: Benedetto Buonmattei (1581-1648), grammatico cruscante, autore di un celebre manuale (Della lingua toscana, Venezia 1623).

asserzione segue una serie di atti praticati dai tribunali ecclesiastici quando si trattava di giudicare l’ortodossia o l’eresia di una persona accusata. Contro queste violazioni dei diritti civili si battono gli illuministi.

7 un volume... condannano: Voltaire intende qui sottolineare la contraddizione fra quanto predicato da Cristo nel Vangelo (prima di tutto la condanna della violenza e della sopraffazione) con la condotta di coloro che si sono arrogati il diritto di farsi portavoce della sua parola, di fatto ignorandola.

Modelli del sapere e tendenze filosofico-scientifiche 2 207


Concetti chiave Un'arringa appassionata

L’argomentazione di Voltaire, rigorosamente razionale e insieme appassionata, parte da una asserzione data per scontata, e cioè, la tolleranza reciproca tra cristiani (in realtà in seguito anche questo concetto sarà smentito da riferimenti alla realtà storica). Ma il filosofo propone, subito dopo, un valore etico e comportamentale che va oltre la tolleranza e cioè la fratellanza tra tutti gli esseri umani, qualunque sia la religione a cui appartengono, perché siamo figli di uno stesso Dio. La motivazione che giustifica la fratellanza universale (come Voltaire immagina di spiegare ai rappresentanti della religione buddista e musulmana) è la constatazione della insignificanza della terra e della stessa specie umana, paragonata a minuscole formiche, nell’universo. È del tutto assurdo quindi immaginare che un “gruppo di formiche” rispetto a un altro gruppo sia il prediletto da Dio. Nella seconda parte del testo lo scrittore si rivolge a una figura della religione cristiana, un domenicano che opera nell’Inquisizione, esempio paradigmatico di intolleranza. Provocato ironicamente dal filosofo, questi risponde che tutto quello che l’Inquisizione ha fatto, anche le scelte più atroci, è stato motivato dalla nobile intenzione di salvare le anime di chi sbagliava, che sarebbero altrimenti state condannate alla dannazione eterna. Oltre a condannare con aspre parole gli orrori dell’Inquisizione, il filosofo stigmatizza la presunzione di quelli che chiama “atomi di un momento” (gli uomini) di farsi portavoce di Dio e di decidere del destino ultraterreno di un uomo.

Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

COMPRENSIONE 1. A che proposito e con quale obiettivo argomentativo viene introdotto il riferimento all’Accademia della Crusca e alla sua autorità in campo linguistico? 2. Su quali dei motivi, secondo te, è fondato nell’ultimo capoverso l’appello alla tolleranza? ANALISI 3. Nella risposta dell’autore che tipo di tono si può riconoscere? Qual è il motivo per cui lo usa? C’è un altro passaggio del testo in cui riconosci il medesimo tono? Se sì, quale? STILE 4. A quali strategie retoriche ricorre l’autore per dare particolare incisività al suo discorso?

Interpretare

TESTI A CONFRONTO 5. Nel passo, incentrato sul tema della tolleranza (e dell’intolleranza) si riconosce l’impronta della posizione fatta propria da Voltaire in ambito religioso. In un testo di 20 righe metti a confronto questo brano con la voce “Teista” del Dizionario filosofico (➜ D1 OL). SCRITTURA CREATIVA 6. Prova a cimentarti nella stesura di un’arringa finalizzata a valorizzare un valore civile che ti sembra oggi ancora messo in discussione, servendoti delle scelte strutturali e stilistiche per le quali ha optato Voltaire nel passo proposto. COMPTENZA DIGITALE

EDUCAZIONE CIVICA

nucleo

Costituzione

competenza 1

7. Dopo aver ascoltato le considerazioni espresse da noti intellettuali in merito al tema “Tolleranza, intolleranza, fanatismo” su raiplaysound.it nella puntata del podcast “La Grande Radio” di Rai Radio 3 del 28 gennaio 2024, presentate alla classe – in formato multimediale – un sunto degli interventi che vi hanno colpito maggiormente. Esprimete, poi, una vostra personale riflessione sull’argomento. Per rendere più agevole l’esercitazione – la puntata ha una durata complessiva di 1:06:42 – potete dividervi in gruppi di “ascolto” e di lavoro.

208 Settecento Scenari socio-culturali


Jean-Jacques Rousseau

D12

Alle radici della diseguaglianza e del patto sociale

EDUCAZIONE CIVICA

nucleo Sviluppo economico e sostenibilità competenza 5

Discorso sull’origine e i fondamenti della diseguaglianza J.-J. Rousseau, Scritti politici, trad. di M. Garin, Laterza, Roma-Bari 1971

Il saggio da cui sono tratti questi brani fu steso nel 1754 per partecipare a un concorso bandito dall’Accademia di Digione sul tema «Qual è l’origine della disuguaglianza e se sia consentita dalla legge naturale». Nel saggio Rousseau traccia un ampio quadro del percorso dell’uomo dallo stato di natura alla civiltà identificando nella proprietà privata l’origine della disuguaglianza. Da qui l’arricchimento di alcuni a scapito di altri, la suddivisione in padroni e schiavi, la violenza e la necessità di istituire un patto sociale che in realtà non ha fatto altro che sancire le disuguaglianze.

Il primo che, cintato un terreno, pensò di affermare, questo è mio, e trovò persone abbastanza ingenue da credergli fu il vero fondatore della società civile. Quanti delitti, quante guerre, quante uccisioni, quante miserie e quanti orrori avrebbe risparmiato al genere umano colui che strappando i paletti o colmando il fossato, 5 avesse gridato ai suoi simili: “Guardatevi dall’ascoltare questo impostore. Se dimenticate che i frutti sono di tutti e che la terra non è di nessuno, voi siete perduti”. Ma è molto probabile che allora le cose fossero già arrivate al punto di non poter durare così com’erano; infatti quest’idea di proprietà, dipendendo da parecchie idee antecedenti che non sono potute nascere se non in successione di tempo, non si 10 formò tutt’a un tratto nello spirito umano [...]. Risaliamo dunque più lontano e cerchiamo di riunire sotto un’unica visione questa lenta successione di avvenimenti e di conoscenze, nel loro ordine più naturale. Il primo sentimento1 dell’uomo fu quello della sua esistenza, la sua prima cura2 quella della sua conservazione. I prodotti della terra gli fornivano tutto ciò che gli 15 occorreva; l’istinto lo portò a farne uso [...]. Tale fu all’origine la condizione dell’uomo; tale fu la vita d’un animale inizialmente limitato alle pure sensazioni, appena capace di profittare dei doni che la natura gli offriva, lungi dal pensare a strapparle nulla. Ma non tardarono a presentarsi delle difficoltà e bisognò imparare a vincerle: l’altezza 20 degli alberi che gl’impediva di cogliere i frutti, la concorrenza degli animali che cercavano di nutrirsene, la ferocia di quelli che minacciavano la sua vita, tutto lo obbligò a dedicarsi agli esercizi fisici; bisognava acquistare agilità, velocità nella corsa, vigore nella lotta. Ben presto ebbe sotto mano le armi naturali, che sono i rami d’albero e i sassi. Imparò a superare gli ostacoli della natura, a combattere all’occorrenza gli altri 25 animali, a contendere il cibo anche agli uomini, o a cercare di compensare la perdita di ciò che gli toccava cedere al più forte. Via via che il genere umano andava crescendo, le fatiche si moltiplicavano insieme agli uomini. La differenza di suolo, di climi, di stagioni poté costringere a differenziare anche i loro modi di vita. Annate sterili, inverni lunghi e rigidi, estati torride che consumano tutto, li costrinsero a nuova operosità. 30 Sulle rive del mare e dei fiumi inventarono la lenza e l’amo diventando pescatori e mangiatori di pesce; nelle foreste si fabbricarono arco e frecce, diventando cacciatori e guerrieri; nei paesi freddi si coprirono con le pelli delle bestie uccise; il fulmine o 1 sentimento: sensazione, percezione (dovuta alle facoltà sensoriali). 2 cura: preoccupazione.

Modelli del sapere e tendenze filosofico-scientifiche 2 209


un vulcano, o un caso fortunato li portò a conoscere il fuoco, nuova risorsa contro i rigori dell’inverno: impararono a conservare quest’elemento, poi a riprodurlo, infine 35 a usarlo per la preparazione delle carni che prima divoravano crude. [Rousseau continua la sua analisi di quella che considera una condizione felice dell’umanità.] Finché gli uomini si contentarono delle loro capanne rustiche, finché si limitarono a cucire le loro vesti di pelli con spine di vegetali o con lische di pesce, a ornarsi di piume e conchiglie, a dipingersi il corpo con diversi colori, a perfezionare o abbellire i loro archi e le loro frecce, a tagliare con pietre aguzze canotti da pesca o qualche 40 rozzo strumento musicale; in una parola, finché si dedicarono a lavori che uno poteva fare da solo, finché praticarono arti per cui non si richiedeva il concorso di più mani, vissero liberi, sani, buoni, felici quanto potevano esserlo per la loro natura, continuando a godere tra loro le gioie dei rapporti indipendenti; ma nel momento stesso in cui un uomo ebbe bisogno dell’aiuto di un altro; da quando ci si accorse 45 che era utile a uno solo aver provviste per due, l’uguaglianza scomparve, fu introdotta la proprietà, il lavoro diventò necessario, e le vaste foreste si trasformarono in campagne ridenti che dovevano essere bagnate dal sudore degli uomini, e dove presto si videro germogliare e crescere con le messi la schiavitù e la miseria. Questa grande rivoluzione nacque dall’invenzione di due arti: la metallurgia e l’a50 gricoltura. [...] Giunte le cose a questo punto, è facile immaginare il resto. Non mi soffermerò a descrivere la successiva invenzione delle altre arti, il progresso delle lingue, la prova e l’impiego delle capacità, la disuguaglianza delle fortune, l’uso o l’abuso delle ricchezze, né tutti i dettagli che tengon dietro a questi e che tutti possiamo facilmente immaginare. [Allo sviluppo economico seguono inevitabilmente lo sviluppo di nuove qualità umane, acquisite rispetto a quelle naturali, l’astuzia, la simulazione per poter emergere sopra gli altri, la competizione, l’ambizione. L’uguaglianza originaria viene infranta. Da qui violenza, rapine, uno stato di guerra permanente. Da questa situazione, per tutti dannosa, secondo Rousseau derivò la necessità di istituire un patto che legasse gli uomini in società, voluto principalmente, secondo il filosofo ginevrino, dal ricco di cui immagina il discorso.] 55

“Uniamoci, disse, per salvaguardare i deboli dall’oppressione, tenere a freno gli ambiziosi e garantire a ciascuno il possesso di quanto gli appartiene; stabiliamo degli ordinamenti di giustizia e di pace a cui tutti, nessuno eccettuato, debbano conformarsi, e che riparino in qualche modo i capricci della fortuna sottomettendo senza 60 distinzione il potente ed il debole a doveri scambievoli. In una parola, invece di volgere le nostre forze contro noi stessi, concentriamole in un potere supremo che ci governi con leggi sagge, proteggendo e difendendo tutti i membri dell’associazione, respingendo i comuni nemici e mantenendoci in un’eterna concordia”. Bastava molto meno di un discorso del genere per trascinare degli uomini grossolani, 65 facili da lusingare, che, d’altra parte, avevano troppe questioni da dirimere tra loro per poter fare a meno di arbitri, e troppa avarizia e ambizione per potere a lungo fare a meno di padroni. Tutti corsero incontro alle catene convinti di assicurarsi la libertà; infatti avevano senno sufficiente per avvertire i vantaggi d’una costituzione politica, ma non esperienza sufficiente per prevederne i pericoli; i più capaci di fiutare in pre70 cedenza gli abusi erano proprio quelli che contavano di profittarne, e perfino i saggi videro che bisognava risolversi a sacrificare una parte della loro libertà alla conserva-

210 Settecento Scenari socio-culturali


zione dell’altra, come un ferito si fa tagliare un braccio per salvare il resto del corpo. Questa fu, almeno è probabile, l’origine della società e delle leggi, che ai poveri fruttarono nuove pastoie3 e ai ricchi nuove forze, distruggendo senza rimedio la libertà 75 naturale, fissando per sempre la legge della proprietà e della disuguaglianza, facendo d’una accorta usurpazione un diritto irrevocabile, e assoggettando ormai, a vantaggio di pochi ambiziosi, tutto il genere umano al lavoro, alla servitù e alla miseria. 3 pastoie: impacci, legami.

Concetti chiave Nel saggio Rousseau traccia un ampio quadro del percorso dell’uomo dallo stato di natura alla civiltà identificando nella proprietà privata l’origine della disuguaglianza. Da qui l’arricchimento di alcuni a scapito di altri, la suddivisione in padroni e schiavi, la violenza e la necessità di istituire un patto sociale che in realtà non ha fatto altro che sancire le disuguaglianze.

Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

SINTESI 1. Completa lo schema sintetizzando le fasi di sviluppo dell’umanità delineate da Rousseau. fasi

caratteristiche L’uomo è mosso dall’istinto animale della sopravvivenza

istituzione della società COMPRENSIONE 2. Qual è stata, secondo Rousseau, la funzione delle istituzioni civili? STILE 3. Per dare evidenza al suo discorso, Rousseau ricorre a un procedimento linguistico-retorico, basato sull’inserimento di allocuzioni dirette: identifica nel testo i discorsi diretti, indica a chi vengono attribuiti e perché; poi, spiega la loro funzione all’interno del percorso argomentativo del testo.

Interpretare

ESPOSIZIONE ORALE 4. In un intervento orale di circa 2 minuti, esponi il giudizio di Rousseau sull’evoluzione storica che ha portato all’istituzione della società. COMPETENZA DIGITALE

EDUCAZIONE CIVICA

nucleo Sviluppo economico e sostenibilità

competenza 5

5. Fai una ricerca in Rete e approfondisci il tema della cosiddetta “decrescita felice”. Illustra poi alla classe – in formato multimediale – i risultati della tua indagine e chiarisci gli obiettivi di questa teoria, riflettendo sui punti di contatto con il pensiero di Rousseau. Esprimi infine una tua riflessione personale su questa “utopia concreta”.

Fissare i concetti Modelli del sapere e tendenze filosofico-scientifiche 1. Qual era il bersaglio polemico principale degli illuministi nel campo dell’educazione? 2. Chi secondo i letterati illuministi doveva farsi carico della gestione dell’educazione? 3. Su quale principio si basa la visione enciclopedica del sapere nel Settecento? 4. Qual era lo scopo dell’opera dell’Enciclopedia? 5. Quale parte dell’Enciclopedia è tuttora considerata la sezione più innovativa? Perché? 6. In che senso gli illuministi sostengono una concezione eclettica del sapere? 7. In che cosa consiste lo “stato di natura” su cui si fonda il pensiero socio-politico degli illuministi? 8. Che cosa si intende per “contratto sociale”? 9. Quale principio fondamentale, alla base della moderna concezione di Stati costituzionali, ha formulato Montesquieu nel suo saggio Lo spirito delle leggi? 10. In che modo le posizioni politiche di Rousseau influenzarono la storia francese?

Modelli del sapere e tendenze filosofico-scientifiche 2 211


3

Caratteri e forme della letteratura nel Settecento 1 Un quadro delle tendenze letterarie del Settecento Tendenze della lirica Nella prima metà del Settecento la poesia italiana è dominata dall’influenza dell’Accademia dell’Arcadia, fondata a Roma nel 1690, che si propone di restaurare il buon gusto e la naturalezza in poesia dopo gli eccessi del Barocco. Nella poesia arcadica viene ripreso il “codice pastorale” per cantare essenzialmente l’amore, in modi semplici e musicali, ma al contempo raffinati, che rispecchiano la società galante dei salotti settecenteschi. Nel secondo Settecento l’egemonia del modello arcadico è incrinata dai mutamenti storici e ideologici: le odi illuministe di Parini e, naturalmente, lo stesso progetto del Giorno (➜ C9) testimoniano il bisogno di dar vita, anche nell’ambito poetico (per natura più conservatore), a nuove forme letterarie che ospitino temi di scottante attualità e assumano una funzione di testimonianza civile secondo i princìpi dell’Illuminismo. Negli ultimi decenni del secolo anche nella poesia italiana si insinuerà un nuovo gusto che si suole definire genericamente “preromantico”, per suggestione soprattutto della poesia inglese “notturna” e “sepolcrale”, che contribuisce a svincolare la nostra poesia dalla dittatura del repertorio e delle forme classicistico-petrarchiste. Ma nello stesso periodo si afferma contemporaneamente in Europa il gusto neoclassico che in Italia si pone, per evidenti ragioni storico-culturali, in un rapporto di particolare continuità con la tradizione del classicismo.

Pietro Domenico Oliviero, Il teatro regio di Torino nella serata inaugurale, 1740 (Torino, Palazzo Madama).

Le forme del teatro Nel Settecento il teatro costituisce una delle forme di aggregazione sociale predilette dal pubblico: anche in Italia sono particolarmente amati il melodramma e la commedia, mentre la tragedia continua ad avere scarsa fortuna. In entrambi i casi la cultura del Settecento eredita una tipologia di spettacolo che risultava ormai inadeguata alle esigenze di una società colta e raffinata: sia nel melodramma sia nella commedia (ormai rappresentata quasi esclusivamente dalla commedia dell’arte), il testo era svilito e mortificato: nel caso del melodramma dalla totale subordinazione di esso alle esigenze della musica e soprattutto dal divismo dei cantanti più famosi, nel caso della commedia dagli schemi usurati e ripetitivi della commedia dell’arte. Attraverso Pietro Metastasio (➜ C6) e Carlo Goldoni (➜ C10), il teatro italiano innova profondamente queste due forme di spettacolo teatrale, cercando di ripristi-

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narne la dignità artistica in linea con l’esigenza di buon gusto e razionalità che caratterizza la cultura settecentesca. Metastasio riforma il melodramma ridando prestigio al testo scritto (il libretto) attraverso la creazione di personaggi classicheggianti e situazioni ispirati all’ideale di naturalezza ed eleganza proprio del primo Settecento. Della riforma teatrale operata da Goldoni nell’ambito della commedia si parla ampiamente in ➜ C10. Basterà qui ricordare il significato complessivo dell’operazione realizzata dallo scrittore veneziano: mentre in tutta Europa trionfava la commedia dell’arte, in cui si esprimeva una comicità grossolana e ripetitiva, condizionata dal mestiere degli attori e dalla loro abilità nell’incarnare una specifica maschera, Goldoni, tra mille difficoltà, ripensamenti, critiche anche feroci dei detrattori, riesce a restituire dignità letteraria al testo, a traghettare la commedia verso una forma moderna e realistica, e infine a conferirle una funzione educativa conforme agli ideali illuministici. Il teatro tragico, da sempre meno seguito in Italia, trova un grande interprete in Vittorio Alfieri, capace di riqualificare e rivitalizzare il genere tragico: richiamandosi al modello del teatro classico, Alfieri utilizza uno stile alto e sceglie personaggi e tematiche (in genere conflitti dilanianti e grandi passioni) che incarnano ed enfatizzano la dimensione tragica dell’esistenza umana (➜ C12 OL). Dal trattato alla saggistica storico-filosofica Nel primo Settecento il trattato di impianto umanistico ha ormai lasciato il posto a nuove forme di indagine, sulla scia dello spirito razionalistico che anima, anche in Italia, la cultura. Lo testimoniano in vario modo le opere di Pietro Giannone e Ludovico Antonio Muratori da un lato e la Scienza nuova di Giambattista Vico dall’altro (➜ C6). Se le scrupolose ricerche storiografiche dei primi si fondano su documenti d’archivio, la Scienza nuova (del 1744 è l’ultima edizione postuma) integra la filologia e la filosofia per tentare un’originale interpretazione del divenire storico, in cui Vico riconosce tre fasi: la prima dominata dal senso, la seconda dalla fantasia e dal mito, la terza dalla ragione. Nell’ambito della visione illuministica si colloca il trattato Dei delitti e delle pene (1764) di Cesare Beccaria, nato all’interno del gruppo milanese del «Caffè» (17641766), fondato da Pietro Verri e destinato a grande successo nell’Europa dei Lumi. Nel trattato, animato da una grande passione civile, si condanna l’impiego della tortura e la pratica della pena di morte. Nella Francia dei philosophes il trattato è impiegato per mettere a fuoco i grandi temi del dibattito politico, civile, etico del tempo e assume quindi tratti del tutto diversi dalla trattatistica tradizionale, legata alla retorica classicistica: la passione che anima la battaglia dei philosophes per una nuova società e una nuova cultura si traduce in testi caratterizzati in vario modo da una comunicazione più diretta. La stampa periodica: verso il giornalismo moderno La cultura settecentesca è caratterizzata dalla diffusione della stampa periodica, la circolazione e la lettura della quale avveniva in genere in luoghi aperti allo scambio informale di idee come i caffè. Già nel Seicento esistevano le gazzette, che informavano periodicamente sui principali avvenimenti, ed erano in seguito nate le gazzette letterarie come il parigino «Journal des Savants» – rivolte a un pubblico più ristretto di persone di cultura. Con la diffusione delle idee illuministe i periodici divennero un importante strumento per la formazione dell’opinione pubblica, esercitando insieme ai romanzi filosofici e ai pamphlet un ruolo primario di divulgazione delle idee: si apriva la strada al giornalismo moderno. Caratteri e forme della letteratura nel Settecento 3 213


In relazione ai nuovi compiti e alla nuova natura di questi periodici, mutava anche lo stile, che si avviava ad assumere i caratteri di quello che ancora oggi chiamiamo “stile giornalistico”. Modelli del periodico moderno furono il «Tatler», ma soprattutto il londinese «Spectator» di Joseph Addison e Richard Steel, fondato fin dal 1711. Allo «Spectator» si ispirarono i molti giornali italiani degli anni Sessanta, che ebbero però tutti breve vita: dall’«Osservatore veneto» (1761-1768) di Gaspare Gozzi (17131786), alla polemica e sferzante «Frusta letteraria» (1763-1765) di Giuseppe Baretti (1719-1789), che assume la maschera di Aristarco Scannabue per esprimere una dura critica alle pastorellerie arcadiche e in genere a una letteratura di pura evasione, al più celebre «Il Caffè» che, con forte consapevolezza, aderisce ai principali temi dell’Illuminismo d’oltralpe aprendo la cultura italiana a un orizzonte europeo. Contigui allo spirito e alle forme espressive del giornalismo sono i pamphlet, particolarmente presenti nella cultura illuminista francese: brevi testi fortemente polemici, in cui la scrittura è finalizzata a enfatizzare il tema proposto per coinvolgere i lettori, così da creare un movimento d’opinione favorevole alle tesi sostenute. Il boom del romanzo in Europa Il romanzo è il genere emergente nella letteratura del Settecento (➜ C8). La patria del romanzo moderno è l’Inghilterra, dove l’ascesa di una moderna classe borghese costituisce il pubblico ideale per il successo del genere: il romanzo inglese, da Robinson Crusoe (1719) di Defoe a Pamela (1742) di Richardson, per citare solo due dei molti esempi, ritrae realisticamente situazioni e personaggi comuni (anche appartenenti alle classi basse), celebra le capacità individuali e l’intraprendenza di moderni eroi in cui i lettori potevano facilmente riconoscersi. In Francia si affermano invece, in relazione all’acceso dibattito ideologico che caratterizza l’Illuminismo francese, i romanzi filosofici (contes philosophiques), tra cui spicca Candide (1759; ➜ C8) di Voltaire, nei quali la struttura narrativa è funzionale a divulgare i temi civili e morali che lo scrittore considera basilari. Il ritardo nell’affermazione del romanzo in Italia L’Italia rimane ai margini della fortuna del romanzo: occorrerà attendere i Promessi sposi (1840) di Alessandro Manzoni per avere un grande romanzo degno di confrontarsi con la letteratura europea. Le ragioni di questo ritardo nell’affermazione del genere per definizione moderno si possono ritrovare nell’ottica culturale italiana, tendenzialmente tradizionalista e classicista, e anche nell’arretratezza delle strutture socio-economiche in Italia (persino nelle zone più ricche, come la Lombardia) rispetto ai più avanzati paesi europei e, di conseguenza, nell’assenza di quel ceto borghese aperto alle novità che costituisce il pubblico elettivo del romanzo. Un certo interesse e una funzione alla lunga di stimolo suscita però in Italia la traduzione dei romanzi europei, in particolare di genere epistolare: da Pamela (1742) e Clarissa (1748) di Richardson, alla Nuova Eloisa di Rousseau (1761), al Werther di Goethe (1774), che ispirerà il romanzo epistolare Ultime lettere di Jacopo Ortis (1798) di Foscolo. Tuttavia, nei confronti del romanzo la cultura italiana ufficiale assume a lungo un atteggiamento di «sussiegosa diffidenza» (Barenghi), quando non addirittura di esplicita condanna. L’emergere del genere autobiografico Il Settecento è ricchissimo di memorie personali, e anche in Italia l’autobiografia ha grande fortuna: già nella prima metà del secolo lasciano interessanti testimonianze della propria storia personale Pietro Giannone (Vita, 1737, pubblicata solo nel 1890) e Giambattista Vico (Autobiografia, 1728). Nella seconda metà del secolo affidano alle memorie personali la testimo-

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nianza diretta della propria esistenza di avventurieri cosmopoliti e di libertini Giacomo Casanova (La storia della mia vita, 1791-1798, pubblicata postuma; ➜ C12 OL) e Lorenzo Da Ponte, autore del libretto del Don Giovanni mozartiano (Memorie, 1829-1830; ➜ C12 OL). Verso gli anni Sessanta Le confessioni di Rousseau si impongono come nuova forma di narrazione della vita, fortemente soggettiva, connotata come autoanalisi. Se le più significative autobiografie italiane (i Mémoires di Goldoni, 1787, e la Vita di Alfieri, 1803, pubblicata postuma nel 1804; ➜ C10 e ➜ C11) non assumono tale prospettiva intimistico-introspettiva, di certo però superano entrambe, seppur in diverso modo, il semplice resoconto delle vicende personali per fornire un’interpretazione complessiva dell’esistenza dei due autori (entrambi uomini di teatro) come rispondente a una vera e propria vocazione. È forse proprio questo taglio fortemente interpretativo che distingue la vera e propria autobiografia dalle semplici memorie personali, come sono quelle di Casanova e Da Ponte. online

Mappa interattiva I viaggi culturali degli illuministi in Europa

Lettere e letteratura di viaggio Il Settecento è il secolo degli scambi epistolari e dei viaggi che costituiscono uno degli strumenti principali per la formazione dell’uomo colto (➜ PER APPROFONDIRE, Il Grand Tour, PAG. 196): anche gli intellettuali italiani viaggiano per visitare nuovi paesi e conoscere nuove idee e costumi. Letteratura di viaggio e lettere si intersecano e a volte si sovrappongono in quest’epoca. Le lettere di viaggio sono a volte reali, come nel caso del Viaggio a Parigi e Londra di Pietro e Alessandro Verri (1766-1767), scambio epistolare scaturito dalla visita di Alessandro alle due capitali europee. Altre volte il resoconto del viaggio si struttura in forma di lettera per deliberata volontà dell’autore e per ambizioni letterarie, come nei Viaggi in Russia di Francesco Algarotti (1764), resoconto a posteriori di un viaggio che lo scrittore, già un esempio dell’intellettuale cosmopolita, aveva compiuto nel 1739. Interessante anche la Relazione del viaggio in Svizzera (1777) del grande scienziato Alessandro Volta (1745-1827) contenuta nel suo Epistolario. Oltre all’occhio scientifico, emerge anche, nella descrizione di paesaggi alpini grandiosi e “sublimi “, uno sguardo affascinato dagli spettacoli della natura. Per quanto riguarda il fenomeno culturale e di costume del ”viaggio in Italia“, tappa obbligata del Grand Tour, la testimonianza più significativa e nota è quella di Goethe, ormai alla fine del secolo.

2 Estetica del sensismo, del sublime e neoclassica: tre modelli per la letteratura e l’arte del secondo Settecento

Nella letteratura del secondo Settecento, soprattutto in ambito poetico, si avverte la presenza di suggestioni diverse e di tendenze estetiche (cioè posizioni che riguardano l’idea di bello) anche antitetiche: dal sensismo all’emergente gusto preromantico del “sublime” fino all’affermazione, verso la fine del secolo, dell’estetica “neoclassica” che ripropone, sulla scia delle suggestioni dell’arte figurativa antica, una visione dell’arte come armonia e controllo delle passioni. Preromanticismo e Neoclassicismo caratterizzeranno in vario modo, in un diverso contesto storico e culturale, la letteratura europea e italiana del primo Ottocento. L’estetica del sensismo Al dominio di una visione artistica improntata al razionalismo, subentra anche in Italia nella seconda metà del secolo la visione estetica Caratteri e forme della letteratura nel Settecento 3 215


sensista, mutuata dalle posizioni più generali del sensismo (➜ PER APPROFONDIRE Il sensismo, PAG. 187). Dell’arte si mette in rilievo soprattutto la possibilità di dare piacere producendo sensazioni che colpiscano vivacemente i sensi: si tratta di una visione che àncora comunque l’arte a una dimensione concreta e che in Italia, proprio per questo, si sposa con l’esigenza, prospettata dagli illuministi, di una nuova letteratura anti-accademica e antiretorica, di “cose” e non “parole”. Letteratura dell’utile sociale e sensismo in Italia si saldano e, non a caso, le principali formulazioni dell’estetica sensista si devono proprio a uomini del «Caffè»: Cesare Beccaria, autore delle Ricerche intorno alla natura dello stile (1770), e Pietro Verri, autore dei Discorsi sull’indole del piacere e del dolore (1773); mentre la realizzazione artistica dei princìpi estetici del sensismo è rappresentata dal Giorno, il capolavoro di Parini, sintesi di poetica sensista (ma anche classica) e letteratura dell’“utile” ispirata da un’esplicita volontà riformatrice dei costumi e della società.

Caspar Wolf, Il ponte sulla gola, 1774-1777 (Sion, Musée des beauxarts).

L’estetica del sublime Verso la metà del Settecento in Inghilterra si verifica una graduale trasformazione del gusto ed emerge una nuova sensibilità estetica, segnata dalla propensione per una letteratura malinconica o notturno-sepolcrale. Una trasformazione che è supportata, a livello teorico, dall’associazione fra arte e poetica del sublime, sulla scia della diffusione in Germania e Inghilterra della traduzione del trattato greco anonimo Del sublime, in cui erano contenute argomentazioni che sembravano contrapporsi alla misura e all’equilibrio propri della visione estetica classica. Nelle riflessioni tardo-settecentesche sublime non ha una connotazione stilistico-linguistica, non corrisponde cioè, come nelle poetiche classicistiche, a uno stile (lo stile più elevato), ma ha a che fare con atmosfere suggestive, manifestazioni estatiche che possono colpire il lettore, suscitandogli sensazioni molto forti. Spesso è lo spettacolo offerto dalla natura che produce questi effetti, una natura maestosa e grandiosa (come le alte montagne), o altri scenari e fenomeni che diano il senso emotivo dell’infinito e della potenza della natura, anche tempestosa o notturna o addirittura orrorosa: in ogni caso è una natura lontanissima dal modello del locus amoenus, cioè del paesaggio idillico e rasserenante proprio della tradizione classica. È l’inglese Edmund Burke (1729-1797), nella sua Inchiesta sul Bello e il Sublime (1757), che, anche sull’onda di testi di successo come i Pensieri notturni di Edward Young (1683-1765), associa al bello e al sublime emozioni forti, come la paura o addirittura il terrore; ma sublime è pure il pensiero della morte o la malattia, il dolore stesso. Si intuisce come in queste inusitate associazioni si creino i presupposti di una rivoluzione del gusto e della sensibilità estetica che si manifesterà pienamente nel Romanticismo, ma che già in opere tardo-settecentesche come il Werther di Goethe inizia a delinearsi. L’estetica neoclassica Il classicismo, nella letteratura europea e soprattutto italiana, è per secoli un “filo rosso”, ma le motivazioni del richiamo ai classici sono evidentemente diverse a seconda delle epoche e

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dei modelli culturali. Come si è visto, nel Settecento esiste un classicismo arcadico, ma è cosa diversa dal gusto (poiché si tratta soprattutto di un orientamento del gusto) e dalla moda neoclassica che si diffondono, non solo nella poesia, ma questa volta anche nell’arte, nell’oggettistica, nel costume già negli ultimi decenni del Settecento per effetto dei ritrovamenti seguiti agli scavi archeologici di Ercolano, Pompei e Paestum. Non a caso è proprio un archeologo e storico dell’arte, il tedesco Johann Joachim Winckelmann (1717-1768), a codificare i princìpi fondamentali della visione neoclassica nella sua Storia dell’arte nell’antichità (1764): nell’opera, che eserciterà una vasta influenza in Europa, viene esaltata l’arte greca come esempio di bello assoluto e ideale, fondato sull’equilibrio e l’armonia, sull’allontanamento dalle passioni ed emozioni perturbanti.

Laocoonte e i suoi figli, copia romana in marmo da un originale in bronzo del II secolo a.C. (Roma, Musei Vaticani).

Tre concezioni estetiche della seconda metà del XVIII secolo SENSISMO

SUBLIME

NEOCLASSICISMO

l’arte deve stimolare sensazioni

l’arte nasce dalla suggestione di grandi spettacoli della natura o da atmosfere notturne che suscitano turbamento e/o sgomento

l’arte deve rifarsi al modello greco di bellezza e ai canoni di equibrio e armonia

Fissare i concetti Caratteri e forme della letteratura nel Settecento 1. Da quale fenomeno è caratterizzata la cultura settecentesca per quanto riguarda l’informazione? 2. Quale genere si afferma nella letteratura europea del Settecento? 3. Su quali princìpi è incentrata la visione estetica sensista? 4. In che cosa consiste la poetica del sublime formalizzata dall’inglese Edmund Burke? 5. Quale evento storico influenza la diffusione della moda neoclassica alla fine del Settecento?

Caratteri e forme della letteratura nel Settecento 3 217


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L’evoluzione della lingua 1 Il problema della lingua in Italia al tempo dell’Illuminismo Il divario tra lingua scritta e lingua parlata La lingua scritta che gli illuministi italiani, nel loro sforzo di ammodernamento e razionalizzazione della cultura e della letteratura, hanno davanti è ancora per larga parte la lingua di Boccaccio e di Petrarca, riproposti come modelli anche nel Settecento dal Vocabolario della Crusca: una lingua certamente prestigiosa ma immobile, che non corrispondeva al progresso della società e all’avanzamento di nuovi saperi (come le scienze applicate e l’economia), ma soprattutto inadeguata alla comunicazione. A differenza di altri paesi europei (come la Francia), in Italia la lingua scritta – ancorata alla tradizione del toscano trecentesco dei grandi autori, attraverso le Prose di Bembo – appariva ancora separata dalla lingua orale, espressione delle diverse realtà delle parlate regionali, in cui ancora si ricorreva ai dialetti, per gli usi comunicativi quotidiani. Il dialetto era impiegato nella lingua scritta solo con particolari funzioni espressive, in rapporto a specifici generi letterari: è il caso del dialetto veneto nelle commedie goldoniane. In alcuni ambiti permane il latino: lingua ufficiale della Chiesa e della teologia, ma in parte ancora della scienza e dell’università, dove l’insegnamento continua a essere tenuto per lo più in latino (quando a Napoli nel 1764 Antonio Genovesi decide di tenere le sue lezioni di economia in italiano, la scelta suscita ancora molto sconcerto). L’egemonia del francese, lingua dell’Europa colta In questo quadro linguistico disomogeneo e variegato si inserisce prepotentemente il francese, che va diffondendosi in tutta Europa come lingua internazionale della cultura e della comunicazione tra i ceti colti, un ruolo che in seguito gli sarebbe stato sottratto dall’inglese: tutte le persone colte, anche in Italia, conoscono il francese (si può parlare spesso di un vero e proprio bilinguismo) e lo usano non solo quando scrivono lettere, ma spesso anche per parlare. Ciò si spiega con il ruolo d’avanguardia esercitato dalla cultura francese nel Settecento e con l’attrazione esercitata dalla capitale francese sugli intellettuali di tutta Europa. Anche in Italia fra le letture predilette ci sono opere francesi, l’Enciclopedia viene stampata a Lucca e a Livorno in lingua originale (evidentemente gli editori sapevano di poter contare su un pubblico di lettori che conosceva bene il francese), Goldoni e Casanova scrivono in francese le loro memorie. L’affermazione del francese dipese anche dalla proverbiale clarté della lingua, cioè dalla sua chiarezza, dalla sua razionalità, che la rendeva adatta alla comunicazione, mentre la lingua italiana appariva al contrario artificiosa, incline a eccessi retorici, caratterizzata da una sintassi pesantemente latineggiante. Difetti che Alessandro Verri stigmatizza in una pagina assai significativa del «Caffè» (➜ D13 OL). Di fronte all’influsso del francese sulla nostra lingua i letterati italiani assumono posizioni diverse: dallo sdegnoso rifiuto dei tradizionalisti, come Carlo Gozzi («Per qual necessità si sostituiscono de’ termini e delle voci francesi» egli scrive «a’ termini e alle voci della nostra eletta favella?»), all’apertura incondizionata in nome dei diritti dell’uso e della comunicazione, posizione assunta nel programma del «Caffè».

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La polemica linguistica del «Caffè» e la Rinunzia avanti notaio al Vocabolario della Crusca La situazione che abbiamo tratteggiato giustifica l’aspra polemica sviluppata dagli intellettuali del «Caffè» contro il culto del “bello stile” e la dittatura del toscano letterario illustre, che avevano allontanato la lingua italiana dalla realtà. Da qui anche l’attacco all’istituzione-simbolo della cristallizzazione della lingua italiana, ovvero l’Accademia della Crusca e il suo Vocabolario. In un celebre articolo del «Caffè» Alessandro Verri formula, a nome di tutti i collaboratori del periodico milanese, una sorta di manifesto delle posizioni della rivista nei riguardi alla lingua. È la Rinunzia avanti notaio degli autori del presente foglio periodico al Vocabolario della Crusca: redatta con lo stile ironico e paradossale caro all’Illuminismo francese e articolata in vari punti, coincide di fatto con il rifiuto di online seguire obbligatoriamente la «toscana favella». D13 Alessandro Verri Sintetizziamo il contenuto dei vari punti presenti in questo Per una lingua antiaccademica Dei difetti della letteratura e di alcune vero e proprio manifesto contro il principio di autorità linguiloro cagioni stica per un uso vivo e moderno della lingua.

1. Se Dante, Petrarca, Boccaccio hanno avuto il diritto di inventare parole nuove, perché lo stesso diritto è negato ai moderni? 2. Non ha senso pensare che una lingua non possa migliorare e arricchirsi nel corso del tempo. 3. Nessuna legge obbliga a venerare «gli oracoli della Crusca». 4-5. Se si possono rendere meglio certe idee attraverso vocaboli stranieri adattati alla lingua italiana, lo si deve fare senza timore di presunte autorità (Giovanni Della Casa ecc.) che non hanno in realtà mai pensato di assumere il ruolo di tiranni come vorrebbero i mediocri grammatici. Se il mondo fosse regolato da loro non ci sarebbe stato alcun progresso; magari, scrive ironicamente Verri, sapremmo che “carrozza” va scritto con due erre ma andremmo ancora a piedi. Le parole devono servire alle idee e non viceversa. 6. Gli autori del «Caffè» non intendono rispettare le regole introdotte dal «capriccioso pedantismo». Si fanno un vanto dall’aver privilegiato l’acquisizione di utili conoscenze, di idee rispetto alle «secondarie cognizioni», tra le quali pongono il rispetto delle regole puristiche. 7. Gli autori del «Caffè» si ripromettono di scrivere e pensare liberamente e di usare «quella lingua che s’intende dagli uomini colti da Reggio di Calabria sino alle Alpi».

Fissare i concetti L’evoluzione della lingua 1. Perché nel Settecento l’italiano è ancora una lingua separata dalla dimensione orale? 2. Quale lingua straniera era considerata in Italia la lingua di cultura nel XVIII secolo? 3. Qual è il bersaglio polemico contro cui si scagliano gli illuministi per denunciare la cristallizzazione della lingua italiana?

L’evoluzione della lingua 4 219


Libri, lettori, lettura

I libri e la lettura nell’età dei lumi Quanto si legge e che cosa si legge Nella seconda metà del Settecento la produzione di libri aumenta enormemente, in rapporto al delinearsi, per lo meno nei paesi più evoluti, come l’Inghilterra e la Francia, di un ceto medio-basso di lettori e si manifesta una chiara linea di tendenza: diminuisce nettamente il numero di chi legge testi di contenuto religioso-edificante, in particolare in Francia, mentre cresce l’interesse per testi scientifici o resoconti di esplorazioni e viaggi. Ma soprattutto sono richiesti i romanzi, che soddisfano il nuovo bisogno, soprattutto femminile, di una lettura con fini di evasione: il romanzo epistolare La nuova Eloisa di Rousseau ha ben settanta edizioni prima dell’Ottocento. Tra i libri trionfa il piccolo formato, un tipo di libro tascabile, che la gente può portare con sé come compagno di viaggi o anche di semplici passeggiate. Costituisce un’eccezione il grande formato delle dispense dell’Enciclopedia, ma in questo caso risultò convincente il senso complessivo della proposta editoriale e soprattutto la sagace pubblicizzazione dell’opera. Non a caso però Voltaire, sempre attento a sfruttare nuove occasioni editoriali per il “commercio” delle idee, contrappose all’Enciclopedia il suo agile Dizionario filosofico portatile. Dove si legge e come si legge Il libro rimane comunque un prodotto costoso che pochi possono permettersi: con il prezzo di un romanzo, in Inghilterra o in Germania, riusciva a vivere un’intera famiglia almeno per una settimana (Rodler). In tutta Europa si moltiplicano così le possibilità di leggere senza dover comprare il libro: in particolare prendendo il libro in prestito nelle molte “società di lettura” che si diffondono in tutti i paesi civilizzati. Questa nuova possibilità non solo favorisce la formazione di una tipologia sociale di lettori più ampia ed eterogenea, ma modifica anche le abitudini di lettura: leggere diventa sempre più un’esperienza libera da ogni vincolo, soggetta a ritmi e motivazioni del tutto personali. Inoltre da esclusivamente intensiva (ovvero concentrata su pochi libri, sempre gli stessi) la lettura diventa tendenzialmente estensiva, applicata cioè a molti testi nuovi, letti con rapidità e avidità. Ci si va ormai allontanando dalla situazione arcaica della famiglia patriarcale riunita nel salotto buono di casa intorno al padre che legge ad alta voce un libro indiscutibilmente autorevole come la Bibbia, per l’edificazione morale di tutti (una situazione ritratta nostalgicamente da alcuni pittori del tardo Settecento come Jean-Baptiste Greuze). Le rappresentazioni pittoriche del tempo rappresentano nuove tipologie di lettori (artigiani, donne, anche bambini) e nuovi ambiti di lettura (si legge anche a letto o in mezzo alla natura). Jean-François de Troy, La lettura di Molière, 1728.

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La donna illuminista è una grande lettrice. Romanzi alla moda (e gli scrittori sanno bene che le donne fanno parte del loro pubblico), autori classici, trattati di educazione, riviste, libelli politici, scritti filosofici e libri di storia, nulla sfugge loro [...]. Le lettere di donne sono piene di resoconti dell’ultima opera che hanno letto, delle riflessioni che ispira. Le figlie del secolo trovano rifugio nella lettura di fronte alla malinconia ai disordini del tempo [...]. Nel secolo XVIII le rappresentazioni pittoriche della lettura solitaria mettono maggiormente in scena le lettrici, segno di una trasformazione verso il femminile (e di una privatizzazione) della lettura. Ma mentre la lettura maschile è segno di attività intellettuale, la lettrice è facilmente considerata come un’orgogliosa

pedante o un’oziosa. In entrambi i casi ciò avviene perché la donna viene meno al suo ruolo tradizionale, perché vuole accedere a un sapere maschile, perché ruba il tempo che dovrebbe dedicare alla direzione della sua casa, al marito o ai figli, perché crea tra se stessa e il libro uno spazio intimo dal quale l’uomo è escluso. La lettura femminile è pericolosa. Libro serio sul suo tavolo: la lettrice vuole diventare sapiente, vuol prendere il posto dell’uomo. Romanzo in mano o sulle ginocchia: la lettrice sta per lasciarsi andare al sogno, all’abbandono, alla lascivia. D. Godineau, La donna, in Aa. Vv., L’uomo dell’illuminismo, a c. di M. Vovelle, Laterza, Roma-Bari 1993, pp. 445-485

IMMAGINI INTERATTIVE

Maurice Quentin de La Tour, Madame du Châtelet alla scrivania. Fu una matematica e fisica, e contribuì alla divulgazione delle teorie di Leibniz e Newton.

Jean-Étienne Liotard, Ritratto di Maria Adelaide di Francia vestita alla moda turca, 1753 (Firenze, Galleria degli Uffizi).

La rivoluzione della lettura: “leggere con gli occhi del cuore” Negli ultimi decenni del Settecento comincia a diffondersi (ed è una vera e propria rivoluzione, destinata a svilupparsi pienamente nell’età romantica) una forma di lettura empatica, che pone cioè il lettore in un rapporto di immedesimazione emotiva con quanto legge. Ciò accade in particolare per i romanzi, a volte letti e riletti varie volte da lettori (e soprattutto lettrici) che si identificano nei personaggi – arrivando a vedere la propria vita rispecchiata negli intrecci –, e si sviluppa un rapporto intimo ed esclusivo con quello che diventa il “libro del cuore”, il più amato. Un esercito di lettori e lettrici “divora” tra lacrime e sospiri romanzi sentimentali come Pamela di Richardson, La nuova Eloisa di Rousseau, si intenerisce di fronte agli amori di Paolo e Virginia di Bernardin de Saint-Pierre (➜ C8); alcuni addirittura arrivano a riprodurre il tragico suicidio di Werther per “simpatia” con il protagonista del celebre romanzo epistolare di Goethe, I dolori del giovane Werther. Questo modo di leggere e la predilezione stessa per il genere trionfante del romanzo suscitano la critica dei benpensanti che arrivano a vedervi i sintomi di una vera e propria malattia, che allontana dalla realtà; ma anche i filosofi razionalisti dell’Illuminismo Libri, lettori, lettura 4 221


Giornali e pamphlet: la nascita dell’opinione pubblica Il coinvolgimento del pubblico nei temi di interesse generale Nel corso del Settecento in Europa si diffonde un nuovo mezzo di comunicazione: il giornale. La diffusione dei periodici (➜ D14 OL), delle pubblicazioni locali, delle gazzette politiche e l’affermarsi di nuovi modi di leggere e conversare in nuovi spazi collettivi (come i caffè) favoriscono la nascita dell’opinione pubblica , cioè l’orientamento di una consistente parte della popolazione riguardo a problemi di pubblico interesse che fino ad allora erano conosciuti e gestiti solo dai gabinetti politici dei sovrani, dalle autorità ecclesiastiche, dalle accademie (il termine nasce proprio nel Settecento). Per le loro battaglie a favore dei diritti umani e della tolleranza, i philosophes hanno bisogno che il maggior numero di persone possibile aderisca alle loro cause. In vari modi il pubblico viene costantemente mobilitato e sollecitato a pronunciarsi su temi “caldi” del dibattito politico-sociale: un giudizio che, potendo contare su molti numeri, diventa di per sé vincolante, sinonimo di verità. Alla base dell’appello costante all’opinione pubblica sta l’utopia illuminista che tutti (o quasi: si tratta pur sempre solo della parte istruita, almeno a livello basilare, della popolazione), dispongano di una facoltà di giudizio razionale e possano far parte del «tribunale della ragione» (➜ D15 OL) in cui i philosophes si assumono il compito di «avvocati del genere umano». Proprio per questo gli illuministi credono fermamente nel ruolo dell’educazione e i loro scritti si propongono di formare un’opinione pubblica illuminata attraverso gli strumenti comunicativi ritenuti più efficaci nella società moderna: pamphlet, cioè brevi scritti polemici, voci dell’Enciclopedia, articoli di giornale, i romanzi stessi, in alcuni casi programmaticamente costruiti per immettere i temi chiave del dibattito illuminista nella più vasta circolazione. Parola chiave

Libri, lettori, lettura

condannano gli eccessi impliciti in un modo di leggere fondato su un’esuberanza di immaginazione che a loro parere distoglie da più seri e importanti obiettivi.

opinione/opinione pubblica Il termine opinione implica l’idea di un’interpretazione personale di un fenomeno, di una manifestazione, a cui si può dare relativo credito in mancanza di un criterio assoluto di giudizio: l’opinione dunque, sul piano gnoseologico, è contrapposta a “fatto certo, positivo, indiscutibile”. Esprimere un’opinione può diventare un reato nel caso dei cosiddetti “reati d’opinione”: nella società dell’ancien régime, i reati d’opinione erano lo strumento con cui lo Stato assoluto o le autorità ecclesiastiche potevano colpire con facilità le manifestazioni di pensiero critiche nei confronti dell’autorità politica e divergente dai dogmi religiosi (l’accusa comune era di eresia). Gli illuministi contestarono duramente l’esistenza stessa dei reati d’opinione nel diritto penale. La battaglia dei philosophes contro i reati d’opinione e a favore della tolleranza fu condotta facendo appello all’opinione pubblica, un concetto e un termine che nascono proprio in età illuministica. Per opinione pubblica si intende il modo di pensare, il giudizio della collettività dei cittadini, che per la prima volta i philosophes chiamano in causa: l’opinione pubblica è «quanto delle valutazioni dei singoli converge in un processo collettivo di disvelamento del vero» (Tortarolo). In questa accezione, legata a un uso strettamente politico-sociale del termine, esso perde la sua connotazione limitativa (quella cioè che l’opinione non sia verità, ma sia una credenza indimostrabile, spesso errata), assumendo il valore di rappresentazione della verità, a cui attribuire pieno credito.

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D14 Cesare Beccaria Lode dei giornali De’ fogli periodici

D15 Gaetano Filangieri Il tribunale dell’opinione pubblica La scienza della legislazione

D16 Voltaire Difesa della libertà di stampa L’orribile pericolo della lettura

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La prima metà del Settecento vede l’affermarsi delle forme movimentate e preziose del Rococò, il raffinato stile che caratterizza le corti monarchiche europee fino a quando il rigore essenziale del Neoclassicismo non lo sostituisce. Nell’ultimo quarto del Settecento, infatti, il movimento del Neoclassico definisce, attraverso il recupero dell’antico, i canoni della razionalità illuminista e diventa il linguaggio di espressione dei valori della Rivoluzione francese.

Arte nel tempo

Il Rococò

Salottino di porcellana di Maria Amalia di Sassonia, 1757-1759, porcellana dipinta e stucco (Napoli, Museo di Capodimonte).

1 Il boudoir della regina di Napoli Lo stile rococò manifesta appieno i canoni di grazia e leggerezza che lo contraddistinguono nella progettazione degli interni dei palazzi e delle residenze reali, come il boudoir dell’appartamento privato della regina di Napoli Maria Amalia di Sassonia, originariamente realizzato per il Palazzo Reale di Portici e oggi conservato nel Museo di Capodimonte. L’ambiente, a pianta rettangolare, ha le pareti rivestite da porcellane a fondo bianco decorate con applicazioni plastiche ad altorilievo e aperte da sei grandi specchiere francesi. Il soffitto è lavorato a stucchi. Le linee curve e sinuose delle decorazioni vegetali movimentano il bianco prezioso della porcellana, in un’esplosione di decorativismo raffinato e avvolgente. La decorazione rococò perde la pesantezza e la gravità barocche e ricerca un’ornamentazione bizzarra e fantastica, in cui gli spazi domestici vengono trasfigurati dalle forme naturali. Le pareti vengono alleggerite privilegiando linee vibranti e colorate alle tradizionali e più pesanti forme classiche, aprendo gli spazi attraverso l’uso di vetrate e dilatandoli grazie all’inserimento di specchi. Uno degli aspetti più interessanti degli ambienti rococò è che la progettazione

dell’arredamento viene pensata come parte integrante dell’architettura e nel suo insieme, mettendo in relazione ogni elemento con gli altri. Questa visione interdipendente degli elementi di una stanza fa del Rococò uno dei primi esempi di approccio di design nel senso contemporaneo del termine. Al cosiddetto “Salottino” lavorarono diverse maestranze della Real Fabbrica della Porcellana di Capodimonte, fondata da Carlo III di Borbone. Gli altorilievi del boudoir di Maria Amalia sono un esempio di chinoiserie, cioè dell’ispirazione alla tradizione cinese che la trasformava però in un esotismo da favola. La porcellana fino al Seicento non veniva prodotta in Europa ed era un materiale estremamente prezioso, chiamato oro bianco, importato esclusivamente dalla Cina. È importante quindi contestualizzare questa appropriazione culturale, e sapere che lo stesso Carlo III che incoraggiò la produzione di ceramica locale fu anche l’iniziatore degli scavi di Pompei ed Ercolano, luoghi principe nella diffusione del gusto per l’antico e di quella ripresa dei canoni classici che porteranno proprio all’abbandono dei codici rococò.

Arte nel tempo 4

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Arte nel tempo

Il vedutismo

Nel Settecento si afferma definitivamente la veduta di città, genere resosi pittoricamente autonomo dagli studi prospettici già nel Seicento grazie alla pratica dell’olandese Gaspard van Wittel. La veduta si concentra sulla rappresentazione del contesto urbano (architetture, monumenti) in modo panoramico o di scorcio, con un approccio quasi documentaristico, che rispetta, o vuole dare l’impressione di rispettare, la visione dell’occhio in modo oggettivo. La rappresentazione delle città italiane e dei loro monumenti storici ha una particolare fortuna di mercato anche per il presentarsi come metodo di riproduzione di quei luoghi che, nel contesto della moda del Grand Tour, erano meta di studio dell’antico. Venezia e Roma sono tra le città più rappresentate dal pennello dei vedutisti i quali, spesso usando il supporto tecnologico della camera ottica, riproducono piazze dense di vita o scorci archeologici, oscillando tra la ripresa oggettiva della città e l’invenzione di capricci evocanti la nostalgia per un passato in rovina.

1 Piazza San Marco di Canaletto e Francesco Guardi Tra i maggiori vedutisti, Antonio Canal (detto Canaletto) e Francesco Guardi restituiscono due diverse visioni di Venezia, dimostrando come la pretesa oggettività delle vedute nasconde scelte interpretative ed

Antonio Canal, Piazza San Marco, olio su tela, 1724 ca. (Madrid, Museo Thyssen-Bornemisza).

IMMAGINE INTERATTIVA

espressive: se la Venezia di Canaletto è vitale, coinvolgente, obiettiva, quella di Guardi è malinconica, definita da un lirismo che si esprime nell’espressività delle macchie di colore.

Francesco Guardi, Piazza San Marco, olio su tela, 1760 ca. (Bergamo, Accademia Carrara).

apriccio con edifici 2 Cpalladiani di Canaletto Tra il 1756 e il 1759 Canaletto dipinge una veduta dove ricolloca liberamente una serie di edifici palladiani nella città lagunare: Capriccio con edifici palladiani è un esempio di come la pratica d’invenzione del capriccio possa sovrapporsi al codice oggettivo della veduta, rappresentando una città inesistente ma possibile. Nel dipinto Canaletto inserisce la Basilica di Vicenza, capolavoro palladiano, e dipinge il progetto mai realizzato di Palladio per il Ponte di Rialto, dando un’esistenza ottica a un progetto rimasto in potenza.

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Antonio Canal, Capriccio con edifici palladiani, olio su tela, 1759 (Parma, Galleria Nazionale).


Settecento Scenari socio-culturali L’età dell’Illuminismo

Sintesi con audiolettura

1 La visione del mondo. Figure, luoghi e centri della cultura

L’Illuminismo L’Illuminismo nasce in Inghilterra e si diffonde in vari paesi europei. Risulta difficile dare una definizione unitaria dell’Illuminismo in quanto: 1) assume posizioni diversificate attorno a temi-chiave (ad esempio, in esso convivono componenti razionalistiche – sicuramente dominanti – e componenti sentimentali e passionali; 2) nei diversi paesi l’Illuminismo offre differenti interpretazioni, in merito alle prerogative sociopolitico-culturali dei paesi stessi. Esistono, comunque, aspetti comuni che consentono di parlare di Illuminismo: 1) esaltazione della ragione; 2) ricerca della “felicità pubblica”; 3) orientamento antitradizionalista. Dalla visione teologica alla visione razionale-scientifica del mondo L’Illuminismo è un modello culturale laico, ma questo non significa che domini la visione ateistica. Piuttosto gli illuministi, come Voltaire, rifiutano il dogmatismo e credono in una religione naturale e razionale (deismo) in cui tutti gli uomini si possano riconoscere perché fondata su valori basilari come la tolleranza. Nel corso del Settecento in ogni campo del sapere si estende il metodo scientifico, a cominciare dall’astronomia in cui si afferma la visione copernicano-galileiana e la concezione newtoniana di un universo-macchina, soggetto a leggi precise. Gli illuministi, fondandosi sul metodo scientifico, conducono una strenua battaglia contro la superstizione. Una nuova immagine del mondo naturale e dell’uomo Anche lo studio del mondo naturale comincia a catalogare metodicamente proprietà e caratteristiche di piante e animali (Carlo Linneo). L’uomo stesso è considerato parte della natura per cui i sentimenti e i fenomeni spirituali possono derivare da cause organiche. Il tema della felicità e del progresso Nell’ambito della riflessione sulla società, temi chiave dell’Illuminismo sono la felicità, a cui ogni individuo ha diritto, e il mito del progresso: gli illuministi credono fermamente, nella loro visione ottimistica e utopistica, che nel futuro si uscirà dalle tenebre dell’ignoranza e si creerà una società più giusta. Una nuova figura di intellettuale: il philosophe Nel Settecento la figura di riferimento per la cultura europea è il philosophe francese, difensore come Voltaire della libertà di pensiero, impegnato a combattere i pregiudizi e gli anacronismi. In nome di una visione cosmopolita, i philosophes considerano i valori cardine dell’uguaglianza e della tolleranza patrimonio di ogni paese. In particolare, in Lombardia, la culla dell’Illuminismo italiano, gli intellettuali hanno un ruolo chiave nel creare le condizioni che rendono possibile la formula politica del dispotismo illuminato: infatti collaborano fattivamente in qualità di funzionari con il governo asburgico (Pietro Verri).

Nuovi luoghi per la circolazione del sapere: salotti e caffè La cultura dell’Illuminismo è caratterizzata dalla dimensione della “sociabilità”. Luoghi deputati alla circolazione e allo scambio di idee sono i salotti e i caffè, che divengono i centri principali del dibattito culturale. Accanto a questi luoghi di aperta diffusione di idee, nel Settecento ha grande importanza la massoneria, un’associazione segreta nata con fini umanitari, che accoglie le istanze illuministe volte alla difesa dell’uguaglianza.

Sintesi Settecento

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I valori e i modelli di comportamento Anche in ambito etico l’Illuminismo adotta una prospettiva laica: la virtù tende a identificarsi con il rispetto dei diritti umani e con il contributo dato dal singolo al progresso della società. La visione dinamica della società propone nuovi modelli umani, che incarnano le qualità borghesi della razionalità e dell’intraprendenza: è il caso di Robinson, personaggio-mito, di cui Daniel Defoe narra le avventure in un libro divenuto celeberrimo (Le avventure di Robinson Crusoe). Ma non manca, accanto alla ragione, la valorizzazione della passione e del sentimento, considerate espressione dell’unicità dell’individuo come nelle Confessioni di Rousseau. La civiltà del viaggio Il Settecento è il secolo dei viaggi: continua l’esplorazione di nuove terre, che stimola un vivace dibattito sul rapporto tra civiltà e natura. Il viaggio in Europa, e in particolare in Italia (il Grand Tour), è considerato uno strumento di formazione per le classi dirigenti.

2 Modelli del sapere e tendenze filosofico-scientifiche

L’educazione “illuminata” L’educazione è tema centrale nell’Illuminismo, proprio perché si crede che l’ignoranza sia ostacolo alla costruzione di una società più giusta. L’educazione deve essere gestita dallo Stato e deve dare spazio soprattutto al moderno sapere scientifico. Un celebre trattato pedagogico è Emilio o dell’educazione (1762) di Rousseau. Il progetto di un nuovo sapere e l’Enciclopedia Con l’Illuminismo si modificano la gerarchia del sapere e la visione della cultura: scienza e filosofia sono in primo piano, mentre sostanzialmente è svalutata la letteratura. La sintesi e insieme l’esaltazione del sapere moderno sono affidate alla monumentale opera dell’Encyclopédie, un dizionario a dispense di 72.000 voci, progettato da Diderot e d’Alembert, in cui si valorizza il sapere scientifico e per la prima volta si danno spazio e dignità alle attività manuali. Scopo dell’opera è la ricerca della pubblica utilità. La cultura come impegno civile e battaglia ideologica La cultura illuminista è soprattutto una “cultura del dibattito” ed è improntata all’eclettismo e alla critica nei confronti del passato. Soprattutto in Francia tema principale è quello politico-istituzionale. Alla base delle posizioni assunte dai filosofi illuministi al proposito, che furono molto diversificate, sta il concetto di diritto naturale: un insieme di norme non scritte (come l’uguaglianza), che devono essere fondamento imprescindibile dei diritti positivi. Assai rilevante nella riflessione politica è stato il ruolo del trattato di Montesquieu Lo spirito delle leggi, che sostiene la necessità di una distinzione fra potere legislativo, esecutivo e giudiziario, così da impedire forme autoritarie di potere politico. Valore fondamentale dell’Illuminismo è quello della tolleranza, che si concretizza nell’accettazione delle diverse fedi religiose.

3 Caratteri e forme della letteratura nel Settecento

Un quadro delle tendenze letterarie e culturali del Settecento Nella prima metà del Settecento, la poesia italiana è influenzata dall’Accademia dell’Arcadia, che mira a ripristinare il buon gusto e la naturalezza dopo il periodo barocco. Nel secondo Settecento, il dominio arcadico è messo in discussione da cambiamenti storici e ideologici. Le odi illuministe di Parini e il progetto del Giorno cercano nuove forme letterarie per affrontare temi attuali secondo i principi dell’Illuminismo. Nel tardo Settecento, si sviluppa un gusto preromantico, influenzato dalla poesia inglese notturna e sepolcrale, liberando la poesia italiana dalle forme classiciste. Tuttavia, contemporaneamente in Europa, si afferma il gusto neoclassico, mantenendo in Italia una continuità con la tradizione classica.

226 Settecento Scenari socio-culturali


Il teatro nel Settecento è una forma di aggregazione sociale popolare, con il melodramma e la commedia preferiti, mentre la tragedia ha scarso successo. Metastasio e Goldoni innovano il melodramma e la commedia, restituendo dignità artistica a entrambe le forme. Nel teatro tragico, alla fine del secolo, Vittorio Alfieri si distingue, riqualificando il genere con uno stile alto e tematiche che enfatizzano la dimensione tragica dell’esistenza umana, richiamandosi al modello classico. Nel Settecento, la cultura si sviluppa attraverso la diffusione dei periodici nei caffè, luoghi di scambio informale di idee. Le gazzette, inizialmente informative, si evolvono nelle gazzette letterarie, come il parigino «Journal des Savants», e si rivolgono a un pubblico più colto. I periodici diventano fondamentali per la formazione dell’opinione pubblica, svolgendo un ruolo chiave insieme a romanzi filosofici e pamphlet e dando vita al giornalismo moderno. Si configura lo stile giornalistico, ispirato dal «Tatler» e soprattutto dal londinese «Spectator» di Addison e Steel. Questo stile influisce sui giornali italiani degli anni Sessanta, come l’«Osservatore veneto» di Gaspare Gozzi, la «Frusta letteraria» di Giuseppe Baretti e «Il Caffè» di Pietro Verri, che contribuiscono a un’apertura della cultura italiana all’orizzonte europeo, in linea con gli ideali illuministi. Parallelamente al giornalismo, i pamphlet, particolarmente diffusi nella cultura illuminista francese, sono brevi testi polemici che mirano a coinvolgere i lettori e a generare un movimento d’opinione favorevole alle tesi proposte. Nel primo Settecento, si osserva un cambio nella trattatistica, passando dall’approccio umanistico a nuove forme di indagine influenzate dal razionalismo, caratterizzando la cultura anche in Italia. Nel Settecento, il romanzo diventa un genere predominante, con l’Inghilterra come sua patria ideale grazie al successo tra la nuova classe borghese. Opere come Robinson Crusoe e Pamela ritraggono situazioni comuni e celebrano le capacità individuali, guadagnando popolarità. In Francia, durante l’Illuminismo, i “romanzi filosofici” come Candide di Voltaire sfruttano la narrativa per diffondere idee filosofiche e una critica alla società. Nel Settecento italiano, l’autobiografia fiorisce attraverso una varietà di memorie personali. Verso gli anni Sessanta, le Confessioni di Rousseau introducono una narrazione fortemente soggettiva e autoanalitica. Nel Settecento, lettere e viaggi sono pilastri fondamentali per la formazione intellettuale, coinvolgendo gli intellettuali italiani in esplorazioni di nuovi luoghi e culture. Il “viaggio in Italia” nel contesto del Grand Tour, documentato nelle esperienze di Goethe alla fine del secolo, sottolinea l’importanza di esplorare nuove realtà culturali e paesaggistiche per gli intellettuali del Settecento. Estetica del sensismo, del sublime e neoclassica: tre modelli per la letteratura e l’arte del secondo Settecento Nel secondo Settecento in rapporto alle idee illuministe si diffonde una visione estetica ispirata al sensismo: per produrre piacere (e il piacere è uno dei grandi temi filosofici del tempo) l’arte deve colpire i sensi, stimolare sensazioni. Ma nel corso del secolo altrettanto rilevante è l’associazione tra arte e “sublime” (il termine deriva dal trattato greco Del sublime), identificato, nel gusto del tempo, dalla suggestione generata da grandiosi spettacoli naturali (come il mare in tempesta, le alte vette...) o da atmosfere notturne, che suscitino emozioni forti, turbamento, ma anche malinconia. Infine, negli ultimi decenni del Settecento, inizia ad affermarsi il gusto neoclassico. Nel trattato dell’archeologo Johann Joachim Winckelmann Storia dell’arte nell’antichità (1764) è elaborata una visione dell’arte greca come bellezza assoluta, armonia, equilibrio, superamento delle passioni: una visione che esercita grandissima influenza sulla letteratura e sull’arte figurativa. L’evoluzione Sintesi della Settecento lingua 4 227


4 L’evoluzione della lingua

Il problema della lingua in Italia al tempo dell’Illuminismo Nel Settecento il francese si afferma in tutta Europa, compresa l’Italia, come lingua internazionale, naturalmente per i ceti colti: questo vale non solo per la lingua scritta, ma anche per la lingua della conversazione. Il fenomeno si spiega con la leadership esercitata nel continente in questo periodo dalla cultura francese e con la consuetudine dei viaggi a Parigi da parte degli intellettuali europei. In Italia la lingua scritta, modellata, secondo le direttive cruscanti, sul toscano trecentesco dei grandi autori, era nettamente separata dalla lingua parlata. E proprio sul «Caffè» Alessandro Verri attacca la dittatura linguistica dell’Accademia della Crusca e auspica un ammodernamento in senso comunicativo della lingua, uno stile di “cose” e non di “parole”.

Zona Competenze Scrittura creativa

1. Immagina e scrivi una discussione tra un personaggio che incarni il prototipo del philosophe illuminista e un rappresentante o sostenitore dell’assolutismo monarchico. 2. Voltaire ha scelto di chiudere il suo Dizionario filosofico con la voce “Virtù”, un termine particolarmente significativo e pregnante per il sistema di valori a cui si ispirava la società illuminista. Immagina di dover aggiornare l’opera di Voltaire e scegli un lemma a cui dedicare una nuova voce del Dizionario filosofico.

Discussione orale EDUCAZIONE CIVICA

nucleo Costituzione competenza 1

3 Scegliete una o più tematiche di studio tra quelle proposte qui di seguito e avviate una discussione in classe su caratteristiche comuni e aspetti divergenti rispetto alla realtà contemporanea. Prendete nota degli interventi e tenete traccia di eventuali documenti utilizzati durante la discussione in classe. • Il ruolo dell’intellettuale nella società • Il sistema di valori della società illuminista • La concezione del sapere • Il ruolo dello Stato • Il ruolo dell’informazione nella costituzione di una società ugualitaria

Scrittura argomentativa

4 In un breve testo espositivo-argomentativo spiega il tuo punto di vista riguardo alla difesa post mortem di Jean Calas assunta da Voltaire nel Trattato sulla tolleranza (➜ D11 ).

228 Settecento Scenari socio-culturali


Settecento CAPITOLO

6 Letteratura e cultura nel primo Settecento

All’inizio del Settecento, come reazione alla ricerca dell’eccesso e della “meraviglia” che ha segnato l’epoca barocca, nasce l’esigenza di ripristinare il “buon gusto”, ispirato al modello classico. A farsene portavoce è in particolare il gruppo di intellettuali e letterati dell’Accademia dell’Arcadia. Gli arcadi aspirano a creare un mondo elegante e allo stesso tempo semplice. Alla base di questo progetto si cela la politica culturale della curia romana, volta a presentare modelli ideologicamente inoffensivi in cui le questioni sociali e intellettuali restano sostanzialmente non affrontate. Il poeta più rappresentativo del primo Settecento è Pietro Metastasio, che riforma il genere del melodramma cinquecentesco, ormai decaduto, ridando dignità letteraria al testo. Nella prima metà del secolo due voci originali e rimaste isolate nel panorama letterario dominato dall’Arcadia sono quelle di Ludovico Antonio Muratori e di Giambattista Vico.

sogno regressivo 1 Ildell’Arcadia Metastasio 2 Pietro e la riforma del melodramma

grandi voci isolate: 3 Due il pre-Illuminismo di Muratori e il pre-Romanticismo di Vico

229


1

Il sogno regressivo dell’Arcadia 1 “Buon gusto” e ripresa del classicismo La restaurazione del “buon gusto” All’inizio del Settecento la cultura italiana è essenzialmente segnata da una reazione agli eccessi del gusto barocco. È soprattutto l’Accademia dell’Arcadia a farsi portavoce della necessità di ripristinare il “buon gusto”, come si diceva, la naturalezza, richiamandosi nuovamente al modello classico. La nuova accademia, che susciterà in Italia un vasto consenso, è fondata nel 1690 a Roma da un gruppo di letterati (tra cui Gravina, Crescimbeni e Zappi) sotto la protezione e all’interno del circolo di poeti e intellettuali vicini a Cristina di Svezia, che si era stabilita in Italia dopo aver abdicato al trono. I principali poeti dell’Arcadia sono Giovan Battista Felice Zappi (➜ T1 ), Paolo Rolli (➜ T3 OL), Carlo Innocenzo Frugoni, Ludovico Savioli. Nell’Accademia dell’Arcadia entrano anche alcune poetesse, come Faustina Maratti Zappi, moglie del poeta Zappi (Aglauro Cidonia, questo il nome in codice da lei scelto), che, oltre a comporre versi alla maniera arcadica, animano spesso salotti letterari, precorrendo un costume che diventerà determinante a partire dall’Illuminismo. l recupero del codice pastorale Già il nome scelto, Arcadia, rimanda con evidenza al classicismo: Arcadia è il titolo di un romanzo quattrocentesco, scritto da Jacopo Sannazaro, nel quale si evoca la mitica regione della Grecia e un universo metareale, cioè ideale, il cui codice è il mondo pastorale. Il modello della poesia pastorale sono le Bucoliche del poeta latino Virgilio, che a sua volta si rifà al poeta greco siracusano Teocrito. I letterati iscritti all’accademia a loro volta assumono nomi grecizzanti di pastori, il luogo delle loro riunioni (un giardino romano) è denominato Bosco Parrasio, il simbolo dell’accademia è il flauto di Pan, divinità boschereccia, in ambito poetico è utilizzato massicciamente il tradizionale repertorio mitologico e la relativa onomastica (le donne si chiamano inevitabilmente Dafne o Clori, gli uomini Tirsi, e così via). Quale significato riveste l’“operazione arcadica”? Gli arcadi intendono ricreare un mondo raffinato ma al contempo semplice, che si richiama ai valori del classicismo contro l’esasperata ricerca della “meraviglia”, propria del gusto barocco. Essi accolgono la lezione del razionalismo cartesiano che si stava diffondendo in Europa, ma ne limitano l’applicazione al campo della letteratura e in particolare della poesia: l’innovazione di cui si fanno portavoce rimane così più formale che sostanziale e non comporta certo quella revisione del sapere che in Italia si verificherà solo dopo la metà del secolo. Del resto, come è stato notato, dietro il progetto arcadico sta la politica culturale della curia romana, interessata a proporre modelli ideologicamente innocui e portatori di una parvenza più che di una sostanza innovativa. Attraverso gli scritti degli arcadi, come anche attraverso il teatro di Metastasio o la pittura di Longhi e di Guardi, viene prospettata l’immagine di una società gentile, aggraziata, dove regna il decoro e nella quale le inquietudini e le problematiche sociali e intellettuali sono tenute a debita distanza e sostanzialmente esorcizzate.

230 Settecento 6 Letteratura e cultura nel primo Settecento


2 La poesia arcadica Ordine, grazia e musicalità La poesia a cui danno vita gli arcadi è piacevolmente leggibile e predilige ritmi semplici, strofe brevi, strutture sintattiche lineari e ordinate; è una poesia spesso melodica, in particolare nel genere metrico della canzonetta, prediletto per la sua orecchiabilità. Il tema principale, secondo la tradizione lirica, è l’amore, ma gli arcadi rifiutano programmaticamente la complessità, lo scavo psicologico propri del maestro della lirica, Petrarca. L’amore a cui dà voce la poesia arcadica è il rituale galante, sono le schermaglie della ritrosia, della civetteria un po’ leziose e svenevoli proprie della mondana ed edonistica società settecentesca, in linea con il gusto artistico del Rococò (➜ T2 OL). Il severo giudizio di un illuminista Quarant’anni dopo, in un clima culturale ormai ben diverso, quando anche in Italia si erano diffusi i temi del dibattito illuminista, Giuseppe Baretti (1719-1789), nemico giurato dell’Arcadia, nel primo numero della sua rivista polemica e satirica, la «Frusta letteraria» (1763-1765), scriverà questo sarcastico giudizio sulla poesia dello Zappi: «Il Zappi poi, il mio lezioso, il mio galante, il mio inzuccheratissimo Zappi, è il poeta favorito di tutte le nobili damigelle che si fanno spose, che tutte lo leggono un mese prima e un mese dopo le nozze loro. Il nome del Zappi [...] non s’affonderà sintanto che non cessa in Italia il gusto della poesia eunuca [ovvero, fuor di metafora, impotente a esprimere idee e sentimenti veri]. Oh cari que’ suoi smascolinati [effeminati] sonettini, pargoletti piccinini, mollemente femminini, tutti pieni d’amorini!».

Joshua Reynolds, Ritratto di Giuseppe Baretti, 1773 (Londra, National Portrait Gallery).

La moda del far versi L’accademia romana dell’Arcadia sviluppa una rete capillare di colonie, come si chiamavano, fondate in molte zone dell’Italia (per esempio a Bologna e Venezia): è il primo caso di un’associazione culturale di respiro nazionale, che contribuisce a unire, anche se attraverso un sogno sostanzialmente regressivo, i letterati italiani. Grazie all’Arcadia si diffonde enormemente in Italia, anche tra i non addetti ai lavori, il gusto di far poesia, che diventa bagaglio della cultura dell’uomo colto (del resto facevano parte dell’Accademia dell’Arcadia anche giuristi e professori). Se da un lato è positivo che il far poesia non riguardi più solo un’élite, dall’altro l’Italia sarà sommersa da un vero e proprio diluvio di versi (raramente di qualità), composti per tutte le occasioni: versi per battesimi, nozze, anniversari, versi sulle lapidi commemorative, e così via.

La poesia arcadica CARATTERISTICHE

contro gli eccessi del Barocco una lirica razionale, improntata al canone del “buon gusto”

TEMI

• l’amore come rituale elegante, senza passionalità • mondo mitico-bucolico

STILE

• lessico aggraziato • facile cantabilità e musicalità rimico-metrica (canzonetta)

Il sogno regressivo dell’Arcadia 1 231


Giambattista Felice Zappi

T1

In quell’età ch’io misurar solea Rime

G.F. Zappi, Rime [VIII], in Lirici del Settecento, a c. di B. Maier, Ricciardi, Milano-Napoli 1959

online T2 Jacopo Vittorelli Una lirica tardoarcadica Anacreontiche a Irene, V

online T3 Paolo Rolli

Solitario bosco ombroso Ode d’argomenti amorevoli

Il sonetto di Giambattista Felice Zappi, uno dei fondatori dell’Accademia dell’Arcadia, può essere considerato un saggio eloquente del mondo poetico e del gusto arcadici.

In quell’età ch’io misurar solea me col mio capro, e ’l capro era maggiore1, amava io Clori2, che insin da quell’ore 4 meraviglia e non donna a me parea3. Un dì le dissi: Io t’amo: e ’l disse il core, poiché tanto la lingua non sapea4: ed ella un bacio diemmi, e mi dicea: 8 Pargoletto5, ah non sai che cosa è amore. Ella d’altri s’accese6, altri di lei; io poi giunsi a l’età ch’uom s’innamora, 11 l’età degl’infelici affanni miei. Clori or mi sprezza, io l’amo insin d’allora; non si ricorda del mio amor costei; 14 io mi ricordo di quel bacio ancora.

1 In quell’età... era maggiore: l’“io” lirico allude all’età infantile (In quell’età) in cui misurando la sua altezza con un capro, risultava più basso dell’animale. 2 amava io Clori: io amavo Clori, che è uno dei nomi femminili ricorrenti nella poesia arcadica. 3 meraviglia... parea: la bellezza straordinaria della donna è descritta secondo gli stereotipi della tradizione stilnovisticopetrarchesca. 4 tanto... non sapea: la parola (lingua) non era in grado di osare tanto. Anche l’ineffabilità è un motivo poetico convenzionale. 5 Pargoletto: bambino. 6 s’accese: si innamorò.

Analisi del testo Un’ideale iniziazione all’amore Nel sonetto il poeta rievoca il suo primo amore, celandosi dietro la figura di un pastorello, ancora bambino all’inizio della narrazione lirica. Zappi racconta di Clori, classico nome arcadico, giovane fanciulla che, accortasi dei primi spasimi d’amore del pastore, gli regala un bacio, sottolineando al contempo la sua limitata conoscenza ed esperienza d’amore. Mentre la bella Clori non serberà ricordi dell’episodio, quel primo bacio resterà impresso nella memoria di lui come momento indelebile di un’iniziazione alle gioie e alle sofferenze d’amore. Il testo è costruito sulla contrapposizione tra il differente atteggiamento del giovane pastore e della fanciulla. Pur evocando la dialettica amorosa indagata nella poesia di Petrarca, in questo caso la rappresentazione dell’amore si limita alla dimensione di gioco elegante, privo di spessore psicologico nella descrizione sia del sentimento amoroso sia delle sofferenze che da esso derivano.

Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

COMPRENSIONE 1. In quali età della vita dell’io lirico è ambientato il sonetto? 2. Perché Clori evidenzia l’inesperienza del pastorello? ANALISI 3. Sottolinea gli indizi nel testo che ti permettono di ricondurre il sonetto al modello ideale di componimento poetico arcadico.

Interpretare

SCRITTURA 4. In che cosa consiste il tema dell’ineffabilità toccato nel sonetto? Spiegalo in un breve testo di max 10 righe.

232 Settecento 6 Letteratura e cultura nel primo Settecento


2

Pietro Metastasio e la riforma del melodramma 1 Il rinnovamento del melodramma Il richiamo al decoro formale, alla verosimiglianza, alla razionalità propri del gusto arcadico si fa sentire anche nell’opera di Metastasio (Pietro Trapassi, 1698-1782), a cui si deve la riforma del melodramma, genere misto di poesia e musica, che nel corso del Seicento aveva incontrato crescente successo.

Lessico poeta cesareo Poeta ufficiale stipendiato da una corte; nel caso specifico quella di Vienna.

Lessico recitativo Parte del testo cantata e musicata in modo essenziale in cui si narra la vicenda e in cui i personaggi dialogano tra loro.

La vita Nato a Roma nel 1698 da modesta famiglia, Pietro Trapassi in giovanissima età è preso sotto la protezione di Gian Vincenzo Gravina (1664-1718), uno dei fondatori e teorici dell’Arcadia, giurista e tragediografo, che gli fornisce un’adeguata educazione e gli assegna lo pseudonimo grecizzante di Metastasio; nel 1714 diventa abate. Alla morte del maestro, Metastasio eredita un cospicuo patrimonio. A Napoli si avvicina al mondo del teatro e inizia a comporre testi per musica. Il primo melodramma, la Didone abbandonata, va in scena con successo trionfale nel 1724. È l’inizio di una carriera fortunata e di una fama crescente che nel 1730 lo porta alla corte di Vienna, dove rimarrà, nel ruolo di poeta cesareo , per il resto della sua lunga esistenza. A Vienna scrive tutti i suoi melodrammi (tra gli altri ricordiamo Olimpiade, La clemenza di Tito, musicato da Mozart, Attilio Regolo). I melodrammi di Metastasio (in tutto il poeta ne compose ventisei) furono apprezzati da grandi nomi della cultura europea del Settecento, come Voltaire e Rousseau, e musicati dai più grandi musicisti del tempo (da Mozart a Vivaldi, da Pergolesi a Cimarosa e altri ancora); il testo più celebre di Metastasio, l’Olimpiade, venne musicato addirittura da una cinquantina di compositori. Forse per il mutamento del clima culturale, aperto ormai ai grandi temi dell’illuminismo, l’ispirazione di Metastasio gradualmente si spegne. Oltre ai melodrammi è autore di testi di riflessione teorica sul teatro e di testi lirici di gusto arcadico (come la celebre canzonetta La libertà). La rivalutazione del testo Metastasio interpreta l’esigenza, diffusa tra i critici e i letterati, di ridare dignità al testo teatrale, rifondando il genere del melodramma nella direzione della verisimiglianza e della coerenza strutturale: verso la fine del Seicento, infatti, il testo letterario aveva sempre più perso importanza rispetto alla musica e agli elementi spettacolari del melodramma. Dietro il progetto metastasiano sta il classicismo razionalistico, la volontà di restaurare il buon gusto propria dell’Arcadia (della quale egli stesso faceva parte fin dal 1719). Del resto, Metastasio fu educato proprio da Gravina; ma su di lui esercitò forte influenza anche la lettura del Trattato delle passioni dell’anima (1649) del filosofo francese René Descartes. La centralità e le caratteristiche del testo Con Metastasio il testo torna a occupare un ruolo portante rispetto alle altre componenti dello spettacolo, viene ridotto il numero dei personaggi, viene dato un ordine chiaro allo svolgersi delle vicende, viene accuratamente studiata l’alternanza fra i recitativi (che rappresentano il momento

Pietro Metastasio e la riforma del melodramma 2 233


Bernardo Bellotto, Palazzo di Schönbrunn dal giardino, 17581761 (Vienna, Kunsthistorisches Museum).

Lessico aria Costituita di una o più brevi strofe di versi, che possono essere ripetuti più volte, è la parte effusivosentimentale del melodramma, particolarmente amata e ricordata dal pubblico. Successivamente sarà denominata anche romanza.

Lessico libretto Con questo termine è designato a partire dall’Ottocento il testo letterario in versi che viene musicato e cantato nel melodramma; poteva essere dato al pubblico perché potesse meglio seguire lo svolgimento della vicenda.

razionale-riflessivo e dinamico del dramma) e le arie (in cui l’azione si ferma e a cui è affidata l’effusione lirico-sentimentale), una delle quali si colloca sempre appena prima del cambio di scena, con una funzione di conclusione e insieme di stacco (➜ T4 OL). Soggetti ben noti al pubblico colto, per lo più tratti dalla storia greco-romana, apertura alla moderna dimensione patetico-sentimentale (la sensiblerie francese) sempre però controllata dalla lucidità razionale, rappresentazione di conflitti interiori affascinanti per il pubblico (che non si risolvono mai in tragedia, ma rimangono nell’ambito del “patetico”), lessico semplice e chiaro, seppur tratto dalla tradizione letteraria (da Petrarca a Tasso), versificazione sciolta e cantabile particolarmente nelle “arie”: sono queste le principali ragioni dello straordinario successo di Metastasio. Da Metastasio a Lorenzo da Ponte La lezione di Metastasio fu raccolta da Lorenzo da Ponte (1749-1838), anch’egli poeta alla corte di Vienna, autore dei libretti di tre dei più importanti melodrammi di Mozart: le Nozze di Figaro (1786), il Don Giovanni (1787 ➜ C12 OL), Così fan tutte (1790). Il libretto di Da Ponte delle Nozze di Figaro per la maggior parte riprende il soggetto della fortunata commedia di Beaumarchais (1732-1799) La folle giornata ovvero Il matrimonio di Figaro (1784): un testo che già i contemporanei avvertirono come rivoluzionario per la contestazione dei diritti feudali e dei valori dell’ancien régime impersonata dal personaggio moderno di Figaro. Da Ponte trasforma il soggetto di Beaumarchais in un’opera comica moderna e di vasto respiro, che la musica di Mozart consegna alla celebrità: notissima, ad esempio, è l’aria di Cherubino (➜ T7 OL: «Voi che sapete / che cosa è amor», atto II, scena ii).

online T4 Pietro Metastasio

Un’aria metastasiana: È la fede degli amanti Demetrio, atto II, scena III

234 Settecento 6 Letteratura e cultura nel primo Settecento

online T5 Carlo Goldoni Regole assurde per i compositori di melodrammi Memorie, I, XXVIII


La riforma del melodramma centralità del testo (libretto) rispetto alla musica

riduzione dei personaggi

organizzazione chiara e ordinata delle vicende Il melodramma “secondo Metastasio” bilanciamento tra recitativi e arie

intreccio verosimile

conflitti interiori in chiave patetico-sentimentale

Sguardo sulla musica Il melodramma Il “recitar cantando” aveva avuto origine verso la fine del Cinquecento, quando la Camerata de’ Bardi (un gruppo di letterati e musicisti che si riunivano nel palazzo fiorentino del conte Giovanni Bardi) progetta una forma teatrale in cui non solo il testo sia accompagnato dalla musica (come avveniva abitualmente per il dramma pastorale), ma per la maggior parte sia anche cantato da voci singole. Nasce così quello che nell’Ottocento sarà chiamato melodramma (il termine, dal greco melos e drama, significa appunto “recitazione cantata”): spettacolo originariamente destinato alle occasioni della vita di corte, esso già a metà del Seicento diventa un genere di intrattenimento di grande successo. Più che dalla qualità letteraria del testo del melodramma (che verrà in seguito definito libretto d’opera), il numeroso pubblico che frequenta i tanti teatri che nascono è però richiamato dal virtuosismo dei cantanti, dai costumi di scena, dalla spettacolarità delle scenografie e dalla suggestione complessiva dell’intreccio (in cui non mancano colpi di scena e situazioni a effetto). Il melodramma diventa così via via un genere quasi di consumo in cui il testo poetico col tempo si è sempre più

subordinato alle esigenze della musica (Muratori parla di una poesia ormai «serva della musica»), ma soprattutto al divismo capriccioso dei cantanti (in particolare delle prime donne), come ci racconta vivacemente Goldoni nelle sue Memorie (I, 28 ➜ T5 OL). Il San Carlo di Napoli, fondato nel 1737, è il più antico teatro d’opera ancora attivo.

Fissare i concetti L’Arcadia e il melodramma 1. Da quali istanze culturali e politiche nasce il progetto dell’Accademia dell’Arcadia? 2. Che cosa si intende con il concetto di codice pastorale? 3. Su quali princìpi si fonda il modello arcadico in letteratura? 4. In che modo viene rappresentato l’amore dagli arcadi? 5. A quali princìpi si ispira la riforma del melodramma promossa da Metastasio e quali sono le sue principali caratteristiche? 6. Da chi fu idealmente raccolta l’eredità di Metastasio?

Pietro Metastasio e la riforma del melodramma 2 235


Pietro Metastasio

T6

Il conflitto di Enea Didone abbandonata, I, xviii (vv. 526-553)

P. Metastasio, Opere, a c. di M. Fubini, Ricciardi, Milano-Napoli 1968

Didone abbandonata, da cui è tratta la scena che conclude il primo atto, è il primo melodramma scritto da Metastasio, rappresentato a Napoli nel 1724 con grande successo. Il soggetto è tratto dall’Eneide di Virgilio, in particolare dal IV libro dedicato all’infelice amore di Enea, l’eroe esule da Troia e destinato a fondare Roma, e Didone, la regina dei cartaginesi che, per volere del fato, egli sarà costretto ad abbandonare; ne seguirà il suicidio della regina.

ENEA (solo) E soffrirò che sia sì barbara mercede premio della tua fede, anima mia1! Tanto amor, tanti doni... 530 Ah! pria ch’io t’abbandoni, pèra2 l’Italia, il mondo; resti in obblio profondo la mia fama sepolta; vada in cenere Troia un’altra volta. 535 Ah che dissi3! Alle mie amorose follie gran genitor4, perdona: io n’ho rossore5. Non fu Enea che parlò, lo disse Amore. Si parta... e l’empio moro 540 stringerà il mio tesoro6? No... ma sarà frattanto al proprio genitor spergiuro il figlio? Padre, Amor, Gelosia, numi, consiglio7!

545

Se resto sul lido, se sciolgo le vele, infido, crudele mi sento chiamar. E intanto, confuso nel dubbio funesto,

La metrica Recitativi in versi settenari ed endecasillabi. L’aria (vv. 544-553) è composta di due strofe (quattro e sei quinari; l’ultimo quinario è tronco). Lo schema è: ab(a)bc deeffc. 1 E soffrirò... anima mia: Enea si rivolge idealmente nel suo monologo all’amata Didone: e dovrò sopportare che il premio del tuo amore fedele sia una così crudele (barbara) ricompensa (mercede), anima mia. La mercede a cui Enea allude è ap-

punto il fatto di doverla abbandonare per seguire la sua missione. 2 pèra: perisca. Straziato al pensiero di abbandonare la donna amata, per un momento Enea pensa di rinunciare alla missione che lo porterà in Italia. 3 Ah che dissi: subito in Enea subentra il pentimento. 4 gran genitor: il padre di Enea, Anchise, era morto durante il viaggio da Troia. La sua ombra ammonisce Enea a seguire la sua missione.

236 Settecento 6 Letteratura e cultura nel primo Settecento

5 io n’ho rossore: cioè me ne vergogno. 6 l’empio... tesoro: un nuovo pensiero subentra a contrastare la sofferta decisione; l’empio moro è il rivale Iarba, re dei Getuli (popolazione del Maghreb nomade). 7 Padre... consiglio: in preda al conflitto, Enea chiede aiuto al padre e agli dèi (numi), ma insieme a tutto ciò che si oppone a essi, ovvero l’amore e la gelosia che lo indurrebbero a restare.


550

non parto, non resto, ma provo il martìre8, che avrei nel partire, che avrei nel restar. (parte)

8 martìre: martirio, tormento.

Analisi del testo Il conflitto tra amore e dovere La breve scena presenta in modo esemplare alcuni degli elementi fondamentali che caratterizzano il melodramma metastasiano: innanzitutto la situazione del conflitto interiore, che ricorre assai spesso nei personaggi di Metastasio e che qui viene sintetizzata (forse anche troppo) nel dilemma «partire» / «restar» che affligge Enea. Come si è già detto, situazioni potenzialmente tragiche come quella qui rappresentata, sia per la natura dell’ispirazione di Metastasio, sia per le particolari esigenze del genere della scrittura per musica, non virano alla tragedia, ma restano nell’ambito del patetico: i personaggi metastasiani sono lontani dalla dimensione dell’eroe tragico, sono espressamente concepiti per il teatro cantato, vivono solo in funzione dello spettacolo e per il tempo in cui dura lo spettacolo. Il melodramma non è fatto per lo scavo complesso di ideologie e psicologie, ma per delineare sommariamente drammi interiori che possano attrarre l’attenzione del pubblico senza però turbarlo veramente, né richiedergli eccessiva riflessione. In questo caso il conflitto di Enea è reso esplicito, nel testo del recitativo (vv. 526-543), dall’alternativa che si impone all’eroe: seguire il volere del Fato e lasciare Didone oppure rinunciare alla sua missione per abbandonarsi all’amore. Il contrasto tra amore e dovere è ulteriormente schematizzato nell’aria (vv. 544-553) proprio per enfatizzarlo.

Lo stile È facile notare anche solo da questo breve testo la direzione che ispira le scelte stilisticolinguistiche e retoriche di Metastasio: la sintassi è molto semplificata, prevalentemente paratattica, frequenti punti interrogativi ed esclamativi suggeriscono una dimensione di turbamento emotivo. Il lessico è piano, lineare, di immediata decifrazione, lontanissimo dal gusto per le metafore tipico del Barocco. La musicalità è iscritta già nel testo, così da supportare adeguatamente l’opera del musicista: in questa direzione va ad esempio l’uso insistito della rima baciata («doni» / «abbandoni»; «mondo» / «profondo» e così via). L’aria («Se resto sul lido») è costituita da due sole strofe, rispettivamente di quattro e sei senari, tutti piani tranne gli ultimi, tronchi e in rima tra di loro («chiamar» / «restar»). Nell’esecuzione teatrale la prima strofa dell’aria andava ripetuta.

Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

COMPRENSIONE 1. A chi o a che cosa chiede consiglio l’eroe nella difficile decisione che deve prendere? STILE 2. Individua nella drammatica confessione di Enea le figure retoriche che contribuiscono a enfatizzare il conflitto interiore tra dovere e amore. 3. Con quali scelte stilistico-linguistiche e retoriche Metastasio rappresenta nell’aria la tensione tragica? Quali analogie e differenze puoi rilevare rispetto al recitativo? Si può affermare che nell’aria la tensione tragica sembra quasi indebolirsi?

Interpretare

online T7 Lorenzo Da Ponte

SCRITTURA 4. «Da questa natura idillica poteva uscire l’elegia, non la tragedia». Commenta con parole tue e opportuni riferimenti al testo l’opinione del critico De Sanctis a proposito del carattere del teatro metastasiano. (max 10 righe)

L’aria di Cherubino Le nozze di Figaro, atto II, scena III

online

Video L’aria da Le nozze di Figaro su YouTube.com

Pietro Metastasio e la riforma del melodramma 2 237


3

Due grandi voci isolate: il pre-Illuminismo di Muratori e il pre-Romanticismo di Vico 1 Muratori: l’erudizione al servizio di un nuovo sapere

La fiaccola della verità illumina la ricerca della storia del passato, incisione dell’antiporta (pagina figurata che precede il frontespizio) di un’edizione delle Antiquitates Italicae Medii Aevi di Muratori.

Nei primi decenni del Settecento, se il complesso della cultura e della letteratura italiana risultano dominate dall’Arcadia, non mancano figure di rilievo che con l’originalità del loro contributo movimentano il panorama letterario, anche se per ora rimangono di fatto isolate o addirittura incomprese. Una di queste è senz’altro il modenese Ludovico Antonio Muratori (1672-1750), che impiega la maggior parte della sua esistenza in una rigorosa ricerca in ambito storiografico, sostenuta da una sterminata erudizione, mai pedante e fine a sé stessa, ma sempre animata da curiosità intellettuale. Dopo aver studiato presso i gesuiti, Muratori viene ordinato sacerdote. Nel 1695 è chiamato a operare come bibliotecario nella Biblioteca Ambrosiana di Milano, dove inizia la sua esplorazione di fonti e documenti storici. Nel 1700 rientra a Modena come archivista e bibliotecario di corte. A Modena rimane fino alla morte (1750). In campo storiografico Muratori fa sua una visione moderna della ricerca storica, polemicamente contrapposta alla prospettiva teologico-provvidenziale e concepita come investigazione rigorosa delle cause e degli effetti. Il suo capolavoro, di grande importanza storica, sono i 24 libri dei Rerum italicarum scriptores (Scrittori di vicende italiane), pubblicati dal 1723 al 1738, una monumentale raccolta, frutto di una sterminata erudizione, delle fonti e documenti della storia d’Italia dal VI al XVI secolo, ispirata a un attento vaglio razionale. Dal 1744 al 1749 Muratori organizza i materiali precedentemente raccolti secondo un ordinamento annalistico: negli Annali d’Italia (scritti in italiano) viene tracciato un profilo della storia d’Italia fino al 1500. Ma l’interesse di Muratori spazia anche oltre la storiografia: è autore di molti altri scritti che già prospettano i temi che saranno cari al dibattito illuminista, come ad esempio il pamphlet sui Difetti della giurisprudenza (1742), tema poi assunto al centro del celebre trattato Dei delitti e delle pene (1764) da Cesare Beccaria, o ancora Della pubblica felicità (1749), in cui avanza proposte ispirate al razionalismo e a un moderato riformismo in ambito economico, giuridico, socioculturale. Muratori anticipa lo spirito dell’Illuminismo per più di un aspetto: in campo religioso è fautore di una religiosità intima e personale, libera da superstiziose credenze, in campo eticopolitico è contrario a ogni forma di autoritarismo e sopraffazione, in campo letterario condanna gli imitatori pedestri e i «versaioli», esalta una letteratura capace di «illuminare la

238 Settecento 6 Letteratura e cultura nel primo Settecento


verità» e prospetta un’apertura delle accademie al moderno sapere scientifico. In due scritti dei primi anni del Settecento (Primi disegni della repubblica letteraria d’Italia e Riflessioni sopra il buon gusto nelle scienze e nelle arti) Muratori constata la decadenza della cultura italiana, esprimendo un giudizio non positivo anche sull’Arcadia, di cui pure era membro. Anche nel suo modo di scrivere Muratori testimonia una posizione moderna: ripudia infatti le forme pompose dell’eloquenza barocca e al contempo quelle del classicismo più retorico.

Rerum italicarum scriptores Genere

raccolta di fonti e documenti della storia d’Italia dal VI al XVI secolo

Pubblicazione

tra il 1723 e il 1738

Struttura

24 libri

2 Vico e la Scienza nuova Per ragioni molto diverse spicca nel panorama della cultura della prima metà del Settecento la figura del napoletano Giambattista Vico (1688-1744) che, per l’originalità delle sue posizioni, antitetiche a quelle razionaliste dominanti negli ambienti intellettuali del primo Settecento, rimase isolata e sostanzialmente incompresa. Per contro le sue posizioni teoriche e i suoi giudizi in campo storico ed estetico appaiono oggi anticipare per più di un aspetto lo storicismo romantico e la visione romantica dell’arte. Perciò, non a caso il pensiero di Vico avrà un ruolo assai importante nella formazione e nell’opera di Foscolo, Leopardi e Manzoni e favorirà la penetrazione della poetica romantica in Italia. Una vita nell’isolamento, votata alla filosofia Nato a Napoli nel 1668 da una famiglia modesta, dopo studi irregolari, Giambattista Vico diventa istitutore in un’importante famiglia. Alla fine del secolo riesce a ottenere una cattedra di eloquenza all’università ed entra in contatto con gli ambienti intellettuali, ma le sue idee sono antitetiche al razionalismo che andava diffondendosi. Il progetto della Scienza nuova, l’opera a cui affida il suo pensiero e a cui deve la sua fama, nasce e si sviluppa in un isolamento personale e culturale quasi completo. Pubblicato a sue spese nel 1725, il trattato lo assorbirà per il resto della sua vita. Di esso scrive infatti una seconda e infine una terza redazione in cinque libri (pubblicata postuma nel 1744,

Frontespizio della seconda edizione della Scienza nuova, 1744. La metafisica, ritratta come una donna posta su una sfera (che richiama il globo terrestre), riceve luce dalla divina provvidenza e la rifrange a illuminare il mondo degli uomini.

Due grandi voci isolate: il pre-Illuminismo di Muratori e il pre-Romanticismo di Vico 3 239


pochi mesi dopo la morte). Vico fu anche autore di una importante Autobiografia (1728), in cui il filosofo tratteggia la sua vocazione alla ricerca filosofica e la sua inclinazione alla solitudine, anche per l’incomprensione di cui fu vittima nella sua esistenza molto travagliata. La Scienza nuova La Scienza nuova è un trattato filosofico che intende rifondare la visione della storia, illustrando i princìpi fondamentali che, secondo Vico, ne governano lo sviluppo. L’unica scienza possibile è la storia Alla base delle concezioni vichiane è la concezione della storia come «nuova scienza», l’unico campo del sapere che l’uomo può veramente conoscere, essendone l’autore, e su cui può intervenire. Anche in nome di un rigido cattolicesimo, Vico rifiuta invece il sapere scientifico di derivazione galileiana: è impossibile per l’uomo raggiungere una vera scienza della natura, che è opera di Dio e che da lui solo può essere conosciuta. Nel primo dei cinque libri che compongono l’opera, Vico delinea il campo della sua indagine e ne fissa il metodo. Nella prima parte del libro Vico espone anche i centoquattordici assiomi da lui chiamati «degnità»: una serie di “certezze” indiscutibili su cui egli fonda l’intera sua opera, che ben testimoniano il carattere asistematico del suo pensiero. Il metodo vichiano Vico intende l’indagine storica non come raccolta erudita di dati, ma come interpretazione, all’interno di specifiche categorie, del divenire umano. Nella sua grandiosa ricostruzione della storia umana, Vico fonde le prerogative e le competenze della filologia e della filosofia. La prima accerta scrupolosamente le realtà di fatto (“il certo”) attraverso l’indagine dei documenti della tradizione: lingue, leggi, costumi ecc. All’interno dei dati “certi” il filosofo raggiunge per via razionale la coscienza del “vero”. In una delle sue degnità, Vico sottolinea che filologia e filosofia vanno integrate, mentre in passato hanno errato «così i filosofi che non accertarono le loro ragioni con l’autorità de’ filologi, come i filologi che non curarono d’avverare le loro autorità con la ragion de’ filosofi» (Degnità X).

Giorgione, Le tre età dell’uomo, 1500-1501 circa (Firenze, Galleria Palatina).

240 Settecento 6 Letteratura e cultura nel primo Settecento


Le tre età della storia Nella storia dell’umanità egli vede uno schema evolutivo, non dato una volta per tutte, ma destinato a ripetersi ciclicamente, anche se non in modo uguale (i cosiddetti “ricorsi storici”): l’età degli dèi, l’età degli eroi, l’età degli uomini. A ogni fase della storia corrisponde una forma di lingua, di governo, di diritto ecc. Nella prima fase, un’umanità ancora ferina, primitiva, dominata dalla dimensione istintuale, dai sensi, scopre la dimensione del divino nella potenza dei fenomeni naturali; nella seconda fase l’umanità, dominata dalle emozioni e dalla fantasia, conosce il mondo attraverso la poesia e le favole mitologiche; nella terza approda alla civiltà, caratterizzata dalla predominanza della ragione e dalla nascita del pensiero filosofico e scientifico. Una grande civiltà, tuttavia, può entrare in crisi e si verifica così il ritorno a uno stato di barbarie, a costumi primitivi. Nella concezione di Vico, ai tre stadi dello sviluppo storico corrispondono le fasi di sviluppo della stessa vita umana: l’infanzia (in cui dominano i sensi), la fanciullezza (in cui dominano le passioni e la fantasia e ci si avvale di rappresentazioni mitiche) e la maturità (in cui domina la ragione e la ricerca della verità). La concezione della poesia Nel secondo libro, intitolato Della sapienza poetica, che costituisce da solo quasi metà dell’opera, Vico espone la sua concezione della poesia. La poesia per Vico è una forma di conoscenza, intuitiva, prelogica, che trova dunque espressione in particolare nella seconda fase dello sviluppo storico, quella eroica, considerata dal filosofo la fase propriamente “poetica” del cammino storico. La grande poesia, per Vico, è comunque sempre costituzionalmente lontana dalla ragione e dalla filosofia: su queste basi il filosofo napoletano fonda di fatto una nuova prospettiva estetica che sarà compresa e assimilata solo decenni dopo, secondo la quale la poesia è legata all’irrazionalità, alle passioni, alla fantasia, alla sensibilità, alla capacità di stupirsi, non è attività intellettuale. Un’analoga visione è ben riconoscibile nelle prime riflessioni di Leopardi sulla natura della poesia. L’interpretazione di Omero e Dante Sulla base delle sue intuizioni, Vico interpreta la poesia di Omero (ed è una prospettiva completamente diversa da quella assodata al suo tempo) non come opera di un singolo poeta, ma come espressione della fantasia mitopoietica di un intero popolo, come frutto di una spontanea creazione collettiva non soggetta a regole (➜ T8 OL). Nella stessa prospettiva, in un’epoca come il primo Settecento che sentiva la poesia dantesca come lontana e sostanzialmente estranea, Vico rivaluta la grandezza poetica della Commedia, che interpreta però come espressione di una potente fantasia creatrice di immagini, mettendo invece in secondo piano, e sostanzialmente svalutando, le componenti filosofiche e teologiche dell’opera (come in seguito farà la critica romantica). Lo stile Si è parlato spesso in passato di oscurità per lo stile di Vico. Certo quella della Scienza nuova è una prosa complessa, immaginosa, che ha tratti barocchi nel sovraccarico di particolari e che si fonda assai spesso su costrutti latineggianti. Ma è sicuramente una prosa originale nel panorama del primo Settecento, frutto di un’ardente passione intellettuale, che conferisce alla pagina del filosofo napoletano tratti di enfasi quasi profetica.

online T8 Giambattista Vico

Ma Omero è esistito veramente? La Scienza nuova, III, I

Due grandi voci isolate: il pre-Illuminismo di Muratori e il pre-Romanticismo di Vico 3 241


Le tre età della storia per Vico TEORIA DEI “CORSI E RICORSI STORICI”

la storia dell’umanità si svolge ciclicamente secondo uno schema evolutivo

le tre età attraverso cui sono destinate a passare le nazioni

le tre età di sviluppo della vita umana

Prima età

età primitiva e divina

dominio dei sensi

infanzia

Seconda età

età poetica ed eroica

dominio della facoltà immaginativa

fanciullezza

Terza età

età civile e veramente umana

dominio della ragione e ricerca del vero

età adulta

Giambattista Vico

Alcune «degnità» vichiane

T9

La Scienza nuova, Elementi XXXV-XXXVII, L, LIII Riportiamo alcuni esempi di quelle che Vico chiama «degnità», ovvero «cose degne di essere fissate dalla memoria», raccolte negli Elementi con cui si apre la Scienza nuova. Si tratta di centoquattordici postulati di immediata evidenza, partendo dai quali, secondo un metodo rigorosamente deduttivo, Vico si propone di fondare la «nuova scienza». Le «degnità» qui selezionate sono tra quelle che si riferiscono alla concezione vichiana della poesia per la quale il pensatore napoletano è considerato un precursore delle concezioni romantiche.

G.B. Vico, La Scienza nuova [secondo l’edizione del 1744], a c. di P. Rossi, Rizzoli, Milano 1963

XXXV La maraviglia è figliuola dell’ignoranza1; e quanto l’effetto ammirato è più grande, tanto più a proporzione cresce la maraviglia. XXXVI La fantasia tanto è più robusta quanto è più debole il raziocinio2. 5

XXXVII Il più sublime lavoro della poesia è alle cose insensate dare senso e passione3, ed è propietà4 de’ fanciulli di prender cose inanimate tra mani e, trastullandosi, favellarvi come se fussero, quelle, persone vive. Questa degnità filologico-filosofica5 ne appruova6 che gli uomini del mondo fanciullo7, per natura, furono sublimi poeti.

1 La maraviglia... ignoranza: la capacità di provare stupore deriva dall’ignoranza. 2 La fantasia... il raziocinio: Vico istituisce un rapporto inversamente proporzionale tra la fantasia e la razionalità. 3 Il più sublime… senso e passione: il più alto compito della poesia è attribuire capacità di sentire e di provare sentimenti

alle cose inanimate, prive di sensibilità. 4 propietà: prerogativa. 5 Questa degnità filologico-filosofica: per Vico la conoscenza della storia umana che egli cerca di realizzare nella Scienza nuova deve assommare le prerogative della filologia e della filosofia, come appunto si può rilevare già dai fondamenti

242 Settecento 6 Letteratura e cultura nel primo Settecento

dell’opera che sono delineati nelle degnità. 6 ne appruova: ci testimonia. 7 mondo fanciullo: secondo la concezione di Vico, all’età della fanciullezza corrisponde nel corso della storia un’età ingenua, in cui dominano le passioni, la fantasia, la poesia (l’età che egli denomina degli eroi).


L Ne’ fanciulli è vigorosissima la memoria; quindi vivida all’eccesso8 la fantasia, 10 ch’altro non è che memoria o dilatata o composta9. Questa degnità è ’l principio dell’evidenza dell’immagini poetiche che dovette formare il primo mondo fanciullo. LIII Gli uomini prima sentono senz’avvertire10, dappoi avvertiscono con animo perturbato e commosso11, finalmente12 riflettono con mente pura13. 15 Questa degnità è il principio delle sentenze14 poetiche, che sono formate con sensi di passioni e d’affetti, a differenza delle sentenze filosofiche, che si formano dalla riflessione con raziocini: onde queste15 più s’appressano al vero quanto più s’innalzano agli universali16, e quelle sono più certe quanto più s’appropiano a’ particolari17. 8 all’eccesso: al massimo grado. 9 composta: frutto della composizione di elementi, sensazioni, impressioni, depositati nella memoria. 10 sentono senz’avvertire: provano sensazioni senza avvertirle.

11 con animo perturbato e commosso: con turbamento e partecipazione emotiva. 12 finalmente: alla fine. 13 mente pura: distacco razionale. 14 sentenze: espressioni. 15 onde queste: per cui queste (ovvero le

espressioni filosofiche). 16 più s’appressano... agli universali: si avvicinano alla verità innalzandosi ai concetti astratti. 17 s’appropiano a’ particolari: si appropriano, s’impadroniscono dei particolari.

Analisi del testo Il concetto di «degnità» Anche dai limitati esempi qui proposti si comprende la natura dei princìpi fondamentali che Vico prepone alla sua trattazione. Vico sceglie di usare frasi brevi, di carattere sentenzioso, a cui attribuisce valore di indiscutibile verità e che il lettore dovrà tenere presenti per seguire le argomentazioni del filosofo nel corso della sua opera. Si tratta di asserzioni incisive, destinate a imprimersi nella mente del lettore.

L’identificazione fanciullezza/poesia Tra le varie «degnità» qui riportate, sono significative quelle riferite a una concezione della poesia sicuramente innovativa al tempo di Vico: la vera poesia, quella sublime, ha a che fare con la dimensione fantastico-immaginativa, non diversa da quella propria dei bambini, che dà vita, grazie appunto alla fantasia, alle cose inanimate. Ma la poesia si nutre anche di passioni e di affetti e ben poco di raziocinio. È evidente l’influsso che le idee vichiane esercitarono sulle prime fasi della poetica leopardiana.

Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

COMPRENSIONE 1. Riscrivi in italiano corrente la Degnità XXXVII. SINTESI 2. Sintetizza il procedimento logico-deduttivo che nella Degnità XXXVII porta ad asserire la naturale disposizione poetica del “mondo fanciullo”. 3. Sintetizza in un breve testo (max 5 righe) la concezione vichiana della poesia per la quale il pensatore napoletano è considerato un precursore delle concezioni romantiche.

Interpretare

SCRITTURA 4. Una delle più celebri «degnità» è la LIII, relativa alle fasi dello sviluppo umano e alla distinzione tra filosofia e poesia. Scrivi un commento al testo (max 20 righe).

Fissare i concetti Due grandi voci isolate: il pre-Illuminismo di Muratori e il pre-Romanticismo di Vico 1. Quali aspetti caratterizzano l’opera storiografica di Muratori? 2. Per quale motivo, secondo Vico, l’unica scienza possibile è la storia?

Due grandi voci isolate: il pre-Illuminismo di Muratori e il pre-Romanticismo di Vico 3 243


Settecento Letteratura e cultura nel primo Settecento

Sintesi con audiolettura

1 Il sogno regressivo dell’Arcadia

“Buon gusto” e ripresa del classicismo Nella prima metà del Settecento la cultura italiana è dominata dall’influenza dell’Arcadia, un’accademia che da Roma si diffonde in varie zone dell’Italia. L’Arcadia intende ripristinare nella letteratura (in particolare nella lirica) il “buon gusto”, la razionalità, contro gli eccessi del Barocco. Di fatto questa esigenza si traduce in una riproposta del classicismo, e, in particolare, del codice pastorale (cui si richiama il nome stesso) nelle situazioni e nei personaggi evocati. La poesia arcadica La poesia arcadica rinuncia programmaticamente a trattare temi impegnati, prediligendo l’amore, depurato però dagli aspetti più passionali e ridotto spesso a rituale galante, a un insieme di leziose schermaglie tra innamorati. Per la ricerca della musicalità che la contraddistingue, la lirica arcadica predilige il genere metrico della canzonetta.

244 Settecento 6 Letteratura e cultura nel primo Settecento


2 Pietro Metastasio e la riforma del melodramma

Il rinnovamento del melodramma La figura più rappresentativa della letteratura nella prima metà del secolo è Pietro Metastasio (1698-1782): a lui si deve la riforma del melodramma, un genere teatrale nato nel Cinquecento, in cui il testo era accompagnato da musica e canto (dal greco melos, “canto”, e drama, “recitazione”). Nel tempo il testo aveva perso sempre più importanza rispetto alla musica: Metastasio ripristina la qualità letteraria del testo e restituisce verosimiglianza all’intreccio attraverso il razionale succedersi delle scene, secondo la ricerca di armonia e razionalità propria della poetica arcadica. Tipico del suo teatro è il tema del conflitto interiore, che però non si risolve mai in tragedia, rimanendo entro i confini della dimensione patetico-sentimentale, congeniale al gusto del primo Settecento. I melodrammi più noti di Metastasio sono Didone abbandonata, Olimpiade, La clemenza di Tito (musicato da Mozart). La lezione di Metastasio fu raccolta da Lorenzo da Ponte (1749-1838), autore dei libretti di tre delle più importanti opere di Mozart: Le nozze di Figaro, Don Giovanni e Così fan tutte.

grandi voci isolate: il pre-Illuminismo di Muratori e il pre3 Due Romanticismo di Vico Muratori: l’erudizione al servizio di un nuovo sapere Nei primi decenni del Settecento Ludovico Antonio Muratori (1672-1750) offre una testimonianza di grande rigore nell’ambito della ricerca storiografica, fondata su una attenta investigazione delle cause e degli effetti, e contrapposta a un’interpretazione della storia in chiave teologico-provvidenziale. Gli studi di Muratori confluirono nella monumentale opera Rerum italicarum scriptores, pubblicata in 24 libri tra il 1723 e il 1738, una raccolta di fonti e documenti della storia d’Italia dal V al XVI secolo. Muratori anticipa lo spirito dell’Illuminismo in più campi; in particolare, in ambito letterario, rifiuta le forme pompose del Barocco ed esalta una letteratura che sia in grado di “illuminare la verità”. Vico e la Scienza nuova Nella prima metà del Settecento spicca per l’originalità del suo pensiero Giambattista Vico (1668 1744), figura isolata incompresa nel suo tempo: in un’epoca di diffuso razionalismo, Vico assume una posizione del tutto originale e certo controcorrente.

Sintesi Settecento

245


In compenso anticipa alcuni aspetti della visione romantica, non a caso echi del pensiero vichiano si ritrovano in Foscolo, Leopardi e anche in Manzoni. Nel suo trattato Scienza nuova (prima edizione 1725, terza e definitiva 1744), Vico interpreta la storia, oggetto della sua speculazione filosofica, secondo uno schema evolutivo destinato a ripetersi ciclicamente nel tempo (i cosiddetti “ricorsi storici”): nella prima fase dominano i sensi, nella seconda la fantasia e le passioni, nella terza la ragione. Per Vico la poesia appartiene elettivamente alla seconda fase (a cui corrisponde nella vita umana la fanciullezza), ha a che fare con le passioni, la fantasia immaginativa, e non con la ragione.

Zona Competenze Esposizione orale

1. Prepara la scaletta di un intervento orale di circa 5 minuti sul confronto tra produzione lirica barocca e arcadica. 2. Esponi oralmente gli aspetti e le ragioni che fecero di Giambattista Vico un intellettuale isolato rispetto alla cultura del suo tempo e al contesto in cui operò (max 5 minuti).

Scrittura creativa

2. Dopo aver letto il testo Regole assurde per i compositori di melodrammi (➜ T5 OL), immagina di essere Metastasio e di dover rispondere alle accuse mosse da Carlo Goldoni in un breve testo scritto.

Discussione orale

3. L’Accademia dell’Arcadia fu un progetto culturale promosso dalla curia romana per gestire in modo controllato le istanze di rinnovamento e di razionalismo di ispirazione cartesiana, che si stavano diffondendo nelle società europee e che iniziavano a essere recepite anche in Italia. Trovi delle analogie con altri fenomeni culturali (ma non solo) più recenti? Rifletti ed elabora un tuo punto di vista personale sul tema e poi confrontati in classe con compagne e compagni e con l’insegnante.

246 Settecento 6 Letteratura e cultura nel primo Settecento


Settecento CAPITOLO

7 La svolta illuminista in Italia

Nella seconda metà del Settecento si avvia una profonda trasformazione della cultura italiana, in rapporto alle idee illuministe e alla politica di riforme intrapresa in particolare nel regno di Napoli e in Lombardia. A Milano nasce la rivista «Il Caffè», che auspica una cultura più aperta alla modernità e si batte per una lingua antiaccademica. Il saggio Dei delitti e delle pene (1764) di Cesare Beccaria, incentrato sul diritto penale, è forse il frutto più significativo dell’Illuminismo italiano. Lo scritto di Beccaria, tradotto in varie lingue e lodato anche da Voltaire, ebbe un’immediata diffusione europea, contribuendo in modo rilevante alla riflessione sulla riforma del diritto penale. Le osservazioni di Beccaria si fondano su un principio fondamentale, a quei tempi non certo acquisito: sulla base della visione razionalistica e laica propria dell’Illuminismo, Beccaria distingue nettamente il reato, considerato una infrazione del patto sociale, dalla colpa, con la conseguente necessaria distinzione nei processi tra sfera religiosa e giustizia, cui sola compete il giudizio sui reati.

generali 1 Caratteri dell’Illuminismo italiano più celebre 2 L’opera dell’Illuminismo italiano: Dei delitti e delle pene di Cesare Beccaria

247


1

Caratteri generali dell’Illuminismo italiano 1 Un Illuminismo riformista e moderato

Lessico riformismo Orientamento politico, opposto al conservatorismo, che promuove l’attuazione di organiche, ma graduali riforme per modificare l’ordinamento politico e sociale esistente.

Solo dopo la metà del secolo si verifica anche in Italia una vera e propria svolta che allinea la cultura italiana a quella europea, per lo meno in alcune aree geografiche (come la Lombardia e il Regno di Napoli). La relativa stabilità politica seguita alla seconda pace di Aquisgrana (1748) favorisce infatti nel nostro paese un nuovo clima politico-culturale che trova la sua piena manifestazione nell’adesione della maggior parte degli intellettuali, in particolare nei due stati sopra nominati, ai princìpi dell’Illuminismo. La prospettiva secondo cui gli illuministi italiani interpretano tali princìpi è però molto differente da quella inglese e francese: da un lato, la presenza della Chiesa, dall’altro la piena disponibilità dei sovrani, sia nella Lombardia di Maria Teresa d’Asburgo sia nella Napoli di Carlo III di Borbone, ad avviare una politica di riforme in stretta collaborazione con gli intellettuali, smorza in genere le punte più radicali del discorso ideologico dei philosophes relative all’ambito religioso e politico. L’Illuminismo italiano ha dunque caratteri prettamente riformistici : gli intellettuali di maggior rilevanza, appartenenti a un’ala progressista e aperta dell’aristocrazia, come sono a Milano i fratelli Alessandro e Pietro Verri e Cesare Beccaria, collaborano attivamente con i governi e divengono funzionari dello Stato, contribuendo così alla realizzazione concreta della formula politica del “dispotismo illuminato”. Più che avventurarsi nel campo della speculazione filosofica, gli illuministi italiani si battono perché i principali temi del dibattito ideologico del tempo promuovano uno svecchiamento delle istituzioni giuridiche e delle strutture economiche: grazie ad essi il sogno di Voltaire che i lumi della ragione potessero ispirare i sovrani sembrava realizzarsi. Il centro principale dell’Illuminismo italiano è Milano, il capoluogo della Lombardia, stato che, grazie ad amministratori intelligenti come il ministro plenipotenziario Karl G. von Firmian, governatore generale austriaco, stava conoscendo un notevole risveglio economico e sociale dopo la grave crisi socio-politica e il ristagno economico che l’occupazione spagnola aveva lasciato come pesante eredità. L’Illuminismo napoletano L’altra area in cui si espresse in Italia la cultura illuministica fu il Regno di Napoli, dove però le prospettive di riforma non riuscirono veramente a incidere sulla società, annullando i privilegi feudali e il radicato potere baronale. Questa oggettiva difficoltà, legata alla specificità della situazione sociale del Regno di Napoli, in cui era ancora inimmaginabile il costituirsi di una moderna classe borghese, orienta il dibattito illuminista soprattutto verso i temi giuridici e in particolare la difesa dei diritti dello stato contro le pretese della Chiesa, tema già appassionatamente dibattuto da Pietro Giannone nella sua Istoria civile del Regno di Napoli (1723), dove si anticipa l’orientamento che il dibattito illuminista assumerà in quest’area d’Italia. Opera di capitale importanza in tal senso è la Scienza della legislazione di Gaetano Filangieri (1752-1788), pubblicata nel 1780, nella quale si sostiene la necessità di una riforma in senso antifeudale della legislazione; inol-

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tre, vi è sostenuta la necessità dell’istruzione pubblica (➜ D8a OL). Nel 1754 a Napoli viene istituita la cattedra di economia politica, la prima in tutta Europa, affidata al caposcuola dell’Illuminismo napoletano Antonio Genovesi (1713-1769). Genovesi sceglie di tenere le sue lezioni in italiano, contro la consuetudine dell’uso del latino nelle lezioni universitarie. Dalle sue lezioni egli trae poi le Lezioni di commercio (1765-1767), in cui attacca il ruolo parassitario e dannoso per il progresso economico e sociale del clero e del ceto dei nobili proprietari dei grandi feudi. L’Illuminismo milanese e la Società dei Pugni A Milano il rinnovamento culturale è affidato prima all’Accademia dei Trasformati (di cui era membro anche Giuseppe Parini), e poi, in modo ben più incisivo e significativo, alla Società dei Pugni, un gruppo di intellettuali costituito nel 1761 dal conte Pietro Verri (1728-1797). Il nome, che finì per identificare il gruppo, ne fa intuire lo spirito: i giovani intellettuali di famiglia aristocratica che ne fanno parte si richiamano alle posizioni espresse dagli enciclopedisti e assumono un atteggiamento ideologico libero e battagliero, che non mancherà di suscitare critiche sprezzanti negli ambienti dell’aristocrazia lombarda da cui essi provenivano: Pietro Verri e il fratello Alessandro (1741-1816) erano duramente criticati anche dal loro stesso padre Gabriele, autorevole rappresentante dell’aristocrazia milanese di idee rigidamente conservatrici.

Una riunione della Società dei Pugni nel dipinto di un anonimo milanese. Sono ritratti, da sinistra, Alfonso Longo, Alessandro Verri, Giovanni Battista Biffi, Cesare Beccaria, Luigi Lambertenghi, Pietro Verri, Giuseppe Visconti di Saliceto.

«Il Caffè» Tre anni dopo l’istituzione della Società dei Pugni, Pietro Verri fonda – sul modello dello «Spectator», il giornale londinese di Joseph Addison e Richard Steele nato nel 1711 – la rivista «Il Caffè», che sarà portavoce del gruppo (autori della maggior parte degli articoli sono infatti le stesse persone che ne fanno parte). Del giornale londinese «Il Caffè» riprende l’eclettismo degli interessi, alternando argomenti più impegnativi ad altri apparentemente leggeri, ma in realtà considerati dagli autori ugualmente importanti per una moderna evoluzione della mentalità e del costume, come ad esempio la necessità di superare, in nome di una moderna sociabilità, il culto affettato e formale delle “buone maniere” (➜ T2 OL) Nonostante la sua breve vita (durò due soli anni, dal 1764 al 1766), «Il Caffè» esercitò una grande funzione di stimolo: nel periodico si possono ritrovare le posizioni più significative dell’Illuminismo lombardo, ed è dalle riflessioni e discussioni tra i membri del «Caffè» che nascerà l’opera più celebre dell’Illuminismo italiano: Dei delitti e delle pene di Cesare Beccaria (➜ PAG. 254). L’introduzione, firmata da Pietro Verri, leader indiscusso del gruppo, costituisce il manifesto del nuovo spirito che anima il giornale (➜ T1 ) a cominciare dalla scelta di immaginare un caffè – nuovo centro di aggregazione, assieme ai salotti, ma ancor più informale – come cornice da cui traggono origine gli articoli. La battaglia per una nuova cultura «Il Caffè» esprime in modo quasi programmatico le posizioni più generali e gli obiettivi polemici dell’Illuminismo italiano: la battaglia per un’apertura della cultura italiana ai modelli di pensiero europei, il che comporta l’assunzione di uno spirito laico e di un’ottica critica nell’analisi dei fenomeni socio-economici e dei comportamenti individuali e collettivi. Il gruppo

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del «Caffè» (i fratelli Verri, Cesare Beccaria, Paolo Frisi, Alfonso Longo, Luigi Lambertenghi e pochi altri) conduce in particolare una corrosiva e coraggiosa battaglia contro la pedanteria, il formalismo che inficiano la cultura e la letteratura italiane, contro l’ossequio acritico ai modelli. In questa prospettiva si iscrive anche l’attacco deciso contro una visione formalistica della lingua, subordinata alla logica del bello più che a obiettivi di razionale comunicazione delle idee (➜ D13 OL): «Cose, non parole» è, appunto, il motto del «Caffè». Non si ritrovano invece nella rivista italiana gli spunti egualitari, né le istanze più radicalmente polemiche in campo religioso che ricorrono nell’Illuminismo francese, e la cosa non stupisce: i Verri non sono i philosophes, il loro obiettivo non è l’attacco frontale a forme e istituzioni, ma piuttosto la formazione di una classe dirigente moderna e illuminata che, occupando i posti chiave della pubblica amministrazione, possa a sua volta illuminare i governanti. Pietro Verri stesso ricoprì per l’amministrazione asburgica importanti incarichi e scrisse articoli, saggi e relazioni su aspetti economici (Meditazioni sull’economia politica, 1771), etici (Osservazioni sulla tortura, 1777) ed estetici (Discorso sull’indole del piacere e del dolore, 1773). Coerentemente alla polemica condotta in campo linguistico-stilistico, lo stile impiegato dal «Caffè» è vivace e spigliato, senza assumere però mai i toni sferzanti e aggressivi della «Frusta letteraria» di Baretti, altro agguerrito periodico del tempo.

Illuminismo italiano moderato e riformista, appoggiato dagli intellettuali progressisti (Milano, Napoli in particolare)

per una cultura aperta e moderna

ambiti particolari: • legislazione politica • economia politica • diritto • linguistica

IMMAGINE INTERATTIVA

Jean-Étienne Liotard, Ritratto di Lord John Mount Stuart, 1763. Per ricordare il Grand Tour in Europa del figlio, il padre, Lord Bute, commissionò questo suo ritratto a Liotard, uno dei più famosi artisti del Settecento, legato al mondo dell’aristocrazia e alla società cosmopolita. Il giovane vi è raffigurato in una posa insieme disinvolta ed elegante, in apparente naturalezza, duplicato dal riflesso del profilo e del busto nello specchio alle sue spalle. La maestria di Liotard nei ritratti a pastello su pergamena, cui riesce a conferire morbidezza e luminosità, si esalta nella tonalità dominante dell’abito del gentiluomo e nei colori e decori di gusto rococò dell’arredamento della sala del camino, con tracce della moda orientalista nel paravento cinese in secondo piano.

250 Settecento 7 La svolta illuminista in Italia


Pietro Verri

T1

«Cos’è questo Caffè? È un foglio di stampa…» «Il Caffè», Introduzione

Il Caffè, a c. di G. Francioni e S. Romagnoli, Bollati Boringhieri, Torino 1998

AUDIOLETTURA

Dopo una significativa Avvertenza al lettore, Pietro Verri, fondatore del periodico, firma l’Introduzione della rivista che ne dichiara gli scopi e i caratteri: attraverso il riferimento simbolico alla bottega del caffè in cui si immaginano avvenute le conversazioni, lo scrittore delinea il nuovo tipo di sapere a cui la rivista intende dare vita: un sapere orientato ai temi di interesse etico-civile e caratterizzato dallo scambio e dall’effettiva utilità sociale. Riproduciamo la prima parte dell’Introduzione.

Cos’è questo Caffè? È un foglio di stampa che si pubblicherà ogni dieci giorni. Cosa conterrà questo foglio di stampa? Cose varie, cose disparatissime, cose inedite, cose fatte da diversi autori, cose tutte dirette alla pubblica utilità. Va bene: ma con quale stile saranno eglino1 scritti questi fogli? Con ogni stile che non annoi. E sin a quando 5 fate voi conto2 di continuare quest’opera? Insin a tanto che avranno spaccio3. Se il pubblico si determina a4 leggerli, noi continueremo per un anno e per più ancora, e in fine d’ogni anno dei trentasei fogli se ne farà un tomo di mole discreta; se poi il pubblico non li legge, la nostra fatica sarebbe inutile, perciò ci fermeremo anche al quarto, anche al terzo foglio di stampa. Qual fine vi ha fatto nascere un 10 tal progetto? Il fine d’una aggradevole5 occupazione per noi, il fine di far quel bene che possiamo alla nostra patria, il fine di spargere delle utili cognizioni fra i nostri cittadini divertendoli, come già altrove6 fecero e Steele e Swift e Addison e Pope7 ed altri. Ma perché chiamate questi fogli il Caffè? Ve lo dirò; ma andiamo a capo. Un greco originario di Citera, isoletta riposta fra la Morea e Candia8, mal soffrendo 15 l’avvilimento e la schiavitù in cui i Greci tutti vengon tenuti dacché gli Ottomani9 hanno conquistata quella contrada, e conservando un animo antico malgrado l’educazione e gli esempi, son già tre anni che si risolvette10 d’abbandonare il suo paese: egli girò per diverse città commercianti, da noi dette le scale del Levante11; egli vide le coste del Mar Rosso e molto si trattenne in Mocha12, dove cambiò parte delle 20 sue merci in caffè del più squisito che dare si possa al mondo; indi prese il partito13 di stabilirsi in Italia, e da Livorno sen venne in Milano, dove son già tre mesi che ha aperta una bottega addobbata con ricchezza ed eleganza somma. In essa bottega primieramente si beve un caffè che merita il nome veramente di caffè; caffè vero verissimo di Levante e profumato col legno d’aloe14, che chiunque lo prova, 25 quand’anche fosse l’uomo il più grave, l’uomo il più plombeo15 della terra, bisogna che per necessità si risvegli e almeno per una mezz’ora diventi uomo ragionevole. In essa bottega vi sono comodi sedili, vi si respira un’aria sempre tepida e profumata

1 eglino: essi, ovvero i fogli poi nominati (è pronome di 3a persona plurale). 2 fate voi conto: contate, avete intenzione. 3 avranno spaccio: saranno acquistati (il soggetto è sempre questi fogli). 4 si determina a: decide di. 5 aggradevole: piacevole. 6 altrove: in Inghilterra, dove furono pubblicati i periodici a cui si ispira «Il Caffè». 7 Steele e Swift e Addison e Pope: scrittori inglesi dalla prosa vivace e corrosi-

va. Joseph Addison (1672-1719) e Richard Steele (1672-1729) diedero vita allo «Spectator»; Jonathan Swift (1667-1745) è autore del celebre romanzo Viaggi di Gullliver; Alexander Pope (1688-1744) è noto per il suo poemetto satirico Il ricciolo rapito (1721), a cui si ispirò, secondo alcuni critici, Parini per Il giorno. 8 Citera… Candia: l’isola di Cerìgo, fra Peloponneso e Creta. 9 dacché gli Ottomani: da quando i turchi.

10 si risolvette: decise. 11 le scale del Levante: i porti (le scale) d’Oriente (del Levante). 12 Mocha: città sulla costa yemenita del Mar Rosso, celebre per la coltivazione del caffè. 13 prese il partito: decise. 14 legno d’aloe: legno aromatico (infatti l’aloe bruciando emana un gradevole aroma). 15 grave... plombeo: greve, rigido… plumbeo, cioè cupo, di umore tetro.

Caratteri generali dell’Illuminismo italiano 1 251


che consola; la notte è illuminata, cosicché brilla in ogni parte l’iride negli specchi e ne’ cristalli sospesi intorno le pareti e in mezzo alla bottega; in essa bottega chi 30 vuol leggere trova sempre i fogli di novelle16 politiche, e quei di17 Colonia e quei di Sciaffusa e quei di Lugano e vari altri; in essa bottega chi vuol leggere trova per suo uso e il Giornale enciclopedico e l’Estratto della letteratura europea18 e simili buone raccolte di novelle interessanti, le quali fanno che gli uomini che in prima erano Romani, Fiorentini, Genovesi o Lombardi, ora sieno tutti presso a poco Europei; in 35 essa bottega v’è di più un buon atlante19, che decide le questioni che nascono nelle nuove politiche20; in essa bottega per fine21 si radunano alcuni uomini, altri ragionevoli, altri irragionevoli, si discorre, si parla, si scherza, si sta sul serio; ed io, che per naturale inclinazione parlo poco, mi son compiaciuto di registrare tutte le scene interessanti che vi vedo accadere e tutt’i discorsi che vi ascolto degni da registrarsi; 40 e siccome mi trovo d’averne già messi in ordine vari, così li dò alle stampe col titolo Il Caffè, poiché appunto son nati in una bottega di caffè.

16 novelle: notizie. 17 quei di: i giornali pubblicati a (nella bottega del caffè si trovano giornali provenienti da varie città europee).

18 Giornale Enciclopedico... letteratura

20 nelle nuove politiche: sulle novità del-

europea: pubblicazioni del tempo. 19 atlante: carte, grafici, rappresentazioni che forniscono le documentazioni.

21 per fine: infine.

la politica.

Il frontespizio e una pagina interna del «Caffè».

Analisi del testo Una brillante presentazione editoriale: il dialogo immaginario tra il direttore di un periodico e il suo pubblico Nella pubblicistica d’opinione era consuetudine, già al tempo del «Caffè», che la rivista si qualificasse presso il proprio pubblico potenziale esplicitando nell’esordio le finalità e i caratteri della pubblicazione. Pietro Verri (in quello che oggi sarebbe definito l’editoriale della rivista) assolve il compito attraverso uno stile accattivante ed efficaci scelte espositive. La linea che ispirerà la neonata rivista viene messa a fuoco attraverso un espediente di sicuro effetto: lo sdoppiamento (e il dialogo) tra autore e lettori. A questi ultimi è affidata l’enunciazione di una

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serie di domande a cui il direttore e i suoi collaboratori rispondono in modo diretto, a botta e risposta potremmo dire, mettendo subito in luce gli obiettivi e il carattere pragmatico della rivista nascente, e offrendo al contempo anche un saggio dello stile espositivo della rivista, colloquiale e antiaccademico. Attraverso questa scelta, il lettore è posto sullo stesso piano dell’autore, in una relazione di dialogo amichevole e paritario che è certo uno dei caratteri salienti della civiltà dei lumi. L’ultima domanda: «Ma perché chiamate questi fogli il Caffè?» riceve invece una risposta più ampia, offrendo lo spunto a una sorta di digressione narrativa.

La «bottega» del caffè, luogo-simbolo di una nuova visione della cultura La sequenza narrativa inserita nella Introduzione sembra a prima vista soltanto una testimonianza del gusto dell’“esotico” particolarmente diffuso nella società settecentesca. Si narra, con tono inizialmente favolistico-novellistico, di un greco (in seguito se ne dice il nome, Demetrio), « originario di Citera», che, dalla sua patria in un’isoletta greca, divenuta dominio turco, si era avventurato in cerca di libertà e fortuna e aveva cambiato le sue merci con quantitativi di caffè, per stabilirsi poi in ultimo in Italia. A Milano Demetrio apre una «bottega di caffè» dove è possibile bere una straordinaria qualità della bevanda (che era divenuta di moda anche in Italia; ➜ PAG. 191). Le righe seguenti del passo delineano un ambiente insieme reale e simbolico: effettivamente nei caffè inglesi si leggevano quotidiani e periodici (come lo «Spectator» di Addison e Steele a cui si ispira la pubblicazione milanese), si conversava. In Italia questo clima, anche culturale, di mutuo scambio di idee, di civile conversazione, era solo ideale: da qui la forza propositiva e la valenza ideologica e polemica di questo quadro d’ambiente delineato da Verri, nel quale (lo dice alla fine del brano) immagina sia nata la sua rivista: in realtà quella che nasceva non era tanto (o soltanto) una rivista, ma una nuova concezione di cultura, antiaccademica, moderna, cosmopolita, che si opponeva a un’idea chiusa ed elitaria di cultura. Parallelamente nasceva una nuova figura di intellettuale di cui Pietro Verri stesso costituisce un esempio lampante.

Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

COMPRENSIONE 1. Quali aspetti tipici dell’Illuminismo è possibile ricavare dalla presentazione della nuova rivista? 2. Perché Verri dichiara che la rivista sarà pubblicata solo fin quando sarà acquistata? 3. Tra le finalità enunciate da Verri quali ti sembrano più importanti? Perché? ANALISI 4. L’ambiente del caffè è descritto attraverso oggetti e situazioni presentati come positivi: individuali e spiegane il significato.

Interpretare

ESPOSIZIONE ORALE 5. Ti sembra significativa la precisazione che lo stile usato non debba annoiare chi legge? Spiega il tuo punto di vista in una breve esposizione orale. Hai a disposizione 3 minuti. SCRITTURA 6. La finzione dell’autore di aver raccolto in un caffè i discorsi che presenta ha un importante valore simbolico anche come infrazione di un modo vecchio di fare cultura. Sulla base delle tue conoscenze sui nuovi luoghi di aggregazione degli intellettuali, interpreta e commenta la scelta dell’autore.

online T2 Pietro Verri

Contro la società delle “buone maniere” «Il Caffè», La buona compagnia

online

Interpretazioni critiche Dorinda Outram L’Illuminismo e l’esotico

Caratteri generali dell’Illuminismo italiano 1 253


2

L’opera più celebre dell’Illuminismo italiano: Dei delitti e delle pene di Cesare Beccaria 1 Il problema della riforma del diritto e l’opera di Cesare Beccaria Uno dei temi maggiormente dibattuti dagli illuministi (da Locke a Montesquieu) è il diritto. Anche in Italia fin dal 1742 Muratori (➜ C6) aveva denunciato la confusione della giurisprudenza vigente e l’asservimento della legge ai privilegi sociali. Vent’anni dopo, agli intellettuali lombardi che si proponevano di contribuire a modificare le istituzioni in nome degli ideali illuministi, il problema di una riforma del diritto si imponeva con particolare urgenza: di questo interesse sono espressione, tra gli altri, articoli giuridici sia di Alessandro Verri (ad esempio Sulle leggi civili) sia di Pietro Verri (Sull’interpretazione delle leggi). L’opera di Beccaria (1738-1794), Dei delitti e delle pene (il latinismo delitti significa “reati”), pubblicata nel 1764, nasce dunque in un preciso contesto operativo e ideologico, ma la prospettiva che ne decreta il trionfale successo rispetto ad altri scritti è la scelta di restringere l’analisi esclusivamente all’ambito penale del diritto: quello che evidenziava in modo più eclatante l’irrazionalità del diritto vigente e la violazione dei diritti umani così appassionatamente difesi dagli illuministi. Dei delitti e delle pene non è però, come si potrebbe pensare, l’opera di un «addetto ai lavori» (Beccaria era laureato in legge ma non era né avvocato né magistrato), bensì quella di «un uomo che aborre il sangue e la violenza, che tutto guarda sotto l’angolo visuale del bene collettivo, della difesa della società» (Jemolo). Vero centro del pensiero di Cesare Beccaria è il valore assoluto che egli attribuisce alla persona umana che nessuno, per nessun motivo, deve impunemente umiliare e annullare, il suo istintivo orrore per la crudeltà gratuita delle pene che egli considera un capovolgimento dei valori basilari della civiltà. È questa ispirazione profondamente umanitaria e filantropica che conferisce all’opera la sua tipicità e alla quale si deve l’interesse che ancora oggi essa suscita anche nei lettori comuni e non solo negli uomini di legge.

2 La vita Cesare Beccaria nasce da nobile famiglia a Milano nel 1738. Si laurea in legge all’Università di Pavia nel 1758. Intorno al 1762, non ancora venticinquenne, entra nella cerchia di Pietro e Alessandro Verri e si avvicina alle idee dei philosophes: legge le Lettere persiane di Montesquieu, gli scritti di Diderot, D’Alembert, Buffon, ma è soprattutto attratto dalle idee di Rousseau. Contribuisce con sette articoli alla rivista «Il Caffè», nel 1764. È in particolare Pietro Verri, animatore del gruppo, che

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lo stimola a dedicarsi allo studio della legislazione penale. Beccaria all’epoca è un giovane dalla personalità contraddittoria e dal carattere irresoluto, ma è anche, secondo la felice intuizione di Pietro Verri, una «testa fatta per tentar strade nuove». Nel 1764 esce a Livorno, anonimo, il trattato Dei delitti e delle pene, che suscita l’entusiastica adesione degli ambienti illuminati. Nel 1766 Beccaria si reca a Parigi con Alessandro Verri, dove è accolto in modo trionfale, ma poco tempo dopo, inspiegabilmente ritorna a Milano. I rapporti con i Verri si incrinano, per la tendenza di Cesare ad avocare a sé ogni merito del successo dell’opera, ma anche per le ombrosità del suo carattere, dovute in realtà a una fragilità psichica. Nel 1768 gli viene affidata la cattedra di Amministrazione e scienza delle finanze (ne ricaverà gli Elementi di economia politica). Diventa un importante funzionario governativo ed è nominato membro della Giunta per la riforma del sistema giudiziario. Nel 1785 diventa nonno: suo nipote, nato dalle nozze da lui volute tra l’inquieta figlia Giulia e un maturo gentiluomo milanese, è Alessandro Manzoni. Alessandro ha solo 9 anni quando Cesare Beccaria muore nel 1794. Nel suo capolavoro, I promessi sposi, è impossibile non avvertire l’eco delle riflessioni di suo nonno.

3 Un libro “di gruppo”? Come nacque Dei delitti e delle pene Il libretto che Cesare Beccaria compone in pochi mesi (marzo 1763 - gennaio 1764), destinato a una fortuna internazionale, non sarebbe mai nato senza lo stimolo e il forte sostegno del gruppo di amici milanesi (un’amicizia poi destinata a spegnersi tra invidie e livori). Dei delitti e delle pene non nasce infatti dalla riflessione di uno studioso isolato, ma è espressione emblematica di quel “commercio di idee” che fu tipico della cultura illuminista. In una lettera del 1° novembre 1765 Pietro Verri così rievoca la nascita del libro, mettendo in luce in un certo senso la “genesi collettiva” di esso, la cui stesura fu stimolata e poi costantemente alimentata dal “gruppo”:

[...] L’argomento gliel’ho dato io, e la maggior parte dei pensieri è il risultato delle conversazioni che giornalmente si tenevano fra Beccaria, Alessandro1, Lambertenghi2 e me. [...] Ma egli nulla sapeva dei nostri metodi criminali. Alessandro, che fu il protettore dei carcerati3, gli promise assistenza. Cominciò Beccaria a scrivere su dei pezzi di carta staccati delle idee, lo secondammo con entusiasmo, lo fomentammo tanto che scrisse una gran folla d’idee, il dopo pranzo si andava al passeggio, si parlava degli errori della giurisprudenza criminale, s’entrava in dispute, in questioni, e la sera egli scriveva. [...] Ammassato che ebbe il materiale, io lo scrissi e si diede un ordine, e si formò un libro. Appendice a Dei delitti e delle pene, a c. di F. Venturi, Einaudi, Torino 1965 1 Alessandro: è il fratello minore di Pietro. 2 Lambertenghi: il milanese Luigi Lambertenghi (1739-1813), sodale dei Verri

all’Accademia dei Pugni, collaborò con Beccaria e scrisse sul «Caffè».

3 fu il protettore dei carcerati: faceva parte di un’istituzione per la tutela giudiziaria degli indigenti.

Per certi aspetti, dunque, si potrebbe dire che Dei delitti e delle pene fu un “libro di gruppo”, frutto certo delle intuizioni e della passione civile di Cesare, ma alimentato dalle costanti discussioni con gli amici (del resto è stato dimostrato dagli studiosi L’opera più celebre dell’Illuminismo italiano: Dei delitti e delle pene di Cesare Beccaria 2 255


che interi passi dell’opera di Beccaria trovano riscontro in testi di analogo argomento del «Caffè», la rivista-manifesto dell’Illuminismo lombardo in cui non mancano pagine sulla storia del diritto). Furono poi i fratelli Verri a difendere il trattato dalle accuse del monaco Facchinei (➜ INTERPRETAZIONI CRITICHE Un libro pericoloso, PAG. 266), furono sempre loro a spingere Beccaria, alquanto restio a farlo, ad andare a Parigi per alimentare ulteriormente il successo del “loro” libro nella capitale francese. Ma Beccaria deluse tutte le loro aspettative: in preda all’ansia, fu costretto a tornare poco dopo a Milano, nonostante le insistenti lettere di Pietro Verri.

4 Il contenuto e le novità di un libro di enorme successo I temi fondamentali Beccaria sceglie di occuparsi del diritto penale perché, come spiega nell’introduzione al trattato, gli sembrava particolarmente bisognoso di una riforma: consapevole del fatto che spesso sono le disuguaglianze sociali alla base dei reati (cfr. anche l’ode pariniana Il bisogno ➜ C9 T3 OL), non per questo arriva a negare il diritto da parte dell’autorità civile di punire i colpevoli dei «delitti»: in una prospettiva prettamente laica e razionalista, Beccaria considera i reati un’infrazione del patto sociale su cui per gli illuministi si fonda la società. E chi governa (cioè il sovrano) ha l’obbligo di garantire l’ordine nella società punendo appunto i reati. Ma per regolare il rapporto fra «delitto» e pena, più in generale, per conferire al diritto penale caratteri di equità e razionalità, Beccaria prospetta alcuni princìpi basilari. Indichiamo i nuclei fondamentali della sua riflessione. • La legge deve stabilire con chiarezza ciò che è giusto e ciò che è sbagliato, distinguendo ciò che è lecito da ciò che è illecito; e la giurisprudenza deve affrancarsi da norme arcaiche e irrazionali rifluite per inerzia nel corpus delle leggi. • Per rispettare le leggi il cittadino deve poterle conoscere e capire: per questo si deve estendere il più possibile l’educazione giuridica e occorre che le disposizioni legali possano essere comprese da chiunque (➜ T4 OL). Una prospettiva, questa, estremamente attuale e che fu forse presente a Manzoni (ricordiamo che era il nipote di Cesare Beccaria) quando nei Promessi sposi scrisse pagine memorabili sulle «grida» del Seicento e sul «latinorum» di don Abbondio. • Occorre istituire un rapporto oggettivo (cioè non arbitrario) fra gravità del delitto e gravità della pena. Nella valutazione della gravità del delitto non conta né la dignità sociale del reo né quella dell’offeso (lo scrittore contesta la visione gerarchica dei rapporti sociali del tempo assumendo, almeno in teoria, una posizione egualitaria). Non si deve tener conto neppure dell’intenzione di chi ha commesso il reato, ma – in una prospettiva tutta illuminista – occorre considerare solo il «danno recato alla società». • La colpa (e di conseguenza la punizione del delitto, cioè la pena) non ha nulla a che fare neppure con il concetto cristiano di peccato: giudicare questo spetta alla Chiesa o, meglio ancora, a Dio, mentre compito della giustizia, amministrata dallo Stato, è esclusivamente valutare l’entità del danno subìto dalla società, o dal singolo in quanto membro della società. La distinzione fra peccato e delitto, posta per la prima volta con grande chiarezza, infrange la tradizionale concezione trascendentale della colpa. Si è parlato giustamente al proposito di “desacralizzazione” del diritto: esso deve essere fondato su leggi e princìpi propri, del tutto

256 Settecento 7 La svolta illuminista in Italia


autonomi dalla sfera religiosa. È questo l’aspetto più innovativo dell’opera di Beccaria, che ne fa la pietra miliare nella storia del diritto. • Di conseguenza la pena non deve avere come obiettivo l’espiazione morale, ma deve avere un valore puramente strumentale, costituendo un esempio deterrente per la collettività e un risarcimento del danno da essa subìto, senza per questo essere inutilmente crudele (➜ T6 ). Risultano infatti più efficaci pene moderate, ma certe, somministrate dopo processi rapidi. • La parte più celebre del trattato contiene una critica convinta della tortura (➜ T5 ), allora strumento comune per estorcere confessioni di colpa (vera o presunta), definito con indignazione «orribile crogiolo di verità», e l’attacco (certamente non scontato) contro la pena di morte (➜ T6 ). Al tempo, la pena di morte era accettata anche dalla Chiesa, praticata ovunque e in forme spesso terribilmente crudeli, con pubbliche esecuzioni, che costituivano una sorta di spettacolo offerto alle masse incolte. • Beccaria, che solo in rarissimi casi ammette la pena di morte, con grande vigore argomentativo ne mette in luce l’inutilità a scopo preventivo: non è affatto vero che la pena capitale costituisca un monito adatto a distogliere altri dal commettere gravi reati; uccidendo un individuo si dà solo un cattivo esempio. Ed è assurdo che la legge si macchi di quello stesso omicidio che intende punire. • Ben più efficace è la condanna a riparare a vita con il lavoro forzato il danno inferto dal criminale alla società. La prima circolazione e l’attacco degli ambienti ecclesiastici Dei delitti e delle pene, come si è detto, viene stampato anonimo nel luglio 1764 e già ad agosto – secondo la testimonianza di Pietro Verri (che ne era in un certo senso il padrino) – se ne erano vendute 520 copie, così da suscitare il sospetto degli inquisitori, che a Venezia si mettono subito sulle tracce del libro e ne seguono la diffusione con crescente diffidenza. Un anno dopo il monaco Ferdinando Facchinei nelle sue Note ed osservazioni sul libro intitolato “Dei delitti e delle pene” lo accusa con toni aspri, individuando nel libro la presenza di una pericolosa utopia egualitaria (Beccaria sarebbe il «Rousseau degli italiani»), ma soprattutto leggendovi un attacco alle istituzioni e alla religione (➜ T3 OL). Nel 1766 il libro di Beccaria è all’Indice dei libri proibiti.

EDUCAZIONE CIVICA

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Una riflessione giuridica di sorprendente attualità Quelle sopra ricordate sono certo le più note prese di posizione di Beccaria, ma non meno importanti sono spunti apparentemente minori e meno conosciuti del trattato, che ne evidenziano ancor di più la sorprendente modernità e insieme l’importanza nella storia del diritto, e più in generale nella storia della difesa di diritti umani. Ne ricordiamo qui almeno alcuni. • È necessario prima del processo una fase preliminare di ricerca delle prove (oggi chiamata istruttoria) al termine della quale l’accusa può anche cadere e l’imputato può essere rimesso in libertà senza essere più sottoposto a processo. • La detenzione preventiva va fissata in termini chiari di legge e sottratta alla discrezionalità del giudice (i cui compiti, più in generale, Beccaria distingue nettamente da quelli del pubblico ministero).

nucleo Costituzione competenza 2

• Fino a che non si hanno prove certe di colpevolezza, l’imputato di un crimine va a tutti gli effetti considerato innocente. • Processi e sentenze devono essere pubblici. Il giudizio finale deve essere affidato, al termine dell’istruttoria, a una giuria i cui membri vanno sorteggiati. • Non devono mai essere ammesse accuse segrete e delazioni. • L e carceri non possono essere luoghi di squallore e di violenza. (Se per le condizioni disagevoli di vita e la degradante promiscuità che regnano ancora oggi in molti istituti carcerari, a causa del numero eccessivo dei detenuti, le carceri diventano scuole di criminalità anziché di rieducazione, questo testimonia in modo lampante la grande attualità del messaggio di Beccaria.)

L’opera più celebre dell’Illuminismo italiano: Dei delitti e delle pene di Cesare Beccaria 2 257


La fortuna europea del trattato Tuttavia la sua fortuna cresce sempre più (come del resto accadeva in Francia a molti libri proibiti e perseguitati dalla censura) e varca prestissimo i confini d’Italia: nello stesso 1766 l’abate Morellet (1727-1819), collaboratore dell’Encyclopédie, pubblica la traduzione francese dell’opera, che immette il libretto di Beccaria nel circuito internazionale. Importante per il successo dell’opera fu poi il “battesimo” ufficiale di Beccaria come philosophe da parte di Voltaire che, entusiasta dell’opera, nello stesso 1766 pubblica un suo Commento all’opera del Beccaria. La grande fortuna del libro, tradotto nelle principali lingue europee (inglese, tedesco, olandese spagnolo), incentiva in tutta Europa il dibattito sulla riforma del diritto penale: addirittura una sovrana, Caterina di Russia, chiede a Beccaria (che però declina l’invito) di collaborare alla riforma del codice penale russo. Di fatto, però, un solo paese, la Toscana di Pietro Leopoldo, abolisce la pena di morte, ma certamente grazie al trattato era aperta la strada a un dibattito di grande rilevanza civile che arriva fino ai giorni nostri.

Dei delitti e delle pene (1764) prima

dopo

• arbitrio e irregolarità delle procedure • segretezza delle accuse e del processo • assenza di garanzie per l’imputato • pratica sistematica della tortura in fase di istruttoria • crudeltà delle pene

• distinzione netta tra colpa (e conseguente punizione del delitto = pena) e peccato • rapporto promozionale fra gravità del delitto e gravità della pena • pubblicità del procedimento giudiziario e delle sentenze • presunzione di innocenza • rifiuto della tortura • condanna della pena di morte

online T3 Cesare Beccaria

Autodifesa Dei delitti e delle pene, Premessa

online T4 Cesare Beccaria

Contro l’oscurità delle leggi Dei delitti e delle pene, capp. V e XLI

Fissare i concetti La svolta illuminista in Italia 1. Quali sono i principali poli propulsivi delle idee illuministe in Italia? 2. A quali modelli si ispira la rivista «Il Caffè»? 3. Quali sono i caratteri originali dell’Illuminismo italiano rispetto a quello francese? 4. Perché il saggio Dei delitti e delle pene può essere definito un “libro di gruppo”? 5. A quali aspetti si può ricondurre il successo immediato che l’opera riscosse sia in Italia sia a livello internazionale? 6. Da chi fu osteggiata la diffusione del trattato di Beccaria? Per quali ragioni? 7. Che cosa si intende con “desacralizzazione” del diritto? 8. La trattazione di quale tematica in particolare fu un’assoluta novità per l’epoca?

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Cesare Beccaria

La tortura è una consuetudine barbara

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Dei delitti e delle pene, cap. XVI Il capitolo XVI è uno dei più famosi del trattato: Cesare Beccaria vi affronta il tema della tortura, pratica giudiziaria assai diffusa nella fase istruttoria (ovvero preliminare) dei processi criminali. Dato che i giudici potevano condannare solo i rei confessi, lo scopo della tortura era principalmente quello di ottenere la confessione del reato commesso da parte dell’inquisito. Beccaria pronuncia parole di indignata riprovazione contro una pratica che considera inutile e dannosa come strumento inquisitoriale e lesiva dei diritti della persona umana.

C. Beccaria, Dei delitti e delle pene, a c. di F. Venturi, Einaudi, Torino 1965

AUDIOLETTURA

Una crudeltà consacrata dall’uso nella maggior parte delle nazioni è la tortura del reo mentre si forma il processo, o per costringerlo a confessare un delitto, o per le contradizioni nelle quali incorre, o per la scoperta dei complici1, o per non so quale metafisica ed incomprensibile purgazione d’infamia2, o finalmente3 per altri delitti 5 di cui potrebbe esser reo, ma dei quali non è accusato. Un uomo non può chiamarsi reo prima della sentenza del giudice, né la società può togliergli la pubblica protezione, se non quando sia deciso ch’egli abbia violati i patti coi quali le fu accordata. Quale è dunque quel diritto, se non quello della forza4, che dia la podestà ad un giudice di dare una pena ad un cittadino, mentre 10 si dubita se sia reo o innocente? Non è nuovo questo dilemma: o il delitto è certo o incerto: se certo, non gli conviene altra pena che la stabilita dalle leggi5, ed inutili sono i tormenti, perché inutile è la confessione del reo; se è incerto, e’ non devesi6 tormentare un innocente, perché tale è secondo le leggi un uomo i di cui delitti non sono provati. Ma io aggiungo di più, ch’egli7 è un voler confondere tutt’i rapporti 15 l’esigere che un uomo sia nello stesso tempo accusatore ed accusato8, che il dolore divenga il crociuolo della verità9, quasi che il criterio di essa risieda nei muscoli e nelle fibre di un miserabile. Questo è il mezzo sicuro di assolvere i robusti scellerati e di condannare i deboli innocenti.

1 per la scoperta dei complici: per costringerlo a rivelare i nomi dei complici. 2 per non so quale... d’infamia: per non so quale ipotetica espiazione dell’infamia. Attraverso il dolore fisico provocato dalla tortura il reo espierebbe l’infamia della sua condotta e la confessione estorta dalla tortura sarebbe quasi un corrispettivo della confessione dei peccati. Un’analogia che la

concezione laica della colpa (e della pena) proprie di Beccaria respinge con sdegno. 3 finalmente: infine. 4 se non quello della forza: la forza è qui contrapposta al diritto, legge della ragione. 5 non gli conviene... leggi: non gli si adatta altra pena se non quella stabilita dalla legge. 6 non devesi: non si deve. 7 egli: pleonastico.

8 un uomo sia... accusato: con la tortura si ottiene l’effetto paradossale che accusato e accusatore si identifichino, poiché il torturato arriva appunto ad autoaccusarsi magari di colpe che neppure ha commesso. 9 crociuolo della verità: lo strumento per distinguere la verità. Il crogiolo (crociuolo) è propriamente il recipiente in cui si fondono i metalli, separandoli dalle scorie.

Analisi del testo Alle radici del garantismo Il tema della tortura era vivamente sentito nell’ambiente dell’Illuminismo lombardo e aveva alimentato accesi dibattiti. Per scrivere queste pagine Beccaria attinge a materiali raccolti da Pietro Verri in quegli anni e che troveranno un’esposizione più sistematica nelle sue Osservazioni sulla tortura (stese nel 1777 ma pubblicate postume nel 1804). Mentre la trattazione di Verri è caratterizzata da una disamina pacata del tema, il testo di Beccaria, come si può notare anche nello stralcio proposto, è animato da un forte pathos, dovuto alla personale partecipazione dello scrittore, al suo orrore per tutto ciò che compromette la dignità della persona umana. L’idea, che ricorre anche in altre pagine del trattato, che l’imputato debba considerarsi inno-

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cente fino a che non sia dichiarato ufficialmente colpevole (è la cosiddetta “presunzione di innocenza”) è alla base del moderno garantismo . L’abolizione della tortura, attuata nei territori governati dagli Asburgo fin dal 1776, sarà ostacolata nello stato di Milano dall’opposizione dei conservatori, con a capo proprio il padre di Pietro Verri, e si realizzerà solo nel 1784 nell’ambito delle riforme attuate da Giuseppe II. Le legislazioni di tutti i paesi civili non prevedono più la tortura, ma neppure le pene corporali e agli accusati di reati viene garantito il rispetto della dignità umana: fin dal 1948 la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo sancisce che «Nessun individuo potrà essere sottoposto a tortura o a trattamento e punizione crudeli, inumani e degradanti» (art. 13). La tortura del “tratto di corda” in un celebre dipinto del 1720 di Alessandro Magnasco, Interrogatorio dell’Inquisizione (Vienna, Kunsthistorisches Museum).

Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

SINTESI 1. Qual è la tesi sostenuta da Beccaria a proposito della tortura? Sintetizzala in 5 righe. ANALISI 2. Quali elementi rivelano la personale partecipazione dello scrittore e la natura tutta illuminista di questo passo?

Interpretare

SCRITTURA 3. I princìpi che ispirano il passo sono: laicismo, umanitarismo, garantismo. In un breve testo (massimo 20 righe) cerca di motivare questa asserzione. SCRITTURA ARGOMENTATIVA

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nucleo

Costituzione

Parola chiave

competenza 1, 2

4. Nell’Articolo 1 della Convenzione delle Nazioni Unite contro la tortura e altre pene o trattamenti crudeli, inumani o degradanti, il termine “tortura” è definito come «qualsiasi atto con il quale sono inflitti ad una persona dolore o sofferenze acute, fisiche o psichiche, segnatamente al fine di ottenere da questa o da una terza persona informazioni o confessioni, di punirla per un atto che ella o una terza persona ha commesso o è sospettata di aver commesso, di intimidirla o esercitare pressioni su di lei o di intimidire od esercitare pressioni su una terza persona, o per qualunque altro motivo basato su una qualsiasi forma di discriminazione, qualora tale dolore o tali sofferenze siano inflitti da un funzionario pubblico o da qualsiasi altra persona che agisca a titolo ufficiale, o sotto sua istigazione, oppure con il suo consenso espresso o tacito». Svolgi una ricerca in Rete e raccogli informazioni su quali altre convenzioni sopranazionali riconoscono la libertà dalla tortura come diritto umano fondamentale.

garantismo Il garantismo è un principio fondamentale degli stati di diritto e prevede una serie di garanzie giuridiche a tutela dei diritti e delle libertà dell’individuo contro gli eccessi dei pubblici poteri, in particolare nei processi penali. Tappe fondamentali nella storia del garantismo furono la Petition of Rights (1628) e il Bill of Rights (1689) in Inghilterra, la Costituzione americana nella seconda metà del Settecento e la Dichiarazione dei

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diritti dell’uomo e del cittadino del 1789. Il garantismo è una conquista delle moderne democrazie, così radicata che talvolta in Italia, nel caso di crimini particolarmente efferati e di atti di terrorismo, si sente parlare di iper-garantismo, ovvero di una protezione dei diritti del singolo da parte dello Stato addirittura eccessiva.


Cesare Beccaria

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Le pene eccessivamente crudeli e la pena di morte sono disumane e inutili per prevenire i delitti

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Dei delitti e delle pene, capp. XXVII-XXVIII C. Beccaria, Dei delitti e delle pene, a c. di F. Venturi, Einaudi, Torino 1965

Il passo proposto costituisce un’ampia parte del capitolo dedicato alla pena di morte, sicuramente il più famoso dell’opera e sempre riprodotto dalle antologie scolastiche. Anche noi facciamo questa scelta per il forte impatto che questo testo ancora oggi ha sui lettori, grazie alla tensione etica che lo percorre e che si condensa nel finale del testo, in cui Beccaria affida alla ripetizione della parola «assassinio» la denuncia del paradosso della pena di morte: si vuole combattere l’assassinio con un assassinio legale.

Uno dei più gran freni dei delitti non è la crudeltà delle pene, ma l’infallibilità di esse1, e per conseguenza la vigilanza dei magistrati, e quella severità di un giudice inesorabile, che, per essere un’utile virtù, dev’essere accompagnata da una dolce legislazione2. La certezza di un castigo, benché moderato, farà sempre una maggiore impressione 5 che non il timore di un altro più terribile, unito colla speranza dell’impunità [...]. Questa inutile prodigalità di supplicii3, che non ha mai resi migliori gli uomini, mi ha spinto ad esaminare se la morte sia veramente utile e giusta4 in un governo bene organizzato. Qual può essere il diritto che si attribuiscono gli uomini di trucidare i loro simili? Non certamente quello da cui risulta la sovranità e le leggi5. Esse non 10 sono che una somma di minime porzioni della privata libertà di ciascuno; esse rappresentano la volontà generale, che è l’aggregato delle particolari. Chi è mai colui che abbia voluto lasciare ad altri uomini l’arbitrio di ucciderlo? Come mai nel minimo sacrificio della libertà di ciascuno vi può essere quello del massimo tra tutti i beni, la vita? E se ciò fu fatto, come si accorda un tal principio coll’altro, che 15 l’uomo non è padrone di uccidersi, e doveva esserlo se ha potuto dare altrui questo diritto o alla società intera6? Non è dunque la pena di morte un diritto, mentre ho dimostrato che tale essere non può, ma è una guerra della nazione con un cittadino, perché giudica necessaria o utile la distruzione del suo essere. Ma se dimostrerò non essere la morte né utile 20 né necessaria, avrò vinto la causa dell’umanità7. La morte di un cittadino non può credersi necessaria che per due motivi. Il primo, quando anche privo di libertà egli abbia ancora tali relazioni e tal potenza che interessi la sicurezza della nazione8; quando la sua esistenza possa produrre una ri1 l’infallibilità di esse: la sicurezza che le pene saranno di sicuro inflitte a chi si è reso colpevole di gravi reati. 2 dolce legislazione: leggi che prevedano pene non esageratamente crudeli. 3 prodigalità di supplicii: abbondanza di pene. 4 utile e giusta: l’analisi riguarderà dunque l’utilità sociale della pena di morte e il fondamento giuridico che può sostenerla. 5 Non certamente... leggi: non certo il diritto su cui si fonda l’esistenza dello Stato: esso nasce dalla rinuncia di ognu-

no a una piccola parte della libertà per garantire il bene di tutti. Di questa rinuncia sono espressione le leggi dello Stato. Si tratta di una concezione che risale al pensiero di John Locke espresso nel Trattato sul governo. 6 E se ciò... intera: Beccaria si chiede come si possa accordare la norma che proibisce all’uomo di uccidersi con la delega all’intera società del diritto di uccidere un uomo, e contesta, quindi, subito dopo, che la pena di morte appartenga alla sfera del diritto.

7 Ma se dimostrerò... la causa dell’umanità: dichiarazione enfaticamente solenne di carattere prettamente illuminista. Come i philosophes francesi, e in particolare Voltaire, Beccaria assume qui il ruolo di “avvocato dell’umanità”. 8 anche privo... nazione: la pena di morte può essere inflitta solo per gravissimi motivi di sicurezza dello Stato: quando un individuo, anche in prigione (privo di libertà), abbia amicizie e legami così potenti da minacciare la sicurezza della nazione.

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voluzione pericolosa nella forma di governo stabilita9. La morte di qualche cittadino 25 divien dunque necessaria quando la nazione ricupera o perde la sua libertà10, o nel tempo dell’anarchia, quando i disordini stessi tengon luogo di leggi11; ma durante il tranquillo regno delle leggi, in una forma di governo per la quale i voti della nazione siano riuniti12, ben munita al di fuori e al di dentro dalla forza e dalla opinione13, forse più efficace della forza medesima, dove il comando non è che presso il vero 30 sovrano, dove le ricchezze comprano piaceri e non autorità, io non veggo necessità alcuna di distruggere un cittadino, se non quando la di lui morte fosse il vero ed unico freno per distogliere gli altri dal commettere delitti, secondo motivo per cui può credersi giusta e necessaria la pena di morte14. Quando15 la sperienza di tutt’i secoli, nei quali l’ultimo supplicio non ha mai distolti 35 gli uomini determinati dall’offendere la società, quando l’esempio dei cittadini romani, e vent’anni di regno dell’imperatrice Elisabetta di Moscovia, nei quali diede ai padri dei popoli quest’illustre esempio [...] non persuadessero gli uomini, a cui il linguaggio della ragione è sempre sospetto ed efficace quello dell’autorità16, basta consultare la natura dell’uomo per sentire la verità della mia assersione17. 40 Non è l’intensione della pena18 che fa il maggior effetto sull’animo umano, ma l’estensione di essa; perché la nostra sensibilità è più facilmente e stabilmente mossa da minime ma replicate impressioni che da un forte ma passeggiero movimento19. L’impero dell’abitudine20 è universale sopra ogni essere che sente, e come l’uomo parla e cammina e procacciasi i suoi bisogni col di lei aiuto, così l’idee morali non 45 si stampano nella mente che per durevoli ed iterate percosse21. Non è il terribile ma passeggiero spettacolo della morte di uno scellerato, ma il lungo e stentato22 esempio di un uomo privo di libertà, che, divenuto bestia di servigio23, ricompensa colle sue fatiche quella società che ha offesa, che è il freno più forte contro i delitti. Quell’efficace, perché spessissimo ripetuto ritorno sopra di noi medesimi24, io stesso sarò ridotto 50 a così lunga e misera condizione se commetterò simili misfatti, è assai più possente che non l’idea della morte, che gli uomini veggon sempre in una oscura lontananza. La pena di morte fa un’impressione che colla sua forza non supplisce alla pronta dimenticanza, naturale all’uomo anche nelle cose più essenziali, ed accelerata dalle passioni. Regola generale: le passioni violente sorprendono gli uomini, ma non per 55 lungo tempo, e però sono atte a fare quelle rivoluzioni25 che di uomini comuni ne

9 una rivoluzione... stabilita: un sovvertimento pericoloso della forma di governo vigente. 10 quando... libertà: nei momenti di rivolgimento politico. 11 nel tempo… di leggi: il senso è: in condizioni eccezionali di ingovernabilità l’esercizio della legalità è compromesso. 12 per la quale... riuniti: attraverso la quale le aspettative e gli interessi di tutti i cittadini siano uniti. 13 dalla opinione: dal consenso dei cittadini. 14 se non quando... la pena di morte: l’ipotesi che la pena di morte possa essere uno strumento deterrente dal commettere reati verrà smentita dal seguito della trattazione. 15 Quando: se. Come i successivi quando, si deve collegare a non persuadessero (r. 37). Dopo aver ricordato che la pena

di morte (l’ultimo supplicio) non ha mai distolto i criminali dal commettere delitti, Beccaria enuncia l’esempio di Roma e dell’imperatrice Elisabetta di Moscovia, sovrana di Russia, che diede agli altri regnanti (padri dei popoli) un grande esempio, abolendo la pena di morte (1753). Probabilmente Beccaria non era però informato del fatto che Elisabetta era celebre per la crudeltà delle pene inflitte, forse anche peggiori della pena di morte. 16 a cui... autorità: pessimistica osservazione sulla natura umana: gli uomini si lasciano più facilmente convincere dal linguaggio dell’autorità che da quello della ragione. 17 assersione: asserzione, affermazione. 18 l’intensione della pena: l’intensità della pena (contrapposto alla durata,

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estensione, di essa). Beccaria contrappone l’ergastolo alla pena di morte, perché maggiormente “utile” come deterrente. 19 movimento: turbamento (quello, forte appunto, ma passeggero, suscitato dalla pena di morte). 20 L’impero dell’abitudine: la forza dell’abitudine. 21 durevoli ed iterate percosse: stimoli duraturi e continuati. 22 stentato: penoso. 23 bestia di servigio: animale da fatica. 24 Quell’efficace... noi medesimi: la frase subito dopo riportata in corsivo si imprimerà nella mente di ognuno ripetendola come un ritornello. 25 atte a fare quelle rivoluzioni: adatte a causare quei cambiamenti radicali.


fanno o dei Persiani o dei Lacedemoni26; ma in un libero e tranquillo governo le impressioni debbono essere più frequenti che forti. La pena di morte diviene uno spettacolo per la maggior parte e un oggetto di compassione mista di sdegno per alcuni; ambidue questi sentimenti occupano più 60 l’animo degli spettatori che non il salutare terrore che la legge pretende inspirare. Ma nelle pene moderate e continue il sentimento dominante è l’ultimo27 perché è il solo. Il limite che fissar dovrebbe il legislatore al rigore delle pene sembra consistere nel sentimento di compassione, quando comincia a prevalere su di ogni altro nell’animo degli spettatori d’un supplicio più fatto per essi che per il reo28. [...]. 65 Non è utile la pena di morte per l’esempio di atrocità che dà agli uomini. Se le passioni o la necessità della guerra hanno insegnato a spargere il sangue umano, le leggi moderatrici della condotta degli uomini non dovrebbono aumentare il fiero esempio, tanto più funesto quanto la morte legale è data con istudio e con formalità29. Parmi un assurdo che le leggi che sono l’espressione della pubblica volontà, 70 che detestano e puniscono l’omicidio, ne commettono uno esse medesime, e, per allontanare i cittadini dall’assassinio, ordinino un pubblico assassinio. 26 che di uomini... Lacedemoni: che trasformano uomini comuni in eroi della storia. 27 l’ultimo: ovvero il salutare terrore. 28 Il limite... per il reo: Beccaria pensa che la durezza delle pene non debba mai

essere tale da suscitare compassione per il reo, che finirebbe per sostituirsi al terrore della pena. 29 tanto più funesto... formalità: a differenza della morte data in guerra casualmente e per necessità, quella inflitta per

disposizione legale è ricercata deliberatamente (con istudio) e inflitta con tutti i crismi dell’ufficialità, secondo un rituale preciso (con formalità). E questo la rende ancora più odiosa e deprecabile.

Analisi del testo Le motivazioni contro la pena di morte Le motivazioni che inducono Beccaria a respingere, tranne in casi eccezionali, la pena di morte sono principalmente due, l’una di carattere giuridico, l’altra di carattere utilitaristico e pragmatico. La pena di morte: 1. è illegittima perché costituisce un’infrazione del patto sociale, che non può aver delegato a nessuno il diritto di uccidere un altro uomo; 2. non è un utile deterrente per i potenziali criminali, come è dimostrato dal corso della storia. Per la prevenzione dei delitti ha più efficacia la minacciosa prospettiva di una pena costante nel tempo (l’ergastolo) che non le impressioni forti, ma transitorie, offerte dallo spettacolo di un’esecuzione capitale. Anzi, spesso la compassione prende il posto del terrore che l’esecuzione dovrebbe suscitare. A queste principali contestazioni si aggiunge l’osservazione critica secondo cui lo spettacolo di una violenza pubblica legalizzata ed eseguita con macabri rituali costituisce un esempio negativo per i cittadini, che vedono lo Stato nel ruolo di assassino proprio mentre vuole combattere gli assassinii. La violenza legalizzata non può che produrre nuova violenza.

Un frontespizio di forte evidenza simbolica suggerito dall’autore stesso

Nel dicembre 1764 Beccaria dà all’editore del suo libro, Giuseppe Aubert, indicazioni molto precise per il frontespizio dell’opera che furono pienamente seguite. È interessante che Beccaria stesso abbia dato particolare rilevanza proprio al capitolo che poi sarebbe diventato il più celebre, ovvero quello sulla pena di morte, per sintetizzare e simboleggiare lo spirito complessivo della sua opera. Beccaria chiede che venga riprodotto «un manigoldo [boia] con una mano pendente che tiene un inviluppo di corda da cui pende una taglia [...] ed una sciabola [...] abbassata, e coll’altra mano terrà per la ciocca dei capelli due o tre teste recise e grondanti, che le presenta alla Giustizia, la quale col destro braccio teso in atto quasi di respingere il manigoldo e colla sinistra mano quasi nascondendo per orrore il suo volto dal medesimo si rivolge e guarda la sua bilancia, di cui una lance [un piatto] appoggiando sopra di un sasso, l’altra posa più basso sopra un fascio di varii stromenti di lavoro, come sarebbero zappe, badili, seghe e martelli pittorescamente intralciate e avviluppate di catene con manette all’estremità».

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Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

COMPRENSIONE 1. Nella sua analisi sulla pena di morte, Beccaria parte da un interrogativo. Quale? 2. Quali sono per Beccaria i due motivi che possono giustificare l’eccezionale ricorso alla pena di morte? ANALISI 3. Che tipo di argomentazioni Beccaria utilizza contro la pena di morte? Si tratta di argomentazioni etiche e umanitarie o di altro tipo? LESSICO 4. Individua nel testo le espressioni e i termini che evidenziano: a. il rigore logico dell’argomentazione; b. il pathos umanitario di Beccaria e l’energia delle sue convinzioni. 5. Rintraccia nel testo e trascrivi i molteplici termini e le espressioni che rimandano alla prospettiva illuminista. STILE 6. Nella prima parte del passo puoi notare la frequenza di proposizioni interrogative: quale effetto producono?

Interpretare

SCRITTURA 7. A proposito delle pene, Beccaria contrappone intensione ed estensione («Non è l’intensione della pena che fa il maggior effetto sull’animo umano, ma l’estensione di essa»): spiega il significato dei due termini in rapporto al contesto e il senso della contrapposizione, anche in relazione con la finalità dell’opera (max 10 righe). COMPETENZA DIGITALE

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Costituzione

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8. L’articolo 27 della nostra Costituzione statuisce la non ammissione della pena di morte e in Italia e afferma che le pene devono essere finalizzate alla rieducazione del condannato; tuttavia, purtroppo, la pena di morte è ancora presente in numerosi stati del mondo. Ogni anno l’organizzazione non governativa Amnesty International pubblica un rapporto sulla pena di morte nel mondo. Svolgi una ricerca online sui dati presentati nel rapporto dell’ultimo anno e prepara una presentazione multimediale delle informazioni a tuo avviso più rilevanti che emergono da esso.

Studiare con l’immagine 9. In risposta polemica all’Allegoria della Giustizia che compariva sul frontespizio dell’opera di Beccaria (vedi immagine qui accanto), nel 1772 venne riprodotta un’altra Allegoria della Giustizia per Il diritto di punire o sia risposta al Trattato de’ Delitti e delle pene del signor marchese di Beccaria (pubblicato anonimo, ma scritto da Antonio Silla). Cercala in Rete e istituisci un confronto con l’immagine presente nel testo di Beccaria, qui riprodotta.

Allegoria della Giustizia che respinge con la mano le teste mozzate, dal frontespizio dell’edizione livornese di Dei delitti e delle pene (incisione di Giovanni Lapi, 1764).

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EDUCAZIONE CIVICA

Il cammino verso l’abolizione della pena di morte in Italia L’Italia, la patria di Cesare Beccaria, fu il primo paese del mondo nel quale un piccolo Stato (il Granducato di Toscana) sancì l’abolizione della pena di morte (1786) proprio sull’onda del testo dello scrittore. Dopo l’unificazione, nel 1889 la pena di morte fu abolita nell’intera nazione dal Codice penale Zanardelli (dal nome del ministro di Grazia e giustizia che ne promosse l’approvazione), di orientamento liberale e ispirato a princìpi di garanzia di matrice illuministica. Fu reintrodotta durante la dittatura fascista dal nuovo Codice penale Rocco (1931), insieme al generale inasprimento delle sanzioni, per gli attentati contro il duce e il re e successivamente per gravi reati comuni. Mussolini ebbe buon gioco a utilizzare Dei delitti e delle pene, già da allora

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considerato un caposaldo del garantismo e il principale testo contro la pena di morte, appellandosi alla prima parte del capitolo XXVIII del trattato in cui si ammette in casi eccezionali la pena capitale. La Costituzione italiana, stilata nel 1948 dopo la caduta del fascismo e la fine del secondo conflitto mondiale, si riallaccia invece nuovamente allo spirito autentico del trattato del Beccaria e all’art. 27 afferma: «Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato. Non è ammessa la pena di morte se non nei casi previsti dalle leggi militari di guerra» (ma nel 1994 la pena di morte è stata abolita ufficialmente anche dal codice militare).

Le immagini sono tratte da campagne di sensibilizzazione contro la tortura e la pena di morte di Amnesty International, ONG fondata nel 1961, per la difesa e promozione dei diritti umani nel mondo, Nobel per la pace nel 1977.

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INTERPRETAZIONI CRITICHE

Franco Venturi Un libro pericoloso Nel passo lo storico Franco Venturi (1914-1994) chiarisce il senso del violento attacco sferrato al libretto di Beccaria da Ferdinando Facchinei, monaco benedettino della congregazione di Vallombrosa (1725-post 1814), dopo che già l’Inquisizione a Venezia si era allertata. Facchinei aveva colto la pericolosa carica innovativa del libro e si faceva interprete dei timori degli ambienti conservatori.

F. Venturi, Introduzione a C. Beccaria, Dei delitti e delle pene, a c. di F. Venturi, Einaudi, Torino 1965

Contro il «Rousseau degli italiani», contro questo «socialista» – quest’ultima parola venne coniata e usata allora, per la prima volta, come un’arma contro Beccaria – si levarono dapprima i sospetti, le paure degli Inquisitori di stato di Venezia e le oscure, violente minacce d’un frate vallombrosano, Ferdinando Facchinei, che questi 5 timori governativi del patriziato veneto intendeva interpretare e sfruttare. Avevano temuto gli uni che l’aperta lotta di Beccaria contro i metodi inquisitoriali rinfocolasse gli scontenti e le critiche che anche a Venezia, malgrado tanta apparente immobilità, non eran mancati in quegli anni, nella stessa classe dirigente aristocratica. Aveva visto Facchinei che la volontà di riforma di Beccaria poggiava su di un 10 presupposto egualitario che rovesciava tutta la tradizione dei vecchi stati italiani e toccava le radici stesse delle società d’antico regime. Agitò quel fondo di paura che era emerso in non pochi lettori di fronte al pensiero e le conseguenze ultime delle riforme chieste e volute da Beccaria. Sostenne la tortura, la pena di morte, l’Inquisizione, dicendo che sarebbe bastato toccare uno soltanto di quei pilastri della società 15 perché questa tutta intera crollasse. L’idea di uomini liberi e uguali era una utopia. Proprio verso di essa guardava e tendeva il libro Dei delitti e delle pene. Tutto ciò non era soltanto un errore, ma una colpa. Separare tanto nettamente, come Beccaria aveva fatto, il delitto dal peccato, volere una giustizia tutta umana, tutta fondata sul calcolo del danno portato alla società da chi aveva violato le leggi, 20 era sconsacrare l’umana convivenza, era non soltanto eliminare l’influenza della Chiesa nelle umane vicende, ma negare l’orrore religioso del delitto e della colpa. Nelle pagine di Facchinei, pur cosí pesanti e scolastiche, stava una reazione rivelatrice. Là si esprimeva la paura di abbandonare le vecchie protezioni, le antiche consolazioni per trovarsi soli e nudi di fronte al problema della disuguaglianza e 25 della ingiustizia.

Analisi e produzione di un testo argomentativo Comprensione e analisi

1. Ricostruisci la struttura del passo di Venturi e commenta con parole tue gli snodi fondamentali dell’argomentazione. 2. Spiega il senso degli epiteti rivolti a Beccaria. 3. Sintetizza in 5 righe gli elementi di pericolosità che Facchinei vedeva nel testo di Beccaria. 4. Spiega il significato dell’ultimo capoverso del testo («Nelle pagine di Facchinei… della disuguaglianza e della ingiustizia», rr. 22-25).

Produzione

5. Come sottolinea Venturi, l’opuscolo di Beccaria aveva una potente carica eversiva che suscitò le reazioni preoccupate degli ambienti ecclesiastici e in generale conservatori, ma fu anche all’origine dell’interesse e del successo immediato riscosso in tutta Europa e ancora vivo oggi. Sulla base delle tue conoscenze di studio e confrontandoti con quanto sostenuto nel testo, discuti la grande novità dell’opera di Beccaria e le ragioni della sua attualità. Elabora le tue riflessioni al riguardo sviluppandole in un testo argomentativo in cui tesi e argomenti siano organizzati in un discorso coerente e coeso.

266 Settecento 7 La svolta illuminista in Italia


Settecento La svolta illuminista in Italia

Sintesi con audiolettura

1 I caratteri generali dell’Illuminismo italiano

Un Illuminismo riformista e moderato Nella seconda nella seconda metà del Settecento nella Lombardia di Maria Teresa d’Austria e nella Napoli di Carlo III di Borbone ha inizio una politica di riforme, con il supporto attivo della classe intellettuale più progressista, e si afferma una visione culturale ispirata ai princìpi dell’Illuminismo. Centro principale dell’Illuminismo italiano è Milano, in cui operano i fratelli Verri, fondatori della rivista «Il Caffè» (1764-1766) e Cesare Beccaria autore del trattato Dei delitti e delle pene. In sintonia con le più generali posizioni dell’illuminismo francese, anche «Il Caffè» si batte per una cultura più aperta e moderna, ma gli illuministi italiani sono lontani dal raccogliere le istanze più radicali dei philophes francesi. L’Illuminismo italiano ha, dunque, caratteri riformistici ed è improntato alla moderazione.

più celebre dell’Illuminismo italiano: Dei delitti e delle pene di 2 L’opera Cesare Beccaria Il problema della riforma del diritto e l’opera di Cesare Beccaria Cesare Beccaria appartiene al gruppo degli intellettuali lombardi della rivista «Il Caffè» che si proponevano di modificare le istituzioni e di riformare il diritto sulla base degli ideali illuministi ed è in questo contesto che nasce l’ispirazione che porta alla stesura nel 1764 di Dei delitti e delle pene (il latinismo «delitti» significa “reati”). Il saggio ebbe grande successo grazie alla scelta dell’autore di restringere il campo dell’analisi all’ambito penale del diritto. Elementi costitutivi del pensiero di Beccaria sono il valore assoluto della persona umana e l’orrore per la crudeltà gratuita delle pene. La vita Cesare Beccaria nasce da una nobile famiglia milanese nel 1738, nel 1758 si laurea in legge all’Università di Pavia e ancora giovane entra nella cerchia di Pietro e Alessandro Verri, avvicinandosi alle idee dei philosophes. Nel 1764 pubblica Dei delitti e delle pene. Nel 1768 diventa un importante funzionario governativo ed è nominato membro della Giunta per la riforma del sistema giudiziario. Nel 1785 diventa nonno: suo nipote è Alessandro Manzoni, nato dalle nozze della figlia Giulia con un maturo gentiluomo milanese. Muore a Milano nel 1794. Un libro di “gruppo”? Come nacque Dei delitti e delle pene Il libretto di Beccaria ha una genesi collettiva: nasce grazie a un commercio di idee maturate del gruppo degli intellettuali milanesi. Il contenuto e le novità di un libro di enorme successo Beccaria considera i reati un’infrazione del patto sociale. Tema centrale del saggio è l’equo rapporto tra il delitto e la pena, che secondo Beccaria deve essere regolato da princìpi basilari. - La legge deve stabilire con chiarezza ciò che è giusto e ciò che è sbagliato, senza possibilità di interpretazioni arbitrarie e senza difesa di privilegi sociali. - Deve essere istituito un rapporto oggettivo tra la gravità del delitto e la gravità della pena. Sintesi Settecento

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- La colpa deve essere distinta dal concetto cristiano di peccato. Si è parlato a questo proposito di desacralizzazione del diritto. - La pena, di conseguenza, non deve avere come obiettivo l’espiazione morale, ma deve costituire un deterrente per la collettività e un risarcimento per il danno da essa subito. Le enunciazioni più celebri del trattato sono il rifiuto della tortura (allora comunemente praticata per estorcere le confessioni di colpa vera o presunta) e l’attacco alla pena di morte, di cui viene argomentata l’inutilità a scopo preventivo. L’opera di Beccaria fu attaccata dagli ambienti ecclesiastici e venne inserita nell’Indice dei libri proibiti nel 1766. Fuori d’Italia il trattato – tradotto nelle principali lingue europee – ebbe un grande successo e incentivò il dibattito sulla pena di morte.

Zona Competenze Sintesi

1. Attraverso uno schema sintetizza le caratteristiche dell’Illuminismo italiano in base all’area geografica di riferimento.

Esposizione orale

2. Illustra in un breve intervento orale (max 5 minuti) i motivi per cui Dei delitti e delle pene conserva una carica polemica tuttora valida. Ricorda di inserire nel tuo discorso sia opportuni riferimenti all’opera sia esempi tratti dall’attualità.

Scrittura creativa

3. Immagina e trascrivi una conversazione tra letterati e intellettuali illuministi italiani, appartenenti al gruppo della rivista «Il Caffè». La conversazione può avere come spunto di avvio un evento d’attualità dell’epoca e poi vertere sulla discussione di alcuni tra i temi cardine del fenomeno culturale dell’Illuminismo.

268 Settecento 7 La svolta illuminista in Italia


Settecento CAPITOLO

8 Il boom del romanzo, specchio della società borghese

L’affermazione del romanzo in Inghilterra e in Francia nel Settecento coincide con le trasformazioni economiche che portano alla ribalta la classe borghese, e con le nuove concezioni filosofiche proprie dell’Illuminismo. I protagonisti appartengono prevalentemente alla piccola e media borghesia e sono rappresentati con criteri realistici, che caratterizzano anche ambienti e situazioni, pur avventurose, come nel celeberrimo Robinson Crusoe di Defoe. Il romanzo europeo si articola in molteplici tipologie, tra cui il romanzo di viaggi e quello epistolare, diffuso anche in Germania e in Italia. In Francia esso è impiegato soprattutto per divulgare i temi chiave del dibattito illuminista: il più celebre conte philosophique (racconto filosofico) è Candido di Voltaire, in cui si danno appuntamento i princìpi fondamentali della battaglia illuminista per una nuova società e una nuova cultura. In Inghilterra nel Tristram Shandy di Laurence Sterne il genere è oggetto di parodia attraverso la dissoluzione delle strutture convenzionali.

nascita del 1 Laromanzo borghese 2 Ile irealismo nuovi personaggi del romanzo settecentesco

3 Ledeltipologie romanzo

settecentesco

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1

La nascita del romanzo borghese La nuova fortuna di un genere metamorfico Il romanzo non è certo nato nel Settecento, ma è in questo secolo che si impone come genere egemone e assume le connotazioni che siamo soliti associare al termine: gli elementi di novità che caratterizzano il romanzo settecentesco, innanzitutto inglese, sono infatti più rilevanti degli elementi di continuità rispetto alle forme antiche di narrazione lunga (il romanzo greco e quello cavalleresco medievale), e anche a testimonianze più recenti, come il Don Chisciotte di Cervantes (➜ C4). Le vistose trasformazioni del genere in quest’epoca si devono al carattere costituzionalmente proteiforme del romanzo, che non era compreso fra i generi codificati dalla poetica classicistica e quindi non era vincolato da leggi e modelli. Il trionfo del romanzo nel Settecento, e le caratteristiche che assume in quest’epoca e che ne determinano la modernità (in particolare la nuova tipologia dei personaggi e il realismo rappresentativo) rispondono a nuovi bisogni di lettura e al gusto di un nuovo pubblico, identificabile con la classe borghese nelle sue diverse componenti. Gli autori stessi non corrispondono più alla tipologia del letterato tradizionale di formazione classicistica, ma operano con vari ruoli nella società e conoscono da vicino il mercato editoriale.

Joseph Highmore, La famiglia Harlowe, 1745 ca.

270 Settecento 8 Il boom del romanzo, specchio della società borghese


Il battesimo di Tristram Shandy, tavola di William Hogarth per il frontespizio del terzo volume del romanzo di Sterne.

Lessico tiratura Numero di copie che si stampano di un certo prodotto editoriale, per esempio un libro.

L’Inghilterra, patria elettiva del romanzo Lo sviluppo e lo straordinario successo del romanzo nel Settecento è un fenomeno che nei suoi tratti più tipici ha origine in Inghilterra, per il particolare contesto che caratterizzava questo paese rispetto agli altri Stati europei. Le vicende politiche del secolo precedente (in particolare la cosiddetta “prima rivoluzione” del 1642-1660) e lo sviluppo economico nato dalla rivoluzione industriale contribuiscono infatti a creare una situazione sociale in evoluzione, diversificata, e favoriscono la formazione di un pubblico di lettori sufficientemente numeroso e aperto a nuovi stimoli culturali. Proprio in Inghilterra, del resto, all’inizio del Settecento, con l’esperienza dello «Spectator» (1711-1712) era nato il giornale, nell’accezione vicina a quella moderna. Per la maggior parte il pubblico è costituito dai ceti borghesi, ma anche dai ceti popolari (negozianti, artigiani, camerieri). Alla diffusione della lettura, in particolare dei romanzi, contribuirono le biblioteche circolanti, spesso organizzate dagli editori stessi, che dal 1742 iniziarono a distribuire testi in prestito, consentendo di accedere alla produzione libraria anche a quegli strati sociali che non potevano permettersi di acquistare libri. Tra i lettori spicca la presenza numerosa delle donne, di diversa estrazione e cultura, che mostrano subito una netta predilezione per il genere del romanzo. Non a caso, nel dibattito settecentesco intorno al nuovo genere ci sono recensori che rifiutano al romanzo dignità letteraria e lo qualificano come un passatempo “femminile”, denunciando il potenziale effetto negativo dei suoi contenuti sentimentali sulle lettrici. Lo sviluppo del romanzo fu sostenuto in modo modernamente imprenditoriale da librai-editori che arrivavano a commissionare le opere sulla base dei gusti del pubblico, come avvenne per Pamela o la virtù ricompensata (Pamela or Virtue Rewarded) di Samuel Richardson (➜ T5 OL). La produzione, molto varia nelle tipologie e con molti titoli (anche perché generalmente la tiratura era di 500-700 copie), non fu di livello qualitativo costante: le opere potevano avere successo a prescindere dalla loro qualità, e quelle che lo raggiungevano trovavano spesso imitatori di livello inferiore, come avvenne per La vita e le strane sorprendenti avventure di Robinson Crusoe di Daniel Defoe (➜ T1 e ➜ T2 OL). Quanto ai romanzieri, la maggior parte (almeno nella prima fase) erano facoltosi possidenti, ma si annoveravano anche parroci o capitani di marina. Soprattutto nella seconda metà del secolo furono numerose le scrittrici (che spesso preferivano mantenere l’anonimato), attirate alla nuova attività, in alcuni casi, nella speranza di risolvere i loro problemi economici. La nascita del romanzo borghese 1 271


2

online

Interpretazioni critiche Ian Watt L’«orientamento individualista e innovatore» del novel

Il realismo e i nuovi personaggi del romanzo settecentesco La narrazione di vicende realistiche o verosimili Il tratto principale che contraddistingue il romanzo inglese del Settecento è il realismo. Non a caso proprio in Inghilterra, alla fine del secolo, è teorizzata la distinzione tra novel e romance: il novel è il racconto di storie realistiche, o quanto meno verosimili (cioè non necessariamente accadute ma che potrebbero accadere nella realtà); il romance è la narrazione di vicende in cui compaiono elementi fantastici ed eventi soprannaturali o magici. È nella prima tipologia che si iscrive il romanzo inglese del Settecento. Sono gli scrittori più consapevoli a fare del realismo un vero e proprio canone letterario: come vedremo, Defoe, nel suo celebre Robinson Crusoe, fonda la storia di Robinson su una vicenda realmente accaduta e fa raccontare ai personaggi dei suoi romanzi le loro avventure in prima persona, una modalità narrativa finalizzata ad avvalorarne la veridicità agli occhi del lettore; anche l’espediente della struttura epistolare, che ha largo seguito a partire dalla Pamela di Samuel Richardson fino alla Nuova Eloisa (➜ T8 ) di Jean-Jacques Rousseau, ha lo scopo di conferire verosimiglianza al racconto e suscitare il coinvolgimento del lettore. L’approccio realistico nel novel riguarda gli elementi fondamentali della narrazione: oltre ai personaggi (individui appartenenti a uno specifico status sociale, con determinate caratteristiche fisiche e una precisa identità anche psicologica), i luoghi e il tempo delle storie narrate. Le storie si svolgono in luoghi reali, indicati nei nomi e descritti nelle caratteristiche ambientali, e in circostanze temporali ben determinate: è significativo il fatto che una delle prime preoccupazioni di Robin-

Pierre Alexandre Wille, Les étrennes de Julie.

272 Settecento 8 Il boom del romanzo, specchio della società borghese


son Crusoe sia quella di fissare la data del suo naufragio e di calcolare lo scorrere, giorno per giorno, un anno dopo l’altro, del suo soggiorno nell’isola disabitata dove si è ritrovato. Una nuova tipologia di personaggi La grande novità introdotta dal romanzo del Settecento, una sorta di rivoluzione rispetto alle varie forme di narrazione precedenti, è costituita dallo statuto sociale dei suoi protagonisti, che non sono più gli eroi-guerrieri dei poemi epici o i cavalieri dei romanzi e dei poemi cavallereschi, ma appartengono spesso a quei ceti sociali considerati inferiori che tradizionalmente avevano avuto ruoli marginali nelle opere letterarie ed erano stati soprattutto fonte di comicità. A inaugurare il nuovo canone del personaggio moderno è lo scrittore inglese Daniel Defoe con Robinson Crusoe (1719; ➜ T1 e T2 OL): all’inizio della vicenda, il personaggio dichiara la sua appartenenza alla middle class, che viene definita come «la condizione migliore». Il marinaio-mercante protagonista rappresenta un self-made man , l’uomo che si fa da sé grazie al suo lavoro e alla sua ingegnosità, valori in cui la nuova borghesia si riconosceva. L’eroina del romanzo successivo di Defoe, Moll Flanders (➜ T3 OL, ➜ T4 OL), è addirittura figlia di una ladra e diventerà lei stessa ladra, arrestata e deportata per i suoi furti. Pamela, la protagonista dell’omonimo romanzo di Samuel Richardson, è una giovane cameriera (➜ T5 OL) dotata di saldi principi morali: non si lascia affascinare dal corteggiamento del nobile al cui servizio lavora, rimane indifferente alle promesse di regali e di favori e solo per amore è disposta a rinunciare alla sua castità, senza pretendere nulla in cambio. Infine un altro romanzo di grande successo tra il pubblico dell’epoca, Le avventure di Tom Jones di Henry Fielding, è incentrato sulle vicende di un trovatello, Tom Jones appunto che, nel corso delle sue picaresche avventure, si dimostra generoso verso i deboli, ma è anche dedito ai piaceri amorosi e a quelli della tavola (➜ T6 OL). Come si può cogliere da questi cenni, la peculiarità di questi personaggi rispetto a quelli della tradizione narrativa consiste nella loro “normalità”: sono individui, non tipi, contrassegnati da una precisa origine sociale (che li avvicina al ceto di “nuovi” lettori) e da nomi comuni (Tom, Pamela ecc.). Anche le loro virtù e i loro vizi sono realistici: l’ingegnosità con cui affrontano le diverse situazioni, la disponibilità ad amare,

Parola chiave

Joseph Highmore, Il Signor B. trova Pamela che scrive, 1744.

self-made man Il termine inglese self-made man si usa in riferimento a una persona di umili origini che ha raggiunto il successo e la prosperità economica attraverso il proprio impegno, il talento e l’auto-miglioramento, piuttosto che attraverso eredità, privilegi o favori.

Quello dell’uomo che “si è fatto da sé” è, in particolare, un archetipo della cultura statunitense, frutto della convinzione che chiunque possa raggiungere il successo a patto di avere una determinazione incrollabile e una predisposizione alla costanza e al duro lavoro.

Il realismo e i nuovi personaggi del romanzo settecentesco 2 273


e anche la debolezza morale. Le loro storie, pur avventurose, capaci di catturare l’interesse del pubblico (come evidenzia il titolo stesso del principale romanzo di Daniel Defoe, La vita e le strane sorprendenti avventure di Robinson Crusoe) sono comunque sempre verosimili e rinunciano a sfruttare il “meraviglioso” che aveva caratterizzato la narrativa del Seicento e che rimarrà esclusivo appannaggio del romance.

Nuovi “eroi” borghesi Robinson Crusoe

Moll Flanders

Pamela

Tom Jones

il marinaio-mercante self-made man: perde tutto in un naufragio ed è capace di ricostruire tutto grazie all’intelligenza e alle sue capacità fattive

la donna che, in condizioni di estremo disagio, fa leva sulle sue sole forze e riesce, con ogni mezzo, anche illecito, a sopravvivere

la donna che, in nome dei propri princìpi e della morale puritana, vede premiata la virtù con l’ascesa sociale del matrimonio

il trovatello che con la propria vitalità, simpatia e intelligenza riconquista ciò che gli spetta, contro tutti i pregiudizi

Robinson Crusoe di Daniel Defoe

Ritratto di Daniel Defoe di Godfrey Kneller (16601731, Londra, National Maritime Museum).

Robinson Crusoe, pubblicato nel 1719, è l’opera che apre la grande stagione del romanzo settecentesco. Come abbiamo visto, ne è autore il londinese Daniel Defoe (1660-1731). In contrasto con il padre (un fabbricante di candele seguace della Chiesa puritana) che voleva avviarlo alla carriera ecclesiastica, Daniel sceglie di viaggiare e di dedicarsi al commercio (nel 1681 apre un’azienda di mercerie all’ingrosso). Impegnato nelle lotte politiche del suo tempo, finisce per trascurare la sua attività economica, che fallisce. Si dedica allora attivamente al giornalismo e fonda la rivista «The Review». Infine, ormai quasi sessantenne, si mette a scrivere romanzi per poter saldare i numerosi debiti. Nel 1719 esce, con grande successo, La vita e le strane sorprendenti avventure di Robinson Crusoe (The life and Strange Surprising Adventures of Robinson Crusoe of York, Mariner), a cui seguono poco dopo Moll Flanders (The Fortunes and Misfortunes of the Famous Moll Flanders, 1722) e Lady Roxana (1724). Una storia vera Il romanzo di Daniel Defoe, presto destinato a diventare un “classico”, è ispirato a un fatto realmente accaduto poco prima della sua composizione e che aveva suscitato scalpore e interesse: nel 1705, un marinaio scozzese, un certo Alexander Selkirk, era stato abbandonato dai compagni su una piccola isola al largo della costa cilena, dove era vissuto per quattro anni finché una nave di passaggio non l’aveva ricondotto a casa. Allo scopo di far credere che l’opera sia l’autentico memoriale di un’esperienza reale l’autore sceglie di pubblicarla anonima. La trama Nella finzione letteraria la vicenda è trasposta in un’epoca antecedente (il protagonista, Robinson Crusoe, dichiara infatti all’inizio di essere nato nel 1632). All’età di diciotto anni, nonostante l’opposizione dei genitori, Robinson decide di prendere il mare per vedere il mondo. La nave su cui si è imbarcato fa naufragio: catturato da un pirata, riesce a liberarsi e ad arrivare in Brasile, dove diventa piantatore. Desideroso di conoscere altri luoghi, si imbarca

274 Settecento 8 Il boom del romanzo, specchio della società borghese


di nuovo, diretto verso la Guinea, ma anche questa volta la nave fa naufragio e si ritrova su un’isola deserta, alla foce del fiume Orinoco. Grazie ai materiali rinvenuti sul relitto della nave e al suo ingegno, riesce a procurarsi di che nutrirsi e a costruire anche un’abitazione. Dopo lunghi anni trascorsi in completa solitudine, salva un indigeno dall’assalto di alcuni cannibali: in ricordo del giorno in cui gli ha salvato la vita, lo chiama Venerdì. Si dedica quindi alla sua educazione secondo il modello europeo, facendo di lui un fedele servitore e compagno. Trascorsi tre anni dall’incontro, avvista una nave di passaggio che lo riporta in Inghilterra con Venerdì. Recatosi a Lisbona, Robinson scopre di essere diventato ricco grazie al suo socio della piantagione brasiliana. Alla fine del romanzo ritornerà sull’isola del naufragio, che popolerà con coloni brasiliani. La narrazione è condotta in prima persona dal protagonista anni dopo le sue avventure: Robinson non si limita a raccontare le sue peripezie, ma dà spazio alle emozioni provate, commenta i propri comportamenti, riflette sulle scelte fatte, interrogandosi sul loro significato. Un eroe borghese Il romanzo riflette il processo economico e sociale in atto in Inghilterra tra la fine del Seicento e l’inizio del Settecento, che comporta l’emergere di una nuova figura, il borghese rivolto a imprese commerciali ardite e avventurose: dei valori e delle qualità di quel ceto Robinson è nello stesso tempo espressione e simbolo. Se il significato emblematico del personaggio si delinea già attraverso le prime fasi della vicenda, dalla ribellione iniziale nei confronti degli insegnamenti paterni alla successiva ricerca di nuove imprese e di maggiori ricchezze, è il nucleo centrale del romanzo, cioè la vicenda del naufragio sull’isola deserta, a decretarne la fama letteraria. Costretto dalla necessità a convertirsi al lavoro manuale, il protagonista, grazie alla sua intraprendenza e ingegnosità, riesce a procurarsi tutto ciò di cui ha bisogno e a controllare, valorizzandone le risorse, l’ambiente selvaggio che diventerà il suo “regno”. Per affrontare la sua nuova vita Robinson può contare solo sugli strumenti salvati dal relitto della nave (una sorta di eredità materiale, e soprattutto ideologica,

Illustrazione di Walter Paget, dal libro di Defoe La vita e le strane sorprendenti avventure di Robinson Crusoe pubblicato nel 1896.

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PER APPROFONDIRE

del mondo da cui proviene) e sulla razionalità di cui fa esplicita professione (➜ T1 ). Non manca nell’opera di Defoe la dimensione spirituale: la ricorrenza di motivi biblici, la valutazione che Robinson, dopo qualche anno di solitudine sull’isola, fa della propria esperienza come “provvidenziale” allontanamento dal mondo e dai suoi falsi valori (➜ T2 OL), conferiscono alla sua storia anche i caratteri di una vicenda di formazione spirituale-religiosa. Non a caso il rapporto di Robinson con il denaro è ambivalente: da una parte è sostenitore della concezione calvinista che vede nel successo economico un segno della benevolenza divina, dall’altra appare critico nei confronti della “bontà” del progresso economico e del culto del denaro. Nel conflitto tra valori economici e visione religiosa del protagonista le più recenti interpretazioni critiche individuano una spia di quello vissuto da Defoe stesso.

Il mito di Robinson Il protagonista del romanzo di Defoe ha dato vita, nel Settecento e nell’Ottocento, a un vero e proprio mito, capace di reincarnarsi in contesti e prospettive diversi, non solo in opere narrative, a partire dalle innumerevoli imitazioni settecentesche, ma anche nelle interpretazioni in chiave filosofica ed economica. L’interpretazione più celebre è stata elaborata dal filosofo Jean-Jacques Rousseau, che ne ha fatto il simbolo della vita solitaria e del ritorno allo stato di natura. Nel romanzo pedagogico Émile (1762 ➜ PAG. 198) Rousseau vede nella solitudine e nel rapporto di Robinson con la natura la condizione per la rigenerazione morale dell’uomo, degradato dalla società. Nel suo programma educativo, la vicenda del naufrago esemplifica il valore formativo del lavoro e rappresenta un modello dell’operosità e semplicità, che possono garantire la sopravvivenza, e quindi l’autosufficienza del singolo individuo. Alla fine del Settecento per il filosofo tedesco Immanuel Kant (1724-1804) Robinson impersona l’uomo moderno che guarda all’età in cui gli uomini vivevano in condizione di uguaglianza e in pace, dediti al lavoro senza aspirare alla ricchezza, con la consapevolezza di costruire un progresso destinato a negare questo mito di innocenza. Nell’Ottocento anche Karl Marx (1818-1883) prende in considerazione il personaggio in un’ottica economica: la vita e le azioni di Robinson sono raccontate in relazione all’organizzazione del tempo, al lavoro, alle operazioni necessarie per la produzione, e quindi la figura di Robinson è ricondotta ai processi economici e al sistema di valori del capitalismo. La vitalità del mito è confermata dai romanzi d’avventura dell’Ottocento (in particolare di Jules Verne e di Emilio Salgari), in chiave anche pedagogica, e dalle rivisitazioni del personaggio in particolare nella seconda metà del Novecento. L’opera più significativa a questo proposito è Venerdì o il limbo del Pacifico (Vendredi, ou les limbes du Pacifique, 1967) dello scrittore francese Michel Tournier (1924-2016), ambientata un secolo dopo (cioè nel Settecento) ma densa di riferimenti al problematico rapporto dell’uomo contemporaneo con la natura e con la civiltà a cui appartiene e, insieme, alla questione dell’incontro tra culture diverse.

Il Robinson del romanzo di Tournier è un ventiduenne sposato e con due figli, appartenente al gruppo religioso dei Quaccheri; dopo il naufragio instaura con l’isola un rapporto d’amore che lo porta, in alcuni momenti, a una sorta di simbiosi (al contrario dunque del dominio sulla natura stabilito dal Robinson di Defoe). Anche qui il naufrago salva un indigeno destinato a un sacrificio e lo chiama Venerdì, ma in questo caso il rapporto è rovesciato (e infatti non a caso è l’indigeno a denominare il titolo del libro): solo all’inizio Venerdì è lo schiavo fedele che si sottomette al padrone, ma ben presto si sottrae al suo progetto educativo, rifiutando la razionalità e il rapporto di dominio sulla natura propri della cultura occidentale. Sarà lui a educare Robinson a una vita selvaggia, in armonia con la natura. Anche la conclusione è parzialmente rovesciata: quando arriva all’isola una goletta inglese, Venerdì si imbarca di nascosto, mentre Robinson resta sull’isola, insieme a un giovane mozzo della nave (sarà chiamato Giovedì), stanco dei maltrattamenti dei suoi superiori. Mentre l’incontro tra il Robinson e il Venerdì di Defoe rappresenta il rapporto del colonizzatore con le culture considerate primitive, come si è storicamente realizzato, Venerdì o il limbo del Pacifico indica per il “diverso” la possibilità di sottrarsi all’egemonia culturale della civiltà che si considera superiore.

Fotogramma del film Cast Away di Robert Zemeckis (2000), ispirato al romanzo di Defoe, con Tom Hanks nel ruolo di Robinson.

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Daniel Defoe

Robinson modello dell’intraprendenza borghese

T1

Una nuova visione della vita si affaccia nel romanzo di Defoe che, con grande realismo, interpreta lo spirito borghese dell’epoca, legato ai valori dell’intraprendenza e dell’iniziativa individuale.

«Questa estrema necessità mi spronò al lavoro»

T1a

EDUCAZIONE CIVICA

nucleo Costituzione competenza 1

Le avventure di Robinson Crusoe D. Defoe, Le avventure di Robinson Crusoe. Le ulteriori avventure. Serie riflessioni, trad. di A. Meo, a c. di G. Sertoli, Einaudi, Torino 1998

Dopo il naufragio, sulle prime Robinson è angosciato dal pensiero delle difficoltà da affrontare, ma non si lascia sopraffare dalla disperazione e comincia, con prontezza di spirito, a cercare le soluzioni pratiche per la sua sopravvivenza, scoprendo in sé doti di intraprendenza stimolate dalla necessità in cui si viene a trovare.

Gettai gli occhi alla nave arenata in un momento in cui i marosi1 e gli spruzzi del mare erano così alti, che quasi non riuscivo a scorgerla, tanto appariva lontana, e riflettei: «Oh, Signore! Com’è possibile che io sia riuscito a raggiungere la riva?» Dopo essermi appagato lo spirito con la parte consolante della mia situazione2, co5 minciai a guardarmi attorno per vedere in che luogo mi trovassi e che dovessi fare per prima cosa, e subito sentii che la mia consolazione diminuiva e, in una parola, che la mia era una salvezza tremenda; perché ero bagnato, non avevo vestiti per cambiarmi, niente da mangiare o da bere per ristorarmi, né avevo davanti altra prospettiva che quella di morire di fame o di essere divorato dalle bestie feroci; e la cosa 10 che mi riusciva particolarmente sconfortante3 era che non avevo un’arma per dar la caccia a qualche animale e ucciderlo per nutrirmene, né per difendermi da altre creature che volessero uccidere me per loro nutrimento. In una parola, non avevo addosso nient’altro che un coltello, una pipa e una scatola con un po’ di tabacco. A tanto poco si riducevano le mie provviste; e questo mi gettò in un’angoscia cosí 15 terribile che per un po’ corsi in qua e in là come un pazzo. Siccome sopraggiungeva la notte, cominciai con cuore grave a considerare quale sarebbe stata la mia sorte se in quel paese vi fossero state bestie fameliche4, visto che di solito è di notte ch’esse escono a predare. L’unico rimedio che mi si presentò alla mente allora fu di salire su di un albero, 20 una specie di abete, folto e fronzuto5 ma spinoso, che cresceva lì vicino; e lì decisi di passare la notte, e meditare di quale morte sarei morto il giorno dopo, perché ancora non vedevo alcuna possibilità di sopravvivere. Mi allontanai dalla spiaggia per circa duecento iarde6 per cercare dell’acqua da bere, e con mia grande gioia la trovai; e dopo aver bevuto ed essermi messo in bocca un po’ di tabacco per ingan25 nare la fame, andai all’albero e vi salii, e cercai di mettermi in una posizione da cui non potessi cadere se mi fossi addormentato; e, dopo essermi tagliato una mazza, una specie di corto bastone, per difendermi, presi alloggio tra i rami dell’albero, ed essendo estremamente affaticato, caddi in un sonno profondo, e dormii tanto

1 i marosi: le ondate del mare in burrasca. 2 Dopo... situazione: Robinson trae conforto inizialmente dal fatto di essersi salvato, unico di tutto l’equipaggio della nave.

3 che mi riusciva... sconfortante: che mi toglieva fiducia e speranza. 4 fameliche: affamate. 5 fronzuto: ricco di rami e di foglie.

6 duecento iarde: 180 metri circa; la iarda è un’unità di misura di lunghezza d’uso anglosassone (corrisponde a circa 0,90 metri).

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comodamente come, credo, pochi avrebbero saputo fare nella mia condizione; e ne fui più ristorato di quanto non fossi mai stato, credo, in una tale situazione7. [Fattosi giorno, Robinson scorge dall’alto del suo rifugio la nave, che la corrente aveva trasportato fin quasi a riva, e decide di raggiungerla per recuperare ciò che gli può servire. Arrivato a nuoto sotto la nave, non sa però come salire a bordo. Gira due volte intorno ad essa finché scorge una fune e, aggrappatosi a questa, riesce a salire sulla nave e si dà da fare per accertare che cosa era recuperabile. Le provviste sembravano intatte: mangiato del biscotto e bevuta una gran sorsata di rum per farsi coraggio, Robinson pensa di portare a terra ciò che gli serve per sopravvivere.]

Era inutile stare con le mani in mano e sognare di avere ciò che non si poteva avere8, e questa estrema necessità mi spronò al lavoro. Nella nave avevamo parecchi pennoni9 di riserva, due o tre alberetti di legno e un albero di gabbia10. Decisi di cominciare da questi, e ne gettai molti in mare come meglio potei, dato il loro pe35 so, legandoli uno per uno con una fune perché non andassero via con la corrente. Fatto questo, mi calai lungo il fianco della nave e, tirandoli a me, li legai insieme alle estremità quanto più forte potei e ne feci una specie di zattera; poi, dopo averla coperta con due o tre tavoloni da fasciame11 messi di traverso, provai a camminarci sopra e vidi che mi reggeva benissimo, ma che non poteva sopportare un grande 40 peso perché i legni erano troppo leggeri. Così mi misi al lavoro, e con la sega da carpentiere12 tagliai un albero di gabbia in tre pezzi e li aggiunsi alla mia zattera con gran travaglio13; ma la speranza di provvedermi di cose necessarie mi stimolò a fare più di quanto non avrei avuto la forza di fare in altra circostanza. 7 in una tale situazione: in una situazione paragonabile a questa per scomodità. 8 Era... avere: desiderio di Robinson è un’imbarcazione con cui trasportare dalla nave naufragata, prima che affondi, ciò che gli potrebbe servire.

T1b

9 pennoni: le antenne orizzontali per il lato superiore delle vele quadrate. 10 albero di gabbia: nei velieri è il secondo tronco dell’albero che regge la vela maestra.

11 fasciame: rivestimento. 12 carpentiere: operaio addetto alle costruzioni nei cantieri edili e navali. 13 travaglio: fatica.

Un’esaltazione della ragione Le avventure di Robinson Crusoe

D. Defoe, Le avventure di Robinson Crusoe. Le ulteriori avventure. Serie riflessioni, trad. di A. Meo, a c. di G. Sertoli, Einaudi, Torino 1998

1 ingegnosità: capacità di inventare o trovare soluzioni a problemi di varia natura.

Arrivato all’isola da alcuni giorni ormai, Robinson decide di costruirsi alcuni oggetti che rendano più sopportabile la sua condizione sull’isola, innanzitutto una sedia e un tavolo. L’operazione materiale, che mette alla prova le sue abilità manuali, mai prima sperimentate, è l’occasione per una riflessione sul fondamento razionale delle attività tecniche (di «qualsiasi arte meccanica») e, più in generale, per elogiare la ragione.

E ora cominciai a farmi quelle cose necessarie di cui trovai che avevo più urgente bisogno, in particolare una sedia e un tavolo; perché senza di essi non potevo godere delle poche comodità che avevo al mondo. Senza un tavolo non potevo né scrivere né mangiare, né fare altro con un certo piacere. 5 Così mi misi al lavoro; e qui devo necessariamente osservare che, siccome la ragione è la sostanza e la sorgente prima delle matematiche, così col fissare e squadrare tutto per mezzo della ragione, e col fare il giudizio più razionale delle cose, ogni uomo può col tempo divenire padrone di ogni arte meccanica. Non avevo mai maneggiato un attrezzo in vita mia; eppure col tempo, col lavoro, con l’applicazione e 10 l’ingegnosità1 trovai alla fine che non c’era cosa, tra quelle che mi mancavano, che non mi sarei potuto costruire da me, specialmente se avessi avuto gli attrezzi adatti.

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Analisi del testo Spirito pratico e calcolo razionale: le doti “borghesi” di Robinson Il racconto dei primi tempi della vita sull’isola dopo il naufragio evidenzia la presenza nel protagonista di uno spirito pratico e di un’ottica progettuale, che gli consentono di affrontare i problemi, individuando di volta in volta le soluzioni più idonee: così per trasportare dalla nave a terra gli oggetti che gli interessano si fabbrica una rudimentale zattera. Le azioni di Robinson sono sempre guidate dal calcolo razionale, dalla valutazione del rapporto fra rischi o costi e vantaggi di ciò che si accinge a intraprendere: ad esempio (in un passo qui non riportato) rinuncia a recuperare la barca con cui è arrivato sull’isola perché è troppo lontana e torna a nuoto sulla nave, che è invece più vicina; poi, per trasportare ciò che vi ritrova, si mette a costruire una zattera, consapevole dell’utilità che gliene deriverà.

Un nuovo modello di “eroe” Robinson appare ben diverso dai protagonisti/eroi della tradizione narrativa: le sue avventure, per quanto strane (il naufragio su un’isola deserta non è certo un’esperienza abituale), sono incentrate, come si vede nei due passi, sui bisogni elementari della sopravvivenza (procurarsi il cibo) e di una vita normale (avere un tavolo e una sedia); le sue “virtù” non sono quelle cavalleresche, ma le qualità e le abilità che i lettori potevano riconoscere (o desiderare) come proprie. È lo stesso Robinson, attraverso alcune espressioni («Era inutile stare con le mani in mano»; «col lavoro, con l’applicazione e l’ingegnosità trovai alla fine che non c’era cosa, tra quelle che mi mancavano, che non mi sarei potuto costruire da me»), a indicare le virtù dell’“eroe” moderno, prima tra tutte la razionalità, sottolineando le nuove concezioni filosofiche che si stavano affermando in Inghilterra già dalla fine del secolo XVII e che culmineranno nell’Illuminismo.

Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

SINTESI 1. Sintetizza in massimo 10 righe il contenuto dei due brani. Inserisci gli opportuni raccordi tra i differenti momenti narrati nei due testi. COMPRENSIONE 2. Da quali dettagli si può capire che Robinson si sforzi di adattarsi al nuovo contesto? 3. Dalla frase finale del secondo testo traspare una nuova consapevolezza di Robinson. Quale? ANALISI 4. Robinson parla con precisione della sua situazione e descrive i propri comportamenti dopo il naufragio: individua alcuni esempi di questa sua autorappresentazione e spiegane la funzione, tenendo conto dell’obiettivo dello scrittore di far credere che si tratti di un resoconto “vero”.

Interpretare

EDUCAZIONE CIVICA

nucleo

Costituzione

competenza 1

ESPOSIZIONE ORALE 5. Spiega la frase: «col fissare e squadrare tutto per mezzo della ragione, e col fare il giudizio più razionale delle cose, ogni uomo può col tempo divenire padrone di ogni arte meccanica». Sei d’accordo con questa affermazione? Se sì, perché? Hai a disposizione 2 minuti. 6. Rifletti sul significato educativo che la storia del naufrago Robinson rappresenta. Quale valore formativo, secondo te, viene attribuito al lavoro? Che cosa può garantire la sopravvivenza e l’autosufficienza dell’individuo quando l’esistenza e l’ordine prestabilito sono travolti dalle bufere della vita? Rifletti anche sulla base della tua esperienza. SCRITTURA 7. Quello di Defoe è stato definito uno stile spoglio, diaristico, documentario: commenta questo giudizio critico in relazione ai due testi presentati.

online T2 Daniel Defoe

Robinson medita sui veri valori dell’esistenza Le avventure di Robinson Crusoe

Il realismo e i nuovi personaggi del romanzo settecentesco 2 279


Moll Flanders di Daniel Defoe In Moll Flanders (1722), il romanzo più noto di Defoe dopo Robinson Crusoe, si immagina che la protagonista (ispirata a una celebre ladra, vissuta realmente un secolo prima), ormai in età matura e pentita della sua vita sregolata e viziosa, racconti in prima persona le proprie vicende. Nella prefazione al romanzo, lo scrittore – utilizzando un espediente ricorrente nella tradizione narrativa – finge di aver trovato il manoscritto della storia di una donna dalla vita avventurosa, con «le sue azioni perverse» e il suo ravvedimento finale. Per Defoe, pubblicare il memoriale «della parte viziosa di questa vita» ha una finalità educativa, perché il lettore potrà trarne un insegnamento e migliorare sé stesso. La trama La protagonista, Moll Flanders, nasce in prigione, figlia di una ladra che viene poi deportata in Virginia. Assunta a servizio in casa di una ricca famiglia, viene sedotta da uno dei due figli della padrona. La fine della relazione segna l’inizio della vita dissoluta di Moll. Grazie alla sua intraprendenza e spregiudicatezza, riuscirà a farsi mantenere da molti uomini e anche a farsi sposare per ben cinque volte. Il quarto marito è un avventuriero irlandese, con cui vive di furti e di inganni (anche reciproci) finché costui la lascia; dopo aver partorito un figlio (affidato a una famiglia di contadini), per assicurarsi di che vivere accetta la proposta di matrimonio di un antico ammiratore, un onest’uomo all’oscuro di tutto. La morte dell’ultimo marito la costringe a rubare per vivere. Scoperta, è arrestata e condannata a morte; alla fine è graziata e deportata in Virginia; pentita, comincia il suo riscatto morale. Ritorna in Inghilterra ormai anziana e si mette a scrivere le sue memorie. Un personaggio-simbolo della società protocapitalista… Moll Flanders è un personaggio dalle molteplici sfaccettature: pur presentandola nella Prefazione come una donna moralmente perduta, lo scrittore evita di farne un ritratto stereotipato ed è attento invece a delineare la complessa gamma dei suoi sentimenti attraverso l’autoanalisi che la protagonista stessa compie in alcuni momenti cruciali del racconto-memoriale della sua complicata esistenza. Nello stesso tempo Defoe fa di Moll un personaggio-simbolo, come già Robinson Crusoe, della società protocapitalistica: nello sfruttamento della propria bellezza Moll Flanders dimostra infatti non solo spregiudicatezza, ma anche una notevole capacità, diciamo, “imprenditoriale”, così come nelle diverse traversie (le sue «sfortune») riesce sempre a trovare pragmaticamente una soluzione. … ma anche una vittima della società Non manca nello scrittore anche un obiettivo di denuncia sociale: se Defoe attribuisce alla propria eroina la responsabilità del suo traviamento morale, al contempo presenta le sue colpe come conseguenza della degradazione morale della società in cui vive, facendone in qualche modo una vittima. Questa prospettiva è già evidente all’inizio del suo racconto, quando Moll racconta la seduzione da parte del giovane aristocratico (➜ T3 OL): orgoglio, vanità e avidità inducono la ragazza a farsi complice del proprio seduttore, ma la sua responsabilità morale appare comunque inferiore a quella di chi l’ha spinta alla colpa approfittando della sua condizione di inferiorità sociale e della sua ingenuità. Una prospettiva riconducibile all’impegno sociale e alla visione filantropica dell’autore. online

online

T3 Daniel Defoe Un episodio cruciale nella vita di Moll Flanders Fortune e sfortune della famosa Moll Flanders

T4 Daniel Defoe Moll Flanders diventa una ladra Fortune e sfortune della famosa Moll Flanders

280 Settecento 8 Il boom del romanzo, specchio della società borghese


Pamela o la virtù ricompensata di Samuel Richardson Pamela o la virtù ricompensata, scritto da Samuel Richardson (1689-1761), stampatore di professione, pubblicato nel 1740, inaugura con successo una nuova modalità narrativa (che diventerà un sottogenere), destinata a larga fortuna nella tradizione del romanzo europeo moderno: quella del romanzo epistolare (➜ PAG. 282), in cui la narrazione dei fatti e le riflessioni e i sentimenti dei personaggi che a essi si intrecciano sono comunicati al lettore attraverso le lettere. In Pamela il romanzo è costituito dalle lettere che la protagonista, una giovane cameriera, scrive ai propri genitori per informarli dei tentativi di seduzione del suo nobile padrone. La trama Pamela Andrews, figlia di poveri e onesti agricoltori, è a servizio presso una nobildonna. La storia comincia con la morte della padrona, che affida la sua cameriera quindicenne al figlio scapolo, il conte di Belfart, un superficiale libertino. Quando il nobile manifesta a Pamela la sua passione, cercando – inutilmente – di convincerla, anche con offerte di doni e di denaro, a diventare la sua amante, la ragazza respinge le sue avances, di cui parla diffusamente nelle sue lettere ai genitori. Decisa a sottrarsi alle mire del padrone, sdegnato per l’inaspettato rifiuto del suo amore, se ne torna a casa, ma viene fatta rapire dal conte e affidata a una carceriera per indurla a cedergli. Alla fine la rettitudine di Pamela induce il nobile a lasciarla libera: in una lettera, che la raggiunge in viaggio verso la casa paterna, il conte le esprime il suo pentimento, dichiarandole i suoi sentimenti. La ragazza, rendendosi conto di esserne a sua volta innamorata, ritorna da lui, che decide di sposarla nonostante le differenze sociali. La virtù viene così alla fine premiata (come già suggerisce il titolo del romanzo). La “virtù insidiata”: un tema di grande fortuna nel tempo Il tema della seduzione di un aristocratico nei confronti di una fanciulla indifesa e di rango sociale inferiore avrà un largo seguito nella narrativa (basti pensare ai Promessi sposi). Le ragioni della fortuna di questo tema sono molteplici. Innanzitutto il contrasto fra la volontà sopraffattrice del seduttore e la resistenza opposta dalla fanciulla genera di per sé nel racconto una situazione drammatica, capace di garantire il coinvolgimento emotivo soprattutto nel pubblico femminile. Inoltre, sulla base dell’inevitabile solidarietà dei lettori nei confronti dell’eroina soggetta a violenza fisica e psicologica da parte del suo persecutore, il romanzo diventa strumento di polemico attacco all’arroganza dei nobili, abituati, nel contesto in cui è ambientata la vicenda (che è poi lo stesso dei lettori/lettrici), a imporre e soddisfare ogni loro capriccio e desiderio erotico. La rappresentazione della virtù insidiata in Pamela è funzionale all’affermazione della morale puritana. Facendosene portavoce, Richardson opta per una soluzione positiva ed edificante della vicenda: l’innamoramento del seduttore, e poi la sua decisione di lasciare libera Pamela, segnano il trionfo della virtù sul vizio. Il confronto con la salda online moralità di Pamela diventa inoltre per il suo padrone l’occasione T5 Samuel Richardson e lo stimolo per cambiare vita: Pamela inaugura così il motivo Una cameriera virtuosa (ma anche della “conversione”, che altri celebri personaggi della letteratura battagliera) Pamela o la virtù ricompensata, Lettera XVI (come l’Innominato manzoniano) incarneranno. Il successo di Pamela indusse Richardson a scrivere un nuovo online romanzo, Clarissa (1748), che presenta una trama simile al T6 Henry Fielding precedente (una giovane virtuosa insidiata da un libertino), ma Un elogio dei diritti del corpo: la grande abbuffata di Tom Jones con un finale drammatico, e sviluppa con maggior profondità Tom Jones, vol. 1, ix, v l’analisi psicologica della protagonista. Il realismo e i nuovi personaggi del romanzo settecentesco 2 281


3

Le tipologie del romanzo settecentesco Dall’Inghilterra il romanzo moderno si diffonde lungo il secolo in tutta Europa, ispirando – in particolare in Francia e in Germania – una vasta produzione che sviluppa ed elabora i modelli inglesi in relazione ai diversi contesti sociali e culturali. Delle forme e tipologie che si affermano alcune sono del tutto nuove, altre innovano profondamente generi già consolidati nella storia della letteratura. Occorre precisare che, proprio la mancanza di una rigida codificazione del genere romanzo comporta la proliferazione di vari “sottogeneri” e la compresenza, nella maggior parte dei casi, di diverse tipologie. Lo schema qui sotto proposto ha quindi un carattere solo indicativo. • I romanzi di viaggi e d’avventura Tra i generi predominanti e particolarmente apprezzati dal pubblico, si annoverano i romanzi incentrati sul tema-schema del viaggio, in relazione alla centralità che l’esperienza del viaggio, anche di esplorazione, ebbe nella società settecentesca (➜ PAG. 194). Questo genere, inaugurato dal Robinson Crusoe di Defoe, ebbe molti seguaci. Un uso particolare del temaschema del viaggio d’avventura è proposto pochi anni dopo da Jonathan Swift, che nei Viaggi di Gulliver (1726) affida alle peregrinazioni del protagonista in mondi fantastici la satira impietosa nei confronti delle molteplici storture della società del suo tempo (ed è quindi, a suo modo, una sorta di “racconto filosofico” ➜ T7 ). Lo stesso vale per un romanzo dichiaratamente “filosofico” come Candido (1759) di Voltaire (➜ PAG. 292). La dimensione dell’avventura è presente in quasi tutti i romanzi settecenteschi, anche indipendentemente dalla presenza del viaggio: l’avventura, lo scontro con ambienti ostili, mette alla prova le qualità individuali dei protagonisti, come avviene in Tom Jones (1749) di Fielding (➜ T6 OL). • Il romanzo sentimentale ed epistolare Nella cultura settecentesca il valore cardine è la razionalità, ma al contempo, per la prima volta viene valorizzata la dimensione dell’interiorità, la positività dei sentimenti e delle passioni, sulle quali si fonda propriamente la personalità dell’individuo. Spesso la “verità” dei sentimenti dei protagonisti si scontra con le convenzioni retrive della tradizione e con le leggi comportamentali vigenti: un tipico romanzo patetico-sentimentale è Paolo e Virginia (Paul et Virginie) (1788) di Jacques-Henri Bernardin de Saint-Pierre (➜ T9 OL). La valorizzazione della dimensione interiore e sentimentale è spesso associata dagli autori alla tipologia del romanzo epistolare che, sulla scìa del successo dei romanzi di Richardson (Pamela e Clarissa; ➜ T5 OL), nella narrativa del Settecento conquista una vera e propria egemonia. Nel romanzo francese, la struttura epistolare è utilizzata in Giulia o la nuova Eloisa (Julie ou La nouvelle Héloïse, 1761) di Jean-Jacques Rousseau (➜ T8 ), un romanzo di straordinario successo, che sfrutta al massimo grado le potenzialità del genere per sviluppare l’analisi dei sentimenti dei personaggi, in particolare della protagonista, facendo della lettera uno strumento di introspezione. In forma di lettere scambiate tra due libertini è strutturato anche il romanzo Le relazioni pericolose (Les liaisons dangereuses, 1782) di Pierre-A.-F. Choderlos de Laclos (1741-1803; ➜ C12 OL). Dopo La nuova Eloisa, il più celebre romanzo epistolare, accomunato a quello di Rousseau

282 Settecento 8 Il boom del romanzo, specchio della società borghese


dal tema dell’amore contrastato, è I dolori del giovane Werther (1774) del grande autore tedesco Johann Wolfgang Goethe a cui guarda Ugo Foscolo come modello per Le ultime lettere di Jacopo Ortis: la prima edizione dell’Ortis (1798) esce proprio a conclusione del secolo e segna la prima apparizione del romanzo moderno in Italia, in grande ritardo rispetto agli altri paesi europei. • Il romanzo filosofico Nella seconda metà del Settecento in Francia, in concomitanza con l’affermazione dell’Illuminismo, si sviluppa particolarmente il romanzo filosofico, il conte philosophique, una forma di narrazione che può assumere diverse tipologie narrative: Candido (Candide, 1759) di Voltaire (➜ PAG 000) ha un andamento avventuroso e segue lo schema del romanzo di formazione, Jacques il fatalista (Jacques le fataliste) di Denis Diderot (1713-1784) si presenta come il racconto di un viaggio, mentre Paolo e Virginia (Paul et Virginie) è, come si è detto, un romanzo sentimentale (➜ T9 OL). La prerogativa che accomuna romanzi tanto diversi è quella di utilizzare le vicende narrate per proporre i grandi temi del dibattito ideologico del tempo e per dare voce alle teorie dei filosofi illuministi, magari già espresse in forma di saggio, così da renderle accessibili a un pubblico più ampio. • L’“antiromanzo” A distanza di alcuni decenni dalla sua nascita il romanzo moderno, che aveva nel frattempo vissuto l’intensa stagione caratterizzata dal proliferare degli autori e dei generi di cui si è detto, trova uno sviluppo inedito nella Vita e opinioni di Tristram Shandy (The life and opinions of Tristram Shandy, gentleman, 1760-1767) dello scrittore inglese Laurence Sterne, che attua una vera e propria distruzione delle forme narrative ormai consolidate (compresa la dissoluzione dell’identità del personaggio) fino a creare una sorta di “antiromanzo”, che anticipa gli sviluppi che questo genere letterario avrà nel Novecento. Nell’opera di Sterne è espressa compiutamente la consapevolezza, già preannunciata da Fielding, che il romanzo è una costruzione del suo autore, il quale può disporre i meccanismi narrativi secondo le regole codificate dall’uso o infrangerle. Sterne non solo sceglie la seconda soluzione, ma attua con il Tristram, secondo la definizione di un famoso critico russo, Victor Sklowskij, la «messa a nudo dell’artificio del romanzo» (➜ T15 ). • Il romanzo gotico o nero L’ultimo decennio del secolo XVIII vede l’affermazione del romanzo gotico o nero che soppianta nei favori del pubblico il romanzo epistolare: creato da Horace Walpole (1717-1797) con Il castello d’Otranto (The Castle of Otranto, 1764), viene ripreso da Ann Radcliffe (1764-1823) e da Matthew Lewis (1775-1818), le cui opere ebbero grande successo tra la fine del Settecento e l’inizio dell’Ottocento. Il romanzo gotico contrappone l’immaginazione, gli effetti propri del “romanzesco”, al realismo propugnato dagli scrittori che avevano iniziato la nuova stagione della narrazione.

“La dannazione di Abdia”, dalla Vita e opinioni di Tristram Shandy in un’acquaforte di Henry William Bunbury, 1772 ca. (Graphic Arts Collection).

Le tipologie del romanzo settecentesco

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Le tipologie del romanzo nel Settecento DI VIAGGIO E D’AVVENTURA

I viaggi di Gulliver di Swift

EPISTOLARE

Giulia o la nuova Eloisa di Rousseau

FILOSOFICO

Candido di Voltaire

“ANTIROMANZO”

Tristram Shandy di Sterne

GOTICO

Il castello d’Otranto di Walpole

I viaggi di Gulliver di Jonathan Swift

Illustrazione da un’edizione tedesca dei Viaggi di Gulliver (Lipsia 1810).

Strutturato come un racconto di viaggi, sul modello inaugurato dal Robinson di Defoe, I viaggi di Gulliver (Gulliver’s Travels), del 1726, di Jonathan Swift rinnova il genere grazie alla presenza della componente fantastica, in realtà impiegata come strumento per una dura satira nei confronti della politica e della società del tempo. L’ispirazione satirica costituisce del resto una costante nella vita e nella produzione dell’autore del romanzo, Jonathan Swift (1667-1745). Nato a Dublino da genitori inglesi, Swift vive a lungo in Inghilterra dove, per mantenersi, prende gli ordini religiosi e dove svolge una vivace attività di polemista politico. Traferitosi a Dublino, difende i diritti degli irlandesi contro il dominio inglese nello scritto satirico Una modesta proposta (1729), pubblicato tre anni dopo l’uscita del suo capolavoro, I viaggi di Gulliver, pubblicato anonimo. La trama dell’opera Il romanzo è diviso in quattro parti. Nella prima parte il protagonista, un medico di bordo di nome Lemuel Gulliver, in seguito a un naufragio, approda nell’isola di Lilliput, abitata da minuscoli abitanti. Quando risulta evidente che non ha intenzioni ostili, è accolto dall’imperatore alla sua corte. La società lillipuziana sembra funzionare, ma non mancano le lotte interne tra le opposte fazioni: ad esempio tra i sostenitori di diversi modi per rompere le uova (➜ T7 ), con la perdurante minaccia dell’invasione del regno di Blefuscu, che appoggia una delle fazioni. Oggetto della trasfigurazione satirica di Swift sono in questo caso le guerre di religione, condotte dagli uomini per cause pretestuose. Nella seconda parte il protagonista giunge a Brobdingnag, il paese dei giganti (dodici volte più grandi del normale), dove diventa il giocattolo di una bambina di nove anni. Il re del paese gli chiede di illustrargli le istituzioni politiche e civili inglesi e, nonostante Gulliver difenda la sua patria, dichiara di aver capito che «tutto è macchiato e contaminato dal vizio». La terza parte, in cui il bersaglio satirico sono filosofi, storici e inventori, è ambientata nell’isola volante di Laputa: i lapuziani,

284 Settecento 8 Il boom del romanzo, specchio della società borghese


immersi nelle loro meditazioni, si dimenticano di quello che stanno facendo e devono essere sempre richiamati alla realtà dai loro servitori; qui i sarti confezionano al nuovo arrivato strani vestiti dopo avergli preso complicate misure. Nella sottostante capitale del regno di terraferma, Lagado, le case in cui gli abitanti vivono sono sbilenche e storte perché la geometria viene disprezzata mentre sono praticate le ricerche teoriche più inverosimili: costruire case partendo dal tetto, estrarre raggi di sole dalle zucche, produrre ghiaccio dalla polvere da sparo. La satira di Swift investe qui lo spreco delle risorse per ricerche scientifiche inutili, fini a sé stesse. La tappa successiva porta Gulliver nel paese dei cavalli, gli Houyhnhnm (il nome significa “la perfezione della natura”), che si rivelano saggi e virtuosi, in opposizione alla brutalità dei loro servitori, gli Yahoo, bestioni dalle sembianze umane. L’opera si conclude così con l’esplicita enunciazione di una concezione pessimistica nei confronti della natura umana. La critica alla società Nell’opera il protagonista arriva in luoghi dove gli abitanti e le condizioni di vita sono a prima vista alieni rispetto al mondo da cui proviene e sono tipici di una dimensione fantastica. Ogni viaggio, raccontato da Gulliver in prima persona, è il pretesto per lo scrittore per esprimere la sua visione critica dell’epoca in cui vive e dell’umanità stessa: i temi presi in esame vanno dalle guerre fatte per futili motivi, con gravi costi umani ed economici, al desiderio di potere che domina la politica, alle mode femminili che corrompono la società, alle ricerche scientifiche svolte per ambizione, che, invece di migliorare, peggiorano la vita dei popoli. La tecnica dello straniamento La condanna morale non è svolta esplicitamente ma indirettamente attraverso la tecnica dello straniamento, per cui la realtà nota al lettore viene rappresentata da una prospettiva insolita, in modo da fargliela sembrare apparentemente estranea, come se la vedesse per la prima volta, inducendolo così a notarne le assurdità e a riderne, grazie anche alla sproporzione tra la causa e l’effetto, all’esagerazione, al paradosso; nello stesso tempo i riferimenti ai problemi del mondo che conosce lo fanno riflettere e lo stimolano ad assumere un atteggiamento critico rispetto a ciò che legge.

Jonathan Swift

T7

Una guerra per stabilire da che parte si rompono le uova

EDUCAZIONE CIVICA

nucleo Costituzione competenza 1, 2

I viaggi di Gulliver, I, iv J. Swift, I viaggi di Gulliver, a c. di M. D’Amico, Mondadori, Milano 1983

Durante la visita al palazzo reale di Lilliput, Gulliver riceve le confidenze di un alto dignitario di corte: il regno è sotto la minaccia di invasione da parte dell’imperatore di Blefuscu, che sostiene il partito dei «puntalarghisti», cioè di coloro che sostengono che le uova debbano essere rotte dalla parte larga, contro la fazione della «punta stretta».

Orbene, mentre ci si dibatte in questi torbidi interni1, siamo minacciati dall’invasione dei nostri nemici, gli abitanti, cioè, dell’isola di Blefuscu, la quale è l’altro grande impero dell’universo, quasi altrettanto ampio e potente quanto questo di Sua Maestà. Poiché i nostri savi hanno i maggiori dubbi circa quanto vi abbiamo udito 1 si dibatte... interni: l’importante personaggio con cui Gulliver si intrattiene,

nella parte di conversazione omessa, si è dilungato sul conflitto interno tra i partiti

dei Tacchi Bassi e dei Tacchi Alti.

Le tipologie del romanzo settecentesco

3 285


affermare, che, cioè, esistano altri regni e stati nel mondo popolati da esseri umani grossi come voi, e preferiscono credere che voi siate caduto giù dalla luna o da qualche altro astro; e certo è che cento uomini della vostra mole distruggerebbero in breve spazio di tempo tutti i frutti e il bestiame di questi dominii di Sua Maestà. Oltre a ciò, le nostre cronache di seimila lune2 non menzionano altre regioni 10 che non siano quelle dei due imperii di Lilliput e Blefuscu. Queste due gagliarde potenze, come appunto stavo per dirvi, guerreggiano ostinatamente fra loro dalla bellezza di trentasei lune. La lite cominciò nel seguente modo. È ammesso da tutti che il sistema più antico di rompere le uova prima di mangiarle è quello di farne saltare l’estremità più grossa: sennonché il nonno di Sua Maestà regnante, volendo 15 mangiare un uovo, e rompendolo secondo l’antico sistema, si tagliò per caso un dito. L’Imperatore suo padre non volle altro, e subito pubblicò un editto3 inteso ad imporre a tutti i suoi sudditi, sotto minaccia di gravi pene, di rompere le uova non altrimenti che con lo spiccarne l’estremità più piccola. Il popolo si sentì talmente offeso da questa legge che, a voler credere alle nostre cronache, ben sei ribellioni 20 scoppiarono, durante le quali un Imperatore perdette la vita, e un altro la corona. Questi torbidi interni furono costantemente fomentati4 dai monarchi di Blefuscu; e quando si riuscì a sedarli, gli esiliati cercarono sempre rifugio in quell’impero. Da un computo fatto risulta che non meno di undicimila persone, nel corso delle varie ribellioni, preferirono d’essere giustiziate, piuttosto che sottomettersi a rompere le 25 uova dall’estremità più piccola. Centinaia di grossi volumi sono stati pubblicati su questa controversia: ma i libri dei Rompidallapartegrossa sono stati da lungo tempo proibiti e gli aderenti al partito dichiarati in massa interdetti dai pubblici uffici. Durante questi torbidi, gl’Imperatori di Blefuscu inviarono di frequente ambasciatori a protestare, accusandoci di essere autori d’uno scisma5 col fare onta da una dottrina 30 fondamentale del nostro grande profeta Lustrog, contenuta nel cinquantaquattresimo capitolo del Brundecral6, il loro Corano. Ma si tratta, evidentemente, d’una interpretazione forzata del testo, perché questo suona: tutti i veri fedeli romperanno le uova dalla estremità conveniente: e quale sia l’estremità conveniente sembra, secondo il mio modesto parere, doversi lasciare ai dettami della coscienza d’ogni 35 singolo uomo, o, almeno, al responso della suprema magistratura. Frattanto gli esiliati Rompidallapartegrossa hanno trovato tale credito alla corte dell’Imperatore di Blefuscu e tanto appoggio ed incoraggiamento presso i correligionari rimasti qui in patria, che fra i due imperi una guerra sanguinosa è infierita per lo spazio di trentasei lune col continuo alternarsi di vittorie e sconfitte: noi abbiamo perduto quaranta 40 vascelli di linea, un numero anche maggiore di navi più piccole, oltre a trentamila marinai e soldati fra i migliori che avevamo; e il nemico ha patito un danno che si vuole alquanto maggiore del nostro. Ciò nonostante esso ha ora allestito una flotta numerosa, e appunto si prepara ad invaderci; e Sua Maestà l’Imperatore, riponendo massima fiducia nel vostro valore e nella vostra forza, mi ha ordinato di esporvi 45 questo stato di cose. 5

2 seimila lune: il computo del tempo avviene sull’unità di tempo base della lunazione (circa 29 giorni: è il tempo che la Luna impiega nel suo moto di rotazione intorno alla Terra). Più avanti (r. 12) si parla di trentasei lune.

3 pubblicò un editto: emanò una legge. 4 fomentati: istigati. 5 scisma: scissione, divisione in gruppi contrapposti all’interno di una comunità religiosa.

286 Settecento 8 Il boom del romanzo, specchio della società borghese

6 da una... Brundecral: Lustrog e Brundecral sono nomi di fantasia per indicare il profeta e il testo sacro di Lilliput.


Pregai il Segretario di voler presentare il mio umile omaggio all’Imperatore, e di fargli sapere che non credevo si addicesse a me, semplice forestiero, d’ingerirmi nelle lotte dei partiti, ma che ero pronto, a rischio anche della vita, a difendere la sua persona e il suo stato contro qualsivoglia invasore.

Analisi del testo Il linguaggio della satira Il racconto dei conflitti interni, delle guerre passate e di una imminente fatto dall’alto dignitario rappresenta, attraverso il filtro satirico, uno spaccato della politica inglese ed europea del tempo. Oggetto della satira dello scrittore sono le guerre scatenate per motivi religiosi: motivate spesso da divergenze di interpretazione, sono in realtà un pretesto per aggredire e dominare altri territori e popoli. L’intento satirico è realizzato attraverso la sproporzione tra la causa e l’effetto e il paradosso: le guerre tra il regno di Lilliput e quello di Blefuscu, causate dai due partiti dei “puntastretta” e dei “puntalarga”, divisi sulla parte dove rompere le uova, fanno ridere il lettore per la loro assurdità e nello stesso tempo gli fanno capire che altrettanto assurde e dannose sono quelle del mondo in cui vive. Non mancano infatti nel testo riferimenti riconducibili a una precisa interpretazione storica: la legge con cui gli appartenenti al partito dei puntalarghisti sono esclusi dai pubblici uffici allude al Test Act del 1673, legge inglese che stabiliva quella misura nei confronti dei non aderenti alla Chiesa anglicana.

Una soluzione “illuministica” per i conflitti Al primo segretario agli interni, interlocutore del protagonista nell’episodio, lo scrittore affida non solo la denuncia del problema ma anche la possibile soluzione: sempre attraverso la metafora della parte da cui rompere le uova, l’importante personaggio, ben diverso dai politici «funamboli» già incontrati da Gulliver a corte, sostiene che il testo sacro a cui i contendenti si appellano non stabilisce la parte giusta («si tratta, evidentemente, d’una interpretazione forzata del testo, perché questo suona: tutti i veri fedeli romperanno le uova dalla estremità conveniente»); pertanto è la coscienza individuale o il ricorso a un’autorità super partes a dover stabilire l’«estremità conveniente», secondo quei principi della libertà di coscienza e dell’autonomia della politica dalla religione che saranno propri dell’Illuminismo.

Gulliver prigioniero dei lillipuziani, scena dal film I fantastici viaggi di Gulliver del 2010, di Rob Letterman.

Le tipologie del romanzo settecentesco

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Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

COMPRENSIONE 1. Dov’è ambientato l’episodio del brano proposto? 2. Quale significato ha il riferimento al Corano? LESSICO 3. In che modo l’intento satirico dell’opera si traduce nelle scelte lessicali dell’autore? Osserva con particolare attenzione nomi propri e toponimi.

Interpretare

SCRITTURA CREATIVA 4. Immagina di arrivare in un luogo in cui gli abitanti sono molto diversi da te: descrivi questo mondo immaginario e fanne il pretesto per una satira nei confronti di aspetti della nostra società che non condividi. ESPOSIZIONE ORALE

EDUCAZIONE CIVICA

nucleo

Costituzione

competenza 1

5. Nella parte finale del brano proposto il primo segretario degli interni del regno di Lilliput esprime un punto di vista molto moderno su chi dovrebbe pronunciarsi sulle questioni legate al credo religioso. Perché, a tuo avviso, l’alto dignitario prende in considerazione anche la magistratura oltre alla coscienza individuale? Credi che le istituzioni giochino un ruolo importante nella creazione di società pacifiche? Motiva la tua risposta in un intervento orale di circa 5 minuti. COMPETENZA DIGITALE

EDUCAZIONE CIVICA

nucleo

Costituzione

competenza 2

6. La libertà religiosa è tutelata da molte Carte costituzionali e dichiarazioni internazionali, ma purtroppo non è garantita in tutto il mondo. Fai una ricerca in Rete in merito ai paesi che non rispettano la libertà di professare il proprio credo religioso ed esponi il risultato del tuo lavoro alla classe in forma multimediale. Illustra altresì gli articoli della Costituzione italiana che sanciscono il diritto alla libertà religiosa.

Giulia o La nuova Eloisa di Jean-Jacques Rousseau Il romanzo di Jean-Jacques Rousseau, Giulia o La nuova Eloisa (Julie ou La nouvelle Héloïse), fu un vero e proprio best-seller (dopo la prima edizione del 1761 si contano alla fine del secolo ben 72 ristampe!). Diviso in sei parti, ha una struttura epistolare: la prima parte è incentrata sullo scambio di lettere tra Giulia e il suo precettore e amante, nella seconda, e soprattutto nelle ultime tre, la corrispondenza avviene anche tra personaggi diversi dai due protagonisti. La trama dell’opera La vicenda inizia a Clarens, sul lago Lemano, nella Svizzera francese, dove il giovane Saint-Preux, di grandi qualità interiori ma di origine borghese, si innamora della nobile Giulia d’Etanges, di cui è precettore. L’amore è osteggiato dal padre di Giulia a causa della differenza sociale: i due innamorati sono costretti a separarsi. Dopo il ritorno di Saint-Preux a Clarens, diventano amanti, ma Giulia si rifiuta di fuggire con lui per non opporsi alla volontà del padre. La nuova separazione non pone fine alla loro corrispondenza, fino a quando Giulia accetta di sposare un uomo scelto per lei dal padre, rinunciando a Saint-Preux. Questi, dopo aver meditato il suicidio, sceglie di imbarcarsi per una destinazione lontana. Dopo quattro anni il marito di Giulia, ormai madre di due figli, invita Saint-Preux a Clarens, nella speranza che l’antica passione si trasformi in un amore spirituale; il progetto però fallisce e i due amanti rivivono l’antico sentimento con la stessa intensità, pur non cedendo al desiderio. Giulia, divisa tra la fedeltà coniugale e la passione, vede come unica soluzione al suo conflitto la morte: il suo desiderio si avvera quando, per salvare uno dei figli caduto nel lago, si ammala e muore, dopo aver affidato a Saint-Preux l’educazione dei figli.

288 Settecento 8 Il boom del romanzo, specchio della società borghese


La genesi del romanzo: tra dimensione autobiografica e suggestioni letterarie Rousseau scrive il romanzo tra il 1756 e il 1758, dopo aver lasciato Parigi ed essersi ritirato a vivere in campagna in solitudine, a contatto diretto con la natura: una condizione che favorisce particolarmente l’introspezione, l’autoanalisi di cui il romanzo stesso si può considerare il frutto. Nel libro IX delle Confessioni Rousseau delinea il contesto da cui il romanzo trasse origine, insieme ambientale (la campagna appunto, che nel libro è significativamente contrapposta alla città) e psicologico-esistenziale (una condizione malinconica e al contempo aperta alla passione amorosa che pare l’autore vivesse veramente proprio nel periodo della stesura del romanzo). Il romanzo ha dunque un risvolto autobiografico, che Rousseau stesso sottolineò, dichiarando di aver dato al protagonista «le virtù e i difetti che sentivo miei». D’altra parte, il titolo scelto da Rousseau per la sua opera rivela anche il modello letterario a cui si ispira, e cioè la drammatica storia d’amore tra il filosofo medievale Pietro Abelardo (1079-1142) ed Eloisa, sua allieva e poi moglie segreta. Tra Abelardo, fattosi monaco, ed Eloisa, ritiratasi in convento, si svolse un lungo carteggio su aspetti etici e filosofici, in un processo graduale di elevazione spirituale del sentimento amoroso. Il tema La vicenda narrata, la passione tra Giulia e Saint-Preux e la rinuncia vissuta dai due protagonisti, e in particolare da Giulia, a vivere fino in fondo la loro storia d’amore traspone sul piano del privato il grande tema rousseauiano del conflitto tra natura e civiltà: alla “naturalità” della passione, a cui i due giovani (appena ventenni) in un primo tempo cedono, si contrappongono infatti le convenzioni sociali che impediscono la loro unione. Ma Giulia non è ancora un personaggio modernamente trasgressivo: ella crede fermamente nella necessità della virtù, accetta fino in fondo i doveri sociali e le regole del mondo a cui appartiene, pur avvertendoli in contraddizione con gli impulsi del suo cuore. Il romanzo ha quindi al centro un conflitto irrisolvibile, che l’autore intende riprodurre con autenticità, infrangendo per deliberata scelta (come si vede dalla seconda prefazione all’opera) l’artificiosità delle convenzioni letterarie. Del resto, l’opera venne letta dai lettori suoi contemporanei proprio come se lo scambio epistolare fosse reale e costituisce un esempio della nuova modalità di lettura “con il cuore”, di cui abbiamo parlato (➜ PAG. 294).

Charles Edouard Crespy Le Prince, Julie e Saint-Preux sul lago di Ginevra, 1824.

Le tipologie del romanzo settecentesco

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Jean-Jacques Rousseau

Il pentimento di Giulia

T8

Giulia o La nuova Eloisa, Lettera XXXII, risposta

LEGGERE LE EMOZIONI

EDUCAZIONE ALLE RELAZIONI

In questa lettera (scritta in risposta a una di Saint-Preux), di cui riproduciamo un passo tratto dalla parte iniziale, Giulia esprime il suo pentimento per aver ceduto alla passione e per non aver difeso la virtù, fondamento, a suo avviso, di un autentico amore.

J.-J. Rousseau, Giulia o la nuova Eloisa, trad. di P. Bianconi, Rizzoli, Milano 1996

[...] Credimi, credi al tenero cuore della tua Giulia; il mio rammarico non è tanto di aver accordato troppo all’amore, ma bensì di averlo privato della sua massima seduzione. Quel dolce incanto della virtù è svanito come un sogno: i nostri fuochi1 han perduto quel divino ardore2 che li animava purificandoli; abbiamo cercato il 5 piacere e la felicità ci ha abbandonati. Ricordati di quei deliziosi momenti che3 i nostri cuori s’univano tanto più quanto più ci rispettavamo, che la passione ricavava dal suo stesso eccesso la forza di vincersi, che l’innocenza ci consolava della costrizione4, che gli omaggi resi all’onore ridondavano a profitto dell’amore. Paragona così piacevole stato con la nostra situazione attuale: quante agitazioni! quanti spaventi! 10 quante mortali angosce5! quanti sentimenti hanno ormai perduta la loro primitiva dolcezza! Cos’è diventato quello zelo6 di saggezza e d’onestà con cui l’amore animava tutte le azioni della nostra vita, e che a sua volta faceva più delizioso l’amore? Le nostre gioie erano placide e durevoli; non ci restano che trasporti7: quest’insensata felicità che somiglia ad accessi di furore piuttosto che a tenere carezze. Un puro e 15 sacro fuoco ardeva i nostri cuori; abbandonati agli errori dei sensi, non siamo ormai più che volgari amanti; troppo felici se l’amore geloso si degna ancora di presiedere a8 piaceri che il più vile dei mortali riesce a gustare senza di lui. Ecco, amico, le perdite che abbiam fatto, e che rimpiango per te non meno che per me. Non aggiungo parola sulle mie, il tuo cuore è fatto per sentirle. Vedi la 20 mia vergogna e gemi, se sai amare. La mia colpa è irreparabile, le mie lagrime non asciugheranno mai. O tu che le fai scorrere, bada di non attentare a così giusti dolori; tutta la mia speranza è di renderli eterni; il peggiore dei miei mali sarebbe di consolarmene, e l’estremo grado dell’abbiezione9 è di perdere insieme all’innocenza il sentimento che ce la fa amare.

1 i nostri fuochi: l’amore è paragonato a un fuoco per esprimerne l’intensità. 2 quel divino ardore: l’intensità profonda, paragonabile a un sentimento sovraumano. 3 che: in cui (come i successivi).

4 costrizione: repressione della passione. 5 quante mortali angosce: Giulia allude alla preoccupazione di essere scoperti e al suo pentimento. 6 zelo: sollecitudine.

7 trasporti: espressioni del desiderio erotico. 8 presiedere a: reggere e guidare. 9 abbiezione: bassezza morale, perdizione.

Analisi del testo La difesa della virtù Per interpretare correttamente il testo occorre tener presente che con la storia di Giulia e Saint-Preux Rousseau si proponeva nei confronti del lettore un obiettivo pedagogico, che sarebbe stato più difficile da raggiungere con un’esposizione teorica: la protagonista funge qui da portavoce della concezione dell’amore dell’autore, per cui la virtù è più importante della passione; per conquistarla è però necessario sperimentare direttamente la colpa.

290 Settecento 8 Il boom del romanzo, specchio della società borghese


Nella lettera Giulia prende le difese della virtù che lei stessa ha tradito per compiacere l’amante. Il suo pentimento, che, precisa, non deve essere frainteso, corrisponde alla consapevolezza di aver tolto all’amore una parte della sua stessa forza vitale: ne deriva il rimpianto per il tempo dell’amore innocente e puro, contrapposto a quello dell’«insensata felicità»; solo la condanna del proprio errore («La mia colpa è irreparabile») e il dolore possono rappresentare un conforto, e non le parole consolatrici dell’amante. Nella parte non antologizzata del testo Giulia scrive che da questo momento, a causa dell’immagine negativa che ha maturato di sé, l’unico sollievo può venirle dalla speranza di spingere con il suo pentimento l’amato verso la perfezione morale.

Lo stile dell’interiorità Nella lettera domina un tono appassionato, in sintonia con l’intensità delle emozioni espresse. Lo stile è caratterizzato dal contrasto nelle scelte lessicali, corrispondenti alle due fasi della vicenda d’amore: nell’intento di convincere l’amante, che sente dubbioso, della giustezza del suo pentimento, la protagonista ne difende la forza morale attraverso un lessico fortemente improntato alla severa condanna della sua colpa («errori dei sensi», «volgari amanti»); alla situazione attuale, dominata da tormenti e sensi di colpa, contrappone con numerose espressioni di tenerezza il tempo in cui l’amore era sostenuto «dal dolce incanto della virtù» e i «deliziosi momenti» vissuti. Anche l’uso della punteggiatura (i punti esclamativi) e le ripetizioni sono funzionali a rappresentare il dramma interiore vissuto dalla protagonista, sollecitando l’adesione emotiva e l’immedesimazione del lettore.

Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

COMPRENSIONE 1. Spiega la frase: «i nostri fuochi han perduto quel divino ardore che li animava purificandoli». Quale concezione dell’amore esprime? ANALISI 2. Sottolinea nella lettera le espressioni di rimpianto per il passato: quali aspetti dell’amore, secondo Giulia, sono andati persi decidendo di assecondare la passione? 3. Individua nel testo gli argomenti che Giulia utilizza per convincere Saint-Preux del loro errore. LESSICO 4. Ti sembra che le scelte lessicali (così come sono rese nella traduzione) siano adeguate allo scopo che il filosofo si propone nei confronti del lettore?

Interpretare

LEGGERE LE EMOZIONI

EDUCAZIONE ALLE RELAZIONI

SCRITTURA CREATIVA 5. Come sai, il brano è tratto da un romanzo epistolare. Immagina e scrivi la risposta di Saint-Preux a questa lettera. ESPOSIZIONE ORALE 6. Nella parte conclusiva del brano Giulia scrive a Saint-Preux: «Non aggiungo parola sulle mie, il tuo cuore è fatto per sentirle». La capacità di “sintonizzarsi” sulle frequenze emotive di un’altra persona, di saperla leggere e interpretare, spesso senza la necessità di fare riscorso alle parole, si definisce empatia. Non è una prerogativa di una relazione amorosa, ma di tutti i legami fondati sulla complicità e su un’intesa profonda. Credi che sia possibile stringere un rapporto emotivo di tale intensità con un’altra persona oppure credi che si tratti semplicemente di una dinamica romanzesca?

online T9 Jacques-Henri Bernardin de Saint-Pierre

Un’appassionata esaltazione dello stato di natura Paolo e Virginia

Le tipologie del romanzo settecentesco

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Candido di Voltaire

Candido sul campo di battaglia, illustrazione di Adrien Moreau per un’edizione di Candido (Parigi, 1893).

Il migliore dei mondi possibili? Candido o l’ottimismo, scritto nel 1759 da Voltaire, è il più celebre dei “romanzi filosofici” francesi. All’inizio del Settecento si era attivato un vivace dibattito filosofico se fosse possibile conciliare la presenza della sofferenza e del male nel mondo con la bontà e l’onnipotenza di Dio. Grande successo aveva riscosso la posizione del filosofo tedesco Gottfried Wilhelm Leibniz (1646-1716). Secondo Leibniz, se Dio esiste è necessariamente perfetto, e se è perfetto anche il mondo da lui creato è necessariamente perfetto: è «il migliore dei mondi possibili». Anche Voltaire era stato inizialmente sensibile all’idea leibniziana secondo la quale i singoli mali potessero produrre il bene generale. Quando scrive Candido, però, nel 1759, il filosofo si è ormai allontanato da questa posizione, maturando un sostanziale scetticismo: l’uomo è inserito in un ciclo meccanico di eventi di cui non possiede la chiave interpretativa e che sembrano privi di senso. Una riflessione che trovava proprio allora drammatica conferma negli eventi della storia contemporanea – era in corso la sanguinosa guerra dei Sette anni (17561763), nella quale si scontrarono i principali paesi europei – ma anche in una terribile catastrofe naturale: nel 1755 uno spaventoso terremoto aveva sterminato a Lisbona 30.000 persone. L’opera nasce quindi dalla critica e dalla presa di distanza di Voltaire rispetto alla posizione di Leibniz e all’ottimismo, incarnato dalla figura del protagonista. La trama dell’opera Candido vive felice in un castello in Vestfalia (una regione della Germania) ed è educato dal verboso filosofo Pangloss secondo i princìpi di un ottimismo incondizionato ispirato alla concezione del filosofo tedesco Leibniz. Una volta costretto a lasciare il castello perché ha osato baciare Cunegonda, la giovane figlia del barone(➜ T10 ), Candido vive una serie di disavventure e di peripezie che lo allontanano progressivamente dall’ottimismo predicato dal maestro: la storia e la stessa vita umana si rivelano a Candido inquinate dalla sofferenza e dall’irrazionalità, che si concretizzano nella serie di mali che egli incontra nel suo itinerario. Alla fine del suo difficile cammino Candido arriverà a sviluppare una personale visione del mondo: se all’inizio è un giovane ingenuo che letteralmente pende dalle labbra di Pangloss, dopo le dure smentite alla sua filosofia cui ha personalmente assistito, nell’ultimo, risolutivo, capitolo del romanzo arriva addirittura garbatamente a togliergli la parola per dire la sua. Il cammino di formazione di Candido sfocia così nella rinuncia a ogni prospettiva interpretativa globale, innanzitutto metafisica, ma anche rigidamente ideologica. Il male del mondo non è eliminabile né spiegabile razionalmente, occorre lavorare umilmente per contribuire, ognuno nel proprio ambito, a realizzare “qui e ora” una vita civile. Sembra essere questo il senso della celebre metafora «coltivare il proprio giardino» che chiude l’opera (➜ T14 ). Un romanzo a tesi A prima vista (ed è godibile anche a questo primo livello di lettura) Candido potrebbe apparire come un romanzo d’avventura, tante sono le peripezie che coinvolgono il protagonista e i suoi compagni nelle più varie parti del mondo, dall’Europa all’America latina. Voltaire adotta il tradizionale schema

292 Settecento 8 Il boom del romanzo, specchio della società borghese


narrativo del viaggio, che si svolge in questo caso all’interno di uno spazio geografico vastissimo. All’inizio siamo in Germania (nel castello in Vestfalia), uno spazio chiuso, arcaico, ancora feudale, che il protagonista dovrà abbandonare per sperimentare gli spazi aperti e, in parallelo, le molteplici esperienze del mondo: l’azione si sposta in Olanda, in Portogallo, quindi in America latina (Buenos Aires, Paraguay e Suriname), quindi in Francia, Inghilterra e Italia (a Venezia); ancora in Turchia, a Costantinopoli, e infine sulle rive dell’odierno mar di Marmara dove si conclude il peregrinare di Candido. Non manca un’incursione nel favoloso Eldorado, paese edenico di un’utopica felicità antitetica a quanto succede nel mondo (➜ T12 OL). A uno sguardo più attento appare chiaro però che le avventure sono montate ad hoc dall’autore in una sorta di “catalogo” finalizzato alla dimostrazione di una tesi: la presenza ineliminabile del male nel mondo, l’assurdità irrazionale della storia. Da qui il carattere antirealistico del romanzo, che, per non fraintenderne il senso, si deve leggere come una sorta di allegoria della condizione umana. Pur nella leggerezza ironica che lo contraddistingue, il romanzo, conformemente alle posizioni assunte da Voltaire nel dibattito illuminista, costituisce una ferma denuncia contro l’assurdità della guerra (➜ T11 ), contro ogni forma di intolleranza, in particolare quella religiosa, e una vibrante protesta, in nome degli ideali di uguaglianza, contro la disumana prospettiva schiavista e colonialista che aveva ispirato la conquista del Nuovo Mondo (➜ T13 OL).

Frontespizio e prima pagina del primo capitolo di una delle prime traduzioni inglesi (1762) di Candido.

La commistione di generi e di modelli Candido, romanzo breve (o racconto lungo) in 30 capitoletti, presenta una struttura narrativa composita. L’opera è senz’altro debitrice nei confronti di forme narrative precedenti e coeve, talvolta forse parodizzate: l’intreccio si conforma complessivamente allo schema del romanzo di formazione, ma le avventure di Candido richiamano anche il modello del romanzo picaresco (➜ C4). Le paradossali vicende delle donne (capp. XI-XII) che si svolgono per mare e prevedono una serie interminabile e paradossale di stupri, di scambi, di passaggi di mano, rimandano al Decameron di Boccaccio (e in particolare forse alla novella della bella Alatiel: Decameron II, 7). Il costante movimento che anima il romanzo, i continui colpi di scena, i cambiamenti che ribaltano più volte la condizione dei personaggi, sono forse memori della lezione dell’Orlando furioso, di cui Voltaire fu un grande ammiratore. L’amore struggente e devoto di Candido per Cunegonda sembra a prima vista tratto da un romanzo sentimentale, forma narrativa di successo al tempo di Voltaire, ma la figura rosea e paffuta della fanciulla non si confà certo a tale modello e soprattutto, alla fine del romanzo, essa subisce un’evidente deformazione grottesca. Quanto all’ampio inserto centrale sull’Eldorado (capp. XVII e XVIII) ha la sua fonte nella letteratura dell’utopia, dall’Utopia di Tommaso Moro alla Nuova Atlantide di Bacone (➜ C5 OL).

Le tipologie del romanzo settecentesco

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Personaggi-funzione I personaggi del romanzo non hanno un carattere realistico, ma sono funzioni simboliche di un tema, come testimonia in alcuni casi già la scelta dei loro nomi: in particolare Pangloss (nome grecizzante che significa “tuttolingua”) è il nome ironico scelto da Voltaire per il filosofo-teologo esperto in metafisica, seguace di Leibniz, che sostiene contro ogni evidenza che quello in cui viviamo è il migliore dei mondi possibili perché «tutto è fatto per un fine, tutto è necessariamente per il miglior fine». Candido stesso non è propriamente un personaggio: egli è infatti del tutto privo, come gli altri personaggi, di spessore psicologico, è quasi addirittura solo un “punto di vista“: quello di un individuo totalmente ingenuo, “candido”, appunto, il cui saonline pere inizialmente si fonda sulla fiducia incondizionata nel T10 Voltaire verbo di Pangloss e che si aprirà invece, attraverso l’espeCome Candide fu allevato in un bel castello e come ne fu cacciato rienza, a una visione del mondo più critica e consapevole Candido, I (come è invitato a fare il lettore stesso).

T11

Voltaire

EDUCAZIONE CIVICA

Un eroico macello

nucleo Costituzione competenza 1

Candido, III Voltaire, Candido, trad. di P. Bianconi, intr. di I. Calvino, Rizzoli, Milano 1987

Arruolato a forza da militari bulgari (nella finzione narrativa, ai bulgari corrispondono i prussiani, agli àvari i francesi, cap. II), Candido incontra la tragica realtà della guerra, la prima dura lezione impartitagli dall’esperienza dopo la cacciata dall’eden del castello.

Non c’era nulla di così bello, di così agile, di così brillante, di così ben ordinato come i due eserciti. Le trombe, i pifferi, gli oboe, i tamburi, i cannoni formavano un’armonia che la simile non fu mai nemmeno all’inferno. Dapprima i cannoni rovesciarono circa seimila uomini per parte; poi la fucileria tolse dal migliore dei 5 mondi1 da nove a diecimila farabutti che ne insozzavano la superficie. Anche la baionetta fu la ragion sufficiente della morte di alcune migliaia di uomini. Il totale poteva aggirarsi sulle trentamila anime. Candide, che tremava come un filosofo, si nascose il meglio che poté durante codesto eroico macello. Finalmente, intanto che i due re facevano cantare dei Te Deum2 ciascuno nel proprio 10 accampamento, Candide risolvette di andare altrove a ragionar sulle cause e sugli effetti. Scavalcò mucchi di morti e morenti, e prima raggiunse un villaggio vicino, ridotto in cenere: era un villaggio àvaro3 che i bulgari avevano incendiato secondo le leggi del diritto pubblico. Qui vecchi crivellati di ferite guardavan morir sgozzate le loro donne coi bambini alla sanguinante mammella; là ragazze, sventrate dopo 15 d’aver saziato i naturali bisogni di alcuni eroi, esalavan l’estremo respiro; altre, mezzo bruciacchiate, imploravano che finissero di ammazzarle. Cervelli erano sparsi per terra, accanto a braccia e gambe tagliate. Candide fuggì al più presto in un altro villaggio: apparteneva ai bulgari e gli eroi àvari l’avevan trattato allo stesso modo. 1 tolse dal migliore dei mondi: ripresa la terminologia filosofica leibniziana (come anche poco sotto: «la ragion sufficiente» o «ragionar sulle cause e sugli effetti») ricorrente in tutto il romanzo per tenere desta l’attenzione del lettore sul caratte-

re esemplare degli eventi narrati, che si delinea proprio in rapporto all’ottimismo leibniziano. 2 Te Deum: è il Te Deum laudamus (Ti lodiamo Signore), cantato nelle solenni cerimonie religiose di ringraziamento.

294 Settecento 8 Il boom del romanzo, specchio della società borghese

3 un villaggio àvaro: si ricordi che i due schieramenti sono i bulgari (che simboleggiano i prussiani) e gli àvari (che simboleggiano l’esercito francese).


Analisi del testo Una dura denuncia contro la guerra Questo passo introduce uno dei temi più cari a Voltaire, la denuncia dell’irrazionalità e degli orrori della guerra, e può utilmente essere messo a confronto con la voce “Guerra” del Dizionario filosofico composto da Voltaire nel 1764. Nella prima parte del testo la ferma critica di Voltaire non è affidata a un’enfatizzazione patetica della rappresentazione, anzi qui Voltaire ricorre al registro ironico per mostrare l’assurdità della guerra (sintetizzata nell’ossimoro eroico macello). Ognuno dei due schieramenti crede di essere nel giusto, così che entrambi celebrano messe di ringraziamento per le stragi compiute. La nuda evidenza del numero dei morti basta da sola a rendere conto dell’atrocità della guerra. Nella seconda parte, però, è come se l’indignazione dello scrittore rompesse gli argini della sua narrazione controllata: è enfatizzato l’orrore della guerra attraverso immagini di atrocità che suscitano la deprecazione del lettore (madri sgozzate con i lattanti attaccati al seno insanguinato, ragazze violentate e sventrate, membra e cervella sparse). Solitamente contrario a sollecitare emotivamente il lettore, qui Voltaire gli chiede un’aperta immedesimazione.

Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

COMPRENSIONE 1. Come si comporta Candido durante «l’eroico macello»? 2. Spiega il significato della frase «Candide risolvette di andare altrove a ragionar sulle cause e sugli effetti» inserita nel contesto della guerra.

Interpretare

ESPOSIZIONE ORALE 3. In un intervento orale di circa 3 minuti spiega perché, secondo te, Voltaire non fa alcun riferimento alle cause del conflitto tra bulgari e àvari e chiarisci il motivo per cui i contendenti si comportano esattamente nello stesso modo.

EDUCAZIONE CIVICA

4. Dopo la lettura di questo brano è inevitabile pensare al tragico conflitto israelopalestinese scoppiato nel 2023, ma anche a tutti gli altri conflitti sempre in atto, spesso poco considerati dall’attenzione mediatica. Trovi dei punti di contatto tra l’amara riflessione formulata da Voltaire e i recenti fatti di attualità? Motiva la tua risposta in un testo di massimo 20 righe.

SCRITTURA nucleo

Costituzione

competenza 1

TESTI A CONFRONTO 5. Dopo aver letto il testo che segue, tratto dal Dizionario filosofico di Voltaire, sintetizza le argomentazioni dell’autore contro la guerra e poi confrontale con il testo di Candido appena letto (ricorda che il romanzo precede di cinque anni il Dizionario filosofico).

La carestia, la peste e la guerra sono i tre ingredienti più famosi di questo basso mondo. Nella classe della carestia si possono schierare tutti i pessimi alimenti cui la penuria1 ci costringe a ricorrere per abbreviare la nostra vita nella speranza di sostentarla. 5 Nella peste si comprendono tutte le malattie contagiose, che ammontano a due o tremila. Questi due doni ci vengono dalla Provvidenza2. Ma la guerra, che li riunisce tutti, ci viene dall’immaginazione di tre o quattrocento persone sparse sulla superficie di questo globo sotto il nome di principi o di ministri; e forse per questa ragione in parecchie dediche essi vengono chiamati le im10 magini viventi della Divinità3. [...] 1 penuria: estrema povertà. 2 Questi… Provvidenza: la peste e le malattie sono riconosciute ironicamente come “doni” della provvidenza.

3 Ma la guerra… Divinità: un’altra ironica spiegazione: la guerra nasce dalla fantasia dei pochi uomini di potere che nelle dediche delle loro opere

letterati, eruditi, filosofi ecc. riconoscono come immagini viventi della Divinità.

Le tipologie del romanzo settecentesco

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La cosa più sorprendente di questa impresa infernale, è che ogni capo di questi assassini fa benedire le sue insegne e invoca solennemente Dio prima di andare a sterminare il suo prossimo. Se un capo ha avuto solo la fortuna di far scannare due o tremila uomini, non ne ringrazia Dio; ma quando gli 15 sterminati col ferro e col fuoco raggiungono i diecimila e, per colmo di grazia, qualche città è stata distrutta da cima a fondo, allora si canta a quattro parti una canzone abbastanza lunga, composta in una lingua sconosciuta a tutti quelli che hanno combattuto, e per giunta farcita di barbarismi4. La stessa canzone serve per i matrimoni e per le nascite, come per gli omicidi: cosa 20 imperdonabile, soprattutto nella nazione più rinomata per le canzoni nuove. La religione naturale5 ha impedito mille volte ai cittadini di commettere crimini. Un’anima bennata non ne ha la volontà; un’anima tenera ne è inorridita; essa si figura un Dio giusto e vendicatore. Ma la religione artificiale6 incoraggia a tutte le crudeltà collettive, congiure, sedizioni, brigantaggi, imboscate, 25 scorrerie cittadine, saccheggi, omicidi. Ciascuno marcia allegramente verso il delitto sotto il vessillo del suo santo. [...] Filosofi moralisti, bruciate tutti i vostri libri. Finché il capriccio di pochi uomini farà legalmente sgozzare migliaia di nostri fratelli, la parte del genere umano consacrata all’eroismo sarà quanto c’è di più spaventoso nella natura intera. 30 Che cosa ne sarà e che m’importa dell’umanità, della beneficenza, della modestia, della temperanza, della dolcezza, della saggezza, della pietà7, quando una mezza libbra di piombo tirata da seicento passi mi fracassa il corpo, ed io muoio a vent’anni in tormenti inesprimibili, in mezzo a cinque o seimila moribondi, quando i miei occhi, che si aprono per l’ultima volta, vedono la 35 città in cui sono nato distrutta dal ferro e dal fuoco, e gli ultimi suoni che odono le mie orecchie sono le grida delle donne e dei bambini che spirano sotto le rovine, il tutto per i pretesi interessi di un uomo che non conosciamo? 4 barbarismi: parole e forme espressive errate rispetto alla norma di una lingua o estranea all’uso di questa, introdotte, in genere, da una lingua straniera. 5 La religione naturale: per i filosofi deisti come Voltaire, il divino è un principio ordinatore, che non si identifica in nessun credo o dogma, ma che

online T12 Voltaire

Candido e Cacambó in Eldorado, «il paese dove tutto va bene» Candido, XVIII

è riconoscibile nei princìpi di una morale naturale, ispirata ai valori universali di tolleranza e razionalità, condivisibili da ogni civiltà degna di questo nome. 6 la religione artificiale: si allude alle varie religioni storiche che Voltaire, e chi aderiva alle posizioni deiste, rifiutava. 7 umanità... pietà: sono elencati

online T13 Voltaire

Gli orrori dello schiavismo Candido, XIX

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i valori fondamentali per Voltaire e che ogni filosofo che abbia trattato di etica nei suoi scritti non può non aver considerato. Questi valori, e le stesse dissertazioni dei filosofi moralisti (a cui Voltaire consiglia di bruciare i loro libri perché inutili), a nulla valgono finché nel mondo continueranno a esistere le guerre.


Voltaire

T14

«Bisogna coltivare il nostro giardino»: il finale aperto e problematico del romanzo Candido, XXX

Voltaire, Candido, a c. di G. Iotti, Einaudi, Torino 2006

AUDIOLETTURA

Il capitolo conclusivo del romanzo è forse quello che ha fatto maggiormente discutere, considerando che si tratta dell’epilogo dell’opera. Quello che è certo è che la chiusa del romanzo si sottrae allo schema di un banale lieto fine e sollecita ancora una volta la riflessione critica del lettore.

Era del tutto naturale immaginare che dopo tanti disastri Candido, sposato con la sua amata e in compagnia del filosofo Pangloss, del filosofo Martin, del prudente Cacambo e della vecchia, con inoltre tutti i diamanti riportati dalla patria degli antichi Incas, potesse condurre la vita più piacevole del mondo. Ma fu talmente raggirato 5 dagli Ebrei che gli rimase soltanto la piccola fattoria. Sua moglie, ogni giorno più brutta, diventò bisbetica e insopportabile. La vecchia era inferma e si fece d’umore anche peggiore di Cunegonda. Cacambo, che lavorava il giardino, e che andava a vendere i legumi a Costantinopoli, era oberato di lavoro e malediceva la sua sorte. Pangloss era disperato di non brillare in qualche università tedesca. Quanto a Mar10 tin, era fermamente persuaso che si stia male dovunque, e pazientava. Candido, Martin e Pangloss disputavano talvolta di metafisica e di morale. Sotto le finestre della fattoria si vedevano spesso passare battelli carichi di effendi, di pascià, di cadì1 spediti in esilio a Lemno, a Mitilene, a Erzerum. Si vedevano venire altri cadì, altri pascià, altri effendi, che prendevano il posto degli espulsi e che erano espulsi a loro 15 volta. Si vedevano delle teste debitamente impagliate destinate ad essere presentate alla Sublime Porta2. A tali spettacoli le dissertazioni raddoppiavano, e quando non c’erano dispute la noia era talmente eccessiva che un giorno la vecchia osò dire: «Vorrei sapere che cosa è peggio: se essere violentata cento volte da pirati negri, farsi tagliare una natica3, passare sotto le verghe dei Bulgari, essere frustato e impiccato 20 in un autodafé, essere sezionato4, remare sulle galere, subire insomma tutte le miserie attraverso le quali siamo passati, oppure restare qui senza far nulla?» «Grande questione», disse Candido. Questo discorso fece nascere nuove riflessioni, e Martin in particolare concluse che l’uomo era nato per vivere nelle convulsioni dell’inquietudine o nel letargo della 25 noia. Candido non ne conveniva, ma non affermava nulla. Pangloss ammetteva che aveva sempre sofferto orribilmente, ma avendo sostenuto una volta che tutto andava a meraviglia, continuava a sostenerlo, pur senza crederci. [...]. Nelle vicinanze c’era un derviscio5 famosissimo, che passava per il miglior filosofo della Turchia. Andarono a consultarlo, e Pangloss prese la parola dicendo: «Maestro, 30 veniamo a pregarvi di dirci perché sia stato formato un animale così strano come l’uomo». «Di che t’impicci? – disse il derviscio – è forse affar tuo?» «Ma, reverendo padre – disse Candido – c’è un’orrenda quantità di male sulla terra». «Che importa

1 effendi… cadì: dignitari e alti personag-

3 farsi tagliare una natica: era quanto

gi dell’Impero ottomano. 2 Sublime Porta: il governo dell’Impero ottomano.

successo alla vecchia durante la sua vita avventurosa. 4 essere sezionato: essere sottoposto a

dissezione, qui nel senso di essere tagliato (quello che era successo allo schiavo nero del Suriname). 5 derviscio: religioso di fede musulmana.

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– disse il derviscio – che ci sia del male o del bene? Quando Sua Altezza6 invia una nave in Egitto, si preoccupa forse se i topi della nave stanno o non stanno 35 comodi?» «Che cosa bisogna fare?», disse Pangloss. «Devi stare zitto», disse il derviscio. «M’illudevo – disse Pangloss – di ragionare un po’ con voi degli effetti e delle cause, del migliore dei mondi possibili, dell’origine del male, della natura dell’anima e dell’armonia prestabilita7». A tali parole il derviscio sbatté loro la porta in faccia. Durante questa conversazione s’era sparsa la notizia che a Costantinopoli erano 40 stati strangolati due visir del banco e il muftì8, e che molti dei loro amici erano stati impalati. Per qualche ora, una simile catastrofe solleva dappertutto un gran clamore. Pangloss, Candido e Martin, di ritorno alla piccola fattoria, incontrarono un buon vecchio che prendeva il fresco sulla soglia di casa, sotto un pergolato d’aranci. Pangloss, curioso quanto ragionatore, gli chiese come si chiamasse il muftì appena strangolato. 45 «Non lo so – rispose il buon uomo – e non ho mai saputo il nome di alcun muftì né di alcun visir. Ignoro assolutamente il caso di cui parlate. Presumo che in generale coloro che si occupano degli affari pubblici periscano a volte miseramente, e che lo meritino; ma non m’informo mai di quel che avviene a Costantinopoli, mi accontento di mandare a vendere laggiù la frutta del giardino che coltivo». Dette queste parole, 50 fece entrare in casa gli stranieri: le due figlie e i due figli offrirono sorbetti di varie qualità fatti da loro stessi, kaimac9 punteggiato di scorze di cedro candito, arance, limoni, ananas, pistacchi, caffè di Moka non mescolato col cattivo caffè di Batavia e delle isole10. Dopo di che le due figlie del buon musulmano profumarono le barbe di Candido, di Pangloss e di Martin. 55 «Di certo – disse Candido al turco – avrete una vasta e magnifica terra». «Solo venti arpenti11 – rispose il turco – che coltivo con i miei figli. Il lavoro tien lontani da noi tre grandi mali: la noia, il vizio e il bisogno». Tornando alla fattoria Candido fece profonde riflessioni sul discorso del turco. Disse a Pangloss e a Martin: «Mi pare che quel buon vecchio si sia dato una sorte 60 preferibile di molto a quella dei sei re con cui abbiamo avuto l’onore di cenare12». «Le grandezze – disse Pangloss – sono assai pericolose, secondo quanto riportano tutti i filosofi: [...] perché, insomma, Eglon, re dei Moabiti, fu assassinato ad Aod; Assalonne fu impiccato per i capelli e trafitto da tre dardi13; il re Nadab, figlio di Geroboamo, fu ucciso da Baasa; il re Ela, da Zamri; Ocozia, da Ieu; Atalia, da Joad; 65 i re Gioacchino, Ieconia, Sedecia, furono schiavi. Sapete come perirono Creso, Astiage, Dario, Dionigi di Siracusa, Pirro, Perseo, Annibale, Iugurta, Ariovisto, Cesare, Pompeo, Nerone, Ottone, Vitellio, Domiziano, Riccardo II d’Inghilterra, Edoardo II, Enrico VI, Riccardo III, Maria Stuarda, Carlo I, i tre Enrichi di Francia, l’imperatore Enrico IV14? Sapete...» «So anche – disse Candido – che bisogna coltivare il nostro 70 giardino». «Avete ragione – disse Pangloss – poiché quando l’uomo fu posto nel giardino dell’Eden, vi fu posto ut operaretur eum15, affinché lavorasse. Il che prova 6 Sua Altezza: il sultano. 7 M’illudevo... prestabilita: ancora una volta Pangloss rimane vincolato alle questioni filosofiche ultime, riproponendo i termini fondamentali della filosofia di Leibniz. 8 visir del banco... muftì: ministri (visir) ammessi al gran consiglio del sultano e il capo religioso (muftì) autorizzato a interpretare il Corano.

9 kaimac: una specie di yogurt. 10 Batavia... isole: Giacarta... Antille. 11 arpenti: l’arpento è un’antica misura di superficie francese.

12 sei re... cenare: nel cap. XXVI si narra di una cena a Venezia durante la quale Candido ha l’occasione di incontrare sei re. 13 dardi: frecce.

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14 perché, insomma... Enrico IV: rassegna di sovrani spodestati o uccisi, tratti dalla Bibbia, dalla storia antica, medievale e moderna, (qui poco importa l’identificazione, il senso è tutto nella lunga elencazione). 15 ut operaretur eum: in latino, “perché lo lavorasse” (Genesi 2, 15).


che l’uomo non è nato per la quiete». «Lavoriamo senza ragionare – disse Martin – è il solo modo per rendere la vita sopportabile». Tutta la piccola comitiva condivise questo lodevole progetto, e ognuno si mi75 se a esercitare i propri talenti. Cunegonda era invero bruttissima, ma diventò un’eccellente pasticciera; Paquette si diede al ricamo; la vecchia ebbe cura della biancheria. Anche frate Giroflée si rese utile; fu un ottimo falegname e diventò perfino galantuomo. E Pangloss diceva ogni tanto a Candido: «Tutti gli eventi formano una catena nel migliore dei mondi possibili. Giacché, dopo tutto, se non 80 foste stato scacciato da un bel castello a calcioni nel sedere per amore della signorina Cunegonda, se non foste stato sottoposto all’Inquisizione, se non aveste percorso l’America a piedi, se non aveste dato un gran colpo di spada al barone, se non aveste perduto tutti i montoni del buon paese d’Eldorado, non sareste qui a mangiare cedri canditi e pistacchi». «Ben detto – rispose Candido – ma bisogna 85 coltivare il nostro giardino».

Analisi del testo L’epilogo di Candido: qual è il fabula docet, cioè la morale del romanzo?

In questo dipinto di Jean Huber è ritratto un anziano Voltaire che nel parco di Ferney pianta degli alberi, 1750-1775, (San Pietroburgo, Museo dell’Ermitage).

Se il romanzo di Voltaire, come si è detto, intende esemplificare una “tesi”, è assai probabile che l’autore abbia voluto sintetizzare nell’ultimo capitolo del romanzo il “sugo della storia” proponendo una soluzione al problema della felicità che percorre l’intera opera. Il capitolo si apre con un quadro che rovescia il classico lieto fine: tutti sono scontenti, le disquisizioni teoriche continuano fra i personaggi senza approdare a nulla; quando queste tacciono, subentra la noia che, come osserva la vecchia, risulta ancora più insopportabile dei mali e delle sofferenze. Situazione di stallo, dunque, che offre lo spunto alla lapidaria conclusione di Martin, ispirata al suo radicale pessimismo («Martin concluse che l’uomo è fatto per vivere nelle convulsioni dell’inquietudine o nel letargo della noia»). È questa condizione di impasse che spinge Pangloss, Martin e Candido a consultare un famosissimo saggio musulmano. Il suo responso è che occorre rinunciare a porsi interrogativi a cui non è dato trovare risposta e che bisogna imparare a tacere. Un responso che va integrato con la umile lezione di vita offerta subito dopo dal vecchio turco, il cui pratico, minimale, sapere assume il ruolo della principale verità enunciata dal romanzo, proprio prima che esso si chiuda. Non bisogna ragionare, né occuparsi di come va il mondo, ma lavorare, limitarsi a «coltivare il proprio giardino», come sottolinea due volte Candido, interrompendo le pur sempre cerebrali riflessioni di Pangloss. Un finale enigmatico che ha suscitato molti interrogativi e di cui si sono date varie interpretazioni: si tratta di una proiezione autobiografica? Effettivamente Voltaire stesso a partire dal 1758 (fino al 1778) si ritira nella tenuta di Ferney, dove vive in serenità coltivando personalmente la terra e creando una fiorente azienda. Nel 1757 aveva scritto parole che potrebbero servire da diretto commento al testo di Candido: «Che cosa si deve fare? Niente: tacere, vivere in pace, mangiare il proprio pane all’ombra del proprio fico, lasciar che il mondo vada per la sua strada». Queste parole, e il finale di Candido, implicano allora una rinuncia all’impegno

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attivo nella storia, un ripiegamento nella dimensione del privato? Non sembrerebbe certo così, se si pensa che proprio a partire dal ritiro a Ferney iniziano le più celebri battaglie ideologiche di Voltaire. Il finale del Candido sembra prospettare la necessità di occuparsi di problemi concreti, dei problemi del mondo reale (sarebbe questo il senso della metafora del giardino), rinunciando alle astratte questioni della metafisica e contribuire alla creazione di una società civile esercitando con responsabilità e dignità di uomini «i propri talenti», come dice la chiusa del romanzo. È quanto i vari personaggi sembrano fare, trovando finalmente serenità e realizzazione.

Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

SINTESI 1. Sintetizza il contenuto del testo in massimo 10 righe, poi individua il tema centrale e le parole chiave. COMPRENSIONE 2. Quale significato assume la noia nelle parole della vecchia? 3. Che cosa intende dire Martin affermando che «l’uomo era nato per vivere nelle convulsioni dell’inquietudine o nel letargo della noia»? Come giudichi questa riflessione? 4. Perché Pangloss, Martin e Candido decidono di consultare un famosissimo saggio musulmano?

Interpretare

SCRITTURA 6. Commenta le parole di Italo Calvino (tratte dalla sua Prefazione a un’edizione dell’opera) a proposito della celebre conclusione del romanzo (max 15 righe).

VERSO IL NOVECENTO

Oggi l’esortazione Il faut cultiver notre jardin suona ai nostri orecchi carica di connotazioni egoistiche e borghesi: quanto mai stonata se confrontata alle nostre preoccupazioni e angosce. Non è un caso che essa sia enunciata nell’ultima pagina, quasi già fuori da questo libro in cui il lavoro appare solo come dannazione e in cui i giardini vengono regolarmente devastati: è un’utopia anch’essa, non meno del regno degli Incas; la voce della ragione nel Candide è tutta utopica. […] E di lì derivano tanto una morale del lavoro strettamente produttivistica nel senso capitalistico della parola, quanto una morale dell’impegno pratico responsabile concreto senza il quale non ci sono problemi generali che possano risolversi. Le vere scelte dell’uomo d’oggi, insomma, partono di lì.

Leonardo Sciascia Il Candido di Leonardo Sciascia L. Sciascia, Candido, ovvero un sogno fatto in Sicilia, Adelphi, Milano 1990

Nel 1977 lo scrittore siciliano Leonardo Sciascia (1921-1989) pubblica Candido, ovvero un sogno fatto in Sicilia, romanzo breve, ispirato fin dal titolo al celebre scritto filosofico di Voltaire. Il romanzo inizia nel 1943, con il crollo del fascismo, e delinea, attraverso le vicende del protagonista Candido Munafò, un quadro dai tratti ironici e impietosi dell’Italia, dalla caduta del regime agli anni Sessanta. La vicenda prende le mosse proprio nella notte dello sbarco degli alleati in Sicilia (9-10 luglio 1943), quando nasce Candido Munafò. Leggiamo l’incipit del romanzo in cui è evidente la ripresa dello stile ironico dell’opera settecentesca. Candido nasce in una grotta (come Gesù), in un cielo illuminato a giorno, ma non c’è nulla di provvidenziale e fatidico in quella nascita: nella notte di guerra, i genitori sono sfollati in campagna, nel cielo non si profila la cometa dei Vangeli, ma scoppiano i razzi illuminanti che preparano lo sbarco.

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Del luogo e della notte in cui nacque Candido Munafò; e della ragione per cui si ebbe il nome di Candido. Candido Munafò nacque in una grotta, che si apriva vasta e profonda al piede di una collina di olivi, nella notte dal 9 al 10 luglio del 1943. Niente di più facile che nascere in una grotta o in una stalla, in quell’estate e specialmente in quella notte: nella Sicilia guerreggiata dalla settima armata americana del generale Patton, dall’ottava 5 britannica del generale Montgomery, dalla divisione tedesca Hermann Goering, da qualche sparuto, quasi sparito, reggimento italiano. E proprio quella notte, illuminato sinistramente il cielo dell’isola di bengala1 multicolori, arate le città di bombe2, le armate di Patton e Montgomery sbarcavano. Nessun segno soprannaturale e premonitore, dunque, nella nascita di Candido Muna10 fò dentro una grotta; né nel fatto che quella grotta fosse nel territorio di Serradifalco, la montagna del falco, un luogo da cui spiccar volo, e volo rapace; e ancor meno nel fatto che per tutta quella notte il cielo si illuminasse di razzi ora rosseggianti ora candenti3 e risuonasse di un vasto frinire4 metallico, ma come se di metallo fosse la volta notturna e non gli aerei che l’attraversavano e la cui invisibile traiettoria finiva 15 in grappoli di esplosioni più o meno lontane. Indicato dal destino – e cioè dagli avvenimenti che da quella sera corsero in Sicilia e in Italia – fu invece il nome che gli misero; e carico di destino anche. Fosse nato dodici ore prima, nella città fino a quel momento mai bombardata, il suo nome sarebbe stato Bruno: quello del figlio di Mussolini che da aviatore era morto e che viveva nel cuore di tutti gli italiani 20 come l’avvocato Munafò e sua moglie, Maria Grazia Munafò nata Cressi, figlia del generale della milizia fascista Arturo Cressi, eroe delle guerre di Etiopia e di Spagna e un po’ meno, per sopravvenuti reumatismi, di quella in corso. Nato dopo il primo e terribile bombardamento della città in cui risiedevano, i genitori gli scelsero invece il nome di Candido: dal padre trovato automaticamente, quasi surrealmente; dalla 25 signora Maria Grazia accettato per ragioni non del tutto nobili, come quello che era talmente opposto al Bruno prima scelto da cancellarne persino l’intenzione. Come una pagina bianca, il nome Candido: sulla quale, cancellato il fascismo, bisognava imprendere a scrivere vita nuova. L’esistenza di un libro intitolato a quel nome, di un personaggio che vagava nelle guerre tra àvari e bulgari, tra gesuiti e regno di Spagna, 30 era perfettamente ignota all’avvocato Francesco Maria Munafò; nonché l’esistenza di Francesco Maria Arouet5, che di quel personaggio era stato creatore. Ed anche alla signora, che qualche libro lo leggeva; a differenza del marito che non uno ne aveva mai letto se non per ragioni di scuola e di professione. Come poi entrambi avessero attraversato ginnasio, liceo e università senza mai sentire parlare di Voltaire e di 35 Candido, non è da stupirsene: capita ancora.

1 bengala: razzi illuminanti, ma non esplodenti, utilizzati in ambito militare e civile per segnalare o illuminare la posizione di luoghi o persone. 2 arate... di bombe: le città, rase al suolo dai bombardamenti, sono paragonate a campi arati.

3 candenti: candidi, splendenti. 4 frinire: è propriamente il suono prodotto dalle cicale. 5 Francesco Maria Arouet: François-Marie Arouet è il nome di Voltaire.

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Vita e opinioni di Tristram Shandy, gentiluomo di Laurence Sterne Un romanzo anticonformista Vita e opinioni di Tristram Shandy, gentiluomo è un lungo romanzo (9 volumi) dello scrittore Laurence Sterne (1713-1768), un pastore anglicano noto per l’estrosità dei suoi sermoni. Fin dalla pubblicazione dei primi due volumi (1759), il romanzo desta l’interesse degli ambienti colti londinesi, ma suscita anche nella critica accademica non poche perplessità per l’anticonformismo, la licenziosità dell’opera e l’ostentata destrutturazione dell’impianto narrativo. Nella produzione dello scrittore spicca anche il Viaggio sentimentale attraverso la Francia e l’Italia, frutto di una reale esperienza di Sterne, che si richiama al fortunato genere della letteratura di viaggio, ma con l’originalità che contraddistingue la sua personalità. Il Viaggio sentimentale fu conosciuto in Italia attraverso la traduzione d’autore di Foscolo (uscita nel 1813).

Frontespizio del primo volume di Tristram Shandy in un’incisione di William Hogarth del 1759.

La smobilitazione del personaggio protagonista Il fatto che Tristram Shandy, il protagonista del romanzo Vita e opinioni di Tristram Shandy, gentiluomo (1759-1767), narri in prima persona la sua vita, sembra iscrivere l’opera di Sterne nel genere biografico, di moda nel secolo (come Moll Flanders ad esempio); ma è subito evidente, fin dalla prima pagina, che il romanzo di Sterne segue tutt’altra, inesplorata, strada: invece che dalla nascita del protagonista, il racconto inizia dal momento del suo concepimento e delle singolari circostanze in cui avvenne, occasione per la presentazione del padre e della madre. L’episodio successivo, il parto, è continuamente interrotto da divagazioni e digressioni del narratore che mette in scena nuovi personaggi (lo zio Toby con il suo servitore Trim, il parroco Yorick, il dottor Slop che assiste la madre, la cameriera Susanna) con i loro ritratti e le loro storie, a loro volta interrotte da molte divagazioni, per cui il personaggio Tristram vede la luce solo nel terzo volume. Questo schema narrativo, che dà spazio soprattutto alle digressioni, permane fino alla fine dell’opera, per cui della vita del protagonista il lettore finisce per avere pochissime informazioni, e non tutte rilevanti. Il protagonista, dunque, è scalzato dal posto di primo piano che gli era stato assegnato dal romanzo settecentesco, viene meno il suo ruolo di “eroe” della storia, ma assume essenzialmente la funzione di narratore con una spiccata vocazione commentativa, mentre la storia si sviluppa intorno agli altri personaggi, in particolare il padre, Walter Shandy, lo zio Toby e il parroco Yorick e, soprattutto, ai loro discorsi. La destrutturazione della forma romanzo Nel Tristram ci sono diverse dichiarazioni di principio che illuminano la concezione e le intenzioni dell’autore, innanzitutto l’impossibilità di seguire una linea continua nella narrazione. La narrazione procede nel romanzo in modo non lineare (non c’è neppure una vera e propria trama), apparentemente casuale e caotico, soprattutto perché il narratore riproduce i pensieri dei personaggi, che si susseguono secondo la teoria delle libere associazioni del pensiero, che Sterne aveva appreso dal filosofo inglese John Locke

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(1632-1704). Il racconto che traspone sulla pagina tutto ciò non solo si distacca dalla consequenzialità cronologica, ma attua non di rado addirittura un ribaltamento dei meccanismi logici. L’operazione rivoluzionaria attuata dallo scrittore riguarda anche la tradizionale disposizione delle parti: la dedica, generalmente disposta all’inizio dell’opera, è collocata dopo alcune pagine e la prefazione si trova addirittura nel XX capitolo del III volume; nel IX volume i capitoli XVIII e XIX sono posposti al capitolo XXV. Alla pluralità dei contenuti, dei temi e delle situazioni dell’opera corrispondono svariati stili, a seconda anche delle diverse voci narranti: lingue tecniche (ad esempio quella militare dello zio Toby per le ricorrenti digressioni sulle fortificazioni), gerghi, parodie di altri stili (ad esempio delle opere letterarie e filosofiche che vengono citate con intento ironico). Compaiono inoltre segni tipografici particolari: ad esempio gli asterischi che sostituiscono le parole, pagine bianche, pagine nere, segni e simboli grafici attraverso cui il protagonista, portavoce dell’autore, rappresenta il filo tortuoso del suo racconto. Il romanzo attua una rottura anche rispetto al tradizionale rapporto con il pubblico (➜ T15 ): gli appelli spesso ironici rivolti ora ai lettori, ora alle lettrici hanno la funzione, insieme agli asterischi e agli spazi bianchi da interpretare o da riempire, di coinvolgere il lettore in prima persona, sollecitandone un ruolo attivo e addirittura creativo. Il realismo portato alle estreme conseguenze La rivoluzione attuata da Sterne nei confronti dei canoni narrativi non vuole essere fine a sé stessa, quasi espressione di uno spirito maligno e distruttivo, o puramente formale, ma è il risultato della sua concezione del rapporto tra il romanzo e la realtà. Per questo si può parlare di un realismo portato alle estreme conseguenze: la mancanza di una “linea retta” nel racconto riproduce le caratteristiche della vita e del pensiero, in cui gli elementi si affastellano in un continuum senza interruzione e senza ordine. Attraverso questo procedimento l’autore rivela le sue opinioni, la sua concezione amara e disincantata della vita e degli uomini.

Le due pagine, tratte da un’edizione inglese primottocentesca del Tristram Shandy, mostrano alcune invenzioni grafiche presenti nel romanzo.

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Laurence Sterne

LEGGERE LE EMOZIONI

Un esempio di metanarrazione

T15

La vita e le opinioni di Tristram Shandy, gentiluomo, VI

L. Sterne, La vita e le opinioni di Tristram Shandy, gentiluomo, ed. critica a c. di L. Conetti, Mondadori, Milano 1992

Il capitolo VI rappresenta il primo intervento metanarrativo del protagonista, che giustifica il suo modo di procedere rivolgendosi direttamente al lettore, a cui chiede di avere pazienza e a cui promette un rapporto di familiarità con il personaggio attraverso la conoscenza delle sue opinioni, importanti quanto la storia della sua vita.

All’inizio dell’ultimo capitolo vi ho messo perfettamente al corrente di quando sia nato1; – ma non vi ho detto, come. No; questo particolare lo riservavo a un capitolo tutto per lui; – inoltre, signore2, dal momento che voi e io siamo in un certo senso perfettamente estranei, sarebbe stato sconveniente mettervi a parte di troppe circostanze 5 che mi riguardassero tutte in una volta. – Dovete avere un po’ di pazienza. Ho intrapreso a narrare non solo la mia vita, ma anche le mie opinioni3; nella speranza e nella presunzione che la conoscenza del mio carattere e di che tipo4 di uomo io sia, da una parte, vi permettesse di gustare meglio l’altra. Procedendo ulteriormente insieme a me, la conoscenza superficiale che nasce adesso fra noi, diventerà familiarità; e questa, a 10 meno che uno di noi sia in torto5, si trasformerà in amicizia. – O diem praeclarum6! – niente allora di quanto mi riguarda sembrerà insignificante in se stesso o tedioso7 nella sua narrazione. Pertanto, mio caro amico e compagno, se dovessi sembrarvi un po’ avaro nella relazione della mia prima apparizione sulla scena, – abbiate pazienza, – e lasciatemi proseguire, e raccontare la mia storia a modo mio: – o se dovesse sembrarvi 15 di tanto in tanto che io mi perda in frivolezze, – o che indossi talvolta un berretto da giullare con un campanellino, per qualche attimo mentre procediamo, – non prendete la fuga, – ma fatemi cortesemente credito piuttosto di un po’ più di saggezza di quanta ne appaia all’esterno; – e mentre continuiamo a marciare, ridete con me o di me, o in breve fate quel che vi pare, – purché non perdiate la calma.

1 quando sia nato: nel capitolo precedente Tristram ha indicato la sua data di nascita: il 5 novembre 1718. 2 signore: il lettore, qui chiamato in modo formale. 3 opinioni: come indica espressamente il titolo.

4 tipo: allude alla diversità che il protagonista narratore imputa, nel primo capitolo, alle particolari circostanze del suo concepimento. 5 uno di… in torto: cioè, venga meno al rapporto che si instaura tra il protagonista e il lettore.

6 O diem praeclarum: o giorno illustre. L’espressione, di carattere religioso, è qui usata in senso ironico per alludere all’eccezionalità dell’avvenimento. 7 tedioso: noioso.

Analisi del testo Il lettore dentro il romanzo Fin dall’inizio del romanzo il protagonista narratore instaura un colloquio con il lettore. Dopo le informazioni preliminari sulla sua vita (il suo concepimento e quando è nato, ma non ancora come), Tristram (portavoce dello scrittore) fa dell’immaginario colloquio il tema d’un intero capitolo, anche se breve, proponendo ai lettori una specie di patto: se avranno pazienza e proseguiranno con lui nel racconto («Procedendo ulteriormente insieme a me») otterranno sempre maggiori informazioni e un rapporto sempre più intenso, da «conoscenza superficiale»

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a «familiarità» a vera e propria «amicizia». Tristram si rivolge al lettore ora al plurale, ora al singolare: lo chiama dentro al racconto, come se fosse davanti a lui, immaginandone le domande e le osservazioni, gli risponde e, più avanti, in alcuni momenti, gli chiederà addirittura di completare il suo discorso in alcune frasi lasciate volutamente mancanti di qualche parola. Il procedimento introdotto da Sterne, che trae spunto dalle strutture della narrazione orale, sarà il modello per altri scrittori (si pensi ai «venticinque lettori» di Manzoni) e, soprattutto, per le sperimentazioni del romanzo del Novecento: il colloquio con il lettore contraddistingue in particolare un romanzo come Uno, nessuno e centomila (1926) di Pirandello, che nel saggio L’umorismo (1908) cita Sterne come esempio dell’arte umoristica, fondamento della sua opera.

Tristram spiega al lettore le novità dell’opera L’intervento di Tristram si configura in realtà come una risposta alle presumibili critiche del lettore-tipo per la parzialità delle informazioni finora fornitegli sul personaggio e soprattutto, per il modo sconclusionato di procedere della storia. Con il pretesto di rassicurarlo, la voce narrante esplicita la concezione che l’autore ha della propria opera: la narrazione non deve riguardare solo i fatti di una vita, ma anche le opinioni (cioè la visione della vita e le convinzioni filosofiche), altrettanto importanti (queste nel Tristram in realtà sono preponderanti). Quindi il testo teorizza un nuovo tipo di romanzo-biografia sia per quanto riguarda il contenuto sia per le modalità del racconto, per cui alla consequenzialità cronologica si sostituisce il procedimento digressivo. Importante è infine il riferimento nell’ultima parte del testo alla componente ludica e burlesca del romanzo, apparentemente sminuita, in realtà rivendicata dal narratore come costitutiva di un’opera portatrice, al di là delle apparenze, di una “saggezza” che il lettore deve imparare a cogliere tra le righe. Non solo la struttura sperimentale del romanzo, come si è visto, ma anche il tema del legame tra saggezza e riso avrà ampia risonanza nella letteratura del Novecento, in particolare in Pirandello, che intitola una sua opera teatrale Il berretto a sonagli, usando questa immagine per indicare come l’apparente comicità può nascondere la dimensione della tragedia.

Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

SINTESI 1. Sintetizza in 10 righe la concezione che l’autore ha della sua opera. COMPRENSIONE 2. Come giustifica Tristram al lettore la scelta di non rivelargli subito dei dettagli su come sia venuto al mondo? 3. Quali fasi configura Tristram nel rapporto tra il protagonista di un romanzo e il lettore? ANALISI 4. In questo capitolo il narratore-protagonista non si limita a delineare le modalità della narrazione, ma ne definisce l’oggetto principale: indicalo e spiega come Tristram motiva la sua scelta.

Interpretare LEGGERE LE EMOZIONI

SCRITTURA 5. Tristram sollecita da parte del lettore nei suoi confronti «credito […] di un po’ più di saggezza», ma poi lo invita a ridere («ridete con me o di me»). Le due affermazioni ti sembrano in contraddizione? In base alla tua esperienza spiega se il lasciarsi andare al buonumore può essere interpretato inequivocabilmente come segnale di frivolezza oppure può essere letto come una strategia per evitare, almeno temporaneamente, di soffermarsi su angosce e preoccupazioni.

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Giuseppe Sertoli Tristram: un «io che vive fra le “cose” della mente»

L’eredità del romanzo settecentesco

Interpretazioni critiche

Verso il Novecento

Le tipologie del romanzo settecentesco

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Fissare i concetti Il boom del romanzo, specchio della società borghese La nascita del romanzo borghese 1. Perché il romanzo settecentesco è diventato un paradigma di questo genere letterario? 2. Quali fattori socioeconomici hanno alimentato il successo e il conseguente sviluppo del romanzo nell’Inghilterra del Settecento? Il realismo e i nuovi personaggi del romanzo settecentesco 3. Perché nella produzione letteraria inglese si usano due termini distinti (novel e romance) per fare riferimento al genere letterario del romanzo? 4. Quali elementi nei romanzi inglesi sono indizio della ricerca del realismo nella narrazione? 5. Da quali aspetti originali sono caratterizzati i personaggi dei romanzi settecenteschi? 6. Quale processo socioeconomico dell’Inghilterra tra la fine del Seicento e l’inizio del Settecento è rappresentato nel romanzo Robinson Crusoe? 7. Che rapporto ha Robinson con il denaro? 8. Da quale punto di vista Defoe ha impostato la narrazione del romanzo Moll Flanders? Che effetto suscita nel lettore? 9. In che senso Daniel Defoe utilizza le sue opere come strumento di denuncia sociale? 10. Il romanzo Pamela di Richardson è incentrato su un tema che avrà ampio successo anche nella narrativa successiva. Quale? Le tipologie del romanzo settecentesco 11. Quali tipologie di romanzo si affermano in Europa nel corso del Settecento? In quali aspetti risultano innovative rispetto agli esempi già diffusi nella storia della letteratura? 12. Perché il romanzo I viaggi di Gulliver si può considerare una critica alla società dell’epoca? 13. Quale dei temi della filosofia di Rousseau è rappresentato Giulia o la nuova Eloisa? 14. Come può essere definita la struttura del romanzo Candido di Voltaire? 15. Il romanzo Candido ha l’obiettivo di criticare una specifica visione filosofica del Settecento. Quale? 16. Perché Candido può essere considerato un romanzo a tesi? 17. Com’è impostata la narrazione nel romanzo Vita e opinioni di Tristram Shandy, gentiluomo? In che senso può essere considerato un romanzo “destrutturato”?

La dannazione di Abdia, acquaforte di Henry William Bunbury, 1772 ca. (Graphic Arts Collection), tratto dalla Vita e opinioni di Tristam Shandy.

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Verso l’esame di Stato Tipologia B Analisi e produzione di un testo argomentativo I. Calvino, Robinson Crusoe, il giornale delle virtù mercantili, in Perché leggere i classici, Mondadori, Milano 1991

Lo scrittore Italo Calvino (1923-1985), nelle pagine da lui dedicate al Robinson Crusoe – tratte dalla raccolta postuma (1991) di saggi intitolata Perché leggere i classici – evidenzia lo stile essenziale del romanzo, a cui corrisponde lo spirito pratico che guida il protagonista (e, secondo lui, pure dei personaggi chiave delle opere successive dello stesso autore.

Altrettanto lontano dal turgore secentesco1 quanto dalla coloritura patetica2 che prenderà la narrativa inglese nel Settecento, il linguaggio di Defoe (e qui la prima persona del marinaio-mercante3, capace di mettere in colonna come in un libro mastro4 anche il «male» e il «bene» della sua situazione5, e di tenere 5 una contabilità aritmetica6 dei cannibali uccisi, si rivela un espediente poetico, prima ancora che pratico) è d’una sobrietà, d’una economia7 che, a somiglianza dello stile «da codice civile» di Stendhal8, potremo definire «da relazione d’affari». Come una relazione d’affari o un catalogo di merci e utensili, la prosa di Defoe è nuda e nello stesso tempo dettagliata fino allo scrupolo. L’accumulo 10 di particolare mira a persuadere il lettore della verità del racconto, ma anche esprime come meglio non si potrebbe il senso dell’importanza d’ogni oggetto, d’ogni operazione, d’ogni gesto nella condizione del naufrago (così come in Moll Flanders e nel Colonnello Jack9 dagli elenchi d’oggetti rubati s’esprimerà l’ansia e la gioia del possesso). 15 Minuziose sino allo scrupolo sono le descrizioni delle operazioni manuali di Robinson: come egli si scava la casa nella roccia, la cinge con una palizzata, si costruisce una barca che poi non riesce a trasportare fino al mare, impara a modellare e cuocere vasi e mattoni. Per questo suo impegno e piacere nel riferire le tecniche di Robinson, Defoe è giunto fino a noi come il poeta della 20 paziente lotta dell’uomo con la materia, dell’umiltà e difficoltà e grandezza del fare, della gioia di vedere nascere le cose dalle nostre mani. Da Rousseau10 fino ad Hemingway11, tutti coloro che ci hanno indicato come prove del valore umano il misurarsi, il riuscire, il fallire nel «fare» una cosa, piccola o grande, possono riconoscere in Defoe il primo maestro. 1 turgore secentesco: lo stile enfatico e ridondante della letteratura del Seicento. 2 coloritura patetica: la sottolineatura dei sentimenti. 3 prima... mercante: il Robinson Crusoe, come già si è detto, è scritto in prima persona dal protagonista, che racconta le sue avventure, prima e dopo il naufragio. 4 libro mastro: registro contabile delle entrate e delle uscite relative a un’attività economica. 5 il «male» ... situazione: nel suo diario Robinson Crusoe registra gli aspetti negativi e quel-

li positivi della sua situazione.

6 una contabilità aritmetica: un calcolo esatto.

7 economia: qui nel significato di “tendenza a una scrittura senza eccessi”. 8 a somiglianza... Stendhal: lo scrittore francese Stendhal (1783-1842), autore di celebri romanzi (fra tutti, Il rosso e il nero e La certosa di Parma), paragonò lo stile antilirico e naturale della sua prosa all’esattezza impersonale del Codice civile. 9 Colonnello Jack: romanzo di Defoe del 1722. 10 Rousseau: Jean-Jacques

Rousseau, autore fra l’altro del romanzo pedagogico Emilio (➜ PAG. 198), in cui teorizza il contatto con la natura come essenziale per la crescita fisica e l’educazione morale del bambino e dell’adolescente. 11 Hemingway: Ernest Hemingway. Scrittore statunitense (1899-1961), premio Nobel per la letteratura nel 1954. I protagonisti dei suoi romanzi (fra i più famosi, Addio alle armi, Per chi suonala campana, Il vecchio e il mare) si confrontano in condizioni di difficoltà con la morte e la violenza.

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Il Robinson Crusoe è indubbiamente libro da rileggere riga per riga, facendo sempre scoperte nuove. Quel suo sbrigarsi in poche battute, nei momenti cruciali, da ogni sovrappiù d’autocompatimento o di esultanza per passare alle questioni pratiche (come quando, appena si è reso conto d’essere l’unico scampato di tutto l’equipaggio – «infatti, di loro, non vidi più alcuna traccia, 30 tranne tre cappelli, un berretto e due scarpe scompagnate» –, dopo un rapidissimo ringraziamento a Dio passa a guardarsi intorno e a studiare la sua situazione), può parere in contrasto col tono d’omelia12 di certe sue pagine più innanzi, dopo che una malattia l’ha ricondotto al pensiero della religione. Ma la condotta di Defoe13 è nel Crusoe e nei romanzi posteriori assai simile a 35 quella dell’uomo d’affari rispettoso delle norme, che all’ora della funzione va in chiesa e si batte il petto14, e poi si affretta a uscire per non perdere tempo sul lavoro. Ipocrisia?15 È troppo scoperto e vitale per attirare una tale accusa; conserva anche nelle sue brusche alternative un fondo di salute e sincerità che è il suo inconfondibile sapore. Quando trova nella nave semisommersa le mone40 te d’oro e d’argento non ci risparmia un piccolo monologo «ad alta voce» sulla vanità del denaro; ma appena chiuse le virgolette del monologo: «comunque, ripensandoci, lo portai via». 25

12 tono d’omelia: tono predicatorio. 13 la condotta di Defoe: il critico attribuisce all’autore il comportamento dei suoi per-

Comprensione e analisi

Produzione

sonaggi.

14 si batte il petto: in segno di pentimento per le proprie colpe. 15 Ipocrisia?: Calvino si chiede

se il pentimento espresso nei modi indicati sia espressione di falsità.

Puoi rispondere punto per punto oppure costruire un unico discorso che comprenda le risposte a tutte le domande proposte. 1. Da quali stili letterari si differenzia, secondo Italo Calvino, il linguaggio di Defoe e quali caratteri lo contraddistinguono? A quali aspetti dello stile di Defoe egli allude con l’espressione «da relazione d’affari»? 2. Quale finalità ha, secondo l’autore del saggio, l’accumulo di particolari nella prosa di Defoe? 3. Quali elementi hanno fatto di Defoe «il poeta della paziente lotta dell’uomo» (rr. 19-20)? 4. Per quali aspetti e per quali autori Defoe è diventato un modello? 5. Nel passo viene evidenziato un contrasto tra la propensione di Robinson Crusoe a superare i momenti cruciali affrontando le questioni pratiche, senza concedere troppo all’«autocompatimento» o all’«esultanza», e il «tono d’omelia» suscitato dalla malattia: quale dei due aspetti prevale, secondo Calvino? Attraverso quale similitudine l’autore lo enuncia? La tendenza di Robinson Crusoe a pentirsi ma a dedicarsi subito dopo alle cose pratiche viene estesa anche ad altre opere di Defoe: verifica nei passi antologizzati da Moll Flanders questa affermazione.

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Settecento Il boom del romanzo, specchio della società borghese

Sintesi con audiolettura

1 La nascita del romanzo borghese

La fortuna del genere metamorfico Nel Settecento il romanzo in prosa acquista un ruolo dominante nel sistema dei generi letterari, assumendo da quel momento la funzione di portavoce della modernità, per la quale tende a sua volta a diventare una sorta di modello ispiratore, attraverso la varietà e complessità di forme e temi elaborati nel tempo. L’Inghilterra, patria elettiva del romanzo È in Inghilterra che nasce il romanzo come narrazione dei profondi cambiamenti che, a partire dall’economia, coinvolgono nel secolo XVIII tutti gli aspetti della società inglese. Sono i nuovi ceti emergenti – la borghesia commerciale e la piccola borghesia nelle sue diverse componenti – il pubblico a cui il genere si rivolge. Di quel vasto e vario mondo rappresenta i valori e le aspirazioni insieme alla messa in discussione dei tradizionali rapporti sociali, con il conflitto nei confronti della nobiltà, ancora detentrice del potere e del controllo sociale. Tra il pubblico spicca anche la presenza numerosa delle donne, di diversa estrazione sociale e culturale.

2 Il realismo e i nuovi personaggi del romanzo settecentesco

La narrazione di vicende realistiche o verosimili Il canone stilistico del romanzo del Settecento è il realismo. Il termine novel, non romance, con cui il genere è denominato in Inghilterra, indica programmaticamente la sua aderenza alla realtà. Alla rappresentazione realistica contribuiscono molteplici elementi, tra i quali spiccano lo statuto sociale dei personaggi e la determinazione di precise circostanze di luogo e di tempo sulle quali si innestano le storie narrate. Una nuova tipologia di personaggi I protagonisti del romanzo settecentesco sono l’espressione dei ceti subalterni, relegati a ruoli marginali nella tradizione letteraria precedente, e ora interpreti della nuova realtà sociale. Le “imprese” in cui questi personaggi moderni sono coinvolti non sono imprese mirabolanti (come nella narrazione epico-cortese e negli intrecci secenteschi), ma i casi e le necessità della vita. Le stesse caratteristiche psicologiche dei personaggi corrispondono alle qualità di individui normali: mettono in atto ingegnosità e calcolo razionale per superare le difficoltà, sia che si tratti di sopravvivere in un’isola deserta (Robinson Crusoe) che di amministrare la propria bellezza per non finire in miseria (Moll Flanders). Anche i sentimenti e le emozioni sono rappresentati realisticamente e virtù e vizi tendono, se non in casi eccezionali, a coesistere come avviene nella maggior parte degli individui. Robinson Crusoe di Daniel Defoe Il protagonista de La vita e le strane avventure di Robinson Crusoe (1719) di Daniel Defoe (1660-1731) è marinaio e mercante: la sua vicenda (narrata in prima persona), ispirata a un fatto realmente accaduto, delinea una sorta di modello ideale del borghese, il self-made man, di cui Robinson incarna le abilità e i valori.

Sintesi

Settecento 309


Moll Flanders di Daniel Defoe Moll Flanders, nel successivo romanzo Fortune e sfortune di Moll Flanders (1722) di Daniel Defoe, è figlia di una ladra, e diventerà a sua volta una ladra: pur risultando un personaggio negativo per i suoi comportamenti criminali, rappresenta la condizione di chi deve contare solo sulle proprie forze e ricorrere a ogni espediente per sopravvivere, configurandosi come un personaggio-simbolo della società protocapitalistica – grazie alla capacità di sfruttare la propria bellezza –, ma anche come una vittima della degradazione morale della società in cui vive. Pamela o la virtù ricompensata di Samuel Richardson Il romanzo di Samuel Richardson (1689-1761), Pamela o della virtù ricompensata (1740), inaugura la modalità narrativa del romanzo epistolare che avrà larga fortuna nella tradizione del romanzo europeo moderno. La giovane eroina del romanzo è una semplice cameriera che, per difendere i propri princìpi, si ribella al tentativo del padrone di sedurla. La sua ribellione rispecchia la visione del mondo borghese, ormai insofferente nei confronti della prepotenza nobiliare, e la morale puritana, per la quale il rispetto dei valori morali è premiato con l’ascesa sociale (come avverte il sottotitolo del romanzo).

3 Le tipologie del romanzo settecentesco

Tra le molteplici forme del romanzo del Settecento, diffusosi dall’Inghilterra a tutta Europa (in particolare Francia e Germania), emergono i romanzi di viaggi e di avventura, il genere sentimentale ed epistolare, il romanzo filosofico, il cosiddetto “antiromanzo” e il romanzo gotico o nero. Queste differenti tipologie di romanzo sono accomunate dalla prerogativa di utilizzare le vicende narrate per rendere accessibili a un pubblico più vasto i grandi temi del dibattito ideologico del tempo. I viaggi di Gulliver di Jonathan Swift I viaggi di Gulliver (1726) di Jonathan Swift (1667-1745), attraverso la tecnica dello straniamento, danno voce in chiave paradossale a una visione ironica e critica della società del tempo. Giulia o La nuova Eloisa di Jean-Jacques Rousseau Il romanzo (1761) di Rousseau (1712-1778) presenta una struttura epistolare ed è incentrato sul tema del conflitto tra natura e civiltà e sul ruolo dell’amore come strumento di elevazione spirituale. Candido di Voltaire Nel romanzo filosofico Candido, Voltaire esprime il suo scetticismo nei confronti della visione del filosofo e scienziato tedesco Gottfried Wilhelm Leibniz, secondo cui questo è «il migliore dei mondi possibili». Attraverso le vicende spesso paradossali del protagonista e il tono ironico con cui vengono narrate, il romanzo prende in esame i problemi reali del tempo, dalla violenza della guerra alla diseguaglianza, alle molteplici forme di intolleranza religiosa, allo schiavismo, di cui appare evidente tutta la disumanità. Nella struttura del romanzo Candido sono compresenti elementi di vari generi, in alcuni casi in forma di parodia: dal romanzo di formazione al romanzo picaresco, dal romanzo sentimentale alla letteratura utopistica (nell’inserto sull’Eldorado) e a quella di viaggio.

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Vita e opinioni di Tristram Shandy, gentiluomo di Laurence Sterne Il Tristram Shandy (1759-1767) di Laurence Sterne (1713-1768) compie una vera e propria destrutturazione del genere romanzo, sovvertendo i principi cardine che questo nella sua recente costituzione aveva fissato: innanzitutto il filo logico del racconto, che fin dalle prime pagine risulta spezzato da divagazioni e riflessioni di vario genere, per cui risulta difficile individuare una trama coerente. La narrazione della vita del protagonista si risolve in realtà nel racconto del suo concepimento, della nascita e del battesimo, collocati a grande distanza fra loro, addirittura in libri diversi. Principio costitutivo-strutturale del Tristram Shandy è l’associazione delle idee: il narratore interrompe continuamente il filo del racconto con le sue divagazioni; la loro apparente incoerenza vuole rappresentare una realtà frammentaria, in cui l’unico elemento unitario è costituito dal pensiero soggettivo. Il romanzo di Sterne offre una visione amara e desolata dell’esistenza, temperata dal tono ironico e leggero della voce narrante. Nuove sono anche le modalità enunciative: il dialogo continuo con il lettore; l’invito a collaborare alla scrittura del romanzo; la scelta di introdurre altre forme grafiche oltre alla parola (pagine nere e pagine macchiate...), che mettono in evidenza l’inadeguatezza di quest’ultima a rappresentare la realtà.

Zona Competenze Esposizione orale

1. In questo capitolo hai avuto modo di incontrare numerosi personaggi. Ciascuno di loro presenta aspetti di grande modernità. Qual è, a tuo avviso, il personaggio più in linea con i valori della società attuale? Rispondi in un intervento orale di circa 3 minuti. 2. Prepara un intervento riepilogativo destinato alla classe sulle specificità di ciascuna delle forme di romanzo che hai incontrato in questo capitolo. Dopo averle individuate e brevemente illustrate, cita per ciascuna caratteristica degli esempi tratti dai brani analizzati, aiutandoti – se lo ritieni utile – con uno schema grafico. Hai a disposizione 10 minuti.

Scrittura

3. In un breve testo argomentativo esponi le ragioni per cui il romanzo di avventura e di viaggio si è affermato in particolare nell’Inghilterra del Settecento.

Sintesi

Settecento 311


SettecentoQuattrocento e Cinquecento CAPITOLO

9 Giuseppe Parini LEZIONE IN POWERPOINT

L’uomo Parini visto da sé medesimo... Nell’ode Alla Musa (1795), una sorta di ideale testamento, Parini esalta la sua idea di poesia e di poeta. Egli contrappone a chi cerca il successo un’immagine in cui si autorappresenta: un uomo onesto, che ricerca la bellezza e la verità. Te il mercadante, che con ciglio asciutto fugge i figli e la moglie ovunque il chiama dura avarizia, nel remoto flutto, Musa, non ama. 5 Nè quei, cui l’alma ambizïosa rode fulgida cura; onde salir più agogna; e la molto fra il dì temuta frode torbido sogna. Né giovane, che pari a tauro irrompa 10 ove a la cieca più Venere piace: né donna, che d’amanti osi gran pompa spiegar procace. Sai tu, vergine dea, chi la parola modulata da te gusta od imita; 15 onde ingenuo piacer sgorga, e consola l’umana vita? Colui, cui diede il ciel placido senso e puri affetti e semplice costume; che di sè pago e dell’avito censo 20 più non presume. Che spesso al faticoso ozio de’ grandi e all’urbano clamor s’invola, e vive ove spande natura influssi blandiscon o in colli o in rive. 25 E in stuol d’amici numerato e casto, tra parco e delicato al desco asside; e la splendida turba e il vano fasto lieto deride. Che a i buoni, ovunque sia, dona favore; 30 e cerca il vero; e il bello ama innocente; e passa l’età sua tranquilla, il core sano e la mente.

O Musa, non ti ama il mercante che con insensibilità abbandona i figli e la moglie, ovunque lo chiami in paesi remoti la dura avidità. Né colui che è tormentato dall’ambizioso desiderio che lo spinge a bramare l’ascesa sociale e che sogna turbato la frode di cui per tutto il giorno ha timore. Né il giovane che come un toro si avventa dove lo spinge la cieca lussuria; né la donna che osa ostentare spudoratamente il numero dei suoi amanti. Sai tu, vergine dea, chi apprezza o sa emulare la parola che tu moduli; dalla quale deriva ingenuo piacere e che consola la vita umana? Colui al quale il cielo chiede sentimenti misurati e sentimenti puri e costumi di vita semplici; che soddisfatto di sé e del patrimonio avito, non chiede di più. Colui che spesso si sottrae alla vita faticosamente ignava dei potenti, e al clamore cittadino, e vive dove la natura spande benefici influssi sui colli o sulle rive. E in un piccolo gruppo di amici onesti siede a una mensa parca ma raffinata; e nella sua serenità deride la massa dei potenti e l’inutile sfoggio di ricchezze. Che, dovunque si trovi, favorisce le persone oneste; e cerca la verità; e ama la bellezza pura; e passa serenamente la vita, con il cuore e la mente integri.

G. Parini, Le Odi, ed. critica a c. di D. Isella, Ricciardi, Milano 1975

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Giuseppe Parini scrive le sue opere più rappresentative – le Odi “civili” e Il giorno – nella Milano di Maria Teresa d’Austria. Lo caratterizzano come intellettuale una concezione operativa della cultura e l’apertura ai grandi temi del dibattito illuminista europeo e lombardo. Sceglie di affidare il proprio messaggio alla poesia, convinto che questa possa contribuire al rinnovamento sociale e costituire una testimonianza morale. Nelle prime Odi egli tratta in modo diretto problemi morali e civili della società, coniugando i princìpi dell’estetica sensista con la tradizione classicistica; nel poemetto Il giorno, il suo capolavoro, attraverso la satira e l’ironia condanna la decadenza morale e l’inerzia della nobiltà.

1 Ritratto d’autore 2 Il libro delle Odi 3 Il giorno morale di Parini: 4 Laun figura mito per le generazioni future

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1 Ritratto d’autore 1 Una vita tutta milanese VIDEOLEZIONE

Da Bosisio a Milano Giuseppe Parini nasce il 23 maggio 1729 a Bosisio, un piccolo paese della Brianza sul lago di Pusiano, da una famiglia di modeste condizioni. A nove anni si trasferisce a Milano e inizia studi poco brillanti presso le scuole dei Barnabiti, con l’aiuto finanziario di una prozia che gli lascia, morendo, una modesta rendita purché egli diventi sacerdote. Nel 1752, appena ventiquattrenne, Parini suscita l’interesse dell’ambiente letterario con la pubblicazione di Alcune poesie di Ripano Eupilino: una raccolta di 95 poesie di impronta arcadica e tradizionale, firmata dal giovane poeta con uno pseudonimo di gusto anch’esso arcadico (anagramma del vero cognome del poeta Parino – che in seguito decise di cambiare in Parini –, associato al nome latino del lago di Pusiano, Eupilis lacus). Le qualità promettenti di questa prima prova poetica (ma anche l’appoggio di alcuni autorevoli ecclesiastici) gli aprono le porte dell’Accademia dei Trasformati, che accoglieva allora il meglio degli intellettuali milanesi. Da qui inizia la sua vicenda umana e letteraria. Parini abate e precettore Nel 1754 Giuseppe Parini viene ordinato sacerdote, diventando uno dei tanti abati della società del tempo: una scelta comune nel Settecento ad altri intellettuali, come lui di modeste origini, che potevano trovare nella carriera ecclesiastica un ruolo sociale decoroso compatibile con l’attività letteraria. Nello stesso anno entra come precettore in casa di una famiglia milanese dell’alta nobiltà: i duchi Serbelloni, rappresentanti dell’aristocrazia milanese più moderna

CARTA INTERATTIVA DEI LUOGHI

Cronologia interattiva 1740 Sale al trono Maria Teresa d’Austria, principale punto di riferimento, insieme a Federico II di Prussia, della formula politica del “dispotismo illuminato”.

1720

1730

1740

1750

1760

1752-1753

1729

Nasce a Bosisio (in Brianza), da una modesta famiglia.

1739

Si trasferisce a Milano.

Pubblica Alcune poesie di Ripano Eupilino. Entra a far parte dell’Accademia dei Trasformati. 1754

Viene ordinato sacerdote. Entra al servizio del duca Gabrio Serbelloni come precettore. 1757-1761

Scrive il Dialogo sopra la nobiltà; compone la prima ode La vita rustica (1758), poi La salubrità dell’aria (1759) e il Discorso sopra la poesia.

314 Settecento 9 Giuseppe Parini


e colta, aperta ad accogliere alcune istanze dei filosofi illuministi europei. Milano vive in quegli anni un clima di fervore e di vivacità culturale: si diffondono le novità d’Oltralpe e si progettano riforme nella vita economica e sociale. Parini polemista Parini si lascia coinvolgere nelle molte discussioni e iniziative dell’Accademia dei Trasformati: in particolare assume una posizione fortemente polemica nelle questioni relative alla lingua letteraria, schierandosi apertamente contro lo sterile attaccamento al passato in campo linguistico (difende anche l’uso del dialetto). Negli stessi anni scrive le prime odi civili, il Dialogo sulla nobiltà e il Discorso sulla poesia, e affronta in poesia temi sociali e ideologici che costituivano da tempo i bersagli preferiti della critica illuminista: l’intolleranza religiosa (Autodafé, del 1761, in cui condanna l’Inquisizione spagnola) e la guerra (Sopra la guerra, 1758). In quest’ultimo scritto poetico Parini esprime le sue convinzioni cristiane e umanitarie su un tema di stretta attualità (la Guerra dei sette anni tra Maria Teresa d’Austria e Federico II di Prussia) assumendo una decisa posizione pacifista, comune allora tra gli intellettuali illuministi italiani e stranieri (si pensi in particolare a Voltaire ➜ C8 T11 ). Nel 1762 Parini lascia casa Serbelloni in seguito a un increscioso episodio: in un contrasto tra la duchessa e la figlia del maestro di musica Sammartini, lo scrittore aveva assunto le difese della seconda. L’anno successivo prende contatto con un’altra famiglia della nobiltà: è assunto come precettore di Carlo Imbonati, per il quale compone l’ode L’educazione.

Pietro Longhi, Visita al Lord, 1746 (New York, Metropolitan Museum).

Un intellettuale militante nella Milano di Maria Teresa Nel frattempo Parini avvia la composizione di un poemetto satirico, Il giorno, di cui nel 1763 pubblica (senza firmarli) Il mattino e due anni dopo Il mezzogiorno. Anche se anonimi, i due

1764-1766 A Milano esce la rivista «Il Caffè».

1780 Giuseppe II succede a Maria Teresa d’Austria.

1789 La rivoluzione francese. 1796 Napoleone Bonaparte entra a Milano.

1764 Cesare Beccaria pubblica Dei delitti e delle pene.

1770

1763-68

Diventa precettore di Carlo Maria Imbonati, a cui dedica l’ode L’educazione (1764). 1763-1765

1780

1768-75

Dirige la «Gazzetta di Milano». Ricopre la cattedra di eloquenza nelle Scuole Palatine e diventa professore di Belle Lettere a Brera.

1797 Nasce la Repubblica Cisalpina. Trattato di Campoformio. 1799 Gli Austriaci tornano a Milano.

1790

1785-1795

La caduta apre una serie di nuove odi ispirate soprattutto da temi privati.

1800

1791

È nominato sovrintendente delle Scuole di Brera.

1796

Entra a far parte per un breve periodo della municipalità repubblicana.

1799

Muore nella sua casa di Brera.

Pubblica senza firmarli Il mattino e Il mezzogiorno.

Ritratto d’autore 1 315


Bernardo Bellotto, Veduta di Milano con il palazzo dei Giureconsulti, 1744 ca. (Milano, Pinacoteca del Castello Sforzesco).

testi gli sono subito attribuiti e suscitano largo consenso negli ambienti intellettuali milanesi. Attirano inoltre sull’autore l’interesse dell’amministrazione austriaca che, secondo le direttive dell’imperatrice Maria Teresa, tendeva a offrire agli intellettuali più aperti incarichi di responsabilità. Negli anni immediatamente successivi vengono affidati a Parini incarichi importanti, che segnano una svolta nella sua vita: nel 1768 il ministro plenipotenziario conte Carlo Firmian, governatore di Milano, gli conferisce l’incarico di redigere la settimanale «Gazzetta di Milano» (svolgerà questo incarico per tutto il 1769). Contemporaneamente è nominato poeta del teatro Ducale: con questo incarico realizza importanti collaborazioni poetiche e compone la serenata teatrale Ascanio in Alba, musicata da Mozart, in occasione delle nozze dell’arciduca Ferdinando, fratello di Giuseppe II, e di Maria Beatrice d’Este, celebrate in Duomo a Milano nell’ottobre del 1771. Nel 1769 gli viene assegnata la cattedra di Belle Lettere nelle Scuole Palatine, le scuole pubbliche istituite da Maria Teresa. Oltre all’insegnamento, svolge il ruolo di consulente nella stesura dei nuovi programmi di studio e di testi scolastici. Nel 1773 le Scuole si trasferirono nel Palazzo di Brera e si trasformarono in Regio Ginnasio, a cui nel 1776 si aggregò l’Accademia di Belle Arti. Parini si trova così a insegnare in entrambe le istituzioni ed entra quindi in contatto con il pittore Andrea Appiani e l’architetto Francesco Piermarini, che seguivano l’estetica neoclassica, secondo i princìpi enunciati in quegli anni dallo storico dell’arte antica Johann Joachim Winckelmann (➜ PAG. 216). Dal gusto neoclassico Parini viene profondamente influenzato, come dimostrano in particolare le ultime odi. Gli ultimi, difficili, anni in uno scenario politico che cambia Alla morte di Maria Teresa (1780), Parini, come molti altri intellettuali moderati, vive con profondo disagio il nuovo corso imposto dal suo successore, Giuseppe II, poco propenso a tener conto delle realtà locali e del parere degli intellettuali e intenzionato invece a organizzare dall’alto, con direttive autoritarie, la cultura stessa (promuovendo tra l’altro le discipline scientifiche a tutto scapito di quelle umanistiche). Parini riduce così sempre più la sua attività di intellettuale militante, ma continua tuttavia a svolgere il suo incarico pubblico con cura e impegno. Scoppiata la Rivoluzione francese (1789), Parini all’inizio vi vede l’affermazione dei princìpi illuministici di uguaglianza e di libertà, ma dopo gli eccessi del Terrore ne prende nettamente le distanze. Con l’ingresso dei francesi a Milano nel 1796, viene chiamato a far parte della Municipalità per le sue competenze nell’ambito dell’istruzione; ben presto, però, viene emarginato e abbandona quindi ogni collaborazione. Nel 1799 gli austriaci tornano a Milano e iniziano le persecuzioni nei confronti di coloro che risultavano compromessi con il governo rivoluzionario. Il poeta viene però risparmiato, probabilmente per la sua notorietà. Il 15 agosto del 1799 Giuseppe Parini muore nel suo alloggio di Brera. È sepolto nel cimitero milanese di Porta Comasina, ma i suoi resti andranno dispersi: di lì a qualche anno celebri versi dei Sepolcri foscoliani deploreranno l’indifferenza della città di Milano per un figlio adottivo che con la sua poesia l’aveva onorata.

316 Settecento 9 Giuseppe Parini


2 L’ideologia: un illuminista moderato Il rifiuto del materialismo ateistico La formazione culturale e letteraria di Parini è profondamente radicata nella tradizione classica; ma a questo patrimonio, per lui irrinunciabile, egli associa l’interesse per la cultura europea del tempo, assimilata attraverso letture filosofiche e letterarie, e l’attiva partecipazione alla vita culturale e pubblica di quella che divenne la “sua” città: Milano. Dell’Illuminismo Parini accoglie il rifiuto del dogmatismo, dell’oscurantismo e di ogni forma di pregiudizio, ma altrettanto nettamente, da uomo di fede sincera, respinge il materialismo e l’ateismo propri di alcuni pensatori francesi: è convinto, infatti, che la religione abbia un ruolo fondamentale nel disciplinare le passioni umane e che fornisca all’uomo le risposte alle domande fondamentali dell’esistenza.

JeanFrançois de Troy, La dichiarazione d’amore, 1724 ca. (New York, Metropolitan Museum of Art).

La visione sociale: il ruolo della nobiltà Per quanto riguarda la concezione della società, Parini appoggia senza esitazione le tesi ugualitarie e condivide le istanze umanitarie proprie del movimento illuminista, ma non per questo abbraccia una visione rivoluzionaria o rifiuta le gerarchie sociali: non auspica l’eliminazione della nobiltà dallo scenario sociale, ma critica aspramente (come si nota in particolare nel Giorno) l’altezzosità dei nobili, la vita dissipata e oziosa di molti di loro e la diffusione di costumi sociali immorali e ipocriti come la moda del cicisbeismo (cioè l’abitudine, pienamente accettata dalla società, delle donne nobili di accompagnarsi, nelle occasioni mondane, a un cavalier servente che garantiva alla dama i suoi servizi e la sua compagnia). A questa nobiltà parassitaria, Parini non contrappone però l’affermazione della classe borghese (e tanto meno l’ascesa delle classi popolari), ma l’ideale modello di una classe nobiliare che sappia assumere un ruolo sociale positivo, contribuendo alla realizzazione del bene comune. La satira delle abitudini di vita della nobiltà che Parini sviluppa nel Giorno, dunque, vuole avere una funzione non distruttiva, ma al contrario educativa: l’intellettuale, il letterato hanno il compito doveroso di svolgere un’opera di rieducazione dei nobili che il corso dei tempi rende ormai urgente e necessaria. A quest’ottica corrisponde già il Dialogo sopra la nobiltà (1757), un testo polemico che prelude al Giorno (➜ D1 OL). In esso Parini immagina un dialogo tra un nobile altezzoso e un poeta dopo la morte: il nobile è costretto, dalle incalzanti argomentazioni del poeta e dalla situazione stessa di grottesca uguaglianza creata dalla morte, a riconoscere la vanità dei titoli nobiliari e delle pretese di superiorità a essi collegate. La visione economica Anche in campo economico, Parini assume una posizione moderata, se non addirittura conservatrice: condanna i mali di un’economia che ruotava quasi esclusivamente attorno ai consumi Ritratto d’autore 1 317


dell’aristocrazia, vittima dei capricci della moda, ma non pensa certo a una radicale conversione delle dinamiche produttive: rifiuta infatti drasticamente l’esaltazione del commercio e dell’industria, propria della maggior parte degli intellettuali del «Caffè», condividendo invece le tesi della fisiocrazia , una dottrina economica che valorizza al massimo l’agricoltura come fonte primaria di ricchezza e al contempo di sanità morale (come si nota nell’ode La vita rustica).

online

Interpretazioni critiche Giuseppe Petronio Un cauto riformatore

Il ruolo dell’intellettuale: un mediatore tra modernità e tradizione Parini condivide con il gruppo del «Caffè», la principale rivista dell’Illuminismo italiano (➜ PAGG. 216; 218-219), la convinzione del ruolo centrale che l’intellettuale deve svolgere in una società che cambia e la necessità di contribuire al benessere della collettività. D’altra parte, però, non pochi aspetti lo separano dagli intellettuali del «Caffè»: oltre a rifiutare il mercantilismo (per lui una civiltà fondata sul commercio avrebbe inevitabilmente prodotto la corruzione dei costumi), Parini non è favorevole all’apertura indiscriminata alla cultura francese e non condivide la supremazia che la rivista assegnava al sapere scientifico nell’istruzione e nella vita civile. Il punto fondamentale di dissenso tra Parini e gli intellettuali del «Caffè» è però un altro: mentre questi conducevano una dichiarata battaglia al classicismo e tendevano a svalutare il ruolo della poesia, Parini crede fermamente nella necessità di conciliare tradizione classica e modernità e pensa che sia possibile affidare proprio a un genere alto come la poesia il compito di comunicare le novità sociali e ideologiche.

3 La sfida di Parini: una poesia “alta” per la modernità

Parola chiave

La convergenza con i princìpi oraziani Parini sviluppa ben presto una riflessione teorica sulla letteratura, le cui principali acquisizioni sono espresse nel Discorso sopra la poesia (1761), scritto quando il poeta è poco più che trentenne e letto dinanzi all’Accademia dei Trasformati. Princìpi poi ripresi e approfonditi nelle lezioni tenute a Brera tra il 1773 e il 1775 (De’ principi fondamentali e generali delle belle lettere applicati alle belle arti) pubblicate postume. Nella poetica pariniana, la convinzione illuministica che la letteratura debba trattare temi d’attualità si lega sempre alla rivendicazione del valore anche formale della poesia, della sua intrinseca bellezza: Parini riprende, conferendole però un moderno significato, la poetica oraziana del miscere utile dulci (“unire l’utilità al diletto”), come indica la strofa finale dell’ode La salubrità dell’aria, che si può considerare una sintetica dichiarazione di poetica: «Va per negletta via / ognor l’util cercando / la calda fantasìa, / che sol felice è quando / l’utile unir può al vanto / di lusinghevol canto» (➜ T1 ).

fisiocrazia La fisiocrazia è una teoria economica formulata da François Quesnay (1694-1774), che si diffonde nella seconda metà del Settecento innanzitutto in Francia, ma che incontra consensi anche nel resto d’Europa. Tale dottrina valorizza, sulla base di precise osservazioni economiche, la promozione dell’agricoltura come attività

318 Settecento 9 Giuseppe Parini

“naturale” (il francese physiocratie deriva dal greco physis, “natura”, e kràtos, “predominio”) e capace di produrre stabile benessere nella società. La visione fisiocratica si contrappone al mercantilismo, che intendeva invece favorire lo sviluppo del commercio e l’esportazione, considerati una moderna fonte di ricchezza.


L’adesione all’estetica del sensismo Quello che più conta, però, nel Discorso è la dichiarata adesione ai princìpi dell’estetica sensistica (➜ PAG. 187). Centrale appare nel testo pariniano la definizione “sensistica”, appunto, della poesia: «Io credo [...] esser la poesia l’arte di imitare e dipingere in versi le cose in modo che ne sien mossi gli affetti [le emozioni] di chi legge o chi ascolta, acciocché ne nasca diletto» (in un altro punto del testo definito con più precisione «un vero, reale e fisico diletto»). Il piacere prodotto dalla poesia è, perciò, strettamente collegato alla capacità di colpire il lettore attraverso la stimolazione della sfera sensoriale, suscitando in lui le stesse emozioni, le stesse passioni che l’arte riproduce: l’arte deve “toccare” e “muovere” attraverso immagini vivide, forti, che generino sensazioni di piacere e dolore. Il valore educativo e civile della poesia D’altra parte è essenziale riuscire anche a realizzare un compito di utilità sociale, che per l’illuminista (e per il cristiano) Parini è imprescindibile dall’arte. Se la poesia non si pone un compito sociale ed educativo diventa un’attività sterile e frivola: «è certo che la poesia», scrive il poeta nel Discorso, «movendo in noi le passioni, può valere [servire] a farci prendere aborrimento al vizio [aborrire il vizio], dipingendocene la turpezza, e a farci amar la virtù, imitandone la beltà». Il neoclassicismo pariniano: una svolta di poetica? Per le ultime odi si è parlato spesso, soprattutto in passato, di “neoclassicismo”: la contemplazione della bellezza, l’armonia classica delle forme poetiche presenti in questi testi preluderebbero al gusto poi dominante in Italia nel primo Ottocento (ne sono esempio le odi foscoliane). La critica moderna non mostra in genere di aderire a questa prospettiva interpretativa, cogliendo più gli elementi di continuità che di frattura tra l’ultima produzione poetica di Parini e la precedente. Il classicismo non è una dimensione nuova nella poesia di Parini, ma è una costante di tutta la sua opera: impiegato in modi diversi e con diverse funzioni a seconda del carattere e dei contenuti dei testi, il classicismo corrisponde alla volontà di Parini di affermare il valore della tradizione letteraria di fronte all’avanzata di una cultura d’avanguardia, cosmopolita, che sembrava voler escludere l’eredità del passato.

online D1 Giuseppe Parini Un nobile e un poeta si confrontano dopo la morte Dialogo sopra la nobiltà, Conclusione

Il cortile del palazzo di Brera a Milano (incisione, seconda metà sec. XVIII).

Ritratto d’autore 1 319


2 Il libro delle Odi

1 Un genere poetico antico per una poesia moderna

Charles Meynier, Studio per la musa Calliope, 1798.

online

Per approfondire L’allestimento del libro delle Odi

Le Odi Oltre a un gran numero di poesie d’occasione, Parini scrisse 25 odi in un arco di tempo molto ampio: dal 1757 (La vita rustica) al 1795 (Alla Musa). Alle più note di esse, insieme al Giorno, è legata la sua fama. Già all’inizio degli anni Novanta, Parini volle organizzare i testi in una raccolta (l’edizione definitiva è del 1795), affidandone la cura a un allievo fidato, evidentemente perché credeva che le Odi potessero rappresentare degnamente la sua poesia. L’ode è un testo poetico nato nell’antichità classica (Pindaro e Orazio), nella quale era utilizzato per messaggi importanti, di alto significato morale e civile. La scelta da parte di Parini di questa forma poetica (e la lunga fedeltà nell’adottarla) si spiega con la sua aspirazione a creare, come si è detto, una poesia che trattasse argomenti innovativi e di stringente attualità (in particolare nelle odi della prima fase) senza tagliare i ponti con la tradizione letteraria, capace di assicurare dignità formale ai nuovi contenuti. Dopo Parini scrissero odi anche Foscolo, Manzoni e in seguito, tra Ottocento e Novecento, Carducci e d’Annunzio. Le principali fasi di composizione delle Odi All’interno della produzione delle Odi si possono individuare due principali fasi compositive, intervallate da una lunga interruzione (più di dieci anni) entro la quale si colloca qualche testo d’occasione meno rappresentativo. • La prima fase (1757-1769 circa): Parini affronta temi sociali e civili di stretta attualità e problematiche centrali nel dibattito illuminista (come la funzione sociale della cultura e l’educazione). • La seconda fase (1784-1795 circa): Parini privilegia invece temi personali e la dimensione dell’interiorità. La sua poesia si allontana dalla polemica civile e anche lo stile si fa più alto e armonico.

2 La prima fase: la poesia al servizio dell’impegno civile La prima fase Le prime sette odi, scritte tra il 1757 e il 1770 (La vita rustica, 1757; La salubrità dell’aria, 1759; L’impostura, 1761; La musica, 1769; L’educazione, 1764; L’innesto del vaiolo, 1765; Il bisogno, 1766), sono caratterizzate dalla decisa volontà del poeta di confrontarsi con i temi sociali e culturali emergenti nel dibattito illuminista del tempo, alcuni dei quali sono discussi sulle pagine del «Caffè». In questi stessi anni, del resto, Parini componeva anche le prime due parti del Giorno (1763 e 1765): sia nel poemetto che gli darà la fama sia nelle odi scritte in questo periodo la poesia è posta al servizio del progresso della società, secondo il

320 Settecento 9 Giuseppe Parini


programma di poetica che Parini stesso enuncia incisivamente nei versi conclusivi dell’ode La salubrità dell’aria (➜ T1 ). La vita rustica e La salubrità dell’aria: un’interpretazione moderna del contrasto tra città e campagna Queste odi sono incentrate su un confronto polemico tra città e campagna e sull’esaltazione incondizionata della vita in campagna. Il tema è fra i più ricorrenti nella tradizione classica e, in particolare nella prima delle due odi, persistono motivi idillico-arcadici. Tuttavia compare per la prima volta un riferimento all’utilità e alla produttività del lavoro agricolo: Parini loda il contadino che, sviluppando nuove tecniche, saprà far rendere di più la terra che lavora (dietro la composizione dell’ode si intravede l’adesione di Parini alle moderne teorie fisiocratiche; ➜ PAROLA CHIAVE fisiocrazia, PAG. 318). Nella Salubrità dell’aria, Parini ripropone una rappresentazione molto positiva della campagna, in questo caso in rapporto al problema dell’inquinamento di Milano, frutto dell’indifferenza di chi antepone alla salute pubblica l’avidità di guadagno e della scarsa coscienza civica della popolazione cittadina, che ingenerano condizioni igieniche inammissibili in una società civile.

JeanBaptisteSiméon Chardin, Bambino con la trottola, 1738 (Parigi, Musée du Louvre).

L’educazione: educare l’individuo per cambiare la società L’educazione, dedicata al discepolo di Parini Carlo Imbonati, ha come tema il ruolo dell’educazione nella formazione dell’individuo, nella prospettiva di un generale rinnovamento della società: si tratta, come si è visto, di uno dei temi chiave della cultura illuminista (due anni prima, nel 1762, era stato pubblicato il fondamentale trattato di Jean-Jacques Rousseau, Émile ou De l’éducation [Emilio o dell’educazione]). Parini si rivolge in particolare alla nobiltà, nei confronti della quale si pone nel ruolo di educatore, ispiratore di modelli di comportamento che le avrebbero consentito di esercitare nuovamente il ruolo di ceto dirigente. I princìpi educativi (non certo originali) che ispirano la sua pedagogia sono enunciati nell’ultima parte del testo: il rispetto della religione, che non deve però essere esteriore formalismo, ma convincimento interiore; la generosità verso il prossimo e l’umanitarismo, il controllo della ragione su affetti e sentimenti. L’innesto del vaiuolo: l’esaltazione del progresso della ricerca scientifica È significativo che Parini collochi in apertura della raccolta delle sue odi proprio un testo come L’innesto del vaiuolo (già pubblicata nel 1765 in appendice al volumetto del dottor Gianmaria Bicetti Osservazioni su alcuni innesti del vaiuolo). Molto probabilmente l’ode appariva al poeta, dato l’argomento, un esempio evidente di una poesia che ha il coraggio di affrontare contenuti inusitati in favore del progresso civile e sociale (il risultato artistico dell’operazione è però, come in parecchi altri casi, discutibile). Parini prende posizione a favore delle pratiche di immunizzazione dalla terribile malattia ed esalta il progresso della scienza contro ogni forma di ignoranza e oscurantismo. Il bisogno: la prevenzione della piaga sociale della delinquenza Anche nell’ode Il bisogno (➜ T3 OL) Parini si mostra in piena sintonia con le istanze contemporanee, Il libro delle Odi 2 321


che reclamavano la riforma del sistema giudiziario, e concorda pienamente con le posizioni espresse da Cesare Beccaria sul rapporto delinquenza-miseria e sulla necessità della prevenzione sociale dei reati (il saggio Dei delitti e delle pene era uscito due anni prima). Ispira l’ode una prospettiva umanitaria e filantropica. La musica: contro un costume sociale vergognoso Nell’ode Contro l’evirazione o La musica (1769) Parini attacca il malcostume, diffuso nella società settecentesca, di evirare i giovanissimi cantori per ottenere una voce dal timbro particolare (nei Sepolcri, Foscolo parlerà di Milano come della città «d’evirati cantori allettatrice»): una pratica incivile che, in nome del profitto, lede la dignità di un essere umano. Giacomo Ceruti, Sera nella piazza, 1730 ca. (Torino, Museo civico d’arte antica).

3 Le odi della seconda fase Dalle tematiche sociali al ripiegamento sul privato La frattura con i temi fino ad allora trattati è anticipata nell’ode La tempesta (1786), un testo particolarmente complesso, che, attraverso una serie di metafore e immagini mitologiche, rappresenta lo sconvolgimento (la “tempesta” appunto) provocato nella vita civile e intellettuale dalla linea politica di Giuseppe II. Il mutato clima politico e ideologico che si era venuto a creare nei primi anni Ottanta del secolo produce tra gli intellettuali un senso generale di disorientamento e delusione verso la politica riformatrice, che può in parte spiegare il diverso orientamento assunto dalla poesia di Parini. Nella seconda parte della raccolta si trovano odi che testimoniano in vario modo il ripiegamento del poeta nella dimensione del privato e nell’ascolto dell’interiorità, ma anche odi legate a motivi occasionali e la disposizione a celebrare il fascino della bellezza femminile, con toni e immagini che si iscrivono – secondo una tradizionale interpretazione critica non da tutti condivisa – nel nascente gusto neoclassico o comunque mostrano consonanza con esso.

Giacomo Ceruti, Ritratto di gentildonna con cagnolino, XVIII secolo (Collezione privata).

322 Settecento 9 Giuseppe Parini

Un “filo rosso”: la predilezione per la dimensione etica Questa svolta dell’ispirazione pariniana non esclude certo la presenza di una severa dimensione etica che si può considerare il vero e proprio “filo rosso” che percorre tutta l’opera di Parini, come è evidente nella più nota tra le odi composte in questa fase e che in un certo senso la apre: La caduta (1785) (➜ T2 OL), in cui lo spunto biografico offre al poeta l’occasione per una esaltazione dell’indipendenza e della moralità che il poeta associa alla figura dell’intellettuale. Lo stesso si può dire dell’ode Alla Musa (➜ PAG. 312), composta dieci anni dopo (1795), che chiude il “libro delle Odi” con un testamento insieme poetico e morale. Rivolgendosi a un suo discepolo, il marchese Febo d’Adda, Parini celebra la funzione dell’arte come custode di valori perenni, in contrapposizione a tutto ciò che è volgare e fuggevole.


Le odi “galanti” e il fascino della bellezza femminile Soggetto delle odi denominate “galanti” da alcuni critici è la contemplazione insieme ammirata e malinconica della bellezza femminile, incarnata in alcune dame dell’aristocrazia. Il pericolo (1787) allude al fascino pericoloso esercitato sull’anziano poeta dalla gentildonna veneziana Cecilia Tron, a cui l’ode è dedicata. In un’altra ode, Il dono (1790), Parini ringrazia la marchesa Paola Castiglioni che gli aveva donato un’edizione delle tragedie di Alfieri. Infine, Il messaggio (1793) esprime la gratitudine del poeta per la contessa Maria Castelbarco, che si era informata della sua salute. In quest’ultima ode è interessante l’anticipazione di un tema che ritroveremo in Foscolo: il ruolo consolatore della bellezza davanti al tramontare della vita e all’immagine della morte.

Le odi pariniane Contenuto ➜ 25 odi prima fase (1756-1769 ca.)

temi culturali e sociali di attualità, centrali nel dibattito illuminista

seconda fase (1784-1795 ca.)

temi personali: • riflessione sul mondo interiore • contemplazione della bellezza femminile (odi “galanti”)

Fasi compositive

Ideologia

Poetica

illuminismo

• polemica antinobiliare • egualitarismo e umanitarismo • professione delle lettere come impegno civile • fiducia nel progresso scientifico

cristianesimo

• concezione tradizionale della religione (e scelta del sacerdozio) • rifiuto degli atteggiamenti antireligiosi dell’illuminismo francese

fisiocrazia

valorizzazione delle risorse dell’economia agricola

classicismo

• culto dei modelli classici • cura estrema del decoro formale • rifiuto dell’idea utilitaristica della letteratura

sensismo

ricerca di un lessico preciso per suscitare l’immagine “sensoriale” dell’oggetto

“neo-classicismo”

• contemplazione della bellezza e ripiegamento sull’interiorità • compostezza espressiva, lessico uniforme, sorvegliato e rarefatto

Il libro delle Odi 2 323


4 Lo stile delle Odi: tra sensismo e (neo)classicismo Quali parole per una poesia di “cose”? Nelle odi dell’impegno civile, l’adesione alla poetica del sensismo (➜ PAG. 215) suggerisce al poeta la scelta di espressioni del tutto nuove, lontane dalla vaghezza arcadica e classicistica: termini concreti, precisi e capaci di coinvolgere suscitando impressioni visive, foniche, olfattive, tattili. Ad esempio, nella Salubrità dell’aria: «polmon capace», «triste oziose acque», «fetido limo», «crescente pane», «sali malvagi» (➜ T1 ). L’inserzione di un lessico realistico, di per sé impoetico, viene però compensata dalla presenza costante di elementi aulici quali personificazioni, perifrasi, similitudini classicheggianti e dalla struttura sintattica complessa, latineggiante per la presenza costante di inversioni e dislocazioni. Il classicismo delle ultime odi: una nuova poetica? Il classicismo è connaturato all’immaginario pariniano e la sua presenza è dunque una costante nella sua opera poetica. È corretto allora parlare – come sempre è stato fatto – di una “svolta”, anche in senso stilistico, testimoniata dalle ultime odi? Di certo Parini abbandona la riflessione sul presente e la polemica sociale: scompare di conseguenza il lessico realistico e icastico e rimane il classicismo; un classicismo più sorvegliato e rarefatto, che si esprime in un lessico colto e raffinato, una metrica più fluida e armonica. La ricercatezza formale e gli elementi del “codice” classico esercitano la funzione di filtro che controlla l’urgenza autobiografica e nobilita il dato occasionale, così come, con risultati ben più alti, avverrà per le odi e i sonetti foscoliani (collocabili pochi anni dopo l’ultima ode di Parini, datata 1795). In questo senso, effettivamente le ultime odi pariniane, molto più delle odi “civili”, offrono un modello per le generazioni appena successive ed è forse questo aspetto che si dovrebbe (come non si fa abbastanza) sottolineare.

PER APPROFONDIRE

La poetica pariniana Sensismo

ricerca di un lessico concreto, vivacemente realistico, capace di suscitare impressioni visive, olfattive, foniche, tattili

Classicismo

presenza di elementi aulici e di una struttura sintattica complessa

Neoclassicismo (classicismo delle ultime Odi)

ricerca di un lessico colto e raffinato, di equilibrio e armonia espressive

Il neoclassicismo pariniano: un problema critico Sulla “svolta neoclassica” delle odi pariniane diverse sono state le posizioni della critica negli ultimi decenni: se Giuseppe Petronio legge in questa stagione poetica il frutto della delusione per la politica di Giuseppe II e la fuga in un mondo di forme ideali, Walter Binni riconosce l’esito di un percorso di interiore maturazione, il raggiungimento di un equilibrio che porta il poeta a contemplare la realtà con pacatezza e serenità, un naturale accordo con l’estetica neoclassica. Più recentemente, lo studioso del Settecento letterario italiano Norbert Jonard contesta invece l’esistenza del

324 Settecento 9 Giuseppe Parini

cosiddetto “neoclassicismo” pariniano: le odi finali, che egli definisce semplicemente «odi erotico-galanti», a suo parere non vanno ricondotte a un «avanzamento» verso nuove dimensioni poetiche ma, al contrario, a una sorta di regressione a forme e tendenze già presenti nelle prime poesie di Ripano Eupilino. Secondo il critico, non esistono elementi probanti per associare gli ultimi componimenti alla nuova «metafisica del bello» neoclassica, che egli considera espressione di un cambiamento della visione estetica del poeta.


Giuseppe Parini

T1

La salubrità dell’aria Odi, II

G. Parini, Le Odi, a c. di D. Isella, Ricciardi, Milano-Napoli 1975

EDUCAZIONE CIVICA

nucleo Sviluppo economico e sostenibilità competenza 5, 6

La salubrità dell’aria, tra le più note composizioni di Parini, fu recitata nel 1759 all’Accademia dei Trasformati. L’ode ripropone il tema classico della contrapposizione città-campagna, ma con nuove, polemiche e realistiche motivazioni: della campagna Parini non esalta infatti solo la bellezza ma anche la salubrità dell’aria, appunto, la vita sana di cui può godere chi vive lontano dalla città. Analogamente, anche l’immagine negativa della città che domina nell’ode non ha nulla a che vedere con le stereotipate rappresentazioni tradizionali, ma acquista il volto specifico della Milano preindustriale e precapitalistica dei tempi di Parini, preda di un inquinamento determinato dall’incuria, dall’indifferenza dei cittadini e soprattutto dagli interessi economici privati che prevaricano il bene della collettività.

O beato terreno del vago Èupili mio, ecco al fin nel tuo seno m’accogli; e del natìo 5 aere mi circondi; e il petto avido inondi1. Già nel polmon capace urta sé stesso e scende quest’etere vivace, 10 che gli egri spirti accende, e le forze rintegra, e l’animo rallegra2. Però ch’austro scortese qui suoi vapor non mena: 15 e guarda il bel paese alta di monti schiena, cui sormontar non vale borea con rigid’ale3. né qui giaccion paludi, 20 che dall’impuro letto mandino ai capi ignudi nuvol di morbi infetto: La metrica: Strofe di sei settenari piani; schema delle rime: ABABCC. 1 O beato... inondi: l’ode si apre con il saluto alla terra felice (beato) che circonda il bel (vago) lago di Pusiano (di cui Èupili è il nome latino; mio perché presso quel lago sorge Bosisio, il paese natale del poeta, vv. 4-5 natìo / aere). Parini immagina di tornare al suo paese, che lo fa sentire amato (nel

tuo seno m’accogli): “(sottinteso tu: è il paese personificato) mi circondi dell’aria nativa e riempi (inondi) di quest’aria il mio petto desideroso (avido di respirare aria pura)”. 2 Già... rallegra: finalmente (già) quest’aria (etere) vivificante (vivace), che stimola (accende) gli animi infiacchiti (egri) (dalla vita cittadina) e rinnova (rintegra) le forze e rallegra l’animo, si comprime (urta sé stesso) e scende nei (miei) polmoni che si

dilatano (in un profondo respiro, polmon capace). 3 Però ch’austro... rigid’ale: infatti il fastidioso (scortese) vento di scirocco (austro, nome latino) non porta la sua umidità (vapor) in questi luoghi: e un’alta catena (schiena) di monti, che la tramontana (borea) con il suo soffio gelido (con rigid’ale) non riesce (vale) a superare, protegge (guarda) il bel paese.

Il libro delle Odi 2 325


e il meriggio a’ bei colli asciuga i dorsi molli4. Pèra colui che primo a le triste ozïose acque e al fetido limo la mia cittade espose; e per lucro ebbe a vile 30 la salute civile5. […] 25

[Il poeta invita quindi gli abitanti della città a temere il diffondersi della malaria, che affligge i contadini che lavorano nelle risaie, pericolosamente vicine alla città. Al lavoro malsano nelle risaie è contrapposta la condizione dei contadini in campagna, dove ancora si coltiva il grano: il lavoro è pesante, ma grazie al clima salubre (Parini allude in particolare ai luoghi della sua Brianza), i contadini sono sani e robusti. Il poeta si immagina nel ruolo di cantore di un mondo campestre ancora incontaminato. E così continua…] Ben larga ancor natura fu a la città superba di cielo e d’aria pura: 70 ma chi i bei doni or serba fra il lusso e l’avarizia e la stolta pigrizia6? Ahi, non bastò che intorno putridi stagni avesse; 75 anzi a turbarne il giorno sotto a le mura stesse trasse gli scelerati rivi a marcir sui prati7: e la comun salute 80 sagrificossi al pasto d’ambizïose mute, che poi con crudo fasto

4 né qui... dorsi molli: e qui (in Brianza) non ristagnano (giacciono) paludi che dal fondo (letto) putrido (impuro) mandino alle persone (capi ignudi è una sineddoche) indifese un’aria infettata (nuvol… infetto) di malattie (la malaria era endemica nelle zone paludose); e il sole meridiano (qui) asciuga i pendii (dorsi) bagnati dalla rugiada del mattino (molli) ai bei colli (volti a sud). 5 Pèra... civile: muoia (pèra congiuntivo di perire; è un tradizionale esordio d’im-

326 Settecento 9 Giuseppe Parini

precazione) colui che per primo espose la mia città (Milano) alle nocive (triste) acque stagnanti (ozïose) e al fango (limo) maleodorante (fetido) e per guadagno (lucro) disprezzò (ebbe a vile) la salute dei cittadini (civile). 6 Ben... pigrizia?: la natura è stata assai generosa (larga) anche nei confronti di Milano (concedendole) un bel cielo e un’aria pura: ma chi conserva ora i bei doni in mezzo al lusso, all’avidità di gua-

dagno (avarizia) e alla stupida inettitudine (stolta pigrizia)? 7 Ahi, non... sui prati: ahimè, non bastò che Milano fosse circondata dalle risaie (putridi stagni); in aggiunta (anzi), a inquinare l’aria della città (turbarne il giorno; il soggetto è ancora Milano) deviò (trasse) fin sotto le mura i canali nocivi (scelerati) per inondare i prati imputridendoli (cioè creò le marcite).


calchin per l’ampie strade il popolo che cade8. A voi il timo e il croco e la menta selvaggia l’aere per ogni loco de’ vari atomi irraggia, che con soavi e cari 90 sensi pungon le nari9. 85

Ma al piè de’ gran palagi là il fimo alto fermenta; e di sali malvagi ammorba l’aria lenta, 95 che a stagnar si rimase tra le sublimi case10. Quivi i lari plebei da le spregiate crete d’umor fracidi e rei 100 versan fonti indiscrete; onde il vapor s’aggira; e col fiato s’inspira11. Spenti animai, ridotti per le frequenti vie, 105 de gli aliti corrotti empion l’estivo die: spettacolo deforme del cittadin su l’orme!12 Né a pena cadde il sole 110 che vaganti latrine

8 la comun... che cade: la salute pubblica (comun) fu sacrificata (sacrificossi) al (desiderio di procurare) foraggio (pasto) a prestigiose (ambiziose, cioè “che alimentano l’ambizione” dei possessori) pariglie di cavalli (mute), che poi con crudele ostentazione di ricchezza (crudo fasto) calpestino (calchin) lungo le ampie strade il popolo che cade (travolto sotto le ruote delle carrozze). 9 A voi... le nari: a voi (contadini della Brianza), il timo e lo zafferano (croco) e la menta selvatica (selvaggia) da ogni parte impregnano l’aria delle loro particelle (atomi), che stimolano (pungon) le narici (nari) con sensazioni olfattive (sensi) dolci

e piacevoli (soavi e cari). 10 Ma al piè... sublimi case: invece là ai piedi dei grandi palazzi (dei nobili) fermenta il letame ammucchiato (fimo alto) e impregna (ammorba) di malefiche esalazioni (sali malvagi) l’aria opprimente (lenta, “senza vento”) che ristagna tra le alte (sublimi) case (le quali impediscono il ricambio dell’aria). 11 Quivi... s’inspira: qui (a Milano) le case popolari (plebei lari; i Lari presso gli antichi Romani erano gli dèi protettori della casa) rovesciano (in strada) dai disprezzati vasi da notte (spregiate crete, “vasi di terracotta”; perifrasi eufemistica con sineddoche) getti (fonti) senza riguardo per i

passanti (indiscrete) di liquidi maleodoranti (fracidi per fradici) e dannosi (rei), dai quali (onde) si diffonde (s’aggira) la puzza (vapor) che viene respirata con l’aria. 12 Spenti animai... su l’orme!: animali morti (spenti), abbandonati (ridotti) per le vie affollate (frequenti), riempiono l’aria specialmente nei giorni caldi estivi (die, singolare, latinismo) (quando le epidemie si diffondono più facilmente) col fetore (aliti, che emanano i loro corpi putrefatti): spettacolo ripugnante (deforme) che si offre alla vista del cittadino che passa (su l’orme)! L’usanza di abbandonare carogne di animali per strada era inutilmente contrastata dalle leggi.

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con spalancate gole lustran ogni confine de la città, che desta beve l’aura molesta13. Gridan le leggi è vero; e Temi bieco guata: ma sol di sé pensiero ha l’inerzia privata. Stolto! E mirar non vuoi 120 ne’ comun danni i tuoi?14» 115

Ma dove ahi corro e vago lontano da le belle colline e dal bel lago e dalle villanelle, 125 a cui sì vivo e schietto aere ondeggiar fa il petto?15 Va per negletta via ognor l’util cercando la calda fantasìa, 130 che sol felice è quando l’utile unir può al vanto di lusinghevol canto16. 13 Né a pena... molesta: non appena il sole è tramontato (cadde), i carri stercorari (vaganti latrine), con i coperchi aperti (spalancate gole, contrariamente alle disposizioni vigenti) percorrono (lustran) ogni zona (confine) della città, che svegliandosi (desta) respira (beve) l’aria nociva (molesta). Le vaganti latrine si riferiscono alle navazze stercorarie, adibite al trasporto dei liquami fuori città. 14 Gridan... i tuoi?: le leggi minacciano

(sanzioni), è vero; e la giustizia (Temi, la dea della giustizia) guarda (guata) minacciosamente (bieco, con valore avverbiale), ma i privati cittadini, indifferenti al bene pubblico (inerzia privata), si preoccupano solo del proprio interesse. Stolto (cittadino)! Non vuoi capire che i danni collettivi sono anche i tuoi stessi danni? 15 Ma dove... il petto?: dove vado divagando (corro e vago, endiadi) lontano dalle belle colline e dal lago e dalle con-

tadinelle (villanelle) cui un’aria (aere) così pura e frizzante (schietto) gonfia i polmoni? 16 Va per... canto: la mia appassionata (calda) ispirazione poetica (fantasia) va lungo strade trascurate dagli altri (negletta) sempre (ognor) cercando l’utile (sociale), la quale ispirazione è felice solamente quando può unire l’utilità al merito (vanto) di una poesia piacevole (lusinghevol canto).

Analisi del testo Oltre il topos classico della vita agreste e della contrapposizione città/campagna Proprio per gli obiettivi polemici che la ispirano, l’ode rifiuta (o almeno tenta di farlo) l’immagine letteraria convenzionale della campagna come locus amoenus, paesaggio arcadico sottratto al divenire del tempo, privo di connotati realistici, abitato da ninfe e pastori; e crea invece la realistica rappresentazione di un ambiente sano, la cui positività è sperimentabile attraverso i sensi. Questo ambiente è contrapposto alla città, ma anche per quest’ultima Parini rinuncia agli stereotipi dei modelli letterari (si pensi alla satira oraziana del “topo di campagna e di città” certo ben nota a Parini) per delineare un ambiente cittadino ben preciso: la Milano del suo tempo, che viveva seri problemi di igiene pubblica e di inquinamento.

328 Settecento 9 Giuseppe Parini


Unire «utile» e «lusinghevol canto»: un programma riuscito? Come osserva il critico Jonard, fino alla La vita rustica Parini aveva solo sfiorato la sua contemporaneità, mentre con quest’ode l’attualità irrompe con forza nel testo attraverso una forma poetica che tenta strade nuove (la «negletta via» di cui parlano gli ultimi versi, ovvero un modo di far poesia trascurato fino a quel momento), abbandonando la cantabilità e i temi evasivi della lirica arcadica. Parini cerca veramente di fare cosa “utile”: non si limita, infatti, a un discorso estetico (città “brutta” vs campagna “bella”) né genericamente moralistico, ma individua delle precise responsabilità nel degrado ambientale: la coltivazione del riso è frutto della logica del profitto, l’estensione delle risaie e delle marcite fino alle porte della città disprezza la salute pubblica in nome dell’utile di pochi, infrangendo quel “patto sociale” che per gli illuministi è alla base della convivenza civile. L’adesione a una poetica dell’utile non esclude però il «lusinghevol canto», ovvero la piacevolezza della poesia. Nel caso di questa ode, la piacevolezza può corrispondere a un duplice significato: in primo luogo Parini allude alla competenza letteraria che ha le sue radici nella tradizione cara al poeta; ma si può ipotizzare un significato più attuale di questa “piacevolezza”, che deriva invece dalla moderna estetica del sensismo a cui il poeta aderiva: essa, come si è detto, implicava il produrre piacere in chi legge suscitando “sensazioni”. Effettivamente La salubrità dell’aria costituisce quasi il “manifesto” di una poetica sensistica, talmente numerosi sono i riferimenti a impressioni visive e olfattive che conferiscono concretezza al discorso del poeta (producendo sensazioni che sono propriamente “piacevoli”, beninteso, solo quando ci si riferisce al polo positivo dell’ode, ovvero alla lode della campagna operosa: «L’aere per ogni loco / de’ vari atomi irraggia, / che con soavi e cari / sensi pungon le nari», vv. 86-90). Leggendo La salubrità dell’aria rimane però nel lettore l’impressione che la tradizione abbia frenato l’innovazione, così che il risultato finale risulta ben poco convincente proprio perché si tratta di un testo decisamente ibrido; al complessivo realismo si contrappone infatti la sopravvivenza di immagini del repertorio arcadico, come quella del poeta che, novello Titiro virgiliano (Bucolica I), «con la mente sgombra, / di pure linfe asterso [purificato], / sotto ad una fresc’ombra», si prepara a cantare in versi non i pastori dell’Arcadia ma gli altrettanto inverosimili e idealizzati (seppure con un’idealizzazione di segno opposto) «villan vispi e sciolti / sparsi per li ricolti» (vv. 49-54, non riportati). Non mancano formule e stilemi tipici della poesia classica, come la formula deprecatoria, cara a Parini «Pèra colui che primo...» (v. 25 e sgg.). A nostro parere la volontà polemica risulta smorzata da questi debiti alla tradizione classicistica, alla quale Parini non intende però rinunciare.

Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

PARAFRASI 1. Fai la parafrasi dei primi trenta versi dell’ode. COMPRENSIONE 2. Qual è l’obiettivo dell’ode? 3. Alla fine del testo è contenuta una dichiarazione di poetica: in che cosa consiste? ANALISI 4. Indica gli aspetti che, per il poeta, caratterizzano l’ambiente rurale e quello cittadino. 5. I versi 115-120 sono tra quelli che maggiormente esprimono una visione illuminista: spiega perché. LESSICO 6. Sempre nei primi trenta versi, individua i termini che appartengono al registro letterario classicistico e quelli di matrice sensistica; poi fanne una schedatura. STILE 7. Nelle due strofe dei versi 85-96 è particolarmente evidente la presenza dell’antitesi: che cosa riguarda? Individua e scheda tutte le espressioni antitetiche che riesci a ritrovare nel testo.

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Interpretare

EDUCAZIONE CIVICA

nucleo Sviluppo economico e sostenibilità

PER APPROFONDIRE

competenza 5, 6

SCRITTURA 8. In che misura l’ode pariniana mette a fuoco problemi reali di igiene pubblica della Milano settecentesca? Rispondi dopo aver letto la scheda I problemi igenico-sanitari (o ecologici) di Milano nel Settecento (➜ PER APPROFONDIRE). 9. L’ode La salubrità dell’aria, benché sia stata scritta nella seconda metà del secolo, rivela aspetti di assoluta attualità che sono oggetto di discussione anche ai giorni nostri: il testo, infatti, sembra anticipare istanze presenti nell’Obiettivo 11 dell’Agenda 2030. Partendo ovviamente da un diverso approccio scientifico al problema, rifletti sul tema della difesa dell’ambiente, del contrasto tra città e campagna, del desiderio di profitto a scapito della salute pubblica. Quale ruolo svolgono, a tuo giudizio, l’avidità di guadagno e la scarsa coscienza civica della popolazione cittadina nella difesa dell’ambiente? Quale ruolo potrebbe avere un ragazzo della tua età nel processo di formazione di una più profonda e consapevole coscienza ambientale (max 20 righe)?

I problemi igienico-sanitari (o ecologici) di Milano nel Settecento Il problema della salubrità dell’aria e dell’inquinamento cittadino divenne oggetto di dibattito a partire dal XVIII secolo, quando i primi igienisti, in seguito allo sviluppo delle scienze mediche e biologiche, iniziarono a rivolgere l’attenzione alle condizioni igienico-sanitarie delle città medie e grandi (come Milano e Parigi) in cui si ammassava una popolazione sempre più numerosa, che produceva una gran quantità di scarti e di rifiuti. La necessità di provvedimenti sanitari Le condizioni della vita cittadina rendevano necessaria l’introduzione di misure sanitarie per evitare l’insorgere di malattie causate dal sudiciume e dall’immondizia. La necessità più urgente risultava essere la raccolta e il trasporto fuori città dei rifiuti e delle acque reflue, in mancanza di fogne; ma già a quei tempi, ben lontani dalla sensibilità ecologica moderna, si avvertiva anche l’esigenza di creare zone di verde urbano (viali e giardini) per purificare l’aria. Anche a Milano il problema era all’ordine del giorno quando Parini scrisse l’ode, sviluppando il tema dell’aria proposto dall’Accademia dei Trasformati; infatti un decreto del magistrato della sanità del 1756 aveva tentato, ancora una volta, di «togliere quegli abusi o inconvenienti che potessero nocere alla salubrità dell’aria».

online T2 Giuseppe Parini

La caduta Odi, XV

330 Settecento 9 Giuseppe Parini

La difficile gestione dei rifiuti urbani Le «vaganti latrine» che Parini descrive inorridito erano realmente presenti nella Milano del suo tempo e ancora per molto tempo lo saranno: infatti, dato che fin dal Seicento vigeva il divieto di versare il contenuto dei pozzi neri nelle strade e nei corsi d’acqua, operai preposti estraevano i rifiuti dai pozzi (i cisternari), altri (i navazzari) li caricavano su carri (le navazze stercorarie) e li trasportavano in campagna. Dato che questi ultimi tendevano a operare fuori degli orari stabiliti, già dal primo Seicento le ordinanze delle autorità sanitarie cercano di disciplinarne l’attività. Verso la fine del Seicento i navazzari dovevano avere una vera e propria licenza per svolgere il loro compito. L’affermarsi della risicoltura e i riflessi negativi sul clima La specificità della situazione milanese consisteva nel fatto che, alle cause d’inquinamento interne alla città, si aggiungeva la vicinanza delle risaie, in un periodo in cui si affermava in Lombardia la risicoltura; attività che, insieme all’allevamento dei bovini, risultava più produttiva mentre veniva abbandonata, perché poco redditizia, la coltivazione dei cereali. Già nella prima metà del Seicento (1619), alcuni provvedimenti del governo cittadino vietavano di coltivare il riso a meno di quattro chilometri dalla città per limitare l’inquinamento urbano; ma, a quanto ci dice Parini nell’ode, non erano sempre rispettati.

online T3 Giuseppe Parini

Il bisogno Odi, IV


3

Il giorno 1 Un poemetto satirico

VIDEOLEZIONE

Il capolavoro di Parini, Il giorno, è un poemetto in endecasillabi sciolti rimasto incompiuto e frammentario nelle ultime due sezioni (Il vespro e La notte). Le prime due parti, Il mattino e Il mezzogiorno, pubblicate rispettivamente nel 1763 e nel 1765, sono cronologicamente coeve alle odi illuministiche e sono quindi il frutto della fase più impegnata della produzione pariniana, coerente alle linee che ispiravano il riformismo asburgico in quegli stessi anni. La terza parte (originariamente denominata La sera e in seguito divisa in Il vespro e La notte) rimase invece incompiuta e inedita (➜ PER APPROFONDIRE La composizione del Giorno: un’intricata questione filologica, PAG. 335). Nel Giorno Parini, fingendosi «precettore di amabil rito», insegna a un «giovin signore» come vivere nel modo più piacevole le occupazioni che scandiscono la sua giornata: da qui il titolo (Il giorno, appunto) con cui l’opera è passata alla storia ed è tuttora letta, ricavato da un verso della celebre ode autobiografica La caduta (➜ T2 OL). In realtà la veste didascalica del poemetto (presente soprattutto nelle prime due sezioni dell’opera) è funzionale al ritratto satirico della vita frivola e oziosa della nobiltà contemporanea.

2 L’articolazione dei contenuti

PER APPROFONDIRE

Il mattino Il poemetto si apre con la descrizione dell’alba, quando gli umili lavoratori (il contadino, il fabbro) si avviano alle quotidiane attività. Il «giovin signore» invece, che si è coricato all’alba dopo una notte di divertimenti, si sveglia quando

All’incrocio di diversi generi Il giorno è un’opera unica non solo nel panorama settecentesco ma anche nell’intera tradizione letteraria: nel Giorno rifluiscono diverse suggestioni letterarie e l’opera si colloca all’incrocio di vari generi letterari senza poter essere di fatto classificata in nessuno di essi. La finzione assunta dal «precettore», che dà consigli di comportamento al «giovin signore», riconduce l’opera ai celebri manuali di comportamento della tradizione letteraria italiana, dal Galateo di monsignor Della Casa al Cortegiano di Castiglione. Si tratta però di opere in prosa, mentre la scelta dei versi (e in particolare l’uso dell’endecasillabo sciolto) rimanda piuttosto al genere del poema didascalico (un genere molto amato da Parini, diffuso soprattutto nel Cinquecento, ma che aveva conosciuto nuova fortuna nel Settecento). Nel Giorno è però centrale la prospettiva satirica e parodistica, che richiama la tradizione satirico-burlesca (documentata nel Cinquecento da Berni e, per certi versi, dalle Satire di Ariosto e ripresa poi nei sermoni in versi settecenteschi,

che affrontavano in vario modo il tema della critica morale e di costume). Soprattutto però è importante il modello del poema eroicomico (un noto esempio del genere nel Seicento è La secchia rapita di Alessandro Tassoni), che innalza una materia bassa e prosaica utilizzando le strutture e i “codici” del poema epico per farne la parodia. Tuttavia, a differenza del poema eroicomico, Parini non intende parodiare il poema epico, ma si serve del codice epico per una satira sociale e di costume. Come scrive felicemente il critico Jonard, nel Giorno non siamo di fronte alla «derisione dell’epopea» ma all’«epopea del derisorio». Accanto ai modelli della tradizione si colloca l’influenza delle letture moderne (Parini era un lettore aggiornato e curioso): in particolare già Giuseppe Baretti indicò tra le fonti settecentesche dell’opera, Il ricciolo rapito [The Rape of the Lock], un poemetto satirico del 1712 (tradotto in italiano nel 1756), opera dello scrittore inglese Alexander Pope (1688-1744).

Il libro delle Odi 3 331


Lessico cicisbeo Il cicisbeo o cavalier servente nel XVIII secolo aveva il compito di accompagnare e servire in ogni momento della giornata una dama sposata. In alcune occasioni, lo stesso contratto matrimoniale prevedeva la presenza di uno più cicisbei. Il nome ha un’etimologia incerta: si tratterebbe di un termine formato onomatopeicamente per esprimere il chiacchericcio.

il sole è ormai alto nel cielo. Appena sveglio, deve affrontare il “dilemma” se bere il caffè o la cioccolata. Alla colazione seguono le lezioni di ballo, di canto, di musica e di lingua francese, secondo la moda del tempo. Quindi il «giovin signore» si sottopone al rito della vestizione (moderna caricatura della vestizione delle armi propria degli eroi epici) e della toeletta. Intanto manda a chiedere notizie sulla salute della sua dama, di cui è il cicisbeo , cioè il cavalier servente. Per spiegare l’origine di una consuetudine sociale che condanna severamente (appunto la presenza nelle famiglie aristocratiche dei cicisbei), l’autore introduce la favola di Amore e Imene, la prima delle favole mitologiche del poemetto. Inizia a questo punto il complicato rituale dell’acconciatura, durante il quale il «giovin signore» può sfogliare libretti alla moda, provenienti dalla Francia (Parini ne approfitta per condannare l’esterofilia in campo culturale). Ricevuto il mercante, che offre a caro prezzo merce esotica, e il miniaturista, incaricato di fare al «giovin signore» il ritratto, finalmente la lunghissima operazione della sistemazione dell’acconciatura si conclude con un abbondante spargimento di cipria, commentato da una nuova digressione mitologica. Cinto il fianco di una spada imponente (ormai ridotta a puro accessorio ornamentale), il «giovin signore» attraversa i corridoi del palazzo sulle cui pareti campeggiano i ritratti dei suoi gloriosi e fieri antenati. Una volta in carrozza, la vettura parte velocemente senza badare ai pedoni che si trovino accidentalmente sul suo cammino. Il mezzogiorno (poi denominato Il meriggio) Nella seconda sezione del poemetto (la più estesa), la scena si sposta in casa della dama: essa sta procedendo all’elaborata toilette mentre attende il giovane, che è il suo cavalier servente con la complicità del marito. Sarà il «giovin signore» a offrire il proprio braccio alla dama aprendo il corteo degli invitati, disposti secondo una rigida gerarchia, verso la sala da pranzo. Dopo aver narrato la favola mitologica del Piacere per giustificare ironicamente la disuguaglianza tra gli uomini (in realtà per condannarla), il precettore-narratore indugia nella descrizione dei vari commensali. Tra di essi spiccano un mangiatore formidabile e un vegetariano che inorridisce di fronte alle carni servite. Sulla scia della reazione emotiva sollevata dal discorso patetico del vegetariano, la padrona di casa rievoca il ricordo penoso dell’offesa subita dalla sua cagnolina (la «vergine cuccia delle Grazie alunna», come ironicamente è definita dal narratore) ad opera di un servo che aveva osato darle un calcio. Naturalmente l’autore di tale “sacrilegio” è stato subito licenziato e gettato sul lastrico con tutta la famiglia. Mentre il pranzo volge al termine, i convitati fanno a gara per esibire la propria

Giandomenico Tiepolo, Minuetto in villa, 1791 (Venezia, Ca’ Rezzonico).

332 Settecento 9 Giuseppe Parini


cultura. Terminato il pranzo, viene servito il caffè; segue l’appassionante gioco del tric-trac, di cui Parini ricorda l’origine attraverso una nuova favoletta mitologica. Il vespro Questo lungo frammento di circa 350 versi, rimasto inedito (e nella cui parte iniziale rifluiscono versi espunti dalla seconda redazione del Mezzogiorno), si apre con la descrizione del tramonto e la contrapposizione tra chi lavora duramente e si prepara a lasciare le proprie faticose attività e il «giovin signore» che si prepara a compiere, con la dama, le visite imposte dai doveri sociali. Prima si recherà a trovare un’amica della dama che è stata colta da una violenta crisi di convulsioni. Dopo essersi calorosamente salutate, le due amiche si scambiano infiniti pettegolezzi che però degenerano presto in un alterco: il narratore le rappresenta mentre “duellano” come paladine medievali agitando i loro ventagli. Ma il «giovin signore» sollecita un’altra visita doverosa nella dimora dove è nato il figlio primogenito di una famiglia di antica nobiltà: il suo primo vagito è stato salutato da un coro di voci esultanti alle quali si unisce anche la voce ironica del narratore-precettore: «Tu sarai simìle / al tuo gran genitore». Si interrompe qui la sezione più breve del Giorno. La notte Anche questa sezione è rimasta allo stato manoscritto ed è costituita da un lungo frammento (circa 700 versi), più alcuni altri gruppi di versi isolati. La notte, se suscitava immagini paurose negli antenati del «giovin signore», per i nobili moderni è sinonimo di occasioni festose nei palazzi sfavillanti di luci: il «giovin signore» e la dama si recano a un ricevimento in un palazzo patrizio la cui splendida illuminazione contrasta con il buio intorno. Gli ospiti attraversano le sale sontuose, animate da aristocratici che vivono delle chiacchiere maldicenti e dell’esibizione degli oggetti di lusso che possiedono (ventagli, tabacchiere, gioielli…). Segue la descrizione di alcuni ospiti al ricevimento: ognuno di essi si distingue per un passatempo bizzarro e maniacale con il quale inganna la noia di un’esistenza vuota. Dopo vari trastulli di società e chiacchiere amene, la padrona di casa invita a passare nel salone da gioco, dove si formano vari gruppetti di giocatori. Sulla descrizione delle cartelle usate per il gioco della cavagnola (una specie di tombola), che raffigurano maschere o animali, il poemetto s’interrompe.

3 Le modalità narrative La voce narrante e la finzione ironica del “precettore” Nei primi versi della prima versione del Mattino (1763, ➜ T4 OL) il narratore presenta espressamente sé stesso come precettore (cioè maestro, educatore) del «giovin signore», protagonista dell’opera: «me Precettor d’amabil Rito ascolta» (v. 7); e, più avanti, «io debbo [...] co’ precetti miei / te ad alte imprese ammaestrar cantando» (vv. 98-100). L’insegnamento del precettore riguarderà appunto i rituali di comportamento in società (l’«amabil rito») del suo discepolo, a cui egli suggerirà via via gesti e atteggiamenti consoni alle diverse situazioni mondane in cui si verrà a trovare nel corso della sua giornata. Il poemetto sembra dunque configurarsi a prima vista come una ripresa del genere didascalico; in realtà l’intento didattico viene da subito scardinato dalla corrosiva ironia dell’autore che si cela dietro la figura del narratore-precettore. L’ammaestramento del «giovin signore» è solo una finzione per evidenziare i vizi e i difetti della categoria sociale di cui egli è l’emblema: quella parte della nobiltà vacua, inattiva Il libro delle Odi 3 333


e improduttiva, che vive nel lusso e del lusso e rimane sorda ai bisogni della società. In alcuni casi, però, la veste ironica è abbandonata dall’autore per lasciare il posto a un amaro sarcasmo o addirittura alla vera e propria sdegnata deprecazione: autore e narratore-precettore in tali circostanze si avvicinano e, in modo diretto, è sollecitata l’adesione anche emotiva del lettore. Il ruolo “cooperante” del lettore Apparentemente il narratore assume il punto di vista del protagonista e approva entusiasticamente tutto ciò che fa parte del suo mondo dorato, anzi amplifica con espressioni e immagini epiche le sue futili occupazioni, a partire dall’espressione che le definisce, all’inizio dell’opera, nel loro complesso («alte imprese»: ➜ T5 al v. 68). Il lettore però – a cui è richiesta un’attenzione vigile e una cooperazione attiva nella ricostruzione del senso globale del messaggio – non può non accorgersi dell’evidente sproporzione tra la realtà rappresentata e l’enfatizzazione epica con cui è ritratta. Impara, così, ben presto a far sua la prospettiva ironica scelta dall’autore e a rovesciare nel suo contrario quanto viene detto dal narratore: ciò che è magnifico è in realtà banale, ciò che è eroico è in realtà meschino, ciò che viene esaltato va in realtà denigrato.

I personaggi Due protagonisti senza nome Il protagonista indiscusso dell’opera, in particolare nelle prime due sezioni, come si è detto, è il «giovin signore», che per le sue «gloriose imprese» (il ruolo di cavalier servente, la dedizione ai piaceri e al gioco) è stato accostato dalla critica al personaggio di Don Giovanni, che conosce particolare fortuna nel Settecento libertino (➜ C12 OL). La sua degna partner è la dama, «l’altrui fida sposa», del tutto speculare al «giovin signore» nel culto dell’apparenza e per le futili occupazioni quotidiane. Dei protagonisti il lettore ignora significativamente i nomi: «in breve carta», cioè sul biglietto da visita del «giovin signore», splende «di nuda maestade» il «gran nome» (Il vespro, vv. 149-151); ma questo nome illustre rimane di fatto sconosciuto al lettore e non è

Parola chiave

Joshua Reynolds, Thomas e Martha Neate con il loro precettore, 1748 (New York, Metropolitan Museum of Art).

ironia L’ironia è una figura retorica che consiste nell’affermare qualcosa intendendo dire il suo opposto. Attraverso l’ironia, lo scrittore afferma le proprie opinioni in modo indiretto: le idee che combatte sono enunciate in modo insostenibile e quindi, di fatto, sono contraddette. I procedimenti ironici sono ricorrenti negli scritti della cultura illuminista, certamente in rapporto all’intento critico che ispira il movimento verso strutture socio-politiche

334 Settecento 9 Giuseppe Parini

e tradizioni che si considerano tramontate: l’assolutismo, i privilegi dell’aristocrazia, ma anche la metafisica e le concezioni provvidenzialistiche, come quelle prese di mira nel Candide di Voltaire (➜ C8). Nella cultura francese, in particolare, i contes philosophique (forme di narrazione riservate alla divulgazione delle idee illuministe) sono pervasi dall’ironia.


certo un caso: i due protagonisti, infatti, non vengono caratterizzati psicologicamente e addirittura non hanno un’identità, sono totalmente assorbiti nel ruolo che recitano sulla scena del Giorno, ovvero quello di «giovin signore», di cavalier servente e di dama.

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Interpretazioni critiche Sergio Antonielli Il «giovin signore» «cavaliere inesistente»

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Per approfondire Un mondo di automi

Il mondo dell’aristocrazia: i rituali di una vita inutile Attorno alla coppia gravitano figure dell’aristocrazia, via via evocate e tratteggiate dalla penna satirica del poeta. Innanzitutto il marito della dama, «il placido marito», che «queto sorride» agli scherzi e alle allusioni che riguardano la moglie e mantiene senza lamentarsi carrozza e cavalli per l’«alma sposa» e per il «suo fido cavalier», con il quale si mostra sempre d’accordo. Parini stigmatizza più volte nell’opera la crisi della coppia nella società nobiliare, la scomparsa del pudore e del sentimento della gelosia, segno evidente dell’involuzione dei rapporti tra i coniugi, ormai ridotti a mera finzione formalistica. I nobili sono rappresentati impietosamente: costantemente inclini al pettegolezzo, dediti soltanto ai piaceri, vittime di stravaganti manie (➜ T11 OL). La loro giornata si snoda in una lunga serie di gesti stereotipati e di ripetitivi rituali sociali, di cui essi più che attori sono strumenti (ne può essere emblema la totale passività con cui il «giovin signore» si affida ai camerieri durante il rito della toeletta). Quella del «giovin signore» e dei suoi simili è una vita solo in apparenza piena di impegni; in realtà è angosciosamente (e colpevolmente) vuota, preda costante della noia: in un solo verso nel Vespro (v. 25) il narratore-precettore stigmatizza con un severo, lapidario giudizio morale la figura del nobile: «colui […] che da tutti servito a nullo serve».

Il modello spazio-temporale

PER APPROFONDIRE

La prevalenza degli spazi chiusi L’universo spaziale del Giorno si identifica per la maggior parte con il palazzo nobiliare, un ambiente che Parini conosceva per diretta esperienza: la successione degli spazi via via evocati coincide con la struttura narrativa dell’opera (dalla camera da letto del risveglio alle stanze del palazzo della Notte).

La composizione del Giorno: un’intricata questione filologica La vicenda testuale del capolavoro pariniano è estremamente complessa a causa della sua lunghissima elaborazione (circa quarant’anni), della compresenza di parti pubblicate da Parini e di parti rimaste invece durante la sua vita allo stadio di manoscritti inediti (e poi pubblicate postume con interventi arbitrari).

L’edizione critica curata dal filologo Dante Isella (1969) ha reso disponibile una stampa dell’opera che ne testimonia il processo elaborativo attraverso vari stadi. Risulta ormai accertato che la volontà di Parini nei riguardi del poema mutò nel tempo, traducendosi in due progetti diversi. In una prima fase, negli anni Sessanta, il poeta pensava a tre poemetti intitolati Il mattino, Il mezzogiorno e La sera: pubblicò solo i primi due rispettivamente nel 1763 e 1765, mentre La sera non fu mai pubblicata. Nel corso degli anni Settanta, Parini iniziò a lavorare a un progetto unitario di poema, suddiviso in quattro parti, da intitolarsi Il giorno. La prima attestazione

del titolo, adottato poi dagli editori postumi, si trova nell’ode La caduta del 1785 («[la patria] te molesta incìta di poner fine al Giorno»). Questa seconda opera, in cui Il mattino e Il mezzogiorno (ribattezzato Il meriggio) si sarebbero completati in una più vasta unità con Il vespro e La notte, finché il poeta visse rimase affidata solo alle carte autografe. Per realizzare il nuovo progetto, Parini sottopose a profonda revisione le prime due parti già pubblicate, con aggiunte e soppressioni (nel Mattino viene cassata la dedica alla Moda e i primi 32 versi, nel Meriggio [ex Mezzogiorno] viene abolita la scena della sfilata dei cocchi) e varie modificazioni stilistiche. Venticinque versi del Mezzogiorno (vv. 1195-1219) diventano l’esordio del Vespro, rimasto poi costituito da un solo lungo frammento di 350 versi, come del resto rimase incompiuta La notte. L’edizione critica di Isella presenta distinte le due versioni del progetto pariniano: da una parte Il mattino (1763) e Il mezzogiorno (1765), dall’altra le quattro parti (di cui due incompiute) del nuovo poema Il giorno e l’apparato di varianti che documenta il lungo, incontentabile lavoro del poeta sul testo.

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Lo spazio in cui si svolge la giornata del «giovin signore» è per lo più chiuso: l’assoluta preminenza di questo modello spaziale acquista un preciso significato simbolico, rimandando indirettamente alla “chiusura” del mondo nobiliare di fronte alla vita reale che si svolge fuori dal palazzo. Lo stesso spostamento dei due protagonisti fuori dal palazzo non è presentato come una vera e propria “uscita” verso gli spazi esterni, ma come temporaneo tragitto da uno spazio chiuso a un altro. Anche la carrozza, il mezzo di trasporto con cui la coppia aristocratica si sposta da una dimora nobiliare all’altra o percorre il corso per il passeggio, è di fatto uno spazio chiuso, quasi claustrofobico e sinistramente lugubre («a la marmorea tomba simìl», Il meriggio, v. 1077). L’assenza della Storia, la circolarità del tempo, il rovesciamento degli indicatori temporali notte/giorno Molto indicativo è anche il modello temporale che domina nel poemetto: Parini decide di annullare qualsiasi riferimento al divenire del tempo storico, come qualsiasi rimando a eventi politico-sociali. Il mondo della Storia non può entrare nella vita della nobiltà, che è ormai fuori dalla Storia; non a caso, dunque, Parini fa riferimento esclusivamente agli eventi cosmici (l’alba, la notte ecc.) che aprono tutte e quattro le sezioni del poemetto scandendo il corso della giornata che l’autore ha deciso di descrivere. Non si tratta di una giornata particolare o databile, bensì di una giornata-tipo, proprio perché le giornate dell’aristocrazia sono sempre identiche, ognuna la ripetizione delle precedenti e l’anticipazione delle successive: il «giovin signore» (e con lui tutta la classe nobiliare) ripete, giorno dopo giorno, quelle che non sono vere e proprie azioni, ma riti cristallizzati dall’abitudine e irrimediabilmente monotoni. In questo senso domina nel Giorno la circolarità del tempo, o addirittura una dimensione atemporale, proprio perché nel poemetto non c’è vera e propria azione (e non è un caso che nel Giorno prevalga la descrizione piuttosto che la narrazione). La vita dei nobili, per di più, è dominata dall’inversione dei comuni indicatori temporali e del ritmo naturale: il «giovin signore», e con lui i suoi simili, non condivide con i comuni mortali l’inizio della giornata al sorgere del sole, che per lui segna, al contrario, la fine della giornata precedente («e a te soavemente i lumi chiuse / il gallo che li suole aprire altrui» ➜ T5 , VV. 56-57). Allo stesso modo, nel buio che avvolge la città e il sonno dei lavoratori, il «giovin signore» partecipa invece a un ricevimento che durerà tutta la notte. L’inversione notte-giorno, collegandosi ad altre antitesi fondamentali (lavoro vs gioco, utile vs superfluo), mette soprattutto in evidenza l’innaturalità della vita dei nobili, simboleggiata dalla luce artificiale che illumina le loro notti.

Jean-Antoine Watteu, I piaceri del ballo, 17151717 (Londra, Dulwich Picture Gallery).

336 Settecento 9 Giuseppe Parini


4 Le caratteristiche stilistiche e metriche

PER APPROFONDIRE

Ironia e classicismo Come si è già detto, è prevalente nel Giorno il registro ironico. Strumento principale della deformazione ironica è l’uso costante di espressioni amplificatorie ed elogiative, ascrivibili per lo più al codice epico, grazie alle quali viene innalzato smisuratamente ciò che nella realtà è basso, banale, inconsistente: l’aristocrazia parassitaria e (in particolare) il suo nobile esponente sono elevati al rango di eroi («gemma degli eroi» è definito il «giovin signore», «concilio almo di semidei» sono definiti i nobili); gli oggetti stessi e gli ambienti che li circondano sono in un certo senso sacralizzati. L’“eroicizzazione” ironica del mondo nobiliare è realizzata su vari piani: • la sintassi latineggiante, con frequenti inversioni (in particolare le anticipazioni del complemento oggetto e di quello di specificazione: ad esempio, «la nascente del sol luce rifrange», oltre alla posizione dell’aggettivo molto spesso preposto al nome, come «l’umil volgo», «il fuggitivo giovane», che ne accentua l’effetto esornativo); • il lessico aulico e prezioso («aureo cocchio», «vezzose membra», «eburnei denti», «patetico gioco», «concilio almo», «inclita stirpe» e così via); • l’uso, sul piano più propriamente retorico, di iperboli e similitudini che associano gesti e oggetti quotidiani a situazioni epiche e immagini del repertorio mitologico; • le ampie perifrasi, che costituiscono uno dei tratti stilistico-rappresentativi più tipici del poema: un termine moderno viene reso con eleganti giri di parole; ad esempio, il caffè è «la nettarea bevanda ove abbronzato / arde e fumica il grano a te d’Aleppo / giunto e da Moca…».

Perché Il giorno non fu terminato? Alle radici di una crisi di ispirazione Già nell’ode La caduta (➜ T2 OL) del 1785, Parini allude in modo esplicito alle continue pressioni che riceveva da varie parti perché terminasse Il giorno. Un decennio dopo, in una lettera all’amico Pompilio Pozzetti, Parini motiva la mancata pubblicazione degli ultimi due poemetti (Il vespro e La notte) con la sua riserva a irridere gli esponenti di una classe di cui era ormai manifesta la totale decadenza: gli sembrava, cioè, un atto di viltà infierire su chi, a suo dire, era ormai morto (il poeta usa l’espressione latina insaevire in mortuos). Ed effettivamente, dopo la Rivoluzione francese e gli eccessi tragici del Terrore, pubblicare una satira della nobiltà rischiava di essere inattuale se non addirittura privo di senso. Uno scetticismo progressivo Al di là di questa giustificazione, la crisi di ispirazione che condanna Il giorno a rimanere un’opera incompiuta era di lunga data. Le radici di essa vanno comunque ricercate nell’evoluzione storica: dopo la composizione e pubblicazione dei primi due poemetti (Il mattino e Il mezzogiorno), nati negli anni Sessanta dal fervore polemico conseguente all’adesione agli ideali illuministi, Parini perde progressivamente la speranza che la classe nobiliare (a cui primariamente, non bisogna dimenticarlo, Il giorno si rivolge) possa invertire la rotta che l’ha portata alla decadenza e che possa correggersi. La crisi di questa classe sociale appare ormai al poeta irreversibile e il progressivo scetticismo nella possibilità di un

cambiamento corrode le basi ideologiche stesse su cui si fondava la prospettiva satirica, ma insieme anche pedagogica, dell’opera. La permanenza di un giudizio negativo sulla nobiltà Ciò non significa che si alleggerisca la severità di giudizio sul contegno della nobiltà, come ha sostenuto il critico Giuseppe Petronio, che ha visto, in particolare nella Notte, un ammorbidimento del giudizio negativo sulla classe nobiliare. La critica propende oggi, al contrario, a vedere nella parte finale dell’opera pariniana una radicalizzazione della visione negativa del poeta: smessi i panni ironici del precettore, Parini assume il ruolo di un disincantato testimone. Non rappresenta più il «giovin signore» e la sua dama, ma gruppi di nobili osservati con sguardo impietoso (➜ T11 OL); non contrappone più la nobiltà al popolo, ma si limita a registrare l’insignificanza sociale o addirittura la disumanizzazione di un’intera classe. Dalla polemica al compiacimento descrittivo A questa disposizione, diversa rispetto alla prospettiva animatamente polemica degli anni Sessanta, corrisponde, sul piano espressivo, la tendenza a uno stile più armonico, raffinato e cesellato (anche se non è corretto parlare di una vera e propria “svolta”) e la tendenza a indulgere a compiacimenti descrittivi, con un’attenzione quasi miniaturistica ai particolari preziosi, che tendono a sfaldare l’impianto narrativo.

Il libro delle Odi 3 337


Le scelte indicate rispondono per lo più all’obiettivo ironico del poeta; e d’altra parte il culto di uno stile elaborato e insieme nitido, derivato dalla lezione dei classici, costituisce, come detto, la vera costante della poesia di Parini, al di là delle diverse fasi che essa attraversa. E del resto la sua poetica perseguiva un’eleganza espressiva che non rinunciasse a trattare contenuti moderni. Un’eleganza che nella Notte, come nelle ultime odi, si fa indubbiamente più compiaciuta, mentre si diradano le espressioni corposamente realistiche, ascrivibili alla polemica illuminista e alla poetica sensista. La scelta metrica Parini sceglie per il suo poemetto l’endecasillabo sciolto (cioè non organizzato in strofe e non vincolato da rime fisse). Metro della poesia didascalica e satirica, ma usato anche da Annibal Caro nella sua traduzione dell’Eneide (1563-66) come verso capace di rendere l’esametro latino, sarà ripreso con molta fortuna (basti pensare, ad esempio, ai Sepolcri foscoliani). Parini ne fa uno strumento duttile, grazie alla variabile disposizione di cesure e accenti e all’uso assai frequente dell’enjambement.

Il giorno

COMPOSIZIONE E PUBBLICAZIONE

• 1763 Il mattino • 1765 Il mezzogiorno (poi Il meriggio) • 1 801 (postumo) Il giorno, con aggiunta di Il vespro e La notte, incompiuti

NARRAZIONE

• Il mattino: risveglio del «giovin signore» e varie digressioni • I l mezzogiorno: arrivo e banchetto presso la dama; disgressioni, tra cui l’episodio della «vergine cuccia» e la favola del Piacere • I l vespro: preparativi, uscita e impegni sociali della dama e del «giovin signore» • La notte: ricevimento notturno

TEMI

ASPETTI STILISTICOFORMALI

RAPPORTI CON LA TRADIZIONE

338 Settecento 9 Giuseppe Parini

• vacuità della vita dei nobili • moda e culto dell’effimero • impegno etico del poeta

• i ronia e codice epico (antifrasi, parodie, iperboli, perifrasi, inversioni, lessico aulico, effetti stranianti) • prevalenza di toni descrittivi • endecasillabo sciolto

• poemi didascalici (a cominciare da Virgilio) • opere secentesche di temi affini • letteratura epica ed eroicomica


INTERPRETAZIONI CRITICHE

Dante Isella Parini e l’eredità del classicismo D. Isella, Diagramma pariniano, in I Lombardi in rivolta, Einaudi, Torino 1984

La pagina qui proposta è tratta da un saggio del filologo Dante Isella (1922-2007), a cui si deve l’importante edizione critica del Giorno (1969): lo studioso sottolinea come l’opera di Parini si fondi soprattutto sul legame con la tradizione letteraria e sul rigore della cura formale. In contrapposizione ai giovani intellettuali del «Caffè» e alla loro idea di una letteratura di “cose” che svalutava la poesia rispetto alla prosa, Parini crede ancora nel ruolo di una poesia capace di educare ai più alti valori morali e civili: moderna nei contenuti (nel suo caso, satirici), ma anche elegante nella forma secondo la lezione dei classici.

Era veramente finita la tradizione classica, come pretendevano i propugnatori della nuova cultura scientifica e tecnica, esauriti i valori che aveva espresso nella sua gloriosa storia secolare? E lo scrivere versi, che senso poteva avere piú? Significava davvero, per un giovane, mettersi fuori gioco, sbagliare in partenza le proprie 5 scelte? Se illuminismo è innanzi tutto svalutazione di qualsiasi verità o strumento di indagine non fondati sulla ragione [...], l’incontro con quelle idee, la loro forza di contestazione radicale, non potevano non imporre la necessità preliminare di un riesame delle decisioni già prese. Era del resto il problema di fondo dibattuto dalla cultura europea fin dalla prima polemica, sull’ultimo scorcio del Seicento, 10 tra Francia e Italia: tesi razionalistiche dei francesi, che la poesia umiliavano al ruolo di amabile divulgatrice dei sommi veri1 della scienza, e opposizione tenace delle prime generazioni arcadiche [...] sorrette da un vivo senso della parola, da un’antica educazione retorica. [...] Il lavoro del Parini, dopo Ripano Eupilino2 [...], è la ricerca di una risposta sul 15 piano poetico al nodo di questi problemi. Non si sente il polso del suo classicismo se non se ne intende lo spirito agonistico. Nel momento in cui i campioni della cultura dei «lumi» sembrano impazienti di sbarazzarsi dell’ingombro di tutto il passato, il Parini dice: la bellezza della poesia, nella sublime serenità delle sue forme, è l’espressione eternatrice dei massimi valori della civiltà. Non nella tradizione 20 classica è spenta la vita ma negli uomini d’oggi che non hanno la forza morale di ricreare quell’ardua bellezza, l’energia d’animo necessaria per colmarla di sé, per riviverla. Poesia come moralità: la risposta, che si traduce in una sfida, matura, vittoriosa, nei dieci anni che precedono il Mattino. Bisognava naturalmente partire, innanzi tutto, da un’attenta rimeditazione della 25 propria fede classicistica: istituire con la tradizione un rapporto sciolto, non di soggezione ma di dialogo, ispirato da un senso partecipe del presente, non da gusto archeologico o da culto feticistico del passato. Combattere, dunque, l’idea divulgata di una classicità grammaticalizzata3, disseccata in canoni e modelli retorici senza nessuna relazione con la vita, passibile solo di essere imitata, vincolante, esosa4. 30 Bisognava insomma fare propria la giusta accusa di formalismo che la nuova cul1 dei sommi veri: delle più alte verità. 2 Ripano Eupilino: riferimento alla raccolta Alcune poesie di Ripano Eupilino, pubblicate nel 1752.

3 grammaticalizzata: ridotta a precettismo, a un codice rigido. 4 passibile… esosa: che può solo proporre un’imitazione dei modelli, costringere

a norme vincolanti, richiedere un pesante tributo (il sogg. è sempre classicità).

Il libro delle Odi 3 339


tura muoveva alla vecchia, ma deviarla: non la classicità vuoto formalismo, ma formalistico il rapporto intrattenuto con essa. [...] Sono momenti essenziali di questa rimeditazione le polemiche con i maestri: nel ’56 con il Bandiera, quattro anni dopo con il Branda5. Polemiche che vanno viste 35 al di sopra delle motivazioni immediate e dei risentimenti personali, come affermazioni pubbliche di indipendenza dal classicismo accademico. [...] Il Parini parla con il Branda, si intende però che il suo discorso è ormai rivolto ad altri, avversari ben piú importanti: giovani sui trent’anni, della sua medesima generazione, gli scrittori della cerchia del Verri e amici suoi, che nella Milano ancora 40 tanto municipale dei loro padri si sentivano portatori di una cultura d’avanguardia, anticlassicistica, europea. A costoro, che sono i suoi veri interlocutori, il termine a cui si rapporta, in un impegnatissimo confronto, la sua poesia, il Parini contende il vanto di sentirsi gli alfieri della civiltà6, per cui chi è con loro è per il progresso, chi non è con loro sta arroccato su posizioni ritardatarie7 e provinciali. Non ne contesta, no, la 45 premessa, che reclama anzi non meno per sua8; nega che alla premessa consegua, come sola necessaria, la deduzione che essi hanno avuto premura di tirarne, dichiarando, in nome delle idee di Francia, guerra senza quartiere alla grande tradizione classica: non piú nostra che dell’intera Europa, patrimonio di tutta l’umanità civile.

[...] 5 Bandiera... Branda: riferimento alle due polemiche, nell’ambito della questione della lingua, che Parini sostenne rispettivamente con padre Alessandro Bandiera (sostenitore di un modello lin-

guistico toscaneggiante) e contro padre Onofrio Branda (che difendeva ad oltranza la lingua toscana e avversava l’uso del dialetto milanese). 6 gli alfieri della civiltà: gli antesignani

delle ideologie e della cultura più innovative e progressiste. 7 ritardatarie: arretrate. 8 che reclama... per sua: che anzi accoglie incondizionatamente.

Analisi e produzione di un testo argomentativo Comprensione e analisi

Produzione

1. A quali problemi, importanti per un poeta in Italia nel Settecento, Parini cerca di dare risposta? 2. Spiega, in rapporto al contesto, l’affermazione: «Non si sente il polso del suo classicismo se non se ne intende lo spirito agonistico». In che senso è usato l’aggettivo «agonistico» (r. 16)? 3. Chi sono gli interlocutori tra gli intellettuali del tempo a cui Parini si contrappone? Per quali aspetti avviene la contrapposizione? 4. Quale ruolo ritieni si possa attribuire alla poesia oggi? La parola poetica possiede ancora, secondo te, la forza di trasmettere valori morali e civili? Motiva la tua risposta, mettendo in evidenza la tua tesi e le argomentazioni che la sostengono.

online T4 Giuseppe Parini

Il prologo del Giorno nella prima redazione Il mattino, I vv. 1-30

340 Settecento 9 Giuseppe Parini


Giuseppe Parini

T5

Il «giovin signore» si risveglia Il mattino, II vv. 1-91

G. Parini, Il giorno, ed. critica a cura di D. Isella, Fondazione Pietro Bembo, Guanda, Milano 1996

La seconda redazione presenta l’inizio della giornata del protagonista eliminando il Proemio (➜ T4 OL). Al mattino ricomincia la vita operosa di chi lavora, ma la giornata del «giovin signore» ha ben altro avvio. Dopo un sonno favorito da ogni comodità, è giusto che il risveglio avvenga nel massimo agio.

Sorge il mattino in compagnia dell’alba dinanzi al sol che di poi grande appare su l’estremo orizzonte a render lieti gli animali e le piante e i campi e l’onde1. 5 Allora il buon villan sorge dal caro letto cui la fedel moglie e i minori suoi figlioletti intiepidìr la notte: poi sul dorso portando i sacri arnesi che prima ritrovò Cerere o Pale 10 move seguendo i lenti bovi, e scote lungo il picciol sentier da i curvi rami fresca rugiada che di gemme al paro la nascente del sol luce rifrange2. Allora sorge il fabbro, e la sonante officina riapre, e all’opre torna l’altro dì non perfette; o se di chiave ardua e ferrati ingegni all’inquieto ricco l’arche assecura; o se d’argento e d’oro incider vuol gioielli e vasi 20 per ornamento a nova sposa o a mense3. 15

Ma che? Tu inorridisci e mostri in capo qual istrice pungente irti i capelli al suon di mie parole? Ah il tuo mattino signor questo non è4. Tu col cadente

La metrica: Endecasillabi sciolti. 1 Sorge... l’onde: il mattino sorge insieme all’alba, prima (dinanzi) del sole, che subito dopo appare grande sul più lontano (estremo) orizzonte per allietare gli animali, le piante, i campi e le acque. Da notare l’incipit piano e il polisindeto al v. 4 e... e... e. 2 Allora... rifrange: l’onesto contadino si alza dal caro letto che la notte è stato riscaldato (intiepidìr) dalla fedele moglie e dai figli più piccoli (infatti, era consuetudine nelle famiglie povere dormire nello stesso letto, che è detto caro perché custodisce

tutti gli affetti); poi si carica sulle spalle (dorso) gli attrezzi da lavoro, sacri, perché furono inventati (prima ritrovò) da Cerere (dea dell’agricoltura) e da Pale (dea della pastorizia), spinge davanti a sé (move seguendo) i lenti buoi e (camminando) lungo lo stretto sentiero scuote dai rami la fresca rugiada che come gemma (di gemme al paro) rifrange i raggi del sole nascente. 3 Allora... a mense: si alza anche il fabbro e riapre l’officina sonante (cioè, che risuona dei colpi rumorosi del martello) e torna ai lavori che non aveva terminato (non perfette) il giorno precedente (l’altro

dì), sia che renda impenetrabili (assecura) con una serratura difficile da aprire (chiave ardua) e con congegni di ferro (ferrati ingegni) i forzieri (arche) del ricco, preoccupato per il timore dei furti (inquieto); sia che voglia incidere gioielli e vasi d’argento e d’oro, destinati a ornare (per ornamento) la tavola o come dono di nozze (a nova sposa). 4 Ma che?... non è: forse che tu (è il giovin signore, cui si rivolge il precettore) provi orrore al suono delle mie parole e mostri i capelli dritti (irti) sul capo come gli aculei dell’istrice? Non è questo il tuo mattino.

Il libro delle Odi 3 341


sol non sedesti a parca cena, e al lume dell’incerto crepuscolo non gisti ieri a posar qual ne’ tugurj suoi entro a rigide coltri il vulgo vile5. A voi celeste prole a voi concilio 30 almo di semidei altro concesse Giove benigno: e con altr’arti e leggi per novo calle a me guidarvi è d’uopo6. 25

Tu tra le veglie e le canore scene e il patetico gioco oltre più assai 35 producesti la notte: e stanco alfine in aureo cocchio col fragor di calde precipitose rote e il calpestio di volanti corsier lunge agitasti il queto aere notturno7; e le tenèbre 40 con fiaccole superbe intorno apristi siccome allor che il Siculo terreno da l’uno a l’altro mar rimbombar fèo Pluto col carro a cui splendeano innanzi le tede de le Furie anguicrinite8. 45 Tal ritornasti a i gran palagi: e quivi cari conforti a te porgea la mensa cui ricoprien prurigginosi cibi e licor lieti di Francesi colli e d’Ispani e di Toschi o l’Ungarese 50 bottiglia a cui di verdi ellere Bromio concedette corona, e disse: or siedi de le mense reina9. Alfine il Sonno ti sprimacciò di propria man le còltrici molle cedenti, ove te accolto il fido 55 servo calò le ombrifere cortine: e a te soavemente i lumi chiuse

5 Tu... vile: tu al tramonto (cadente sol) non ti sei seduto davanti a una cena frugale (parca cena), e ieri non sei andato (gisti) a coricarti (posar) all’incerta luce del crepuscolo come fa la gente umile (vile) nelle sue misere case (tugurj), sotto ruvide coperte (rigide coltri). 6 A voi... d’uopo: Giove benignamente concesse ben altro a voi che siete figli di dèi (celeste prole), a voi nobile consesso (concilio almo) di uomini quasi divini: conviene (è d’uopo) che io vi guidi per una strada diversa e insolita (novo calle) con altri mezzi (arti) e altre regole (leggi). 7 Tu… notturno: tu hai protratto la notte ben oltre (il calar delle tenebre) tra le feste, il teatro dell’opera (canore scene) e il gioco

342 Settecento 9 Giuseppe Parini

che regala emozioni (patetico gioco): e, finalmente stanco, con la carrozza dorata (aureo cocchio) turbasti per largo tratto (lunge) la silenziosa atmosfera (queto aere) notturna con il fragore delle ruote rese calde dalla corsa (calde precipitose) e con il calpestio di cavalli lanciati a grande velocità (volanti). 8 e le tenèbre… anguicrinite: e intorno a te rompesti il buio della notte con fiaccole levate in alto (superbe) come quando Plutone fece (fèo) tremare l’isola di Sicilia dall’uno all’altro mare (dallo Jonio al Tirreno) con il carro preceduto dalle fiaccole (tede) delle Furie dai capelli di serpente (anguicrinite). Parini rievoca il mito del rapimento di Proserpina da parte di Plu-

tone, dio degli Inferi. Al tempo, le fiaccole erano portate a mano dai lacché, servitori, che precedevano di corsa la carrozza, per segnalarne l’avvicinarsi. 9 Tal ritornasti… reina: così ritornasti nel tuo gran palazzo: e qui ti offriva un gradito ristoro (cari conforti) la mensa ricoperta di cibi stuzzicanti (prurigginosi) e di vini che rendono allegri (lieti), provenienti dai colli di Francia, di Spagna e di Toscana, o la bottiglia di Tokai proveniente dall’Ungheria (Ungarese) alla quale Bacco (Bromio, che è uno dei nomi del dio del vino) concedette la corona di verdi edere (ellere) dicendo: “ora occupa il posto di regina delle mense”.


il gallo che li suole aprire altrui10. Dritto è però che a te gli stanchi sensi da i tenaci papaveri Morfèo 60 prima non solva che già grande il giorno fra gli spiragli penetrar contenda de le dorate imposte; e la parete pingano a stento in alcun lato i rai del sol ch’eccelso a te pende sul capo11. 65 Or qui principio le leggiadre cure denno aver del tuo giorno: e quindi io deggio sciorre il mio legno, e co’ precetti miei te ad alte imprese ammaestrar cantando12. Già i valetti gentili udìr lo squillo 70 de’ penduli metalli a cui da lunge moto improvviso la tua destra impresse; e corser pronti a spalancar gli opposti schermi a la luce; e rigidi osservàro che con tua pena non osasse Febo 75 entrar diretto a saettarte i lumi13. Ergi dunque il bel fianco, e sì ti appoggia alli origlier che lenti degradando all’omero ti fan molle sostegno; e coll’indice destro lieve lieve 80 sovra gli occhi trascorri, e ne dilegua quel che riman de la Cimmeria nebbia; poi de’ labbri formando un picciol arco dolce a vedersi tacito sbadiglia14. Ahi se te in sì vezzoso atto mirasse 85 il duro capitan quando tra l’arme

10 Alfine... altrui: infine il Sonno con le sue stesse mani ti accomodò il letto (letteralmente: “le coltri”) morbido e soffice (molle cedenti; molle è usato come avverbio), sul quale (ove), dopo che ti fosti coricato (accolto), il servo fidato fece scendere le tende di seta (cortine: sono i corteggi del letto a baldacchino) che fanno ombra (ombrifere); e il canto del gallo, che di solito fa svegliare gli altri (altrui), ti fece dolcemente chiudere gli occhi. 11 Dritto… sul capo: è giusto perciò (però) che Morfeo (dio del sonno) non sciolga dal profondo sonno (tenaci papaveri: dai papaveri si ricava l’oppio che ha effetto soporifero) i tuoi sensi stanchi prima che il giorno già avanzato (grande) cerchi (contenda) di penetrare tra gli spiragli delle imposte dorate, e (prima) che i raggi del sole, che incombe alto (eccelso) sulla

tua testa, illuminino (pingano) appena (a stento) qualche punto (in alcun lato) della parete. 12 Or qui... cantando: ora a questo punto devono (denno) iniziare le leggiadre occupazioni (cure) della tua giornata e da qui (quindi) devo salpare con la mia navicella (sciorre il mio legno, “sciogliere [dall’ancora] la mia navicella”, con metonimia) ed educarti ad alte imprese con i miei insegnamenti attraverso il mio canto. La metafora dell’imbarcazione per intendere la poesia ha una lunga tradizione. 13 Già i valetti… lumi: già i premurosi camerieri (valletti gentili) udirono lo squillo dei campanelli (penduli metalli) scossi all’improvviso da lontano dalla tua mano destra; e accorsero prontamente a spalancare le imposte che ostacolano (opposti) l’ingresso della luce e fecero attenzione

scrupolosamente (rigidi) a che il sole (Febo) non osasse colpirti direttamente gli occhi coi suoi raggi provocandoti fastidio (con tua pena). 14 Ergi... sbadiglia: sollevati dunque (letterlamente: “solleva il corpo”; fianco è una sineddoche) e appòggiati bene ai cuscini (origlier), che disposti l’uno sull’altro (degradando) pian piano (lenti) ti sostengono delicatamente (molle) le spalle (omero); e passa (trascorri) piano piano l’indice della mano destra sopra gli occhi e togli (dilegua) le ultime tracce di sonno (Cimmeria nebbia); poi formando con le labbra un piccolo arco, grazioso a vedersi, sbadiglia in silenzio (tacito). Gli antichi avevano immaginato che il Sonno abitasse nel paese dei Cimmerii (sulle rive del mar d’Azov), in una zona che si credeva sempre immersa nella nebbia.

Il libro delle Odi 3 343


sgangherando la bocca un grido innalza lacerator di ben costrutti orecchi, s’ei te mirasse allor, certo vergogna avria di sè più che Minerva il giorno 90 che di flauto sonando al fonte scorse il turpe aspetto de le guance enfiate15. 15 Ahi se... enfiate: ah, se ti potesse vedere in un atteggiamento così vezzoso il rozzo comandante quando in mezzo alla battaglia, aprendo esageratamente la bocca (sgangherando), lancia un grido che potrebbe lacerare orecchie ben

fatte (come quelle del giovin signore); se ti osservasse allora, certo proverebbe più vergogna di quanta ne provò Minerva il giorno in cui, suonando il flauto, vide riflesso nell’acqua l’orribile aspetto delle sue guance rigonfie (enfiate). Parini fa qui

riferimento a un mito narrato dal poeta latino Ovidio (Fasti VI, 697-702), secondo cui la dea Minerva, mentre suonava il flauto, si specchiò in una fonte e, vistasi brutta, gettò via lo strumento.

Analisi del testo L’esordio dell’opera. La proposta del tema Nella versione più tarda, qui proposta, Il mattino si apre con una serena immagine insieme paesaggistica e temporale: il sole sta sorgendo e riporta la vita e la gioia nel mondo (vv. 1-4). Segue (vv. 5-20) la descrizione del risveglio di chi lavora, qui rappresentato dal contadino (vv. 5-13) che lascia la casa per avviarsi nei campi con i suoi strumenti agricoli in spalla e seguendo i buoi; e dal fabbro (vv. 14-20) che riapre la sua officina e riprende i lavori interrotti il giorno prima. Al risveglio operoso dei lavoratori l’autore contrappone, attraverso la voce del precettorenarratore, il risveglio del «giovin signore», direttamente interpellato al v. 21 e immaginato nell’atto di inorridire di fronte ad attività svolte di primo mattino («Ma che? Tu inorridisci...»): il «giovin signore» appartiene a un lignaggio superiore («celeste prole... concilio almo di semidei», vv. 29-30) e perciò non segue certo i ritmi naturali come il resto dell’umanità. Anche il narratore-precettore dovrà tenerne conto e guidare la sua giornata «con altr’arti e leggi». Il seguito del passo (vv. 33-57) è dedicato a rievocare la vita notturna del giovane nobile fino al momento in cui finalmente si corica e si addormenta, quando gli altri si svegliano («E a te soavemente i lumi chiuse / il gallo che lo suole aprire altrui», vv. 56-57). Inizia quindi (vv. 65-92) la vera e propria descrizione della giornata del «giovin signore», che costituirà l’argomento dell’opera, a cominciare dal suo risveglio quando il sole è già alto e dallo squillo del campanello con cui il protagonista chiama nelle sue stanze i servi. La giornata improduttiva del giovane nobile si apre emblematicamente con uno sbadiglio.

Dal punto di vista dell’autore al punto di vista del «giovin signore» La prima parte della rappresentazione (vv. 1-20), anche se l’enunciazione viene già attribuita alla voce del narratore-precettore, appare frutto della prospettiva culturale e insieme valutativa dell’autore: lo testimonia l’idillica e classicheggiante rappresentazione paesaggistica dei primi quattro versi e soprattutto l’idealizzazione della vita campestre, nobilitata dal riferimento mitologico ai «sacri arnesi» del lavoro agricolo portati in spalla dal contadino e dalla fitta presenza di un’aggettivazione di segno positivo impiegata per designare la vita del contadino, povera ma santificata dai sicuri affetti familiari («buon», «caro», «fedel»). A partire dalla domanda retorica («Ma che?»), che spezza bruscamente la pacata rappresentazione del mondo dei lavoratori, si insinua una diversa prospettiva che allontana (all’inizio impercettibilmente) il narratore dall’autore, avvicinandolo invece a colui che sarà il protagonista dell’opera, il «giovin signore»: lo stesso mondo popolare è “guardato” con un occhio diverso rispetto ai primi versi, tendenzialmente spregiativo («tugurj», «rigide coltri», «vulgo vile»). È già subentrato il punto di vista che Parini assumerà come dominante nell’opera per poter realizzare l’obiettivo critico e satirico che si propone: un punto di vista che finge di condividere, ma che in realtà è opposto alle sue convinzioni etiche e culturali.

Uno “pseudo-galateo” settecentesco: gli strumenti dell’ironia I celebri versi che descrivono il risveglio del «giovin signore» già imboccano la scelta del registro ironico che caratterizzerà il poemetto nel suo complesso e che farà dell’opera una

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sorta di “pseudo-galateo” settecentesco. L’ironia si realizza essenzialmente, come si è detto, attraverso l’utilizzo di riferimenti propri del repertorio epico e in genere classicheggiante, amplificati da un linguaggio magniloquente e solenne, usati per descrivere prosaiche attività private (come la toeletta personale), banali occupazioni, futili rituali di società: l’applicazione del “codice epico” per una categoria sociale la cui vita non ha proprio nulla di epico e il cui campione è un cicisbeo nullafacente crea indubbiamente un forte effetto ironico. Gli espedienti che saranno utilizzati nel poemetto a fini ironici sono già largamente anticipati nell’inizio di esso. 1. Le personificazioni classicheggianti (Bromio, Morfèo, il Sonno, Febo) e i paragoni mitologici come quello (vv. 39-44) tra il «giovin signore» che corre con la sua carrozza illuminata dalle fiaccole nella notte e il dio degli inferi Plutone che rapisce Proserpina sul suo carro illuminato dalle fiaccole delle Furie. 2. L’uso di uno stile e di un linguaggio sostenuti e classicheggianti di cui ricordiamo solo le scelte più ricorrenti: – impiego in genere di un periodare ampio e complesso, con costruzioni sintattiche latineggianti, come l’ablativo assoluto («ove te accolto...», v. 54); posposizione del nome all’aggettivo («il buon villan», «celeste prole», «novo calle», «le canore scene» ecc.); uso assai frequente dell’inversione sintattica (anticipazione del complemento oggetto, anticipazione del complemento di specificazione («or siedi / de le mense reina», vv. 51-52), e dell’iperbato («o se d’argento / e d’oro incider vuol gioielli e vasi», vv. 18-19). – lessico latineggiante: ad es. «l’arche» (v. 18); l’aggettivo composto di gusto omerico «anguicrinite» (v. 44); «all’opre torna / l’altro dì non perfette», vv. 15-16 (dal latino perfectum, dal verbo perficere, “portare a compimento”), «producesti la notte», v. 35 (dal latino producere “protrarre”). – varianti e usi della lingua poetica letteraria: a livello fonetico prevalgono le forme non dittongate («move», «nova», «rote») e le forme apocopate («sol», «fedel», «signor», «fragor», «corsier» ecc.); a livello morfologico, imperfetti come «porgea» per “porgeva”, 3a persona del passato remoto come «udìr» per “udirono”; il pronome relativo cui in funzione di complemento oggetto: «il buon villan sorge dal caro / letto cui la fedel moglie e i minori / suoi figlioletti intiepidìr la notte».

Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

SINTESI 1. Individua le principali sequenze del testo e attribuisci a ognuna un titolo; poi sintetizza le vicende narrate. ANALISI 2 Il flashback relativo alla notte del «giovin signore» dei versi 35-37 ha una funzione puramente informativa? Motiva la tua risposta. 3. Il risveglio del «giovin signore» è rappresentato in antitesi a quello di chi lavora: quali categorie di lavoratori sceglie Parini? Indica i principali aspetti su cui è costruita l’antitesi. 4. A partire dai primi versi la personalità del «giovin signore» è ben delineata: tratteggiane un ritratto utilizzando le possibili informazioni che ritrovi nel testo. STILE 5. Individua nel testo espressioni, immagini e paragoni mitologici e illustrane la funzione ironica in rapporto al contesto. 6. Parini attribuisce all’aggettivazione un valore segnaletico, non puramente ornamentale: scegli un gruppo abbastanza ampio di versi, scheda gli aggettivi presenti e indica l’effetto che l’autore vuole conseguire.

Interpretare

SCRITTURA 7. La parte iniziale del Giorno già rivela il severo giudizio di Parini sulla classe nobiliare e la prospettiva ironica che ispira l’opera. Scrivi un breve testo (max 10 righe) facendo alcuni esempi delle modalità e degli strumenti espressivi con cui lo scrittore traduce tale prospettiva. 8. Il narratore si autorappresenta in due punti del testo (vv. 31-32 e 65-68). Spiega e commenta i due gruppi di versi indicando la finalità che l’autore attribuisce a questi due riferimenti.

Il libro delle Odi 3 345


Giuseppe Parini

T6

Caffè o cioccolata? Il mattino, II vv. 92-124

G. Parini, Il giorno, ed. critica a c. di D. Isella, Fondazione Pietro Bembo, Guanda, Milano 1996 AUDIOLETTURA

ANALISI INTERATTIVA

Giunge per il «giovin signore» il momento di compiere la prima scelta della giornata. Si tratta di un dilemma davvero assillante: bere una tazza di cioccolata o di caffè? L’ironia dello scrittore è evidente già nel tema.

Ma il damigel ben pettinato i crini ecco s’innoltra; e con sommessi accenti chiede qual più de le bevande usate 95 sorbir tu goda in preziosa tazza1. Indiche merci son tazza e bevande: scegli qual più desii2. S’oggi a te giova porger dolci a lo stomaco fomenti onde con legge il natural calore 100 v’arda temprato, e al digerir ti vaglia, tu il cioccolatte eleggi, onde tributo ti diè il Guatimalese e il Caribeo che di barbare penne avvolto ha il crine3: ma se noiosa ipocondria ti opprime, 105 o troppo intorno a le divine membra adipe cresce, de’ tuoi labbri onora la nettarea bevanda ove abbronzato arde e fumica il grano a te d’Aleppo giunto e da Moca che di mille navi 110 popolata mai sempre insuperbisce4. Certo fu d’uopo che da i prischi seggi uscisse un regno, e con audaci vele fra straniere procelle e novi mostri e teme e rischi ed inumane fami 115 superasse i confin per tanta etade inviolati ancora5: e ben fu dritto se Pizzarro e Cortese umano sangue più non stimàr quel ch’oltre l’Oceàno

La metrica: Endecasillabi sciolti. 1 Ma il damigel... preziosa tazza: ma ecco entra in camera (s’innoltra) il servitore dai capelli ben pettinati (ben pettinato i crini; è un accusativo alla greca o di relazione) e chiede a voce bassa (con sommessi accenti) quale tra le consuete (usate) bevande tu preferisca gustare (sorbir) nella preziosa tazza. 2 Indiche... desii: sia le tazze sia le bevande sono merci venute dalle Indie (Indiche, s’intende sia l’Oriente sia le Indie occidentali, cioè le Americhe): scegli quella che preferisci. 3 S’oggi… crine: se oggi ti piace (giova) offrire allo stomaco bevande che lo riscaldino con dolcezza (dolci fomenti) cosicché il calore naturale bruci (arda) in modo regolato

346 Settecento 9 Giuseppe Parini

(temprato) nella giusta misura (con legge) e ti aiuti (vaglia, “valga”) a digerire, scegli (eleggi) la cioccolata di cui ti fecero dono (tributo) gli abitanti del Guatemala (Guatimalese) e dei Caraibi (Caribeo) che si ornano i capelli (crine) di piume secondo l’uso dei selvaggi (barbare penne è un’ipàllage). 4 ma se noiosa... insuperbisce: se invece ti senti annoiato e depresso (opprime noiosa ipocondria) o intorno al tuo corpo che pure ha origine divina (divine membra) si accumula troppo grasso (adipe), concedi l’onore delle tue labbra alla (cioè bevi la) bevanda dal sapore celestiale (nettarea) calda e fumante (ove arde e fumica) fatta con i chicchi torrefatti (abbronzato il grano) di caffè che arrivano per te dai porti orientali di Aleppo (Siria)

Pietro Longhi, La cioccolata del mattino, 1775-1780 (Venezia, Ca’ Rezzonico). e di Moka (Yemen), il cui porto è sempre più affollato di navi; è un onore per la bevanda esotica essere sorbita da un signore (onora la nettarea bevanda); la qualità arabica del caffè è tra le più pregiate; mai è rafforzativo di sempre. 5 Certo fu… inviolati ancora: certo fu necessario che un regno (la Spagna) uscisse dai propri antichi confini (prischi seggi) e con coraggiose spedizioni navali (audaci vele, sineddoche) e in mezzo alle tempeste in mari sconosciuti (straniere procelle) e tra fenomeni mai visti prima (novi mostri) e terrori (teme) e pericoli e privazioni disumane (inumane fami) superasse le colonne d’Ercole, i confini del mondo fino ad allora mai oltrepassati da lunghissimo tempo (tanta etade).


120

scorrea le umane membra; e se tonando e fulminando alfin spietatamente balzaron giù da i grandi aviti troni re Messicani e generosi Incassi, poi che nuove così venner delizie o gemma de gli eroi al tuo palato6.

6 ben fu... al tuo palato: fu veramente giusto che Pizarro e Cortés (i conquistadores spagnoli) non considerassero umano il sangue che scorreva nelle membra

degli uomini d’oltreoceano; e che con gli scoppi e i lampi delle armi da fuoco (tonando e fulminando) deponessero con la forza dai grandi troni ereditati dagli avi

(aviti) i re del Messico e i nobili Incas poiché così, o splendore (gemma) degli eroi, nuove delizie giunsero al tuo palato.

Analisi del testo Il dilemma della prima colazione In un clima di raffinatezza, Parini rappresenta il rito della prima colazione del «giovin signore», impegnato nella difficile scelta fra la cioccolata oppure il caffè, bevande esotiche entrate nell’uso europeo già nella seconda metà del Seicento. La sapiente evocazione di aromi e sapori rimanda all’estetica sensistica; ma Parini va oltre, indicando con precisione persino le qualità terapeutiche delle due bevande. L’ampia perifrasi per designare le località di provenienza del caffè (vv. 107-110) mima i modi celebrativi dei luoghi propri dell’epica («di mille navi popolata... insuperbisce») e prepara la rievocazione delle conquiste coloniali dei versi subito seguenti.

La condanna delle conquiste coloniali Con un’affermazione perentoria («Certo fu d’uopo», v. 111) ribadita poco dopo («e ben fu dritto…», v. 116) il narratore-precettore affronta il tema delle conquiste coloniali nelle Americhe, assai dibattuto dagli illuministi francesi e italiani. Il narratore-precettore assume una posizione contraria a quella della contemporanea cultura progressista, celebrando con tono epico le conquiste coloniali. In realtà il passo va letto in chiave ironica: l’avventura coloniale viene giustificata dalla possibilità che ha offerto ai nobili di gustare nuove bevande. La sproporzione evidente tra la misera pochezza dell’effetto e la tragica grandezza della causa rivela al lettore la reale posizione dell’autore: Parini evidentemente condivide la polemica anticoloniale e condanna le stragi che portarono alla distruzione delle antiche civiltà dell’America centrale e meridionale. Leggendo con attenzione il passo è possibile anche intravedere, attraverso qualche “spia” lessicale, l’infrazione dell’ironia propria del precettore-narratore e l’affiorare della vera e propria deprecazione che appartiene invece all’autore: in particolare l’avverbio «spietatamente» (v. 120) e l’aggettivo «generosi» riferito agli Incas (v. 122) esprimono in forma diretta (e quindi non ironica) il duro giudizio dell’autore.

Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

SINTESI 1. Individua e titola le principali sequenze del testo, poi sintetizza i temi affrontati. COMPRENSIONE 2. Celebrando come un fatto di straordinaria importanza la scelta della bevanda da bere al risveglio del «giovin signore», che cosa in realtà il poeta vuole sottolineare? ANALISI 3. Sai individuare nel testo qualche esempio riconducibile all’estetica del sensismo (➜ PAG. 187)? STILE 4. Esamina il brano dal punto di vista stilistico (aspetto lessicale, sintattico e ritmico, uso di figure retoriche): a. evidenzia gli accorgimenti che, operando a vari livelli del testo, danno vita a uno stile sostenuto e classicheggiante; b. sottolinea, con opportuni riferimenti testuali, l’intento ironico di Parini.

Interpretare

ESPOSIZIONE ORALE 5. La riflessione ironica di Parini sulle bevande esotiche è debitrice della visione illuminista: quale concezione ti sembra rifletta? Rispondi in un intervento orale di max 2 minuti.

Il libro delle Odi 3 347


Collabora all’analisi

T7

Giuseppe Parini

Un mondo di oggetti e di status symbol Il mattino, II vv. 909-927; 933-972

G. Parini, Il giorno, ed. critica a c. di D. Isella, Fondazione Pietro Bembo, Guanda, Milano 1996

ANALISI INTERATTIVA

Il «giovin signore» è circondato da una quantità di oggetti preziosi e superflui ai quali, in un certo senso, è affidata la sua immagine, addirittura la sua identità personale: una sorta di tirannia consumistica ante litteram. Al momento di uscire di casa per raggiungere la dama di cui è il cavalier servente, deve selezionare (ed è davvero un’impresa “epica”) le cose veramente “necessarie”. Per parecchi versi (vv. 865-984) Parini si dilunga a descrivere il corredo di oggetti che appartengono al «giovin signore», affidando a questa sorta di “catalogo” la propria riprovazione per un ceto improduttivo che alimenta un mercato consumistico di prodotti lussuosi. Quella che segue è l’ultima parte del catalogo.

[…] A te la lente 910 nel giorno assista; e de gli sguardi tuoi economa presieda; e sì li parta, che il mirato da te vada superbo, nè i mal visti accusarte osin giammai1. La lente ancor su l’occhio tuo sedendo 915 irrefragabil giudice condanni o approvi di Palladio i muri e gli archi o di Tizian le tele: essa a le vesti a i libri a i volti feminili applauda severa o li dispregi: e chi del senso 920 comun sì privo fia che insorger osi contro al sentenziar de la tua lente?2 Non per questa però sdegna o signore giunto a lo speglio in Gallico sermone il vezzoso giornal, non le notate 925 eburnee tavolette a guardar preste tuoi sublimi pensier fin ch’abbian luce doman tra i belli spirti3; [...] Ma dove ahi dove inonorato e solo lasci ’l coltello a cui l’oro e l’acciaro 935 donàr gemina lama, e a cui la madre de la gemma più bella d’Anfitrite

La metrica: Endecasillabi sciolti.

2 La lente... la tua lente?: la lente appog-

1 A te... giammai: durante il giorno ti assista la lente e ti faccia risparmiare gli occhi (de gli sguardi tuoi / economa presieda); e distribuisca (parta) i tuoi sguardi in modo che chi è osservato (mirato) da te si senta lusingato (vada superbo) e coloro che sono guardati di traverso (mal visti) non osino mostrare apertamente il loro risentimento (accusarte).

giandosi (sedendo) all’occhio condanni o approvi come un giudice inappellabile (irrefragabil) un edificio (i muri e gli archi) di Palladio o i quadri (tele) di Tiziano; lodi con sicurezza (severa) o disprezzi gli abiti, i libri, i volti delle donne; chi ci sarà (fia) che, privo di buon senso, osi ribellarsi ai giudizi della tua lente? Si citano l’architetto Andrea Palladio (1508-1580) e il pittore Tiziano Vecellio (1488/90-1576).

348 Settecento 9 Giuseppe Parini

3 Non per questa... spirti: non trascurare però, o signore, a favore della lente (per questa), un bel (vezzoso) giornale in francese (gallico sermone) e neppure i taccuini rilegati in avorio (eburnee tavolette) contenenti delle note (notate), pronti a fissare (a guardar preste) le tue straordinarie idee da comunicare (abbian luce) (per una sicura approvazione) domani ai tuoi simili (tra i belli spirti).


diè manico elegante, onde il colore con dolce variar l’iride imìta?4 Verrà il tempo verrà che ne’ superbi 940 convivj ognaltro avanzerai per fama d’esimio trinciatore; e i plausi e i gridi de’ tuoi gran pari ecciterai qualora, pollo o fagian con le forcine in alto sospeso, a un colpo il priverai dell’anca 945 mirabilmente5. Or qual più resta omai onde colmar tue tasche inclito ingombro? Ecco a molti colori oro distinto, ecco nobil testuggine su cui voluttuose imagini lo sguardo 950 invitan de gli eroi6. Copia squisita di fumido rapè quivi è serbata e di spagna oleoso, onde lontana pur come suol fastidioso insetto da te fugga la noia7. Ecco che smaglia 955 cupido a te di circondar le dita vivo splendor di preziose anella8. Ami la pietra ove si stanno ignude sculte le Grazie9, e che il Giudeo ti fece creder opra d’Argivi allor ch’ei chiese 960 tanto tesoro, e d’erudito il nome ti compartì prostrandosi a’ tuoi piedi10? Vuoi tu i lieti11 rubini? O più t’aggrada sceglier quest’oggi l’Indico adamante là dove il lusso incantator costrinse 965 la fatica e il sudor di cento buoi che pria vagando per le tue campagne facean sotto a i lor piè nascere i beni12?

4 Ma dove... imìta?: ma dove lasci, ahimé, solo e trascurato (inonorato) il coltello dalla doppia (gemina) lama d’oro e d’acciaio a cui la madreperla (la madre della più bella gemma del mare, di cui era regina la nereide Anfitrite, moglie del dio Nettuno) ha fornito un manico elegante dal colore dolcemente cangiante come l’arcobaleno (l’iride imìta)? 5 Verrà... mirabilmente: verrà il tempo (profetizza il precettore, con la solennità dell’iterazione) in cui tu, nei banchetti importanti, supererai tutti per fama di eccellente (esimio) trinciatore; e provocherai grida di ammirazione e applausi fra i tuoi pari quando con un colpo solo preciso e mirabile taglierai la coscia (anca) di un pollo o di un fagiano sospeso in alto con le forchette (forcine).

6 Or qual... degli eroi: quale altro illustre ingombro ti resta per riempire le tue tasche? Ecco oro variegato (distinto) di molti colori, ecco una nobile tartaruga (cioè un oggetto in tartaruga, testuggine), ornato di immagini piacevoli (voluttuose) che attirano lo sguardo degli eroi (gli altri nobili). 7 Copia... la noia: abbondanza ricercata (copia squisita) di tabacco da fiuto (fumido rapè) è contenuta nella tabacchiera, e anche di oleoso spagna (altra qualità di tabacco), grazie al quale (onde) la noia, come di solito (suol) fa un insetto fastidioso, fugga lontana da te. 8 Ecco... anella: ecco che il vivo splendore di anelli preziosi (soggetto) brilla (smaglia) desideroso (cupido) di circondarti le dita. 9 Ami la pietra… le Grazie: ami un cam-

meo in cui sono incise le Grazie nella loro nudità. 10 che il Giudeo… piedi: che il mercante ebreo ti fece credere fosse un antico manufatto greco quando ti chiese una somma ingente (tanto tesoro) e, inginocchiatosi davanti a te, ti apostrofò solennemente come un grande intenditore (erudito). 11 i lieti: che allietano. 12 O più t’aggrada… nascere i beni: oppure ti piace di più scegliere un diamante orientale dove le meraviglie del lusso (incantator è prodigioso e insieme seducente) concentrarono lo sforzo che costa sudore (la fatica e il sudor, endiadi) di cento buoi, che prima andando avanti e indietro (vagando) per i tuoi campi, lavoravano per dare i prodotti (beni) dell’agricoltura. Il senso è che nella pietra preziosa è racchiusa

Il libro delle Odi 3 349


Prendi o tutti o qual vuoi; ma l’aureo cerchio che sculto intorno è d’amorosi motti 970 ognor teco si vegga, e il minor dito premati alquanto, e sovvenir ti faccia dell’altrui fida sposa a cui se’ caro13.

la ricchezza equivalente al lavoro di cento buoi nei campi. 13 Prendi... se’ caro: indossali tutti o scegli qualcuno (degli anelli), ma por-

ta sempre con te (ognor teco si vegga) il cerchio d’oro con l’incisione di frasi d’amore (amorosi motti), ti stringa il mignolo (il minor dito premati) e ti ricordi

(sovvenir ti faccia) la fedele sposa di un altro che ti ama.

Collabora all’analisi Comprendere e analizzare

Nella rassegna degli oggetti che il «giovin signore» ha l’abitudine di portare con sé, Parini elenca innanzitutto (nei versi che precedono quelli riportati) il cannocchiale, che il protagonista utilizza a teatro soprattutto per curiosare nei palchi altrui, così da trovare nuovo alimento a pettegolezzi e maldicenze; poi la bottiglietta di profumi e il portapastiglie, che contiene sostanze eccitanti e qualche oppiaceo. Nel passo qui proposto continua il catalogo: il narratore dedica ampio spazio al riferimento all’occhialino («la lente»), di gran moda nel Settecento (vv. 909-921); quindi nomina il giornale, naturalmente in francese (vv. 922-924); il taccuino, rilegato in avorio, dove il «giovin signore» potrà annotare i suoi «sublimi pensier» (vv. 924-927), e il coltello dal manico in madreperla, destinato a essere utilizzato durante il banchetto (vv. 933-945); non manca la preziosa tabacchiera per contenere un tabacco di pregiata qualità (vv. 947-954). E infine anelli preziosi di ogni foggia, soprattutto l’anello portato al mignolo entro cui sono incise parole amorose per la dama a cui è legato (vv. 954-972). La rassegna si chiude con il riferimento (qui non riportato) agli orologi, ornati di minuscoli ciondoli, e al medaglione che contiene una ciocca dei capelli dell’amata o il suo ritratto. 1. L’ampio riferimento alla lente è finalizzato soprattutto a esaltare il senso estetico del giovane nobile: in quali ambiti si applica? 2. Per quale funzione viene impiegato il magnifico coltello che fa parte del corredo di oggetti imprescindibili, di cui non si può fare a meno (oggi diremmo che sono dei must)? 3. A quale costume sociale allude ironicamente la definizione relativa alla dama: «l’altrui fida sposa a cui se’ caro» (v. 972)? 4. Ai versi 957-961, attraverso una perifrasi, si fa riferimento a un cammeo acquistato dal «giovin signore»: quale atteggiamento è sottolineato nei riferimenti al Giudeo? Ne traspare una mentalità segnata storicamente? 5. Gli oggetti descritti vengono nobilitati a fini ironici secondo i consueti procedimenti usati da Parini nel Giorno. Individua la presenza di aggettivi aulici, perifrasi solenni, riferimenti mitologici, inversioni sintattiche. 6. Evidenzia come, attraverso la descrizione degli oggetti (e per mezzo di espressioni e stilemi particolari), Parini voglia rappresentare una classe sociale schiava del culto dell’apparenza per coprire la propria inutilità e il vuoto di valori.

Interpretare

Il tema del lusso è uno dei grandi argomenti del dibattito illuministico. Dall’Inghilterra alla Francia, da Voltaire a Rousseau, da Condillac a Diderot, al lusso sono dedicati molteplici interventi nella saggistica, in letteratura e nell’Encyclopédie. Il dibattito si estende dalla Francia all’Italia e coinvolge gli illuministi napoletani e milanesi: anche «Il Caffè» tratta il tema con interventi molto articolati, nei quali viene in genere distinto il piano economico da quello morale. Sul piano economico esso è considerato con favore: secondo Pietro Verri (Considerazioni sul lusso) dà lavoro agli artigiani ed è un mezzo di distribuzione della ricchezza, ma diventa «pernicioso» quando rovina i patrimoni.

350 Settecento 9 Giuseppe Parini


Non solo questi versi del Giorno appena letti, ma anche altri passi dell’opera, riecheggiano da vicino il dibattito cui si è fatto riferimento. La posizione di Parini si differenzia però nettamente da quella assunta dagli intellettuali del «Caffè» configurandosi come una netta condanna: per Parini il lusso è innanzitutto una provocatoria esaltazione della disuguaglianza sociale; ma lo scrittore (che, come si è visto, aderiva alle teorie fisiocratiche) contesta anche l’idea mercantilistica dell’utilità e della benefica ricaduta economica di tale settore, che gli sembra solo uno spreco intollerabile di risorse. 7. L’intero catalogo degli oggetti condanna indirettamente il lusso, ma in alcuni versi la condanna si fa più esplicita: identifica i versi in questione. Quale tipo di società e di economia è contrapposta da Parini alla civiltà del lusso?

Il possesso di oggetti di lusso è sempre stato, in tutte le epoche e in tutte le culture, un elemento distintivo di pochi, dei potenti o dei maggiorenti, ai vertici della società. Ma in tempi relativamente recenti, grazie a un marketing sempre più incisivo, si è verificata una sorta di “democratizzazione” del lusso che ha reso «consumo straordinario di persone ordinarie» ciò che in passato era «consumo ordinario di persone straordinarie». La citazione è tratta da A. Tartaglia e G. Marinozzi, Introd. a Il lusso... Magia e marketing. Presente e futuro del superfluo indispensabile, Franco Angeli, Milano 2006.

8. Rifletti su queste affermazioni e prova a immaginare un catalogo degli oggetti o delle abitudini di vita (ad esempio i viaggi o gli oggetti high-tech) che possano costituire anche oggi degli status symbol.

Giandomenico Tiepolo, La passeggiata, 1791 (Venezia, Ca’ Rezzonico).

online T8 Giuseppe Parini

La favola del Piacere Il meriggio, vv. 250-338

Il libro delle Odi 3 351


Giuseppe Parini

T9

La vergine cuccia Il meriggio, vv. 659-697

G. Parini, Il giorno, ed. critica a cura di D. Isella, Fondazione Pietro Bembo, Guanda, Milano 1996

L’episodio, forse il più celebre del poema, è inserito all’interno del banchetto che si svolge nel palazzo della dama. Mentre gustano squisite vivande, i nobili convitati conversano su argomenti di moda. Un vegetariano magro, che siede accanto a un uomo sovrappeso, un divoratore di carne, esprime il proprio disprezzo verso i carnivori e la sua compassione per gli animali sacrificati fra sofferenze inaudite. Alle parole del vegetariano, la dama si commuove e rievoca la brutta avventura capitata alla «vergine cuccia», la sua cagnolina, presa a calci da un servo, a cui l’animale aveva dato un morso; ma l’«atroce delitto» era stato subito e debitamente punito.

[…] Or le sovvien del giorno, 660 ahi fero giorno! allor che la sua bella vergine cuccia de le Grazie alunna, giovanilmente vezzeggiando, il piede villan del servo con gli eburnei denti segnò di lieve nota1: e questi audace 665 col sacrilego piè lanciolla: ed ella tre volte rotolò; tre volte scosse lo scompigliato pelo, e da le vaghe nari soffiò la polvere rodente2: indi i gemiti alzando, aita aita 670 parea dicesse; e da le aurate volte a lei la impietosita eco rispose; e dall’infime chiostre i mesti servi asceser tutti; e da le somme stanze le damigelle pallide tremanti 675 precipitàro3. Accorse ognuno: il volto fu d’essenze spruzzato a la tua dama: ella rinvenne al fine. Ira e dolore l’agitavano ancor: fulminei sguardi gettò sul servo; e con languida voce 680 chiamò tre volte la sua cuccia: e questa al sen le corse; in suo tenor vendetta chieder sembrolle: e tu vendetta avesti

La metrica: Endecasillabi sciolti. 1 Or le sovvien... nota: (la dama) si ricorda (sovvien) del giorno, ah che giorno terribile! (fero, “crudele”), in cui (allor che) la sua cagnolina, così bella da sembrare che sia stata allevata dalle Grazie in persona (vergine cuccia de le Grazie alunna), scherzando (vezzeggiando) come fanno i cuccioli (giovanilmente), con i denti d’avorio (eburnei) lasciò un leggero segno (segnò di lieve nota) sul piede volgare (villan) del servo.

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2 questi... rodente: questi (il servo) con audacia riprovevole la colpì con un calcio, facendola ruzzolare lontano (lanciolla), commettendo un sacrilegio (perché la cagnetta è sacra alle Grazie); e quella rotolò tre volte, agitò (scosse) tre volte i peli scompigliati e dalle delicate narici (vaghe nari) soffiò la polvere irritante (rodente). Da notare il parallelismo e questi... ed ella che scandisce il ritmo veloce dell’azione, la scelta lessicale iperbolica ed enfatica di sacrilego e lo stilema epico tre volte... tre volte.

3 indi... precipitàro: quindi, levando alti i suoi lamenti, sembrava che dicesse “aiuto! aiuto!”, e dalle volte dorate (ornate di stucchi dorati: aurate volte) dei soffitti le rispose l’eco impietosita (moltiplicando i guaiti che muovono a pietà); e i servi mesti (perché consapevoli della gravità dell’incidente) salirono tutti dalle stanze dei piani inferiori (infime chiostre); e le cameriere pallide e tremanti (anch’esse dunque emotivamente partecipi) accorsero scendendo (precipitàro) dalle stanze dell’ultimo piano (somme).


vergine cuccia de le Grazie alunna4. L’empio servo tremò; con gli occhi al suolo 685 udì la sua condanna. A lui non valse merito quadrilustre: a lui non valse zelo d’arcani ufici. Ei nudo andonne de le assise spogliato onde pur dianzi era insigne a la plebe: e in van novello 690 signor sperò; chè le pietose dame inorridìro; e del misfatto atroce odiàr l’autore5. Il perfido si giacque con la squallida prole e con la nuda consorte a lato su la via spargendo 695 al passeggero inutili lamenti: e tu vergine cuccia, idol placato da le vittime umane, isti superba6.

4 Accorse... alunna: tutti accorsero; alla dama (che era svenuta) fu spruzzato il volto con essenze aromatiche e alla fine rinvenne. Era ancora in preda all’ira e al dolore: gettò sul servo sguardi fulminanti (fulminei) e chiamò tre volte con voce debole e intenerita (languida) la sua cagnetta: e questa le corse in braccio (al sen); a suo modo (in suo tenor) sembrò chiedere vendetta: e tu avesti vendetta, cagnetta allevata (alunna) dalle Grazie. 5 L’empio... autore: il servitore empio (perché aveva profanato qualcosa di sa-

cro) tremò e ascoltò con gli occhi a terra. Non gli furono d’aiuto (valse) i meriti acquisiti in vent’anni di servizio (merito quadrilustre), non bastò l’impegno (zelo) profuso in incarichi segreti (arcani ufici), delicati. Egli se ne andò (andonne) senza ricevere un soldo (nudo) e privato (spogliato) della livrea (assise), grazie alla quale (onde) solo poco tempo prima (pur dianzi) era rispettabile (era insigne) agli occhi del popolo (plebe): e invano sperò di trovare lavoro presso un nuovo (novello) padrone, perché le dame (amiche della padrona)

s’impietosirono (per la cagnetta) e inorridirono (al racconto del comportamento del servo); e odiarono (odiàr) chi aveva commesso (l’autore) l’atroce misfatto. 6 Il perfido... superba: il malvagio (perfido) si ritrovò sulla strada, con a fianco i figli denutriti (squallida prole) e la moglie priva di tutto, a rivolgere inutilmente ai passanti i suoi lamenti (inutili lamenti) chiedendo l’elemosina, e tu cagnolina te ne andasti (isti) superba come una divinità (idol) placata da vittime umane.

Analisi del testo Una questione di punti di vista L’episodio è narrato sempre dalla voce del precettore, che riferisce il racconto della dama e gli eventi che seguirono. Pur nella sua brevità, si può dividere in due parti, che hanno differenti protagonisti e a cui corrispondono due diversi punti di vista.

La prima parte I versi 659-683 vedono in primo piano la cagnolina (e, sullo sfondo, la sua padrona). Il punto di vista attraverso cui è narrata la vicenda è quello della dama. Proprio grazie a questa scelta narrativa, un episodio del tutto banale (la cagnolina, verosimilmente viziata, ha morsicato il piede del servo e questi, per reazione, le ha sferrato un calcio) assume i tratti di un evento memorabile (un «fero giorno»). La voce narrante prima minimizza le “responsabilità” della cagnolina nell’aver morsicato un piede che, tanto, è solo quello «villan» di un servo, sottolineando la sua grazia, la sua giovane età («giovenilmente vezzeggiando», «eburneo dente», «lieve nota»). In seguito la voce del narratore, portatrice del giudizio e del punto di vista della dama, enfatizza la portata del gesto del servo (definito addirittura «sacrilego») e rappresenta la scena della cagnolina scagliata via dal calcio del servo con i toni di un’epica tragedia (il lettore si ritrova quasi nella reggia di Priamo mentre Troia è messa a ferro e fuoco dagli Achei); anche la ripetizione («tre volte... tre volte») mima il linguaggio di uno scontro epico. La prospettiva con cui il lettore è invitato a leggere l’episodio è evidentemente ironica.

Il libro delle Odi 3 353


La seconda parte Dopo lo svenimento (anch’esso eccessivo) della dama, il suo rinvenimento (vv. 675-683) e la richiesta implicita di vendetta da parte della cagnolina, si apre la seconda parte, con la breve sequenza narrativa (poco più di una decina di versi) che vede protagonista il servo (vv. 684697). Qui il punto di vista della dama (e il conseguente registro ironico) sopravvive solo in alcune espressioni («empio», «misfatto atroce», «perfido»). Ma il lettore accorto non può non avvertire un mutamento di tono: la dura evidenza dei fatti, il secco resoconto dell’inesorabile licenziamento del servo e dell’infelice sorte toccatagli per l’insensibilità di un mondo vacuo e privo di valori esprimono una condanna diretta, in cui si avverte l’emergere del punto di vista dell’autore stesso, che affida alla drammatica chiusa, di forte impatto emotivo, il suo severo giudizio morale («E tu vergine cuccia, idol placato / da le vittime umane, isti superba»). Il narratore, prima “alleato” con la dama, diventa qui la voce dell’autore.

Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

SINTESI 1. Riassumi l’episodio. ANALISI 2. Indica in un breve testo (max 5 righe) il tema dell’episodio e il messaggio polemico che l’autore vuole comunicare. 3. La cagnolina presenta evidenti tratti umanizzati: riconosci nel testo gli elementi che lo comprovano. STILE 4. Individua le ripetizioni e le antitesi del passo e la loro funzione. 5. Quale figura retorica è utilizzata nel verso «il piede villan del servo con gli eburnei denti» (vv. 662-663)? Spiega la sua funzione rispetto al contesto. 6. Analizza il brano sul piano formale (linguistico e stilistico) e strutturale e rispondi ai seguenti punti: a. presenza di simmetrie sul piano sintattico e riprese di termini: quale effetto conferiscono? b. presenza di enjambements: a quali termini fanno riferimento? Quale effetto producono? c. scelte formali: in che modo concorrono a delineare l’ironia pariniana? d. termini di stile alto e classicheggiante: in che modo possono essere messi in rapporto al tema fondamentale del brano e all’atmosfera satirica in esso dominante? 7. La prima parte dell’episodio nasce dal punto di vista della dama: da qui deriva l’enfatizzazione drammatica e l’epicizzazione del fatto accaduto. A quali elementi retorici e/o linguistici viene affidata?

Interpretare

TESTI A CONFRONTO 8. La conclusione dell’episodio della colazione, dove si fa riferimento alle conquiste coloniali (➜ T6 ), e la seconda parte dell’episodio della «vergine cuccia» presentano delle analogie: per quale ragione? LETTERATURA E NOI 9. Nella seconda parte del brano il tono si fa più serio e l’ironia di Parini diventa satira indignata. Rifletti sull’intento moralistico del Giorno e sulla sua funzione didascalica: spiega perché possiamo definire quest’opera una satira antinobiliare ed evidenzia le caratteristiche dell’aristocrazia aspramente criticate dall’autore. Secondo te, ancora oggi la satira può fungere da strumento di denuncia delle contraddizioni proprie del nostro tempo? Argomenta.

online T10 Due interventi metaletterari:

il congedo dal personaggio e quello dal precettore-narratore

T10a Giuseppe Parini Il congedo del protagonista La notte, vv. 70-77 T10b Giuseppe Parini ... e quello del narratore-precettore La notte, vv. 248-259

354 Settecento 9 Giuseppe Parini

online T11 Giuseppe Parini

La parodia della sfilata degli eroi epici La notte, vv. 351-382; 440-455


4

La figura morale di Parini: un mito per le generazioni future “Il filo rosso” degli autoritratti Già nella prima delle sue odi, La vita rustica (1757), Parini aveva tracciato un profilo di sé con tratti fortemente idealizzati in senso morale (vv. 25-32): «Me non nato a percotere / le dure illustri porte / nudo accorrà, ma libero / il regno de la morte. / No, ricchezza né onore / con frode o con viltà / il secol venditore / mercar non mi vedrà» (“Il regno della morte mi accoglierà in povertà (nudo) ma libero. Io non sono nato per bussare alle porte dei potenti, sorde di fronte a chi chiede (dure). No, questo secolo gretto e volgare non mi vedrà mercanteggiare ricchezze e onori con inganno e con viltà”). Dello stesso anno è il Dialogo sulla nobiltà (➜ D1 OL): anche in questo testo, critico nei confronti dell’orgoglio nobiliare, è possibile ritrovare tra le righe un’immagine del poeta in cui si rispecchia Parini stesso: in un’ideale gerarchia, il poeta mette al primo posto il desiderio di essere «uomo dabbene», quindi “sano”, poi dotato di ingegno e, solo dopo queste qualità, ricco. Quasi trent’anni dopo, con La caduta (➜ T2 OL) (1785), Parini delinea un autoritratto analogo a quello della Vita rustica, dipingendosi come poeta coerente a un ideale di integrità morale. Un’immagine di sé (e al contempo del ruolo del poeta) particolarmente cara a Parini, dato che torna ancora una volta a ribadirla poco prima della morte nell’ultima ode, Alla Musa, 1795 (➜ PAG. 312). Sarà proprio questa, del resto, l’immagine di Parini, o meglio sarebbe forse dire “il mito” di Parini, che sarà fatto proprio (come il poeta avrebbe certo voluto) dalle giovani generazioni di letterati che aprivano l’età romantica, da Foscolo a Manzoni. Il Parini foscoliano / Il Foscolo pariniano Ugo Foscolo, che ebbe occasione di conoscere Parini nel 1797 a Milano, non considerava il poeta di Bosisio un grande poeta: il suo gli sembrava uno stile «intieramente formato sui libri», che non di rado degenera «in pedantesco», ma era significativamente affascinato dall’uomo Parini. Nel romanzo epistolare autobiografico Ultime lettere di Jacopo Ortis immagina un significativo colloquio tra Parini e Jacopo, il personaggio in cui Foscolo si autoritrae, confermando la percezione che la Milano di fine secolo aveva del vecchio poeta come punto di riferimento morale. Nella lettera datata «Milano, 4 dicembre» (nella seconda parte del romanzo), l’incontro tra Jacopo e il poeta, «sotto un boschetto di tigli» di Porta Orientale, si anima di un veemente fervore libertario: l’abiezione dei tempi rende impossibile qualsiasi gesto eroico; «le lettere prostituite» non lasciano speranza a un «giovine dritto e bollente di cuore» come Jacopo di affermarsi con onore nella sua patria, su cui incombe il pericolo di nuove tirannidi. Le parole che Foscolo attribuisce a Parini nell’Ortis costituiscono un documento eloquente del ruolo di modello umano (più che poetico) che l’autore del Giorno (e della Caduta) veniva assumendo per le giovani generazioni. A conferma di questa importanza, nella prima parte del carme Dei sepolcri Foscolo riproporrà in un ampio passo (vv. 54-90) la figura di Parini, in modo forse più verisimile: il poeta è qui ritratto in termini che ne richiamano l’austera moralità (la casa di Parini è un «povero tetto») e la lunga fedeltà alla poesia. Parini è La figura morale di Parini: un mito per le generazioni future 4 355


presentato come autore del Giorno, indicato con la celebre perifrasi che ne sottolinea il carattere satirico contro le dissipatezze del «giovin signore» («i canti / che il lombardo pungean Sardanapalo [...] beato d’ozi e di vivande»). Foscolo esprime quindi in un passo polemico, sostenuto dai modi della poesia “notturna” e “sepolcrale” di moda, lo sdegno per la dimenticanza colpevole della città di Milano verso il grande poeta, per il quale non è stata predisposta una degna sepoltura. Ma anche il ritratto idealizzato di sé che Foscolo introduce nei Sepolcri (vv. 145150) è forse debitore dei versi della Caduta: «A noi / morte apparecchi riposato albergo [prepari un tranquillo approdo] / ove una volta la fortuna cessi / dalle vendette, e l’amistà [l’amicizia] raccolga / non di tesori eredità, ma caldi sensi e di liberal [ispiratrice di libertà] carme l’esempio»: un Foscolo “pariniano”, dunque, che immagina sé stesso come autore di una poesia libera, non asservita ai potenti, che certo, come già è avvenuto a Parini, non gli consentirà di accumulare ricchezze. La lezione pariniana nel giovane Manzoni Quando Manzoni, appena ventenne, compone (1805-1806) il Carme in morte di Carlo Imbonati rende insieme omaggio a due uomini che sono idealmente importanti nella sua vita: Carlo Imbonati, il compagno di Giulia Beccaria, sua madre, morto nel marzo 1805 a Parigi, e il maestro di lui ragazzo Giuseppe Parini. Nelle parole del carme attribuite (nella finzione poetica) a Carlo Imbonati, che delineano il programma insieme etico e poetico di Manzoni, si avverte chiarissima l’eco dei versi pariniani dell’ode Alla Musa: «Sentir [..] e meditar: di poco / esser contento: da la meta mai / non torcer gli occhi, conservar la mano / pura e la mente: de le umane cose / tanto sperimentar, quanto ti basti / per non curarle: non ti far mai servo: / non far tregua

Angelo Monticelli, Bozzetto per il secondo sipario del Teatro alla Scala (su testo ispiratore di Giuseppe Parini), prima metà del XIX secolo (Milano, Teatro alla Scala).

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coi vili; il santo Vero / mai non tradir: né proferir mai verbo / che plauda al vizio, o la virtù derida». Leopardi e Parini Anche Leopardi, che pure non considerava l’autore del Giorno un vero grande poeta, è affascinato dalla figura morale di Parini e sotto l’influsso del ritratto foscoliano nelle Ultime lettere di Jacopo Ortis (lettera del 4 dicembre) presenta il poeta milanese in una delle Operette morali, Il Parini ovvero della gloria (1824), come intellettuale di incorrotta moralità che avverte un giovane «d’indole e di ardore incredibile ai buoni studi» del prezzo enorme che si deve pagare per conseguire la gloria delle lettere. Echi pariniani serpeggiano anche negli autoritratti leopardiani della Ginestra, testamento ideale del poeta di Recanati, anche se il tema della dignità personale del poeta si lega poi alla particolare ideologia leopardiana. Il Parini di De Sanctis Foscolo, Leopardi e anche Manzoni, dunque, concordano nel riconoscere il valore morale della lezione di intellettuale e di poeta di Parini: una visione poi sintetizzata e consacrata dal padre della critica letteraria italiana ottocentesca, Francesco De Sanctis, che nei Saggi critici scrive: «Rinasce l’uomo. Parini è il primo poeta della nuova letteratura, che sia un uomo, cioè che abbia dentro di sé un contenuto vivace e appassionato, religioso, politico e morale». Per De Sanctis la stessa ironia, operante nel Giorno, è l’espressione della rinascita del senso morale, che il grande critico di età romantica considerava necessaria premessa alla rinascita politica dell’Italia. Peraltro De Sanctis considerava l’uomo Parini superiore al Parini poeta, ancora legato all’imitazione dei classici e sospeso (a differenza dell’uomo Parini) tra vecchio e nuovo.

Fissare i concetti Giuseppe Parini La biografia 1. In che modo Parini inizia la sua vicenda letteraria? 2. Con quale ambiente Parini entra in contatto a Milano? 3. Quali incarichi gli vengono affidati? 4. Perché Parini può essere definito un «illuminista moderato»? 5. Qual è, secondo Parini, il ruolo dell’intellettuale? E il compito della poesia? Le Odi 6. Quali sono i temi trattati nelle Odi della prima fase? 7. Quali sono le caratteristiche delle Odi della seconda fase? 8. In che senso si può dire che ci sia una svolta stilistica fra le Odi della prima fase e quelle della seconda fase? Il giorno 9. Quale struttura presenta l’opera? 10. A che cosa si deve il titolo? 11. Con quale scopo Parini scrive Il giorno? In realtà qual è il vero intento? 12. Quali spazi vengono privilegiati nel poemetto? Per quale motivo? 13. Per quale motivo non ci sono riferimenti al divenire del tempo storico? 14. Quali antitesi caratterizzano la vita della nobiltà? 15. Quali scelte stilistiche compie Parini nel Giorno? Che cosa testimoniano?

La figura morale di Parini: un mito per le generazioni future 4 357


Verso l’esame di Stato Tipologia A Analisi e interpretazione di un testo letterario italiano

Giuseppe Parini

Le letture alla moda Il meriggio, vv. 970-990 Nella conversazione che segue il pranzo, per apparire ancora più affascinante alla sua dama, il «giovin signore» dovrà dimostrare di conoscere i libri alla moda, cioè gli scritti dei philosophes, ma dovrà essere capace di selezionare il buono e l’utile in quei libri famosi da ciò che non può che essere malefico e dannoso.

Ma guardati o signor guardati oh Dio dal tossico1 mortal che fuora esala da i volumi famosi2: e occulto poi sa per le luci penetrato all’alma gir serpendo ne’ cori3; e con fallace 975 lusinghevole stil corromper tenta il generoso de le stirpi orgoglio, che ti scevra dal vulgo4. Udrai da quelli che ciascun de’mortali all’altro è pari; e caro a la natura e caro al cielo 980 è non manco5 di te colui che regge i tuoi destrieri e quel ch’ara i tuoi campi; e che la tua pietade o il tuo rispetto devrien fino a costor scender vilmente6. Folli sogni d’infermo! Intatti lascia 985 così strani consigli7: e solo attigni8 ciò che la dolce voluttà9 rinfranca, ciò che scioglie i desiri e ciò che nudre la libertà magnanima10. Tu questo reca solo a la mensa; e sol da questo 990 plauso cerca ed onor11. [...] 970

1 tossico: veleno mortale. 2 i volumi famosi: i testi degli enciclopedisti e dei filosofi francesi, assai conosciuti anche in Italia. 3 sa... ne’ cori: costruisci così: sa, dopo essere penetrato nell’anima attraverso gli occhi (luci), insinuarsi (gir serpendo) nei cuori. 4 il generoso... dal vulgo: il magnanimo orgoglio delle tue illu-

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stri origini (stirpi) che ti distingue (scevra) dal volgo. 5 non manco: non meno. 6 devrien... vilmente: dovrebbero abbassarsi (scender vilmente) fino a costoro. 7 Intatti... consigli: non toccare nemmeno consigli così assurdi. 8 attigni: attingi. 9 la dolce voluttà: il piacere.

10 ciò che... magnanima: ciò che lascia corso ai desideri e nutre la licenza propria degli spiriti nobili (libertà magnanima). 11 Tu questo... onor: porta con te quando vai a pranzo solo il secondo tipo di consigli e ricerca consensi e lodi solo da questi.


Comprensione e analisi

Puoi rispondere punto per punto oppure costruire un unico discorso che comprenda le risposte a tutte le domande proposte. 1. Sintetizza il tema generale di questi versi (max 5 righe). 3. A chi sono rivolti questi consigli? Chi li pronuncia? 4. Quali sono gli insegnamenti che la voce narrante giudica negativi? 5. Quali, invece, invita a seguire? 6. Indica lo schema metrico. 7. Attraverso quali espressioni nei versi 970-975 il narratore rappresenta il potere subdolo e corruttore dei «volumi famosi»? 8. Con quale figura retorica l’autore indica la pericolosità di alcune dottrine filosofiche? Identificala e commentala.

Interpretare

Il testo proposto costituisce un esempio particolarmente evidente del procedimento ironico che caratterizza Il giorno: ricorderai che nell’opera il narratore finge di raccomandare ciò che in realtà condanna. Come si realizza in questi versi il procedimento ironico? Che cosa pensa il narratore e che cosa invece pensa l’autore? Commenta il passo facendo più ampi riferimenti al procedimento antifrastico (ironico) nel Giorno. Esemplifica le tue osservazioni con riferimento ai testi letti e, più in generale, al rapporto tra Parini e l’Illuminismo. Per quanto riguarda il tema del piacere e il successo della letteratura libertina a cui Parini qui allude, puoi far riferimento anche al C12 OL.

La figura morale di Parini: un mito per le generazioni future 4 359


Seicento Giuseppe Parini

Sintesi con audiolettura

1 Ritratto d’autore

Una vita tutta milanese Giuseppe Parini nasce nel 1729 da una famiglia brianzola di modeste condizioni. Trasferitosi a Milano, nel 1754 diventa sacerdote e inizia anche l’attività di precettore privato. Già nel 1752, però, pubblica Alcune poesie di Ripano Eupilino, che suscitano un certo interesse letterario e gli aprono le porte dell’Accademia dei Trasformati. Nel fervente clima culturale milanese, Parini partecipa alle discussioni accademiche e scrive le prime odi civili contro intolleranza religiosa e guerra. Nel 1763 inizia a comporre Il giorno, un poemetto satirico che pubblicherà anonimamente nel 1763 e 1765. Gli scritti attirano l’attenzione dell’amministrazione austriaca, portando a Parini incarichi importanti: dal 1768 egli diventa, infatti, redattore della “Gazzetta di Milano” e poeta del Teatro Ducale; nel 1769, inoltre, gli viene assegnata la cattedra di Belle Lettere nelle Scuole Palatine; qui e all’Accademia di Belle Arti il poeta entra in contatto con il Neoclassicismo, che influenza la sua produzione tarda. Alla morte dell’imperatrice Maria Teresa, Parini vive con disagio il corso politico del successore Giuseppe II e riduce l’attività di intellettuale militante. Nel 1789 osserva con favore la Rivoluzione francese, ma successivamente se ne distanzia per gli eccessi del Terrore. Con l’arrivo dei francesi a Milano, nel 1796, Parini partecipa brevemente alla Municipalità nel settore dell’istruzione e nel 1799, quando gli austriaci tornano a Milano, nonostante ciò, viene risparmiato dalle persecuzioni che seguono, forse per la notorietà. Muore nel 1799 a Milano, circondato da un’indifferenza che tanto sdegno provocherà nei posteri, tra i quali Foscolo.

L’ideologia: un illuminista moderato La formazione culturale di Parini, radicata nella tradizione classica, si arricchisce dell’interesse per la cultura europea del tempo. Egli assimila le idee illuministe, ma si distanzia da materialismo e ateismo, in quanto convinto della funzione positiva della religione. L’autore è un moderato: pur favorevole a un maggior egualitarismo nella società, non teorizza l’abolizione delle classi sociali; tuttavia critica l’arroganza nobiliare, la vita dissipata e il cicisbeismo. La sua satira educativa, come quella del Giorno, mira a riformare la nobiltà cercando di orientarla al bene comune. Anche in campo economico Parini assume una posizione moderata: condanna sia un’economia centrata sui consumi delle classi dominanti sia l’esaltazione del commercio e dell’industria, e condivide invece le tesi della fisiocrazia. Queste idee lo allontanano dal gruppo che ruota intorno al giornale «Il caffè», con i quali pur condivide il ruolo centrale dell’intellettuale nella società in cambiamento. La divergenza di opinioni diviene massima, però, quando si parla di poesia: Parini crede nella necessità di coniugare tradizione classica e modernità, affidando alla poesia il compito di comunicare le novità sociali e ideologiche. La sfida di Parini: una poesia “alta” per la modernità Già a trent’anni, Parini sviluppa una riflessione sulla letteratura espressa nel Discorso sopra la poesia (1761): i princìpi in esso contenuti saranno poi approfonditi tra il 1773 e il 1775, e pubblicati

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postumi come De’ principi fondamentali e generali delle belle lettere applicati alle belle arti. Nella sua poetica è centrale l’idea, oraziana e poi illuministica, che la letteratura debba trattare temi attuali utilizzando una poesia formalmente curata, impostata su modelli classici (spesso, poi, interpretati come neoclassici). A ciò si associa l’adesione ai princìpi dell’estetica sensistica: la poesia deve stimolare la sfera sensoriale e provocare emozioni simili a quelle rappresentate. Per Parini, inoltre, è essenziale realizzare un’arte che abbia un’utilità sociale e che inducaa far amare la virtù e odiare il vizio.

2 Il libro delle Odi

Un genere poetico antico per una poesia moderna Le 25 Odi, composte negli anni 17571795 in due fasi principali, rappresentano l’opera più conosciuta di Parini insieme a Il giorno. Forma letteraria di tradizione classica, l’ode permette al poeta di trattare, come nell’antichità, temi alti e attuali, associati a una forma particolarmente curata. La prima fase: la poesia al servizio dell’impegno civile In una prima fase (1757-1766), Parini dà voce ai grandi temi sociali e culturali del dibattito illuminista: dall’educazione e dalla sua capacità di cambiare la società (L’educazione) alla salute pubblica coniugata con progresso e civismo (La salubrità dell’aria; L’innesto del vaiolo), alla giustizia umanitaria e filantropica (Il bisogno) e alla dignità umana sacrificata al profitto (La musica). Le odi della seconda fase A una seconda fase appartengono le odi composte a partire dal 1786 (in questo anno esce La tempesta), quando la politica autoritaria dell’imperatore Giuseppe II, assai differente da quella della madre Maria Teresa, delude gli intellettuali e spinge Parini a ripiegare verso la trattazione della dimensione privata e interiore, mai disgiunta da una profonda tensione morale e civile (La caduta; Alla Musa). A questa fase appartengono anche le cosiddette “odi galanti”, incentrate sulla contemplazione della bellezza femminile (Il pericolo; Il dono; Il Messaggio). Lo stile delle Odi: tra sensismo e (neo)classicismo Nelle odi pariniane di impegno civile, il sensismo spinge all’utilizzo di un lessico concreto, preciso e realistico, associato comunque a elementi aulici (connaturati all’opera dell’autore) come personificazioni, perifrasi e similitudini. La struttura sintattica complessa, con frequenti inversioni e dislocazioni, conferisce un tono latineggiante all’insieme. Nelle ultime odi, il lessico realistico cede il passo a un classicismo più raffinato, con un linguaggio colto e una metrica fluida. La ricercatezza formale e l’onnipresente “codice” classico nobilitano il dato autobiografico. Proprio questi lavori tardi, spesso associati dalla critica al Neoclassicismo, offrono un modello per le generazioni successive, influenzando anche le opere di poeti come Ugo Foscolo.

3 Il giorno

Un poemetto satirico Il giorno, il capolavoro di Parini, è un poemetto in endecasillabi sciolti che, sotto una veste didascalica, nasconde un intento satirico verso la vita frivola dell’aristocrazia. Il lavoro è diviso in quattro parti: le prime due (Il mattino e Il mezzogiorno) vengono pubblicate nel 1763 e nel 1765, e sono quindi uno dei risultati della fase impegnata della produzione pariniana; le altre (Il vespro e La notte) sono rimaste incompiute. L’articolazione dei contenuti L’opera racconta un giorno-tipo, diviso in più momenti Sintesi Settecento

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(mattino, meriggio, vespro e notte), di un esponente della nobiltà lombarda, guidato dal suo precettore in ognuna delle numerose occasioni sociali che deve affrontare. Le modalità narrative Come già detto, il lavoro pariniano vede il narratore presentarsi come maestro, «precettore d’amabil rito, di un giovin signore»; dunque una figura didascalica, incaricata di insegnare una corretta condotta sociale, il cui intento è, però, presto sovvertito dall’ironia corrosiva di Parini. Il giovane signore diventa un emblema dell’aristocrazia oziosa, lussuosa e indifferente ai bisogni della società; l’ironia serve a mettere in luce i vizi e i difetti di questo ceto, creando un contrasto tra l’apparenza epica e magniloquente delle occupazioni del giovane e la loro reale banalità. Il narratore, a volte sarcastico a volte indignato, coinvolge il lettore, chiedendogli di aderire alla prospettiva ironica. Sia il protagonista sia la dama e gli altri personaggi non hanno nomi, una precisa psicologia e nemmeno un’identità: rappresentano figure completamente assorbite nei ruoli sociali che recitano. La nobiltà è ritratta in modo impietoso: dedita ai piaceri, vittima di stravaganti manie che occupano giornate scandite da gesti stereotipati e rituali sociali; una parte della società impegnata solo in apparenza, in realtà preda di un’insuperabile noia. Nell’opera prevalgono gli spazi chiusi, evidentemente associati a un significato simbolico: essi sono il simbolo della “chiusura” del mondo nobiliare di fronte alla vita reale. Anche il modello temporale che domina nel poemetto è certamente peculiare: Parini decide di eliminare qualsiasi riferimento al divenire del tempo storico, così come qualsiasi rimando a eventi politico-sociali; il contesto è fuori dalla storia esattamente come lo sono gli aristocratici. I protagonisti, dunque, vivono in una realtà atemporale, oltretutto caratterizzata anche dall’assenza di azione e dall’inversione dei comuni indicatori cronologici (ad esempio quello tra notte e giorno): un mondo, insomma, anche innaturale, come innaturale è la vita dei nobili. Le caratteristiche stilistiche e metriche Nel Giorno prevale il registro ironico, che si serve di espressioni amplificatorie ed elogiative, tipiche del codice epico, per nobilitare il banale. Una tale “eroicizzazione” parodica si realizza grazie a una sintassi latineggiante, un lessico aulico, l’alta frequenza di iperboli e similitudini di origine mitica e ampie perifrasi, inserite sempre all’interno di un endecasillabo sciolto ricco di enjambement con uno stile elaborato e insieme nitido, costante nella poesia di Parini.

4 La figura morale di Parini: un mito per le generazioni future

In più opere e per tutta la vita, Parini dipinge un autoritratto idealizzato in senso etico e morale. Egli esprime il proprio distacco dai valori materiali e l’aspirazione a una vita onorevole e libera dalla corruzione. Questa rappresentazione di Parini come poeta integro e moralmente saldo diventa un “mito” associato al suo nome, adottato dalle generazioni successive di scrittori come Foscolo e Manzoni, contribuendo così a plasmare il suo lascito nella letteratura italiana. Foscolo, ad esempio, non considera Parini un grande poeta, ritenendolo troppo pedante e libresco; ma è significativamente affascinato dall’uomo Parini, tanto da farne un personaggio del proprio romanzo epistolare autobiografico Ultime lettere di Jacopo Ortis e un punto di riferimento morale, ricordato anche nel carme Dei Sepolcri. Anche Manzoni, nel Carme in morte di Carlo Imbonati, rende omaggio al poeta brianzolo, che in giovinezza fu precettore del dedicatario dell’opera. La statura morale pariniana affascina, poi, Giacomo Leopardi, che lo presenta in una delle Operette morali, Il Parini ovvero della gloria (1824), come intellettuale di incorrotta

362 Settecento 9 Giusepp Parini


moralità; ma echi pariniani serpeggiano anche negli autoritratti leopardiani della Ginestra, testamento ideale del poeta di Recanati. Il valore morale della lezione del Parini è sintetizzata e consacrata dal critico letterario Francesco De Sanctis, che vi vede non tanto un grande poeta quanto il punto d’inizio della rinascita del senso morale della classe intellettuale italiana, necessaria premessa alla rinascita politica del paese.

Zona Competenze Scrittura

1. Presenta in un testo scritto (max 15 righe) la struttura e le modalità narrative adottate da Parini per il poemetto Il giorno, evidenziando in particolare la loro funzionalità rispetto agli intenti perseguiti dall’autore.

Competenza digitale

2. Polemica civile e polemica sociale in Parini: prepara un PowerPoint da presentare alla classa sulla compresenza di questi due aspetti, facendo riferimento ai testi letti ed esaminati. 3. Realizza una mappa interattiva che metta in relazione gli avvenimenti storici, che fanno da sfondo alla vita e all’opera di Parini, con la sua produzione letteraria.

Scrittura creativa

4. Immagina di essere un cronista dell’epoca e di dover intervistare Giuseppe Parini su un problema ambientale che riguarda le condizioni igienico-sanitarie di Milano. Prendendo spunto dall’ode La salubrità dell’aria e dalla scheda I problemi igienico-sanitari (o ecologici) di Milano nel Settecento (➜ PER APPROFONDIRE, PAG. 330), predisponi una lista di domande da sottoporre al poeta. 5. Costruisci un dialogo in prosa in cui si confrontino due intellettuali di oggi che possano in qualche modo incarnare le due tipologie proposte nella Caduta di Parini, adattando il contenuto dell’ode pariniana a una situazione moderna. 6. Presenta in chiave moderna una tua personale riscrittura dell’episodio della «vergine cuccia» (➜ T9 ), inserendola in un contesto narrativo contemporaneo.

Sintesi Settecento

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SettecentoQuattrocento e Cinquecento CAPITOLO

10 Carlo Goldoni LEZIONE IN POWERPOINT

L’uomo Goldoni visto da sé medesimo... Nell’esistenza di Goldoni i fili conduttori e le costanti sono da un lato la passione per il teatro e dall’altro la centralità di Venezia, la città dove egli nacque e operò e a cui il suo immaginario artistico risulta indissolubilmente legato. Lo evidenzia questo breve passo dei suoi Mémoires (I, xxxv): lo scrittore, ormai anziano, rivive le emozioni che aveva provato cinquant’anni prima rivedendo, dopo una lunga assenza, la sua città. Anche nel ritratto di Venezia Goldoni privilegia la componente della vitalità, dell’allegria.

[...] feci il giro del ponte di Rialto e della piazza di San Marco e mi godetti l’incantevole spettacolo di questa città anche più mirabile di notte che di giorno. Ancora non avevo visto Parigi, ma avevo visto parecchie città dove la sera si passeggia al buio. Mi parve che i lampioni di Venezia formassero una decorazione utile e gradevole, tanto più che non sono a carico dei privati, perché un’estrazione supplementare della lotteria è destinata ogni anno a coprirne le spese. Oltre codesta illuminazione generale, c’è quella delle botteghe che in ogni stagione sono aperte fino alle dieci di sera, e una gran parte non chiudono che a mezzanotte e altre parecchie non chiudono affatto. A Venezia si trovano, a mezzanotte come in pieno giorno, commestibili esposti, tutte le osterie aperte, e cene pronte negli alberghi e nelle trattorie; i pranzi e le cene di società non sono frequenti a Venezia, ma gli spuntini e le allegre riunioni raccolgono la gente con maggior libertà e allegria. D’estate, piazza San Marco e i dintorni sono frequentati di notte come di giorno. I caffè sono pieni di bella gente, uomini e donne di ogni specie. Cantano sulle piazze, per le strade e nei canali. I venditori cantano smerciando la loro mercanzia, cantano gli operai lasciando il lavoro, i gondolieri cantano aspettando i padroni. Il carattere fondamentale di quella nazione è l’allegria, quello della lingua veneziana è la scherzosità. C. Goldoni, Memorie, trad. di P. Bianconi, Rizzoli, Milano 1985

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Le commedie di Carlo Goldoni sono ancora oggi rappresentate con grande successo, a riprova dell’attualità del suo messaggio e dell’efficacia delle sue soluzioni teatrali, che non indulgono mai a una comicità facile e grossolana. In linea con i princìpi dell’Illuminismo, il commediografo crede in un teatro che si proponga fini educativi ispirati a un’innata fiducia nella razionalità come guida dei comportamenti umani e alla critica verso ogni forma di autoritarismo classista e generazionale. Goldoni abbandona gradualmente gli stereotipi della commedia dell’arte e le maschere, conferendo al teatro comico dignità letteraria e realismo, attraverso la creazione di personaggi veri e unici per carattere e psicologia, che portano sulla scena situazioni dell’attualità quotidiana fino a quel momento mai rappresentate a teatro. Punto di riferimento fondamentale nel mondo poetico e artistico di Goldoni è Venezia, l’amata città natale, i cui ambienti, costumi di vita, categorie sociali, tipi umani, egli traspone realisticamente sulla scena.

1 Ritratto d’autore 2 I Mémoires riforma del teatro 3 Lacomico l’ideologia, 4 Ilatemi, lingua 5 La locandiera 365 365


1

Ritratto d’autore 1 Una vita per il teatro

VIDEOLEZIONE

Un’esistenza ricca di multiformi esperienze Quella di Carlo Goldoni fu un’esistenza assai lunga, soprattutto per i tempi (visse ben 86 anni), e ricca di esperienze eterogenee: una vita trascorsa a contatto di ambienti sociali e professionali diversi (il mondo dell’avvocatura da un lato, quello del teatro dall’altro), intersecata da viaggi, roventi polemiche letterarie, clamorosi successi, ma anche cocenti delusioni, contrassegnata da vari amori, dal gusto per i piaceri della tavola e dalla passione per il gioco, che spesso mise Goldoni in difficoltà per i debiti contratti. Esperienze personali tanto varie hanno sicuramente alimentato la creatività del commediografo, espressa in una produzione teatrale davvero imponente (più di cento commedie). Un adolescente inquieto Carlo Goldoni nasce a Venezia il 25 febbraio 1707. Seguendo il padre, che era medico, nei suoi spostamenti in varie città, frequenta a Perugia corsi di grammatica e di retorica presso il collegio dei gesuiti; quindi a Rimini studia filosofia presso i domenicani. Mentre le lezioni di filosofia risultano per lui noiose, Carlo «nutriva il suo spirito» (secondo quanto ricorderà nella sua autobiografia, i Mémoires) con le piacevoli letture dei grandi commediografi antichi Plauto, Terenzio e Aristofane e frequentava il teatro locale. A questo periodo risale il celebre episodio della fuga da Rimini a Chioggia, per riabbracciare la madre, trasferitasi là per motivi Anonimo, Carlo Goldoni, XIX secolo (Collezione privata).

CARTA INTERATTIVA DEI LUOGHI

Cronologia interattiva

1710

1707

Nasce a Venezia.

1720

1715-1731

Studia a Perugia, a Rimini, a Pavia; si laurea in giurisprudenza a Padova; diventa coadiutore del tribunale a Chioggia e a Feltre.

366 Settecento 10 Carlo Goldoni

1754 Nasce Luigi XVI, dal 1774 re di Francia.

1730

1734-1738

Si sposa; inizia a collaborare con la compagnia Imer; al Teatro San Samuele mette in scena Momolo cortesan, la prima commedia con la parte del protagonista scritta, prima tappa della “riforma”.

1740

1742

Compone La donna di garbo, prima commedia interamente scritta.

1745-1748

Esercita l’avvocatura a Pisa, ma continua a scrivere.

1750

1748-1753

Abbandona l’avvocatura e torna a Venezia dove lavora al Teatro Sant’Angelo per l’impresario Medebach. Nella stagione 1750-51 produce sedici commedie. 1752

Scrive La locandiera.


di salute: venuto a sapere che una compagnia di commedianti stava per salpare per Chioggia, abbandona senza esitazione le lezioni di filosofia e s’imbarca con i comici (➜ D1 OL). Studente e avvocato Nel 1723 Goldoni entra nell’illustre collegio Ghislieri di Pavia come studente di legge; dopo tre anni ne viene però espulso per aver composto una feroce satira contro le ragazze della città (il testo della satira, intitolata Il Colosso, è andato perduto). Riprende allora a seguire il padre nei suoi spostamenti continuando gli studi di diritto, senza rinunciare però a divertimenti e avventure galanti, spesso burrascose. E inizia a scrivere testi teatrali. Nel 1731 Carlo si laurea finalmente in giurisprudenza a Padova e, tornato a Venezia, esercita la professione di avvocato. Intanto si manifesta sempre più la sua vocazione teatrale (che, nei Mémoires, Goldoni fa addirittura risalire all’età di nove anni, quando avrebbe composto la sua prima pièce), ma l’attività drammaturgica rimane a lungo saltuaria, subordinata all’attività professionale intrapresa. Il matrimonio, le prime commedie Nel 1734 Goldoni incontra a Verona il capocomico Giuseppe Imer, che lo ingaggia per scrivere testi per il Teatro San Samuele a Venezia. Inizia così ufficialmente la sua carriera nel mondo del teatro. Nella tournée di primavera con la compagnia Imer, conosce a Genova Nicoletta Connio che, due anni dopo, sarebbe diventata sua moglie: fu un matrimonio solido, durato ben cinquantasette anni e vissuto come approdo sicuro da un uomo fino a quel momento sentimentalmente instabile e particolarmente sensibile al fascino femminile. Nel 1738, al Teatro San Samuele, la compagnia Imer rappresenta la prima commedia di Goldoni: Momolo cortesan, un copione “a soggetto” (cioè affidato all’improvvisazione degli abili professionisti quali erano gli attori della commedia dell’arte). La parte del protagonista (studiata appositamente per Francesco Golinetti, il Pantalone della compagnia) era però integralmente scritta. Qualche anno dopo, con La donna di garbo (1743), Goldoni produce la sua prima commedia integralmente scritta. Seguirono alcuni anni in cui Goldoni alterna agli impegni legati alla professione di avvocato i contatti con il mondo del teatro, scrivendo testi per i più famosi attori del tempo: per il Pantalone Cesare D’Arbes I due gemelli veneziani, mentre per il 1764-1766

a Milano è pubblicata la rivista «Il Caffè».

1765

1783 Fine della guerra di indipendenza americana.

Parini pubblica Il mezzogiorno.

1760

1787-1789 A Parigi sono stampate le tragedie di Alfieri. 1789 Inizia la rivoluzione francese.

1770

1780

1790

1793 Esecuzione capitale di Luigi XVI.

1800

1771

Scrive in francese Le bourrou bienfaisant. 1759-62

Produce i capolavori della maturità.

1753-1762

Lavora per il Teatro San Luca con la parentesi di un anno romano.

1765

Insegna italiano alla corte di Versailles.

1784-1787

Scrive i Mémoires.

1788

Avvio presso l’editore Zatta di Venezia della pubblicazione completa delle opere teatrali che si concluderà nel 1795.

1793

Goldoni muore a Parigi.

1762

Abbandona l’Italia per trasferirsi a Parigi a dirigere la Comédie-Italienne.

Ritratto d’autore 1 367


più famoso Arlecchino dell’epoca, Antonio Sacchi, Il servitore di due padroni, rappresentato al San Samuele nel 1745 (allora gli attori più noti erano identificati dal pubblico e dagli impresari nella maschera che li aveva resi celebri). Proprio D’Arbes gli presenta il capocomico Girolamo Medebach che lo ingaggia come scrittore stabile del Teatro Sant’Angelo con un contratto quadriennale. L’addio all’avvocatura. Goldoni commediografo nella sua Venezia Nel 1748, ormai quarantenne, Goldoni lascia definitivamente la professione legale e decide di seguire unicamente la vocazione teatrale, radicandosi nella sua Venezia. Qui Goldoni rimarrà per quattordici anni, i più intensi della sua attività artistica: i primi cinque al Sant’Angelo con la compagnia Medebach, gli altri nove al San Luca. Tra il 1748 e il 1753 Goldoni scrive una serie di commedie in cui, distaccandosi dai modelli della commedia dell’arte, incomincia ad attuare i princìpi della cosiddetta riforma del teatro (➜ PAG. 372) e si afferma come commediografo di successo. Contemporaneamente, però, la novità del suo teatro suscita non poche polemiche: particolarmente accesa è l’ostilità dell’abate Pietro Chiari, subentrato a Goldoni come autore del Teatro San Samuele e sostenuto dagli appassionati della commedia dell’arte. Goldoni risponde lanciando una singolare sfida a sé stesso e al pubblico: avrebbe composto ben sedici commedie nuove per la stagione successiva. Con uno straordinario impegno di lavoro, Goldoni mantiene la promessa e fa rappresentare tutte le commedie, tra le quali Il teatro comico, manifesto di poetica teatrale, e La bottega del caffè. La collaborazione con Medebach continua con altre commedie come La serva amorosa, in cui si rivela il talento dell’attrice Maddalena Marliani, per la quale Goldoni scrive nel 1752 la sua commedia forse più celebre, La locandiera (➜ PAG. 388). Alla fatica delle sedici commedie seguono momenti di stanchezza psicofisica e anche conflitti dovuti a questioni economiche: in seguito a questi, Goldoni rompe col Medebach e nel 1753 assume un nuovo impegno con il Teatro San Luca, di proprietà del nobile Antonio Vendramin. Incomincia un altro periodo travagliato e difficile. L’attività teatrale stessa assume direzioni diverse e meno innovative, optando per soluzioni di gradimento più immediato da parte del pubblico. All’interno di una produzione nel complesso minore spicca il celebre Il campiello, rappresentato nel carnevale del 1756. Goldoni è ormai una celebrità e della sua riforma si parla anche al di fuori di Venezia: tra il 1758 e il 1759 è invitato a Roma dal cardinale Carlo Rezzonico, ma non si può dire che dall’esperienza romana egli abbia ricavato grandi soddisfazioni. Tornato a Venezia, nella stagione 1759-60 Goldoni raggiunge alcuni dei suoi massimi risultati artistici con Gl’innamorati (in lingua) e con I rusteghi (in dialetto).

Festa del giovedì grasso in piazza San Marco a Venezia in un dipinto di Gabriele Bella (Venezia, Pinacoteca Querini Stampalia).

368 Settecento 10 Carlo Goldoni


Illusioni e delusioni: le ultime commedie e il periodo parigino Mentre si infittivano le polemiche e gli attacchi soprattutto da parte del commediografo rivale Carlo Gozzi, nell’estate del 1761 Goldoni fu invitato a recarsi a Parigi per dirigere la Comédie-Italienne con un impegno biennale. Il commediografo concluse allora l’attività veneziana nella stagione 1761-62 con la Trilogia della villeggiatura (Le smanie per la villeggiatura, Le avventure della villeggiatura e Il ritorno dalla villeggiatura); nei giorni conclusivi del carnevale fece rappresentare Sior Tòdero brontolon, Le baruffe chiozzotte e infine Una delle ultime sere di carnovale, che suggeriva una trasparente allusione alla sua imminente partenza. Il caloroso applauso del pubblico fu accompagnato dall’acclamazione «Buon viaggio! Tornate presto», che Goldoni conservò nella memoria e nel cuore per annotarla nelle sue Memorie. Quando, nell’agosto del 1762, Goldoni giunse nella capitale francese con la moglie e il nipote Antonio, era un autore di teatro affermato e coltivava ancora grandi progetti. Fu accolto a corte e incontrò gli illuministi più illustri, Diderot, Voltaire, Rousseau, ma il contratto con la Comédie-Italienne, che nel frattempo si era unita all’Opéra-Comique, gli impose un lavoro deludente, quello di elaborare canovacci e scenari nelle forme tipiche della commedia dell’arte che aveva abbandonato da anni. Nonostante ciò, riuscì a comporre ancora opere significative come Il ventaglio (1765) e si confrontò direttamente con Molière con Le bourru bienfaisant [Il burbero benefico], composto in occasione del matrimonio tra il Delfino di Francia e Maria Antonietta: la prima rappresentazione nel novembre del 1771 alla ComédieFrançaise fu un trionfo. Nel 1775 Goldoni fu nominato maestro di lingua italiana per le sorelle di Luigi XVI alla corte di Versailles, dove rimase per quattro anni. Ottenuta dal re una pensione, ritornò a Parigi, dove certo il clima culturale era per lui più congeniale: frequentava i salotti intellettuali e partecipava alla vita civilissima della città prima della rivoluzione. Nel 1784 incominciò a scrivere i Mémoires, che pubblicò nel 1787. Nel 1792, ormai scoppiata la rivoluzione, il commediografo, anziano e malato, si vide revocare dall’Assemblea costituente la pensione di corte e si ridusse addirittura in povertà. La delibera che gli avrebbe restituito la pensione arrivò il giorno dopo la sua morte: assistito dalla fedele compagna della sua vita, si spense il 6 febbraio 1793.

Una scena dell’allestimento del 2007 della Trilogia della villeggiatura con l’attore e regista dello spettacolo Toni Servillo (fotografia di Fabio Esposito).

Ritratto d’autore 1 369


2 I Mémoires 1 Goldoni racconta Goldoni

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Per approfondire Il modello narrativo dei Mémoires: tra autobiografia, romanzo e teatro

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Per approfondire Autobiografia in scena: Goldoni rappresenta Goldoni

Il racconto di una lunga vita A quasi ottant’anni Goldoni scrive, in francese, la propria autobiografia, i Mémoires [Memorie], completandola in tre anni (1783-86). I Mémoires si iscrivono nel genere dell’autobiografia, di grande fortuna nel Settecento: tra gli esempi in Italia ricordiamo l’Histoire de ma vie (Storia della mia vita) di Giacomo Casanova (➜ C12 OL), anch’essa scritta in francese, e la Vita di Vittorio Alfieri (➜ C11). Per stendere le sue memorie Goldoni utilizza sia appunti e note personali che aveva preso nel corso della sua vita in occasione di avvenimenti e incontri importanti, sia parti del giornale di viaggio tenuto dal nipote Antonio in occasione del trasferimento da Venezia a Parigi. Attinge inoltre alle prefazioni delle edizioni delle proprie commedie (le cosiddette Memorie italiane), che già contenevano notizie, ricordi e riflessioni autobiografiche. L’opera è divisa dall’autore in tre parti e narra l’intera vita di Goldoni fino al 1786. La prima parte (56 capitoli) rievoca l’infanzia, la giovinezza, l’esperienza di avvocato e la permanenza a Milano; la seconda (46 capitoli) ricostruisce la vita teatrale veneziana, le vicende della riforma e presenta le commedie con il resoconto dei successi delle prime. La terza parte (40 capitoli) è dedicata al periodo francese, alla descrizione degli ambienti culturali e teatrali parigini e della corte di Versailles. L’autobiografia di Goldoni presenta caratteri molto diversi rispetto a quello che, a partire dagli anni Ottanta del Settecento, diventa il modello di autobiografia, ovvero le Confessioni di Rousseau. Al paesaggio della campagna, prevalentemente solitario, che costituisce lo sfondo ideale per l’esplicitarsi della dimensione introspettiva, Goldoni preferisce l’ambientazione rumorosa, affollata, della città, in cui fervono le attività e ci si diverte. Nelle sue pagine non c’è posto per lo scavo interiore, l’analisi dei sentimenti, la dimensione patetico-sentimentale, ma piuttosto per la vivace rievocazione (anche attraverso l’inserimento di dialoghi) dei molti incontri avvenuti in una vita ricca di esperienze. Una rilettura “orientata” degli eventi Come accade anche nella Vita di Alfieri, i Mémoires non sono un fedele resoconto, ma il frutto di una selezione e di una rilettura “orientata” dei dati biografici (lo evidenzia il confronto con le lettere che si riferiscono ai fatti narrati). Innanzitutto Goldoni costruisce un’immagine di sé (come di un temperamento «pacifico» e ottimista) finalizzata a suggerire una coerenza tra l’uomo Goldoni e la visione equilibrata, morale e sostanzialmente serena della vita che traspare dal complesso della sua opera. Lo scrittore evita perciò deliberatamente di rievocare l’amarezza di tante delusioni e di dare spazio alla malinconia dei rimpianti (che pure dovevano essere ben presenti nella sua memoria) e privilegia invece i ricordi felici: racconta i suoi anni giovanili come un succedersi di trasferimenti, viaggi, riunioni di famiglia e separazioni, innamoramenti, intrighi o equivoci, dovuti a debiti di gioco e a spese eccessive, incontri casuali, destinati poi a rivelarsi decisivi, con attori o con autorità cittadine. Ma, quello che è più importante, i dati biografici sono trasfigurati a posteriori da Goldoni in una sorta di “romanzo di formazione” che al centro ha la vocazione teatrale, a cui ogni esperienza

370 Settecento 10 Carlo Goldoni


risulta subordinata e finalizzata. Nella rievocazione dell’anziano commediografo, volta a costruire l’immagine di sé come votato alla causa del teatro, riappaiono in veste di coprotagonisti gli attori, i capocomici, il pubblico, i padroni dei teatri incontrati nella sua lunga vita, rivivono le prove in palcoscenico, le discussioni con gli attori, le prime rappresentazioni delle sue commedie entro un racconto sempre vivo e coinvolgente. La sua carriera di commediografo è presentata nei Mémoires secondo un disegno progressivo che fa della riforma teatrale un percorso sicuro e lineare (mentre di certo non mancarono incertezze e vere e proprie regressioni). online

PER APPROFONDIRE

D1 Carlo Goldoni Il viaggio da Rimini a Chioggia. L’incontro con la mamma Memorie I, iv-v

Venezia nel Settecento: la capitale dell’editoria e dello spettacolo Nel Settecento la Repubblica di Venezia manifestava segni evidenti di una crisi economica, da quando le grandi rotte commerciali dell’Atlantico avevano ridotto i vantaggi dei rapporti commerciali privilegiati della città con l’Oriente; per di più lo spirito conservatore che caratterizzava l’oligarchia al potere tendeva a isolare la Repubblica, anche a scapito degli interessi e dei traffici commerciali. Ma al conservatorismo politico non corrispondeva un’analoga situazione di stallo sul piano culturale, e per un insieme di ragioni. Innanzitutto la presenza sempre numerosa nella città di visitatori stranieri conferiva a Venezia un volto cosmopolita. Inoltre la città continuava a essere il più attivo centro editoriale italiano e il mercato librario vi si mantenne sempre molto vivace: l’editoria veneziana smerciava la sua produzione in Italia e all’estero, importava libri stranieri, stampava le traduzioni dei libri del pensiero illuminista e le faceva circolare. Infine, numerose riviste e gazzette diffondevano e alimentavano i dibattiti culturali. Nei confronti dell’illuminismo gli intellettuali veneziani manifestarono curiosità e interesse, anche se furono poi refrattari ad assimilarne la carica innovativa. Soprattutto però Venezia continuò a rappresentare per tutta Europa la città dello spettacolo, patria del carnevale e del divertimento, animata dalle feste che si svolgevano nei suoi campi (cioè piazze), nelle sue calli, nei palazzi aristocratici e dagli spettacoli teatrali. La concentrazione di teatri in una città di proporzioni tutto sommato modeste era straordinaria. Venezia contava ben sette teatri principali, tutti nel tratto finale del Canal Grande: San Giovanni Grisostomo, San Benedetto, San Samuele, San Luca, Sant’Angelo, San Cassiano, San Moisè, così denominati dal nome del santo titolare della rispettiva parrocchia di appartenenza e specializzati in uno specifico repertorio: due per l’opera seria, due per l’opera buffa e tre per le commedie. Goldoni si troverà a lavorare con tutti e tre (prima al San Samuele, poi al Sant’Angelo e infine al San Luca). Molti teatri erano di proprietà di famiglie aristocratiche, ma con il tempo ai nobili proprietari si affiancò la categoria degli

affittuari, borghesi danarosi che affittavano le sale per un certo periodo, creando una notevole mobilità: tanti teatri aprivano e chiudevano a ritmo incessante per motivi esclusivamente imprenditoriali. Gli impresari assunsero un ruolo sempre più importante: orientavano le scelte dei proprietari, esercitavano un’influenza sensibile sulla produzione degli autori e sull’attività delle compagnie di attori. Il pubblico era alquanto eterogeneo: nobili, borghesi e popolani di Venezia, ma anche viaggiatori italiani e stranieri. Dalle cronache veneziane dell’epoca risulta che il rito collettivo dell’andare a teatro esercitava sui veneziani una forte attrattiva, anche superiore all’interesse per la rappresentazione. A quei tempi non c’era il rispetto per lo spettacolo che per noi moderni è scontato: nei palchi ci si ritrovava tra amici, si chiacchierava anche rumorosamente, si mangiava, si amoreggiava, si giocava d’azzardo, attività consentite dalla consuetudine di tenere accese le luci nel corso dello spettacolo.

Il Teatro San Samuele a Venezia, in un dipinto di Gabriel Bella.

I Mémoires 2 371


3

La riforma del teatro comico 1 Motivazioni, caratteri e storia della riforma goldoniana

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Per approfondire Cronistoria della commedia goldoniana

Un processo graduale Goldoni attua il rinnovamento teatrale che egli stesso definisce «riforma» non secondo un organico programma teorico (come tende a far credere a posteriori nei Mémoires), ma via via nella pratica quotidiana. Il che significava per Goldoni confrontarsi con molteplici aspetti del teatro del tempo: • le esigenze degli impresari, mossi da interessi quasi esclusivamente economici; • i gusti del pubblico, ormai abituato a spettacoli grossolani e triviali («sconce arlecchinate», «laidi e scandalosi amoreggiamenti» li definisce Goldoni), condizionato a ridere a comando alle solite battute e alle solite scene; • le competenze (e resistenze) degli attori, specializzati in ruoli fissi (proprio questa specializzazione, del resto, assicurava la fama ai migliori attori) e ben poco disponibili a variare il loro repertorio e a modificare il loro modo di recitare; • la suscettibilità della nobiltà più conservatrice, inevitabilmente prevenuta nei confronti di un teatro “realistico” in cui, non di rado, vengono criticati i costumi nobiliari. Proprio per questo la riforma teatrale compiuta da Goldoni è un processo graduale e prudente, come egli stesso dichiara nel testo “metateatrale” Il teatro comico, prima delle sedici commedie composte per il Medebac (➜ D2a OL), non senza alcuni momenti di cedimento e regressione, come si è già accennato. La riforma nasce da due esigenze: da una parte, quella di mantenere il ritmo e la forza comica della commedia dell’arte, eliminando però la volgarità delle battute e la ripetitività dei ruoli, così da conferire alla commedia maggiore realismo e dignità; dall’altra, quella di sottrarre l’opera teatrale alla sofisticata letterarietà che aveva acquisito nei secoli precedenti, dal Rinascimento al Barocco, riconducendola alla naturalezza della vita. La priorità del testo scritto Si è visto come nella Commedia dell’arte gli attori non seguissero un testo scritto d’autore, ma improvvisassero le loro battute (e in questo si manifestava appunto la loro bravura professionale) sulla base di un soggetto fissato da un canovaccio, ovvero una traccia, uno schema dell’azione scenica. La libertà di improvvisazione dell’attore comico all’interno del canovaccio richiedeva grande abilità e una sicura padronanza della scena, ma per contro concedeva all’attore di imporre la sua personalità anche a costo di stravolgere l’intreccio e di eclissare le altre figure teatrali. In armonia con gli ideali estetici di buon gusto e razionalità propri della cultura arcadica e illuministica, Goldoni rivendica innanzitutto la priorità del testo scritto d’autore, proponendosi di eliminare l’inevitabile approssimazione che derivava dalla libera improvvisazione degli attori. Dalle maschere ai caratteri: per un teatro verisimile e moderno Una volta ristabilita la centralità del testo, Goldoni sceglie di attingere personaggi, situazioni, ambienti dalla vita reale: rinunciando al facile effetto del “meraviglioso”, fa muovere i personaggi in luoghi reali, come la casa, la strada, la piazza, le botteghe e le locande in cui essi possono essere colti in una dimensione naturale e spontanea.

372 Settecento 10 Carlo Goldoni


Goldoni non elimina ma trasforma gradualmente (➜ D2a OL) le figure tradizionali, le cosiddette maschere, ereditate della Commedia dell’arte, in personaggi realistici, ricchi di nuove sfaccettature e di un ben definito status sociale: Arlecchino non è più allora lo stereotipato servo sciocco campagnolo, ma acquisisce connotazioni cittadine e una più sottile psicologia, che lo allontana definitivamente dalla fisionomia buffonesca della maschera; Pantalone, da vecchio avaro e vizioso, si trasforma nel mercante onesto e dignitoso che incarna i valori del buon senso e della laboriosità borghese(➜ T2 OL); la servetta Colombina, attraverso una serie di tappe, assumerà i tratti di un personaggio di straordinario spessore psicologico, come Mirandolina della Locandiera. Nelle commedie degli ultimi anni in cui vive a Venezia e opera per il Teatro San Luca, Goldoni (da Il campiello, 1756, a I rusteghi, 1760, La bottega del caffè, La trilogia della villeggiatura, Le baruffe chiozzotte e altre) realizza pienamente gli obiettivi realistici della sua riforma. Un tempo la critica distingueva tra “commedie di carattere” e “commedie di ambiente”, ma si tratta di una distinzione astratta ormai abbandonata: nelle più riuscite commedie, infatti, il ritratto dei personaggi è strettamente collegato a un determinato ambiente sociale, di cui rappresenta emblematicamente la mentalità e magari i pregiudizi e i condizionamenti. In nome del realismo rappresentativo, a un certo punto Goldoni elimina dal costume di scena la maschera che copriva parte del volto degli attori (conservandola solo per Arlecchino). Per Goldoni la maschera non è infatti un semplice accessorio del costume teatrale, ma una componente fondamentale di un modo di far teatro che egli rifiuta: la maschera non consente, infatti, di manifestare le diverse espressioni del volto, in rapporto ai diversi caratteri dei personaggi e alla variabilità delle situazioni in cui l’individuo (e l’attore che lo impersona) si viene a trovare e contribuisce, quindi, in modo rilevante all’inautentica fissità dei personaggi teatrali. La volontà di cambiamento si concilia d’altra parte, proprio per non sconcertare il pubblico, con il mantenimento delle tecniche teatrali più collaudate e amate dal pubblico (➜ T1 OL), con il rispetto del mondo dei teatranti e delle sue leggi. In particolare Goldoni ha l’accortezza di modellare alcune figure femminili sulle attrici di successo che avrebbero interpretato la parte: per Maddalena Marliani, l’attrice giovane della compagnia Medebach, scrive La serva amorosa e La locandiera.

Pietro Longhi, Il ridotto, 1760 (Bergamo, Accademia Carrara). La scena è ambientata nel ridotto di Ca’ Giustinian a San Marco, l’unica casa da gioco autorizzata dal governo veneziano e aperta solo nel periodo del carnevale.

«Mondo» e «teatro» La riforma comportò anche il superamento della tradizione classica, che Goldoni conosceva non certo in modo profondo, ma da esperto di teatro: per creare uno spettacolo piacevole per un pubblico vasto ed eterogeneo era necessario abbandonare le regole dei generi teatrali, formulate nel Cinquecento. Nella prefazione alla prima edizione delle sue commedie (1750), attraverso una celebre metafora Goldoni La riforma del teatro comico 3 373


esprime con chiarezza la sua concezione dell’arte drammatica, indicando nel «mondo» e nel «teatro» i suoi maestri. Il «libro del Mondo» e il «libro del Teatro» Il «libro del Mondo» è l’osservazione attenta e razionale della realtà: nelle sue commedie Goldoni rappresenta – attraverso l’osservatorio della sua Venezia – nobili, borghesi e popolo nelle attività giornaliere, nelle abitudini di vita, negli ambienti consueti, indagando i loro comportamenti e le loro passioni. Da qui deriva la componente realistica che caratterizza il teatro goldoniano e gli conferisce un’impronta fortemente innovativa. Il «libro del Teatro» offre d’altra parte al commediografo la ricchezza e varietà dei mezzi tecnici, nonché un repertorio di espedienti ed effetti teatrali con cui valorizzare le vicende rappresentate rendendole capaci di attrarre il pubblico. Il valore educativo del teatro Fermamente convinto che lo scrittore debba cooperare al buon vivere in società, Goldoni coltiva l’idea di un teatro che eserciti anche una funzione educativa (➜ D2b OL). La rappresentazione deve diventare per il pubblico occasione di conoscenza, di riflessione critica, non solo di divertimento e di evasione. Da qui l’analisi critica del costume sociale presente soprattutto nelle opere della maturità. Il riferimento ai valori morali in genere non viene affidato a espliciti interventi dell’autore, ma traspare dalla vicenda (magari negli “a parte”), è spesso richiamato nelle battute conclusive delle commedie o espresso già nell’introduzione a ciascuna commedia («L’autore a chi legge»). In ogni caso, Goldoni non propone lezioni moralistiche, ma prospetta una visione equilibrata e bonaria: vede gli errori dei singoli e i limiti dei gruppi sociali, li critica, li deride (o, più spesso, ne sorride), ma evidenzia anche il bene possibile, il potenziale di felicità che in ogni caso la vita riserva e che trova la sua radice soprattutto nei vincoli naturali di socialità della vita collettiva.

Tappe della riforma goldoniana 1738-1748

• affermazione del testo scritto • l’improvvisazione ha sempre meno spazio

1748-1753

• la “commedia di carattere”: la psicologia dei personaggi oltre i “tipi” • tematiche varie: la famiglia, la critica alla nobiltà, il ruolo della borghesia

1753-1758

gli anni della crisi artistica (la concorrenza di Gozzi e Chiari) e psicologica (personaggi misantropi, toni satirici, scene corali)

1759-1762: La maturità veneziana

• rappresentazione realistica • la borghesia fra pregi (laboriosità, intraprendenza) e difetti (arrivismo, mode) • il popolo naturale, spontaneo

1762-1771: La stagione parigina

• commedie riuscite, con buoni intrecci • toni misurati e sobri, vicini al gusto del pubblico francese

374 Settecento 10 Carlo Goldoni


La struttura drammaturgica: potenziali conflitti... e lieto fine Le situazioni che Goldoni privilegia sono i momenti in cui i rapporti fra l’individuo e il gruppo sociale entrano in crisi: un trasferimento, una partenza, l’irruzione di un elemento nuovo e destabilizzante in una situazione statica e tradizionale. Il conflitto (ad esempio tra generazioni) e l’aggressività vengono fatti esplodere per poi ricondurre tutto e tutti a una misura di accomodante (secondo alcuni anche troppo accomodante) equilibrio. Non a caso la commedia goldoniana si chiude per lo più con un lieto fine: una struttura in cui si riflette pienamente l’ideologia, la visione del mondo dell’autore, il quale crede veramente che sia possibile (e giusto) ripristinare l’armonia, risolvere pacificamente i conflitti. D’altra parte, alcune conclusioni di commedie, che a prima vista sembrano rispondere alla tipologia del lieto fine, rivelano a un’osservazione più attenta una dimensione problematica e ambigua (si veda ad esempio il finale della Locandiera ➜ T6 ) che suggerisce di non generalizzare troppo e non identificare la visione della vita di Goldoni con il ritratto più vulgato di essa. Una nuova idea di comicità Nella Commedia dell’arte il divertimento e la risata erano provocati dalla rapidità acrobatica dei gesti e dagli effetti a sorpresa dell’intreccio, oppure da battute triviali e grossolane. Nella prefazione alla prima edizione (1750) delle sue commedie Goldoni valuta in modo decisamente negativo la comicità della commedia dell’arte che la sua riforma teatrale intendeva superare: «Non correvano sulle pubbliche scene se non sconce arlecchinate, laidi e scandalosi amoreggiamenti, e motteggi, favole mal inventate, e peggio condotte, senza costume, senz’ordine, le quali anziché correggere il vizio, come pur è il primario, antico e più nobile oggetto della commedia, lo fomentavano, e riscuotendo le risa dalla ignorante plebe, dalla gioventù scapestrata e dalle genti più scostumate, noia poi facevano ed ira alle persone dotte e dabbene». Nella commedia goldoniana l’effetto comico è invece più sottile e indiretto: è provocato dall’azione o dalla reazione del personaggio, dal manifestarsi di qualche sua mania, dal ripetersi di un tic gestuale o verbale (un esempio può essere l’intercalare «figurarse» o «vegnimo a dir el merito» nei Rusteghi). Suscitano ilarità anche i duetti, con scambi di frasi brevi e spezzate, con cui due personaggi rafforzano reciprocamente le idee comuni (➜ T3 ), oppure si contrastano accrescendo a ogni battuta il proprio disaccordo, come accade per il marchese di Forlipopoli e il conte di Albafiorita nella prima scena della Locandiera (➜ T4a ): in questi casi è il ritmo veloce del dialogo, enfatizzato dal tono di voce, a produrre l’effetto comico. In altre situazioni sono una frase ambigua o un commento malizioso a suscitare un sorriso complice nel pubblico. In ogni caso Goldoni si allontana consapevolmente da un modo elementare, divenuto ormai canonico, di comicità, per sperimentare una comicità moderna, che si evolverà in mille forme fino alla commedia “leggera” novecentesca.

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D2 Il teatro comico: una commedia sul nuovo modo di fare teatro

D3 Carlo Goldoni I primi passi della riforma nel ricordo di Goldoni Memorie I, xl

D2a Carlo Goldoni D2a Bisogna innovare con gradualità Il teatro comico II, x D2b Carlo Goldoni Da che cosa deriva il successo della commedia di carattere Il teatro comico II, i

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Verso l’esame di Stato Tipologia A Analisi e interpretazione di un testo letterario italiano

Carlo Goldoni

Il «Mondo» e il «Teatro» in Goldoni C. Goldoni, Commedie, a c. di G. Davico Bonino, vol. I, Garzanti, Milano 1976

Nella prefazione alla prima edizione delle sue commedie (1750), attraverso una celebre metafora, Goldoni espone la propria concezione dell’arte drammatica, indicando nel «Mondo» e nel «Teatro» i suoi maestri.

[Dirò1] con ingenuità, che sebbene non ho trascurata la lettura de’ più venerabili e celebri autori, da’ quali come da ottimi maestri, non possono trarsi che utilissimi documenti ed esempli: contuttociò i due libri su’ quali ho più meditato, e di cui non mi pentirò mai di essermi servito, furono il Mondo e il Teatro. 5 Il primo mi mostra tanti e poi tanti vari caratteri di persone, me li dipinge così al naturale, che paion fatti apposta per somministrarmi abbondantissimi argomenti di graziose ed istruttive commedie: mi rappresenta i segni, la forza, gli effetti di tutte le umane passioni: mi provvede di avvenimenti curiosi: m’informa de’ correnti costumi: m’istruisce de’ difetti che son più comuni del 10 nostro secolo e della nostra nazione, i quali meritano la disapprovazione o la derisione de’ saggi; e nel tempo stesso mi addita in qualche virtuosa persona i mezzi coi quali la virtù a codeste corruttele resiste, ond’io da questo libro raccolgo rivolgendolo sempre, o meditandovi, in qualunque circostanza od azione della vita mi trovi, quanto è assolutamente necessario che si sappia da 15 chi vuole con qualche lode esercitare questa mia professione. Il secondo poi, cioè il libro del Teatro, mentre io lo vo maneggiando, mi fa conoscere con quali colori si debbano rappresentare sulle scene i caratteri, le passioni, gli avvenimenti che nel libro del Mondo si leggono: come si debba ombreggiarli per dar loro il maggior rilievo, e quali sieno quelle tinte, che più 20 li rendon grati agli occhi dilicati degli spettatori. Imparo insomma dal Teatro a distinguere ciò ch’è più atto a far impressione sugli animi, a destar la maraviglia, o il riso, o quel tal dilettevole solletico dell’uman cuore, che nasce principalmente dal trovar nella commedia che ascoltasi, effigiati al naturale, e posti con buon garbo nel loro punto di vista, i difetti e ’l ridicolo che trovasi 25 in chi continuamente si pratica.

1 Dirò: chi scrive è Goldoni.

376 Settecento 10 Carlo Goldoni


Comprensione e analisi

Puoi rispondere punto per punto oppure costruire un unico discorso che comprenda le risposte a tutte le domande proposte. 1. Quali sono i due libri su cui, metaforicamente, Goldoni dichiara di aver meditato? 2. Goldoni attribuisce lo stesso peso nella sua formazione di commediografo alla lettura degli autori classici? 3. Riassumi con le tue parole il ruolo che Goldoni attribuisce rispettivamente ai due “libri” e spiega il rapporto che li lega. 4. A quali campi metaforici attinge il passo per presentare i concetti? Individua e trascrivi le espressioni che vi si riferiscono. 5. Ti sembra rilevante l’espressione «me li dipinge così al naturale»? A quale tipo di testo, che invece non attinge al naturale, pensa Goldoni? 6. Rintraccia le espressioni che usa Goldoni per descrivere il suo pubblico ideale. 7. È possibile individuare dal passo relativo al «libro del Mondo» la funzione che Goldoni assegna al teatro? 8. Nel passo relativo al «libro del Teatro» individua gli aspetti che secondo Goldoni il pubblico può apprezzare in una commedia.

Interpretazione

Facendo riferimento ai passi letti, giudica in che misura Goldoni abbia applicato nel suo teatro i princìpi di poetica qui enunciati. Sulla base dei testi letti e di quel che sai, spiega in una breve trattazione perché la commedia goldoniana può essere definita “commedia di carattere” e insieme “commedia di ambiente”.

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4 I temi, l’ideologia, la lingua 1 La radiografia delle classi sociali La borghesia mercantile Nel momento cruciale della riforma Goldoni concentra la sua attenzione sul ceto borghese mercantile – la categoria sociale più tipica di Venezia – che egli sceglie come punto di osservazione privilegiato dell’intera società e ne ritrae attività, relazioni familiari e interpersonali, mentalità, abitudini; al contempo, il ceto borghese è anche il pubblico a cui elettivamente Goldoni pensa quando compone le sue commedie. Come scrive il critico Franco Fido, «i borghesi veneziani costituirono la condizione necessaria della riforma del Goldoni assolvendo il duplice ufficio di ispiratori e di destinatari, di protagonisti e pubblico». Goldoni definisce i mercanti «il profitto e il decoro delle nazioni», ne apprezza l’operosità e la capacità imprenditoriale e li considera depositari di valori quali la concretezza, l’attaccamento alla famiglia, il senso dell’onore e del dovere. Qualità di cui diventa prototipo Pantalone, l’antica maschera del vecchio ricco e avaro della Commedia dell’arte (➜ T2 OL). Se Goldoni, soprattutto nella prima fase della riforma, esalta il ruolo attivo e la sanità morale della borghesia, sa però anche cogliere i segni di un’involuzione della classe borghese: da un lato la tendenza a imitare i difetti nobiliari seguendo un tenore di vita dispendioso, incline all’esibizione del lusso (la Trilogia della villeggiatura), dall’altro l’opposta tendenza al ripiegamento, alla grettezza meschina, al rifiuto pregiudiziale di ogni elemento di novità e di apertura (I rusteghi e Sior Todero brontolon). L’aristocrazia La rappresentazione da parte di Goldoni del mondo degli aristocratici, in particolare veneziani, evidenzia soprattutto la decadenza di questa classe sociale, la perdita di una sua attiva funzione nella società moderna. Anche Goldoni – come fa Parini in un diverso e più evoluto ambiente socio-culturale (la Milano illuminista) – condanna l’improduttività e l’ozio della classe nobiliare, ma anche l’immotivata arroganza e lo sterile orgoglio di classe. I titoli nobiliari ormai non garantiscono neppure un tenore di vita decoroso («I titoli no i dà da magnar», in La putta onorata I, xi), come ben dimostra il marchese di Forlipopoli della Locandiera, costretto a elemosinare qualche soldo da chi ne ha). Il popolo La rappresentazione del mondo popolare è varia e ricca: dai servi agli artigiani, ai bottegai, ai gondolieri e così via. Nei confronti del popolo, elevato addirittura al rango di protagonista nelle commedie “corali” Il campiello e Le baruffe chiozzotte, Goldoni mostra evidente simpatia, attribuendo costantemente alla gente del popolo caratteri positivi: l’istintiva saggezza, la tenacia nel lavoro, il vitalismo e la capacità di godere delle gioie della vita, la dignità e l’onestà verso i propri padroni (che non esclude giudizi critici sul loro operato). È una rappresentazione sicuramente innovativa, questa di Goldoni: il popolo, infatti, tradizionalmente era ritratto o attraverso la stilizzazione arcadico bucolica oppure in rapporto a una deformazione grottesco-caricaturale impiegata a fini comico-parodici. Un illuminismo moderato Le idee illuministe penetrano anche a Venezia sia attraverso le traduzioni di opere straniere (la città lagunare era tuttora la capitale

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PER APPROFONDIRE

dell’editoria) e il dibattito sollevato dal gran numero di periodici presente nella città, sia grazie ai rapporti commerciali e diplomatici che facevano della Serenissima una città cosmopolita. Certamente anche Goldoni – come testimonia la sua produzione teatrale – entra in contatto con le novità culturali del tempo e per certi aspetti le condivide: il suo è però un illuminismo moderato, che si esprime in forme concrete e prudenti. Goldoni non ha nulla in comune non solo con i philosophes (anche se la sua opera sarà molto apprezzata da Voltaire), ma neppure con l’impegno degli intellettuali milanesi del «Caffè» e dello stesso Parini. Tuttavia è indubbio che nella sua opera circoli l’influenza dei lumi: all’interno di una concezione sostanzialmente laica della vita (testimoniata anche dai Mémoi-

La famiglia, i giovani, le donne: una visione progressista? Nella maggior parte delle commedie goldoniane è in scena la famiglia, a volte in primo piano – come nella Famiglia dell’antiquario – talvolta moltiplicata – come nei Rusteghi, in cui si alternano sulla scena, che è la casa di uno di loro, quattro mercanti e le rispettive famiglie. Nel nucleo familiare si distinguono spesso le due generazioni di “vecchi” e “giovani”, padri e figli, con le caratteristiche proprie dell’età e delle abitudini di vita, a cui si aggiunge la specifica caratterizzazione individuale: ad esempio la figura del padre può concretizzarsi in personaggi molto diversi, a seconda che prevalga la saggezza e la moderazione oppure un attaccamento ostinato (se non addirittura nevrotico) alla proprietà o alle tradizioni. I giovani appaiono talora insofferenti alla rigida autorità dei padri o nei confronti di norme di vita e di comportamento anacronistiche e irrazionali, ma alla fine sono sempre disposti ad accettare di buon grado le gerarchie interne alla famiglia. Quanto alle donne, nelle commedie di Goldoni se ne presenta una variegata galleria che accoglie personaggi diversi, inconfondibili (come la celebre Mirandolina) non solo per il fascino, ma per la determinazione con cui impongono la loro volontà

e la loro visione delle cose. Non di rado le donne appaiono schierate dalla parte dei giovani, a difesa del progresso, della modernità, della razionalità contro modi di vedere anacronistici sul piano sociale ed etico-comportamentale. Se da un lato Goldoni condivide e appoggia l’emancipazione femminile (che poteva constatare anche nella sua Venezia) e rifiuta recisamente ogni atteggiamento misogino, dall’altro non solo non riesce a concepire un ruolo della donna al di fuori dell’ambito familiare (come del resto molti illuministi, anche francesi), ma neppure un sovvertimento dei tradizionali rapporti interni ad esso. L’anticonformismo di cui si fanno portavoce alcuni suoi personaggi femminili non si traduce mai dunque in contestazione aperta, in rifiuto dell’istituto familiare e matrimoniale, neppure quando questo è governato da aristocratici fossilizzati nelle proprie posizioni e da gretti borghesi arroccati alle tradizioni (come nel caso paradigmatico dei Rusteghi ➜ T3 ). La donna insomma, nell’universo teatrale goldoniano, porta sì una ventata di novità nella famiglia ma, così come i figli, non mette mai in discussione l’istituzione, anzi piuttosto contribuisce con la sua ragionevolezza a consolidarla.

Pietro Longhi, Ritratto di famiglia veneziana, 1760-1765 ca.

I temi, l’ideologia, la lingua 4 379


res), Goldoni valorizza soprattutto il tema dell’uguaglianza: egli è fermamente convinto dell’uguale dignità di tutti gli uomini, a qualsiasi classe sociale appartengano, ma questa convinzione non nasce in lui dall’adesione a un’ideologia astrattamente egualitaria, ma piuttosto da un innato senso morale, e di certo non assume mai i caratteri di una contestazione rivoluzionaria. Comune all’Illuminismo europeo e lombardo è la critica sviluppata nelle commedie goldoniane nei confronti della nobiltà, di cui, come si è già detto, l’autore condanna la boria, il tradizionalismo, l’inattività (per contro sottolineando, per lo meno in una prima fase della sua produzione, l’operosità della classe borghese). Ma Goldoni oltre non va: le classi sociali sono per lui “naturali” e questa visione esclude di per sé qualsiasi ipotesi di cambiamento radicale o di sovvertimento. Tipicamente illuminista si può considerare l’idea che ogni individuo, in quanto parte del consorzio sociale, ha il dovere di contribuire alla felicità comune, favorendo la civile convivenza, e vincendo ogni atteggiamento negativo che la può incrinare: la tendenza all’egoismo, ma soprattutto l’irrazionalità. Dovere di tutti è comporre i conflitti ed esercitare la ragione, che Goldoni intende soprattutto come “buon senso” e moderata “apertura al nuovo”. Dal complesso delle sue commedie si deduce una visione relativamente ottimistica: pur senza ignorare gli aspetti negativi, Goldoni è fiducioso che sia possibile l’esistenza di una società in cui regni il benessere materiale e l’armonia. A questo risultato possono e devono contribuire anche gli intellettuali: nel caso specifico il teatro deve avere una funzione educativa, inducendo gli spettatori a una riflessione critica, che possa costituire il presupposto per migliorare la società a partire dagli individui. Anche l’ideale cosmopolita, così tipico dell’Illuminismo, non è estraneo a Goldoni: il trasferimento a Parigi, in questo senso, è la prova di una vocazione europea che si esprime (come documentano lettere e memorie) nella curiosità per il mondo culturale parigino e nei contatti frequenti con gli intellettuali francesi.

2 Le lingue di Goldoni L’esperienza artistica di Goldoni si sviluppa all’insegna del plurilinguismo: il dialetto veneziano, l’italiano, e il francese che egli utilizza nella sua autobiografia in modo disinvolto. La critica ha ormai superato una visione rigidamente antitetica della produzione goldoniana: da un lato ci sarebbe il dialetto tutto immediatezza e vita vissuta, dall’altro l’italiano, più formale e composto. Infatti, anche il dialetto in realtà è frutto di una meditata conquista stilistica da parte dell’autore, e le due lingue non sono così distanti tra loro nella commedia goldoniana e spesso interagiscono, come del resto avveniva nella realtà a Venezia. Il dialetto Per tradizione secolare, infatti, a Venezia il dialetto era il mezzo linguistico che per la sua flessibilità e la sua apertura a contaminarsi con il lessico toscano era impiegato non solo nelle occasioni quotidiane, a tutti i livelli sociali, ma anche nella conversazione dotta, nell’amministrazione e nella burocrazia della Repubblica, essendo «il solo dei dialetti italiani totalmente immune, nell’uso parlato anche colto, da squalifica culturale» (Folena). Quindi il ricorso al dialetto veneziano da parte di Goldoni non comporta il riversarsi sulla scena della parlata di strada o della conversazione privata o informale, ma è l’impiego teatrale di uno strumento

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linguistico molto duttile e di grande forza espressiva (e non a caso Franco Brevini parla di «realismo dialettale»). L’italiano A sua volta l’italiano dei personaggi delle commedie non è una lingua libresca e letteraria, ma una lingua media della conversazione, creata dallo scrittore, «che ha spesso la vivezza del parlato ma si alimenta piuttosto all’uso scritto non letterario, accogliendo […] venetismi, regionalismi “lombardi” e francesismi» (Folena): cioè, su una base toscana s’innestano termini, espressioni, giri di frase veneziani, delle parlate settentrionali e anche francesi. La fortunata e particolare situazione linguistica in cui opera Goldoni, che non conosce rigidi confini tra lingua e dialetto, tra uso parlato e uso scritto, consente allo scrittore di muoversi agevolmente tra questi due poli e di sfruttare tutte le gradazioni che intercorrono fra il dialetto plebeo (come il vernacolo di Chioggia nelle Baruffe chiozzotte) e la lingua colta e letteraria. Giandomenico Tiepolo, Il teatrino dei saltimbanchi, 1797 ca. (Venezia, Museo Ca’ Rezzonico). Gli attori si mescolano agli spettatori in piedi.

Uno «stile naturale» Da qui l’esito convincente delle scelte goldoniane anche in campo linguistico. Il commediografo realizza l’ideale di “naturalezza” che è il presupposto espressivo della sua riforma: «Lo stile», scrive nella prefazione all’edizione delle sue commedie del 1750, «l’ho voluto qual si conviene alla commedia, vale a dir semplice, naturale, non accademico od elevato». Quindi: rifiuta la lingua aulica e letteraria, ricerca la multiforme dimensione del parlato, ma alla lingua rozza del teatro “all’improvviso” della commedia dell’arte sostituisce un italiano o un dialetto che hanno dignità di parola scritta.

Commedia dell’arte e commedia “riformata” a confronto Commedia dell’arte

Commedia “riformata” di Goldoni

i personaggi sono “maschere” e hanno caratteri stereotipati o fissi

personaggi e ambienti sono “reali”, lontani da stereotipi, volgarità, ripetitività

manca un testo scritto o un copione: si parte dal canovaccio (indicazioni generali sull’intreccio)

priorità del testo scritto (il copione) cui gli attori devono attenersi

l’effetto drammaturgico si basa sulla capacità di improvvisare e sul talento degli attori

uso di una lingua – un italiano medio o il dialetto veneziano – antiletteraria, viva e vivace

il teatro è un luogo di pura evasione e occasione solo di svago

il teatro come luogo di svago, ma anche come strumento educativo, adatto a modernizzare la società (visione illuminista)

online T1 Carlo Goldoni

Un tributo alla commedia dell’arte: Arlecchino diventa “armeno” La famiglia dell’antiquario I, xvi-xvii

online T2 Carlo Goldoni

Oltre la commedia dell’arte: il nuovo volto di Pantalone La famiglia dell’antiquario I, xviii; II, xi

I temi, l’ideologia, la lingua 4 381


Collabora all’analisi

T3

Carlo Goldoni

EDUCAZIONE CIVICA

nucleo Costituzione competenza 3

Lo studio del “carattere” entro una categoria sociale: due «rusteghi»

PARITÀ DI GENERE equilibri #PROGETTOPARITÀ

I rusteghi, II, v C. Goldoni, I rusteghi, in Commedie, a c. di G. Davico Bonino, vol. II, Garzanti, Milano 1994

I rusteghi (1760) è la più famosa tra le commedie in dialetto, per la felice caratterizzazione del mercante veneziano, replicato in quattro personaggi: Lunardo, Canciano, Simon e Maurizio. Tutti e quattro sono commercianti, ma tutti e quattro sono anche «rusteghi», cioè conservatori e tradizionalisti, severi custodi, nelle proprie case, delle antiche norme di comportamento. Nella scena qui riprodotta Simon e Lunardo si confidano ed esprimono il loro disappunto sui tempi che si trovano a vivere: i giovani non ubbidiscono più come una volta e le donne non sanno più stare al loro posto.

SIMON Marideve, che gh’avarè de sti gusti. LUNARDO Ve recordeu de la prima muggier? Quela giera una bona creatura; ma questa la xe un muschietto1! (a Simon) SIMON Ma mi, mato bestia, che le donne no le ho mai podeste soffrir, e po 5 son andà a ingambararme co sto diavolo descaenà2. LUNARDO Al dì d’ancuo no se se pol più maridar. SIMON Se se vol tegnir la muggier in dover, se xe salvadeghi3; se la se lassa far se xe alocchi. LUNARDO Se no giera per quela puta che gh’ho, ve protesto da galantomo, 10 vegnimo a dir el merito, che no m’intrigava con altre donne. SIMON Me xe sta dito, che la maridè: xe vero? LUNARDO Chi ve l’ha dito? (con isdegno) SIMON Mia muggier. LUNARDO Come l’ala savesto? (con isdegno) 15 SIMON Credo che ghe l’abia dito so nevodo. LUNARDO Felippetto4? SIMON Sì, Felippetto. LUNARDO Frascon, petegolo, babuin! So pare ghe l’ha confidà, e lu subito el lo xe andà a squaquarar? Conosso che nol xe quel puto che credeva 20 che el fusse. Son squasi pentìo d’averla promessa, e ghe mancherave poco, vegnimo a dir el merito, che no strazzasse el contrato. SIMON Ve n’aveu per mal, perché el ghe l’ha dito a so àmia? LUNARDO Sior sì: chi no sa tàser, no gh’ha prudenza, e chi no gh’ha prudenza, no xe omo da maridar. 25 SIMON Gh’avè rason, caro vecchio; ma al dì d’ancuo, no ghe ne xe più de quei zoveni del nostro tempo. V’arecordeu? No se fava né più né manco de quel che voleva nostro sior pare.

1 Ve recordeu... muschietto: Lunardo ricorda all’amico la prima moglie da cui ha avuto la figlia Lucietta. Si era poi risposato con Margarita, che ha un caratteraccio (muschietto). 2 sto diavolo descaenà: a sua volta Si-

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mon definisce “un diavolo scatenato” la moglie Marina. 3 salvadeghi: persone selvatiche, eccessivamente schive (il termine è sinonimo di rusteghi). 4 Felippetto: Lunardo intende maritare

Lucietta con Filippetto, nipote di Marina, figlio di Maurizio, un altro rustego, ma la cosa, secondo il rigido codice del tempo, non si deve venire a sapere, finché non lo decideranno i padri dei due promessi sposi.


LUNARDO Mi gh’aveva do sorele maridae: no credo averle viste diese volte in tempo de vita mia. 30 SIMON Mi no parlava squasi mai gnanca co mia siora mare. LUNARDO Mi al dì d’ancuo non so cossa che sia un’opera, una comedia. SIMON Mi i m’ha menà una sera per forza a l’opera, e ho sempre dormio. LUNARDO Mio pare, co giera zovene, el me diseva: Vustu véder el Mondo niovo5? o vusto che te daga do soldi? Mi me taccava ai do soldi. 35 SIMON E mi? sunava le boneman6, e qualche soldeto che ghe bruscava, e ho fato cento ducati, e i ho investii al quatro per cento, e gh’ho quatro ducati de più d’intrada; e co i scuodo7, gh’ho un gusto cussì grando, che no ve posso fenir de dir. No miga per l’avarizia dei quatro ducati, ma gh’ho gusto de poder dir: tolè; questi me li ho vadagnai da putelo. 40 LUNARDO Trovèghene uno ancuo, che fazza cussì. I li buta via, vegnimo a dir el merito8, a palae. SIMON E pazenzia i bezzi che i butta via. Xe che i se precipita in cento maniere. LUNARDO E tuto xe causa la libertà. 45 SIMON Sior sì, co i se sa meter le braghesse da so posta, subito i scomenza a praticar. LUNARDO E saveu chi ghe insegna? So mare. SIMON No me disè altro: ho sentìo cosse, che me fa drezzar i cavei. LUNARDO Sior sì; cussì le dise: Povero putelo! che el se deverta, povereto! voleu 50 che el mora da malinconia? Co vien zente, le lo chiama: Vien qua, fio mio; la varda, siora Lugrezia, ste care raìse9, no falo voggia? Se le savesse co spiritoso che el xe! Cànteghe quela canzoneta: dighe quela bela scena de Truffaldin. No digo per dir, ma el sa far de tuto: el bala, el zoga a le carte, el fa dei soneti: el gh’ha la morosa, sala? 55 El dise, che el se vol maridar. El xe un poco insolente, ma pazienza, el xe ancora putelo, el farà giudizio. Caro colù; vien qua, vita mia; daghe un baso a siora Lugrezia...Via, sporchezzi; vergogna; donne senza giudizio. SIMON Cossa ghe pagherave, che ghe fusse qua a sentirve sete o oto de quele 60 donne che cognosso mi. LUNARDO Cospeto de diana! le me sgrafarave i occhi. SIMON Ho paura de sì; e cussì, diseme: aveu serà el contrato10 co sior Maurizio? LUNARDO Vegnì in mezzà11 da mi, che ve conterò tuto. SIMON Mia muggier sarà de là co la vostra. 65 LUNARDO No voleu?

5 el Mondo niovo: dispositivo ottico, simile alla lanterna magica, in cui le immagini, anziché essere proiettate da una scatola verso l’esterno, erano visibili guardando dentro la scatola. Sono macchine simili ai proiettori di diapositive, diffuse nelle feste di paese, dove gli ambulanti allestivano spettacolini a pagamento. 6 sunava le boneman: raccoglieva le

mance. 7 e co i scuodo: e quando li riscuoto. 8 vegnimo a dir el merito: diciamo la verità: è il tipico intecalare di Lunardo. 9 care raìse: letteralmente “care radici”, espressione tipica del dialetto veneto per alludere al legame stretto tra figli e genitori. 10 contrato: si allude al contratto matrimoniale con il signor Maurizio.

11 mezzà: «in Venezia dicesi di quella stanza in cui si fanno le maggiori faccende; mezzà è lo studio degli avvocati, dei ministri, dei legali, dei mercadanti; dicesi anche mezzà ad una o più stanze, che sono ad un primo piano al di sotto del piano nobile, ed alcune ve ne sono anche a terreno» (Goldoni).

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SIMON LUNARDO SIMON LUNARDO 70 SIMON LUNARDO SIMON LUNARDO SIMON 75 LUNARDO SIMON LUNARDO SIMON LUNARDO 80 SIMON LUNARDO SIMON

No ghe sarà nissun, m’imagino. In casa mia? no vien nissun senza che mi lo sapia. Se savessi! da mi stamatina12... basta, no digo altro. Contème... cosse xe stà? Andémo, andémo; ve conterò. Donne, donne, e po donne. Chi dise donna, vegnimo a dir el merito, dise danno. Bravo da galantomo. (ridendo ed abbracciando Lunardo) E pur, se ho da dir la verità, no le m’ha despiasso. Gnanca a mi veramente. Ma in casa. E soli. E co le porte serrae. E co i balconi inchiodai. E tegnirle basse. E farle far a nostro modo. E chi xe omeni, ha da far cussì. (parte) E chi no fa cussì, no xe omeni. (parte)

Versione in italiano

SIMON Sposatevi e avrete questi piaceri. LUNARDO Vi ricordate la mia prima moglie? Quella era una buona creatura; ma questa è un caratteraccio! 85 SIMON E io, matto bestia, che le donne non le ho mai potute soffrire; e poi sono andato a inciampare in questo diavolo scatenato. LUNARDO Al giorno d’oggi non ci si può più sposare. SIMON Se si vuole tenere a bada la moglie, si è degli orsi; se la si lascia fare, si è degli stupidi. 90 LUNARDO Se non era per quella figlia che ho, vi giuro, parola di galantuomo, diciamo la verità, che non m’impegolavo con altre donne. SIMON Mi è stato detto che la sposate; è vero? LUNARDO Chi ve l’ha detto? Mia moglie. 95 SIMON LUNARDO Come l’ha saputo? SIMON Credo che glielo abbia detto suo nipote. LUNARDO Filippetto? SIMON Sì, Filippetto. Sciocco, pettegolo, babbuino! Suo padre glielo ha confidato, e lui 100 LUNARDO subito è andato a spiattellarlo? Capisco che non è quel ragazzo che credevo che fosse. Sono quasi pentito di averla promessa e ci mancherebbe poco, diciamo la verità, che non stracciassi il contratto nuziale. 12 Se savessi! da mi stamatina: Simon aveva sorpreso in casa sua Filippetto a parlare con la zia Marina.

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SIMON Vi siete risentito perché l’ha detto a sua zia? LUNARDO Signorsì: chi non sa tacere, non ha prudenza, e chi non ha prudenza non è uomo da sposarsi. SIMON Avete ragione, caro vecchio; ma al giorno d’oggi non ci sono più quei giovani del nostro tempo. Vi ricordate? Non si faceva né più né meno che quello che voleva il nostro signor padre. 110 LUNARDO Io avevo due sorelle maritate: non credo di averle viste dieci volte in vita mia. SIMON Io non parlavo quasi neanche con la mia signora madre. LUNARDO Io ancora oggi non so cosa sia un’opera, una commedia. 115 SIMON A me mi hanno portato una sera, per forza, all’opera, e ho sempre dormito. LUNARDO Mio padre, quando era giovane, mi diceva: vuoi vedere il Mondo nuovo? o vuoi che ti dia due soldi? Io mi attaccavo ai due soldi. SIMON E io? Mettevo da parte le mance e qualche soldino che gli toglievo di mano, e ho raggranellato cento ducati e li ho investiti al quattro 120 per cento, e ho quattro ducati in più di entrata; e quando li riscuoto, ho un gusto così grande che non posso finir di dirlo. Non per l’avarizia dei quattro ducati, ma ho gusto di poter dire: Ecco, questi li ho guadagnati da bambino. 125 LUNARDO Trovatene uno oggi che faccia così. Li buttano via, diciamo la verità, a palate. SIMON E pazienza i soldi che buttano via. Il fatto è che si rovinano in cento modi. LUNARDO E la causa di tutto è la libertà. Signorsì, quando sanno mettersi da soli i pantaloni, subito comin130 SIMON ciano a darsi da fare. LUNARDO E sapete chi glielo insegna? La loro madre. SIMON Non dite altro: ho sentito cose che mi fanno drizzare i capelli. LUNARDO Signorsì, dicono così: Povero ragazzo! Che si diverta, poveretto! volete che muoia di tristezza? Quando viene gente lo si chiama: Vieni 135 qua, figlio mio; guardi, signora Lucrezia, queste care radici, non fa venir voglia di abbracciarlo? Se sapesse come è spiritoso! Càntale quella canzonetta: dille quella bella scena di Truffaldino. Non dico tanto per parlare, ma sa fare di tutto: balla, gioca a carte, fa sonetti: ha la morosa, lo sa? Dice che si vuol sposare. È un po’ insolente, 140 ma pazienza, è ancora ragazzo, metterà giudizio. Caro lui! vieni qua, vita mia; dai un bacio alla signora Lucrezia... Via, porcherie; vergogna; donne senza giudizio. SIMON Cosa pagherei che ci fossero qua a sentire sette o otto di quelle donne che so io. 145 LUNARDO Accidenti! Mi graffierebbero gli occhi. SIMON Ho paura di sì; e così, ditemi, avete concluso il contratto con il signor Maurizio? LUNARDO Venite da me nello studio, che vi racconterò tutto. Mia moglie sarà di là con la vostra. 150 SIMON LUNARDO Non volete? 105

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SIMON LUNARDO SIMON 155 LUNARDO SIMON LUNARDO SIMON LUNARDO 160 SIMON LUNARDO SIMON LUNARDO SIMON 165 LUNARDO SIMON LUNARDO SIMON

Non ci sarà nessuno, immagino. In casa mia? Non viene nessuno senza che io lo sappia. Se sapeste! da me stamattina... basta, non dico altro. Raccontatemi... cosa è successo? Andiamo, andiamo; vi racconterò. Donne, donne e poi ancora donne. Chi dice donna, diciamo la verità, dice danno. Bravo, ben detto. Eppure, se devo dire la verità, non mi sono dispiaciute. Neanche a me veramente. Ma in casa. E soli. E con le porte chiuse. E con i balconi serrati. E tenerle sotto. E farle fare a modo nostro. E quelli che sono uomini, devono fare così. E quelli che non fanno così, non sono uomini.

Collabora all’analisi Comprendere e analizzare

La scena che mette a confronto i due «rusteghi» Lunardo e Simon è anticipata, per il divertente botta e risposta finale dei due personaggi, dalla scena v dell’atto I, in cui Lunardo dialoga con Maurizio, un altro «rustego». Evidentemente Goldoni aveva intuito l’efficacia teatrale della formula usata per la prima scena e decide di ripetere il copione con un altro interlocutore, anche per ribadire il messaggio che intende trasmettere. Nella premessa alla commedia Goldoni spiega il significato della parola «rusteghi» e allude alla difficoltà di tratteggiare quattro caratteri affini: «I Rusteghi in lingua veneziana non è lo stesso che I Rustici in lingua toscana. Noi intendiamo in Venezia per uomo rustego un uomo aspro, zotico, nemico della civiltà, della cultura, e del conversare. Si scorge dal titolo della commedia non essere un solo il protagonista, ma vari insieme, e infatti sono eglino [essi] quattro, tutti dello stesso carattere, ma con varie tinte delineati, cosa per dire il vero difficilissima, sembrando che più caratteri eguali in una stessa commedia possano più annoiare che dilettare. Questa volta mi è riuscito tutto il contrario: il pubblico si è moltissimo divertito e posso dire quest’opera una delle mie più fortunate; perché non solo in Venezia riuscì gradita, ma da per tutto, dove finora fu dai comici rappresentata. Ciò vuol dire che il costume ridicolo delle persone è conosciuto da tutti, e poco scapita [ci rimette] la commedia per il linguaggio particolare». 1. Su che cosa verte il dialogo tra Lunardo e Simon? 2. Nel dialogo fra i due «rusteghi» sono evocati altri personaggi della commedia. Indicali. 3. Per quale informazione fornita da Simon si adira Lunardo? 4. A un certo punto Lunardo minaccia di stracciare il contratto: di quale contratto si tratta e a quale consuetudine sociale rimanda? Nella parte principale del dialogo, Simon e Lunardo fanno riferimento nostalgicamente alla loro giovinezza, contrapponendo polemicamente le loro scelte di vita a quelle delle nuove generazioni. La condivisione dei comportamenti e l’identità di vedute dei due «rusteghi» ne rende sovrapponibili le figure e conferisce al dialogo quasi le caratteristiche di un monologo. 5. Sintetizza il quadro della loro austera giovinezza tratteggiato da Lunardo e Simon. A quale causa è attribuita la decadenza dei costumi dei giovani e chi ne è considerato responsabile? Se nella figura rinnovata di Pantalone (➜ T2 OL) Goldoni aveva rappresentato gli aspetti positivi della classe borghese mercantile di Venezia (concretezza, razionalità, laboriosità, attenzione ai

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propri interessi economici, congiunta però alla parsimonia), nelle figure dei «rusteghi» egli mostra il pericolo di un’involuzione di quella stessa classe, che la renderebbe inadeguata ad affrontare il confronto con una società in evoluzione e a mantenere un ruolo sociale egemone. Il «rustego» è lo sviluppo in negativo del mercante veneziano impersonificato da Pantalone; le qualità di Pantalone si trasformano qui infatti in fissazioni maniacali, che l’autore rappresenta in veste comica: la riservatezza diventa chiusura degli orizzonti mentali e culturali, la parsimonia gretta avarizia, la tutela dei valori della famiglia ottusa difesa dell’autorità patriarcale, l’onestà culto formale della reputazione. Attraverso il dialogo fra i «rusteghi» viene enunciata una visione del mondo fondata sulla gelosa tutela di un piccolo mondo chiuso che rischia di scomparire travolto dal progresso. Progresso di cui si fanno timidi portavoce i giovani, ma soprattutto le donne, come appare indirettamente anche in questo testo dalle parole dei due «rusteghi». Non di rado, nelle commedie goldoniane in cui si profila un conflitto generazionale, le donne si schierano apertamente con i giovani. In questa commedia è Felice, la più libera di esse (osa portare in casa del marito addirittura un forestiero amico del fratello), a organizzare la ribellione delle donne e dei giovani all’assurdo divieto degli uomini-mariti-padri, uniti in un fronte compatto dalla loro “rustichezza”. 6. Individua all’interno del testo il riferimento ai valori sopra citati, difesi dai due «rusteghi», che per Goldoni erano diventati disvalori. 7. Il progresso è uno dei miti illuministici: come viene presentato in questo passo, attraverso quale punto di vista e in quali comportamenti si concretizza? 8. Ora che hai letto il testo, spiega il significato del termine «rustego» che dà il titolo alla commedia. 9. Cerca di spiegare perché Lunardo e Simon sono due personaggi comici, e da che cosa deriva la scelta dell’autore di trasformare il mercante in personaggio comico. La chiusura dei «rusteghi» nei confronti di ciò che va cambiando è riflessa anche nel loro linguaggio, a cui Goldoni dedica in questa commedia particolare attenzione. Il modo di esprimersi dei «rusteghi» si condensa in brevi battute, in frasi sentenziose che riflettono la tendenza a giudizi lapidari, frasi fatte e proverbi usurati. 10. Analizza il testo sotto questo punto di vista, raccogliendo esempi significativi al proposito e quindi commenta.

Interpretare

EDUCAZIONE CIVICA

nucleo

11. Secondo te perché Goldoni ha scelto di rappresentare lo stesso tipo di personaggio in quattro figure? Per rispondere, riconduci la scelta dell’autore alle più generali finalità della riforma del teatro portata avanti da Goldoni. 12. Sviluppa un confronto critico che evidenzi le differenze fra il Pantalone della Famiglia dell’antiquario e i quattro «rusteghi». Puoi anche utilizzare il documento critico di Franco Fido proposto online.

PARITÀ DI GENERE equilibri #PROGETTOPARITÀ

Costituzione

competenza 3

13. “Chi dice donna dice danno”: è così che si esprime Lunardo con l’approvazione completa di Simon. Il giudizio sulle donne, e in particolare sulle mogli dei due protagonisti, testimonia la mentalità dell’epoca che non lasciava spazio all’interno della famiglia, e più in generale nella società, alla libertà di pensiero e azione delle donne. Da allora molta strada è stata fatta, ma ancora oggi resistono pregiudizi e stereotipi riguardo alle donne e al loro ruolo nella società. Traccia una riflessione su questo argomento, tenendo anche presente che uno degli obiettivi dell’agenda 2030 recita proprio: «Porre fine, ovunque, a ogni forma di discriminazione nei confronti di donne e ragazze».

online

Interpretazioni critiche Franco Fido Le commedie del biennio 1760-62 e la proposta di una morale borghese più moderna

I temi, l’ideologia, la lingua 4 387


5

La locandiera La locandiera è la commedia più nota e rappresentata di Goldoni, per la felice caratterizzazione dei personaggi, l’efficace affresco sociale, ma soprattutto per l’affascinante ritratto della protagonista, Mirandolina, una delle figure femminili più celebri della letteratura italiana. L’azione si svolge in una locanda di Firenze, dove s’incontrano, e si scontrano, vari personaggi con i loro particolari caratteri e le loro differenze sociali. La commedia, in tre atti, fu rappresentata con grande successo al Teatro Sant’Angelo nel gennaio 1753 con l’attrice Maddalena Marliani nel ruolo della protagonista, Mirandolina.

1 La locandiera e la nuova commedia VIDEOLEZIONE

La locandiera, che chiude la fase della collaborazione di Goldoni con il Teatro Sant’Angelo e la compagnia di Medebach (1748-1752), si inserisce pienamente nella prospettiva della riforma del teatro comico già avviata da tempo e ne costituisce anzi in assoluto una delle espressioni più convincenti. Come si è detto, Goldoni mira a realizzare un nuovo tipo di teatro comico, che non si affidi a forme grossolane e stereotipate di comicità, per quanto riguarda sia le battute (che vengono create ex novo e definite da un testo scritto) sia l’intreccio, che segue rigorosamente il principio della verosimiglianza e rifiuta facili soluzioni a effetto. L’obiettivo dell’autore è rispettare in ogni ambito della realizzazione drammaturgica il realismo, in particolare nella strutturazione dei personaggi, che rispecchiano reali tipologie sociali e “caratteri” individuali, finalmente liberi dalla dittatura delle maschere della commedia dell’arte e svincolati dall’impersonare “tipi” fissi. Tuttavia, come si è detto, Goldoni non rifiuta in blocco gli espedienti, di sicura presa sul pubblico, della tradizione teatrale della commedia dell’arte; piuttosto li rivitalizza, li adatta a nuove funzioni, assegnandovi una specifica funzione strutturale all’interno della nuova commedia (ne è un esempio la scena dello svenimento di Mirandolina, che apparteneva a un tradizionale repertorio di situazioni). Allo stesso modo Goldoni rinnova dall’interno le maschere e le figure che il pubblico amava riconoscere quando andava a teatro. Tutti gli aspetti indicati sono presenti nella LocandieJean-Etienne Liotard, La cioccolataia, 1744 (Dresda, Gemäldegalerie Alte Meister). ra, di cui Goldoni era molto soddisfatto e che

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ebbe grande successo. Goldoni ricorda nelle sue Memorie: «Forse in Italia mi hanno lusingato, ma mi hanno fatto credere che niente avevo scritto di più naturale e di meglio condotto e che trovavano l’azione sostenuta alla perfezione e compiuta».

2 La vicenda e i personaggi La vicenda Mirandolina gestisce una locanda con l’aiuto del cameriere Fabrizio; intorno a lei ruotano due galanti corteggiatori, da tempo ospiti della locanda, che rappresentano uno spaccato della società del tempo: il conte d’Albafiorita e il marchese di Forlipopoli. Il primo (di nobiltà recente e assai ricco) tenta di conquistare Mirandolina con doni costosi, il secondo (altezzoso e spiantato) ha da offrirle solo la sua protezione e il suo prestigio sociale. Grazie al gioco smaliziato di Mirandolina, che si destreggia abilmente senza concedersi a nessuno, si crea tra i due personaggi una situazione di sostanziale equilibrio, animato da innocui battibecchi. L’arrivo di un altro cliente, il cavaliere di Ripafratta, inevitabilmente modifica il triangolo che si è creato: scontroso e fieramente misogino, il cavaliere disprezza le donne sebbene non le conosca veramente, e schernisce come «poveri gonzi» il marchese e il conte perché non sanno smascherare l’interessata civetteria della locandiera. Il cavaliere ostenta a tal punto il suo atteggiamento di disprezzo che Mirandolina, risentita, decide di umiliare il suo ospite e «di far altrui vedere come si innamorano gli uomini». Nel duello con il supponente cavaliere di Ripafratta, Mirandolina userà arti particolarmente sofisticate; ma la strategia vincente sarà soprattutto quella di fingere di condividere il disprezzo del cavaliere per le debolezze e le malizie femminili. Disorientato, il cavaliere comincia a essere affascinato dall’astuta locandiera che lo colma di straordinarie premure, facendogli credere che sono destinate a lui solo. Alla fine il cavaliere cede e si innamora perdutamente della locandiera. Mirandolina gode per poco della sua vittoria: si accorge infatti di essersi spinta troppo oltre nel suo gioco seduttivo con il cavaliere, rischiando di perdere la sua reputazione e il controllo della situazione. Abbandona allora la finzione e congeda con decisione i suoi ospiti, dopo aver annunciato pubblicamente la sua decisione di sposare il fedele cameriere Fabrizio. L’ambientazione La commedia è ambientata a Firenze, ma si tratta di un accorgimento prudenziale per evitare le polemiche che inevitabilmente il testo è destinato a suscitare negli ambienti tradizionalisti della società e della cultura veneziana. In realtà la scena potrebbe benissimo essere spostata a Venezia. L’azione si svolge esclusivamente in un interno, ovvero una locanda, dove soggiornano per periodi più o meno lunghi dei clienti. L’ambientazione della commedia corrisponde quindi a un luogo del tutto reale, come del tutto realistiche sono le occupazioni quotidiane di chi gestisce la locanda: cambiare la biancheria, cucinare, servire il pranzo, stirare, preparare i conti a chi si dispone a lasciare la locanda. I personaggi Il numero dei personaggi è piuttosto limitato e questa scelta ne consente una maggior caratterizzazione. A parte le due attrici Dejanira e Ortensia, che non appaiono individualmente definite nella loro personalità proprio perché devono rappresentare in un certo senso le “maschere” della vecchia commedia e i La locandiera 5 389


loro stereotipi linguistici, i personaggi principali, tutti tratteggiati con grande attenzione, sono cinque. Due di essi appartengono stabilmente al microcosmo della locanda in quanto la gestiscono: la locandiera Mirandolina e il cameriere Fabrizio. Gli altri tre sono gli ospiti della locanda, tutti appartenenti al ceto nobiliare e tutti e tre, prima o poi, innamorati della bella locandiera. Per quanto riguarda questi ultimi, Goldoni anticipa per certi versi nella Locandiera la sottile analisi di un’intera categoria sociale (in questo caso la nobiltà) realizzata attraverso diversi campioni rappresentativi, che culminerà qualche anno dopo nella splendida rappresentazione dei quattro rusteghi (in questo caso, la borghesia mercantile ➜ T3 ). Il ritratto negativo della nobiltà Della nobiltà viene fornito nella Locandiera un ritratto complessivamente negativo: i tre nobili mostrano in modo diverso un contegno comunque arrogante, si esprimono in un linguaggio innaturale e altisonante, credono nell’assoluta superiorità della loro classe e trattano con sufficienza e supponenza chi considerano subalterno. Tutti vivono una vita che si intuisce oziosa, contrapposta alle attività di chi lavora per servirli. Dei tre, Goldoni analizza poi finemente le differenze comportamentali: il marchese rappresenta il nobile decaduto e impoverito, attaccato pateticamente ai suoi antichi privilegi; il conte un esempio di nobiltà acquisita e sostenuta grazie a una ricchezza volgarmente ostentata; il cavaliere è un orgoglioso misogino che si ritiene superiore a tutti e che finirà crudelmente beffato da Mirandolina. Fabrizio, un servo “rivisitato” I personaggi in cui maggiormente si misura la portata della riforma goldoniana, proprio perché derivano da figure della tradizione teatrale, sono Fabrizio e soprattutto Mirandolina. Fabrizio deriva dal tradizionale personaggio del servo, ma è di fatto un personaggio costruito ex novo: non ha nulla di comico, vive all’ombra di Mirandolina, che spera prima o poi di sposare (come il padre di lei, morendo, aveva chiesto). Ne è affascinato, ma è anche succube dei suoi capricci, dei suoi sbalzi di umore, è preda di una costante incertezza. Peraltro non manca in Fabrizio una componente pragmatica e un’ottica utilitaristica che lo accomuna alla sua padrona: «Ella mi piace, le voglio bene, accomoderei con essa i miei interessi per tutto il tempo di vita mia. Ah! Bisognerà chiuder un occhio, e lasciar correre qualche cosa» (atto I, scena x). Mirandolina, un personaggio moderno Anche Mirandolina deriva da un personaggio tradizionale, quello della servetta della commedia dell’arte, chiamata Smeraldina o Colombina (Maddalena Marliani che la impersonificò era appunto specializzata in questo ruolo e presumibilmente, come fece in altre occasioni, Goldoni ideò il personaggio secondo le competenze e l’abilità dell’attrice). Ma gli spettatori che si fossero aspettati le moine della maschera di certo saranno rimasti sconcertati: Mirandolina è infatti uno dei personaggi più moderni e complessi creati da Goldoni, e sono tuttora aperte le interpretazioni critiche sulla reale natura di questo straordinario personaggio femminile (➜ INTERPRETAZIONI CRITICHE A CONFRONTO, PAG. 422). Mirandolina è caratterizzata da una visione sempre concreta e razionale, tutela soprattutto i suoi interessi (vera rappresentante in questo dell’ottica borghese, contrapposta alla dissipata e inconcludente nobiltà), non indulge a cedimenti sentimentali, sembra addirittura refrattaria all’amore, nonostante professi di voler bene a Fabrizio e alla fine decida di sposarlo. Per vendetta e per una sorta di bisogno narcisistico seduce il cavaliere misogino, umilia in lui la tracotanza nobiliare e poi rivela spietatamente il suo gioco.

390 Settecento 10 Carlo Goldoni


3 La struttura drammaturgica Il ruolo dei tre atti La locandiera è divisa in tre atti di ampiezza pressoché uguale, ben equilibrati nel loro rapporto: il ruolo del primo atto è quello di preparare il clima e il contesto della vicenda, presentare i personaggi, che compaiono già tutti in scena, e proporre il tema centrale, che ruota sul rapporto conflittuale tra Mirandolina e il cavaliere di Ripafratta e sulla sfida messa in atto dalla locandiera nei suoi confronti. Il secondo atto sviluppa propriamente l’azione, portando a compimento il tema della seduzione del cavaliere da parte di Mirandolina. Il terzo vede il ritorno della locandiera, almeno in apparenza, alla sua posizione iniziale: ottenuta la vittoria sul cavaliere, non è più interessata a lui e vorrebbe riprendere come niente fosse la sua attività. Ma la passione del cavaliere la mette in difficoltà e la costringe a ripiegare, per ragioni di sicurezza e di opportunità, sul “tranquillo” matrimonio con Fabrizio: un finale solo in apparenza lieto, in realtà ambiguo come è ambiguo il personaggio di Mirandolina. Gli “a parte” e i monologhi In questa commedia è molto sapiente l’alternanza fra scene dialogate e monologhi o battute “a parte”. All’evoluzione della vicenda affidata ai dialoghi, si associano le informazioni supplementari, in questo caso molto ricche, fornite dagli “a parte” che ospitano a volte una verità diversa da quella enunciata nei dialoghi, o delle sottili notazioni psicologiche che arricchiscono la caratterizzazione dei personaggi (➜ T5b ). Ai monologhi infine, spesso collocati in una posizione strategica all’interno dell’atto (➜ T4c - T6b ), Goldoni affida la funzione di un commento rivelatore sulle reali dinamiche che ispirano le azioni dei personaggi (in particolare ciò vale per i monologhi di Mirandolina, che ne svelano la natura di personaggio complesso). La prefazione alla commedia e il significato dell’opera per Goldoni Nella prefazione Goldoni, forse consapevole della novità del testo e della possibilità (tutt’altro che remota) d’essere accusato di immoralità dal pubblico e dai commediografi più tradizionalisti, si premura di attribuire alla sua commedia una finalità particolarmente educativa: «Fra tutte le Commedie da me composte, starei per dire essere questa la più morale, la più utile, la più istruttiva». Poi sintetizza l’intreccio, mettendo in primo piano l’azione seduttiva della locandiera verso il cavaliere, ed esibisce i meccanismi della composizione del testo quando confessa le difficoltà (poi risolte) incontrate nell’ideazione del terzo atto: «Io non sapea quasi cosa mi fare nel terzo, ma venutomi in mente che sogliono coteste lusinghiere donne, quando vedono ne’ loro lacci gli amanti, aspramente trattarli, ho voluto dar un esempio di questa barbara crudeltà, di questo ingiurioso disprezzo con cui si burlano dei miserabili che hanno vinti, per mettere in orrore la schiavitù che si procurano gli sciagurati, e rendere odioso il carattere delle incantatrici Sirene...». Dunque Goldoni cerca di orientare in una certa direzione la lettura del testo presentando in una luce negativa il personaggio di Mirandolina, concepito, a suo dire, per stigmatizzare certi comportamenti femminili.

Un’edizione della Locandiera.

La locandiera 5 391


T4

La locandiera, atto I Nel primo atto sono già introdotti tutti i personaggi della commedia ed esposti i temi che troveranno sviluppo nel corso di essa: innanzitutto lo scontro costante tra il conte d’Albafiorita e il marchese di Forlipopoli per conquistare il cuore della bella Mirandolina, di cui entrambi sono invaghiti. Il marchese, che non può esibire ricchezze, è ridotto ormai quasi alla povertà (tutto quello che riesce a regalare alla giovane è un fazzolettino), mentre il conte, un ricco parvenu che ha comprato il titolo nobiliare, cerca di accattivarsi i favori della locandiera con doni preziosi che la donna accetta con sufficienza. I due vengono derisi dal cavaliere di Ripafratta, che dichiara di essere insensibile al fascino femminile e di disprezzare le donne. Il carattere deciso e indipendente, lo spirito pragmatico e calcolatore di Mirandolina già si delinea in varie scene del primo atto, in relazione sia ai due pretendenti, sia a Fabrizio. Nella scena xv inizia la manovra seduttiva nei confronti del cavaliere superbo e arrogante, nella quale già emerge il volto di abilissima attrice di Mirandolina.

Personaggi Il cavaliere di Ripafratta Il marchese di Forlipopoli Il conte d’Albafiorita Mirandolina, locandiera Ortensia, Dejanira, comiche Fabrizio, cameriere di locanda Servitore del cavaliere Servitore del conte

Carlo Goldoni

T4a

Il marchese di Forlipopoli e il conte d’Albafiorita a confronto

EDUCAZIONE CIVICA

nucleo Sviluppo economico e sostenibilità competenza 5, 8

La locandiera I, i C. Goldoni, La locandiera, in Commedie, a c. di G. Davico Bonino, vol. I, Garzanti, Milano 1976

La commedia si apre senza preamboli sul diverbio fra i due aristocratici, ospiti della locanda: lo spiantato marchese di Forlipopoli e il conte d’Albafiorita, la cui nobiltà recente è compensata da un cospicuo patrimonio. I due litigano a proposito di Mirandolina, la padrona della locanda, manifestando punti di vista diversi che appartengono, più che al singolo individuo, all’ottica della categoria sociale di cui sono portavoce.

Scena prima Sala di locanda. Il marchese di Forlipopoli ed il conte d’Albafiorita. MARCHESE Fra voi e me vi è qualche differenza. CONTE Sulla locanda1 tanto vale il vostro denaro, quanto vale il mio. MARCHESE Ma se la locandiera usa a me delle distinzioni2, mi si convengono3 più che a voi. 1 Sulla locanda: dentro la locanda.

392 Settecento 10 Carlo Goldoni

2 distinzioni: cortesie particolari.

3 mi si convengono: mi si addicono.


5 CONTE

Per qual ragione? MARCHESE Io sono il marchese di Forlipopoli. CONTE Ed io sono il conte d’Albafiorita. MARCHESE Sì, conte! Contea comprata. CONTE Io ho comprata la contea, quando voi avete venduto il marchesato. 10 MARCHESE Oh basta: son chi sono, e mi si deve portar rispetto. CONTE Chi ve lo perde il rispetto? Voi siete quello, che con troppa libertà parlando... MARCHESE Io sono in questa locanda, perché amo la locandiera. Tutti lo sanno, e tutti devono rispettare una giovane che piace a me. 15 CONTE Oh, questa è bella! Voi mi vorreste impedire ch’io amassi Mirandolina? Perché credete ch’io sia in Firenze? Perché credete ch’io sia in questa locanda? MARCHESE Oh bene. Voi non farete niente. CONTE Io no, e voi sì? 20 MARCHESE Io sì, e voi no. Io son chi sono. Mirandolina ha bisogno della mia protezione. CONTE Mirandolina ha bisogno di denari, e non di protezione. MARCHESE Denari?... non ne mancano. CONTE Io spendo uno zecchino4 il giorno, signor marchese, e la regalo5 25 continuamente. MARCHESE Ed io quel che fo non lo dico. CONTE Voi non lo dite, ma già si sa. MARCHESE Non si sa tutto. CONTE Sì, caro signor marchese, si sa. I camerieri lo dicono. Tre paoletti6 30 il giorno. MARCHESE A proposito di camerieri; vi è quel cameriere che ha nome Fabrizio, mi piace poco. Parmi che la locandiera lo guardi assai di buon occhio. CONTE Può essere che lo voglia sposare. Non sarebbe cosa mal fatta. Sono 35 sei mesi che è morto il di lei padre. Sola una giovane alla testa di una locanda si troverà imbrogliata. Per me, se si marita, le ho promesso trecento scudi7. MARCHESE Se si mariterà, io sono il suo protettore, e farò io... E so io quello che farò. 40 CONTE Venite qui: facciamola da buoni amici. Diamole trecento scudi per uno. MARCHESE Quel ch’io faccio, lo faccio segretamente8, e non me ne vanto. Son chi sono. Chi è di là? (chiama) CONTE (Spiantato! Povero e superbo!) (da sé)

4 zecchino: moneta d’oro in uso a Venezia. 5 la regalo: le faccio dei regali. 6 paoletti: il paolo era una moneta d’ar-

gento (fatta coniare da papa Paolo III, da cui il nome) che valeva molto meno dello zecchino.

7 scudi: moneta veneziana che valeva circa quattro volte il paolo. 8 segretamente: con riservatezza.

La locandiera 5 393


Scena ii Si presenta il cameriere Fabrizio, che assiste Mirandolina nella conduzione della locanda; nutre la speranza di poterla prima o poi sposare, ma deve fare i conti con i progetti e i capricci della bella padrona, che lo tiene sulla corda con vaghe promesse. Scene iii-iv Dopo un breve dialogo fra il conte e il marchese, fa il suo ingresso l’ultimo personaggio maschile della commedia, a cui è affidato il ruolo principale per la conflittuale relazione che istituirà con la protagonista: si tratta del cavaliere di Ripafratta. Sprezzatore delle donne e delle loro moine, il cavaliere demitizza e ridicolizza le smanie amorose dei due ospiti: Mirandolina è per lui una donna come tutte le altre e non merita nessuna particolare attenzione.

Carlo Goldoni

T4b

L’entrata in scena della protagonista La locandiera I, v

C. Goldoni, La locandiera, in Commedie, a c. di G. Davico Bonino, vol. I, Garzanti, Milano 1976

Entra finalmente in scena la protagonista, ma lo spettatore (e il lettore) sa già qualcosa di lei dagli altri personaggi. Fin dall’inizio Mirandolina mostra la sua capacità professionale nel destreggiarsi abilmente tra i suoi clienti: accetta solo per cortesia un paio di preziosi orecchini di diamanti che le vengono offerti dal conte e tiene al suo posto il marchese. Solo il cavaliere le si rivolge con disprezzo e arroganza, chiedendole una biancheria più fine, adatta al suo stato.

Scena quinta Mirandolina e detti. MIRANDOLINA M’inchino a questi cavalieri. Chi mi domanda di lor signori? MARCHESE Io vi domando, ma non qui. MIRANDOLINA Dove mi vuole, Eccellenza? MARCHESE Nella mia camera. 5 MIRANDOLINA Nella sua camera? Se ha bisogno di qualche cosa, verrà il cameriere a servirla. MARCHESE (Che dite di quel contegno?) (al cavaliere) CAVALIERE (Quello che voi chiamate contegno, io lo chiamerei temerità1, impertinenza.) (al marchese) 10 CONTE Cara Mirandolina, io vi parlerò in pubblico, non vi darò l’incomodo di venire nella mia camera. Osservate questi orecchini. Vi piacciono? MIRANDOLINA Belli. CONTE Sono diamanti, sapete? MIRANDOLINA Oh, li conosco. Me ne intendo anch’io dei diamanti. 15 CONTE E sono al vostro comando2. CAVALIERE (Caro amico, voi li buttate via.) (piano al conte) MIRANDOLINA Perché mi vuol ella donare quegli orecchini? MARCHESE Veramente sarebbe un gran regalo! Ella ne ha de’ più belli al doppio. CONTE Questi sono legati alla moda3. Vi prego riceverli per amor mio. 1 temerità: avventatezza, ardimento eccessivo.

394 Settecento 10 Carlo Goldoni

2 sono al vostro comando: sono vostri. 3 legati alla moda: incastonati come vuo-

le la moda.


CAVALIERE (Oh che pazzo!) (da sé) MIRANDOLINA No, davvero, signore... CONTE Se non li prendete, mi disgustate4. MIRANDOLINA Non so che dire... mi preme tenermi amici gli avventori della mia locanda. Per non disgustare il signor conte, li prenderò. (Oh che forca5!) (da sé) 25 CAVALIERE CONTE (Che dite di quella prontezza di spirito?) (al cavaliere) CAVALIERE (Bella prontezza! Ve li mangia, e non vi ringrazia nemmeno.) (al conte) MARCHESE Veramente, signor conte, vi siete acquistato un gran merito. Regalare una donna in pubblico6, per vanità! Mirandolina, vi ho da 30 parlare a quattr’occhi, fra voi e me: son cavaliere. MIRANDOLINA (Che arsura7! Non gliene cascano.) (da sé) Se altro non mi comandano, io me n’anderò. CAVALIERE Ehi! padrona. La biancheria che mi avete dato, non mi gusta8. Se non ne avete di meglio, mi provvederò9. (con disprezzo) 35 MIRANDOLINA Signore, ve ne sarà di meglio. Sarà servita, ma mi pare che la potrebbe chiedere con un poco di gentilezza. CAVALIERE Dove spendo il mio denaro, non ho bisogno di far complimenti. CONTE Compatitelo. Egli è nemico capitale delle donne. (a Mirandolina) Eh, che non ho bisogno d’essere da lei compatito. 40 CAVALIERE MIRANDOLINA Povere donne! che cosa le hanno fatto? Perché così crudele con noi, signor cavaliere? CAVALIERE Basta così. Con me non vi prendete maggior confidenza. Cambiatemi la biancheria. La manderò a prender pel10 servitore. Amici, vi sono schiavo11. (parte) 45 20

Scene vi-viii In una serie di brevissime scene intermedie si ripropongono le vivaci schermaglie tra il conte e il marchese.

Pietro Longhi, La polenta (particolare), olio su tela, 1740 (Venezia, Museo Ca’ Rezzonico). 4 mi disgustate: mi fate un’offesa personale. 5 che forca: che malandrina. 6 Regalare una donna in pubblico: fare un regalo a una donna davanti agli altri (il marchese nota il cattivo gusto del suo

ricco rivale). 7 Che arsura: che taccagneria. 8 non mi gusta: non mi piace. 9 mi provvederò: me ne procurerò (a mie spese).

10 pel: dal. 11 vi sono schiavo: formula di cortese saluto.

La locandiera 5 395


Carlo Goldoni

T4c

Il primo monologo di Mirandolina

EDUCAZIONE CIVICA

PARITÀ DI GENERE equilibri

nucleo Costituzione competenza 3

#PROGETTOPARITÀ

La locandiera I, ix C. Goldoni, La locandiera, in Commedie, a c. di G. Davico Bonino, vol. I, Garzanti, Milano 1976

AUDIOLETTURA

In un celebre monologo, una delle scene più note dell’opera, Mirandolina enuncia con chiarezza la sua disincantata, se non addirittura cinica, visione del mondo.

Scena nona Mirandolina sola. MIRANDOLINA Uh, che mai ha detto1! L’eccellentissimo signor marchese Arsura2 mi sposerebbe? Eppure, se mi volesse sposare, vi sarebbe una piccola difficoltà. Io non lo vorrei. Mi piace l’arrosto, e del fumo non so che farne. Se avessi sposati tutti quelli che hanno detto volermi, 5 oh, avrei pure tanti mariti! Quanti arrivano a questa locanda, tutti di me s’innamorano, tutti mi fanno i cascamorti; e tanti e tanti mi esibiscono3 di sposarmi a dirittura. E questo signor cavaliere, rustico come un orso, mi tratta sì bruscamente? Questi è il primo forestiere capitato alla mia locanda, il quale non abbia avuto pia10 cere di trattare con me. Non dico che tutti in un salto s’abbiano a innamorare: ma disprezzarmi così? è una cosa che mi muove la bile terribilmente. È nemico delle donne? Non le può vedere? Povero pazzo! Non avrà ancora trovato quella che sappia fare. Ma la troverà. La troverà. E chi sa che non l’abbia trovata? Con 15 questi per l’appunto mi ci metto di picca4. Quei che mi corrono dietro, presto presto mi annoiano. La nobiltà non fa per me. La ricchezza la stimo e non la stimo. Tutto il mio piacere consiste in vedermi servita, vagheggiata, adorata. Questa è la mia debolezza, e questa è la debolezza di quasi tutte le donne. A maritarmi non 20 ci penso nemmeno; non ho bisogno di nessuno; vivo onestamente, e godo la mia libertà. Tratto con tutti, ma non m’innamoro mai di nessuno. Voglio burlarmi di tante caricature di amanti spasimati; e voglio usar tutta l’arte per vincere, abbattere e conquassare5 quei cuori barbari e duri che son nemici di noi, che siamo la miglior 25 cosa che abbia prodotto al mondo la bella madre natura.

François Boucher, Donna in piedi vista di spalle, 1742, incisione.

396 Settecento 10 Carlo Goldoni

1 che mai ha detto: nella scena precedente (qui non riportata) il marchese aveva dichiarato che se avesse avuto dei denari come il conte avrebbe sposato la locandiera. 2 marchese Arsura: marchese Taccagneria. Il termine arsura era già stato usato da Mirandolina in riferimento all’avarizia del marchese. 3 mi esibiscono: si offrono. 4 di picca: di puntiglio. 5 conquassare: scuotere violentemente, fracassare.


T4d

Carlo Goldoni

LEGGERE LE EMOZIONI

Il confronto tra Fabrizio e Mirandolina

EDUCAZIONE ALLE RELAZIONI

EDUCAZIONE CIVICA

PARITÀ DI GENERE equilibri

La locandiera I, x C. Goldoni, La locandiera, in Commedie, a c. di G. Davico Bonino, vol. I, Garzanti, Milano 1976

nucleo Costituzione competenza 3

#PROGETTOPARITÀ

Mirandolina ha con Fabrizio un vivace scambio di idee, che serve a delineare ancor più la complessa, sfaccettata personalità della protagonista.

Scena decima Fabrizio e detta. AUDIOLETTURA

FABRIZIO Ehi Padrona. MIRANDOLINA Che cosa c’è? FABRIZIO Quel forestiere che è alloggiato nella camera di mezzo, grida della biancheria; dice che è ordinaria, e che non la vuole. 5 MIRANDOLINA Lo so, lo so. Lo ha detto anche a me, e lo voglio servire. FABRIZIO Benissimo. Venitemi dunque a metter fuori la roba, che gliela possa portare. MIRANDOLINA Andate, andate, gliela porterò io. FABRIZIO Voi gliela volete portare? 10 MIRANDOLINA Sì, io. FABRIZIO Bisogna che vi prema molto questo forestiere. MIRANDOLINA Tutti mi premono. Badate a voi. FABRIZIO (Già me n’avvedo. Non faremo niente. Ella mi lusinga; ma non faremo niente.) (da sé) 15 MIRANDOLINA (Povero sciocco! Ha delle pretensioni1. Voglio tenerlo in isperanza, perché mi serva con fedeltà.) (da sé) FABRIZIO Si è sempre costumato2, che i forestieri li serva io. MIRANDOLINA Voi con i forestieri siete un poco troppo ruvido. FABRIZIO E voi siete un poco troppo gentile. 20 MIRANDOLINA So quel che fo, non ho bisogno di correttori. FABRIZIO Bene, bene. Provvedetevi di cameriere. MIRANDOLINA Perché, signor Fabrizio? è disgustato di me? FABRIZIO Vi ricordate voi che cosa ha detto a noi due vostro padre, prima ch’egli morisse? 25 MIRANDOLINA Sì; quando mi vorrò maritare, mi ricorderò di quel che ha detto mio padre. FABRIZIO Ma io son delicato di pelle3, certe cose non le posso soffrire. MIRANDOLINA Ma che credi tu ch’io mi sia? Una frasca4? Una civetta5? Una pazza? Mi maraviglio di te. Che voglio fare io dei forestieri che vanno e 30 vengono? Se li tratto bene, lo fo per mio interesse, per tener in credito la mia locanda. De’ regali non ne ho bisogno. Per far all’amore6? Uno mi basta: e questo non mi manca; e so chi merita, e so quello che mi conviene. E quando vorrò maritarmi... mi ricor-

1 pretensioni: pretese. 2 Si è sempre costumato: c’è sempre stata

4 frasca: donna leggera. 5 civetta: donna vanitosa che cerca di attira-

l’abitudine. 3 delicato di pelle: suscettibile.

6 far all’amore: fino all’inizio del Nove-

re l’attenzione e l’ammirazione degli uomini.

cento circa l’espressione non ha il significato odierno, ma significa più o meno “far la corte (a qualcuno), corteggiarsi”.

La locandiera 5 397


derò di mio padre. E chi mi averà servito bene, non potrà lagnarsi di me. Son grata. Conosco il merito... Ma io non son conosciuta. Basta, Fabrizio, intendetemi, se potete. (parte) FABRIZIO Chi può intenderla, è bravo davvero. Ora pare che la mi voglia, ora che la non mi voglia. Dice che non è una frasca, ma vuol far a suo modo. Non so che dire. Staremo a vedere. Ella mi piace, le voglio bene, accomoderei con essa i miei interessi per tutto il tem40 po di vita mia. Ah! bisognerà chiuder un occhio, e lasciar correre qualche cosa. Finalmente7 i forestieri vanno e vengono. Io resto sempre. Il meglio sarà sempre per me. (parte) 35

Scene xii-xiv La scena si sposta alla stanza del cavaliere di Ripafratta. Lo spiantato marchese si fa prestare dei soldi dal cavaliere. 7 Finalmente: alla fin fine.

Carlo Goldoni

T4e

L’inizio della sfida di Mirandolina al cavaliere misogino La locandiera I, xv-xvi

C. Goldoni, La locandiera, in Commedie, a c. di G. Davico Bonino, vol. I, Garzanti, Milano 1976

Si verifica il primo vero confronto tra Mirandolina e il cavaliere. La locandiera mette in atto le sue prime strategie per conquistare il nobiluomo: gli fornisce della biancheria di pregio, protesta la sua sincerità, enuncia il suo compatimento per le debolezze, ben poco virili, dei suoi due pretendenti, elogia il cavaliere per essere un vero uomo, che «non è effeminato, [...] non è di quelli che s’innamorano». Alla scena segue il breve “a solo” del cavaliere, che già mostra qualche segno di debolezza. Mirandolina gli appare di certo diversa dalle altre: magari potrebbe anche divertirsi con lei, ma non innamorarsi.

Scena quindicesima Mirandolina colla biancheria, e detto. MIRANDOLINA Permette, illustrissimo? (entrando con qualche soggezione) CAVALIERE Che cosa volete? (con asprezza) MIRANDOLINA Ecco qui della biancheria migliore. (s’avanza un poco) CAVALIERE Bene. Mettetela lì. (accenna il tavolino) 5 MIRANDOLINA La supplico almeno degnarsi vedere se è di suo genio1. CAVALIERE Che roba è? MIRANDOLINA Le lenzuola sono di rensa2. (s’avanza ancor più) CAVALIERE Rensa? MIRANDOLINA Sì signore, di dieci paoli al braccio. Osservi. 10 CAVALIERE Non pretendevo tanto. Bastavami qualche cosa meglio di quel che mi avete dato. 1 genio: gradimento; più sotto (r. 37), vale “gradimento”. 2 rensa: tessuto di lino, bianco e pregiato.

398 Settecento 10 Carlo Goldoni


MIRANDOLINA Questa biancheria l’ho fatta per personaggi di merito: per quelli che la sanno conoscere; e in verità, illustrissimo, la do per esser lei, ad un altro non la darei. Per esser lei! Solito complimento. 15 CAVALIERE MIRANDOLINA Osservi il servizio di tavola. CAVALIERE Oh! Queste tele di Fiandra, quando si lavano, perdono assai. Non vi è bisogno che le insudiciate per me. MIRANDOLINA Per un cavaliere della sua qualità, non guardo a queste piccole cose. Di queste salviette ne ho parecchie, e le serberò per V.S. illustrissima. 20 CAVALIERE (Non si può però negare, che costei non sia una donna obbligante). (da sé) MIRANDOLINA (Veramente ha una faccia burbera da non piacergli le donne). (da sé) CAVALIERE Date la mia biancheria al mio cameriere, o ponetela lì, in qualche luogo. Non vi è bisogno che v’incomodiate per questo. 25 MIRANDOLINA Oh, io non m’incomodo mai, quando servo cavaliere di sì alto merito. CAVALIERE Bene, bene, non occorr’altro. (Costei vorrebbe adularmi. Donne! Tutte così). (da sé) MIRANDOLINA La metterò nell’arcova3. Sì, dove volete. (con serietà) 30 CAVALIERE MIRANDOLINA (Oh! vi è del duro. Ho paura di non far niente). (da sé; va a riporre la biancheria) CAVALIERE (I gonzi sentono queste belle parole, credono a chi le dice, e cascano). (da sé) 35 MIRANDOLINA A pranzo, che cosa comanda? (ritornando senza la biancheria) CAVALIERE Mangerò quello che vi sarà. MIRANDOLINA Vorrei pur sapere il suo genio. Se le piace una cosa più dell’altra, lo dica con libertà. CAVALIERE Se vorrò qualche cosa, lo dirò al cameriere. 40 MIRANDOLINA Ma in queste cose gli uomini non hanno l’attenzione e la pazienza che abbiamo noi donne. Se le piacesse qualche intingoletto, qualche salsetta, favorisca di dirlo a me. CAVALIERE Vi ringrazio: ma né anche per questo verso vi riuscirà di far con me quello che avete fatto col conte e col marchese. Che dice della debolezza di quei due cavalieri? Vengono alla lo45 MIRANDOLINA canda per alloggiare, e pretendono poi di voler far all’amore colla locandiera. Abbiamo altro in testa noi, che dar retta alle loro ciarle. Cerchiamo di fare il nostro interesse; se diamo loro delle buone parole, lo facciamo per tenerli a bottega; e poi, io principalmente, quando vedo che si lusingano, rido come una pazza. 50 CAVALIERE Brava! Mi piace la vostra sincerità. MIRANDOLINA Oh! non ho altro di buono, che la sincerità. CAVALIERE Ma però, con chi vi fa la corte, sapete fingere. MIRANDOLINA Io fingere? Guardimi il cielo. Domandi un poco a quei due signori che fanno gli spasimati4 per me, se ho mai dato loro un segno 55 d’affetto. Se ho mai scherzato con loro in maniera che si potessero 3 arcova: luogo della camera chiuso da tendaggi dove si trovava il letto. 4 spasimati: spasimanti.

La locandiera 5 399


lusingare con fondamento. Non li strapazzo, perché il mio interesse non lo vuole, ma poco meno. Questi uomini effeminati non li posso vedere. Sì come abborrisco anche le donne, che corrono dietro agli uomini. Vede? Io non sono una ragazza. Ho qualche annetto; non 60 son bella, ma ho avute delle buone occasioni; eppure non ho mai voluto maritarmi, perché stimo infinitamente la mia libertà. CAVALIERE Oh sì, la libertà è un gran tesoro. MIRANDOLINA E tanti la perdono scioccamente. So ben io quel che faccio. Alla larga. 65 CAVALIERE MIRANDOLINA Ha moglie V. S. illustrissima? CAVALIERE Il cielo me ne liberi. Non voglio donne. MIRANDOLINA Bravissimo. Si conservi sempre così. Le donne, signore... Basta, a me non tocca a dirne male. Voi siete per altro la prima donna, ch’io senta parlar così. 70 CAVALIERE MIRANDOLINA Le dirò: noi altre locandiere vediamo e sentiamo delle cose assai; e in verità compatisco quegli uomini che hanno paura del nostro sesso. CAVALIERE (È curiosa costei). (da sé) MIRANDOLINA Con permissione di V. S. illustrissima. (finge voler partire) Avete premura di partire? 75 CAVALIERE MIRANDOLINA Non vorrei esserle importuna. CAVALIERE No, mi fate piacere; mi divertite. MIRANDOLINA Vede, signore? Così fo con gli altri. Mi trattengo qualche momento; sono piuttosto allegra, dico delle barzellette per divertirli, ed essi subito credono... Se la m’intende, e’ mi fanno i cascamorti. 80 CAVALIERE Questo accade, perché avete buona maniera. MIRANDOLINA Troppa bontà, illustrissimo. (con una riverenza) CAVALIERE Ed essi s’innamorano. MIRANDOLINA Guardi che debolezza! Innamorarsi subito di una donna! Questa io non l’ho mai potuta capire. 85 CAVALIERE MIRANDOLINA Bella fortezza! Bella virilità! CAVALIERE Debolezze! Miserie umane! MIRANDOLINA Questo è il vero pensare degli uomini. Signor cavaliere, mi porga la mano. Perché volete ch’io vi porga la mano? 90 CAVALIERE MIRANDOLINA Favorisca; si degni; osservi, sono pulita. CAVALIERE Ecco la mano. MIRANDOLINA Questa è la prima volta, che ho l’onore d’aver per la mano un uomo, che pensa veramente da uomo. Via, basta così. (ritira la mano) 95 CAVALIERE MIRANDOLINA Ecco. Se io avessi preso per la mano uno di que’ due signori sguaiati5, avrebbe tosto creduto ch’io spasimassi per lui. Sarebbe andato in deliquio6. Non darei loro una semplice libertà, per tutto l’oro del mondo. Non sanno vivere. Oh benedetto il conversare alla libera! senza attacchi, senza malizia, senza tante ridicole sciocche100 rie. Illustrissimo, perdoni la mia impertinenza. Dove posso servirla, 5 sguaiati: senza decoro. 6 deliquio: perdita dei sensi.

400 Settecento 10 Carlo Goldoni


mi comandi con autorità, e avrò per lei quell’attenzione, che non ho mai avuto per alcuna persona di questo mondo. CAVALIERE Per quale motivo avete tanta parzialità per me? Perché, oltre il suo merito, oltre la sua condizione, sono almeno 105 MIRANDOLINA sicura che con lei posso trattare con libertà, senza sospetto che voglia fare cattivo uso delle mie attenzioni, e che mi tenga in qualità di serva, senza tormentarmi con pretensioni ridicole, con caricature affettate. (Che diavolo ha costei di stravagante, ch’io non capisco!). (da sé) 110 CAVALIERE MIRANDOLINA (Il satiro7 si anderà a poco a poco addomesticando). (da sé) CAVALIERE Orsù, se avete da badare alle cose vostre, non restate per me. MIRANDOLINA Sì signore, vado ad attendere alle faccende di casa. Queste sono i miei amori, i miei passatempi. Se comanderà qualche cosa, manderò il cameriere. 115 CAVALIERE Bene... Se qualche volta verrete anche voi, vi vedrò volentieri. MIRANDOLINA Io veramente non vado mai nelle camere dei forestieri, ma da lei ci verrò qualche volta. CAVALIERE Da me... Perché? Perché, illustrissimo signore, ella mi piace assaissimo. 120 MIRANDOLINA CAVALIERE Vi piaccio io? MIRANDOLINA Mi piace, perché non è effeminato, perché non è di quelli che s’innamorano. (Mi caschi il naso, se avanti domani non l’innamoro). (da sé, parte) Scena sedicesima Il cavaliere solo. CAVALIERE Eh! So io quel che fo. Colle donne? Alla larga. Costei sarebbe una di quelle che potrebbero farmi cascare più delle altre. Quella verità, quella scioltezza di dire, è cosa poco comune. Ha un non so che di estraordinario; ma non per questo mi lascierei innamorare. Per un poco di divertimento, mi fermerei più tosto con questa che con 130 un’altra. Ma per far all’amore? Per perdere la libertà? Non vi è pericolo. Pazzi, pazzi quelli che s’innamorano delle donne. (parte) 125

7 il satiro: nella mitologia classica il satiro è un essere mezzo umano e mezzo caprone, che vive nelle selve. Qui è sinonimo di “selvatico”.

Scene xvii-xxiii L’atmosfera della locanda si movimenta con l’arrivo di due attrici in cerca d’avventure, Ortensia e Dejanira, che si fingono nobildonne. L’occhio esperto di Mirandolina riconosce facilmente in loro delle maldestre commedianti che cercano di approfittare degli ospiti della locanda. L’interazione fra la locandiera e le attrici assume tratti metateatrali: le due modeste attrici rappresentano le tradizionali “amorose” della Commedia dell’arte, che si trovano davanti una “servetta” (ma Mirandolina conserva ormai solo pochissimi tratti del personaggio della Commedia dell’arte da cui deriva). Si svolge così una sorta di recita-competizione, che decreta il declassamento delle prime da parte della seconda, vera prima attrice che ha in mano l’andamento della rappresentazione grazie alla nuova tipologia di personaggio che l’autore ha creato: Mirandolina non è più una “servetta” particolarmente riuscita, ma un moderno personaggio dalla psicologia complessa e ricca di sfumature. La locandiera 5 401


Analisi del testo Lo spazio scenico: la locanda Goldoni sceglie, per ragioni di prudenza, di ambientare la vicenda a Firenze e non a Venezia (ma i tratti dei personaggi rimandano alla stratificazione sociale della sua città). Il luogo in cui si svolge l’intera vicenda non è un interno familiare (come in altre sue commedie), ma uno spazio pubblico, ovvero una locanda che, per i suoi caratteri costituitivi di spazio “aperto” alle più diverse frequentazioni, si propone come osservatorio privilegiato delle dinamiche sociali e comportamentali che a Goldoni interessa mettere a fuoco nella sua commedia riformata. Per la saggezza e capacità imprenditoriale con cui la conduce Mirandolina, la locanda è anche il luogo-simbolo dei valori borghesi di concretezza, attivismo, razionale gestione delle risorse (in questo caso costituite dai clienti): così la vede appunto Mirandolina, mentre per i tre nobili, legati a una visione antiquata, la locanda è il luogo ideale per incontri d’amore licenziosi e non impegnativi a cui dovrebbe prestarsi la bella locandiera, per “natura” e per la sua inferiorità sociale. Da quanto asseriscono nella prima scena il conte di Albafiorita e il marchese di Forlipopoli, essi permangono nella locanda non per ragioni connesse a impegni o a qualche attività, ma esclusivamente per conquistare la donna.

Il ritratto critico della classe nobiliare in tre varianti

Pino Micol e Carla Gravina nella Locandiera diretta nel 1979 da Giancarlo Cobelli.

Già nel primo atto viene attivato il “sistema dei personaggi” che rimarrà stabile fino alla fine. Esso vede da una parte la classe nobiliare, presentata qui in tre significative varianti: innanzitutto il marchese di Forlipopoli, ormai rovinato (tanto che cerca di spillare al cavaliere del denaro), ma in compenso attaccato tenacemente all’orgoglio di casta nel proporsi altezzosamente come protettore della giovane, come si addice al ruolo tradizionale, feudale, del cavaliere nei confronti dei deboli e delle donne. Il marchese è il rappresentante per eccellenza della decadenza della classe nobiliare, inattiva, priva ormai di un ruolo sociale e ripiegata su sé stessa nella patetica difesa dei propri antichi privilegi. L’antagonista del marchese, il conte di Albafiorita, è un esempio della nobiltà recente, acquisita; è un parvenu, ed è quindi identificato come personaggio dalla costante esibizione del denaro e della ricchezza (i gioielli preziosi), con cui crede di poter comprare i favori della bella donna. La sua caratteristica distintiva è il cattivo gusto, l’ostentazione, che lo spiantato marchese non manca di sottolineare. Entrambi sono pronti a favorire il matrimonio della ragazza con Fabrizio (fine della prima scena), naturalmente con la sottintesa intenzione di frequentarla anche dopo le nozze (ricordiamo che questa è l’epoca del libertinismo e del cicisbeismo). Il terzo personaggio, che inizialmente si inserisce tra i due smorzandone ironicamente l’antagonismo, diventerà poi a sua volta antagonista di entrambi, una volta innamoratosi di Mirandolina. Il cavaliere di Ripafratta si distingue dagli altri due per tratti caratteriali e di classe particolarmente antipatici: è supponente, autoritario e altezzoso allo stesso modo con il suo servo e con Mirandolina, considerata alla pari del servo una subalterna, almeno fino a quando essa non lo attira nella sua trappola seduttiva (scena xv). Allora la sua arroganza si smorza e si vede costretto a corrispondere alla gentilezza particolare di Mirandolina verso di lui. Nei confronti dei tre personaggi, Goldoni manifesta una critica che, senza essere aspramente polemica, assume tuttavia i tratti di una corrosiva diagnosi sociale secondo i caratteri e le finalità della commedia goldoniana: il divertimento dello spettatore non esclude la riflessione su un modello comportamentale, quello della nobiltà, ormai colpevolmente anacronistico.

Mirandolina: un inedito personaggio femminile Dall’altra parte, all’interno di relazioni dinamiche con i tre personaggi nominati, emerge fin dal primo atto la figura di Mirandolina, una delle più analiticamente caratterizzate da Goldoni, nei suoi atteggiamenti e nella sua psicologia. Mirandolina è la padrona della locanda, che essa sa gestire con decisione e accortezza, attirando i clienti con il suo fascino, ma senza concedersi mai a nessuno. Il suo potenziale seduttivo è per la ragazza una sorta di “capitale”, da amministrare con

402 Settecento 10 Carlo Goldoni


la stessa sagacia con cui amministra l’altro suo capitale, ossia la locanda che il padre le ha lasciato in eredità. Le spiccate doti di razionalità e concretezza che la contraddistinguono fanno di Mirandolina un’interprete delle qualità proprie della classe borghese, che si contrappongono alle vane pretese dei tre nobili nei suoi confronti: Mirandolina non è più infatti un labile oggetto di desiderio, come vorrebbero i tre nobili, ma è la vera regista dell’azione, che muove come burattini i suoi spasimanti, tenendoli sulla corda, lusingandoli e poi respingendoli (la cosa vale anche per il cameriere Fabrizio) per i suoi esclusivi interessi. Regista dell’azione, dunque, ma soprattutto regista del proprio destino, Mirandolina è certamente, come lo spettatore e il lettore del testo colgono già dal primo atto, un personaggio femminile inedito, senza precedenti e di grande modernità per il tempo in cui la commedia è stata scritta: a nessuno Mirandolina permette di comandarla, a nessuno soprattutto intende delegare la gestione della sua vita, come enuncia con franchezza nella scena del colloquio con Fabrizio («quando vorrò maritarmi»). Se la scena v e soprattutto la xv, a tu per tu con il cavaliere, rivelano in Mirandolina l’abile seduttrice che sa usare le strategie opportune alla situazione, il celebre monologo della scena ix (completato dal dialogo con Fabrizio della scena x) mette a nudo gli aspetti più importanti (e inquietanti) del personaggio.

Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

SINTESI 1. Individua e sintetizza i principali nuclei tematici presenti nel primo atto. 2 Secondo te quali sono le ragioni della misoginia del cavaliere? 3. Quali strategie utilizza Mirandolina nella scena xv per infrangere le difese del cavaliere (➜ T4e )? 4. Qual è il rapporto tra Mirandolina e Fabrizio? ANALISI 5. Presenta i personaggi del primo atto. Da quali espressioni intuiamo il carattere dei personaggi? Rintracciale nel testo. 6. Quali fondamentali aspetti distinguono il marchese dal conte? Quali elementi invece li uniscono? 7. Mirandolina, offesa dal comportamento del cavaliere, decide di conquistarlo: in che modo? Individua nel testo i punti e le battute in cui è possibile intravedere la strategia della locandiera.

Interpretare

SCRITTURA 8. Le parole chiave del confronto tra il marchese e il conte in rapporto a Mirandolina sono «denari» e «protezione» (➜ T4a ). Spiega in un testo scritto a quale situazione sociologica corrisponde questa contrapposizione (max. 10 righe).

EDUCAZIONE CIVICA

nucleo

Sviluppo economico e sostenibilità

competenza 5, 8 LEGGERE LE EMOZIONI

EDUCAZIONE ALLE RELAZIONI

EDUCAZIONE CIVICA

PARITÀ DI GENERE equilibri

nucleo

#PROGETTOPARITÀ

Costituzione

competenza 3

9. La complessa personalità di Mirandolina è delineata, nell’atto I, in particolare dal monologo ( T4c , scena ix) e dal colloquio con Fabrizio che lo segue (➜ T4d , scena x). Da che cosa ti sembra sia dettato il comportamento di Mirandolina verso i suoi corteggiatori? Credi che la giovane donna possa essere considerata un personaggio rivoluzionario, una protofemminista che rivendica la propria autonomia e che si oppone a un mondo al maschile, nel quale gli uomini tentano di imporre le loro scelte o – al contrario – una cinica seduttrice, ferita nell’orgoglio? Motiva la tua risposta in un testo di circa 20 righe. LETTERATURA E NOI

EDUCAZIONE CIVICA

nucleo

Costituzione

competenza 3

PARITÀ DI GENERE equilibri #PROGETTOPARITÀ

10. In uno scritto di 15 righe spiega per quali motivi Mirandolina viene considerata una figura femminile moderna e sorprendentemente attuale.

La locandiera 5 403


T5

La locandiera, atto II Il secondo atto si svolge interamente nella stanza del cavaliere di Ripafratta. Mirandolina attua il suo piano di seduzione nei confronti del cavaliere, usando come armi una speciale gentilezza verso l’ospite, l’abilità di cuoca, persino la condivisione delle idee dello scorbutico gentiluomo nei confronti delle donne, fino allo scacco finale realizzato grazie a un finto svenimento inscenato in occasione dell’imminente partenza del cavaliere, che lo fa definitivamente capitolare. Mentre la seduzione di Mirandolina, consumata attrice, riesce perfettamente, falliscono i paralleli tentativi delle due attrici, troppo grossolane per realizzare il loro piano di ottenere qualche compenso dal facoltoso cavaliere. Il motivo conduttore del secondo atto è il rapporto Mirandolina-cavaliere, cui si associa la ripresa della caratterizzazione degli altri personaggi, in particolare del marchese. Scene i-iii La scena si apre nella camera del cavaliere, a cui Mirandolina invia prelibate vivande e che ha disposto sia servito per primo. Il cavaliere ammira le qualità di perfetta padrona di casa della locandiera e la sua apprezzabile sincerità (che in realtà è deliberata finzione) e comincia a mostrare segni di cedimento psicologico («Per bacco! Costei incanta tutti. Sarebbe da ridere che incantasse anche me. Orsù, domani vado a Livorno. S’ingegni per oggi, se può, ma si assicuri che non sono sì debole. Avanti ch’io superi l’avversion per le donne, ci vuol altro»). Nella terza scena il cavaliere viene messo al corrente che il conte sta pranzando con le due nuove ospiti della locanda e commenta: «A tavola con due dame! Oh che bella compagnia! Colle loro smorfie mi farebbero passar l’appetito».

Carlo Goldoni

T5a

La tattica psicologica di Mirandolina: abbattere le difese del cavaliere La locandiera II, iv

C. Goldoni, La locandiera, in Commedie, a c. di G. Davico Bonino, vol. I, Garzanti, Milano 1976

Mirandolina, che pure non ha l’abitudine di entrare «nelle camere dei forestieri», si reca personalmente dal cavaliere per servirgli una pietanza particolarmente prelibata che ha preparato apposta per lui. Il cavaliere la riceve con gentilezza, la fa sedere addirittura a tavola con lui e le offre da bere. Tutta la scena è un capolavoro di tattica psicologica messa in atto da Mirandolina per far capitolare il cavaliere.

Scena quarta Mirandolina con un tondo1 in mano, ed il servitore, e detto. MIRANDOLINA È permesso? CAVALIERE Chi è di là? SERVITORE Comandi. CAVALIERE Leva là quel tondo di mano. 5 MIRANDOLINA Perdoni. Lasci ch’io abbia l’onore di metterlo in tavola colle mie mani. (mette in tavola la vivanda) 1 tondo: piatto.

404 Settecento 10 Carlo Goldoni


CAVALIERE Questo non è offizio2 vostro. MIRANDOLINA Oh signore, chi son io? Una qualche signora? Sono una serva di chi favorisce venire alla mia locanda. CAVALIERE (Che umiltà!). (da sé) 10 MIRANDOLINA In verità, non avrei difficoltà di servire in tavola tutti, ma non lo faccio per certi riguardi: non so s’ella mi capisca. Da lei vengo senza scrupoli, con franchezza. CAVALIERE Vi ringrazio. Che vivanda è questa? MIRANDOLINA Egli è3 un intingoletto fatto colle mie mani. 15 CAVALIERE Sarà buono. Quando4 lo avete fatto voi, sarà buono. MIRANDOLINA Oh! troppa bontà, signore. Io non so far niente di bene; ma bramerei saper fare, per dar nel genio ad un cavalier sì compìto5. CAVALIERE (Domani a Livorno). (da sé) Se avete che fare, non istate a disagio per me. 20 MIRANDOLINA Niente, signore: la casa è ben provveduta di cuochi e servitori. Avrei piacere di sentire, se quel piatto le dà nel genio6. CAVALIERE Volentieri, subito. (lo assaggia) Buono, prezioso. Oh che sapore! Non conosco che cosa sia. MIRANDOLINA Eh, io, signore, ho de’ secreti particolari. Queste mani sanno far 25 delle belle cose! CAVALIERE Dammi da bere. (al servitore, con qualche passione) MIRANDOLINA Dietro7 questo piatto, signore, bisogna beverlo buono. CAVALIERE Dammi del vino di Borgogna. (al servitore). MIRANDOLINA Il vino di Borgogna è prezioso. Secondo me, per pasteggiare è il 30 miglior vino che si possa bere. (il servitore presenta la bottiglia in tavola, con un bicchiere) CAVALIERE Voi siete di buon gusto in tutto. MIRANDOLINA In verità, che poche volte m’inganno. CAVALIERE Eppure questa volta voi v’ingannate. 35 MIRANDOLINA In che, signore? CAVALIERE In credere ch’io meriti d’essere da voi distinto8. MIRANDOLINA Eh, signor cavaliere... (sospirando) CAVALIERE Che cosa c’è? Che cosa sono questi sospiri? (alterato) MIRANDOLINA Le dirò: delle attenzioni ne uso a tutti, e mi rattristo quando penso 40 che non vi sono che ingrati. CAVALIERE Io non vi sarò ingrato. (con placidezza) MIRANDOLINA Con lei non pretendo di acquistar merito, facendo unicamente il mio dovere. CAVALIERE No, no, conosco benissimo... Non sono cotanto rozzo quanto voi 45 mi credete. Di me non avrete a dolervi. (versa il vino nel bicchiere) MIRANDOLINA Ma... signore... io non l’intendo. CAVALIERE Alla vostra salute. (beve) 2 offizio: compito. 3 Egli è: è (egli è pleonastico). 4 Quando: dal momento che. 5 per dar… compìto: per compiacere un

cavaliere così cortese, di buone maniere.

6 le dà nel genio: le piace, incontra il suo gusto.

8 In credere... distinto: nel credere che io meriti di ricevere da voi un trattamento speciale.

7 Dietro: dopo.

La locandiera 5 405


MIRANDOLINA Obbligatissima; mi onora troppo. CAVALIERE Questo vino è prezioso. 50 MIRANDOLINA Il Borgogna è la mia passione. CAVALIERE Se volete, siete padrona. (le offerisce il vino) MIRANDOLINA Oh! Grazie, signore. CAVALIERE Avete pranzato? MIRANDOLINA Illustrissimo sì. Ne volete un bicchierino? 55 CAVALIERE MIRANDOLINA Io non merito queste grazie9. CAVALIERE Davvero, ve lo do volentieri. MIRANDOLINA Non so che dire. Riceverò le sue finezze. CAVALIERE Porta un bicchiere. (al servitore) 60 MIRANDOLINA No, no, se mi permette; prenderò questo. (prende il bicchiere del cavaliere) CAVALIERE Oibò. Me ne sono servito io. MIRANDOLINA Beverò10 le sue bellezze. (ridendo) (il servitore mette l’altro bicchiere nella sottocoppa) 65

CAVALIERE MIRANDOLINA CAVALIERE MIRANDOLINA CAVALIERE

70

(Mirandolina col bicchiere in una mano, e nell’altra il pane, mostra di stare in disagio, e non saper come fare la zuppa)

Eh galeotta11! (versa il vino) Ma è qualche tempo che ho mangiato: ho timore che mi faccia male. Non vi è pericolo. Se mi favorisse un bocconcino di pane... Volentieri. Tenete. (le dà un pezzo di pane)

CAVALIERE Voi state in disagio. Volete sedere? MIRANDOLINA Oh! Non son degna di tanto, signore. CAVALIERE Via, via, siamo soli. Portale una sedia. (al servitore) 75 SERVITORE (Il mio padrone vuol morire: non ha mai fatto altrettanto.) (da sé; va a prendere la sedia) MIRANDOLINA Se lo sapessero il signor conte ed il signor marchese, povera me! CAVALIERE Perché? MIRANDOLINA Cento volte mi hanno voluto obbligare a bere qualche cosa, o a mangiare, e non ho mai voluto farlo. 80 CAVALIERE Via, accomodatevi. MIRANDOLINA Per obbedirla. (siede, e fa la zuppa nel vino) CAVALIERE Senti. (al servitore, piano) (Non lo dire a nessuno, che la padrona sia stata a sedere alla mia tavola). (Non dubiti). (piano) (Questa novità mi sorprende). (da sé) 85 SERVITORE MIRANDOLINA Alla salute di tutto quello che dà piacere al signor cavaliere. CAVALIERE Vi ringrazio, padroncina garbata. MIRANDOLINA Di questo brindisi alle donne non ne tocca. CAVALIERE No? perché? 90 MIRANDOLINA Perché so che le donne non le può vedere. 9 grazie: gentilezze. CAVALIERE È vero, non le ho mai potute vedere. 10 beverò: berrò. MIRANDOLINA Si conservi sempre così. 11 galeotta: ammaliatrice, seduttrice. CAVALIERE Non vorrei... (si guarda dal servitore)

406 Settecento 10 Carlo Goldoni


MIRANDOLINA Che cosa, signore? CAVALIERE Sentite. (le parla nell’orecchio) (Non vorrei che voi mi faceste mutar natura). MIRANDOLINA Io, signore? Come? CAVALIERE Va via. (al servitore) SERVITORE Comanda in tavola? Fammi cucinare due uova, e quando son cotte, portale. 100 CAVALIERE SERVITORE Come le comanda le uova? CAVALIERE Come vuoi, spicciati. SERVITORE Ho inteso. (Il padrone si va riscaldando). (da sé, parte) CAVALIERE Mirandolina, voi siete una garbata giovine. 105 MIRANDOLINA Oh signore, mi burla. CAVALIERE Sentite. Voglio dirvi una cosa vera, verissima, che ritornerà in vostra gloria. MIRANDOLINA La sentirò volentieri. CAVALIERE Voi siete la prima donna di questo mondo, con cui ho avuto la sofferenza12 di trattar con piacere. 110 MIRANDOLINA Le dirò, signor cavaliere: non già ch’io meriti niente, ma alle volte si danno questi sangui che s’incontrano13. Questa simpatia, questo genio14, si dà anche fra persone che non si conoscono. Anch’io provo per lei quello che non ho sentito per alcun altro. Ho paura che voi mi vogliate far perdere la mia quiete. 115 CAVALIERE MIRANDOLINA Oh via, signor cavaliere, se è un uomo savio, operi da suo pari. Non dia nelle15 debolezze degli altri. In verità, se me n’accorgo, qui non ci vengo più. Anch’io mi sento un non so che di dentro, che non ho più sentito; ma non voglio impazzire per uomini, e molto meno per uno che ha in odio le donne; e che forse forse per 120 provarmi, e poi burlarsi di me, viene ora con un discorso nuovo a tentarmi. Signor cavaliere, mi favorisca un altro poco di Borgogna. CAVALIERE Eh! Basta... (versa il vino in un bicchiere) MIRANDOLINA (Sta lì lì per cadere). (da sé) Tenete. (le dà il bicchiere col vino) 125 CAVALIERE MIRANDOLINA Obbligatissima. Ma ella non beve? CAVALIERE Sì, beverò. (Sarebbe meglio che io mi ubbriacassi. Un diavolo scaccerebbe l’altro). (da sé, versa il vino nel suo bicchiere) MIRANDOLINA Signor cavaliere. (con vezzo) Che c’è? 130 CAVALIERE MIRANDOLINA Tocchi. (gli fa toccare il bicchiere col suo) Che vivano i buoni amici. CAVALIERE Che vivano. (un poco languente) MIRANDOLINA Viva... chi si vuol bene... senza malizia tocchi! CAVALIERE Evviva.. 95

135

Scena v Mentre i due brindano, entra nella stanza il marchese e chiede di assaggiare, da intenditore qual è, il Borgogna.

12 ho avuto la sofferenza: ho tollerato. 13 si danno… che s’incontrano: succede

che queste indoli s’incontrino.

14 genio: reciproco piacere.

15 Non dia nelle: non incorra nelle.

La locandiera 5 407


Carlo Goldoni

Il gioco degli “a parte”

T5b

La locandiera II, vi La sesta scena sembra incentrata sul registro satirico e sul rilievo dato alla figura del marchese, che con ridicola parsimonia fa assaggiare una sua bottiglietta di «prezioso» vino di Cipro, conquistandosi i sarcastici commenti della locandiera. In realtà è più importante la schermaglia sotterranea, affidata essenzialmente agli “a parte”, alle battute messe nel testo tra parentesi, che si svolgono tra Mirandolina e il cavaliere, ormai caduto innamorato.

C. Goldoni, La locandiera, in Commedie, a c. di G. Davico Bonino, vol. I, Garzanti, Milano 1976

Scena sesta Il servitore colle ova1, e detti. CAVALIERE Un bicchierino al marchese. (al servitore) MARCHESE Non tanto piccolo il bicchierino. Il Borgogna non è liquore. Per giudicarne bisogna beverne a sufficienza. SERVITORE Ecco le ova (vuol metterle in tavola). 5 CAVALIERE Non voglio altro. MARCHESE Che vivanda è quella? CAVALIERE Ova. MARCHESE Non mi piacciono (il servitore le porta via). MIRANDOLINA Signor marchese, con licenza2 del signor cavaliere, senta quell’in10 tingoletto fatto colle mie mani. MARCHESE Oh sì. Ehi. Una sedia (il servitore gli reca una sedia e mette il bicchiere sulla sottocoppa). Una forchetta. CAVALIERE Via, recagli una posata (il servitore la va a prendere). MIRANDOLINA Signor cavaliere, ora sto meglio. Me n’anderò (s’alza). 15 MARCHESE Fatemi il piacere, restate ancora un poco. MIRANDOLINA Ma signore, ho da attendere a’ fatti miei3; e poi il signor cavaliere... MARCHESE Vi contentate ch’ella resti ancora un poco? (al cavaliere). CAVALIERE Che volete da lei? MARCHESE Voglio farvi sentire un bicchierino di vin di Cipro, che, da che 20 siete al mondo, non avrete sentito il compagno4. E ho piacere che Mirandolina lo senta5, e dica il suo parere. CAVALIERE Via, per compiacere il signor marchese, restate (a Mirandolina). MIRANDOLINA Il signor marchese mi dispenserà. MARCHESE Non volete sentirlo? 25 MIRANDOLINA Un’altra volta, Eccellenza. CAVALIERE Via, restate. MIRANDOLINA Me lo comanda? (al cavaliere). CAVALIERE Vi dico che restiate. MIRANDOLINA Obbedisco (siede). 30 CAVALIERE (Mi obbliga sempre più) (da sé). MARCHESE Oh che roba! Oh che intingolo! Oh che odore! Oh che sapore! (mangiando). 1 colle ova: con le uova. 2 licenza: permesso.

408 Settecento 10 Carlo Goldoni

3 ho da attendere a’ fatti miei: devo badare alle mie occupazioni.

4 il compagno: uno simile. 5 lo senta: lo provi, lo assaggi.


CAVALIERE (Il marchese avrà gelosia che siate vicina a me) (piano a Mirandolina). 35 MIRANDOLINA (Non m’importa di lui né poco, né molto) (piano al cavaliere). CAVALIERE (Siete anche voi nemica degli uomini?) (piano a Mirandolina). MIRANDOLINA (Come ella lo è delle donne) (come sopra). CAVALIERE (Queste mie nemiche si vanno vendicando di me) (come sopra). MIRANDOLINA (Come, signore?) (come sopra). 40 CAVALIERE (Eh! furba! Voi vedrete benissimo...) (come sopra). MARCHESE Amico, alla vostra salute (beve il vino di Borgogna). CAVALIERE Ebbene? Come vi pare? MARCHESE Con vostra buona grazia, non val niente. Sentite il mio vin di Cipro. CAVALIERE Ma dov’è questo vino di Cipro? 45 MARCHESE L’ho qui, l’ho portato con me, voglio che ce lo godiamo: ma! È di quello. Eccolo (tira fuori una bottiglia assai piccola). MIRANDOLINA Per quel che vedo, signor marchese, non vuole che il suo vino ci vada alla testa. MARCHESE Questo? Si beve a gocce, come lo spirito di melissa6. Ehi? Li bic50 chierini. (apre la bottiglia) SERVITORE (Porta dei bicchierini da vino di Cipro). MARCHESE Eh, son troppo grandi. Non ne avete di più piccoli? (copre la bottiglia colla mano) CAVALIERE Porta quei da rosolio7. (al servitore) 55 MIRANDOLINA Io credo che basterebbe odorarlo. MARCHESE Uh caro! Ha un odor che consola (lo annasa). SERVITORE (Porta tre bicchierini sulla sottocoppa) MARCHESE (Versa pian piano, e non empie li bicchierini, poi lo dispensa al cavaliere, a Mirandolina, e l’altro per sé, turando bene la bottiglia) 60 Che nettare! Che ambrosia! Che manna distillata! (bevendo) CAVALIERE (Che vi pare di questa porcheria?) (a Mirandolina, piano) MIRANDOLINA (Lavature di fiaschi) (al cavaliere, piano) MARCHESE Ah! Che dite? (al cavaliere) CAVALIERE Buono, prezioso. 65 MARCHESE Ah! Mirandolina, vi piace? MIRANDOLINA Per me, signore, non posso dissimulare; non mi piace, lo trovo cattivo, e non posso dir che sia buono. Lodo chi sa fingere. Ma chi sa fingere in una cosa, saprà fingere nell’altre ancora. CAVALIERE (Costei mi dà un rimprovero; non capisco il perché.) (da sé) 70 MARCHESE Mirandolina, voi di questa sorta8 di vini non ve ne intendete. Vi compatisco. Veramente il fazzoletto che vi ho donato, l’avete conosciuto9 e vi è piaciuto, ma il vin di Cipro non lo conoscete. (finisce di bere) MIRANDOLINA (Sente come si vanta?) (al cavaliere, piano) 75 CAVALIERE (Io non farei così) (a Mirandolina, piano) MIRANDOLINA (Il di lei vanto sta nel disprezzare le donne) (come sopra) 6 lo spirito di melissa: l’essenza di melis-

7 quei da rosolio: bicchierini in cui si ser-

sa, pianta dalle proprietà efficaci contro gli svenimenti.

ve il rosolio, vino dolce liquoroso, ricavato dai petali di rosa.

8 sorta: tipo. 9 conosciuto: apprezzato.

La locandiera 5 409


CAVALIERE (E il vostro nel vincere tutti gli uomini) (come sopra). MIRANDOLINA (Tutti no) (con vezzo al cavaliere, piano). CAVALIERE (Tutti sì) (con qualche passione, piano a Mirandolina). Ehi? Tre bicchierini politi (al servitore, il quale glieli porta sopra 80 MARCHESE una sottocoppa). MIRANDOLINA Per me non ne voglio più. MARCHESE No, no, non dubitate: non faccio per voi (mette del vino di Cipro nei tre bicchierini). Galantuomo, con licenza del vostro padrone, andate dal conte d’Albafiorita, e ditegli per parte mia, forte, che tutti 85 sentano, che lo prego di assaggiare un poco del mio vino di Cipro. SERVITORE Sarà servita. (Questo non li ubbriaca certo) (da sé; parte). CAVALIERE Marchese, voi siete assai generoso. MARCHESE Io? Domandatelo a Mirandolina. 90 MIRANDOLINA Oh certamente! MARCHESE L’ha veduto il fazzoletto il cavaliere? (a Mirandolina). MIRANDOLINA Non lo ha ancora veduto. MARCHESE Lo vedrete (al cavaliere). Questo poco di balsamo me lo salvo per questa sera (ripone la bottiglia con un dito di vino avanzato). 95 MIRANDOLINA Badi che non gli faccia male, signor marchese. MARCHESE Eh! Sapete che cosa mi fa male? (a Mirandolina). MIRANDOLINA Che cosa? MARCHESE I vostri begli occhi. MIRANDOLINA Davvero? Cavaliere mio, io sono innamorato di costei perdutamente. 100 MARCHESE CAVALIERE Me ne dispiace. MARCHESE Voi non avete mai provato amor per le donne. Oh, se lo provaste, compatireste ancora me. CAVALIERE Si, vi compatisco. 105 MARCHESE E son geloso come una bestia. La lascio stare vicino a voi, perché so chi siete; per altro non lo soffrirei10 per centomila doppie11. CAVALIERE (Costui principia12 a seccarmi) (da sé). Scene vii-ix Il cavaliere è sempre più turbato e medita di lasciare la locanda al più presto («Costei non la voglio più rivedere. Che non mi venga più tra i piedi. Maledettissime donne! Dove vi sono donne, lo giuro, non ci andere mai più»). Scene x-xvi Le due attrici, Ortensia e Dejanira, spinte dal conte che ne ha vantato la ricchezza, cercano di circuire il cavaliere, ma ne restano deluse: non solo egli rimane freddo davanti alle loro lusinghe, ma le smaschera con straordinaria durezza come commedianti abituate a fingere, e donne volgari, imitando il loro stesso linguaggio gergale. Pur con dispiacere, decide di lasciare la locanda e manda il suo servo a chiedere a Fabrizio il conto. Scopre con ammirazione che i conti li fa sempre personalmente Mirandolina. «Scrive e sa far di conto meglio di qualunque giovane di negozio», spiega Fabrizio. Ancora padrone di sé, il cavaliere tenta di sottrarsi «a questa incognita forza» (II, xvi). Ma l’attende l’assalto decisivo. 10 per altro non lo soffrirei: per un altro uomo non lo sopporterei.

410 Settecento 10 Carlo Goldoni

11 doppie: la doppia è un’antica moneta d’oro.

12 principia: inizia.


Carlo Goldoni

Lo svenimento di Mirandolina: un magistrale colpo di mano

T5c

EDUCAZIONE CIVICA

nucleo Costituzione competenza 3

PARITÀ DI GENERE equilibri #PROGETTOPARITÀ

La locandiera II, xvii C. Goldoni, La locandiera, in Commedie, a c. di G. Davico Bonino, vol. I, Garzanti, Milano 1976

Le strategie seduttive di Mirandolina raggiungono l’apice con una straordinaria scena teatrale: dalle lacrime per la partenza imminente del cavaliere al finto svenimento, che abbatte del tutto le oramai limitate resistenze del cavaliere.

Scena diciassettesima Mirandolina con un foglio in mano, e detto.

MIRANDOLINA Signore (mestamente). CAVALIERE Che c’è, Mirandolina? MIRANDOLINA Perdoni (stando indietro). CAVALIERE Venite avanti. MIRANDOLINA Ha domandato il suo conto; l’ho servita (mestamente). 5 CAVALIERE Date qui. MIRANDOLINA Eccolo (si asciuga gli occhi col grembiale, nel dargli il conto). CAVALIERE Che avete? Piangete? MIRANDOLINA Niente, signore, mi è andato del fumo negli occhi. 10 CAVALIERE Del fumo negli occhi? Eh! basta... quanto importa il conto? (legge). Venti paoli? In quattro giorni un trattamento sì generoso: venti paoli? MIRANDOLINA Quello è il suo conto. CAVALIERE E i due piatti particolari che mi avete dato questa mattina, non ci sono nel conto? MIRANDOLINA Perdoni. Quel ch’io dono, non lo metto in conto. 15 CAVALIERE Me li avete voi regalati? MIRANDOLINA Perdoni la libertà. Gradisca per un atto di... (si copre, mostrando di piangere). CAVALIERE Ma che avete? 20 MIRANDOLINA Non so se sia il fumo, o qualche flussione di occhi1. CAVALIERE Non vorrei che aveste patito2, cucinando per me quelle due preziose vivande. MIRANDOLINA Se fosse per questo, lo soffrirei3... volentieri... (mostra trattenersi di piangere). CAVALIERE (Eh, se non vado via!) (da sé). Orsù, tenete. Queste sono due 25 doppie. Godetele per amor mio... e compatitemi... (s’imbroglia). MIRANDOLINA (senza parlare, cade come svenuta sopra una sedia). CAVALIERE Mirandolina. Ahimè! Mirandolina. È svenuta. Che fosse innamorata di me? Ma così presto? E perché no? Non sono io innamorato di lei? Cara Mirandolina... Cara? Io cara ad una donna? Ma se è 30 svenuta per me. Oh, come tu sei bella! Avessi qualche cosa per farla rinvenire. Io che non pratico donne, non ho spiriti, non ho ampolle. Chi è di là? Vi è nessuno? Presto... Anderò io. Poverina! 1 flussione di occhi: lacrimazione per un’infiammazione agli occhi.

2 aveste patito: vi foste stancata. 3 soffrirei: sopporterei.

La locandiera 5 411


Che tu sia benedetta! (parte, e poi ritorna). MIRANDOLINA Ora poi è caduto affatto4. Molte sono le nostre armi, colle quali si vincono gli uomini. Ma quando sono ostinati, il colpo di riserva sicurissimo è uno svenimento. Torna, torna (si mette come sopra). CAVALIERE (torna con un vaso d’acqua) Eccomi, eccomi. E non è ancor rinvenuta. Ah, certamente costei mi ama (la spruzza, ed ella si va movendo). Animo, animo. Son qui, cara. Non partirò più per ora. 40 35

Scene xviii-xix Le ultime due scene mostrano l’incapacità di controllarsi del cavaliere, preda di un forte turbamento in seguito allo svenimento di Mirandolina: minaccia il servitore perché s’intromette («Va’, che ti spacco la testa»), maledice il marchese e il conte che vogliono intervenire («Andate al diavolo quanti siete») e alla fine getta a terra il vaso con l’acqua usata per tentare di farla rinvenire. Le parole di commento della situazione di Mirandolina chiudono l’atto: «Il di lui cuore è in fuoco, in fiamma, in cenere. Restami solo, per compiere la mia vittoria, che si renda in pubblico il mio trionfo a scorno degli uomini presuntuosi, e ad onore del nostro sesso». 4 affatto: completamente, del tutto.

Analisi del testo Scene di una seduzione programmata: la «recita magistrale» di Mirandolina Le scene iv, vi e xvii che abbiamo scelto dal secondo atto, in aggiunta alla xv del primo atto, sono finalizzate a documentare il grande tema della seduzione che domina nell’intera commedia e che qui campeggia, portando in primo piano la figura del cavaliere e relegando al ruolo di comparse gli altri due spasimanti e (per ora) lo stesso Fabrizio. La trappola seduttiva che irretisce, come una ragnatela, il cavaliere si sviluppa progressivamente, secondo varie tappe (rispettivamente dalla scena xv del primo atto alle tre scene qui presentate) che possono corrispondere nel loro complesso a una sorta di recita interna al testo, la recita di Mirandolina, spettacolo nello spettacolo, saggio di perfetta recitazione offerto al pubblico da un’attrice consumata. Ricostruiamo qui alcune significative tappe del processo di seduzione del cavaliere messo in atto dalla locandiera. • Atto I, scena xv Mirandolina, dopo essere stata apostrofata in modo rude dal cavaliere, gli porta personalmente della biancheria di pregio, adulandolo («questa biancheria l’ho fatta per personaggi di merito»; «un cavaliere della sua qualità»; «cavaliere di sì alto merito»). Nella prima parte della scena non si può dire però che Mirandolina sortisca l’effetto desiderato: il cavaliere è infatti sulle difensive e tende a interpretare negativamente tutte le frasi di Mirandolina. Ella adotta allora una strategia che si rivelerà anche in seguito vincente, che consiste nel condividere il punto di vista del cavaliere sulle donne e condannare la debolezza umana del marchese e del conte, contrapponendo la dignità e virilità del cavaliere («Bella fortezza! Bella virilità!»). Soprattutto induce astutamente il cavaliere a ritenerla sincera («Brava! Mi piace la vostra sincerità»): su questa fondamentale acquisizione da parte del cavaliere, Mirandolina costruirà il suo attacco. • Atto II, scena iv Entrata per la prima volta nella stanza del cavaliere con il pretesto di portargli un piatto speciale, Mirandolina alterna una strategia gestuale-comportamentale, fatta di ritrosie e di avances (di fatto accorcia sempre più le distanze, fino a farsi invitare alla sua stessa tavola, a bere con lui e addirittura dal suo stesso bicchiere, fino al galeotto brindisi finale), a un’accorta strategia verbale: parole ispirate a un attento studio della psicologia del cavaliere, per batterlo sul suo stesso terreno. Mirandolina finge di accettare

412 Settecento 10 Carlo Goldoni


e condividere la sua visione misogina, critica il comportamento degli altri due corteggiatori, professa umiltà, modestia, sottomissione, come si addice a una donna, per di più di condizione sociale modesta. • Atto II, scena vi Tra il cavaliere e Mirandolina si è creata ormai una situazione di complicità: l’avvicinamento tra i due, stimolato dalle abili parole della donna, è siglato dal fitto dialogo “a parte”, mentre in primo piano si svolge la scena comica del vino di Cipro. Una sorta di doppia “partitura” di grande suggestione teatrale. • Atto II, scena xvii Ma la scena in cui il cavaliere capitola è quella dello svenimento, una situazione tipica della commedia dell’arte, come la stessa Mirandolina sembra spiegare al pubblico («il colpo di riserva sicurissimo è uno svenimento»). In questa scena Mirandolina, di solito alquanto loquace, usa l’arma del silenzio e dell’eloquenza dei gesti. Gli ingredienti della seduzione sono qui prettamente “femminili”, usati però con la consapevolezza della finzione: le lacrime per l’imminente partenza del cavaliere e, appunto, lo svenimento. Il cavaliere è ormai preso al laccio («Son qui, cara. Non partirò più per ora»).

Mirandolina “libertina”? Il tema della seduzione percorre ampiamente la letteratura settecentesca, anche in rapporto alla decadenza dei costumi morali (testimoniata nelle classi nobiliari dalla moda del cicisbeismo): si pensi alla Clarissa di Richardson (1748), ma soprattutto al filone della letteratura libertina (➜ C12 OL). La programmazione freddamente razionale della seduzione, l’autocontrollo esercitato su di sé in ogni mossa seduttiva, ma soprattutto il gusto della conquista apparentano a nostro parere Mirandolina alla “libertina” marchesa di Merteuil delle Relazioni pericolose di Laclos (1782; ➜ C12 OL). Del resto anche la critica ha sottolineato la componente libertina di Mirandolina, definendola «Don Giovanni in gonnella». Mirandolina non mira affatto a far suo il cavaliere, conosce benissimo le barriere di classe che separano la sua condizione sociale da quella del nobile signore, non è minimamente attratta da lui, come non è attratta da nessun altro dei suoi corteggiatori: esercita la sensualità come freddo strumento di potere, di autoaffermazione. Proprio l’abbinamento seduzionepotere-consapevolezza razionale può avvicinare l’eroina goldoniana alla perversa marchesa del romanzo libertino citato.

Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

SINTESI 1. Riassumi la trama del secondo atto in 10 righe e indica i principali nuclei tematici. COMPRENSIONE 2. Quali sono le armi che Mirandolina mette in gioco per irretire il cavaliere? 3. Di quale finzione ben congegnata si serve Mirandolina per sedurre definitivamente il cavaliere? In che modo reagisce quest’ultimo? ANALISI 4. Descrivi brevemente i personaggi che compaiono nel II atto. 5. Analizza il gioco di grande effetto teatrale che si istituisce nella vi scena nel rapporto dialettico tra il concertato (il termine deriva dal melodramma) a tre voci marchese-Mirandolina-cavaliere, che ruota attorno all’assaggio del prezioso vino di Cipro, e il duetto sostenuto dagli “a parte” tra il cavaliere e Mirandolina.

Interpretare

SCRITTURA 6. Traccia un profilo sociologico e psicologico del cavaliere (max 15 righe). TESTI A CONFRONTO

EDUCAZIONE CIVICA

nucleo

Costituzione

competenza 3

PARITÀ DI GENERE equilibri #PROGETTOPARITÀ

7. Solitamente il libertinaggio è giudicato un fenomeno di tipo maschile; quando il libertinismo è femminile, questo fatto suscita molto clamore. Sviluppa il confronto suggerito dall’Analisi del testo (“Mirandolina ‘libertina’?”). Utilizza il ➜ C12 OL, in particolare ➜ T3 .

La locandiera 5 413


La locandiera, atto III

T6

La prima parte del terzo atto si svolge nella stireria in cui Mirandolina lavora, assistita da Fabrizio. Il cavaliere manda a Mirandolina un regalo prezioso, ma la donna lo rifiuta sdegnosamente. Il cavaliere, in preda alla passione, è geloso della cortesia con cui la locandiera tratta Fabrizio e le dichiara il suo amore. A questo punto Mirandolina si accorge di aver passato il segno: di fronte al contegno minaccioso del cavaliere, che sfida a duello il conte e potrebbe arrivare addirittura a usarle violenza, rivela davanti a tutti il gioco seduttivo con il cavaliere e si impegna a sposare Fabrizio. Scene i-v Mentre Mirandolina sta stirando, il servitore del cavaliere le consegna una preziosa boccetta d’oro contenente spirito di melissa (utile in caso di svenimenti), ma la locandiera la rifiuta, dimostrando così che la seduzione del cavaliere da parte sua non aveva secondi fini. Mirandolina riserva molte attenzioni a Fabrizio, che l’assiste portandole il ferro da stiro a scaldare, ma invece si mostra sprezzante verso il cavaliere, una volta ottenuta la sua vittoria. Alla preghiera del cavaliere di accettare per amor suo la boccettina, la scaglia con disprezzo nel cesto della biancheria.

Carlo Goldoni

Il cavaliere innamorato

T6a

La locandiera III, vi

C. Goldoni, La locandiera, in Commedie, a c. di G. Davico Bonino, vol. I, Garzanti, Milano 1976

Scena sesta Il cavaliere e Mirandolina. CAVALIERE Gran finezze1, signora, al suo cameriere! MIRANDOLINA E per questo, che cosa vorrebbe dire? CAVALIERE Si vede che ne siete invaghita. MIRANDOLINA Io innamorata di un cameriere? Mi fa un bel complimento, signore; 5 non sono di sì cattivo gusto io. Quando volessi amare, non getterei il mio tempo sì malamente. (stirando) CAVALIERE Voi meritereste l’amore di un re. MIRANDOLINA Del re di spade, o del re di coppe2? (stirando) CAVALIERE Parliamo sul serio, Mirandolina, e lasciamo gli scherzi. 10 MIRANDOLINA Parli pure, che io l’ascolto. (stirando) CAVALIERE Non potreste per un poco lasciar di stirare? MIRANDOLINA Oh perdoni! Mi preme allestire questa biancheria per domani. CAVALIERE Vi preme dunque quella biancheria più di me? MIRANDOLINA Sicuro. (stirando) 15 CAVALIERE E ancora lo confermate? MIRANDOLINA Certo. Perché di questa biancheria me ne ho da servire, e di lei non posso far capitale di niente3. (stirando) CAVALIERE Anzi potete dispor di me con autorità.

1 finezze: gentilezze.

2 Del re… di coppe: figure delle carte da gioco. Mirandolina schernisce il cavaliere.

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3 non posso… niente: non posso farci un conto.


MIRANDOLINA Eh, che ella non può vedere le donne. CAVALIERE Non mi tormentate più. Vi siete vendicata abbastanza. Stimo voi, stimo le donne che sono della vostra sorte4, se pur ve ne sono. Vi stimo, vi amo, e vi domando pietà. MIRANDOLINA Sì signore, glielo diremo5. (stirando in fretta, si fa cadere un manicotto6) (leva di terra il manicotto, e glielo dà) Credetemi... 25 CAVALIERE MIRANDOLINA Non s’incomodi. CAVALIERE Voi meritate di esser servita. MIRANDOLINA Ah, ah, ah. (ride forte) CAVALIERE Ridete? 30 MIRANDOLINA Rido, perché mi burla. CAVALIERE Mirandolina, non posso più. MIRANDOLINA Le vien male7? CAVALIERE Sì, mi sento mancare. MIRANDOLINA Tenga il suo spirito di melissa. (gli getta con disprezzo la boccetta) 35 CAVALIERE Non mi trattate con tanta asprezza. Credetemi, vi amo, ve lo giuro. (vuol prenderle la mano, ed ella col ferro lo scotta) Aimè! MIRANDOLINA Perdoni: non l’ho fatto apposta. CAVALIERE Pazienza! Questo è niente. Mi avete fatto una scottatura più grande. MIRANDOLINA Dove, signore? Nel cuore. 40 CAVALIERE MIRANDOLINA Fabrizio. (chiama ridendo) CAVALIERE Per carità, non chiamate colui. MIRANDOLINA Ma se ho bisogno dell’altro ferro. CAVALIERE Aspettate... (ma no...) chiamerò il mio servitore. 45 MIRANDOLINA Eh! Fabrizio... (vuol chiamare Fabrizio) CAVALIERE Giuro al cielo, se viene colui, gli spacco la testa. MIRANDOLINA Oh, questa è bella! Non mi potrò servire della mia gente8? CAVALIERE Chiamate un altro; colui non lo posso vedere. MIRANDOLINA Mi pare ch’ella si avanzi un poco troppo9, signor cavaliere. (si scosta dal tavolino col ferro in mano) 50 CAVALIERE Compatitemi... son fuori di me. MIRANDOLINA Anderò io in cucina, e sarà contento. CAVALIERE No, cara, fermatevi. MIRANDOLINA È una cosa curiosa questa. (passeggiando) Compatitemi. (le va dietro) 55 CAVALIERE MIRANDOLINA Non posso chiamar chi voglio? (passeggia) CAVALIERE Lo confesso. Ho gelosia di colui. (le va dietro) MIRANDOLINA (Mi vien dietro come un cagnolino). (da sé, passeggiando) CAVALIERE Questa è la prima volta ch’io provo che cosa sia amore. 60 MIRANDOLINA Nessuno mi ha mai comandato. (camminando) CAVALIERE Non intendo di comandarvi: vi prego. (la segue) 20

4 della vostra sorte: simili a voi. 5 glielo diremo: lo diremo alle donne. 6 manicotto: polsino. Cilindro in tessuto ricamato o pelliccia aperto ai lati per

infilare le mani, spesso fornito di tasche interne. 7 Le vien male: si sente male. 8 della mia gente: di chi è al mio servizio.

9 si avanzi un poco troppo: stia esagerando con le sue pretese.

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10 abbado: bado.

MIRANDOLINA Ma che cosa vuole da me? (voltandosi con alterezza) CAVALIERE Amore, compassione, pietà. MIRANDOLINA Un uomo che stamattina non poteva vedere le donne, oggi chiede amore e pietà? Non gli abbado10, non può essere, non gli credo. 65 (Crepa, schiatta, impara a disprezzar le donne). (da sé, parte) Scene vii-xii Il marchese si lamenta con il cavaliere perché scagliando a terra il vaso con l’acqua (fine dell’atto secondo) gli ha macchiato l’abito e lo accusa di essersi innamorato della locandiera e di vergognarsi ad ammetterlo. Trova intanto nel cesto della biancheria la boccetta d’oro donata dal cavaliere a Mirandolina e, pensando si tratti di oggetto di similoro, ne fa omaggio a Dejanira, una delle due attrici. Intanto Mirandolina ha mandato il servitore del cavaliere a riprendere la boccettina, che però è scomparsa. Anche il conte è venuto a sapere del dono prezioso fatto dal cavaliere a Mirandolina e ne confida al marchese il valore (dodici zecchini). Disperato, quest’ultimo pensa di pagarla a Mirandolina, ma non dispone di denaro sufficiente. Per sua fortuna il conte, indignato per il contegno di Mirandolina (che mostra di preferire a loro lo scorbutico cavaliere) propone al marchese di trovarsi un nuovo alloggio con lui. Il marchese allora gli chiede in prestito esattamente dodici zecchini che asserisce di dovere alla locandiera per la pigione e viene accontentato.

Carlo Goldoni

T6b

Le pragmatiche riflessioni di Mirandolina La locandiera III, xiii

C. Goldoni, La locandiera, in Commedie, a c. di G. Davico Bonino, vol. I, Garzanti, Milano 1976

Il monologo di Mirandolina che occupa la scena xiii è speculare a quello del primo atto (scena ix): là la locandiera si mostrava sicura di sé, qui ha un ripensamento e teme di aver spinto le cose con il cavaliere troppo avanti, mettendo a rischio la sua reputazione e addirittura in pericolo la sua incolumità. Pensa allora che l’unico che le possa dare aiuto sia il buon Fabrizio.

Scena tredicesima Camera con tre porte. Mirandolina sola MIRANDOLINA Oh meschina me! Sono nel brutto impegno1! Se il cavaliere mi arriva, sto fresca. Si è indiavolato maledettamente. Non vorrei che il diavolo lo tentasse di venir qui. Voglio chiudere questa porta. (Serra la porta da dove è venuta) Ora principio quasi a pentirmi di quel che ho fatto. È vero che mi sono assai divertita nel farmi cor5 rer dietro a tal segno un superbo, un disprezzator delle donne; ma ora che il satiro2 è sulle furie, vedo in pericolo la mia riputazione e la mia vita medesima. Qui mi convien risolvere quelche cosa di 1 nel brutto impegno: in un brutto guaio.

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2 satiro: vedi nota 7, pag. 401.


grande3. Son sola, non ho nessuno dal cuore che mi difenda. Non ci sarebbe altri che quel buon uomo di Fabrizio, che in tal caso mi potesse giovare. Gli prometterò di sposarlo... Ma... prometti, prometti, si stancherà di credermi... Sarebbe quasi meglio ch’io lo sposassi davvero. Finalmente4 con un tal matrimonio posso sperar di mettere al coperto5 il mio interesse e la mia riputazione, senza pregiudicare alla mia libertà6.

10

15

Scene xiv-xvii Mirandolina si chiude a chiave, mentre il cavaliere bussa alla porta e le impone di andare da lui; Mirandolina fa capire a Fabrizio di temere che il cavaliere voglia addirittura usarle violenza. Accorrono anche il marchese e il conte e quest’ultimo rinfaccia al cavaliere di aver cercato di sottrargli Mirandolina. Ne nasce un diverbio e il cavaliere si avventa verso il conte con la spada (peraltro rotta) del marchese. 3 risolvere quelche cosa di grande: prendere una importante decisione. 4 Finalmente: alla fin fine. 5 mettere al coperto: salvare. 6 senza pregiudicare alla mia libertà: senza compromettere la mia libertà.

Una rappresentazione della Locandiera, diretta e interpretata da Elena Bucci (Barberino del Mugello, Teatro Corsini, stagione 2007).

Carlo Goldoni

T6c C. Goldoni, La locandiera, in Commedie, a c. di G. Davico Bonino, vol. I, Garzanti, Milano 1976

Le carte si scoprono... e il cavaliere è sconfitto

EDUCAZIONE CIVICA

nucleo Sviluppo economico e sostenibilità competenza 8

La locandiera III, xviii Scena diciottesima Mirandolina, Fabrizio e detti. FABRIZIO MIRANDOLINA CAVALIERE MIRANDOLINA 5 MARCHESE MIRANDOLINA CONTE CAVALIERE

Alto1, alto, padroni. Alto, signori miei, alto. (Ah maledetta!). (vedendo Mirandolina) Povera me! Colle spade? Vedete? Per causa vostra. Come per causa mia? Eccolo lì il signor cavaliere. È innamorato di voi. Io innamorato? Non è vero; mentite.

1 Alto: alt, fermi.

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MIRANDOLINA Il signor cavaliere innamorato di me? Oh no, signor conte, ella s’inganna. Posso assicurarla, che certamente s’inganna. CONTE Eh, che siete voi pur d’accordo... MIRANDOLINA Si sa, si vede... Che si sa? Che si vede? (alterato, verso il marchese) 10 CAVALIERE MARCHESE Dico, che quando è, si sa... Quando non è, non si vede. MIRANDOLINA Il signor cavaliere innamorato di me? Egli lo nega, e negandolo in presenza mia, mi mortifica, mi avvilisce, e mi fa conoscere la sua costanza e la mia debolezza2. Confesso il vero, che se riuscito mi fosse d’innamorarlo, avrei creduto di fare la maggior prodezza del 15 mondo. Un uomo che non può vedere le donne, che le disprezza, che le ha in mal concetto3, non si può sperare d’innamorarlo. Signori miei, io sono una donna schietta e sincera: quando devo dir, dico, e non posso celare la verità. Ho tentato d’innamorare il signor cavaliere, ma non ho fatto niente. (al cavaliere) 20 CAVALIERE (Ah! Non posso parlare). (da sé) CONTE Lo vedete? Si confonde. (a Mirandolina) MARCHESE Non ha coraggio di dir di no. (a Mirandolina) CAVALIERE Voi non sapete quel che vi dite. (al marchese, irato) E sempre l’avete con me. (al cavaliere, dolcemente) 25 MARCHESE MIRANDOLINA Oh, il signor cavaliere non s’innamora. Conosce l’arte4. Sa la furberia delle donne: alle parole non crede; delle lagrime non si fida. Degli svenimenti poi se ne ride. CAVALIERE Sono dunque finte le lagrime delle donne, sono mendaci gli svenimenti? 30 MIRANDOLINA Come! Non lo sa, o finge di non saperlo? CAVALIERE Giuro al cielo! Una tal finzione meriterebbe uno stile5 nel cuore. MIRANDOLINA Signor cavaliere, non si riscaldi, perché questi signori diranno ch’è innamorato davvero. Sì, lo è, non lo può nascondere. 35 CONTE MARCHESE Si vede negli occhi. CAVALIERE No, non lo sono. (irato al marchese) MARCHESE E sempre con me. MIRANDOLINA No signore, non è innamorato. Lo dico, lo sostengo, e son pronta a provarlo. 40 CAVALIERE (Non posso più). (da sé) Conte, ad altro tempo mi troverete provveduto di spada. (getta via la mezza spada del marchese) MARCHESE Ehi! la guardia6 costa denari. (la prende di terra) MIRANDOLINA Si fermi, signor cavaliere, qui ci va della sua riputazione. Questi signori credono ch’ella sia innamorato; bisogna disingannarli. 45 CAVALIERE Non vi è questo bisogno. MIRANDOLINA Oh sì, signore. Si trattenga un momento. CAVALIERE (Che far intende costei?). (da sé) MIRANDOLINA Signori, il più certo segno d’amore è quello della gelosia, e chi 2 la sua costanza e la mia debolezza: la sua fermezza nel disprezzare le donne e la mia incapacità (di conquistarlo).

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3 mal concetto: cattiva considerazione. 4 l’arte: le astuzie femminili. 5 uno stile: un pugnale.

6 la guardia: parte dell’elsa in cui si mette la mano per impugnare la spada.


non sente la gelosia, certamente non ama. Se il signor cavaliere mi amasse, non potrebbe soffrire7 ch’io fossi d’un altro, ma egli lo soffrirà, e vedranno... CAVALIERE Di chi volete voi essere? MIRANDOLINA Di quello a cui mi ha destinato mio padre. Parlate forse di me? (a Mirandolina) 55 FABRIZIO MIRANDOLINA Sì, caro Fabrizio, a voi in presenza di questi cavalieri vo’8 dar la mano di sposa. CAVALIERE (Oimè! Con colui? non ho cuor di soffrirlo). (da sé, smaniando) CONTE (Se sposa Fabrizio, non ama il cavaliere). (da sé) Sì, sposatevi, e vi prometto trecento scudi. 60 MARCHESE Mirandolina, è meglio un uovo oggi, che una gallina domani. Sposatevi ora, e vi do subito dodici zecchini. MIRANDOLINA Grazie, signori, non ho bisogno di dote. Sono una povera donna senza grazia, senza brio, incapace d’innamorar persone di merito. Ma Fabrizio mi vuol bene, ed io in questo punto alla presenza 65 loro lo sposo... CAVALIERE Sì, maledetta, sposati a chi tu vuoi. So che tu m’ingannasti, so che trionfi dentro di te medesima d’avermi avvilito, e vedo sin dove vuoi cimentare9 la mia tolleranza. Meriteresti che io pagassi gli inganni tuoi con un pugnale nel seno; meriteresti ch’io ti strappassi il 70 cuore, e lo recassi in mostra alle femmine lusinghiere, alle femmine ingannatrici. Ma ciò sarebbe un doppiamente avvilirmi. Fuggo dagli occhi tuoi: maledico le tue lusinghe, le tue lagrime, le tue finzioni; tu mi hai fatto conoscere qual infausto potere abbia sopra di noi il tuo sesso, e mi hai fatto a costo mio10 imparare, che per vincerlo 75 non basta, no, disprezzarlo, ma ci conviene fuggirlo. (parte) 50

Scene xix-xx La commedia si chiude con la decisione di Mirandolina di sposare Fabrizio. Una decisione presa da sola, senza minimamente consultare il suo partner, che infatti resta sorpreso di tanta fretta e vorrebbe prima fissare dei patti. Ma è duramente apostrofato da Mirandolina: «Che patti? Il patto è questo: o dammi la mano, o vattene al tuo paese». Mirandolina giura di non divertirsi più alle spalle delle persone e congeda i due spasimanti che vorrebbero omaggiarla come prima anche dopo sposata. «Cambiando stato [condizione], voglio cambiar costume; e lor signori ancora profittino di quanto hanno veduto, in vantaggio e sicurezza del loro cuore; e quando mai si trovassero in occasioni di dubitare, di dover cedere, di dover cadere, pensino alle malizie imparate, e si ricordino della locandiera». Con queste parole termina la commedia.

7 soffrire: sopportare. 8 vo’: voglio.

9 cimentare: mettere alla prova. 10 a costo mio: a mie spese.

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Analisi del testo La “commedia degli oggetti”: gioielli, fazzoletti, boccette, ferri da stiro

Valeria Moriconi nella parte di Mirandolina, per la regia di Franco Enriquez, nel 1965, al Teatro Carignano di Torino (ph. Ferruzzi).

Nella Locandiera gli oggetti hanno un ruolo particolarmente importante (sia nello sviluppo dell’azione, sia a livello simbolico). Spiccano da una parte gli oggetti donati alla locandiera dai suoi tre nobili spasimanti: i gioielli alla moda del conte, il fazzoletto ricamato del marchese e, infine, la preziosa boccettina d’oro con la melissa donata a Mirandolina dal cavaliere innamorato, che il marchese scambia per un oggetto di poco valore e dona all’attrice. Questi oggetti non entrano in scena casualmente, ma si caricano di un significato simbolico: ai gioielli corrisponde un personaggio (il conte) che fa della ricchezza la sua carta d’identità, servendosene ostentatamente per conquistare la locandiera. Il fazzoletto ricamato donato dal marchese a Mirandolina è il simbolo di una ben diversa, raffinata nobiltà, che però è ormai priva di disponibilità economica ed esce dunque umiliata e sconfitta dalla competizione con la nuova nobiltà di cui il conte (che ha comprato la contea) è l’esempio: «Voi credete di soverchiarmi con i regali, ma non farete niente. Il mio grado val più di tutte le vostre monete» dice il marchese. Per tutta risposta il conte precisa: «Io non apprezzo quel che vale, ma quello che si può spendere» (I, iii). Addirittura comica è poi la scena in cui il marchese fa assaggiare con estrema parsimonia (riservandosi il fondo) un (secondo lui) prezioso vino di Cipro contenuto in una minuscola bottiglietta, a cui si contrappone in modo schiacciante il superbo Borgogna offerto dal cavaliere. Quanto alla boccetta d’oro donata dal cavaliere a Mirandolina, ne testimonia le possibilità economiche superiori ai suoi due rivali, ma soprattutto ha la funzione di allineare il superbo cavaliere a essi nella comune condizione di innamorato in cui egli si ritrova, contro ogni sua aspettativa. Oggetto con particolare valenza simbolica è poi la spada rotta del marchese che viene sfoderata, con un effetto inevitabilmente grottesco, ai limiti della parodia, dal cavaliere infuriato che vuole duellare con il conte rivale: evidente allusione alla decadenza irreversibile della classe nobiliare. A questi oggetti, che connotano la pretenziosa vacuità del mondo nobiliare nella commedia, si contrappone il mondo delle “cose” che ruota attorno alla figura concreta e pragmatica di Mirandolina: le tovaglie e le lenzuola, i piatti prelibati preparati con le sue mani, ma soprattutto il ferro da stiro, in primo piano nelle prime sei scene del terzo atto. Mentre Fabrizio le parla, mentre il cavaliere le dichiara il suo amore, Mirandolina continua ostentatamente a stirare: il ferro da stiro da un lato è l’emblema del suo mondo, della sua vita concreta e operosa, lontana dalle smancerie dei tre nobili; dall’altro Mirandolina usa il ferro come oggetto metaforico allusivo al fuoco d’amore, stuzzicando maliziosamente il povero cameriere (che deve continuamente andare a scaldarlo) e scottando poi deliberatamente la mano al cavaliere, un gesto denso di significato, che smorza e abbassa a una dimensione prosaica l’amore cortese del nobiluomo.

Il processo al cavaliere Nella scena xviii viene rappresentato un vero e proprio processo pubblico (seppur nel “teatro” della locanda) nei confronti del cavaliere, accusato dal conte e dal marchese di essersi innamorato di Mirandolina. I due vogliono indurre l’accusato ad ammettere l’evidenza delle prove e a dichiararsi colpevole, ovvero a dichiarare davanti a tutti il suo amore per la locandiera. Ma l’orgoglio di classe, la necessità di mostrare coerenza con le sue precedenti posizioni misogine (e forse anche qualche superstite dubbio di fronte alla freddezza con cui lo tratta la locandiera dopo averlo conquistato) inducono l’accusato a negare ostinatamente. Gli fa da avvocato difensore (negando che il cavaliere sia innamorato) la stessa Mirandolina: in realtà ella ben sa come sono andate le cose, ha ricevuto di persona le dichiarazioni d’amore del cavaliere e ammette di averlo provocato per ottenerle, eppure lo sfida di nuovo, sostenendo

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perfidamente la tesi della sua innocenza, ovvero che il cavaliere non sia affatto innamorato. A riprova porta il fatto che non sia geloso, annunciando a sorpresa la sua decisione di sposare il buon Fabrizio. A questo punto il cavaliere esce di scena furibondo, maledicendo la sua seduttrice e le «femmine ingannatrici» e riassumendo il proprio abito misogino.

Un finale ambiguo per un personaggio complesso Il finale della commedia è solo apparentemente semplice: non siamo affatto convinti che Mirandolina scelga, con la decisione di sposare Fabrizio, l’amore vero e onesto, rispetto alla finzione, la tranquilla vita di sposa accanto all’uomo destinatole da sempre dal padre, di cui rispetterebbe la volontà. La commedia, insomma, non si chiude a nostro parere con un pacifico lieto fine, in cui vincono la solidità dei valori morali e familiari e l’ideale di una tranquilla vita borghese. Anzi, il finale getta un’ulteriore luce ambigua su un personaggio complesso, che ancora alimenta la riflessione della critica. La scelta di sposare Fabrizio è compiuta ancora una volta da Mirandolina per ragioni esclusivamente utilitaristiche e in nome di pragmatica saggezza: Mirandolina in realtà non conosce l’amore, si serve dell’amore per ottenere, avere, conquistare, sedurre. Ma con il cavaliere ha compreso di avere osato troppo, ha capito di aver rischiato di perdere il proprio onore e soprattutto di recare danno all’onorabilità della sua locanda. Comprende allora di doversi appoggiare stabilmente a qualcuno che la tuteli e la difenda, un marito appunto, e sa di poter contare su Fabrizio (sempre tenuto “in caldo”, come il ferro da stiro…) che meno di altri limiterà la sua indipendenza. È ancora una volta protagonista, negando a Fabrizio ogni possibilità di scelta e imponendogli con durezza la propria volontà. Le parole d’amore che rivolge al promesso sposo suonano false e opportunistiche, mentre l’“a parte” («Anche questa è fatta») rivela le sue vere intenzioni e lo spirito con cui si accosta al matrimonio. Il finale si riconduce, dunque, alle più tipiche caratteristiche di questo personaggio: Mirandolina non conosce la dimensione dei sentimenti, ma solo quella della ragione, che utilizza come lucido strumento di autoaffermazione. In questo senso è una vera “figlia del secolo”, così come la concretezza, il pragmatismo, l’utilitarismo ne fanno l’espressione della mentalità borghesemercantile, spesso esaltata da Goldoni, ma di cui lo scrittore sa anche cogliere, come in questo caso, i limiti.

Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

SINTESI 1. Sintetizza in 20 righe max il contenuto degli episodi antologizzati del terzo atto. COMPRENSIONE 2. Quali cambiamenti noti nel personaggio di Mirandolina nel corso del terzo atto rispetto al secondo? 3. Qual è la reazione del cavaliere dopo la dichiarazione di Mirandolina di voler sposare Fabrizio? ANALISI 4. Descrivi brevemente i personaggi che compaiono nel terzo atto. 5. Rintraccia nel testo i punti in cui Mirandolina mostra indifferenza e ironico disprezzo. LESSICO 6. Analizza il linguaggio d’amore del cavaliere: quali termini e strutture ricorrono? Si tratta di una lingua elaborata o vicina all’uso quotidiano?

Interpretare

SCRITTURA 7. Nella scena finale sarà proprio Mirandolina a pronunciare la morale della commedia rivolgendosi direttamente al pubblico: qual è il messaggio? Commenta la battuta di Mirandolina e mettila in relazione con il significato complessivo dell’opera. Sei d’accordo con la scelta di Mirandolina? Ti saresti comportato allo stesso modo o avresti fatto una scelta diversa (max 20 righe)?

EDUCAZIONE CIVICA

8. Quale ritratto della classe nobiliare emerge dalle pagine della Locandiera? E quale immagine della nuova classe borghese a cui Mirandolina appartiene (max 15 righe)?

nucleo Sviluppo economico e sostenibilità

competenza 8

SCRITTURA CREATIVA 9. Presenta in chiave moderna una tua personale riscrittura dei passi fondamentali della commedia, inserendola in un contesto narrativo contemporaneo.

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INTERPRETAZIONI CRITICHE A CONFRONTO

AA. VV., Dizionario letterario delle opere e dei personaggi, vol. VIII, Bompiani, Milano 1963

Ugo Dèttore «Mirandolina è forse il più decisamente femminile dei personaggi goldoniani» La voce relativa a Mirandolina nel Dizionario letterario Bompiani – di mano del critico Ugo Dèttore – esprime il giudizio più tradizionale su questa figura letteraria.

È forse il più decisamente femminile dei personaggi goldoniani e quello che meglio resistette al passar del tempo: onesta e tuttavia civetta, sempre dotata di senso pratico, essa rappresenta l’eterna vittoria del sesso debole e della sua naturale elementarità sul complesso mondo maschile in cui miserie e generosità si alleano 5 o si contrastano. Nel pacato clima della seconda metà del Settecento, rivive in lei l’epica figura della bella Angelica, e, al pari di Angelica, che fugge l’esasperata passione dei paladini per concedersi a uno stalliere, Mirandolina, con buon senso infinito quanto irriverente per ogni forma di idealità, preferisce al cuore di tre gentiluomini il più semplice amore di un cameriere.

Roberto Alonge Il ruolo maschile di Mirandolina R. Alonge, Goldoni. Dalla commedia dell’arte al dramma borghese, Garzanti, Milano 2004

Un’ottica opposta ispira il giudizio che sul personaggio di Mirandolina (visto in chiave decisamente negativa) formula Roberto Alonge. Secondo il critico è soprattutto nel rapporto con Fabrizio che meglio si possono cogliere i tratti più specifici della personalità della locandiera.

[... Ci] sembra indubbio che Mirandolina tende a giocare, anche in questo dominio particolare dell’esistenza, un ruolo per così dire maschile, attivo, decisionale e decisionista. È assai probabile che abbia un partner sessuale, che è ovviamente Fabrizio, ma la scelta non è casuale. L’amante è anche il dipendente della bottega, 5 è cioè un suo sottoposto. Mirandolina dà del tu a Fabrizio, ma Fabrizio dà sempre del voi a Mirandolina. Nemmeno la familiarità dei corpi riesce a piegare ciò che sta più a cuore a Mirandolina, il gusto delle gerarchie, il piacere del potere, del comando sociale. E qui ci torna utile appunto il dialogo di I, 10 fra Mirandolina e Fabrizio. In I, 9 Mirandolina ha appena finito di assicurarci che non ha nessuna 10 intenzione di sposarsi. In I, 10, a fronte delle sollecitazioni di Fabrizio in questo senso, si guarda bene dal contraddirsi, sebbene sfumi diplomaticamente il suo diniego: «Sì, quando mi vorrò maritare, mi ricorderò di quel che ha detto mio padre»; «E quando vorrò maritarmi... mi ricorderò di mio padre. E chi mi averà servito bene, non potrà lagnarsi di me. Son grata. Conosco il merito...» [...]. 15 Notate che Mirandolina utilizza sempre il verbo di volontà («quando mi vorrò maritare», «quando vorrò maritarmi»). Ciò che le preme ribadire è il suo potere, il suo volere. E il tempo verbale è brutalmente al futuro («vorrò»). In realtà Mirandolina fa con Fabrizio sostanzialmente come fa con i suoi clienti aristocratici. C’è lo stesso sapiente cinismo, il medesimo gusto sottile di vendersi, di dare il 20 proprio corpo (o anche solo il sogno, la speranza, del proprio corpo) in cambio di denaro e di utile. Con i clienti titolati avviene tutto sul piano fantasmatico, delle illusioni e dei vagheggiamenti. Con Fabrizio avviene invece a un livello reale. Con i primi risparmia soldi sul servizio e guadagna credibilità per la propria locanda.

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Con Fabrizio risparmia probabilmente sulla paga (che terrà moderatamente bassa) e ottiene assoluta fedeltà lavorativa, cioè impegno in ore e in efficacia. Nel dialogo diretto («E chi mi averà servito bene, non potrà lagnarsi di me. Son grata. Conosco il merito...») la lusinga è evidentissima e sfacciatamente scoperto è il calcolo, il ricatto che pretende disciplina ed efficienza di dipendente in nome di una incerta promessa di futuro matrimonio. Ma nell’a parte il cinismo di Mirandolina è di30 sgustosamente confesso: «Povero sciocco! Ha delle pretensioni. Voglio tenerlo in isperanza, perché mi serva con fedeltà» [...]. «Povero sciocco» è un sintagma che contrassegna sistematicamente il disgraziato Fabrizio. Si veda in III, 2: «Povero sciocco! Mi ha da servire a suo marcio dispetto. Mi par di ridere a far che gli uomini facciano a modo mio» [...]. In I, 10 Mirandolina conta di tenere sulla corda 35 il «povero sciocco» perché la «serva con fedeltà». In III, 2 il «povero sciocco» deve comunque servire, con le buone o con le cattive, «a suo marcio dispetto». 25

Guido Davico Bonino Una piccolo-borghese in cerca d’identità G. Davico Bonino, Introduzione a La locandiera, Mondadori, Milano 1983

Nella pagina che segue, Guido Davico Bonino fonda la sua interpretazione non solo di Mirandolina, ma dei nobili che la attorniano, su una dinamica psicologico-sociale incentrata sulla ricerca di identità. Nel caso della piccolo-borghese Mirandolina tale ricerca si concretizza nel gioco seduttivo. Il critico si sofferma inoltre sull’audacia del testo e sul rapporto – ambiguo – che dovette legare Mirandolina al suo ideatore.

La commedia non è l’apologia di una “regina di cuori”. [... È,] semmai, l’impietosa (nonostante il ben noto “tono medio” goldoniano) radiografia di quattro esistenze alla ricerca di una loro identità. L’uno, un nobile decaduto e spiantato, un certo Forlipopoli, la cerca nella stizzosa difesa di un “decoro” ridotto a pura espressio5 ne verbale; l’altro, un tal Albafiorita, crede di trovarla nel potere portentoso del denaro, da aristocratico dell’ultim’ora, da parvenu straricco; un terzo, Ripafratta, si ostina a riconoscerla nella sua altezzosa misantropia, nella sua sdegnata salvatichezza; la quarta, Mirandolina, se la attribuisce, quasi per scommessa, come impareggiabile seduttrice. Ma quel gran dispendio di egoismo, quella caparbia 10 esibizione egotica non soddisfa nessuno. Usciti di scena, Albafiorita, Forlipopoli, Ripafratta entreranno in un’altra locanda per architettare un’analoga “fiera delle vanità”; rimasta sola in scena, Mirandolina, con quel suo marito-servo d’accatto, non ha altro compenso, per la sua funambolica esibizione, che una bella dose di sgomento, un’ombra di rimorso, l’assillo dell’amarezza. 15 E qui tocchiamo lo strato più fondo della commedia, quello che non dovette piacere affatto ai contemporanei di Goldoni, che forse infastidì, addirittura, i più conservatori (si pensi a uno spettatore-tipo come il conte Gozzi). Come il titolo recita, nella sua polemica nudità, il motore di tutta questa ridicola e patetica giostra di identità insoddisfatte è, dopotutto, una proprietaria di locanda. Non c’è bisogno, anche qui, 20 di scomodare gli storici [...] per sapere che siamo davanti ad una piccolo-borghese: rappresentante di quella classe mercantile, onesta ed alacre, che è certo la spina dorsale della Repubblica, ma al suo livello più modesto, al livello appunto di quegli albergatori, caffettieri ed osti, che, a Venezia come nell’entroterra, avevano l’obbligo di garantire vitto e alloggio decoroso ai “forestieri nobili e civili”.

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INTERPRETAZIONI CRITICHE A CONFRONTO

25 Ora questa piccolo-borghese, sia pure nello spazio di una dichiarata finzione scenica

(anzi, di una “finzione nella finzione”, giacché “recita”, all’interno della commedia, la parte, esibita, della seduttrice), tiene a bada due nobili e mortifica un “cittadino”: e lo fa con parole, accenti e toni di una certa qual spregiudicata franchezza, a tratti sembra sfogare chissà quale sopito livore, in altri istanti s’abbandona ad un’ira che 30 ha tutta l’aria di non essere finta, di essere, insomma, poco “recitata”. Non appariva, tutto questo, ad occhi indiscreti o ad orecchie prevenute un poco troppo audace? Non rischiava di far credere ad uno spettatore giunto (poniamo) da paesi lontani che quella Firenze-Venezia fosse una città uscita dai cardini, se i suoi equilibri di classe risultavano, almeno a teatro, così sbilanciati? Sono domande che 35 dovette porsi anche Goldoni nel corso della stesura: e questo spiega la fondamentale ambiguità del suo rapporto con Mirandolina, quel misto di attrazione-repulsione, di fascino-fastidio di cui sono permeate, almeno nei primi due atti, tante battute della locandiera o che la riguardano: mentre nel terzo atto le ragioni della prudenza goldoniana sembrano addirittura prevalere, e la scrittura del drammaturgo, persino 40 [...] nelle scelte lessicali, pare voler marcare una certa presa di distanza dagli esiti ultimi del suo comportamento.

Analisi e produzione di un testo argomentativo Comprensione e analisi

Produzione

1. Sai dire qual è il senso dell’espressione «rivive in lei l’epica figura della bella Angelica»? Ricordi chi era Angelica? Che cosa può avvicinare le due eroine? 2. Che cosa significa, secondo te, l’espressione «irriverente per ogni forma di idealità»? 3. Alonge formula un giudizio negativo sul personaggio di Mirandolina. Riassumi le motivazioni che sostengono tale giudizio. 4. Che cosa significa l’espressione «la commedia non è l’apologia di una “regina di cuori”»? 5. Spiega l’espressione usata per definire il comportamento di Mirandolina: «caparbia esibizione egotica» (puoi controllare sul vocabolario il significato del termine egotismo). 6. Perché, secondo il critico, la commedia poteva apparire troppo audace per i tempi? 7. Quale rapporto vede il critico tra Goldoni e il suo personaggio? 8. Metti a confronto le diverse interpretazioni del personaggio di Mirandolina qui presentate. 9. Quale delle tre interpretazioni di Mirandolina ti senti di condividere? Argomenta il tuo giudizio in un testo coerente e coeso.

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Fissare i concetti Carlo Goldoni Ritrratto d’autore 1. In che modo Goldoni inizia la sua carriera nel mondo teatrale? 2. Da parte di chi riceve polemiche Goldoni per le sue prime commedie? Per quale motivo? 3. Quali incarichi gli vengono affidati a Parigi? Con quale ambiente entra in contatto? 4. Qual è la sua posizione alla corte di Versailles? I Mémoires 5. Quale immagine di Goldoni emerge dai Mémoires? La riforma del teatro comico. I temi. L’ideologia. La lingua 6. Da quali esigenze nasce la riforma? 7. In che cosa la riforma si allontana dalla Commedia dell’arte? Quale priorità rivendica? 8. Per che cosa si caratterizzano le commedie di Goldoni? 9. Con quale spirito Goldoni osserva e descrive la vita? 10. Per quale motivo i personaggi delle commedie di Goldoni non indossano più la maschera? 11. In che modo le due espressioni “commedia di carattere” e “commedia di ambiente” sono strettamente legate? 12. Qual è la funzione del teatro secondo Goldoni? 13. In che cosa si differenzia la comicità goldoniana da quella della Commedia dell’arte? 14. Per quali aspetti Goldoni è influenzato dalla cultura illuminista? 15. In che senso si può affermare che la lingua utilizzata da Goldoni rifletta uno “stile naturale”? La locandiera 16. Come è strutturata questa commedia? 17. Chi sono i protagonisti? A quali classi sociali appartengono? 18. Dove si svolge la vicenda? 19. Quale immagine della nobiltà emerge dalla commedia? 20. A quali tecniche narrative ricorre Goldoni per rivelare verità e dinamiche meno evidenti, ma più rispondenti alla realtà dei personaggi?

Sebastiaen Vrancx, Una scena della Commedia dell’arte con Pantalone e uno Zanni, prima metà del XVII secolo (Collezione privata).

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Settecento Carlo Goldoni

Sintesi con audiolettura

1 Ritratto d’autore

Una vita per il teatro Carlo Goldoni (1707-1793) è stato uno dei maggiori scrittori di teatro italiani. La vocazione dell’autore veneziano per la scena è presente sin dall’età giovanile e viene coltivata parallelamente agli studi di diritto; la carriera in questo mondo, tuttavia, inizia solo nel 1734, quando Goldoni entra in contatto con la compagnia Imer, per la quale realizza copioni prima solo “a soggetto” e poi, a partire dal 1743, con La donna di garbo, interamente scritti. Nel 1748 lascia la sua altra professione, quella di avvocato, e si dedica al teatro nella sua Venezia a tempo pieno; da quel momento, si afferma scrivendo commedie che si distaccano dal consueto modello della Commedia dell’arte (la più celebre è La locandiera, del 1752; seguono poi Gl’innamorati e I rusteghi nella stagione 1759-60 ): una scelta che gli conferisce grande fama, ma gli attira anche critiche dal pubblico e da altri commediografi. Nella stagione 1761-62 conclude la sua attività veneziana con la Trilogia della villeggiatura; Sior Tòdero brontolon; Le baruffe chiozzotte e infine Una delle ultime sere di carnovale. Nel 1762 la vita di Goldoni conosce una svolta grazie all’invito a recarsi a Parigi per dirigere la Comédie-Italienne: nella capitale francese, viene accolto a corte, conosce i maggiori intellettuali illuministi e, sebbene debba tornare a lavorare secondo i dettami – da tempo abbandonati – della Commedia dell’arte, riesce ancora a comporre opere significative, cui si aggiunge anche un libro di memorie (Mémoires, 1787). Nel 1792, però, la pensione e i titoli conferitigli dalla monarchia vengono revocati e, nel 1793, il commediografo muore in povertà.

2 I Mémoires

Goldoni racconta Goldoni Tra il 1783 e il 1786 Goldoni scrive (in francese) la propria autobiografia, utilizzando appunti personali o dei famigliari e le prefazioni delle edizioni delle sue commedie, ricche di ricordi e riflessioni. La sua vita è raccontata in tre parti (la giovinezza, la vita di teatro a Venezia e il soggiorno francese): il tono è vivace; l’ambientazione principale è quella urbana, vitale, sullo sfondo della quale vengono rievocate molteplici esperienze felici e formative per un individuo che, a suo dire, già dall’infanzia si vede uomo di teatro. Un’opera, però, di episodi selezionati per trasmettere l’immagine di una carriera lineare e di una personalità equilibrata e serena, che dunque sorvola sulle tante delusioni, sui rimpianti e sulla malinconia che sicuramente l’autore doveva provare a quasi ottant’anni.

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3 La riforma del teatro comico

Motivazioni, caratteri e storia della riforma Goldoni si propone, alla luce degli ideali di buon gusto e razionalità prima arcadici e poi illuministi, di rinnovare la commedia, salvaguardandone però gli aspetti che potevano divertire il pubblico e confrontandosi con le esigenze degli impresari e degli attori e con la suscettibilità della nobiltà. L’autore vuole quindi mantenere il ritmo e la forza comica della Commedia dell’arte, ma eliminare volgarità e ripetitività dei ruoli in favore di personaggi e ambientazioni tratti dalla vita reale. La riforma procede in modo non rettilineo per le resistenze dell’ambiente teatrale e sociale veneziano. Tuttavia, con gradualità, viene abbandonato il canovaccio, sul quale improvvisavano gli attori comici, e si afferma il testo scritto d’autore; le tradizionali e stereotipate maschere si trasformano in personaggi moderni e psicologicamente sfaccettati;; si valorizza l’espressività dei volti eliminando le maschere che li coprivano. Goldoni, inoltre, pensa che il teatro, anche quando diverte, non debba avere come scopo esclusivo l’evasione ma anche una funzione educativa, una spinta alla riflessione: obiettivo in cui si avverte l’impronta di una visione illuminista. Ciò non si traduce in lezioni moralistiche, ma in una visione del mondo equilibrata, che traspare dalle introduzioni delle opere o dagli intrecci stessi, e che prevede di sorridere dei limiti e dei difetti dei singoli e dei gruppi sociali riuscendo, contemporaneamente, a vedere il bene potenziale che la vita riserva. La struttura drammaturgica dei lavori goldoniani si compone, non a caso, di una crisi che si conclude con un lieto fine, in grado di riportare la situazione in equilibrio; anche se, a volte, questo finale felice mostra caratteri di ambiguità. La comicità emerge non da colpi di scena o battute triviali, ma da manie e tic dei personaggi o da scambi veloci di battute, a volte anche ambigue, in cui due o più attori rafforzano progressivamente il proprio accordo o disaccordo.

4 I temi, l’ideologia, la lingua

La radiografia delle classi sociali La riforma goldoniana del teatro innalza a protagonista la classe borghese, rappresentata in particolare dal mondo mercantile della sua Venezia, della quale esalta laboriosità, concretezza, parsimonia. Non manca, però, di ritrarne anche la possibile degenerazione, di cui sono segnali il culto delle apparenze e la dissipazione, tipicamente aristocratiche, oppure la chiusura autoreferenziale, nella custodia gelosa di tradizioni ormai anacronistiche. Della nobiltà Goldoni contesta la supponenza, la chiusura in rituali arcaici di comportamento, l’oziosità e l’improduttività, oltre che l’inclinazione allo sperpero. Immune dai difetti dell’una e dell’altra classe, nella sua allegra e vitale spontaneità, appare il popolo, ritratto innovativamente con simpatia in alcune celebri commedie “corali”, dal Campiello alle più tarde Baruffe chiozzotte. L’atteggiamento generale di Goldoni è quello di un illuminista moderato: nelle sue opere emerge uno spirito laico, la tensione all’eguaglianza, il richiamo alla razionalità e all’“utile sociale”, un ottimismo di fondo; mediante ciò si deve modernizzare la società, ma senza scardinare le gerarchie sociali, che per l’autore rimangono elementi naturali, insostituibili. Le lingue di Goldoni Le opere di Goldoni sono improntate al plurilinguismo. Nel proprio lavoro, l’autore utilizza italiano, veneziano e francese. Al perseguito realismo della rappresentazione corrisponde la scelta di una lingua – sia essa la lingua italiana di tono medio; sia, ancor più, il dialetto veneziano, spesso contaminata dalla prima – antiletteraria e funzionale a ritrarre dal vivo ambienti, situazioni, personaggi, senza però scadere nella rozzezza del parlato della Commedia dell’arte.

Sintesi Settecento

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5 La locandiera

La locandiera e la nuova commedia La locandiera (1753) è la commedia goldoniana più nota e rappresentata e costituisce uno degli esempi più convincenti della riforma del teatro. Il lavoro rifiuta la comicità stereotipata e grossolana, perseguendo invece la verosimiglianza dell’intreccio, definito in un testo scritto, e accogliendo comunque alcuni espedienti della tradizione, che vengono rivitalizzati, così come accade alle maschere, rinnovate dall’interno. La vicenda è ambientata in una locanda fiorentina gestita da Mirandolina, la titolare, aiutata dal cameriere Fabrizio, che di lei è innamorato e succube. La donna – uno dei personaggi femminili più moderni e complessi di Goldoni – attira le attenzioni di due ospiti, il ricco conte di Albafiorita e l’altezzoso e spiantato marchese di Forlimpopoli, tra i quali riesce però a destreggiarsi senza concedersi ad alcuno; ad essi si aggiunge il misogino cavaliere di Ripafratta, che Mirandolina decide di umiliare facendolo innamorare. Ma quando lo scontroso nobile inizia a provare veramente dei sentimenti verso la donna, la protagonista capisce di essersi spinta troppo oltre: interrompe il suo gioco seduttivo e dichiara pubblicamente di voler sposare Fabrizio. Emerge nella vicenda il ritratto negativo che Goldoni realizza della nobiltà: i tre rappresentanti del ceto sono arroganti, supponenti, altezzosi e oziosi, anche se ciascuno di essi è caratterizzato da un comportamento differente. La vera innovazione risiede però nel personaggio di Mirandolina: al contrario del personaggio della Commedia dell’arte cui si ispira, la donna è qui una personalità profondamente concreta e razionale, una tipica esponente della borghesia dell’epoca. La struttura drammaturgica La commedia è divisa in tre atti, simili per ampiezza: essi propongono rispettivamente la situazione generale e il tema centrale (il rapporto tra Mirandolina e il cavaliere di Ripafratta), lo sviluppo di quest’ultimo (l’opera di seduzione) e il ritorno alla vicenda iniziale (l’abbandono del cavaliere da parte della protagonista e la scelta del matrimonio con Fabrizio). La vicenda evolve attraverso dialoghi, monologhi o “a parte”, cioè battute poste tra parentesi che, come i monologhi, esplicitano una verità diversa da quella che emerge dai dialoghi e aiutano a caratterizzare i personaggi. La conclusione è solo apparentemente lieta, poiché vi rimane ambigua la natura del sentimento tra titolare e cameriere; Goldoni, infatti, si premura di chiarire nella Prefazione al testo la finalità educativa del proprio lavoro e la negatività del personaggio di Mirandolina.

Illustrazione di Antonio Baratti e Pietro Antonio Novelli di una scena della Locandiera, XVIII secolo.

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Zona Competenze Sintesi

1. Sintetizza le fasi principali della riforma del teatro operata da Goldoni. 2. Utilizza i testi letti per tratteggiare il ruolo e i caratteri della comicità nel teatro goldoniano.

Testi a confronto

3. Costruisci uno schema di confronto tra l’ideologia di Goldoni e le contemporanee posizioni dei philosophes in merito ai principali temi del dibattito illuminista, quali l’uguaglianza degli uomini, il ruolo del singolo nella società, il ruolo della ragione, la funzione dell’arte, l’assetto politico-sociale, la lingua letteraria. 4. Per la commedia goldoniana si parla di “commedia borghese” in rapporto alla caratterizzazione individuale e sociale del personaggio e per la valorizzazione delle qualità proprie della borghesia. Istituisci un confronto con il romanzo borghese del Settecento, individuando le analogie nella scelta dei personaggi, delle situazioni, le modalità rappresentative impiegate.

Esposizione orale

5. Prepara un intervento orale da sostenere di fronte alla classe, mettendo in luce il rapporto fra «Mondo» e «Teatro» nella poetica e nelle opere di Goldoni.

Scrittura creativa

6. Prova a ideare un altro finale plausibile per La locandiera. Come pensi che potrebbe evolvere il personaggio di Mirandolina dopo le nozze con Fabrizio? Scrivi un breve testo narrativo.

Competenza 7. Svolgete una ricerca in Rete relativa agli allestimenti e alle rappresentazioni teatrali digitale novecenteschi della Locandiera: raccogliete le informazioni e la documentazione ed esponete in classe con l’aiuto di supporti multimediali (PowerPoint, video, podcast ecc.).

Sintesi Settecento

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SettecentoQuattrocento e Cinquecento CAPITOLO

11 Vittorio Alfieri LEZIONE IN POWERPOINT

L’uomo Alfieri visto da sé medesimo... Nella Vita, libro autobiografico in cui delinea il proprio percorso esistenziale, Alfieri così descrive il suo carattere impulsivo e contraddittorio, che si era già manifestato nell’infanzia e nella prima giovinezza:

L’indole, che io andava intanto manifestando in quei primi anni della nascente ragione, era questa. Taciturno e placido, per lo più; ma alle volte loquacissimo e vivacissimo; e quasi sempre negli estremi contrari; ostinato e restío contro la forza; pieghevolissimo agli avvisi amorevoli1; rattenuto più che da nessun’altra cosa dal timore d’essere sgridato; suscettibile di vergognarmi fino all’eccesso, e inflessibile se io veniva preso a ritroso2. Vita, Epoca prima, cap. IV 1 pieghevolissimo… amorevoli: docilissimo nell’accogliere i suggerimenti dati in modo affettuoso.

2 se io veniva preso a ritroso: se ero rimproverato ingiustamente.

Il carattere indipendente del futuro scrittore lo porta gradualmente a rifiutare l’ambiente dell’aristocrazia, fatuo e ancorato a un passato al tramonto. Alfieri giunge a detestare la sua condizione apparentemente invidiabile di nobile ricco e ozioso, immersa in continui svaghi, amori, divertimenti, ma priva di un compito e di uno scopo.

Intanto per allora la divagazione1 somma e continua, la libertà totale, le donne, i miei ventiquattro anni, e i cavalli di cui avea spinto il numero sino a dodici e più, tutti questi ostacoli potentissimi al non far nulla di buono, presto spegnevano od assopivano in me ogni qualunque velleità di divenire autore. Vegetando io dunque così in questa vita giovenile oziosissima, non avendo mai un istante quasi di mio, né mai aprendo più un libro di sorte nessuna2, incappai (come ben dovea essere) di bel nuovo in un tristo amore3; dal quale poi dopo infinite angosce, vergogne, e dolori, ne uscii finalmente col vero, fortissimo, e frenetico amore del sapere e del fare, il quale d’allora in poi non mi abbandonò mai più; e che, se non altro, mi ha una volta4 sottratto dagli orrori della noia, della sazietà, e dell’ozio; e dirò più, dalla disperazione; verso la quale a poco a poco io mi sentiva strascinare talmente, che se non mi fossi ingolfato5 poi in una continua e caldissima6 occupazione di mente, non v’era certamente per me nessun altro compenso7 che mi potesse impedire prima dei trent’anni dall’impazzire o affogarmi. Vita, Epoca terza, cap. XIII 1 divagazione: svago. 2 di sorte nessuna: di nessun tipo. 3 di bel nuovo… amore: nuovamente in un rapporto amoroso spregevole.

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4 una volta: una volta per tutte. 5 ingolfato: impegnato, assorbito. 6 caldissima: appassionata. 7 compenso: compensazione, rimedio, conforto.


Il pensiero di Alfieri, incentrato sull’idea di libertà, trae le sue radici dall’Illuminismo, ma anticipa la visione del mondo romantica per molti aspetti: la valorizzazione delle passioni, il forte individualismo, la ribellione a tutto ciò che limita la libera espressione dell’io, esasperata in una forma di titanismo, la predilezione per una natura grandiosa e sublime esercitano profonda suggestione sulle giovani generazioni di scrittori che aprono l’età romantica (in particolare Foscolo). La modernità dello scrittore, peraltro, va oltre il romanticismo, per la capacità di cogliere aspetti profondi dell’interiorità, come nella Vita e nelle maggiori tragedie. Il genere tragico è quello in cui lo scrittore ripone maggiori ambizioni, rinnovandolo profondamente, e incentrando la maggior parte delle tragedie sul contrasto fra “tiranno” e uomo libero. In due drammi, il Saul e la Mirra, il conflitto tragico è spostato all’interno dell’io, di cui emerge un volto oscuro, sconosciuto alla civiltà dei lumi.

1 Ritratto d’autore visione del mondo. 2 LaL’immagine del poeta e il ruolo della poesia

e le generazioni 3 Alfieri successive 431 431


1 Ritratto d’autore 1 Una vita “contro” VIDEOLEZIONE

L’infanzia e la prima giovinezza Vittorio Alfieri nasce ad Asti, il 16 gennaio 1749, da una nobile e ricca famiglia. Il padre muore quando lui ha appena un anno, la madre si risposa e, di fatto, non si occuperà molto di Vittorio e di sua sorella, Giulia. A nove anni il ragazzo è mandato a studiare all’Accademia Reale di Torino, dove non si appassiona agli studi, ritenuti «pedanteschi e mal fatti», né, tanto meno, alla disciplina militare, alla cui «catena di dipendenze gradate» dichiara di non essersi mai voluto adattare.

La frenesia del viaggiare A quattordici anni entra in possesso della ricchissima eredità paterna; a partire dai diciassette anni (dal 1766 al 1772), esce dal Piemonte per una serie di frenetici viaggi, prima in Italia, poi in Europa (Francia, Inghilterra, Olanda, Germania, Svezia, Danimarca, Austria, Germania, Russia, Finlandia, Spagna, Portogallo). Inquieto, impaziente, e spesso annoiato, non è in grado, a causa degli studi mal fatti e della scarsa preparazione, come egli stesso racconta nella Vita, di online trarre un sufficiente frutto culturale da quei viaggi, che pure D1 Vittorio Alfieri gli «allargano le idee». Torna quindi in Italia e si stabilisce a L’autoritratto di un aristocratico viziato e prepotente Torino, dove conduce una vita oziosa, disperdendosi fra monVita, Epoca terza, cap. XII danità e futili amori (➜ D1 OL). La “conversione” letteraria: dall’aristocratico annoiato nasce uno scrittore Come narra nella sua autobiografia, Alfieri non gode affatto della sua vita di nobile ozioso e dissipato, anzi, a un certo punto è colto da una disperazione tale che gli

CARTA INTERATTIVA DEI LUOGHI

Cronologia interattiva 1751 Nasce l’Encyclopédie.

1740

1759 Esce Candido di Voltaire.

1750

1749

Nasce ad Asti il 16 gennaio.

1765 Riforme illuministiche del granduca di Toscana.

1760

1750

1774 Luigi XVI, re di Francia.

1770

1766

Muore il padre.

Primo viaggio in Italia. 1758

Entra all’Accademia militare di Torino.

1767-1772

Viaggia in Europa.

432 Settecento 11 Vittorio Alfieri

1774

Scrive la Cleopatra.


sembra di non poter giungere ai trent’anni senza «impazzire o affogarsi». Solo dopo aver raggiunto una consapevolezza delle proprie aspirazioni e desideri, in contrasto con le aspettative del proprio ambiente, riuscirà a dare un significato alla propria esistenza, divenendo ciò a cui si sentiva chiamato: uno scrittore. La svolta avviene nel 1774: mentre assiste un’amante malata, osservando degli arazzi in casa di lei, con le immagini di Antonio e Cleopatra, è ispirato a scrivere una tragedia su quell’amore lussurioso, che gli ricorda il proprio, e l’anno successivo, nel 1775, la fa rappresentare al teatro Carignano di Torino. Pur imperfetta, la Cleopatra ha successo e gli fa capire di essere nato per scrivere. A tale vocazione si dedica allora completamente, cambiando stile di vita: per la prima volta si applica a studi sistematici, in particolare di letteratura italiana, e apprende il volgare toscano, che parlava imperfettamente, dato che in Piemonte si usava il dialetto o il francese. In pochi anni di attività frenetica compone 19 tragedie, trattati, rime, satire, commedie, e la Vita, in cui racconta le vicende della propria esistenza e della propria «conversione letteraria» (➜ D2 OL e D3 OL). Dopo una serie di relazioni passionali con donne sposate, trova finalmente anche un «degno amore» in Luisa Stolberg, contessa d’Albany, moglie dell’anziano pretendente al trono d’Inghilterra Carlo Edoardo Stuart, un’intellettuale libera, dallo spirito vivace e appassionato. Luisa abbandona il marito e intreccia una relazione con il poeta, che durerà fino alla morte di Alfieri. La «spiemontesizzazione» Nel 1778, Alfieri decide di «spiemontesizzarsi», ossia di rinunciare alla posizione di nobile piemontese (per non dover sottostare ai vincoli feudali che imponevano di chiedere il permesso del sovrano quando viaggiava all’estero e di sottoporre alla censura del governo i suoi scritti); per ottenerlo deve rinunciare a buona parte della propria eredità, a favore della sorella Giulia, che in cambio gli concede una relativamente modesta rendita annuale. Si priva così dell’agiatezza e del lusso, propri della sua condizione nobiliare, per godere di una maggiore libertà.

1775-1781 1776

Pietro Verri, Osservazioni sulla tortura.

1778 Nasce Ugo Foscolo.

Guerra delle colonie del Nord America contro l’Inghilterra.

1789-1794

Rivoluzione francese e “Terrore”.

1796 Inizia la campagna d’Italia di Napoleone.

1802 Napoleone console.

1793

Goldoni muore a Parigi.

1780

1790

1800

1810

1786

In compagnia della contessa d’Albany va a vivere a Parigi.

1777

Scrive il trattato Della tirannide. A Firenze conosce la contessa d’Albany.

Scrive le prime tragedie: Filippo, Polinice, Antigone.

1790

Inizia a comporre la Vita. 1778

1775-76

1795 1792

Deve abbandonare Parigi; va a vivere a Firenze.

Conclusione, presso l’editore Zatta di Venezia, della pubblicazione completa delle opere teatrali, iniziata nel 1788.

1803 Muore l’8 ottobre, a 54 anni.

Si “spiemontesizza” cedendo alla sorella i propri diritti ereditari in cambio di un vitalizio.

Ritratto d’autore 1 433


Da Parigi a Firenze Nel 1786 con la contessa d’Albany si stabilisce a Parigi. Pochi anni dopo scoppia la Rivoluzione francese: in un primo momento Alfieri la accoglie con entusiasmo, esaltandola nell’ode Parigi sbastigliato, ma in seguito ne condanna gli sviluppi sempre più disordinati e le manifestazioni di violenza. Testimonianza di questo cambiamento è il Misogallo (1793-1798), un’opera che sin dal titolo, che significa “odiatore dei francesi” (dal greco misein, “odiare”, e dal latino Gallus, in riferimento ai francesi in quanto discendenti degli antichi Galli), denuncia l’aspra critica di Alfieri nei confronti della Rivoluzione che non ha condotto la Francia alla vera libertà perché non ha rispettato né i diritti dei cittadini, né le leggi. La situazione politica spinge così lo scrittore a lasciare Parigi, perdendo anche una parte dei suoi beni, e, sempre con Luisa Stolberg, nel 1792 torna in Italia per ritirarsi

Sguardo sull’arte Il ritratto nel Settecento Il quadro appartiene a una tipologia diffusa nel Settecento, il ritratto di intellettuale, che subentra al tipo di ritratto più diffuso nel periodo barocco, il quale tendeva piuttosto a esibire i segni di fasto, ricchezza e potere. Alfieri è ritratto con la contessa d’Albany, mentre per un momento interrompe la lettura e, con atteggiamento riflessivo e malinconico, contempla intensamente la donna, quasi a trarne sostegno e ispirazione. Il quadro traduce così in immagine quanto Alfieri scrive della donna amata nella Vita: «invece di ritrovare in essa, come in tutte le volgari donne, un ostacolo alla gloria letteraria, un disturbo alle utili occupazioni, ed un rimpicciolimento direi di pensieri, io ci ritrovava e sprone e conforto ed esempio ad ogni bell’opera», e anche: «in lei si innalza, addolcisce, e migliórasi di giorno in giorno il mio animo». Il poeta e la donna sono in biblioteca, a scrivere e a leggere, evidenziando il comune amore per la cultura. Sul lato sinistro dello scrittoio sono appoggiati dei libri, fra cui si riconoscono i Saggi di Montaigne, prediletto da ambedue. La contessa, esempio della nuova figura femminile che si afferma nel Settecento, la donna intellettuale e colta, è vestita

semplicemente, quasi modestamente, con i capelli raccolti in un copricapo in modo sobrio. Dietro una cortina sollevata, appare una veduta di Firenze, in cui si riconoscono il campanile di Giotto e la cupola di Santa Maria del Fiore. A sottolineare il rapporto dello scrittore con la Toscana, la regione dove si sono formate la lingua e la cultura italiana, l’anello di Alfieri, posto in evidenza, reca l’effigie di Dante. Il libro aperto, su cui Alfieri poggia la mano, è il poema Raggione felice, dell’abate Tommaso Valperga di Caluso, letterato e filosofo piemontese, a cui il quadro era dedicato, che, come Alfieri racconta nella Vita, lo aveva incoraggiato a dedicarsi alla letteratura (Epoca terza, cap. XII) ed era a lui legato da profonda amicizia. Anche la lettera, che l’Albany tiene in mano, contiene versi di Alfieri rivolti a Caluso. Il materiale scrittorio (calamaio, penne, fogli) disseminato sulla tavola evoca la dedizione alla scrittura e l’assiduità degli scambi epistolari, la dimensione di compartecipazione della cultura, così importante nel secolo dei lumi, che lega il poeta, la sua donna e l’amico lontano.

IMMAGINE INTERATTIVA

François-Xavier Fabre, Alfieri e la contessa d’Albany, olio su tela, 1796 (Torino, Museo civico).

434 Settecento 11 Vittorio Alfieri


in una casa sul Lungarno, a Firenze, dove vive chiuso in una sdegnosa solitudine. Negli ultimi anni Alfieri dà voce soprattutto a una vena critica e satirica. Dal 1800 al 1803 compone quattro commedie politiche (L’uno, I pochi, I troppi, L’antidoto), in cui mette in risalto i difetti di vari regimi, da quello monarchico non costituzionale, a quello oligarchico a quello democratico, proponendo come antidoto una costituzione mista. Un analogo atteggiamento critico emerge nelle 17 Satire, scritte in terzine dantesche tra il 1786 e il 1797, che affrontano temi politici, sociali e di costume. Alfieri muore a Firenze nel 1803 a soli cinquantaquattro anni. La sua salma viene traslata nella chiesa di Santa Croce e al grande scultore Antonio Canova è commissionato da Luisa Stolberg il monumento funebre che ne accoglie le spoglie.

Vittorio Alfieri

La “conversione” alla letteratura

D2

Vita, Epoca terza, cap. XV Questo passo della Vita testimonia l’impegno appassionato con cui Alfieri, una volta riconosciuta la propria vocazione, scopre l’«amore del sapere e del fare», incanalando le sue energie nell’attività di scrittore teatrale.

V. Alfieri, Vita, a c. di G. Cattaneo, Garzanti, Milano 1981

AUDIOLETTURA

E in questa guisa, null’altro desiderando io allora che imparare, e tentare, se mi poteva riuscire quella pericolosissima e temeraria impresa, la mia casa si andava a poco a poco trasformando in una semiaccademia di letterati. Ma essendo io in quelle date circostanze bramoso d’imparare, e arrendevole, per accidente1; ma per natura, 5 ed attesa l’incrostata ignoranza2, essendo ad un tempo stesso agli ammaestramenti recalcitrante ed indocile; disperavami3, annoiava altrui e me stesso, e quasiché nulla venivami a profitto4. Era tuttavia sommo il guadagno dell’andarmi con questo nuovo impulso cancellando dal cuore quella non degna fiamma, e di andare ad oncia ad oncia5 riacquistando il mio già sì lungamente alloppiato intelletto6. Non mi trovava 10 almeno piú nella dura e risibile necessità di farmi legare su la mia seggiola, come avea praticato più volte fin allora, per impedire in tal modo me stesso dal poter fuggir di casa, e ritornare al mio carcere. Questo era anche uno dei tanti compensi ch’io aveva ritrovati per rinsavirmi a viva forza. Stavano i miei legami nascosti sotto il mantellone in cui mi avviluppava, ed avendo libere le mani per leggere, o scrivere, 15 o picchiarmi la testa, chiunque veniva a vedermi non s’accorgeva punto che io fossi attaccato della persona7 alla seggiola. E così ci passava dell’ore non poche. Il solo Elia, che era il legatore, era a parte di questo segreto; e mi scioglieva egli poi, quando io sentendomi passato quell’accesso di furiosa imbecillità8, sicuro di me, e riassodato il proponimento9, gli accennava di sciogliermi. Ed in tante e sì diverse maniere mi aiutai 20 da codesti fierissimi assalti, che alla fine pure scampai dal ricadere in quel baratro10.

1 per accidente: in quel caso particolare. 2 attesa… ignoranza: considerata la mia consolidata ignoranza.

3 disperavami: mi disperavo. 4 annoiava… profitto: era molesto agli altri e a me stesso, e non riuscivo a concludere pressoché niente. 5 ad oncia ad oncia: a poco a poco.

6 il mio… intelletto: il mio intelletto reso ottuso (per la mancanza di studio) come se fosse da tempo sotto l’azione dell’oppio (alloppiato). 7 attaccato della persona: legato con il corpo. 8 imbecillità: debolezza, mancanza di carattere, di forza di volontà.

9 riassodato il proponimento: rinsaldatosi, rafforzatosi di nuovo il proposito. 10 in tante… baratro: in tanti e così diversi modi mi difesi da questi vivissimi assalti della tentazione di ricadere in quel baratro (della passione per una donna indegna e di una vita oziosa e dissoluta).

Ritratto d’autore 1 435


Concetti chiave Il ritratto dello scrittore Al nobile viziato, ozioso e insoddisfatto, che ricorda il ritratto del «giovin signore» pariniano, si oppone in questo testo lo scrittore del «volli, e volli sempre, e fortissimamente volli» (Lettera responsiva a Ranieri de’ Calzabigi), che, già adulto, a venticinque anni riprende lo studio. Da allora Alfieri si dedicherà a un intenso lavoro letterario, imponendosi, anche con un drastico stratagemma, l’abitudine a un’applicazione disciplinata e metodica.

Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

COMPRENSIONE 1. Quali ragioni incoraggiano Alfieri a portare avanti il lavoro letterario intrapreso? Quali ostacoli incontra nello svolgimento di tale attività? 2. In più punti del breve testo l’autore allude a una passione che lo tenta e a cui vuole sottrarsi anche attraverso lo studio. Di quale passione si tratta? ANALISI 3. Alfieri tende nella propria autobiografia a descrivere in modo critico l’io del passato. Individua nel testo le espressioni più significative a tal proposito.

Interpretare

SCRITTURA 4. Alfieri è in genere considerato un esempio di un carattere fermo e volitivo. Ti sembra o no che il testo qui proposto evidenzi tale aspetto della sua personalità? Motiva la tua risposta in un testo scritto (max 10 righe).

online D3 Vittorio Alfieri Come Alfieri scriveva i testi tragici Vita, Epoca quarta, cap. IV

Alcuni nobili inglesi a Roma, tappa del loro Grand Tour, in un dipinto del 1760 (Yale, Paul Mellon Collection).

436 Settecento 11 Vittorio Alfieri


2

La visione del mondo. L’immagine del poeta e il ruolo della poesia 1 Un filo rosso tra le opere: il tema chiave della libertà Filo conduttore dell’opera di Alfieri – dai trattati alle tragedie, alla Vita – è il tema della libertà. L’esaltazione della libertà che percorre gli scritti principali dell’autore astigiano si articola in varie forme e ambiti, dalla sfera politica (Della tirannide, significativamente dedicato proprio Alla Libertà) al rapporto tra intellettuale e potere (Del principe e delle lettere), all’ambito individuale, in cui la libertà si fonda sul rifiuto di tutto ciò che limita l’autodeterminazione (la Vita). Lo Stato e la libertà Dal punto di vista politico, ispirandosi alla lettura di illuministi come Voltaire, Rousseau, Helvétius, Montesquieu, in nome della libertà lo scrittore contesta radicalmente la società dell’ancien régime, basata sul volere assoluto del sovrano, ma non approva neppure l’assolutismo illuminato, perché il sovrano non è comunque soggetto alle leggi, come invece gli altri uomini. In un certo senso anche questo tipo di Stato per Alfieri è “tirannico”, pur se il sovrano dichiara di agire nell’interesse del popolo. La libertà dell’intellettuale Ma, qualunque sia la situazione politica, ad Alfieri sta soprattutto a cuore la libertà intellettuale, la possibilità di esercitare il pensiero critico: primo dovere dell’uomo di cultura è infatti per Alfieri mantenere la propria indipendenza di pensiero, perché ha il compito di risvegliare le coscienze e conquistarle alla causa della libertà. Proprio per questo l’uomo di cultura dovrebbe evitare di trarre guadagni o vantaggi dalla propria attività di scrittore, il che inevitabilmente limiterebbe la possibilità di un giudizio indipendente. Alfieri rifiuta quindi la figura del letterato cortigiano, ma anche quella più moderna dello scrittore che vive dei proventi delle proprie opere Le tragedie e la libertà Per ispirare valori libertari Alfieri si affida come autore soprattutto alle tragedie, che incentra, per la maggior parte, proprio sul conflitto fra un “tiranno” e un “uomo libero”: spesso quest’ultimo soccombe, ma è vittorioso sul piano morale. Con sensibilità moderna, Alfieri mostra però come gli ostacoli alla libertà possano essere anche interiori: nelle due tragedie più riuscite, il Saul e la Mirra, infatti, mette in scena protagonisti tiranneggiati dalle proprie smisurate passioni. Nell’analisi dei conflitti interni alla psiche, Alfieri supera i limiti della cultura dei lumi, approdando alla scoperta di un volto oscuro dell’io, che precorre persino, per alcune intuizioni, la psicoanalisi novecentesca. La libertà nella Vita Il tema della libertà interiore è centrale anche nella Vita, in cui Alfieri descrive il proprio percorso esistenziale come lotta contro ogni forma di limite, di condizionamento e di costrizione, alla scoperta del nucleo più autentico della propria personalità e delle proprie vocazioni. Se il tema della libertà, individuale e socio-politica ha le sue radici nel pensiero illuministico, d’altra parte Alfieri lo sviluppa in una prospettiva nuova, che ha tratti già romantici, mostrando come alla libertà si aspiri perché spinti da sentimenti, passioni, stati d’animo. La visione del mondo. L’immagine del poeta e il ruolo della poesia 2 437


2 Un nuovo modello umano e una nuova idea di poesia Un personaggio eroico Alfieri vuole essere un modello di uomo e scrittore del tutto nuovo, che interpreta in modo originale la transizione tra cultura illuminista e nascente sensibilità romantica. Il poeta astigiano si rappresenta come un personaggio “eroico”, contraddistinto da alti ideali e forti passioni, che si pone in un atteggiamento di costante conflitto con il mondo, con il potere e più in generale con la mediocrità dei tempi. Lo spiccato individualismo lo induce a ricercare costantemente l’affermazione di sé, non senza conflitti e lacerazioni interiori, e a lottare contro le costrittive convenzioni sociali. Alfieri sfida la società e le sue regole, ma sfida anche le pulsioni dispersive e distruttive interiori che lo limitano, alla ricerca spasmodica di un “centro”: lo troverà nel culto della letteratura e nella vocazione di drammaturgo, a cui si dedicherà in modo totalizzante. A lungo Alfieri è stato un “uomo in viaggio”, ma anche il suo modo di viaggiare è diverso da quello di tanti viaggiatori colti del Settecento, frutto di una smania frenetica di oltrepassare confini sempre diversi, alla costante ricerca del nuovo, ma soprattutto alla costante ricerca di sé.

Parola chiave

Il ruolo della poesia Anche la visione che Alfieri ha del ruolo e dei caratteri della poesia è nuova, come è nuovo il suo modo di scrivere (e anche di leggere), motivato da una sorta di “furore”, ben lontano dall’equilibrio e dal razionalismo arcadico, ma Peter Paul anche dall’impegno illuministico. Alfieri attribuisce alla poesia un ruolo importanRubens, La caduta tissimo, ma si tratta di un ruolo alternativo sia al piacevole intrattenimento dell’Ardei Titani, 16371638 (Royal cadia, sia alla prosaica utilità sociale propria dell’Illuminismo: la poesia per Alfieri Museum of Fine è quasi una missione sacra, che deve risvegliare le passioni e gli ideali, parlare al Arts of Belgium, Bruxelles). cuore e insieme alla mente dei lettori, spronandoli a lottare contro ogni forma di oppressione. Le sue opere hanno tutte, in diverso modo, carattere autobiografico e, in particolare alcune tragedie, rispecchiano l’esasperata dimensione agonistica che caratterizza la visione del mondo di Alfieri stesso: la frattura inevitabile tra l’individuo eccezionale e una società al contempo mediocre e tirannica (che anticipa il Romanticismo) si traduce in una lotta titanica contro ogni limite, pur nella consapevolezza che sarà destinata alla sconfitta.

titanismo Il termine deriva dal mito greco: i Titani, giganti dall’immensa forza, figli di Urano e Gea, antiche divinità, avevano osato ribellarsi a Zeus cercando si impadronirsi dell’Olimpo, dimora degli dèi, ma erano stati sconfitti. La figura più nota fra i Titani è quella di Prometeo, che aveva osato sfidare Zeus per donare il fuoco ai mortali, ed era stato perciò incatenato a una rupe sul Caucaso, con un’aquila che gli dilaniava il fegato. Il termine “titanismo” designa un atteggiamento di ribellione estrema e di sfida a ogni forma di oppressione che limiti la libertà umana. Gli atteggiamenti titanici trovano già

438 Settecento 11 Vittorio Alfieri

espressione nella figura di Satana del Paradiso perduto (1667) di John Milton (1608-1674), ma anche della Gerusalemme liberata di Tasso. Il titanismo, tuttavia, sarà propriamente tipico del movimento preromantico dello Sturm und Drang, che valorizza figure di eroici ribelli, come Karl Moor (nei Masnadieri di Schiller si schiera contro le leggi di una società ingiusta), o il Prometeo di Goethe (1773), per poi manifestarsi pienamente nel romanticismo: l’eroe romantico tenta sfide impossibili, e la sua grandezza sta nell’averle concepite, anche se viene sconfitto.


3 Un autoritratto in versi: le Rime Una poesia autobiografica Oltre alle opere in prosa (i trattati, la Vita) e alle tragedie, Alfieri scrisse versi per tutta la vita, nei quali si evidenzia particolarmente la tendenza all’autobiografismo e all’autoanalisi tipica dello scrittore. La raccolta delle Rime è costituita di due parti: la prima comprende rime stampate a Parigi nel 1789, la seconda poesie scritte successivamente, e pubblicate a Firenze nel 1804, dopo la morte di Alfieri. Per lo più si tratta di sonetti, che – come una sorta di diario – sono accompagnati dall’indicazione del luogo e della data in cui sono stati composti, collegando le poesie alla biografia del poeta. L’intento di delineare un ritratto di sé attraverso le rime culmina in un celebre autoritratto (➜ T1 OL), con cui Alfieri inaugura una tradizione poi seguita, tra gli altri, da Foscolo e Manzoni. Una sensibilità proto-romantica La poesia di Alfieri riprende il modello petrarchesco con una sensibilità nuova, divenendo, a sua volta, un modello per autori come Foscolo e i romantici: mentre nella poesia petrarchesca i contrasti sono smorzati e composti in forme armoniche ed equilibrate, la lirica di Alfieri enfatizza le passioni, il dissidio tra l’io e il mondo e, più in generale, gli stati d’animo tormentati e malinconici. Tale sentire già proto-romantico si riflette anche nello stile, che, rispetto al modello petrarchesco, diviene più aspro, duro, corposo, come scolpito dall’intensità delle passioni (anche per l’influsso di Dante, ammirato da Alfieri, nelle cui rime si riscontrano di frequente echi delle rime “petrose” e della Commedia); inoltre, per la concisione, l’energia, la durezza espressiva, il linguaggio lirico di Alfieri è affine a quello delle sue tragedie. I temi della raccolta corrispondono a quelli presenti nelle altre opere alfieriane: accanto al motivo amoroso, tipico della tradizione lirica, emergono il tema politico e il motivo della libertà, interpretato come sfida titanica (in online chiave proto-romantica). Anche la visione della natura, in cui T1 Vittorio Alfieri Sublime specchio di veraci detti si manifesta una predilezione per gli aspetti selvaggi, orridi, Rime “sublimi”, anticipa la sensibilità romantica (➜ T2 ).

Rime STRUTTURA

prima parte pubblicata nel 1789; seconda parte pubblicata nel 1804

FORMA

per lo più sonetti

MODELLI

poesia petrarchesca

ELEMENTI DI NOVITÀ

accentuazione degli stati d’animo conflittuali

STILE

aspro, duro, conciso

TEMI

tema amoroso, politico, della libertà, visione proto-romantica della natura

La visione del mondo. L’immagine del poeta e il ruolo della poesia 2 439


Vittorio Alfieri

T2

LEGGERE LE EMOZIONI

Tacito orror di solitaria selva Rime

V. Alfieri, Opere, a c. di V. Branca, Mursia, Milano 1965

ANALISI INTERATTIVA

Il sonetto si incentra su un tema petrarchesco, la ricerca di solitudine nella natura, espresso in particolare nel celeberrimo Solo et pensoso del Canzoniere. A ispirare la fuga dal mondo nel sonetto alfieriano non è però l’amore, come per Petrarca, ma il rifiuto sdegnoso della società del tempo.

Tacito orror1 di solitaria selva2 di sì dolce tristezza il cor mi bea3, che in essa al par di me non si ricrea 4 tra’ figli suoi nessuna orrida belva4. E quanto addentro più il mio piè s’inselva5, tanto più calma e gioja in me si crea; onde membrando com’io là godea, 8 spesso mia mente poscia si rinselva6. Non ch’io gli uomini abborra7, e che in me stesso mende8 non vegga, e più che in altri assai; 11 né ch’io mi creda al buon sentier più appresso9: ma, non mi piacque il vil mio secol mai10: e dal pesante regal giogo oppresso11, 14 sol nei deserti tacciono i miei guai12.

La metrica Sonetto con schema metrico ABBA ABBA CDC DCD.

1 Tacito orror: cupo silenzio in un luogo spaventevole.

2 solitaria selva: l’allitterazione sottolinea le caratteristiche dell’ambiente solitario e selvaggio; c’è forse anche un ricordo dei primi versi dell’Inferno della Commedia. 3 di sì dolce… mi bea: rallegra il mio cuore con una sensazione di tristezza così dolce; dolce tristezza è un ossimoro, che sottolinea il sentimento di affinità tra lo stato

d’animo cupo e malinconico del poeta e la natura orrida. 4 non si ricrea… belva: non si ristora, insieme ai suoi figli, nessuna belva feroce sentendosi nel suo ambiente. Il poeta sente l’ambiente selvaggio in sintonia con il proprio stato d’animo. 5 quanto… s’inselva: quanto più i miei passi si addentrano nella selva. È da notare il raro verbo inselvarsi, derivato da selva, e sottolineato dalla rima ricca con il v. 1. 6 onde… si rinselva: cosicché, ricordando come là dentro io ero appagato, spesso poi

la mia mente si rifugia nella sensazione suscitata da quel luogo selvaggio e solitario. 7 abborra: aborrisca, detesti. 8 mende: difetti. 9 al buon sentier… appresso: più vicino a una condotta di vita giusta. 10 non mi… mai: non mi è mai piaciuta la mia epoca vile. 11 dal pesante… oppresso: angosciato per la mancanza di libertà dei regimi assoluti. 12 guai: lamenti.

Analisi del testo Il rapporto con il modello petrarchesco Il sonetto testimonia la novità della poesia alfieriana rispetto alla tradizione petrarchesca, mettendo in luce il già sottolineato sentire proto-romantico dell’autore. Ispirato a un famoso testo del Canzoniere (XXXV), Solo et pensoso i più deserti campi, a cui è accomunato dalla ricerca di solitudine nella natura, il sonetto alfieriano, in contrapposizione con la malinconia pacata del modello trecentesco, è dominato da passioni vibranti e intense, in violento contrasto: da una parte la disperazione che troverebbe sfogo in pianti e lamenti (guai) se il rifugio della natura non donasse conforto, dall’altra una gioia sempre più profonda e intensa nel riconoscere nella natura uno specchio della propria angosciosa inquietudine: uno stato d’animo complesso e ambivalente sintetizzato dall’ossimoro «dolce tristezza».

440 Settecento 11 Vittorio Alfieri


Il tema del sublime La predilezione per un paesaggio cupo, orrido e selvaggio, per la sua consonanza con uno stato d’animo turbato e oppresso, evoca il tema proto-romantico del sublime. A questo proposito appare evidente l’affinità con lo scrittore inglese Edmund Burke (1729-1797 ➜ PAG. 216), che caratterizza il sublime come delightful horror, “piacevole orrore”: «orror» del v. 1 è infatti parola chiave del sonetto alfieriano, ripresa nell’aggettivo «orrida» del v. 4.

La struttura La struttura del sonetto è bipartita: nelle quartine prevale la descrizione, nelle terzine l’autoritratto psicologico; i vv. 7-8 fungono da transizione, segnando il passaggio dal presente alla dimensione memoriale («membrando com’io là godea»). Il conforto, infatti, non è limitato al momento del contatto con la natura selvaggia, ma si rinnova attraverso il ricordo: la mente «si rinselva» anche quando il poeta si trova in società, proiettandolo con l’immaginazione lontano da una realtà non amata, soprattutto per la mancanza di libertà politica, come si evince dalle terzine («dal pesante regal giogo oppresso»), un tema tipicamente alfieriano.

Le scelte stilistiche e retoriche La tessitura fonosimbolica del sonetto è accurata, soprattutto nelle quartine, in cui prevalgono suoni aspri e dissonanti: l’allitterazione di «solitaria selva» evoca il silenzio della foresta, ulteriormente rimarcato dall’aggettivo «tacito», in posizione di rilievo in apertura del sonetto; i suoni aspri e duri delle parole in rima (selva : belva : s’inselva : rinselva) richiamano la poesia dantesca (le rime “petrose” e l’Inferno), mentre l’incontro vocalico delle parole in rima bea : ricrea : crea : godea produce un effetto ritmico di rallentamento, che evoca una dimensione interiore raccolta e meditativa. L’io si rasserena e si ritempra a contatto (anche attraverso il ricordo) con la natura: una situazione che può ricordare alcune celebri pagine della Vita.

Caspar David Friedrich, L’albero dei corvi, 1822 (Parigi, Musée du Louvre).

Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

SINTESI 1. Riassumi il contenuto del sonetto (max 10 righe). COMPRENSIONE 2. Spiega perché il poeta predilige la natura solitaria. Quale effetto ha la natura sul poeta? ANALISI 3. Rintraccia nel testo le espressioni che Alfieri utilizza per esprimere il suo giudizio sul suo tempo. 4. Indica i diversi piani temporali presenti nel sonetto. LESSICO 5. Indica i termini che possono essere ricondotti al campo semantico della solitudine.

Interpretare

LEGGERE LE EMOZIONI

SCRITTURA 6. Dopo aver individuato i riferimenti politici presenti nel sonetto, utilizza le seguenti domande per scrivere una breve trattazione (max 20 righe) sul difficile rapporto del poeta con il suo tempo. Per quali ragioni Alfieri ritenne «vile» il suo secolo? Quali accuse Alfieri rivolse alla sua società? Quale funzione a tal proposito assume la solitudine? Ti sembra che nel sonetto sia presente il tema della libertà? Può essere messo in rapporto con altre opere dell’autore? 7. In questo sonetto Alfieri stabilisce una stretta corrispondenza fra il suo animo tormentato e il paesaggio solitario e orrido della natura. È capitato anche a te di rispecchiare il tuo stato d’animo di fronte a particolari spettacoli della natura? Quali emozioni, sentimenti hai provato? TESTI A CONFRONTO 8. Quale autoritratto dell’autore emerge dal sonetto? Qual è il suo rapporto con il mondo in cui vive? Paragonalo all’immagine dell’autore che emerge nel sonetto d’autoritratto (➜ T1 OL).

La visione del mondo. L’immagine del poeta e il ruolo della poesia 2 441


4 I trattati politici: il tema del potere e della libertà Della tirannide Il trattato Della tirannide, in due libri, fu scritto da Alfieri nel 1777, in concomitanza con le prime tragedie, con cui presenta vari punti di contatto. Il primo libro è dedicato all’analisi dei regimi politici illiberali, il secondo al comportamento di chi, pur vivendo in tali stati, voglia essere, almeno interiormente, libero. La terminologia politica di Alfieri: repubblica vs tirannide Per comprendere le posizioni espresse da Alfieri nel trattato è importante avere chiaro il significato della terminologia utilizzata dallo scrittore: egli definisce repubblica uno Stato libero, che può essere anche monarchico, come l’Inghilterra, ma in cui tutti, compresi i governanti, rispettino rigorosamente la legge. Solo a questa condizione uno Stato, secondo l’etimologia latina, può essere chiamato res publica, perché appartiene a tutti i cittadini, mentre si deve definire tirannide qualunque regime, anche apparentemente democratico, in cui chi ha il potere possa a proprio piacere e volere alterare, modificare o infrangere le leggi dello Stato (➜ T3 ).

François Bosio, Ritratto del conte Vittorio Alfieri (New York, Metropolitan Museum of Art).

Il rifiuto del dispotismo illuminato Riprendendo in modo rigoroso l’idea di Montesquieu della separazione dei poteri, Alfieri arriva a rifiutare – e lo considera a tutti gli effetti una “tirannide” mascherata – anche il modello del dispotismo illuminato e riformatore. Anzi, per Alfieri, anche se può sembrare paradossale, un regime manifestamente duro e crudele è preferibile al dispotismo illuminato e riformatore, perché, essendo il bisogno di libertà un sentimento non ugualmente avvertito da tutti, per indurre un gran numero di cittadini a una ribellione, è necessario che una “tirannide” mostri apertamente il suo volto intollerabile «coll’eccedere ogni ragionevole modo». Lo scrittore analizza poi i pilastri su cui si regge uno Stato “tirannico”, sotto l’aspetto sia istituzionale (l’appoggio della nobiltà, l’esercito, l’alleanza con la Chiesa), sia psicologico (il timore, su cui sempre fanno affidamento i regimi dispotici). Il compito dell’uomo libero in un regime privo di libertà Se il primo libro è dedicato allo Stato, il secondo si incentra sul “liber’uomo”, l’uomo che non si arrende al potere. Per chi ha la sensibilità e lo spirito critico per rendersi conto dell’assenza di libertà – anche nei casi in cui sia celata dall’abile politica dei governanti – restano, secondo l’autore, tre alternative: isolarsi (evitando compromissioni con un potere ingiusto); uccidere il tiranno; uccidersi. Perciò lo scrittore precisa: «Questo libricciuolo non è scritto per codardi», e teorizza il valore di «sublime esempio» del suicidio, atto nobile di autoaffermazione e di protesta contro la mancanza di libertà. Il rapporto con le tragedie alfieriane Il trattato alfieriano non è finalizzato a proporre un ben definito assetto istituzionale di uno Stato libero e non ha quindi assolutamente il carattere di una proposta politica in senso proprio. Tiranno e tirannide hanno di fatto un significato metastorico e soprattutto rimandano al risvolto esistenziale e psicologico proprio dell’autore, che motiva la trattazione: appare perciò evidente il rapporto con le tragedie, in cui ricorrono le stesse problematiche e situazioni, trasposte sul piano teatrale.

442 Settecento 11 Vittorio Alfieri


Vittorio Alfieri

La definizione di tirannide

T3

EDUCAZIONE CIVICA

nucleo Costituzione competenza 1, 2

Della tirannide I, II V. Alfieri, Della tirannide, Del principe e delle lettere, La virtù sconosciuta, a c. di E. Falcomer, Rizzoli, Milano 1996

Nel breve testo si ritrova la distinzione, fondamentale per Alfieri, fra la “tirannide” e un governo giusto e libero.

TIRANNIDE indistintamente appellare si debbe1 ogni qualunque governo, in cui chi è preposto alla esecuzion delle leggi2, può farle, distruggerle, infrangerle3, interpretarle4, impedirle, sospenderle; od anche soltanto deluderle5, con sicurezza d’impunità. E quindi, o questo infrangi-legge sia ereditario, o sia elettivo; usurpatore, o legittimo; 5 buono, o tristo6; uno, o molti; a ogni modo, chiunque ha una forza effettiva, che basti a ciò fare, è tiranno; ogni società, che lo ammette, è tirannide; ogni popolo, che lo sopporta, è schiavo. [… I] pochi veri uomini pensanti, si avveggono pure quanto sia più onorevole, più importante, e più gloriosa dignità il presiedere con le leggi ad un libero popolo 10 d’uomini, che il malmenare a capriccio un vile branco di pecore.

1 appellare si debbe: si deve chiamare. 2 alla esecuzion… leggi: al potere esecutivo. 3 infrangerle: violarle. 4 interpretarle: stravolgerne il senso at-

traverso interpretazioni strumentali.

5 deluderle: eluderle. 6 tristo: malvagio.

Analisi del testo La vera libertà si fonda sul rispetto della legge Il breve testo è fondamentale per comprendere il pensiero politico di Alfieri, e non perde di attualità, se viene ben interpretata la terminologia utilizzata dallo scrittore. Solitamente noi riferiamo il termine tirannide alla storia antica, mentre Alfieri lo utilizza in un’accezione molto più estesa, attribuendolo a qualunque tipo di Stato violi i princìpi essenziali della libertà. Princìpi, come si è detto, basati sul rispetto assoluto della legge, che nessun potere può permettersi di violare a proprio arbitrio, in nessun modo e per nessuna ragione: ove questo avvenga, sarebbe sempre legittimo per lo scrittore parlare di «tirannide». Non conta se chi è al potere sia «buono, o tristo», affermazione che toglie di mezzo l’ideale settecentesco dell’assolutismo illuminato, né se abbia usurpato il potere, lo abbia ereditato o sia stato democraticamente eletto. Alla luce di tale rigorosa distinzione Alfieri considera illiberali (tirannici) tutti gli Stati del suo tempo, esclusa l’Inghilterra, ma anche molti regimi odierni non reggerebbero alla prova.

Jeanne-Louise Vallain, La libertà, 1793-1794 (Vizille, Musée de la Révolution française).

La visione del mondo. L’immagine del poeta e il ruolo della poesia 2 443


Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

COMPRENSIONE 1. Quale deve essere il rapporto tra potere e legge in uno Stato davvero libero, secondo Alfieri? 2. Che cos’è la «tirannide», secondo lo scrittore?

Interpretare

LETTERATURA E NOI 3. Ascolta la lettura del passo recitata in televisione dall’attore Paolo Rossi (la trovi in Rete), e poi scrivi una breve recensione e spiega quali aspetti attuali, a tuo avviso, metta in luce nel testo (max 10 righe). SCRITTURA 4. Cerca il significato della parola “tirannide” prima sul vocabolario cartaceo e poi su quello online (es. www.treccani.it/vocabolario). Confronta le definizioni e rielabora a parole tue quella che ritieni la più pregnante. Istituisci infine un confronto con la definizione di Alfieri (max 15 righe).

EDUCAZIONE CIVICA

nucleo

Costituzione

competenza 1, 2

5. Come ogni anno il settimanale britannico «The Economist» ha svolto una indagine sul grado di democrazia di 167 paesi nel mondo: dall’indagine è emerso che più di un terzo della popolazione mondiale vive in regimi autoritari, dove le violazioni su ogni forma di libertà sono continue. Svolgi una ricerca su uno di questi paesi in cui vigono dittature assolute, considerando quali abusi e violazioni dei diritti civili siano quotidianamente perpetrati. Alla luce di quanto emerso ti sembrano sempre attuali le parole di Alfieri? Motiva la tua risposta.

Del principe e delle lettere La condanna della collaborazione fra letterato e potere politico Il trattato Del principe e delle lettere, in tre libri, completato nel 1786, è incentrato sul rapporto fra letterato e potere (➜ T4 OL): un rapporto che per Alfieri deve escludere per principio ogni collaborazione, che si tradurrebbe (cosa che nella storia si è verificata più volte) in un’inevitabile serie di compromessi. Il principe-mecenate che protegge gli artisti non può infatti che limitarne la libertà, spegnendo in loro la voce dello sdegno e della protesta. Alfieri condanna dunque il mecenatismo, teorizzando la superiorità, sul piano etico, degli scrittori “liberi” (come i tragici greci, Omero e Dante) sui poeti “cortigiani” come Orazio, Virgilio, Ariosto o Tasso.

PER APPROFONDIRE

Il ruolo del letterato Alfieri, come si è detto, concepisce la letteratura come una delle più alte espressioni dello spirito umano. Compito, e vera e propria missione, dello scrittore è ispirare la passione della libertà e le virtù civili, non solo ai propri contemporanei, ma anche, e forse soprattutto, alle generazioni future: un’idea della letteratura che avrebbe avuto un’influenza determinante sugli scrittori successivi, a cominciare dal Foscolo.

Gobetti e Alfieri L’idea di rifiutare il dispotismo riformatore fu ripresa in un drammatico momento storico da Piero Gobetti (1901-1926), un grande intellettuale antifascista, morto giovanissimo per le conseguenze di una violenta aggressione squadrista. Ispirandosi proprio ad Alfieri (un autore centrale nella riflessione gobettiana sul Risorgimento, su cui aveva scritto la sua tesi di laurea e poi nel 1923 il saggio La filosofia politica di V. Alfieri),

444 Settecento 11 Vittorio Alfieri

Gobetti pubblicò (1922) sul periodico da lui fondato «Rivoluzione liberale» un provocatorio Elogio della ghigliottina, in cui auspicava che il fascismo (allora non ancora dichiaratamente un “regime”) mostrasse apertamente il suo volto disumano per far comprendere ai cittadini italiani, che ancora non se ne rendevano conto, come la nascente dittatura li stesse a poco a poco privando della libertà.


Nel penultimo capitolo, con un’«Esortazione a liberar la Italia dai barbari», memore del Principe di Machiavelli, Alfieri auspica un rinnovamento degli intellettuali italiani che, a suo giudizio, avrebbero potuto contribuire, nel futuro, a creare le condizioni per la libertà politica del nostro paese: un auspicio profetico, se si pensa al ruolo assunto nel Risorgimento dalle opere di scrittori come Foscolo, appunto, e poi Manzoni. Un altro aspetto importante è la convinzione di Alfieri che la poesia non appartenga alla sfera del contingente, né si esaurisca entro i confini del presente, ma abbia il dono di tramandare il ricordo dei grandi uomini e delle loro online azioni, rendendoli eterni. Poco tempo dopo, il centro poetico T4 Vittorio Alfieri Il potere e la cultura hanno fini opposti nei Sepolcri di Foscolo sarà proprio il mito della “poesia eterDel principe e delle lettere I, IV; III, X natrice”.

5 Un’opera affascinante e attuale: la Vita L’autobiografia alfieriana Tutte le opere di Alfieri hanno al centro, come si è visto, la riflessione sulla libertà. Non fa eccezione la Vita (Vita di Vittorio Alfieri da Asti scritta da esso), in cui il tema è declinato nei suoi molteplici aspetti, politici, ma soprattutto esistenziali. La Vita, che il critico Ezio Raimondi definisce «la più grande autobiografia italiana del Settecento, e forse non solo del Settecento», è sicuramente l’opera più attuale (e oggi più letta) di Alfieri. Lo scrittore inizia a scriverla nel 1790, dopo la pubblicazione delle tragedie; in seguito vi aggiunge una seconda parte, più breve, comprendente gli avvenimenti posteriori a tale data. L’intera opera poi fu stampata in edizione definitiva soltanto dopo la morte di Alfieri, nel 1806 (ma con la datazione 1804). La scoperta di una vocazione L’intento di Alfieri nel tracciare la propria biografia non è la rievocazione, magari nostalgica, del passato, come testimoniano anche le scelte linguistiche, ma quello di mettere in luce – in pagine di sorprendente attualità – il percorso che lo ha condotto a definire la propria identità, per costruire una vita dotata di senso e di scopo, liberandosi dai condizionamenti esterni e riconoscendo la propria più autentica vocazione (la letteratura).

Il tema della libertà TRATTATI

Della tirannide

Del principe e delle lettere

rapporto uomo libero-tiranno

rapporto letterato-potere

tre possibilità di azione per l’uomo libero in un regime dispotico: isolarsi, uccidere il tiranno, uccidersi

compito del letterato: ispirare passione per la libertà

La visione del mondo. L’immagine del poeta e il ruolo della poesia 2 445


La libertà coincide nella Vita con la conoscenza di sé, con la ricerca del nucleo più autentico della propria personalità, dei desideri più profondi, delle possibilità di autorealizzazione prima tradite. E la Vita focalizza perciò come suo nucleo centrale il passaggio da una vita dissipata, in cui il futuro poeta è ignoto a sé stesso, alla scoperta della vocazione letteraria: «Io viveva frattanto in tutto e per tutto ignoto a me stesso; non mi credendo vera capacità per nessuna cosa al mondo; non avendo nessunissimo impulso deciso, altro che alla continua malinconia, non ritrovando mai pace né requie, e non sapendo pur mai quello che io mi desiderassi. Obbedendo ciecamente alla natura mia, con tutto ciò io non la conosceva né studiava per niente; e soltanto molti anni dopo mi avvidi, che la mia infelicità proveniva soltanto dal bisogno, anzi necessità ch’era in me di avere ad un tempo stesso il cuore occupato da un degno amore, e la mente da un qualche nobile lavoro» (Epoca terza, cap. II). Un percorso di formazione A sottolineare tale svolta, l’autore pone una netta cesura tra le prime fasi della sua vita e l’età adulta (la Vita è divisa dall’autore in quattro parti: Puerizia, cioè infanzia, Adolescenza, Giovinezza, Virilità). Le tre prime fasi della vita sono giudicate negativamente: Alfieri definisce la puerizia come «nove anni di vegetazione», l’adolescenza come «otto anni d’ineducazione», la giovinezza come «circa dieci anni di viaggi, e dissolutezze», contrapponendo ad esse la virilità, l’unica epoca pienamente positiva, costituita da «trenta e più anni di composizioni, traduzioni, e studi diversi». Uno schema costruito su un contrasto, dal negativo al positivo, che può ricordare una conversione, in questo caso la conversione alle lettere e al lavoro operoso e costruttivo. La Vita è stata perciò paragonata a un romanzo di formazione, che delinea la trasformazione dell’autore da dissipato aristocratico dell’ancien régime in intellettuale impegnato, e il suo progresso verso la libertà e la consapevolezza.

online

Per approfondire Il registro ironico come espressione del distanziamento critico dal passato

L’importanza dei viaggi e delle letture L’autore evidenzia come la sua maturazione sia avvenuta grazie ai soggiorni in quasi tutti i paesi europei, a letture illuminanti, a incontri con intellettuali generosi e amichevoli, e a una costante riflessione e autoanalisi. Un’importante parte del libro è dedicata ai viaggi, esperienza formativa per eccellenza nella cultura settecentesca. Intrapresi dall’autore fin dalla prima giovinezza, consentono al giovane aristocratico del piccolo Piemonte di entrare in rapporto con l’orizzonte europeo, acquisendo gradualmente una coscienza politica, a cominciare dal primo viaggio, in cui confronta la Francia, ancora soggetta a una monarchia assoluta, con la più evoluta e libera Inghilterra, «fortunato e libero paese». Nel viaggio di ritorno, come racconta, acquista a Ginevra i libri degli illuministi (Rousseau, Montesquieu, Voltaire, Helvétius), insieme ai quali, fermatosi qualche mese a Torino dalla sorella, legge con entusiasmo le Vite di Plutarco, da cui trae un modello di comportamento libero ed eroico (➜ T5 OL). L’influsso di tali letture è evidente nel successivo viaggio in Europa, nel 1769, all’età di vent’anni: non soltanto i suoi giudizi politici divengono più netti e precisi, ma egli stesso trova il coraggio di mostrarsi apertamente ostile all’autoritarismo monarchico (➜ T6 OL). L’amore per la libertà si esprime nei viaggi anche nell’attrazione per paesaggi sconfinati, come i campi innevati della Svezia (➜ T7 ) e le pianure dell’entroterra spagnolo, in cui lo spirito inquieto dell’autore può sentirsi libero dai limiti. I caratteri stilistici La Vita di Alfieri è la sua opera più “moderna” anche sotto il profilo linguistico. Lo scrittore adotta uno stile fluido, spontaneo ed espressivo,

446 Settecento 11 Vittorio Alfieri


online T5 Vittorio Alfieri

La lettura di Plutarco, «il libro dei libri» Vita, Epoca terza, cap. VII

online T6 VittVittorio Alfieri

Alfieri, uomo libero di fronte ai sovrani assoluti Vita, Epoca terza, cap. VIII

caratterizzato da un uso frequente di nomi alterati, aggettivi superlativi e neologismi, che conferiscono una connotazione emotiva e personale al discorso, pur sempre sorvegliato, nel solco della tradizione prosastica letteraria. «Quanto poi allo stile», scrive nell’Introduzione, «io penso di lasciar fare alla penna, e di pochissimo lasciarlo scostarsi da quella triviale e spontanea naturalezza, con cui ho scritto questa opera, dettata dal cuore e non dall’ingegno».

La Vita DATAZIONE

prima stesura 1790; edizione definitiva postuma 1806 (ma datata 1804)

GENERE

autobiografia

STRUTTURA

suddivisione in quattro parti: Puerizia (infanzia), Adolescenza, Giovinezza, Virilità

FINALITÀ

scoperta della propria vocazione letteraria e della propria identità

TEMI

autoanalisi attraverso un percorso di formazione; ruolo formativo dei viaggi e della lettura delle opere degli illuministi e di Plutarco, libertà intellettuale

STILE

fluido, spontaneo ed espressivo

Vittorio Alfieri

T7

La libertà dello spirito nella natura selvaggia della Svezia invernale

LEGGERE LE EMOZIONI

Vita, Epoca terza, capp. VIII-IX V. Alfieri, Vita, a c. di G. Cattaneo, Garzanti, Milano 1981

Promana da questo breve testo il fascino esercitato su Alfieri da una natura incontaminata: paesaggi selvaggi, ostili all’uomo, come le distese dei laghi scandinavi ghiacciati o i dirupi innevati, sono però anche l’espressione di una bellezza grandiosa e sublime, ed emblema di una sconfinata libertà.

Verso il fin di marzo partii per la Svezia; e benché io trovassi il passo del Sund affatto libero dai ghiacci, indi la Scania1 libera dalla neve; tosto ch’ebbi oltrepassato la città di Norkoping, ritrovai di bel nuovo2 un ferocissimo inverno, e tante braccia di neve, e tutti i laghi rappresi3, a segno che non potendo più proseguire colle ruote, 1 Scania: regione della Svezia meridionale. 2 di bel nuovo: nuovamente.

3 ritrovai… rappresi: ritrovai di nuovo un inverno rigidissimo, e tanti metri di neve, e

tutti i laghi ghiacciati; il braccio era un’antica unità di misura, pari a circa 60 cm.

La visione del mondo. L’immagine del poeta e il ruolo della poesia 2 447


fui costretto di smontare il legno4 e adattarlo come ivi s’usa sopra due slitte; e così arrivai a Stockolm5. La novità di quello spettacolo, e la greggia6 maestosa natura di quelle immense selve, laghi, e dirupi, moltissimo mi trasportavano7; e benché non avessi mai letto l’Ossian8, molte di quelle sue immagini mi si destavano ruvidamente scolpite9, e quali le ritrovai poi descritte allorché più anni dopo le lessi studiando i 10 ben architettati versi del celebre Cesarotti. […] Nella sua salvatica ruvidezza quello è un dei paesi d’Europa che mi siano andati più a genio, e destate più idee fantastiche, malinconiche, ed anche grandiose, per un certo vasto indefinibile silenzio che regna in quell’atmosfera, ove ti parrebbe quasi esser fuor del globo. 5

4 il legno: la carrozza. 5 Stockolm: Stoccolma. 6 greggia: grezza, incontaminata. 7 mi trasportavano: suscitavano in me emozioni. 8 l’Ossian: i Canti di Ossian, poema cele-

brato nel Settecento, hanno come sfondo una natura nordica e selvaggia. Attribuiti a un bardo gaelico del III d.C., sono in gran parte un falso dello scozzese James Macpherson (1736-1796), che li pubblicò tra il 1762 e il 1763; in Italia furono tradotti

da Melchiorre Cesarotti (1730-1808). 9 molte… scolpite: la natura nordica suscita alla fantasia dello scrittore immagini del tutto simili a quelle, di spirito preromantico, dei Canti di Ossian, sebbene Alfieri in quel tempo non li avesse ancora letti.

Analisi del testo Natura e “sublime” Il passo esemplifica un tema fondamentale della Vita di Alfieri, la visione della natura. L’insofferenza dei limiti e delle costrizioni porta lo scrittore, con uno spirito già romantico, a ricercare nei suoi viaggi spazi vasti e illimitati, affascinanti per la sensazione di libertà che suscitano. Il più suggestivo è forse quello della Svezia invernale, che evoca uno stato d’animo sublime per la grandiosità della natura incontaminata («la greggia maestosa natura di quelle immense selve»), e per il fascino romantico dell’«indefinibile silenzio», che suscita l’impressione di essere fuori dal mondo, in una solitudine assoluta ed eroica.

La scoperta di sé nella natura Al contatto con una natura selvaggia è legata nella Vita alfieriana la scoperta di un “io” più vero e profondo, come si riscontra anche nel passo qui proposto: nel paesaggio solitario della Svezia il futuro scrittore scopre in sé sentimenti e stati d’animo “poetici”, che, una volta intrapresi gli studi letterari, avrebbe poi riscoperto nella lettura di un testo esemplare della sensibilità proto-romantica, i Canti di Ossian.

Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

COMPRENSIONE 1. Perché lo scrittore dichiara di prediligere paesaggi aspri, selvaggi, solitari? ANALISI 2. Individua le espressioni in cui, secondo te, meglio si evidenzia l’idea di una natura “sublime”. LESSICO 3. Quali campi semantici prevalgono nella descrizione? A quali temi sono collegati?

Interpretare LEGGERE LE EMOZIONI

SCRITTURA 4. In un testo di circa 15 righe descrivi un’esperienza di immersione in un paesaggio naturale sconfinato e selvaggio e le emozioni che hai provato.

448 Settecento 11 Vittorio Alfieri


Studiare con l’immagine 5. Esamina gli elementi del paesaggio che compaiono nel dipinto di Caspar Wolf (1735-1783) e svolgi le seguenti richieste: a. Che tipo di paesaggio viene descritto? b. Spiega il motivo per il quale il pittore ha scelto di rappresentare le figure umane in piccole dimensioni. b. Pensi che la posizione di Wolf nei confronti della natura rappresentata sia vicina a quella assunta da Alfieri di fronte agli sconfinati paesaggi della Svezia?

Caspar Wolf, Paesaggio invernale con cascata (Kunstmuseum, Berna).

Sguardo sul cinema La Vita di Alfieri e il film Into the Wild di Sean Penn: un possibile confronto? Alcune pagine della Vita alfieriana, in particolare quelle dedicate ai viaggi negli anni giovanili e alla natura, specie quella selvaggia, descritta nella vastità dei deserti o nell’ostile solitudine dei paesaggi ghiacciati, si impongono con forza come una testimonianza dei viaggi nelle terre estreme che caratterizzano l’avventuroso Grand Tour alfieriano. Un confronto attuale e suggestivo può esser fatto con Into the Wild, un film di Sean Penn (1960), uscito nel 2007, ispirato a una vicenda reale ricostruita dal giornalista Jon Krakauer (1954) nel suo libro Nelle terre estreme (1998). Anche se l’autobiografia di Alfieri non ha ovviamente nessun rapporto diretto con il film, tuttavia, nonostante la diversità delle circostanze storiche e del contesto culturale, il fascino dei paesaggi sconfinati è il medesimo e dettato da un’analoga esigenza: scoprire il proprio io profondo a contatto con la natura, fuori dai condizionamenti della società. Il protagonista del film, Chris McCandless, ha qualcosa in

comune con Alfieri: anch’egli apprezza più di ogni cosa la libertà e, per sfuggire alle limitazioni di una società di cui non accetta i valori, si inoltra in un viaggio nella natura selvaggia; anch’egli è alla ricerca di una propria identità e del senso vero dell’esistenza. Nelle sue annotazioni, Chris scriveva infatti di essere alla ricerca del «massimo della libertà […] per uccidere l’essere falso dentro di lui». Anche la costruzione del film, proprio perché si tratta di un percorso simile, di maturazione e di ricerca di un’identità al di fuori dei condizionamenti della società e dell’educazione, presenta singolari analogie con la Vita, perché anche il regista americano Sean Penn, come Alfieri, sceglie di evidenziare il percorso esistenziale del protagonista suddividendolo in tappe (cinque nel film) che scandiscono l’emergere nel protagonista del suo “io” più autentico e profondo: La mia nascita, L’adolescenza, La maturità, La famiglia, La conquista della saggezza.

Fotogrammi dal film Into the Wild.

La visione del mondo. L’immagine del poeta e il ruolo della poesia 2 449


6 Le tragedie La scelta del genere tragico e la riforma della tragedia VIDEOLEZIONE

Un’affinità elettiva Alle tematiche libertarie prospettate nei trattati si collegano in vario modo anche le tragedie, a cominciare dalla prima di esse, il Filippo. Il genere della tragedia, il più illustre nel sistema letterario italiano, per le sue potenzialità drammatiche, la presenza di personaggi eroici, lontani dalla comune umanità, di grandi conflitti, era certamente l’ambito in cui l’ispirazione e la personale visione del mondo di Alfieri potevano meglio esprimersi: non a caso, dunque, la sua “conversione letteraria” si identifica con la scelta, che diventerà quasi una missione, di diventare tragediografo. Però non si deve pensare a opere teatrali destinate a un largo pubblico, bensì a un uditorio ristretto ed elitario. I caratteri della tragedia alfieriana In Italia la tragedia era andata da tempo incontro a una progressiva decadenza, anche per l’assenza di autori di rilievo, e nel favore del pubblico era stata di fatto soppiantata dalla commedia e dal fortunato genere del melodramma. Alfieri si propone di rivitalizzare la tragedia riportandola ad alti livelli letterari e conferendole l’impronta della propria inconfondibile personalità umana e letteraria. Da un lato lo scrittore rispetta dunque alcune caratteristiche tipiche nel genere, come la divisione in cinque atti o le unità di tempo, luogo e azione; dall’altro conferisce al testo tragico nuove caratteristiche, che lui stesso sintetizza nella Vita (➜ D3 OL) e in una lettera del 1783 (Lettera responsiva a Ranieri de’ Calzabigi). • Condensazione del nucleo drammatico Alfieri pone l’attenzione non tanto sulle peripezie e sui colpi di scena della trama, quanto sulle ragioni profonde del conflitto tragico, e per questo ricerca l’essenzialità, limitando al massimo gli episodi accessori. • Numero ridotto dei personaggi A tale essenzialità si correla la riduzione del numero dei personaggi. Già nel Filippo (la prima tragedia) i personaggi sono soltanto sei, molto pochi rispetto alle tragedie tradizionali (in altri drammi Alfieri li ridurrà ulteriormente, fino ad arrivare al record di soli quattro personaggi sulla scena). • Essenzialità dello stile La concentrazione della struttura drammatica alfieriana ha un corrispettivo nelle scelte stilistiche: i dialoghi sono brevissimi e incalzanti, il linguaggio, sebbene aulico, è essenziale e conciso, tanto che in un solo verso possono anche inscriversi diverse battute. Ne è un esempio, sempre nel Filippo, il dialogo, tutto concentrato in un verso, tra Filippo e il cortigiano Gomez, invitato dal re a spiare se la moglie Isabella e il figlio Carlo si amassero:

FILIPPO Udisti? GOMEZ Udii. FILIPPO Vedesti? GOMEZ Io vidi. FILIPPO Oh rabbia!

Uno scambio dialogico altrettanto conciso, e ancora più drammatico, si trova in un’altra tragedia, Antigone, tra l’eroina decisa a morire e il tiranno Creonte, che le propone la salvezza se avesse accettato di sposare suo figlio Emone:

450 Settecento 11 Vittorio Alfieri


CREONTE Scegliesti? ANTIGONE Ho scelto. CREONTE Emon? ANTIGONE Morte. CREONTE L’avrai. Una lingua difficile, ma efficace sulla scena La lingua delle tragedie alfieriane è sempre letterariamente sostenuta, lontana dal parlato, soprattutto per la disposizione delle parole, con ardite trasposizioni rispetto all’ordine naturale (Alfieri parla di una «non comune collocazione delle parole»). Queste caratteristiche rendono i drammi alfieriani talvolta di difficile lettura, ma ne accrescono l’efficacia rappresentativa, perché evitano la monotonia della cadenza dei versi, facendo convergere l’attenzione sulle parole chiave, che sottolineano i nuclei drammatici della tragedia. Ad esempio, il grande attore Vittorio Gassman (1922-2000), più volte interprete dell’Oreste di Alfieri, sosteneva di apprezzare la «passione selvaggia» del linguaggio alfieriano, con «quei versi assurdi, incatenati, che sul palcoscenico si scioglievano in modo dolcissimo». Il metodo di scrittura delle tragedie Il metodo seguito da Alfieri nella composizione delle tragedie è ben descritto dall’autore stesso in un famoso passo della Vita (Epoca quarta, cap. IV) che presentiamo (➜ D3 OL). Tre sono le fasi («tre respiri») che lo scrittore individua: «ideare, stendere, verseggiare». L’ideazione corrisponde all’abbozzo, all’individuazione del soggetto e alla sua distribuzione negli atti e nelle scene, la stesura allo scrivere in prosa l’intero testo, la versificazione alla sua trasposizione in versi (nel caso di Alfieri di tratta di endecasillabi sciolti), a cui segue il necessario “lavoro di lima”. Nella stesura delle tragedie è per Alfieri fondamentale la spontaneità del processo creativo, l’entusiasmo, che non si deve mai spegnere, ma, al contempo, è necessaria la disciplina formale, il controllo razionale, aspetti costitutivi della poetica classica.

Il corpus delle tragedie: dal conflitto tiranno-uomo libero al conflitto interiore La produzione tragica di Alfieri comprende diciannove testi, scritti tra il 1775 e il 1787. Lo scrittore ne cura personalmente l’edizione definitiva, pubblicata a Parigi tra il 1787 e il 1789. Rispetto alla tradizione, le tragedie di Alfieri si distinguono, oltre che per gli aspetti già indicati, per la tendenza a polarizzare le vicende rappresen-

Le tragedie alfieriane contrasto uomo libero-tiranno

conflitto fra bene e male e coraggio contro viltà Temi di fondo delle tragedie suicidio come prova estrema di grandezza

lotta contro le passioni interiori insanabili

La visione del mondo. L’immagine del poeta e il ruolo della poesia 2 451


Fulchran-Jean Harriet, Edipo e Antigone, 1798 (Cleveland, Museum of Art).

tate intorno al fondamentale conflitto drammatico libertà-tirannide, incarnandolo in personaggi dalla fisionomia forte, che si contrappongono con forte evidenza, anche perché Alfieri limita al massimo la presenza di personaggi secondari. Una prerogativa già evidente nella prima tragedia, Filippo, dove compare nella sua prima figurazione tragica il tiranno, incarnazione di un potere oppressivo ed espressione di un individualismo a tutto disposto pur di affermarsi. Segue un gruppo di tragedie che attingono al mito classico (Antigone, Agamennone, Oreste). Fra il 1777 e il 1781 si collocano le cosiddette “tragedie della libertà”, coeve alla composizione del trattato Della tirannide, in cui le libertà conculcate dai tiranni sono libertà civili, che gli antagonisti dei tiranni cercano disperatamente di difendere, come nel Timoleone (il protagonista, per difendere la libertà, si oppone al fratello Timofane, tiranno di Sparta), in Virginia, ambientata nell’antica repubblica romana, e Congiura de’ Pazzi, ambientata invece nella Firenze di Lorenzo de’ Medici, presentato qui non come illuminato mecenate ma come tiranno. I due esiti possibili del conflitto tirannouomo libero sono quelli descritti nel trattato Della tirannide: l’uomo libero uccide il tiranno o, più spesso, soccombe, ma è a volte vittorioso sul piano morale. Nel caso delle due tragedie più note e considerate unanimemente i capolavori del teatro alfieriano, Saul e Mirra, il conflitto non è più tra due antagonisti, ma diviene interno ai personaggi stessi, assumendo caratteri di più inquietante modernità.

Il Filippo, archetipo delle tragedie alfieriane “di libertà” online

Per approfondire Il Filippo: un re “tiranno” e il conflitto padrefiglio

La prima, di fatto il prototipo a cui si sarebbero ispirate le cosiddette “tragedie di libertà” alfieriane in cui l’eroe si contrappone al potere tirannico, è Filippo, dedicata alla vicenda di don Carlos, figlio di Filippo II di Spagna, fatto incarcerare dal padre e morto in prigione. La tragedia – composta nel 1775-1776 e in seguito rivista più volte – fu collocata dall’autore al primo posto della sua raccolta.

Filippo GENERE

tragedia, prototipo delle cosiddette “tragedie di libertà”

DATAZIONE

1775-1776

TEMA

opposizione al potere tirannico; conflitto padre-figlio

ARGOMENTO

vicenda di don Carlos, figlio di Filippo II di Spagna

452 Settecento 11 Vittorio Alfieri


La vicenda Alfieri rappresenta Filippo come un tiranno sanguinario, assetato di potere e incapace dei normali sentimenti umani come l’amore per Isabella, la giovane moglie e l’affetto per il figlio Carlo. Spalleggiato dal perfido consigliere Gomez, che fa credere a Isabella di poter far fuggire Carlo dal carcere in cui è rinchiuso, Filippo sorprende i due giovani a colloquio nella prigione e li accusa di adulterio, condannando il figlio a morte. Isabella, che, pur innamorata di Carlo, aveva sempre respinto la tentazione del tradimento, messa di fronte alla disumana crudeltà del marito, si dà la morte insieme a Carlo. Filippo, ottenuta «piena vendetta orrida», è abbandonato alla sua solitudine disumana (➜ T8 OL). online T8 Vittorio Alfieri

Il conflitto fra il tiranno Filippo e l’uomo libero Carlo Filippo, atto V, scene III-IV

Saul e il conflitto interiore del tiranno Nonostante sia la figura più negativa dei drammi di Alfieri, il tiranno è anche quella di maggior interesse e complessità, essendo, non solo carnefice, ma anche vittima dell’odio da lui suscitato. Questo tema è già presente nel Filippo, ma viene ulteriormente sviluppato nel Saul, considerato uno dei capolavori di Alfieri, composto nel 1782. La tragedia è ispirata alla vicenda biblica del vecchio re Saul, abbandonato dalla protezione divina, che ora sostiene David (Libro dei Re 12-31), destinato a succedergli. La vicenda Il vecchio Saul è stato in passato un eletto di Dio, che lo ha prescelto come re degli ebrei nonostante le sue umili origini. Ora però la sua gloria è al tramonto e Dio ha destinato a succedergli David, eroico combattente e sposo di Micol, sua figlia. Il vecchio re non accetta di trarsi in disparte e ammettere la propria decadenza: perciò perseguita David costringendolo alla fuga. È però interiormente diviso: in cuor suo sa che solo David potrebbe scongiurare la minaccia incombente dei Filistei, e sa anche che gli è fedele e affezionato, ma d’altra parte non riesce ad accettare di cedere il potere, ammettendo i propri limiti. Nel giorno della battaglia decisiva contro i Filistei, in cui si svolge la tragedia, David torna per difendere il suo popolo, anche a costo di essere nuovamente vittima dell’ira ingiusta del suo persecutore. In balìa di opposte passioni, diviso tra l’affetto e l’invidia, Saul reagisce ancora una volta in modo irrazionale e tirannico, arrivando a far uccidere il sacerdote Achimelech, colpevole di aver aiutato David. Inorridito dal sacrilegio, e consapevole dell’ira divina contro Saul, David si allontana dal campo. Saul rimane dunque solo davanti al nemico, e subisce una terribile disfatta, in cui muore anche il figlio Gionata. Il vecchio re si getta sulla propria spada, riscattando con una morte eroica le proprie colpe. Un personaggio complesso Lo scontro che oppone il vecchio re Saul al giovane prode David potrebbe apparire una ripresa del “copione” tragico presente già nel Filippo e nelle altre tragedie incentrate sul conflitto tra tiranno e uomo libero. Nel Saul, però, la figura del tiranno, pur presentando alcuni caratteri costanti in questa tipologia di personaggio alfieriano (come l’insofferenza per i limiti e la brama di dominio ➜ T9 OL), è estremamente più complessa. Alfieri poi aveva una predilezione per questo personaggio («era il mio personaggio più caro, perché in esso vi è di tutto, di tutto assolutamente»), che aveva anche personalmente interpretato, La visione del mondo. L’immagine del poeta e il ruolo della poesia 2 453


come ricorda nella Vita. Solo apparentemente il conflitto è quello tra il vecchio sovrano e David: in realtà è tutto interno alla coscienza di Saul, che Alfieri presenta combattuto fra opposti sentimenti e pulsioni, preda di una progressiva deriva dalla razionalità del giudizio che lo porterà alla follia. Nel Parere sul Saul Alfieri asserisce di aver sviluppato nella tragedia «quella perplessità del cuore umano», per cui un uomo, diviso fra contrastanti passioni, «vuole e disvuole una cosa stessa». Una tragedia sorprendentemente moderna La modernità della tragedia è proprio nella trasformazione del conflitto tragico in conflitto interiore: Saul è un “dramma della coscienza” o forse, ancor più, il dramma del contrasto tra sentimenti positivi (l’amore per i figli, l’ammirazione e l’affetto per David) e zone “buie” dell’io, il cui prevalere produce pulsioni aggressive (verso David, ma anche contro i sacerdoti che lo sostengono e che rimproverano a Saul le sue colpe) e autodistruttive (una tragica solitudine prima e il suicidio infine). È nel lato “oscuro” della mente di Saul che si annidano le cause delle sue ossessioni e manie, che lo portano a perseguitare il giovane genero. Non è infatti David il vero antagonista di Saul, ma ciò che l’affermazione di David rappresenta per il vecchio re: il fantasma della vecchiaia e del declino, la perdita del potere, a cui Saul si ribella orgogliosamente, affermando oltre ogni limite e a ogni costo la propria volontà di dominio. La sfida titanica di Saul La sfida di Saul ha tratti quasi titanici perché egli sfida non solo David e chi lo sostiene, ma anche la volontà di Dio, che si rifiuta di accettare: un tempo l’eletto di Dio era lui, ora Dio ha scelto David, ma Saul si ribella a un disegno già scritto e preferisce la catastrofe del suo popolo (sconfitto dai Filistei) e della sua famiglia (il figlio Gionata muore in battaglia) alla resa di fronte a ciò che contrasta con la sua volontà. Il suicidio stesso di Saul non è da considerarsi una resa, ma l’estrema affermazione, in una prospettiva già romantica, della propria superiore statura umana, insofferente di ogni limite.

Saul GENERE

tragedia

DATAZIONE

1782

ARGOMENTO

vicenda biblica del vecchio re Saul

TEMA

conflitto interiore di un tiranno; contrasto tra sentimenti positivi e zone “buie” dell’io; titanismo

online T9 Vittorio Alfieri

Il sogno e la follia di Saul Saul, atto II, scena I

454 Settecento 11 Vittorio Alfieri


Vittorio Alfieri

T10

LEGGERE LE EMOZIONI

La fine di Saul

EDUCAZIONE ALLE RELAZIONI

Saul, atto V, scene III-V V. Alfieri, Saul e Filippo, a c. di Vittore Branca, Rizzoli, Milano 1980

Sono le ultime scene della tragedia. Saul si dà la morte con la propria spada.

Atto V, scena III SAUL, MICOL. SAUL 120

Ombra adirata1, e tremenda, deh! cessa: lasciami, deh!... Vedi: a’ tuoi piè mi prostro... Ahi! dove fuggo?... – ove mi ascondo? O fera2 ombra terribil, placati... Ma è sorda ai miei preghi; e m’incalza3?... Apriti, o terra, vivo m’inghiotti4... Ah! pur che il truce sguardo non mi saetti della orribil ombra5...

MICOL Da chi fuggir? niun ti persegue. O padre, 125 me tu non vedi? me più non conosci? SAUL 130 135

O sommo, o santo sacerdote, or vuoi ch’io qui mi arresti? o Samuél, già vero padre mio, tu l’imponi6? ecco, mi atterro7 al tuo sovran comando. A questo capo già di tua man tu la corona hai cinta; tu il fregiasti8; ogni fregio or tu gli spoglia; calcalo9 or tu. Ma,... la infuocata spada d’Iddio tremenda, che già già mi veggo pender sul ciglio,... o tu che il puoi, la svolgi10 non da me, no, ma da’ miei figli. I figli, del mio fallir sono innocenti...

MICOL Oh stato, 11 cui non fu il pari mai ! – Dal ver disgiunto, padre, è il tuo sguardo12: a me ti volgi...

La metrica Endecasillabi sciolti.

5 pur che… ombra: purché non mi colpi-

1 Ombra adirata: è l’ombra del sacerdote Samuele che era stato fatto uccidere da Saul. 2 fera: crudele. 3 m’incalza: mi perseguita. 4 m’inghiotti: inghiottimi (imperativo).

sca lo sguardo minaccioso della orribile ombra. Piuttosto che essere vittima del terribile fantasma di Samuele, Saul preferirebbe essere sepolto vivo. 6 l’imponi: lo comandi. 7 mi atterro: mi prostro. 8 il fregiasti: lo adornasti.

9 calcalo: schiaccialo. 10 la svolgi: allontanala (imperativo). 11 Oh… mai: oh condizione di dolore a cui nessuna fu mai eguagliabile.

12 Dal ver… sguardo: Micol ha compreso che il padre sta delirando perché il suo sguardo è dal ver disgiunto.

La visione del mondo. L’immagine del poeta e il ruolo della poesia 2 455


SAUL Oh gioja! Pace hai sul volto? O fero veglio13, alquanto 140 miei preghi accetti? io da’ tuoi piè non sorgo14, se tu i miei figli alla crudel vendetta pria non togli. – Che parli?... Oh voce! «T’era David pur figlio; e il perseguisti15, e morto pur lo volevi». Oh! che mi apponi16?... Arresta... 145 sospendi or, deh!... Davidde ov’è? si cerchi: ei rieda17; a posta sua18 mi uccida, e regni: sol che19 a’ miei figli usi pietade, ei regni... – Ma, inesorabil20 stai? Di sangue hai l’occhio; foco il brando e la man; dalle ampie nari 150 torbida fiamma spiri, e in me l’avventi.21.. Giá tocco m’ha; giá m’arde: ahi! dove fuggo?... Per questa parte io scamperò. MICOL Né fia, ch’io rattener ti possa, né ritrarti al vero?22 Ah! m’odi23: or sei... SAUL Ma no; che il passo 155 di là mi serra24 un gran fiume di sangue. Oh vista atroce! sovra ambe le rive, di recenti cadaveri gran fasci ammonticati stanno: ah! tutto è morte colà: qui dunque io fuggirò... Che veggo? 160 Chi sete or voi? – D’Achimeléch25 siam figli. «Achimeléch son io. Muori, Saulle, muori». – Quai grida? Ah! lo ravviso26: ei gronda di fresco sangue, e il mio sangue ei si beve. Ma chi da tergo, oh! chi pel crin mi afferra? 165 Tu, Samuél? – Che disse? che in brev’ora seco27 tutti saremo? Io solo, io solo teco28 sarò; ma i figli... – Ove son io? – Tutte spariro ad un istante l’ombre. Che dissi? Ove son io? Che fo? Chi sei?

13 fero veglio: vecchio terribile. Si riferisce a Samuele. 14 sorgo: mi alzo dai tuoi piedi. 15 il perseguisti: lo perseguitasti. 16 che mi apponi: di che mi accusi. 17 rieda: ritorni. 18 a posta sua: a suo piacere. 19 sol che: purché.

456 Settecento 11 Vittorio Alfieri

20 inesorabil: irremovibile (dal latino inexorabilis, “chi non si lascia muovere dalle preghiere”). 21 L’avventi: la dirigi. 22 Né… vero: e non è possibile che io possa trattenerti, né ricondurti alla realtà. 23 m’odi: ascoltami (imperativo). 24 il passo… serra: mi impedisce il cam-

mino.

25 Alchimeléch: il sommo sacerdote fatto uccidere da Saul, assieme ai suoi figli.

26 lo ravviso: lo riconosco. 27 seco: con lui, nell’aldilà. 28 teco: con te.


170

175

Qual fragor odo? ah! di battaglia parmi: pur non aggiorna29 ancor: sì, di battaglia fragore egli è. L’elmo, lo scudo, l’asta, tosto or via, mi si rechi: or tosto l’arme, l’arme del re. Morir vogl’io, ma in campo.

MICOL Padre, che fai? Ti acqueta30... Alla tua figlia...

SAUL

L’armi vogl’io; che figlia? Or, mi obbedisci. L’asta, l’elmo, lo scudo; ecco i miei figli.

MICOL Io non ti lascio, ah! no...

SAUL Squillan più forte le trombe? Ivi si vada: a me il mio brando 180 basta solo. – Tu, scostati, mi lascia; obbedisci. Là corro: ivi si alberga31 morte, ch’io cerco. SCENA QUARTA SAUL, MICOL, ABNER con pochi soldati fuggitivi. ABNER Oh re infelice!... Or dove, deh! dove corri? Orribil notte è questa. SAUL

Ma, perché la battaglia...?

ABNER Di repente32, 185 il nemico ci assale: appien33 sconfitti siam noi... SAUL

Sconfitti? E tu fellon34, tu vivi?

ABNER Io? per salvarti vivo. Or or qui forse Filiste inonda35: il fero impeto primo forza è schivare36: aggiornerà37 frattanto. 190 Te più all’erta38 quassù, fra i pochi miei, trarrò...

29 aggiorna: fa. 30 Ti acqueta: calmati (imperativo). 31 si alberga: si trova. 32 Di repente: improvvisamente. 33 appien: completamente.

34 fellon: traditore. 35 Filiste inonda: i Filistei stanno per riversarsi.

37 aggiornerà frattanto: nel frattempo si farà giorno. 38 più all’erta: più in alto, al sicuro.

36 il fero… schivare: si deve evitare la forza terribile del primo feroce assalto.

La visione del mondo. L’immagine del poeta e il ruolo della poesia 2 457


SAUL

Ch’io viva, ove39 il mio popol cade?

MICOL Deh! vieni... Oimè! cresce il fragor: s’inoltra40... SAUL

Gionata,... e i figli miei,... fuggono anch’essi? Mi abbandonano?...

ABNER Oh cielo!... I figli tuoi,... 195 no, non fuggiro... Ahi miseri!... SAUL

T’intendo: morti or cadono tutti...

MICOL Oimè!... I fratelli?... ABNER Ah! più figli non hai. SAUL 200

– Ch’altro mi avanza? ... Tu sola omai, ma non a me41, rimani. – Io da gran tempo in cor già tutto ho fermo: e giunta è l’ora. – Abner, l’estremo è questo de’ miei comandi. Or la mia figlia scorgi42 in securtà.

MICOL No, padre; a te dintorno mi avvinghierò: contro a donzella il ferro non vibrerà il nemico. SAUL 205

210

Oh figlia!... Or, taci: non far, ch’io pianga. Vinto re non piange. Abner, salvala, va: ma, se pur mai ella cadesse infra nemiche mani, deh! non dir, no, che di Saulle è figlia; tosto di’ lor, ch’ella è di David sposa; rispetteranla. Va; vola...

ABNER S’io nulla valgo, fia salva43, il giuro; ma ad un tempo te pur... MICOL Deh!... padre... Io non ti vo’, non voglio lasciarti...

39 ove: quando. 40 s’inoltra: s’avanza. 41 non a me: bensì allo sposo, David, che

458 Settecento 11 Vittorio Alfieri

egli considera suo nemico. 42 scorgi: scorta, guida in un luogo sicuro.

43 S’io… salva: per quanto io possa valere, sarà salva.


SAUL 215

Io voglio: e ancora il re son io. Ma già si appressan l’armi: Abner, deh! vola: teco, anco a forza, s’è mestier, la traggi44.

MICOL Padre!... e per sempre?...

SCENA QUINTA SAUL SAUL Oh figli miei!... – Fui padre. – Eccoti solo, o re; non un ti resta dei tanti amici, o servi tuoi. – Sei paga, d’inesorabil Dio terribil ira? – 220 Ma, tu mi resti, o brando: all’ultim’uopo, fido ministro45, or vieni. – Ecco già gli urli dell’insolente vincitor: sul ciglio46 già lor fiaccole ardenti balenarmi veggo, e le spade a mille... – Empia Filiste47, me troverai, ma almen da re, qui... morto. – 44 Teco… traggi: portala con te (traggi è

45 all’ultim uopo… ministro: per l’ultima

imperativo), anche con la forza, se è necessario.

necessità, strumento fedele. 46 sul ciglio: davanti agli occhi.

47 empia Filiste: crudeli Filistei.

Analisi del testo Il delirio di Saul Saul, in preda al delirio, ha la mente affollata da presenze inquietanti: gli spettri del profeta Samuele e del sommo sacerdote Alchimeléch, che lui stesso aveva fatto uccidere. Ridestatosi dallo stato allucinatorio, il sovrano vorrebbe per sé le armi per combattere un’ultima volta e morire sul campo eroicamente. Ma venuto a sapere che il suo regno ormai è sconfitto, che i suoi figli sono morti e che tutto è perduto, decide di porre fine alla sua vita con la spada, dopo aver affidato la figlia Micol, che invano aveva tentato di far tornare in sé il padre, ad Abner per consegnarla a David.

Un dramma della coscienza Le ultime scene della tragedia sono essenziali per comprendere sino in fondo la modernità della figura di Saul, che ospita dentro di sé un “dramma della coscienza”, espressione di un contrasto tra sentimenti positivi e zone oscure dell’io.

Le scelte stilistiche La frammentazione dei versi, caratteristica delle tragedie alfieriane, risulta un efficace strumento per amplificare la forza drammatica delle scene, assieme al ricorso a un lessico solenne ed elevato.

La visione del mondo. L’immagine del poeta e il ruolo della poesia 2 459


Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

TECNICA NARRATIVA 1. Suddividi il testo in sequenze e assegna un titolo a ciascuna di esse. SINTESI 2. Sintetizza il contenuto del testo in circa 8 righe. COMPRENSIONE 3. Nella V scena a chi rivolge Saul le sue invocazioni? 4. Saul è attanagliato dal senso di colpa. Verso chi? ANALISI 5. Come viene presentata la figura di Micol? STILE 6. Nelle scene presentate Alfieri ricorre a frasi interrogative, esclamative e imperative. Individuale e spiega quale effetto produce il loro utilizzo da parte dell’autore.

Interpretare LEGGERE LE EMOZIONI

EDUCAZIONE ALLE RELAZIONI

SCRITTURA 7. Come interpreti il rapporto padre-figlia nel Saul? Ti sembra che le passioni estremizzate della tragedia alfieriana siano lontane dalla tua sensibilità? Come vivi il rapporto con la figura paterna (max 15-20 righe)?

La Mirra e il tormento interiore della passione illecita Il tema del conflitto tra passione e ragione è sviluppato anche in Mirra, considerata uno dei capolavori del teatro tragico alfieriano. Il dramma, in questa tragedia, non è più incentrato su un personaggio eroico, ma su una giovane donna, che lotta, senza riuscirvi, per vincere l’amore incestuoso per il proprio padre: una tragedia dunque tutta interiore, la più moderna sul piano della psicologia e del linguaggio. La vicenda Mirra, figlia di Ciniro, re di Cipro, è oppressa da un’estrema malinconia. In realtà la giovane è vittima di una vendetta di Venere, che, per punire sua madre Cecri, che aveva vantato la bellezza della figlia paragonandola a quella della dea, l’aveva fatta innamorare del proprio padre Ciniro. Fra i molti che ne chiedono la mano, la principessa sceglie il giovane Pereo; ma, proprio durante la cerimonia nuziale, in delirio, Mirra svela la sua avversione per lo sposo, che non regge al rifiuto, e si toglie la vita. Ciniro la affronta duramente, obbligandola a rivelare i motivi della sua condotta. Per l’orrore suscitato dalla rivelazione, Mirra è pronta a trafiggersi con la spada del padre. Sconvolto, Ciniro la lascia sola a morire; resta al suo fianco soltanto la nutrice Euriclea. Il mito di Mirra dalle Metamorfosi di Ovidio alla tragedia alfieriana Alfieri trae la vicenda dalle Metamorfosi del poeta latino Ovidio (X, 298-518). L’amore per il padre, e la gelosia verso la madre, di cui Mirra si sente non figlia ma rivale, è al centro della tragedia di Alfieri: l’impulso amoroso pone Mirra al di fuori della normalità dei rapporti familiari e, di conseguenza, della convivenza sociale, fondata, come Freud avrebbe in seguito dimostrato, sulla repressione degli istinti e sui tabù. I mutamenti apportati al mito ovidiano A differenza del poema ovidiano, in cui la fanciulla confida alla nutrice il proprio sentimento amoroso, e, con l’aiuto di questa, celando la propria identità, diviene amante del padre, con cui concepisce il

460 Settecento 11 Vittorio Alfieri


figlio Adone, nella tragedia alfieriana Mirra tenta fino alla fine di combattere contro la propria passione, e, quando infine cede e, per quanto velatamente, la rivela, è subito pronta a darsi la morte, rimpiangendo di non averlo fatto quando ancora era da tutti considerata innocente. Mirra appare così non come colpevole, ma come vittima di una passione impossibile da dominare. La tragedia del “ritorno del rimosso” La Mirra, come il Saul, si incentra dunque su un conflitto psicologico; in termini psicoanalitici potrebbe essere definita la tragedia del “ritorno del rimosso”, in quanto si concentra sul non detto, sugli impulsi profondi della psiche che riemergono, a dispetto di tutto, dopo essere stati censurati e negati, mostrando così la loro potenza incoercibile. In tutta la tragedia, infatti, Mirra tenta di celare, anche a sé stessa, i suoi veri sentimenti, ben sapendo che susciterebbero il ribrezzo di tutti. Ma, come Alfieri mostra con modernissima intuizione, precorritrice della psicoanalisi, ciò che è represso deve in qualche modo manifestarsi, con conseguenze distruttive. La modernità del linguaggio e dello stile Altrettanto moderno è il linguaggio della Mirra, che sonda i limiti di quanto è possibile esprimere con la parola. Mirra è una delle eroine teatrali più silenziose che si possano immaginare: durante la prima parte della tragedia tutti si interrogano sulle cause che la rendono preda di una «muta […] malinconia mortale», ma la fanciulla si ostina a non rivelare le ragioni. Quando poi lascia trapelare la verità, è come se in lei emergesse una forza estranea. Mirra infatti vaneggia come in trance durante la cerimonia nuziale (➜ T11 OL), rivelando di non amare l’uomo che avrebbe dovuto sposare, mentre nell’ultimo colloquio con il padre si lascia sfuggire il suo segreto con poche e ambigue parole (➜ T12 ). Per l’eroina di questa tragedia, per la prima volta nel teatro italiano, i silenzi contano più delle parole: lo dimostra la presenza insistita dei puntini di sospensione tra le sue battute, a significare l’aprirsi sull’abisso insondabile dei desideri inconsci.

Mirra GENERE

tragedia

DATAZIONE

scritta tra il 1784 4 il 1786

TEMI

conflitto tra passione e ragione; amore incestuoso

MODELLI

Metamorfosi di Ovidio

online T11 Vittorio Alfieri

La forza incoercibile dell’eros e il matrimonio incompiuto Mirra, atto IV, scena III

La visione del mondo. L’immagine del poeta e il ruolo della poesia 2 461


Collabora all’analisi

T12

Vittorio Alfieri

La confessione di Mirra Mirra atto V, scene II e IV

V. Alfieri, Mirra, a c. di A. Momigliano, Mursia, Milano 1985

In seguito alle parole deliranti di Mirra durante il matrimonio, il suo promesso sposo Pereo si uccide. A questo punto Ciniro, addolorato e adirato, affronta la figlia, esigendo di conoscere le ragioni del suo comportamento. Incalzata dal padre, Mirra ammette di essere tormentata dalla passione amorosa, ma vorrebbe che qui la sua confessione si fermasse.

Atto V, scena II MIRRA, CINIRO. CINIRO 150 155 MIRRA 160 CINIRO 165 MIRRA CINIRO MIRRA 170 CINIRO 1 Stolto orgoglio… petto: Ciniro spiega alla figlia di sentirsi prima padre che sovrano, e perciò di essere disposto ad accettare una scelta che ferirebbe lo stolto orgoglio di un re che pensasse più alle esigenze del trono che a quelle della famiglia. Ciniro appare così un padre affettuoso e di aperte, quasi moderne, vedute, ma proprio la sua generosità farà sentire Mirra ancora più colpevole.

462 Settecento 11 Vittorio Alfieri

[…] Qual ch’ei sia colui ch’ami, io ’l vo’ far tuo. Stolto orgoglio di re strappar non puote il vero amor di padre dal mio petto1. Il tuo amor, la tua destra, il regno mio, cangiar ben ponno2 ogni persona umìle in alta e grande: e, ancor che umìl3, son certo, che indegno al tutto esser non può l’uom ch’ami. Te ne scongiuro, parla: io ti vo’ salva, ad ogni costo mio4. Salva?... Che pensi?... Questo stesso tuo dir mia morte affretta... Lascia, deh! lascia, per pietà, ch’io tosto da te... per sempre... il piè... ritragga... O figlia unica amata; oh! che di’ tu5? Deh! vieni fra le paterne braccia. – Oh cielo! in atto di forsennata or mi respingi? Il padre dunque abborrisci? e di sì vile fiamma6 ardi, che temi... Ah! non è vile;... è iniqua7 la mia fiamma; né mai... Che parli? Iniqua, ove primiero8 il genitor tuo stesso non la condanna, ella non fia9: la svela10. Raccapricciar d’orror vedresti il padre, Se la sapesse... Ciniro... Che ascolto! 2 cangiar ben ponno: possono certamente cambiare. 3 ancor che umìl: per quanto sia di umile condizione. 4 io ti vo’… mio: ti voglio salva, per quanto mi possa costare. 5 che di’ tu: che cosa dici. Ciniro non si capacita che dopo le sue generose e affettuose parole, la figlia voglia fuggire da lui.

6 di sì vile fiamma: di un amore così spregevole.

7 iniqua: immorale. 8 primiero: per primo. 9 non fia: non sarà. 10 la svela: rivelala.


MIRRA Che dico?... ahi lassa!... non so quel ch’io dica... Non provo amor... Non creder, no... Deh! lascia, te ne scongiuro per l’ultima volta, lasciami il piè ritrarre11. CINIRO Ingrata: omai 175 col disperarmi co’ tuoi modi, e farti del mio dolore gioco, omai per sempre perduto hai tu l’amor del padre. MIRRA Oh dura, fera12 orribil minaccia!... Or, nel mio estremo sospir, che già si appressa13,... alle tante altre 180 Furie14 mie l’odio crudo aggiungerassi15 del genitor?... Da te morire io lungi?... Oh madre mia felice!... almen concesso a lei sarà... di morire... al tuo fianco... CINIRO Che vuoi tu dirmi?... Oh! qual terribil lampo16, da questi accenti!... Empia, tu forse?... 185 MIRRA Oh cielo! Che dissi io mai?... Me misera!... Ove sono? Ove mi ascondo?... Ove morir? – Ma il brando tuo mi varrà17... (Rapidissimamente avventasi al brando del padre, se ne trafigge). CINIRO Figlia... Oh! che festi? il ferro... MIRRA Ecco,... or... tel rendo... Almen la destra io ratta ebbi al par che la lingua18. 190 CINIRO ... Io... di spavento,... e d’orror pieno, e d’ira,... e di pietade, immobil resto. MIRRA Oh Ciniro!... Mi vedi... Presso al morire... Io vendicarti... seppi,... E punir me... Tu stesso, a viva forza, 195 l’orrido arcano19... dal cor... mi strappasti... Ma, poiché sol colla mia vita... egli esce... Dal labro mio,... men rea... mi moro20... CINIRO Oh giorno! Oh delitto!... Oh dolore! – A chi il mio pianto21?... MIRRA Deh! più non pianger;... ch’io nol merto22... Ah! sfuggi 200 mia vista infame;... e a Cecri... ognor... nascondi...

11 lasciami… ritrarre: lasciami andare via. 12 fera: crudele. 13 nel mio… appressa: ai miei estremi sospiri della morte, che già si avvicina. 14 Furie: qui metonimia per “angosce”. 15 l’odio… aggiungerassi: si aggiungerà l’odio crudele. 16 lampo: rivelazione. L’invidia di Mirra per la madre fa intuire a Ciniro la verità.

17 il brando tuo… varrà: la tua spada mi servirà. 18 la destra… lingua: ho avuto la mano veloce quanto la parola. Dopo aver rivelato la propria colpa, Mirra è stata pronta a colpirsi mortalmente. 19 l’orrido arcano: l’orrendo segreto. 20 poiché… mi moro: poiché il mio segreto esce dalle mie labbra soltanto insieme alla vita, muoio meno colpevole.

21 A chi il mio pianto: chi devo piangere. Nel momento in cui muore, Mirra si è rivelata al padre diversa dalla figlia che egli aveva amato, ed egli si chiede chi egli debba ora piangere, la figlia o la donna scellerata che si è rivelata attraverso le sue ultime parole. 22 nol merto: non lo merito.

La visione del mondo. L’immagine del poeta e il ruolo della poesia 2 463


CINIRO

Padre infelice!... E ad ingojarmi il suolo non si spalanca?... Alla morente iniqua donna appressarmi io non ardisco; ... eppure, abbandonar la svenata mia figlia non posso...

[Nella scena terza, Cecri accorre, ma Ciniro la fa allontanare rivelandole l’«infame orrendo amore» della figlia.] scena IV MIRRA, EURICLÉA. MIRRA 220

Quand’io... tel... chiesi,... Darmi... allora,... Euricléa, dovevi il ferro... io moriva... innocente;... empia... ora... muojo…

Collabora all’analisi Comprendere e analizzare

Nelle ultime scene della tragedia Mirra, incalzata dal padre, giunge a rivelargli la sua colpevole passione. Ma la traumatica rivelazione avviene per gradi: sebbene nel discorso di Mirra se ne colgano alcuni indizi, solo alla fine il padre intuisce la verità. 1. Individua gli indizi attraverso i quali si svela progressivamente ciò che tormenta Mirra. 2. Quali sono le parole di Mirra che fanno comprendere al padre il suo segreto? 3. Mirra non vuole parlare perché consapevole di quelli che sarebbero stati i tremendi effetti della sua rivelazione. Quali suoi presentimenti saranno confermati? Nell’ultimo verso della tragedia, la figura retorica del chiasmo («io moriva... innocente;... empia... ora... muojo») sottolinea il rimpianto di Mirra per non essersi data la morte quando ancora era innocente. La colpa di Mirra è dunque non essere riuscita a mantenere il suo silenzio, rivelando la sua passione colpevole. 4. In quali momenti della scena Mirra si lascia sfuggire più di quello che avrebbe voluto confessare?

Interpretare

Il linguaggio di Mirra infrange le norme consuete, ad esempio quando chiama il padre con il nome Ciniro, quasi a dissociarlo da una figura genitoriale. Diversamente da oggi, all’epoca di Alfieri questo appariva come una forte trasgressione, come se negasse il legame parentale. L’identità scissa di Mirra, che non può essere insieme figlia e amante di Ciniro, dissolve i rapporti della famiglia: Ciniro si chiede chi debba piangere, la figlia amata o la donna colpevole, e allontanandosi con Cecri, lasciando Mirra a morire, non la definisce “figlia” ma «morente iniqua donna». L’empia passione di Mirra mette dunque radicalmente in crisi il linguaggio, che non è fatto per esprimere ciò che viola un tabù su cui la civiltà è fondata (l’incesto). Più delle parole, nell’ultima scena sono perciò importanti i silenzi, le reticenze, le frasi sospese sul punto di rivelare la verità. 5. Individua i momenti essenziali del crescendo drammatico. 6. Individua le espressioni con cui Ciniro si riferisce a Mirra, distinguendo quelle in cui la vede come figlia amata e come donna scellerata e colpevole. 7. Nelle ultime scene della tragedia ricorre l’uso dei puntini di sospensione. Scegli i passaggi in cui questo uso ti sembra più significativo, spiegando i motivi per cui il discorso si interrompe. 8. Mirra è colpevole, ma è anche un personaggio positivo e degno di compassione. Prova a spiegarne le ragioni. 9. Nel testo si riscontra una sorta di ironia tragica che avvicina la tragedia a modelli classici come Edipo re. Ciniro crede infatti di poter aiutare la figlia mostrandosi padre affettuoso e disponibile, ma proprio tale atteggiamento fa precipitare la situazione. Indica i momenti in cui questo aspetto della tragedia è più evidente.

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INTERPRETAZIONI CRITICHE

Ezio Raimondi Alfieri, fra i lumi e «le ombre sull’abisso» E. Raimondi, Le ombre sull’abisso, in I sentieri del lettore, Dal Seicento all’Ottocento, Il Mulino, Bologna 1994

Uno degli aspetti di Alfieri che oggi più affascinano è il “personaggio Alfieri”. Presentiamo in proposito alcuni passi di un saggio critico di Ezio Raimondi (19242014), che mette in luce la complessità e la modernità della figura di Alfieri, sostenendo come sia spesso passata inavvertita per una critica che ha «troppe volte cancellato in funzione dello statuario ciò che è pittoresco».

Il “personaggio Alfieri” Se esiste un personaggio problematico, che bisogna sottrarre ad una specie di museo dove si è troppe volte cancellato in funzione dello statuario ciò che è pittoresco, ciò che è ombra, ciò che è elemento drammatico e contraddittorio, questi è sicuramente l’Alfieri. In un secolo come il Settecento, [...] 5 pronto a riconoscere la luce della ragione, ma già disposto anche a percorrere la notte di ciò che è il contrario della ragione, l’Alfieri, non soltanto all’interno della nostra tradizione, ma addirittura sul piano europeo, è sicuramente una delle figure più singolari. […] Non a caso verso la fine della sua esistenza egli licenzierà quella che è la più grande autobiografia italiana del Settecento, e forse non solo del Set10 tecento, la sua Vita, che è la costruzione di uno straordinario personaggio a metà tra un’Italia morta e un’Europa viva, dove dalla prima all’ultima pagina, parlando di teatro, egli si costruisce in termini profondamente drammatici. Ma drammatico in questo caso vuol dire anche romanzesco nel senso più pieno della parola, tanto è vero che noi potremmo rileggere la sua vita come il primo grande esempio di 15 romanzo italiano, dentro un secolo e in una tradizione che è decisamente in arretrato rispetto a ciò che accade in Europa proprio sul piano del romanzesco. […] Far letteratura con la propria vita Il romanzo settecentesco, forse per la prima volta nella nostra storia occidentale, non è più soltanto un fatto letterario, è la costruzione di modelli di comportamento che si appellano soprattutto alla giovi20 nezza come dimensione che si viene a poco a poco scoprendo e che poi porterà a livello antropologico fino a certi comportamenti della rivoluzione francese, la prima esplosione di una generazione giovane la quale farà in parte la rivoluzione e ne sarà nello stesso tempo la vittima. Non è un caso che, quando l’Alfieri morì, chi del vecchio ambiente piemontese conosceva bene queste cose, anche se dalla 25 retroguardia, osservava che l’Alfieri era diventato a modo suo un rivoluzionario o sicuramente un anarchico perché aveva letto da giovane troppi romanzi. La cosa è abbastanza importante perché indica subito che la letteratura è per l’Alfieri un modo di costruirsi vitalmente, non più sul piano della contemplazione disinteressata, ma dell’azione interessata: fare letteratura ha qualcosa a che vedere con 30 la costruzione del proprio Io, con il dubbio sul proprio Io, con la scoperta delle malattie, dei vuoti, delle carenze che, a mano a mano che la coscienza riflette su se stessa, vengono fatalmente alla luce. […] Il «razionalismo parziale» dell’Alfieri Razionalista per un verso (la «scienza dell’uomo» indica una costruzione razionale, una volontà di penetrazione delle 35 cose che si appella ragione moderna), egli ha nello stesso tempo, come molti altri illuministi che si muovono su terre complementari in forme abbastanza ambigue (ma questa è la ricchezza del Settecento), il senso preciso delle passioni, dei vuoti, delle insoddisfazioni, di ciò che dentro la ragione è duramente carnale e antirazionale. È inutile contrapporre ancora razionalità e irrazionalità nell’Alfieri, come se La visione del mondo. L’immagine del poeta e il ruolo della poesia 2 465


egli, uomo del Settecento, guardasse ad altro. L’Alfieri è un tipico personaggio del Settecento se nel Settecento riconosciamo che, accanto alla razionalità, esistono altri interessi e che non esiste soltanto un razionalismo esasperato, ma, come dicono oggi certi studiosi, un razionalismo parziale attraverso il quale poi la stessa ragione va alla ricerca di ciò che è il suo contrario e la luce del giorno si scontra 45 immediatamente con le ombre della notte. 40

Analisi e produzione di un testo argomentativo Comprensione e analisi

1. Per quali aspetti Raimondi definisce Alfieri «un tipico personaggio del Settecento»? 2. Come viene definita la Vita di Alfieri dal critico? 3. Secondo il critico qual è il rapporto che si stabilisce fra Alfieri e la letteratura?

Produzione

4. Qual è il ritratto di Alfieri che emerge da questa pagina di critica? Riassumilo in un testo scritto.

online

Per approfondire Alfieri e le generazioni successive

Fissare i concetti Vittorio Alfieri Ritratto d’autore 1. A quale ambiente Alfieri appartiene? Si riconosce in tale ambiente? 2. Che tipo di formazione riceve? 3. Qual è il principale interesse di Alfieri negli anni dell’adolescenza? Che cosa ricava da questo suo interesse? 4. In che cosa consiste la svolta di Alfieri? E, poi, la sua “spiemontizzazione”? 5. Testimone della Rivoluzione francese, Alfieri come la giudica? 6. Dove si stabilisce negli ultimi anni della sua vita? Che tipo di esistenza conduce? La visione del mondo. L’immagine del poeta e il ruolo della poesia 7. Qual è l’intento delle Rime? 8. Quale modello riprende Alfieri? Con quali novità? 9. Per che cosa si caratterizza lo stile delle Rime? 10. Quali sono i temi affrontati? 11. Qual è il significato che Alfieri attribuisce al termine repubblica e quale a tirannide? 12. Per quale motivo condanna il dispotismo illuminato? 13. Quali alternative ha l’uomo libero in un regime privo di libertà? 14. Qual è il rapporto fra scrittore e potere secondo Alfieri? 15. Qual è il vero compito dello scrittore? 16. Quando Alfieri inizia a scrivere la Vita? 17. Qual è lo scopo di Alfieri nello scrivere la Vita? 18. In quali fasi Alfieri suddivide la sua vita? Come giudica ciascuna di queste fasi? 19. Secondo Alfieri, che cosa ha contribuito alla sua maturazione? 20. Qual è la particolarità dello stile adottato da Alfieri nella Vita? Le tragedie 21. Quali sono i caratteri della tragedia alfieriana? 22. Quali sono i temi ricorrenti nelle tragedie alfieriane? 23. Qual è l’archetipo delle tragedie alfieriane? 24. In che cosa consiste la modernità del Saul? E la complessità del personaggio? 25. Qual è il tragico destino di Mirra? Come si conclude la tragedia?

466 Settecento 11 Vittorio Alfieri


Settecento Vittorio Alfieri

Sintesi con audiolettura

1 Ritratto d’autore

Una vita “contro” Vittorio Alfieri nasce ad Asti nel 1749 da una famiglia piemontese nobile e agiata. Rimane orfano di padre all’età di un anno e la madre si risposa presto, disinteressandosi dei figli. A quattordici anni, entrato in possesso dell’eredità del padre, Alfieri inizia una serie di viaggi (dal 1766 al 1772) in Italia e in Europa. Trasferitosi poi a Torino, conduce una vita mondana e dissoluta fino a un momento di svolta della sua esistenza. Come lo stesso Alfieri racconta nella sua autobiografia, nel 1774 avviene infatti la cosiddetta «conversione letteraria» che lo spinge a dedicarsi completamente alla vocazione di scrittore. Impegnatosi in studi sistematici, in pochi anni comporrà tragedie, trattati, poesie, satire, commedie e la Vita (la sua autobiografia). Nel 1778 Alfieri decide di rinunciare al titolo di nobile piemontese («spiemontesizzarsi») e dunque alla propria eredità, per godere di maggiore libertà. Trasferitosi prima a Parigi con la propria amante, la contessa d’Albany (Luisa Stolberg), deluso dalle derive violente della Rivoluzione francese, si sposta poi a Firenze, dove trascorre gli ultimi anni della sua vita fino alla morte nel 1803.

2 La visione del mondo. L’immagine del poeta e il ruolo della poesia

Un filo rosso tra le opere: il tema chiave della libertà Al centro dell’ideologia alfieriana è il tema della libertà. Dal punto di vista politico lo scrittore si rifà agli illuministi (in particolare a Montesquieu) e pone il rispetto delle leggi come baluardo della libertà. Per Alfieri uno Stato può essere definito libero soltanto quando nessuno, neppure il sovrano, può alterarne, modificarne o infrangerne le leggi. Secondo tale principio, a differenza della maggior parte degli illuministi, lo scrittore rifiuta anche l’assolutismo illuminato e riformatore. Alfieri assegna agli intellettuali il ruolo di difensori della libertà contro il potere. Questo tema è sviluppato nei trattati, nelle tragedie e anche nella Vita. Lo scrittore va oltre gli illuministi e conferisce alla libertà anche un carattere protoromantico, di ribellione dell’individuo contro tutti gli ostacoli che ne limitino l’indipendenza e la realizzazione personale. Un nuovo modello umano e una nuova idea di poesia Alfieri desidera presentarsi come un nuovo modello di uomo e di scrittore, come un personaggio “eroico” che sfida i tempi e si ribella alla sua epoca, e per realizzare il suo obiettivo assegna un ruolo importante alla poesia, che diviene depositaria di una missione sacra: deve risvegliare le passioni e gli ideali, parlare al cuore e alla mente dei lettori e lottare contro ogni forma di oppressione.

Un autoritratto in versi: le Rime La raccolta delle Rime, pubblicata a Firenze nel 1804, dopo la morte dell’autore, evidenzia la tendenza di Alfieri all’autobiografismo e all’autoanalisi. Le Rime riprendono il modello petrarchesco, connotandolo, tuttavia, di una passionalità proto-romantica.

Sintesi Settecento

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I trattati politici: il tema del potere e della libertà Il trattato Della tirannide (1777), in un due libri, è incentrato sul tema dell’assolutismo politico e sulle possibilità di azione dell’uomo libero in un regime dispotico, possibilità che si concretizzano in tre alternative: isolarsi, uccidere il tiranno o uccidersi. Del principe e delle lettere (1786) è un trattato in tre libri, incentrato sul rapporto tra letterato e potere. Compito dell’intellettuale è per Alfieri è quello di non cedere ai compromessi e di ispirare la passione della libertà e delle virtù civili. Un’opera affascinante e attuale: la Vita La Vita di Vittorio Alfieri da Asti scritta da esso (1806) è un’autobiografia di sorprendente modernità, incentrata sulla realizzazione delle potenzialità dell’autore come individuo libero e capace di costruirsi una vita degna. È suddivisa in quattro parti: Puerizia, Adolescenza, Giovinezza, Virilità. Le prime tre età sono negative perché lo scrittore, insofferente della sua condizione di nobile piemontese, legato al re da vincoli feudali, vive una vita dissipata, priva di senso e di scopo; nell’ultima, con la scoperta della vocazione letteraria, lo scrittore riesce finalmente a esaudire la sua più vera e profonda vocazione. Lo stile dell’opera è fluido ed espressivo.

Le tragedie La scelta del genere tragico e la riforma della tragedia La conversione letteraria che determinò una svolta nella vita di Alfieri si identifica con la scelta di diventare tragediografo. Alfieri rispetta caratteristiche tipiche del genere, come la divisione in cinque atti e le unità di luogo, di tempo e di azione, ma apporta delle innovazioni: condensazione del nucleo drammatico; numero ridotto di personaggi; essenzialità dello stile, con dialoghi brevi e incalzanti; lingua letterariamente sostenuta. Il metodo seguito da Alfieri nella composizione delle tragedie è condensato in tre fasi «ideare, stendere, verseggiare». Il corpus delle tragedie: dal conflitto tiranno-uomo al conflitto interiore Alfieri scrisse 19 tragedie tra il 1775 e il 1787, pubblicate a Parigi tra il 1787 e il 1789 in edizione definitiva, incentrate su una netta polarizzazione tra libertà e tirannide. La prima fu il

468 Settecento 11 Vittorio Alfieri


Filippo, seguita poi dalle altre cosiddette “tragedie della libertà”, in cui gli antagonisti dei tiranni cercano disperatamente di opporsi alla privazione delle libertà civili come nel Timoleone, in Virginia e nella Congiura de’ Pazzi. Gli esiti della lotta tiranno-uomo libero sono gli stessi presenti nel coevo trattato Della tirannide: l’uomo libero uccide il tiranno o soccombe. Le due più conosciute tragedie alfieriane, Saul e Mirra, si distinguono dalle altre poiché il conflitto non è più tra due antagonisti, ma diviene interno ai personaggi stessi. Il Filippo, archetipo delle tragedie alfieriane “di libertà” La prima tragedia alfieriana, archetipo delle “tragedie di libertà”, è Filippo (1775-76), dedicata alla vicenda di don Carlos, figlio di Filippo II di Spagna. Saul e il conflitto interiore del tiranno Il Saul, considerato uno dei capolavori di Alfieri, fu composto nel 1782. La tragedia è ispirata alla vicenda biblica del vecchio Saul, incapace di accettare la sua decadenza e la successione legittima del genero David, da lui osteggiato in tutti i modi. La novità del Saul risiede nel fatto che in questa tragedia il conflitto è solo apparentemente quello tra il vecchio sovrano e David: in realtà, è tutto interno alla coscienza di Saul, nella quale si svolge un autentico dramma interiore. La Mirra e il tormento interiore della passione illecita L’atro capolavoro alfieriano è la Mirra, incentrata non su un personaggio eroico ma su una giovane donna, soggiogata da una passione inconfessabile per il proprio padre. Anche in questo caso, come nel Saul, il dramma si svolge all’interno della coscienza della protagonista che cerca in tutti i modi di sconfiggere il suo amore incestuoso, senza tuttavia riuscirvi.

Zona Competenze Scrittura

1. Scrivi un testo espositivo-argomentativo in cui evidenzi come il tema della libertà costituisca un filo conduttore in tutta l’opera di Alfieri.

Esposizione orale

2. Illustra il significato del suicidio nelle tragedie alfieriane, collegandolo con i temi fondamentali della visione politica ed esistenziale dell’autore (intervento orale di circa 5 minuti).

Scrittura creativa

3. Scrivi una tua breve memoria autobiografica, imperniandola, come quella di Alfieri, su un cambiamento per te cruciale.

Scrittura argomentativa

4. Alfieri e Parini incarnano due modelli di intellettuale che hanno avuto grande influenza sulle generazioni successive, assumendo quasi i tratti del mito: in un testo espositivoargomentativo rintraccia le ragioni di questo fenomeno, mettendo in luce anche le profonde differenze che intercorrono fra i due autori sul piano umano e del pensiero. 5. Spiega questa dichiarazione di poetica di Alfieri: «Vorrei bensì persuadere e convincere gli scrittori tutti che non possono essi mai ottenere gloria verace con fama intatta e durevole, né quindi mai cagionare utilità vera e massima nei loro lettori, se il loro scrivere non riesce alto, veridico, libero ed interamente sciolto da ogni secondo meschino fine».

Sintesi Settecento

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Verso l’esame di Stato Tipologia A Analisi e interpretazione di un testo letterario italiano

Vittorio Alfieri

Virginia Virginia, II, i V. Alfieri, Tragedie di Vittorio Alfieri, a c. di G. Zuradelli, Utet, Torino 1973

Nella tragedia Virginia, ideata e stesa nel 1777, e successivamente versificata, emerge l’idealizzazione settecentesca delle virtù della Roma antica. A Roma, il tiranno Appio Claudio esercita un potere dispotico, e insidia Virginia, promessa al tribuno della plebe Icilio. Manipolando a proprio vantaggio le leggi, Appio Claudio fa riconoscere falsamente Virginia come una sua schiava, e se la fa consegnare, cosicché, per sottrarla al disonore, il padre Virginio la uccide. Ma una sollevazione del popolo ristabilirà la libertà, abbattendo il tiranno. Nei versi da analizzare è delineata la figura del tiranno attraverso un suo monologo.

ATTO II scena I APPIO Appio, che fai? D’amor tu insano?... All’alto desio di regno ignobil voglia accoppi di donzella plebea1?... Sì; poi ch’ell’osa non s’arrendere ai preghi, a forza trarla 5 ai voler miei, parte or mi fia di regno2. Ma il popol può... Che temo? Delle leggi la plebe stolta, oltre ogni creder, trema: s’io delle leggi all’ombra a tanto crebbi, anch’oggi schermo elle mi fieno3; io posso, 10 e so crearle, struggerle, spiegarle4. Molt’arte vuolsi a impor perfetto il giogo5; ma, men ch’io n’ho. Più lieve erami assai conquider voi, feri patrizj, in cui sol forza ha l’oro, e pria vien manco l’oro, 15 che in voi l’avara sete6: io v’ho frattanto, se non satolli, pieni: hovvi strumenti fatti all’eccidio popolar7, per ora:

1 Appio… plebea: il tiranno Appio Claudio si chiede come possa accoppiare all’ambizione del regno il basso desiderio di una fanciulla plebea. 2 poi… regno: poiché lei osa non arrendersi alle mie preghiere, per me è parte dell’esercizio del mio

470 Settecento 11 Vittorio Alfieri

potere regale condurla con la forza a soddisfare i miei desideri. 3 schermo... fieno: (le leggi) potranno difendermi. 4 spiegarle: interpretarle. 5 Molt’arte… giogo: molta abilità è necessaria per imporre il potere assoluto.

6 Più lieve… sete: la cosa più facile è stata vincere voi, fieri nobili, su cui ha potere solo la ricchezza, e viene meno prima l’oro, che la vostra avidità. 7 hovvi… popolar: vi considero come strumenti per annientare il popolo.


spegnervi8 poscia, il dì verrà; poca opra a chi v’ha oppressi, ed avviliti, e compri9. – 20 Ma già Virginia al tribunal si appressa; seco è la madre, e Icilio, e immenso stuolo? – Fero corteggio10; e spaventevol forse, ad uom ch’Appio non fosse: ma, chi nato si sente al regno, e regno vuole, o morte, 25 temer non sa, né sa cangiar sue voglie. 8 spegnervi: eliminarvi. 9 compri: corrotti. 10 Fero corteggio: inquietante corteo.

Puoi rispondere punto per punto oppure costruire un unico discorso che comprenda la risposta a tutte le domande proposte.

Comprensione e analisi

1. Fai la parafrasi dei primi 10 versi. 2. Appio Claudio espone alcuni dubbi sull’azione scellerata intrapresa per conquistare la fanciulla. Quali? Per quali ragioni, nonostante tutto ciò, non rinuncia al suo proposito? 3. Appio Claudio racconta come ha conquistato il potere assoluto: in che modo ha realizzato il suo progetto? Ha completato il suo piano? 4. Nel monologo di Appio Claudio emergono tre protagonisti: il tiranno, i nobili e il popolo. Rintraccia nel testo le espressioni e i termini che li descrivono: quale giudizio emerge su ciascuna delle tre componenti dello Stato? 5. Analizzando il testo, si può affermare che Appio Claudio ami Virginia? Per quali ragioni? 6. Quali elementi caratterizzano Appio Claudio come “tiranno”? Quali sono i suoi sentimenti verso il popolo?

Interpretare

Partendo dal passo proposto e facendo riferimenti ad altre tragedie di Alfieri da te lette, spiega il modo con il quale l’autore delinea i personaggi femminili.

Verso l’esame di Stato 471


Verso l’esame di Stato Tipologia B Analisi e produzione di un testo argomentativo

La Vita di Alfieri M. Fubini, Ritratto dell’Alfieri, in Ritratto dell’Alfieri e altri studi alfieriani, La Nuova Italia, Firenze, 1967, pp. 14-18.

La Vita s’è preparata lentamente nella mente dell’Alfieri: ad essa tendeva il poeta che aveva cercato di impossessarsi per mezzo dell’arte di sé medesimo, di chiarire i propri sentimenti nella precisa parola, nel quadro chiuso dei sonetti, ma che non poteva appagarsi di quel «sublime specchio di veraci detti». 5 Questa preparazione della Vita riconosciamo nei Pareri1 sulle tragedie, nei quali l’autore si pone di fronte all’opera propria e raffronta una per una le tragedie, uno per uno i personaggi all’idea che gli sta nella mente; la riconosciamo nella risposta al Calzabigi2, nella quale tra le affermazioni recise del credo estetico e morale dello scrittore, si fa sentire a un certo punto una voce più intima di 10 confessione: «Ciò che mi mosse a scrivere dapprima, fu la noia, e il tedio d’ogni cosa, misto a bollor di gioventù, desiderio di gloria, e necessità di occuparmi in qualche maniera che fosse più confacente alla mia inclinazione»; ma soprattutto di questo ripiegarsi dell’Alfieri su sé medesimo per dare un giudizio di quello che egli ha fatto e su quello che egli è, ci è testimonianza il dialogo 15 La virtù sconosciuta3, la più intima delle operette alfieriane, che è insieme una celebrazione dell’amico unico e un esame di coscienza che Vittorio fa di sé medesimo, ed è pur, con quel che di classicheggiante e letterario permane nel suo stile, il precedente più vicino all’autobiografia. Così maturatasi a poco a poco, questa gli sgorgherà dalla penna in uno dei momenti se non più felici, 20 meno infelici della sua esistenza, nel 1790, nel primo anno della Rivoluzione francese, quando nonostante le riserve egli pure si sentì commosso in mezzo alla generale commozione e non fu estraneo, come parrebbe da quel che si dice, al fervore di vita che era intorno a lui. In questo momento, egli poté con maggiore serenità guardare indietro al cammino percorso e narrare quello che 25 egli aveva fatto, sicuro ormai che qualcosa della sua vita non sarebbe stato vano. La felicità di questa prosa viene appunto dalla certezza che è nell’animo dell’autore, e la freschezza e la spontaneità dell’opera ci è testimoniata anche da quel primo getto che ci rende quasi sensibile nella fitta pagina priva pressoché di pentimenti e di correzioni, l’abbandono col quale il poeta delle 30 tragedie si è dato a narrare se stesso. Non delle «confessioni» egli scrive però alla maniera di Rousseau (del quale sembra prendere di mira in qualche parola dell’Introduzione l’ostentata sincerità) bensì una vita plutarchianamente costruita, che senza nascondere le sue manchevolezze illustrasse l’ideale a cui aveva tentato di conformarsi e a cui nonostante incertezze, erramenti, debo-

1 Pareri: nel Parere sulle tragedie, Alfieri commentò sé stesso. 2 Calzabigi: Ranieri de’ Calzabigi (1714-1795), poeta e librettista italiano, aveva indirizzato ad Alfieri

472 Settecento 11 Vittorio Alfieri

una Lettera poetica sulle tragedie, nella quale aveva fuso critiche ed elogi nei riguardi del poeta. 3 La virtù sconosciuta: operetta composta in Alsazia nel 1786 ma

pubblicata nel 1788, nella quale il poeta immagina un dialogo tra sé e l’amico Francesco Gori.


lezze, sentiva di essersi sostanzialmente conformato. […]. Perciò pure i nomi rimangono le persone stesse da lui più amate, non soltanto per aristocratico riserbo, ma perché estranee al soggetto dell’opera sua, a quel raffronto esplicito ora sottinteso ma continuo tra l’ideale del libero scrittore e la sua condotta nei diversi momenti della vita. Anche i ricordi della sua vita intima non possono 40 risorgere nella sua pagina con l’immediatezza con la quale il Rousseau rivive gli ineffabili momenti della sua vita interiore, ma sono per così dire contenuti dal fine che l’autore ha dinanzi, da quel giudizio che gli impone un distacco dalla sua materia. […] e la coerenza dell’uomo che guarda con uno sguardo fermo e sicuro il proprio passato, si riflette nell’unità dello stile, che si libera da quanto 45 di accademico serbava ancora nei trattati politici e ben rende l’atteggiamento dello scrittore che viene scrutando e giudicando sé medesimo ora orgoglioso dell’opera compiuta, ora sorridente per le proprie tollerabili debolezze, ora irosamente sprezzante per la propria o altrui pusillanimità […]. 35

Puoi rispondere punto per punto oppure costruire un unico discorso che comprenda la risposta a tutte le domande proposte.

Comprensione e analisi

1. Sintetizza il contenuto del passo critico in circa 5 righe. 2. Quali sono le opere che preparano Alfieri alla stesura della sua autobiografia? Quali caratteristiche presentano? 3. Che cosa inizialmente spinse Alfieri a guardare dentro sé stesso? 4. Perché le persone amate da Alfieri restano, nella Vita, puri nomi? 5. Che cosa intende dire Fubini quando scrive «Non delle “confessioni” egli scrive però alla maniera di Rousseau (del quale sembra prendere di mira in qualche parola dell’Introduzione l’ostentata sincerità) bensì una vita plutarchianamente costruita» (rr. 30-34).

Produzione

Sulla base del testo proposto e delle tue conoscenze, esponi le tue riflessioni sul valore letterario ed etico della Vita di Alfieri.

Verso l’esame di Stato 473


Verso l’esame di Stato Tipologia C Riflessione critica di carattere espositivo-argomentativo su tematiche di attualità Testo tratto da Edmund Burke, Il bello e il sublime, a c. di C. Bianco

Il tema del terrore, quale componente ineliminabile del piacere prodotto dall’idea del sublime, assente dal trattato dello Pseudo-Longino [...], diventa un elemento centrale nella concezione burkiana del sublime, secondo la quale tutto ciò che può destare idee di dolore e di pericolo, ossia tutto ciò che è in certo senso terribile, o che riguarda oggetti terribili, o che agisce in modo analogo al terrore, è una fonte del sublime, il quale produce la più forte emozione che l’animo sia capace di sentire. Ma quindi cos’è il sublime? Per Burke è un’idea capace di provocare una sensazione di diletto e sentimenti come lo stupore, l’ammirazione, la riverenza e il rispetto, e il presupposto perché si possa parlare di sublime è la distanza intercorrente tra il soggetto che prova tali sentimenti ed il pericolo, distanza che deve perciò essere tale da non mettere a repentaglio la sua incolumità. Perché possa essere considerato tale, il sublime deve quindi essere contemplato come uno spettacolo da un soggetto posto a una certa distanza ma capace di lasciarsi coinvolgere empaticamente nello spettacolo osservato: come osserva Burke, noi proviamo un certo diletto, e non piccolo, nelle reali disgrazie e nei dolori degli altri. www.filosofico.net/esteticaburke.htm

La categoria estetica e filosofica del sublime, affermatasi nell’ultimo scorcio del Settecento, introduce una nuova concezione rispetto al bello classico, tradizionalmente associato a rasserenanti sensazioni di armonia e compostezza. Il sublime è infatti un’esperienza che suscita emozioni violente, di smarrimento, solitudine, angoscia, legate alla coscienza della finitezza e fragilità umana rispetto alla potenza smisurata della natura e all’infinità del cosmo, ma nello stesso tempo comporta la sconcertante scoperta del sottile piacere che si può accompagnare all’orrore di fronte a spettacoli naturali terribili e misteriosi. Simili esperienze interiori ed estetiche possono trovare ancora spazio nel nostro mondo meccanizzato, ipertecnologico e in cui l’uomo è sempre più tentato dalla presunzione della propria onnipotenza? Sviluppa sul tema una tua riflessione critica, facendo riferimento a tue conoscenze ed esperienze. Puoi articolare il tuo elaborato in paragrafi opportunamente titolati e presentarlo con un titolo complessivo che ne esprima sinteticamente il contenuto.

474 Settecento 11 Vittorio Alfieri


CAPITOLO

12 Libertini e letteratura libertina

Nell’arte, nella letteratura, nella musica del Settecento ci si imbatte frequentemente in una particolare figura trasgressiva e spregiudicata, soprattutto nell’ambito delle relazioni amorose: il libertino.

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Settecento

Gli esempi più eclatanti sono rappresentati dall’avventuriero veneziano Giacomo Casanova e dal personaggio d’invenzione Don Giovanni. Il libertino ha in comune con il philosophe l’abito intellettuale del libero pensatore, il gusto della dissacrazione, la polemica contro la religione, l’uso frequente dell’ironia. Ma la sua ricerca del piacere è estremamente individualistica e lo porta a calpestare – a volte anche crudelmente – le esigenze e i sentimenti degli altri, allontanandolo di molto dalle teorizzazioni e dai comportamenti degli uomini di cultura illuministi.

1 Ladelfigura libertino filone libertino 2 Ildella letteratura settecentesca

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12 Libertini e letteratura libertina 1 La figura del libertino 1 Un nuovo protagonista del dibattito culturale 2 Giacomo Casanova: vita di un libertino Giacomo Casanova D1 «Coltivare il piacere dei sensi»

LEGGERE LE EMOZIONI

Storia della mia vita

SGUARDO SUL CINEMA Giacomo Casanova secondo Fellini

2 Il filone libertino della letteratura settecentesca 1 La letteratura libertina 2 Il Don Giovanni di Mozart-Da Ponte PER APPROFONDIRE Don Giovanni: dal personaggio al mito Lorenzo Da Ponte secondo le PARITÀ NUOVE T1 Il catalogo del seduttore EDUCAZIONE CIVICA DI GENERE Linee guida

equilibri

Don Giovanni, I, v

#PROGETTOPARITÀ

T2 L’etica di Don Giovanni Don Giovanni, II, i

3 Libertinismo al femminile: la marchesa di Merteuil e Le relazioni pericolose Pierre Choderlos de Laclos secondo le NUOVE T3 La formazione di una libertina EDUCAZIONE CIVICA Linee guida

PARITÀ DI GENERE equilibri

Le relazioni pericolose

4 Dal cinismo alla perversione: il marchese de Sade T4 Una fredda teorizzazione del piacere Justine

Sintesi con audiolettura Zona Competenze

476 Settecento 12 Libertini e letteratura libertina

#PROGETTOPARITÀ


Ottocento


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Ottocento

Scenari socio-culturali Neoclassicismo e Romanticismo

LEZIONE IN POWERPOINT

Tra la visione del mondo che si afferma nell’età romantica, tra fine Settecento e primo Ottocento, e la visione illuminista esiste più frattura che continuità. In rapporto ai traumatici mutamenti storici e sociali (la rivoluzione industriale) emerge nell’immaginario romantico il tema centrale del conflitto tra individuo e società. L’eroe romantico, che soprattutto i romanzi propongono alle giovani generazioni come nuovo modello umano, si ribella alle convenzioni sociali, aspira a un mondo ideale diverso da una realtà prosaica e meschina, ama in modo totale e passionale ed è preda dei conflitti e dell’infelicità: ma proprio questo lo rende diverso e superiore. Alla visione materialistico-meccanicistica dell’Illuminismo si contrappone lo spiritualismo romantico, la tensione a superare i limiti della realtà fenomenica per raggiungere l’Assoluto, l’Infinito, la visione di una natura pervasa dallo Spirito, in cui l’Io si rispecchia. Nel Romanticismo, inoltre, nasce l’idea di nazione, fondata sulle qualità specifiche di un popolo, il suo spirito, le sue tradizioni. La fisionomia e la condizione degli intellettuali cambiano e inizia a profilarsi un nuovo pubblico di massa.

1 La visione del mondo. Figure, luoghi e centri della cultura 2 Modelli del sapere e tendenze filosofico-scientifiche e forme della letteratura nella prima metà 3 Caratteri dell’Ottocento 4 L’evoluzione della lingua 479


Neoclassicismo e Romanticismo Sguardo sulla storia L’età napoleonica L’ascesa di Bonaparte Il Settecento si chiude e l’Ottocento si apre nel nome di Napoleone Bonaparte. La sua straordinaria ascesa politica inizia al comando dell’Armata d’Italia contro la coalizione antifrancese (1796-1797). Dopo il colpo di stato del 18 brumaio egli è uno dei tre consoli con i pieni poteri. Designato “Primo console” e poi “Console a vita” da un plebiscito (1802), nel 1804 è proclamato imperatore dei francesi, incoronato dal papa nella chiesa di Notre Dame. L’impero Grazie alle sue vittorie contro le coalizioni degli stati europei, l’Europa fino alla Polonia è sotto il dominio o il controllo di Napoleone. Solo Austria e Prussia, ridotte territorialmente, conservano l’indipendenza. Il regime napoleonico Messe a tacere l’opposizione e la stampa, delle conquiste della Rivoluzione restano l’abolizione dei diritti feudali, il principio dell’eguaglianza dei cittadini di fronte alla legge e la libertà di iniziativa economica. A questi principi si ispirano il Codice civile (del 1804, progressivamente esteso a tutti i paesi annessi o controllati dalla Francia) e il Codice penale (1810), che fanno dello stato napoleonico un modello per la modernizzazione della società europea. La fine La campagna di Russia contro lo zar Alessandro I si rivela un disastro nonostante l’enorme impiego di uomini. Sconfitto a Lipsia (1813), l’anno successivo Napoleone è relegato all’isola d’Elba. La fuga e il tentativo di riprendere il potere si concludono a Waterloo e con l’esilio definitivo nella sperduta isola di Sant’Elena.

Cronologia interattiva 1790 1796

Il generale Bonaparte, al comando dell’armata francese, scende in Italia.

1800

1810

1820 1820-21

1802

Bonaparte è proclamato console a vita.

Moti liberali in Europa e Italia. 1804

Napoleone è proclamato imperatore.

1812

Spedizione di Napoleone in Russia.

1805

Sconfitta di Napoleone a Trafalgar a opera dell’ammiraglio Nelson.

480 Ottocento Scenari socio-culturali

1830

1815

Battaglia di Waterloo. 1815

Conclusione del congresso di Vienna.

1830

Con la rivoluzione di luglio, a Parigi sale al trono Luigi Filippo d’Orléans. 1831

Mazzini fonda la Giovane Italia.


L’Italia Le repubbliche giacobine La discesa in Italia nel 1796 del generale Bonaparte segna l’avvio del “triennio rivoluzionario”, con la formazione delle cosiddette “repubbliche giacobine”. Le speranze di indipendenza riposte nell’intervento militare francese sono però deluse dal trattato di Campoformio (1797), che cede all’Austria la Repubblica di Venezia in cambio del riconoscimento austriaco della Cisalpina. Nel 1799 la seconda coalizione antifrancese, appoggiata dalle sollevazioni dei contadini, pone fine alle repubbliche giacobine, con un esito particolarmente cruento a Napoli. L’Italia napoleonica Dopo la proclamazione di Napoleone a imperatore, nella penisola sono costituiti nuovi regni, governati da suoi familiari o da generali fedeli. Le riforme introdotte (l’eliminazione dei privilegi feudali e le nuove legislazioni nel diritto civile, penale e commerciale) creano le premesse per una società più moderna.

La Restaurazione in Europa Il congresso di Vienna L’obiettivo di riportare l’Europa alla situazione politica e sociale precedente la rivoluzione francese ispira le decisioni del congresso di Vienna (1814-1815) a cui partecipano i rappresentanti delle potenze vincitrici contro Napoleone (Gran Bretagna, Russia, Prussia, Austria). La monarchia assoluta è riconosciuta come la forma legittima di governo e dagli stati devono essere banditi i residui istituzionali e ideologici rivoluzionari e napoleonici. Solo l’Inghilterra e la Francia hanno un regime costituzionale. La Santa Alleanza A garantire la stabilità del nuovo ordine viene costituita la Santa Alleanza fra Russia, Austria e Prussia, aperta anche alla Francia. Ispirata, per volontà dello zar Alessandro I, a una visione religiosa, s’impegna alla solidarietà nei confronti dei sovrani assoluti per il mantenimento del loro potere, contro ogni forma di cambiamento.

1840

1850

1860

1848

Il Manifesto del partito comunista di Marx ed Engels. 1848

1851

Colpo di stato di Napoleone III.

1852

In Piemonte primo governo Cavour.

Prima guerra di indipendenza.

1870

1861

1858

1860

Incontro di Plombières tra Napoleone III e Cavour.

Spedizione dei Mille e fine del Regno delle due Sicilie.

Proclamazione del Regno d’Italia.

1856

Guerra di Crimea a cui partecipa un contingente piemontese. 1859

Seconda guerra d’indipendenza.

Sguardo sulla storia  481


Le società segrete e i moti liberali In questo clima repressivo si diffondono associazioni segrete a carattere cospirativo. I loro programmi – l’Unità nazionale, le libertà politiche, la costituzione – variano a seconda delle diverse realtà. La prima offensiva contro l’assolutismo nel 1820-1821 (in Spagna, Portogallo e Italia meridionale) è repressa dall’intervento militare delle forze della Santa Alleanza, che annulla le conquiste attuate. Nel decennio successivo l’opinione pubblica europea appoggia i movimenti di liberazione nazionali, di cui la Grecia diventa emblema. Nel 1830 a Parigi una sollevazione popolare di impronta liberale moderata pone fine alle politiche liberticide di Carlo X e porta sul trono Luigi Filippo d’Orléans.

Il Quarantotto Le rivolte Nella difficile congiuntura economica della fine anni Quaranta, a Parigi, nel febbraio del 1848, una rivolta popolare proclama la repubblica democratica con il suffragio universale. La protesta si propaga a Vienna, Berlino, Milano, Praga fino a diventare una rivoluzione europea. Mentre in Francia l’obiettivo è la democrazia politica e sociale, in Germania è l’unificazione e nell’impero austro-ungarico l’indipendenza politica dei popoli sottomessi. La fase rivoluzionaria a Parigi si conclude nel giugno del 1848 con la repressione violenta del proletariato parigino. Nell’impero austro-ungarico il ritorno al potere della monarchia asburgica con la forza è favorito dall’eterogeneità etnica e politica delle nazionalità insorte e dal loro isolamento sociale. L’Europa dopo la seconda Restaurazione La repressione delle rivoluzioni del ’48 riporta al potere i sovrani assoluti e le forze conservatrici. In Francia la borghesia appoggia il regime autoritario di Luigi Bonaparte, che nel 1852 diventa imperatore col nome di Napoleone III.

Horace Vernet, Barricate in Rue Soufflot, Parigi, 25 giugno 1848, 1848-1849 (Berlino, Deutsches Historisches Museum).

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Il Risorgimento italiano e l’Unità La Giovane Italia Dopo il fallimento dei moti carbonari del 1820-1821 e del 18301831, la Giovane Italia di Giuseppe Mazzini propugna l’Unità d’Italia e la repubblica, da perseguire con la partecipazione popolare. Di orientamento democratico e repubblicano è anche il progetto di Carlo Cattaneo, sostenitore di una federazione di stati. Il biennio riformatore Negli anni Quaranta il movimento di indipendenza nazionale trova sostenitori tra i moderati. I cattolici neoguelfi, con Vincenzo Gioberti, individuano in papa Pio IX la guida di una confederazione degli stati italiani, mentre i liberali di Cesare Balbo aspirano a una direzione da parte del regno sabaudo. Tra il 1846 e il 1848 i sovrani italiani concedono una moderata libertà di stampa e organi rappresentativi con potere solo consultivo. La prima guerra di indipendenza Nel gennaio 1848, dopo il re di Napoli, anche Carlo Alberto di Savoia, il granduca di Toscana e il papa concedono la costituzione. La sollevazione popolare a Milano durante le Cinque giornate (18-23 marzo) in cui vengono scacciati gli austriaci, convince Carlo Alberto a dichiarare guerra all’Austria, con l’iniziale appoggio di truppe e volontari del papa e degli altri stati italiani. La sconfitta militare spinge i democratici a riprendere l’iniziativa, dando vita alle repubbliche di Roma e Venezia, entrambe represse dopo una lunga resistenza, la prima all’esercito francese, la seconda a quello austriaco. Il Piemonte di Cavour Dopo l’abdicazione di Carlo Alberto, il re Vittorio Emanuele II mantiene lo statuto albertino, facendo dello stato sabaudo il punto di riferimento per i liberali. Il primo ministro Camillo Benso Conte di Cavour, artefice della modernizzazione economica e giuridica del Piemonte, ottiene la partecipazione alla guerra di Crimea (1855) contro la Russia a fianco di Francia e Inghilterra e pone al congresso di Parigi la questione dell’indipendenza dell’Italia. La seconda guerra d’indipendenza L’alleanza difensiva stipulata da Cavour con Napoleone III induce l’Austria all’intervento che dà inizio alla seconda guerra d’indipendenza (1859). In seguito alla vittoria franco-piemontese, l’armistizio di Villafranca riconosce la cessione della Lombardia al Piemonte, a cui si annettono anche la Toscana e l’Emilia con i plebisciti del 1860. La spedizione dei Mille e il regno d’Italia Il partito d’Azione, fondato da Mazzini nel 1853, si fa promotore della spedizione dei Mille in Sicilia sotto la guida di Garibaldi. Vinto l’esercito borbonico, le regioni del Sud vengono consegnate a Vittorio Emanuele, che nel frattempo aveva liberato le terre dello Stato pontificio. Nel marzo 1861 viene proclamato il regno d’Italia.

Ritratto fotografico di Giuseppe Garibaldi realizzato a Napoli nel 1861 (Washington, Biblioteca del Congresso).

Sguardo sulla storia  483


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La visione del mondo. Figure, luoghi e centri della cultura 1 Un trauma storico Un’epoca di rapidi rivolgimenti politici Tra la fine del Settecento e i primi decenni dell’Ottocento viene meno la fiducia che sia possibile comprendere il presente attraverso i modelli conoscitivi e i parametri interpretativi del passato: la nuova epoca è infatti caratterizzata dalla diffusa percezione di una traumatica discontinuità e di conseguenza è caratterizzata dalla distinzione (o addirittura dal rovesciamento) rispetto al modello culturale dell’Illuminismo, dominante nel Settecento. Una percezione ben spiegabile se si pensa al rapido e violento mutare dello scenario storico-politico in un arco di tempo breve: passa solo una trentina d’anni tra la rivoluzione francese (1789), la rapida ascesa e l’altrettanto rapido declino di Napoleone, l’avvento della Restaurazione (1815) e i primi movimenti rivoluzionari (in Italia nel 1821). Un periodo così denso di radicali rivolgimenti storico-politici non poteva non lasciare tracce rilevanti nell’immaginario del tempo. Una trasformazione epocale: la rivoluzione industriale Agli sconvolgimenti politici si aggiunge e si sovrappone un mutamento epocale anche in ambito economico-sociale: già a partire dai primi decenni dell’Ottocento l’Europa vive il fenomeno, in breve tempo dirompente, della rivoluzione industriale. Primo dei paesi europei ad avviare l’industrializzazione, nell’ultimo ventennio del XVIII secolo, è l’Inghilterra (in particolare nel settore della filatura e della tessitura), seguita a breve da Belgio e Francia, quindi verso la metà dell’Ottocento da Germania e Stati Uniti; l’Italia entrerà nel processo solo a partire dagli ultimi due decenni del XIX secolo. La rivoluzione industriale produce cambiamenti così radicali nel modo di vivere che il “nuovo” che si profila all’orizzonte non può non suscitare sgomento, incertezza, addirittura paura. Il nuovo volto del lavoro e la metamorfosi del paesaggio Nei primi decenni del secolo si trasformano infatti, in un modo che non può non risultare inquietante, le modalità del lavoro e muta il volto stesso del paesaggio. Con la diffusione e la concentrazione delle fabbriche, parte delle masse contadine lascia infatti le campagne, si inurba (si trasferisce a vivere nelle città) e si proletarizza (vende cioè il proprio lavoro ai proprietari delle fabbriche ricevendone in cambio un salario). Chi lavora nelle industrie, soprattutto in Inghilterra, si concentra nei quartieri operai, che si formano o in prossimità delle fabbriche o nelle zone più degradate delle grandi città: migliaia di individui, compresi donne e bambini – a loro volta sfruttati come mano d’opera a basso costo – convivono in condizioni di promiscuità in case malsane, prive d’acqua e di servizi igienici. Nell’immaginario del tempo la città industriale – come la Coketown poi ritratta da Charles Dickens nel suo romanzo Tempi difficili (1854) – e le zone operaie delle grandi città si configurano come luoghi infernali, contrapposti al familiare e rassicurante paesaggio agreste.

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2 Un nuovo immaginario e un nuovo universo tematico Una premessa necessaria Di questi complessi mutamenti socio-antropologici, a cui abbiamo qui solo accennato, oltre che naturalmente di quelli politici, occorre tenere conto per comprendere i grandi temi del primo Romanticismo (quello tedesco e inglese), ma anche alcuni motivi del Neoclassicismo, come la nostalgia di un’armonia passata ormai perduta, che caratterizzano la cultura europea tra la fine del Settecento e il primo quindicennio dell’Ottocento, cioè l’età napoleonica (che, in Germania in particolare, è al contempo già età romantica). Nell’ambito dei modelli di comportamento, dei nuclei dell’immaginario a cui faremo riferimento in questa prima parte, il modello egemone è il Romanticismo, preparato per alcuni aspetti e alcune singole opere da autori come Goethe e Foscolo e da tendenze che si suole definire “preromantiche” (➜ C13). Intendiamo qui il concetto di “Romanticismo” in senso lato: prima ancora che un movimento letterario, con una sua poetica (a cui facciamo specifico riferimento al ➜ C15), esso è infatti una nuova sensibilità, un nuovo modo di vedere l’uomo, la realtà, la vita, la storia, che si contrappone nettamente all’Illuminismo. Una nuova sensibilità e una nuova visione che si concretizzano in nuovi temi, che si possono ritrovare anche in autori e opere che non appartengono ancora al Romanticismo vero e proprio (come Foscolo) e che interagiscono con il gusto e la visione del Neoclassicismo.

L’eroe romantico

Parola chiave

L’emergere dell’“io” All’esaltazione illuminista della dimensione razionale, capace di accomunare gli uomini persino di diversi paesi, si contrappone l’interesse romantico per ciò che distingue un individuo da un altro, facendone un’entità unica e irripetibile: quell’insieme di qualità spirituali che i romantici chiamano genio e che sono enfatizzate in alcuni individui superiori alla comune umanità (gli eroi). L’individuo romantico ha caratteristiche inconfondibili: vive nella condizione dell’inappagamento, della tensione, ha una sensibilità iperacuta, è costantemente in balìa del conflitto interiore, percepito come costitutivo del suo spirito (non a caso il personaggio shakespeariano di Amleto diventa per i romantici quasi l’emblema della loro condizione interiore). Esemplare in tal senso è il romanzo René (1802 ➜ D1 ) di François-Auguste-René de Chateaubriand (1768-1848). Il racconto è condotto in prima persona dal protagonista: uno spirito inquieto, votato all’infelicità, che rievoca il proprio tormentato

genio Nella mitologia classica il termine genio significa “nume tutelare”, uno spirito buono che assiste l’uomo dalla nascita alla morte; nelle fiabe è il nome generico con cui si designano spiriti dotati di potere magico che abitano l’aria e la terra (simili a gnomi e folletti). In un’accezione completamente diversa, genio si riferisce all’indole, anche al talento di una persona, alla sua attitudine specifica (con le quali qualcosa o qualcuno si può o meno accordare: da qui l’espressione andare a genio). Tra Sette e Ottocento l’uso del termine definisce lo spirito distintivo, le

qualità specifiche di una persona o anche di un popolo, di una nazione, o persino di una religione (come nel caso del Genio del Cristianesimo di Chateaubriand, del 1802). L’uso oggi prevalente del termine è quello che ne fa un sinonimo di “genialità”, una nozione ereditata dall’età romantica, in rapporto, come detto, alla valorizzazione dell’individuo e delle sue qualità: il termine genio allude alle doti eccezionali di un individuo in campo letterario, artistico, scientifico ecc. (da qui espressioni come “il genio di Dante” o “Machiavelli fu un genio della politica”).

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itinerario esistenziale che lo induce, dopo un lungo peregrinare, a cercare pace e serenità in una colonia indiana della Louisiana (dove poi incontra una morte violenta). Il culto degli eroi L’emergere dell’io viene enfatizzato nel culto degli eroi, personaggi di statura umana superiore, teorizzato dal filosofo-poeta inglese Thomas Carlyle (Degli eroi, del culto degli eroi e dell’eroico nella storia, 1841), ed effettivamente presente nella stessa realtà storica: eroe è infatti Napoleone agli occhi dei contemporanei, che ne seguono la straordinaria avventura politica; eroe sarà per molti italiani Garibaldi; eroe romantico per antonomasia è il poeta inglese Byron (1788-1824), figura-mito in cui si identificano le giovani generazioni per la sua vita ribelle alle convenzioni. Ma Byron traspone nelle sue stesse opere la figura dell’eroe ribelle, solitario e insofferente dei vincoli sociali: ne sono esempio il personaggio di Harold (Pellegrinaggio del giovane Aroldo, 1812 la prima parte) e quello di Manfred, protagonista della omonima tragedia (1816-1817). La presenza di una dimensione eroica accomuna molti personaggi letterari del tempo, fino al capitano Achab, protagonista del celebre romanzo di Melville Moby Dick (1851). Gli eroi sono personaggi caratterizzati da forti passioni, spesso in lotta contro le convenzioni sociali e le regole della politica, impegnati in una sfida titanica contro tutto ciò che può risultare limitante, fino alla ricerca della morte grandiosa o alla scelta estrema del suicidio, concepito non come fuga ma come estrema autoaffermazione contro la mediocrità del vivere e l’angustia delle convenzioni. Non a caso l’eroe della mitologia greca Prometeo, che ha osato sfidare Zeus, è una delle figure di riferimento del primo Ottocento e ispira molte composizioni letterarie, artistiche e musicali. Il mito della giovinezza Spesso gli eroi mitizzati dalla letteratura romantica sono giovani: è stato osservato che per la prima volta nella storia si può parlare di vero e proprio conflitto generazionale, poiché si verifica una netta frattura tra il sapere, le idee, i rigidi modelli di comportamento dei padri e l’anticonformismo, i generosi ideali dei figli. Nasce in questo periodo il mito della giovinezza.

François-René de Chateaubriand

D1 F.-R. de Chateaubriand, René, a cura di A.M. Scaiola, Marsilio, Venezia 2001

Le inquietudini di René, prototipo dell’eroe romantico Il racconto lungo René delinea il prototipo del giovane eroe infelice preda dell’inquietudine e di una logorante insoddisfazione, destinato a larga fortuna nella letteratura romantica e capace di influenzare, contrariamente alle intenzioni dell’autore, i comportamenti stessi delle giovani generazioni.

«Quella vita, che all’inizio mi aveva affascinato1, mi diventò presto insopportabile. Mi stancai della ripetizione delle stesse scene e delle stesse idee. Cominciai a scandagliare il mio cuore, a domandarmi quel che desideravo. Non lo sapevo; ma credetti all’improvviso che avrei trovato i boschi molto gradevoli. Eccomi subito risoluto a 5 concludere, in un esilio campestre, un cammino di vita appena iniziato, e nel quale avevo già divorato secoli. 1 Quella vita... affascinato: il continuo viaggiare, che si rivela ben presto inef-

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ficace come terapia al tedio esistenziale di René.


«Intrapresi quel progetto con l’entusiasmo che metto in tutti i miei propositi; partii precipitosamente per seppellirmi in una casa di campagna, come un tempo ero partito per fare il giro del mondo. 10 «Mi accusano di avere gusti incostanti, di non poter accontentarmi a lungo della stessa chimera2, d’essere in balìa di un’immaginazione che si affretta a consumare fino in fondo i piaceri, come se fosse oppressa dalla loro durata3; mi accusano di oltrepassare sempre l’obiettivo che posso raggiungere: ahimé! cerco soltanto, sollecitato dall’istinto, un bene sconosciuto. È colpa mia, se trovo ovunque limiti, se 15 quel che è finito non ha per me alcun valore? Tuttavia sento che la monotonia dei sentimenti della vita mi piace, e se fossi ancora tanto pazzo da credere nella felicità4, la cercherei nell’abitudine. «La solitudine assoluta, lo spettacolo della natura, mi gettarono ben presto in uno stato quasi indescrivibile. Senza parenti, senza amici, per così dire solo sulla terra, 20 non avendo ancora amato, ero oppresso da una esuberanza di vita. A volte arrossivo all’improvviso, e sentivo colare nel mio cuore come rivoli di una lava ardente; a volte gridavo involontariamente, e la notte era in egual misura turbata dai sogni e dalle veglie. Mi mancava qualcosa per riempire l’abisso della mia esistenza: scendevo a valle, salivo in montagna, invocando con tutta la forza dei miei desideri 25 l’ideale oggetto di una fiamma futura; l’abbracciavo nei venti; credevo di sentirlo nei gemiti del fiume: tutto era quel fantasma immaginario, gli astri nei cieli, e il principio stesso della vita nell’universo». 2 chimera: illusione. 3 Mi accusano... dalla loro durata: René è effettivamente quello che oggi definiremmo un nevrotico, sempre oscillante

fra opposte pulsioni (l’autore usa spesso aggettivi in coppia antitetica per descriverne la psicologia) e alla fine comunque insoddisfatto, “mancante” (costante è l’uso

dell’avverbio senza per definirne le qualità interiori). 4 e se... nella felicità: il mito dell’infelicità è tipico della sensibilità romantica.

Concetti chiave Una riflessione sul romanzo

René fu pubblicato nel 1802, all’interno del Genio del Cristianesimo, l’opera che Chateaubriand scrive per esaltare questa religione: nelle intenzioni dell’autore, la vicenda del protagonista avrebbe dovuto costituire una sorta di apologo in negativo, a sostegno indiretto del valore della fede, che per Chateaubriand è l’unico rimedio a un’inquietudine considerata sterile. Il personaggio di René divenne, invece, un prototipo dell’eroe romantico.

Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

COMPRENSIONE 1. Di che cosa si sente accusato René? ANALISI 2. Individua le espressioni che rappresentano lo stato d’animo di perenne insoddisfazione e inquietudine di René.

Interpretare

SCRITTURA 3. In un testo di circa 10 righe commenta le parole di René, «ero oppresso da una esuberanza di vita» (r. 20), a proposito della sua esperienza.

La visione del mondo. Figure, luoghi e centri della cultura 1 487


La scoperta del lato “notturno” dell’io L’intuizione dell’inconscio Nel Romanticismo l’attenzione all’Io, ma anche il desiderio di evadere dai limiti costrittivi della realtà fenomenica porta già a intuire, molto tempo prima delle fondamentali scoperte di Freud (L’interpretazione dei sogni è del 1900), la dimensione dell’inconscio, la “parte notturna” di ognuno di noi: una parte sconosciuta, che suscita inquietudine ma che, per i romantici, ci mette in comunicazione con l’essenza di noi stessi e della realtà. «Dentro di noi, o in nessun altro luogo, stanno i segni dell’eternità, il passato e il futuro» scrive il poeta-filosofo tedesco Novalis (➜ C16 T1 ). Per i romantici l’inconscio ci mette in contatto con l’anima, con la parte eterna di noi che è in comunione con il Tutto; si tratta dunque di una concezione dell’inconscio comunque ben diversa da quella freudiana. Anche l’obiettivo del “viaggio interiore” dei romantici è lontanissimo da quello della “psicologia del profondo” successiva: mentre per quest’ultima i contenuti rimossi vanno riportati alla luce della coscienza, per i romantici, al contrario, la coscienza deve in qualche modo annullarsi di fronte a una dimensione misteriosa ma rivelatrice di verità. Alla natura profonda del nostro Io ci ricongiungono il sogno, l’estasi, gli stati ipnotici, ma anche la poesia, così come la intendono i romantici tedeschi: ogni vero artista possiede infatti un «senso interiore» che lo rende veggente, «mago» (Novalis). Il linguaggio del sogno Grande influenza esercitò in questo senso un testo di G.H. von Schubert, La simbolica del sogno (1814 ➜ D2 OL). Lettore appassionato dei poeti romantici Novalis e Tieck, discepolo spirituale del filosofo Schelling, studioso del pensiero mistico, Schubert mette in luce le capacità rivelatrici del sogno e sostiene quindi la necessità di apprenderne il misterioso linguaggio. Nella sua opera Schubert offre già un catalogo delle immagini ricorrenti dei sogni e alcune chiavi interpretative di esse, mostrando piena consapevolezza del legame inquietante tra il sogno e il nostro lato oscuro. Al tema del sogno attinge assai spesso la letteratura fantastica, che trova grande sviluppo nella cultura europea durante il Romanticismo (➜ C18 OL). È soprattutto lo scrittore tedesco Ernst Theodor Amadeus Hoffmann (1776-1822), singolare personaggio vicino agli ambienti romantici, interessato ai fenomeni del magnetismo e dell’ipnosi – assai in voga in quegli anni – lettore di testi mistici e magici, a introdurre nei suoi racconti figure di sognatori e visionari, che possiedono un “sesto senso” in grado di portarli a scoprire nella realtà usuale strani segni e inusitate corrispondenze.

online D2 G.H. von Schubert

Il linguaggio del sogno La simbolica del sogno

488 Ottocento Scenari socio-culturali

Johann Heinrich Füssli, L’incubo, 1781 (Detroit, Institute of Arts).


Una nuova visione della natura Dalla natura “macchina” alla natura pervasa dal divino La concezione romantica della natura è opposta a quella illuministica: alla visione di una natura e di un universo soggetti a inesorabili leggi meccanicistiche, che solo il metodo impersonale della scienza può indagare, si contrappone la considerazione della natura come organismo vivo, in cui si riflette la vita universale dello Spirito, della quale l’individuo stesso è parte: una concezione sostanzialmente panteista (Goethe stesso si definiva tale e considerava la natura «veste vivente della divinità» (➜ C13). Non lo scienziato, ma il poeta – e più ancora il musicista – può pienamente decifrare il mistero della natura e cogliere l’infinito che si manifesta nelle sue forme. La visione newtoniana del cosmo, adottata dagli illuministi, non è stata capace di rispondere alle domande fondamentali dell’uomo, che si ripropongono con nuova forza in un periodo storico traumatico. Sono molti i testi che danno voce a questa profonda insoddisfazione: dal Faust di Goethe (1808 ➜ C13) ai Canti leopardiani (quasi una “messa in scena” lirica di questa insoddisfazione si ritrova nel Canto notturno di un pastore errante dell’Asia, uno dei più suggestivi testi del poeta di Recanati. Le domande che il pastore-Leopardi rivolge alla luna-natura e che rimangono senza risposta traducono l’angoscia romantica di fronte al cosmo illuministico retto, attraverso leggi immutabili, da un impersonale dio-orologiaio. La natura come specchio dell’Io Allo studio scientifico dei fenomeni fisici si sostituisce ora l’attenzione ai riflessi che la contemplazione della natura suscita nell’interiorità del soggetto. Anche per influenza della filosofia idealistica, la natura è percepita e ritratta dagli scrittori e artisti romantici come specchio degli stati d’animo del soggetto: essa può essere una natura amica, confidente, rasserenante (comunque lontana dagli scenari idillici della tradizione letteraria), oppure, e forse più spesso, paesaggio cupo, inquietante, misterioso, “sublime”, che traduce le inquietudini dell’io romantico.

Parola chiave

L’angoscia per l’avanzare della civiltà industriale La visione soggettiva e animata della natura, oltre che una ribellione alla dittatura della scienza, può essere anche considerata come una reazione all’angoscia che la rivoluzione industriale crea negli spiriti più sensibili: l’avanzare dell’industrializzazione snatura e sconvolge il volto del paesaggio, incrinando l’atavica familiarità tra uomo e natura. Il tema può allora colorarsi di nostalgico rimpianto per un bene perduto, per un mondo lontano di bellezza e armonia, come nella lirica di Hölderlin Alla natura (➜ D3b ). In questo senso anche la contemplazione della natura (come la mitizzazione del mondo antico) può essere inserita nel tema più generale della Sehnsucht romantica.

Sehnsucht Vera parola chiave della sensibilità romantica, significa “male del desiderio”: identifica appunto il senso di lacerante inappagamento che caratterizza l’uomo romantico, il senso struggente della privazione, dell’“assenza” e il conseguente desiderio di qualcosa che non c’è. La Sehnsucht può assumere

il volto dell’amata lontana o scomparsa, oppure di una patria che ancora non esiste storicamente, dell’ideale calpestato dal pragmatismo politico (come in Foscolo), del divino e dell’Assoluto di cui i moderni si sentono orfani; ma in ogni caso il “male del desiderio” è destinato a non essere mai appagato.

La visione del mondo. Figure, luoghi e centri della cultura 1 489


Il mito del paradiso perduto e il “male del desiderio” La frattura tra passato e presente, tra antichi e moderni Soprattutto nel Romanticismo tedesco è diffusa la dolorosa percezione di una frattura tra un tempo passato idealizzato e il presente, il mito di un’armonia con la natura, di una pienezza di vita che l’uomo moderno ha inesorabilmente perduto. Fin dal 1800 Schiller, nell’importante saggio Sulla poesia ingenua e sentimentale, formula quella distinzione fra antichi e moderni che sarà più volte ripresa dai romantici e identifica la condizione dell’uomo moderno come infelice, conflittuale, inappagata. Una condizione sintetizzata dalla parola tedesca Sehnsucht. Da questo senso di inappagamento, che connota in particolare la sensibilità romantica, deriva poi la fuga nello spazio (l’esotismo, il culto dell’Oriente) e nel tempo (la mitizzata Grecia antica, il Medioevo, ma anche il passato personale, cioè l’infanzia). Proprio perché il presente delude o addirittura angoscia, la poesia romantica è infatti spesso poesia del ricordo o del presentimento. La felicità esiste solo nel passato o nel futuro: un tema centrale anche nella poesia leopardiana. Il contrasto tra finito e infinito Ma la ricerca di armonia è destinata a essere sempre frustrata perché il vero contrasto che tormenta lo spirito romantico è quello tra la dimensione del finito, in cui si sente imprigionato, e quella dell’infinito, dell’Assoluto a cui la sua anima tende. Proprio questa aspirazione identifica la «coscienza infelice» dell’uomo moderno, secondo la celebre espressione hegeliana (anche a questa aspirazione dà voce Leopardi nella sua più celebre lirica, L’infinito). Solo nell’arte, e in particolare nella musica, la forma artistica più amata dai romantici, ogni contraddizione si compone e lo spirito è veramente libero dai vincoli terreni. Solo l’arte supera davvero il tempo e lo spazio. online

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Un Notturno di Fryderyk Chopin

Al chiaro di Luna di Beethoven

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IMMAGINE INTERATTIVA

Caspar David Friedrich, Un uomo e una donna davanti alla luna, olio su tela, 1818 (Berlino, Alte Nationalgalerie). In questo dipinto le figure umane sono ritratte di spalle, in ombra, e sembrano quasi delle sagome di elementi naturali che si confondono nel paesaggio circostante. L’uomo e la donna contemplano la luna, emblema dell’ignoto spirito della Natura.

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Testi In dialogo

La comunione Io-natura e il “male del desiderio” I testi proposti permettono di evidenziare come la nascente sensibilità romantica investisse di nuovi significati la natura, istituendo profonde e inusitate sintonie tra il soggetto e gli elementi naturali. I due passi sono fondati su un analogo tema: la rievocazione struggente e nostalgica di un rapporto di sintonia tra Io e natura - che al tempo della scrittura appare a entrambi gli autori ormai perduto - e l’intuizione di un’unione profonda di tutti gli esseri nell’universo, in cui si manifesta la presenza dello spirito divino. Una concezione spiritualistica in un certo senso panteistica assai diffusa, in particolare, nel Romanticismo tedesco

Johann Wolfgang Goethe

D3a

La vita sacra della natura e l’aspirazione dell’uomo all’infinito I dolori del giovane Werther, lettera del 18 agosto

J. W. Goethe, I dolori del giovane Werther, a cura di S. Marini, Principato, Milano 1995

Il passo è tratto da I dolori del giovane Werther (1774 ➜ C13), romanzo di Goethe che viene considerato il manifesto della sensibilità preromantica.

18 agosto1 [...] Un tempo, quando contemplavo dalla rupe la fertile vallata fino alle colline oltre il fiume, e vedevo tutto germogliare e zampillare intorno a me [...], quando osservavo quei monti rivestiti di alberi alti e folti dal piede alla vetta, quelle valli dai variegati 5 profili, ombreggiate da amenissimi boschi, e vedevo il fiume scorrere placido tra il fruscìo dei canneti e rispecchiare le amate nuvole, che il venticello della sera cullava nel cielo [...]. Quando udivo intorno a me gli uccelli animare il bosco e vedevo miriadi di moscerini danzare frenetici nell’ultimo roseo raggio di sole il cui estremo guizzo di luce liberava lo scarabeo ronzante dall’involucro d’erba, e tutto quel brulichìo di 10 vita intorno a me richiamava la mia attenzione alla terra; e il muschio che trae il nutrimento dalla dura roccia, e la ginestra che prospera sulle aride colline sabbiose mi rivelavano l’intima, ardente, sacra vita della natura: come assorbivo tutto questo nel mio caldo cuore; mi sentivo come divinizzato in quella straripante pienezza, mentre le splendide forme del mondo infinito pulsavano vivificanti nella mia anima. 15 Enormi montagne mi attorniavano, abissi mi si spalancavano davanti, torrenti precipitavano a valle, fiumi scorrevano sotto di me, e bosco e montagna ne risuonavano. E tutte quelle insondabili forze io le vedevo agire e creare l’una insieme con l’altra nella profondità della terra; e sopra la terra e sotto il cielo ecco brulicare esemplari dei più svariati esseri. Tutto, tutto, popolato di mille forme differenti. E gli uomini 20 intanto si ritirano al sicuro nelle loro casette, vi si annidano e da lì signoreggiano – secondo loro – nel vasto mondo. Povero stolto sei tu, che giudichi infima ogni cosa solo perché sei tanto piccolo. Dalle inaccessibili montagne al deserto che nessun piede ha calpestato fino all’estremità dell’oceano inesplorato, alita lo spirito dell’eterno creatore, che gioisce d’ogni granello di polvere che lo accoglie e vive. Oh, quante 25 volte allora ho desiderato di librarmi sulle ali della gru che mi stava sorvolando, fino alla riva del mare sconfinato, di bere al calice spumeggiante dell’infinito quell’esaltante ebbrezza del vivere e di provare, soltanto un attimo, nello spazio angusto del mio petto, una stilla di beatitudine di quell’Essere che tutto crea in sé e da sé. […] 1 18 agosto: la lettera di Werther è all’amico Wilhelm.

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Friedrich Hölderlin

D3b F. Hölderlin, Le liriche, a cura di E. Mandruzzato, Adelphi, Milano 1993

Alla natura Nella poesia di Hölderlin (1770-1843), uno dei più grandi poeti tedeschi del primo Ottocento (➜ C16), è ricorrente il tema dell’assenza del sacro e del bello nella storia e anche nel tempo della vita di ogni uomo. In questa composizione il poeta lega il tema della privazione alla natura, che nelle sue ispirate parole assume l’aspetto di un universo pervaso dal divino e dall’infinito, a cui l’anima dell’uomo moderno si rivolge con struggente desiderio.

Quando ancora giocavo col tuo velo1 e in te mi radicavo come un fiore, e sentivo il tuo cuore in ogni suono battere delicato con il mio2, 5 ed ero come te ricco di fede e di richiami – guardavo la tua immagine, trovavo ancora un luogo per le lagrime, ancora un mondo per il mio amore; e quando ancora mi volgevo al sole 10 come se ricevesse la mia voce, e le stelle chiamavo mie sorelle, la primavera musica di Dio; e un vento che muoveva appena il bosco il tuo spirito era e la tua gioia 15 che muoveva le calme onde del cuore, – mi avvolsero davvero giorni d’oro3. Nella valle ove fresca era la fonte ed il giovane verde dei cespugli giocava al fianco delle calme rocce 20 e l’Etere4 tra i rami traluceva, e quando intorno i fiori traboccavano ed ebbro5 ne bevevo il calmo alito, e dall’alto scendevano su me circonfuse di luce nubi d’oro: e quando mi allontanavo per la landa6, dove nella penombra degli abissi cantava il fiume un canto di titani7, 25

1 Quando... tuo velo: il “tu” a cui il poeta si rivolge è lo Spirito della natura. Già questa scelta allocutiva, che ricorre in tutta la lirica, suggerisce un’intimità tutta particolare tra l’Io lirico e la natura. 2 e sentivo... con il mio: il riferimento ai due cuori, del poeta e della natura, che battono all’unisono; si allude alla piena armonia tra uomo e natura. 3 mi avvolsero... giorni d’oro: è questa la proposizione principale,

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anticipata dalle due subordinate temporali (v. 1 «Quando ancora»; v. 9 «e quando ancora»). Il poeta fa uso di suggestive immagini metaforiche («le calme onde del cuore», «mi avvolsero», «giorni d’oro») per rappresentare la pienezza di vita che caratterizzava il passato e la cui descrizioneesaltazione occupa quasi tutta la lirica. Solo le ultime due strofe, aperte dall’antitetica notazione temporale Ora (v. 49) sono incen-

trate sul presente.

4 l’Etere: l’aria (ma la maiuscola, personalizzandola, ne fa un’entità benefica). 5 ebbro: la bellezza della natura produce un effetto inebriante nell’Io lirico. 6 landa: in questa strofa la natura ha un volto diverso, in rapporto a un paesaggio aspro e deserto, non più idillico ma sublime. 7 cantava... di titani: nella mitologia greca i titani si ribellarono a


e una notte di nubi mi chiudeva, e la bufera con i suoi marosi 30 tempestosi viaggiava alla montagna, e le fiamme del cielo mi avvolgevano: anima della Natura, mi apparisti. Spesso ebbro di lagrime e d’amore8 come i fiumi che hanno errato a lungo 35 sentono il desiderio dell’Oceano, io mi perdetti nella tua pienezza, o bellezza del mondo! e insieme a tutti gli esseri, via dalla solitudine del tempo, pellegrino che torna nella casa 40 paterna, mi gettai nell’Infinito9. Voi benedetti, sogni dell’infanzia, che celaste la povertà del vivere10: nutriste i buoni germi del mio cuore e ciò che non conquisterò, donaste11. 45 Nella tua luce e nella tua bellezza Natura, senza pena né violenza, simile ad un arcadico12 raccolto, crebbe il frutto regale dell’amore. Ora quel mondo della giovinezza, 50 che mi allevò e mi placò, è morto; e questo petto che colmava un cielo è come un campo arido di stoppie. La primavera canta alle mie pene amica come allora e consolante 55 ma l’alba della vita è dileguata, primavera del cuore è già sfiorita. Sempre dovrà il più amato amore intristire. Ed è ombra ciò che amiamo13. Poiché i giovani sogni sono morti, 60 morta è per me quella Natura amica. Questo nei giorni lieti non provasti, come la patria tua ti è lontana, né mai, povero cuore, ne saprai, se non ti basterà vederla in sogno. Zeus, il padre degli dei; la suggestiva espressione metaforica, usata qui da Hölderlin, allude dunque al volto rabbioso e violento della natura. 8 ebbro di lagrime e d’amore: l’espressione identifica l’eroe romantico, preda delle passioni e delle emozioni. 9 pellegrino... nell’Infinito: è vi-

vo nella cultura romantica tedesca il senso della vita come esilio e pellegrinaggio, nell’idea che l’Assoluto, l’infinito siano la vera patria, l’approdo. 10 che celaste la povertà del vivere: le illusioni, i sogni dell’età infantile sono stati capaci di nascondere il vuoto, l’assenza della bellezza e la perdita del divino.

11 e ciò... donaste: i sogni e le illusioni della prima età hanno donato al poeta (illusoriamente) ciò che non riuscirà a possedere veramente. 12 arcadico: qui vale “idillico, sereno”. 13 Ed è ombra ciò che amiamo: quello che amiamo è destinato a sfiorire, a morire.

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Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

COMPRENSIONE 1. Nel testo di Goethe (➜ D3a ), quale rapporto esiste fra il sentirsi «divinizzato» del protagonista (r. 13) e il desiderio espresso nell’immagine finale? ANALISI 2. Spiega il significato dell’espressione «mi rivelavano l’intima, ardente, sacra vita della natura» (rr. 11-12 ➜ D3a ) 3. Nella lirica di Hölderlin (➜ D3b ) l’elemento costante è la comunione Io-natura; nelle prime tre strofe però è rappresentata una natura diversa – se non addirittura opposta – a quella presentata nella quarta strofa. Spiega, sulla base degli elementi testuali, questa differenza. 4. Nelle due strofe finali del testo di Hölderlin (➜ D3b ) ricorrono insistentemente immagini negative, legate all’area semantica della morte e dell’aridità dello spirito: identificale e spiegale in rapporto al contesto e al significato complessivo della lirica.

Interpretare

SCRITTURA 5. In un testo di circa 15 righe, spiega in che modo viene rappresentata e percepita la natura da Goethe e da Hölderlin.

La rinascita dell’interesse per la dimensione spirituale e trascendente La sfiducia nei Lumi e la svalutazione del materialismo Il Romanticismo è un modello culturale originato, come si è detto, dalle ferite della storia: la violenza e il terrore scatenati durante la rivoluzione francese e le sanguinose guerre napoleoniche creano i presupposti di una sfiducia nei Lumi della ragione propagandati in tutta Europa dagli illuministi e di una nuova apertura alla dimensione del trascendente. Se l’Illuminismo è stato per eccellenza un modello di pensiero laico, immanentistico, materialistico, in alcuni casi apertamente ateistico, il movimento romantico è invece caratterizzato da una riscoperta della dimensione religiosa. Un nuovo bisogno di fede «Liberate la Religione, e un’umanità nuova avrà principio»: così scrive già nel 1798 Friedrich Schlegel, uno dei padri del Romanticismo, in uno dei Frammenti pubblicati su «Athenaeum». Un anno dopo, nello scritto La cristianità ovvero l’Europa (1799) il poeta tedesco Novalis, tra i primi grandi romantici, auspica una riconversione dell’Europa che la riporti alla religiosità che era stata propria del Medioevo (➜ D4 OL). Del 1802 è il testo celebrativo della fede Il genio del Cristianesimo di René de Chateaubriand. Le diverse manifestazioni dello spiritualismo romantico Comune alle diverse culture romantiche è la nostalgia dell’Assoluto e del divino, di cui l’uomo romantico si sente “orfano”. Da tale condizione psicologica e spirituale però possono nascere tendenze diverse, anche in rapporto alle particolari caratteristiche che il Romanticismo assume nei vari contesti europei: da un lato uno spiritualismo misticheggiante, diffuso soprattutto in Germania, ma presente anche in Inghilterra; dall’altro un’aperta adesione alle religioni positive: è il caso del nostro maggiore romanziere, Alessandro Manzoni che, ritrovata la fede cattolica, vi dedicherà la propria attività di scrittore. In lui l’adesione al Cattolicesimo si associa a convinte idee liberali, critiche verso ogni forma di dogmatismo e verso il potere temporale della Chiesa, mentre in altri scrittori la difesa della religione cristiana è associata a visioni politiche conservatrici, che sostengono il connubio trono-altare, pilastro ideologico della Restaura-

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zione. Anticipa questa tendenza fin dal 1802 il già citato Genio del Cristianesimo di Chateaubriand, ma il testo più indicativo a questo proposito è Del papa (1819) di De Maistre, che conferisce alla riscoperta della religione tratti dichiaratamente reazionari. online D4 Novalis

Erano belli i tempi in cui l’Europa era una terra cristiana La cristianità ovvero l’Europa

La riscoperta della storia e l’emergere dell’idea di nazione Culto del passato e storicismo romantico I romantici hanno un vero e proprio culto del passato, che costituisce uno dei più vistosi elementi di contrapposizione rispetto all’Illuminismo. Gli illuministi tendevano a cogliere nel passato (in particolare in epoche come il Medioevo) soprattutto l’irrazionalità, l’oscurantismo, l’inciviltà. In ogni caso, la storia passata era considerata espressione di una civiltà ancora imperfetta e quindi sostanzialmente svalutata, mentre era mitizzato il futuro, in nome dell’avanzata vittoriosa della ragione e dei diritti dell’uomo. L’atteggiamento dei romantici verso la storia è diverso e per certi aspetti addirittura opposto: essi scoprono, infatti, il senso del divenire storico, che rende ogni epoca diversa da un’altra e perciò non interpretabile attraverso rigidi e astratti parametri, gettando così le basi dello storicismo moderno. Il fascino del “primitivo” e il mito romantico del Medioevo I romantici avvertono poi particolarmente il fascino del “primitivo”: amano le saghe, le leggende popolari, che sono riscoperte e studiate come patrimonio mitico specifico delle singole nazioni, nel quale si rispecchia lo Spirito (il particolare e già citato genio) dei popoli. Viene riscoperto specialmente il Medioevo, esaltato sia in quanto epoca cristiana per eccellenza, sia in quanto momento in cui si sono formate le nazioni europee, differenziandosi anche linguisticamente dalla comune matrice latina: nasce il mito romantico del Medioevo come “primavera dei popoli” e grande età poetica. In Italia il recupero del Medioevo si colorerà di componenti patriottiche: nel nostro paese il Medioevo sarà visto soprattutto come l’età dei comuni, la cui lotta contro l’Impero poteva avere evidenti riscontri con il presente del popolo italiano, in lotta contro lo straniero.

Parola chiave

Romanticismo e identità nazionale Al cosmopolitismo illuministico i romantici contrappongono l’identità delle singole nazioni , che si fonda non su norme astratte né su confini geografici convenzionali, ma sullo Spirito del popolo

nazione Il termine nazione deriva dal verbo latino nasci, “nascere”; perciò la radice prima di nazione richiama il concetto di origine, luogo di nascita (proprio in questo senso il termine è usato da Dante nella celebre profezia del veltro, quando il poeta allude al luogo di origine del misterioso salvatore dell’Italia: «e sua nazion sarà tra feltro e feltro», If I 105). Nel periodo del Romanticismo, in particolare in Germania, si rafforza un’idea di nazione come insieme di specifici caratteri etnici, culturali, storici e linguistici. È quello che i romantici

chiamano Volksgeist, “genio della nazione”. Nell’uso che si afferma a partire soprattutto dall’Ottocento e che è tuttora vigente, la nazione diventa sinonimo di unità politica: è l’insieme di cittadini, governo e istituzioni di un paese. Rispetto a patria e anche a popolo, nazione ha un significato più politico che culturale e/o sentimentale-affettivo. La nazione fa anche riferimento a una serie di simboli distintivi della comunità nazionale, primo tra tutti la bandiera o l’inno nazionale.

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Chopin, La caduta di Varsavia

(Volksgeist in tedesco). Ogni popolo-nazione ha specifiche, originali, caratteristiche di razza, di istituzioni, di lingua, cultura, religione: «una d’arme, di lingua, d’altare, / di memorie, di sangue e di cor», dirà, con immagine felicemente sintetica Manzoni riferendosi all’Italia nell’ode patriottica Marzo 1821 (➜ C21 T2 OL). Scrittori, filosofi e uomini politici cercano di definire la specifica identità della nazione. Di «Spirito della nazione» parla fin dal 1808 il filosofo dell’Idealismo tedesco Johann Gottlieb Fichte (1762-1814) nei Discorsi alla nazione tedesca (➜ D5 OL), scritti con l’obiettivo di stimolare l’orgoglio del popolo tedesco contro l’occupazione napoleonica. Per Foscolo, che in tanti temi anticipa lo spirito romantico, l’identità di un popolo è nelle memorie, nell’eredità lasciata dai grandi uomini del passato (➜ C15); il poeta dei Sepolcri è tra i primi a dar voce in Italia al senso della patria , ideale che fruttifica nel primo Ottocento e ispira i movimenti insurrezionali in Europa.

Dallo stato alla patria Allo stato, entità enfatizzata dall’Illuminismo, alla richiesta di concrete riforme per renderlo più moderno e giusto, si sostituisce la patria: «concetto-mito» (Puppo) che nulla ha a che fare con il Contrattualismo e il Pragmatismo settecentesco. Che stato e patria siano cose ben diverse lo dimostra in modo lampante anche il diverso uso del linguaggio in ambito online politico presente in età romantica: riferendosi alla patria il diD5 Johann Gottlieb Fichte Popolo e patria scorso politico si fa appassionato, animandosi di componenti Discorsi alla nazione tedesca, discorso VIII emotive, come si può notare nel passo di Mazzini (➜ D6 OL). Amare la patria, lottare per essa diventa quasi una “religione”, online D6 Giuseppe Mazzini che ispira pagine appassionate anche ai musicisti (ad esemLa “religione della Patria” e il nuovo pio Chopin): come la religione ha avuto i suoi martiri, così la linguaggio politico Dei doveri dell’uomo patria chiede ai suoi figli, a volte, il sacrificio della vita stessa.

Immaginario e mentalità Sconvolgimenti storici e rivoluzione industriale e sociale

Parola chiave

•v alorizzazione dell’individuo • l ’eroe romantico e il titanismo • s coperta del lato “notturno” e viaggio nell’interiorità •n uova visione della Natura: specchio dell’Io e organismo vivente pervaso dallo Spirito • “ male del desiderio” e anelito all’infinito •v isione antimaterialistica • s toricismo e idea di nazione •a mor di patria

patria Il termine patria deriva dall’aggettivo latino patrius, che letteralmente significa “paterno”, ma anche “relativo alla terra degli avi”. La patria è il paese al quale si sente di appartenere per nascita, lingua, cultura, storia, tradizioni, ideali. Rappresenta certamente anche una realtà territoriale, ma sempre vista con una connotazione ideale: quando si usa il termine patria si sottolinea un sentimento di appartenenza affettiva più che geografica.

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In Italia, per le circostanze storiche specifiche del nostro paese che ne ostacolarono a lungo l’unificazione, per secoli la patria è un mito o, ancor più, un topos letterario, un ideale ricorrente costruito dalla letteratura e nutrito da componenti letterarie e retoriche (ne è esempio la celebre Canzone all’Italia di Petrarca). Con l’inizio dei moti risorgimentali, che porteranno all’unificazione del paese, la patria diventa un valore per cui lottare in ambito politico e per cui dare anche la vita.


INTERPRETAZIONI CRITICHE

Federico Chabod Romanticismo e concetto di nazione F. Chabod, L’idea di nazione, Laterza, Bari 1979

Federico Chabod (1901-1960), grande studioso di storia della politica, ritiene che il nuovo «principio di nazione» sia da ricondurre alle idee generali che ispirano la rivoluzione romantica.

Dire senso di nazionalità, significa dire senso di individualità storica. Si giunge al principio di nazione in quanto si giunge ad affermare il principio di individualità, cioè ad affermare, contro tendenze generalizzatrici ed universalizzanti, il principio del particolare, del singolo. Per questo, l’idea di nazione sorge e trionfa con il sor5 gere e il trionfare di quel grandioso movimento di cultura europeo, che ha nome Romanticismo: affondando le sue prime radici già nel secolo XVIII, appunto nei primi precorrimenti del modo di sentire e pensare romantico, trionfando in pieno con il secolo XIX, quando il senso dell’individuale domina il pensiero europeo. L’imporsi del senso della «nazione» non è che un particolare aspetto di un movi10 mento generale il quale, contro la «ragione» cara agli illuministi, rivendica i diritti della fantasia e del sentimento, contro il buon senso equilibrato e contenuto proclama i diritti della passione, contro le tendenze a livellare tutto, sotto l’insegna della filosofia, e contro le tendenze anti-eroe del Settecento, esalta precisamente l’eroe, il genio, l’uomo che spezza le catene del vivere comune, le norme tradizionali care 15 ai filistei borghesi, e si lancia nell’avventura. [...] Ma sul terreno politico fantasia e sentimento, speranze e tradizioni non potevano avere che un nome: nazione. La reazione contro le tendenze universalizzanti dell’Illuminismo (in politica, l’assolutismo illuminato), che aveva cercato leggi valide per ogni governo, in qualsivoglia parte del mondo si fosse, sotto qualunque clima e con tradizioni diversissime, e 20 aveva proclamato uguali le norme per l’uomo saggio, a Pechino come a Parigi; questa reazione non poteva che mettere in luce il particolare, l’individuale, cioè la nazione singola. [...]. Ora, con-tro le tendenze cosmopolitiche, universali, tendenti a dettar leggi astratte, valide per tutti i popoli, la «nazione» significa senso della singolarità di ogni popolo, rispetto per le sue proprie tradizioni, custodia gelosa delle 25 particolarità del suo carattere nazionale. [...] Il secolo XIX conosce, insomma, quel che il Settecento ignorava: le passioni nazionali. E la politica, che nel Settecento era apparsa come un’arte, tutta calcolo, ponderazione, equilibrio, sapienza, tutta razionalità e niente passione, diviene con l’Ottocento assai più tumultuosa, torbida, passionale; acquista, l’impeto, starei per dire il fuoco delle grandi passioni; diviene 30 passione trascinante e fanatizzante com’erano state, un tempo, le passioni religiose.

Analisi e produzione di un testo argomentativo Comprensione e analisi

Produzione

1. Qual è il nesso esistente tra Romanticismo e idea di nazione? 2. Come avviene il passaggio dal sentimento alla volontà di nazione? 3. Perché lo storico presenta l’emergere del concetto di nazione come necessaria conseguenza sul piano politico della contrapposizione, propria del movimento romantico, alla concezione illuministica? 4. Ti sembra che le osservazioni di Chabod, soprattutto nell’ultima parte del passo critico, siano applicabili al linguaggio politico usato da Mazzini in ➜ D6 OL?

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3 I valori e i modelli di comportamento Una rivoluzione antropologica Una nuova mentalità Più ancora che una rivoluzione letteraria e filosofica, il Romanticismo fu una rivoluzione nella mentalità, che trasformò i modi di sentire e la percezione del sé, generando nuovi modelli di comportamento. Una rivoluzione messa in atto anche da alcuni reali protagonisti della scena storico-culturale del tempo: è il caso di lord Byron, i cui atteggiamenti, sempre estremi ed esibiti, si impongono all’ammirazione e all’imitazione delle giovani generazioni.

Joseph Severn, Ritratto di John Keats, olio su tela, 1821- 1823 (Londra, National Portrait Gallery).

Dall’autocontrollo all’esibizione dell’interiorità Il Romanticismo segna un vero e proprio spartiacque nel modo con cui l’individuo si rappresenta e comunica l’immagine di sé. Il soggetto si propone in pubblico senza filtri e remore: non è casuale che il termine “confessione” ricorra anche nei titoli delle opere letterarie, dalle Confessioni di Rousseau (1781), testo chiave della sensibilità preromantica, alle Confessioni d’un italiano (1857-58) di Nievo. Per secoli l’autocontrollo e la reticenza su particolari intimi della propria vita erano stati considerati valori comportamentali essenziali; dai romantici, invece, sono respinti come indice di mediocrità e ipocrisia. È indicativa al proposito la dicotomia (ripresa anche nell’Ortis di Foscolo) tra Werther, il protagonista del romanzo di Goethe, passionale ed “eccessivo” in tutte le sue manifestazioni, e il saggio, razionale, equilibrato Albert (➜ C13). L’irrompere dell’interiorità nella rappresentazione letteraria determina il proliferare di forme di “scrittura dell’Io”: dalle vere e proprie autobiografie ai romanzi autobiografici (come il Werther, l’Ortis, Obermann di Sénancourt, Adolphe di Constant ecc.), in cui sono utilizzate forme espressive enfatiche e sentimentali. Forme espressive presenti anche nelle lettere personali, che si sottraggono definitivamente agli schemi convenzionali e letterari della tradizione per farsi spesso confessione diretta dei propri stati d’animo, com’è evidente in molte lettere foscoliane (➜ C14). Dal diritto alla felicità al “privilegio” dell’infelicità L’Illuminismo aveva sostenuto con forza il diritto del singolo e della collettività alla felicità. Al contrario, la cultura romantica propone come modelli umani e comportamentali personaggi irrealizzati, tormentati, preda della malinconia e della sofferenza, che arrivano a “corteggiare” la morte (da Goethe a Foscolo, da Novalis a Keats e Leopardi) e a volte la incontrano davvero nella scelta estrema del suicidio. C’è nei romantici quasi il compiacimento del dolore, considerato indice di nobiltà di spirito rispetto al conformismo e alla prosaicità della massa («Soffri e sii grande» dice l’amico Anfrido ad Adelchi, il più romantico dei personaggi manzoniani). Dalla “sociabilità” alla solitudine Proprio perché si sentono diversi e incompresi, i romantici amano la solitudine, il contatto con la natura,

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come abbiamo visto nel passo del Werther (➜ D3a ); una condizione esemplarmente rappresentata in un celeberrimo dipinto di Caspar David Friedrich (Viandante sul mare di nebbia, 1818, PAG. 478). Anche in questo caso si manifesta l’opposizione a un valore prettamente illuminista: la “sociabilità”.

Il modello borghese della famiglia Il ruolo del padre Già nei primi decenni dell’Ottocento, soprattutto nella classe borghese, la famiglia assume un ruolo etico e simbolico molto forte, segnalato dal diffondersi della consuetudine del ritratto di famiglia. Sconfitto in ambito politico, il potere assolutistico si ripropone all’interno della famiglia, della quale è enfatizzato il ruolo sia nel controllo autoritario dei comportamenti sia nella trasmissione dei valori fondamentali della società borghese: il rispetto della morale e delle tradizioni, che è compito dei genitori, e in particolare del padre, custodire contro ogni infrazione e devianza. Della famiglia il padre è il capo indiscusso e indiscutibile: solo il padre gode dei diritti politici, possiede e gestisce i beni, e solo a lui spetta la sorveglianza dei membri della famiglia: la disobbedienza e la devianza dalle regole non sono ammesse e devono essere corrette a ogni costo. Ai figli minorenni è di fatto equiparata la moglie (ad esempio il marito ha diritto di ispezionare la posta della moglie senza che nessuno lo giudichi illegale). Il contegno dei figli e della moglie non deve in alcun modo dare scandalo, offendendo l’onore della famiglia: per l’immagine della famiglia borghese l’onore e la rispettabilità, infatti, sono un capitale simbolico altrettanto importante del capitale reale. Sposa e madre esemplare/donna perduta: i due volti della figura femminile Nel corso dell’Ottocento la donna assume soprattutto il volto della “padrona di casa”, dedita all’educazione dei figli e all’attenta gestione dell’immagine della famiglia

Anonimo, La famiglia Ruspoli, 1807 ca. (Collezione privata).

La colazione in un palazzo italiano in un dipinto di autore sconosciuto del 1807. Se il “cuore” simbolico della casa-focolare è il camino, attorno a cui la famiglia si riunisce, vero centro della vita familiare e dei nuovi rituali sociali della borghesia ottocentesca è la sala da pranzo, che acquista un’importanza sempre maggiore nelle case borghesi: è a pranzo che si sbrigano gli affari e si combinano i matrimoni. Il pasto stesso diventa un rito, a cui la padrona di casa, custode dell’immagine della famiglia, dedica molta attenzione, curando l’apparecchiamento e il menu.

La visione del mondo. Figure, luoghi e centri della cultura 1 499


attraverso i riti che ne scandiscono la vita sociale. Le attività intellettuali autonome che portino la donna fuori dall’universo familiare sono ostacolate e di fatto ben poco praticate; ma sono viste con diffidenza, o addirittura condannate, dai benpensanti anche le letture (in particolare di romanzi) che possono distrarre la donna dalle funzioni canoniche di sposa e madre. Questo non impedisce ad alcune donne di talento di scrivere romanzi a volte anche arditi (da Mary Shelley a Jane Austen alle sorelle Brönte), ma è significativo che alcune di loro nascondano la loro reale identità femminile dietro pseudonimi maschili, come nel caso di Aurore Lucile Dupin (George Sand) e Mary Ann Evans (George Eliot). Alla sposa e madre esemplare si contrappongono l’adultera e la donna perduta che minaccia i sacri valori della famiglia. La contrapposizione si riflette anche nelle tipologie femminili ricorrenti nei romanzi popolari (una forma letteraria di grande successo nata verso il 1840), nei quali le donne si dividono sempre in due categorie, senza vie di mezzo: da una parte la donna virtuosa, spesso vittima di malvagi persecutori, mentre dall’altra quella viziosa e ammaliatrice, portatrice di scandalo e disordine entro la compagine della onesta famiglia borghese.

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Dalla Traviata di Verdi: Pura siccome un angelo

Una messa in scena del conflitto tra valori borghesi e amore In una scena della Traviata (1853), notissimo melodramma di Giuseppe Verdi tratto dal romanzo di Alexandre Dumas La dama delle camelie (1848), è sceneggiato in modo esemplare il conflitto tra morale, valori della famiglia (di cui non a caso si fa portavoce un padre) e peccato, impersonato da Violetta, la donna perduta (“la Traviata”, appunto) della quale si innamora perdutamente il giovane Alfredo (➜ D8 OL). Vincerà l’etica della famiglia: Violetta si immolerà sull’altare del perbenismo borghese e morirà di tubercolosi proprio quando l’amato Alfredo tornerà a lei.

Valori e modelli di comportamento Il Romanticismo comporta una rivoluzione nella mentalità che consiste in

•e sibizione della propria emotività e dei turbamenti interiori •a more come esperienza totalizzante e travolgente •c ompiacimento della condizione di infelicità, anche come scelta esistenziale •c onflitto tra etica borghese e amore-passione

L’amore-passione Una nuova visione dell’amore Proprio quando la famiglia assume un ruolo conservatore e tradizionalista, che tende a negare in particolare ai giovani e alle donne autonomia di scelta, la letteratura si fa portavoce dei diritti dell’individuo: si impongono nei romanzi il modello del giovane anticonformista, ribelle alle regole anguste della società e della famiglia, e il tema dell’amore romantico e passionale, che non conosce vincoli e freni. Nel nuovo modello culturale-comportamentale del Romanticismo l’amore è uno dei temi chiave, presente in moltissime opere letterarie, ma anche nel melodramma. È un amore che nulla ha a che fare con i rituali galanti della società set-

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Henry Wallis, La morte di Chatterton, olio su tela, 1856 (Birmingham, Birmingham Museum and Art Gallery).

tecentesca, ma che si caratterizza come estasi, fusione d’anime, passione totalizzante e che proprio in quanto tale è destinato a entrare in conflitto con le convenzioni sociali (come nel Werther e nell’Ortis), con le stesse regole morali. Proprio perché concepito come esperienza altissima, l’amore romantico non può certo realizzarsi nel matrimonio, in quell’epoca per lo più combinato, rigidamente istituzionalizzato (da qui il proliferare degli amori adulteri in letteratura); più in generale raramente assume connotati realistici, ma vive piuttosto nella dimensione del sogno e addirittura della morte, concepita come vita superiore in cui gli spiriti degli amanti possono davvero fondersi. Grazie alla mediazione del romanzo popolare e del linguaggio del melodramma l’amore-passione informerà l’immaginario del tempo e penetrerà profondamente nel costume, attraversando le barriere delle classi sociali.

Un caso italiano Di Niccolò Tommaseo (1802-1874), originario di Sebenico, sulla costa dalmata, da una famiglia dell’agiata borghesia si ricorda oggi anche l’attività lessicografica, specie per l’importante Dizionario della lingua italiana (1859-1879). Il suo Fede e bellezza (➜ D7 OL) esce nel 1840 e imbocca la strada di un moderno romanzo realistico e psicologico, in linea con le tendenze della narrativa europea coeva. I protagonisti sono Giovanni e Maria, le cui difficili esistenze a un certo punto si incontrano. Quando conosce Giovanni in Bretagna, Maria ha alle spalle esperienze amorose e di vita fallimentari. A sua volta Giovanni proviene da una vita dissipata in cui la tendenza alla sensualità contrasta con online aspirazioni a elevarsi. I due stringono un complesso legame D7 Niccolò Tommaseo Amore e morte amoroso che tra fughe, ricongiungimenti e prove varie apFede e bellezza proda al matrimonio. Ma la tisi, da cui Maria si scopre affetta, proietta un’ombra di morte sulla loro unione. La donna morirà tra le braccia dell’amato. online Sebbene l’opera non possa considerarsi riuscita, ha più di un D8 Francesco Maria Piave motivo di interesse per la modernità del tema e della struttu«Piangi, o misera!»: l’etica borghese e l’amore romantico ra, in cui si alternano parti descrittive, diari, lettere, narrazione La Traviata, atto II, scena V in terza e in prima persona.

4 La fisionomia e la condizione degli intellettuali Nuovi scenari per una difficile “professione” Tra la fine del Settecento e i primi decenni dell’Ottocento, anche in rapporto agli incalzanti eventi storico-politici, l’identità e la condizione sociale di chi scrive si fanno insicure e precarie: lo testimoniano emblematicamente le scelte di vita e i problemi incontrati da scrittori importanti di questo periodo, come Monti, Foscolo, Leopardi, Manzoni (➜ PER APPROFONDIRE Vivere da letterati nel primo Ottocento: quattro casi emblematici, PAG. 503).

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Innanzitutto decade definitivamente la corte, principale centro di attrazione dei letterati, e tramonta il costume sociale del mecenatismo che ne assicurava il sostentamento. Inoltre anche la Chiesa è ormai incapace di attrarre gli intellettuali, offrendo loro occasioni di promozione sociale, come avveniva ancora nel Settecento. L’emergere del letterato d’estrazione borghese Tra gli scrittori figurano ancora membri della classe nobiliare (come Manzoni e Leopardi), ma aumenta sempre più il numero dei letterati di origine borghese: non potendo contare su una rendita legata al patrimonio familiare, essi devono cercare di guadagnarsi da vivere con la propria attività, con le inevitabili difficoltà che ciò comporta. Non pochi sono obbligati ad accettare incarichi subalterni presso famiglie altolocate: ad esempio Silvio Pellico, che in seguito diventerà celeberrimo (ma non certo ricco!) per Le mie prigioni (➜ C19) si adatta a essere per qualche tempo il segretario di un aristocratico di rilievo (Luigi Porro Lambertenghi) e il precettore dei suoi figli. Un panorama in evoluzione Anche in Italia inizia a svilupparsi l’editoria (sono fondate case editrici ancora oggi attive, come Utet a Torino e Le Monnier a Firenze), ma l’arretratezza economico-sociale del paese, la difficoltà dei trasporti e soprattutto la divisione politica della penisola ostacolano la circolazione dei libri e la formazione di un pubblico ampio come quello dei paesi europei più avanzati su cui contare. Del resto, anche per gli autori che operano nelle città dell’editoria del tempo, come Milano o Torino, è difficile trarre un reddito dalla pubblicazione delle proprie opere, anche perché mancano in Italia norme comuni che tutelino il diritto d’autore: da qui il fenomeno delle edizioni pirata , cioè non autorizzate né dall’autore né dall’editore. Anche collaborare a giornali e riviste non rappresenta certo una soluzione: di solito, infatti, il compenso è irrisorio, per il persistente pregiudizio che quello letterario non sia un “lavoro” vero e proprio, ma soprattutto per la sovrabbondanza di letterati che cercano collaborazioni per vivere.

Parola chiave

Un’identità per gli intellettuali italiani: la diffusione dell’ideale di patria Una volta iniziata l’epopea risorgimentale, gli intellettuali italiani troveranno un’identità forte almeno sul piano ideologico: saranno infatti protagonisti nella missione

pirateria Nell’accezione propria e tradizionale del termine, la pirateria è un esercizio della navigazione a scopo di rapina, praticata soprattutto nel Medioevo (compare in più novelle del Decameron) da briganti (i pirati appunto, chiamati in età moderna “filibustieri” o “bucanieri”) che percorrono il mare assalendo le navi o le zone costiere e depredandole di ogni merce e di bene prezioso. Al tempo di Foscolo e Manzoni la pirateria ha a che fare con l’emergente mercato del libro: la mancata protezione del diritto d’autore consente impunemente iniziative editoriali illecite (“edizioni pirata”) da parte di personaggi senza scrupoli che si impadroniscono dell’opera altrui pubblicandola senza l’autorizzazione dell’autore, come succede appunto all’Ortis di Foscolo e ai Promessi sposi. Oggi il cosiddetto diritto d’autore (Legge n. 633 del 22 aprile 1941, “Protezione del diritto d’autore e di altri diritti connessi al suo esercizio”, integrata da vari decreti europei del 2014, 2017 e 2019) consente all’autore

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di poter disporre in maniera esclusiva delle proprie opere, di rivendicarne la paternità e di decidere se e quando pubblicarle. Con i nuovi mezzi di comunicazione (Internet), si parla oggi di pirateria informatica, ovvero riproduzione illegale di programmi, in seguito all’accesso ad archivi di dati informatici, o deliberata alterazione e danneggiamento di dati (come nel caso degli attacchi di hackers). Pirateria è anche definita la riproduzione di film e brani musicali scaricati illegalmente dalla Rete: pratica purtroppo sempre più diffusa nonostante i controlli delle autorità e le campagne di stampa. L’ultima analisi dell’istituto di Ricerca IPSOS per AIE (Associazione Italiana Editori) – svolta nell’ottobre 2023 – sulla pirateria nell’editoria libraria ha evidenziato come quest’ultima sottragga agli editori più di un quarto del valore complessivo del mercato: il 31% della popolazione sopra i 15 anni, infatti, utilizza libri, ebook e audiolibri in maniera illegale.


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Per approfondire Il problema del diritto d’autore

di propagandare l’“etica del dovere” e il senso della patria (➜ C19). Una missione entusiasmante che, almeno temporaneamente, riesce a mascherare i problemi di collocazione socio-economica della maggior parte di essi.

PER APPROFONDIRE

Verso un nuovo pubblico di massa, amante dei romanzi In Europa già nel primo Ottocento il pubblico inizia a configurarsi come “pubblico di massa”: la definizione non allude tanto alla quantità (ancora di fatto minima rispetto alla totalità della poonline polazione), quanto alla diversa fisionomia dei nuovi lettori D9 Alessandro Manzoni rispetto al pubblico tradizionale, sia nei gusti letterari sia per Un autore-editore di fronte al problema delle edizioni pirata la funzione attribuita alla lettura. Si tratta di un pubblico che Lettere predilige il romanzo, che ama gli intrecci avvincenti e le trame

Vivere da letterati nel primo Ottocento: quattro casi emblematici Monti e la nuova versione del poeta cortigiano La politica del regime napoleonico ripropone la figura del poeta-cortigiano nelle vesti di docile portavoce dell’ideologia imperiale. Gli intellettuali sono perciò obbligati a fare precise scelte di campo: l’acquiescenza o addirittura la celebrazione del regime e del suo “eroe” in cambio di prestigio e remunerazione economica, oppure il dissenso, più o meno esplicito, con le incertezze che ne derivano. Nel primo gruppo spicca Vincenzo Monti (1754-1828). Dopo essersi autocandidato a poeta vate già con il poemetto Prometeo (1797), consolida con successive composizioni il proprio ruolo di poeta-cortigiano. Nel 1806 ottiene 2000 zecchini per Il Bardo della Selva Nera, pubblicato a spese del governo (Cerruti): una gratificazione economica non da poco, che gli consente di assestarsi stabilmente come “poeta del governo” (il titolo gli viene ufficialmente conferito nel 1804). Si tratta di un ruolo particolarmente congeniale a Monti; non a caso, conclusa l’avventura napoleonica, egli sarà nuovamente chiamato (questa volta dal governo austriaco, proprio per la sua comprovata “disponibilità” nei confronti del potere) a dirigere la «Biblioteca italiana», la prestigiosa rivista con cui, dopo la Restaurazione, il governo austriaco cerca di cooptare gli intellettuali. Foscolo: un liber’uomo in cerca di sistemazione La biografia foscoliana documenta in modo esemplare (➜ C14) le difficoltà di scelta che si pongono a un intellettuale non benestante e al contempo non “allineato”: la formazione da liber’uomo alfieriano impedisce a Foscolo di porsi servilmente al servizio del regime napoleonico come fa Monti, ma d’altra parte egli non è un nobile ricco come Alfieri. Così, pur di ricevere un salario, milita nell’esercito durante le campagne napoleoniche. Ripone poi grandi speranze nella carriera di insegnante: nominato a ricoprire la cattedra d’eloquenza di Pavia (che era stata per due anni del Monti), vi pronuncia il 22 gennaio 1809 la celebre orazione inaugurale. Sfortunatamente, però, la riforma universitaria napoleonica sopprime la cattedra di eloquenza e Foscolo si ritrova in difficoltà. Invitato dal governo austriaco, dopo la fine di Napoleone, a dirigere la «Biblioteca italiana», egli si rifiuta di prestare fedeltà all’Austria e abbandona per sempre l’Italia. In Inghilterra è costretto per vivere a tenere conferenze divulgative e a dare lezioni private. Finisce i suoi giorni in una condizione vicina alla povertà.

Leopardi: i dilemmi di un intellettuale sradicato di provincia Giacomo Leopardi (1798-1837), l’altro grande poeta italiano del primo Ottocento, vive con lucida consapevolezza i problemi della sua collocazione come scrittore e intellettuale in un’area periferica come lo Stato Pontificio (di cui faceva parte Recanati). Appartenente a una casata di un certo prestigio ma economicamente dissestata, il giovane poeta avrebbe potuto vivere comunque nell’agio nel palazzo di famiglia. Deciderà invece di lasciare Recanati, ma vivere fuori dalla cittadina natale non sarà affatto facile, anche perché la condizione di aristocratico gli impedisce di accettare ogni tipo di impiego. Persino l’attività editoriale intrapresa per vivere dal giovane poeta (commentare testi classici, allestire edizioni, antologie) è considerata dal padre di Leopardi, Monaldo, umiliante per un gentiluomo. Leopardi vive anche il dilemma se farsi ecclesiastico, ma questa scelta avrebbe comportato un inaccettabile compromesso, data anche la posizione dello scrittore in materia di religione. Rinuncerà e dovrà allora vivere da piccolo-borghese spiantato, con la minaccia sempre incombente di regredire alla vita inerte di Recanati, nel ruolo odiato di gentiluomo nullafacente di provincia. Manzoni: un aristocratico milanese, autore (e audace editore) di un best seller Assai significativi per la ricostruzione dell’identikit dell’intellettuale nella prima metà dell’Ottocento sono anche alcuni dati della biografia manzoniana. Nipote di Cesare Beccaria (autore di Dei delitti e delle pene), Alessandro Manzoni appartiene all’aristocrazia milanese illuminata. Nobile e benestante, egli vive di rendita ma si dimostra inaspettatamente abile nel far fruttare la sua proprietà di Brusuglio, mostrando doti di intraprendenza borghese. Addirittura è capace di avventurarsi in una rischiosa impresa commerciale, finalizzata a impedire, o almeno limitare, le molte edizioni pirata dei Promessi sposi (➜ D9 OL), favorite dall’assenza, fino all’Unità d’Italia, di una legge comune ai vari stati italiani che protegga il diritto d’autore. Manzoni intuisce le possibilità di un mercato che possa economicamente premiare l’autore di un romanzo di successo, quale si stavano dimostrando “I promessi sposi”. Pensa così di fare un’edizione illustrata preziosa che possa scoraggiare le imitazioni. L’alto costo delle incisioni, unito alle vendite limitate rispetto alle previsioni, determina l’insuccesso dell’operazione, che si risolve così in un disastro economico per Manzoni.

La visione del mondo. Figure, luoghi e centri della cultura 1 503


sentimentali e che attribuisce alla lettura una funzione prevalentemente evasiva. Di questo nuovo pubblico sono parte rilevante le lettrici: anche se l’istruzione femminile continua a essere penalizzata, non poche donne, anche di modesta condizione sociale, sanno comunque leggere, forse anche in rapporto a nuove occasioni d’impiego (cameriere, governanti o commesse). Anche in Italia il pubblico comincia lentamente ad ampliarsi. Non è certo ancora un pubblico di massa, ma non è neppure più un pubblico esclusivamente di élite: va identificandosi, almeno per alcuni generi, con quello che Giovanni Berchet (1783-1851) chiama popolo (di fatto si tratta del ceto medio) in un celebre scritto per la rivista «Il Conciliatore» (a cui collabora assiduamente): la Lettera semiseria di Grisostomo al suo figliuolo del 1816 (➜ C19 D1d ). L’emergere di questo tipo di pubblico decreta anche in Italia la crisi dei generi letterari “alti”, come il poema epico e la stessa tragedia, e per contro il successo del romanzo storico e della novella sentimentale in versi. Ma nell’Ottocento italiano è soprattutto il melodramma a entusiasmare ampi strati sociali, così da configurarsi come il vero nazional-popolare (➜ C19). L’opera letteraria come prodotto commerciabile È proprio per la necessità di conquistare questo tipo di pubblico che l’editoria acquisisce un volto imprenditoriale e, di conseguenza, l’opera letteraria tende a mercificarsi, cioè a configurarsi come un prodotto che deve vendere; tendenza che Leopardi, come altri poeti del Romanticismo, già intuisce (e condanna) (➜ D13 OL). D’altra parte ci sono anche scrittori che si rivolgono consapevolmente al mercato e che hanno grande successo: ne è esempio in Francia Alexandre Dumas padre, autore dei fortunatissimi romanzi d’avventura I tre moschettieri (1844) e Il conte di Montecristo (1844-45). I centri dello scambio intellettuale: dai luoghi di aggregazione tradizionali ai nuovi ambienti Nel primo Ottocento, sotto la spinta delle rapide trasformazioni storiche, tendono a tramontare le accademie, da secoli sedi ufficiali di aggregazione e promozione sociale dei letterati, forse proprio per la loro natura di istituzioni costituzionalmente separate dalla società. Mantengono invece ancora il loro ruolo i salotti, che erano stati emblema della “sociabilità” illuminista e nei quali primariamente si era svolto il dibattito culturale; non sono però più salotti solo aristocratici, ma anche borghesi. A Milano i salotti principali erano gestiti da nobildonne colte (come Teresa Casati Confalonieri o Clara Maffei) ed erano caratterizzati da un’impronta patriottica. Scrittori e intellettuali si incontrano però sempre più in ambienti diversi, come le librerie e i “gabinetti di lettura”: Frequentati da un pubblico maschile di condi-

La condizione dell’intellettuale CONDIZIONE DI INCERTEZZA

• emergere del letterato borghese, che deve guadagnarsi da vivere • precarietà in ambito sociale ed economico

EVOLUZIONE DEL PANORAMA EDITORIALE

• primo sviluppo di un’editoria moderna (a Milano e Torino) • assenza di normative precise, soprattutto a tutela del diritto d’autore

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PER APPROFONDIRE

zione sociale elevata, i gabinetti di lettura sono ambienti confortevoli, con sale da musica e di lettura, in cui è possibile accedere a una vasta produzione libraria, anche scientifica, e dove si discute sulle novità editoriali. Particolarmente importante diventerà come centro culturale il Gabinetto Vieusseux a Firenze. Luoghi di scambio intellettuale sono anche le sedi delle principali riviste: «Il Conciliatore» (1818-1819) e «Il Politecnico» (in due serie: 1839-1844; 1859-1868) a Milano, «L’Antologia» (1821-1833) a Firenze. Ma punto di riferimento fondamentale per gli scrittori diventano soprattutto le case editrici, in particolare in città come Milano, dove si afferma la nascente industria editoriale.

Due poli culturali a confronto: Roma e Milano La Roma del Neoclassicismo archeologico Durante il pontificato di papa Pio VI (1775-1799), a Roma viene avviata una massiccia campagna di scavi archeologici che contribuiscono a fare della città nel primo Ottocento il centro nel “Neoclassicismo archeologico”, anche grazie alla presenza nella città eterna dello storico dell’arte tedesco Winckelmann (➜ C13), destinato a diventare il principale teorico di tale corrente. A Roma continuano a giungere, sulla scia del Grand Tour, artisti e intellettuali da tutta Europa: dal pittore Jacques-Louis David a Madame de Staël, da Goethe ai grandi poeti del Romanticismo inglese; vivono a lungo a Roma Byron, Keats, Shelley. Ma il ruolo attrattivo di Roma per gli intellettuali e gli scrittori tramonterà ben presto, a favore delle moderne capitali europee e, in Italia, di Milano. Nell’ambiente culturale romano, controllato dal clero e da una nobiltà estremamente conservatrice, regna il culto dell’erudizione e dell’antiquaria, che può essere considerato quasi un baluardo contro la ventata di novità che investe tutta l’Europa e scardinerà presto le tradizionali gerarchie culturali. Non è un caso che Giacomo Leopardi, approdato a Roma nel 1822 con grandi aspettative, resti molto deluso dalla vita culturale cittadina. Così scrive al padre parlando dei letterati di Roma: «Secondo loro, il sommo della sapienza umana, anzi la sola e vera scienza dell’uomo è l’Antiquaria. Non ho ancora potuto conoscere un letterato Romano che intenda sotto il nome di letteratura altro che l’Archeologia. Filosofia, morale, politica, scienza del cuore umano, eloquenza, poesia, filologia, tutto ciò è straniero in Roma, e pare un gioco da fanciulli, a paragone del trovare se quel pezzo di rame o di asse appartenne a Marcantonio o a Marcagrippa».

La Milano moderna dell’editoria e del dibattito romantico Fra età napoleonica e Restaurazione la città che emerge nel panorama italiano è Milano, anche se le sue dimensioni sono ancora ben lontane da quelle delle metropoli europee (solo nel 1861 la popolazione arriverà vicino ai 200.000 abitanti). La crescente importanza di Milano si deve innanzitutto alla modernizzazione impressa dal regime napoleonico: durante il periodo in cui è capitale del Regno d’Italia, Milano conosce un grande sviluppo urbanistico e culturale. La progressiva laicizzazione della scuola, la traduzione e l’immissione nel circuito culturale delle opere di punta della cultura illuminista francese, l’impulso dato allo studio delle discipline scientifiche e, più in generale, le direttive della politica culturale napoleonica modernizzano il volto della città e favoriscono lo sviluppo dell’industria editoriale. Nell’età della Restaurazione Milano diventa la patria dell’editoria e il cuore del Romanticismo italiano, come già era stata al centro del dibattito illuminista con l’esperienza del «Caffè». Si spiega così il fatto che intellettuali come Leopardi, provenienti da aree periferiche e culturalmente svantaggiate come lo Stato pontificio, guardino a Milano come al luogo in cui trovare un’occupazione adeguata alla propria posizione socio-culturale e in cui poter pubblicare le proprie opere. Come poli d’attrazione altre città italiane, un tempo centrali nella vita culturale, appaiono ormai al tramonto: ad esempio risulta marginalizzata Venezia e la stessa Firenze, nonostante la pubblicazione di riviste prestigiose come l’«Antologia» di Vieusseux, ha ormai assunto un volto provinciale.

Fissare i concetti La visione del mondo. Figure, luoghi e centri della cultura 1. Quali sono i cambiamenti che si verificano a cavallo tra Settecento e Ottocento? 2. Quali sono le caratteristiche dell’eroe romantico? Come si pone esso di fronte alla vita reale? 3. Come si caratterizza la nuova concezione della natura proposta dal Romanticismo? 4. Che cosa si intende con l’espressione “male del desiderio”? 5. Quali sono le differenze nella visione della storia tra Illuminismo e Romanticismo? 6. Perché si può dire che con il Romanticismo si assiste a una vera e propria rivoluzione antropologica? 7. Come è vissuta l’esperienza dell’amore dai romantici? 8. Perché quella del letterato diventa una “difficile professione”? 9. Quale diversa fisionomia assumono i nuovi lettori rispetto al pubblico tradizionale? 10. Quali sono i centri dello scambio intellettuale?

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Modelli del sapere e tendenze filosofico-scientifiche 1 Il divorzio tra filosofia e scienza e l’inizio della separazione tra le “due culture”

La tendenza alla specializzazione della scienza Nel Settecento sia la scienza sia la filosofia erano state coinvolte nella fondazione di un nuovo sapere, ispirato da una visione razionalistica del mondo e da un progetto culturale di vasto respiro, entrambi fortemente condivisi dagli uomini di scienza e di cultura. Di questo sforzo comune è insieme emblema e risultato più alto l’Encyclopédie. Nel primo Ottocento questa visione unitaria si incrina: il campo di interesse e d’azione di scienziati e filosofi si diversifica e inizia un processo che nel tempo avrà grande importanza: il divorzio tra scienza da una parte e riflessione filosofica e letteraria dall’altra (le “due culture” di cui parlerà un celebre saggio dello scienziato inglese Charles Snow, al centro di un vivace dibattito negli anni Sessanta del Novecento). La figura dello scienziato, in particolare in campo fisico, chimico, naturalistico, comincia a differenziarsi da quella del filosofo, a professionalizzarsi e istituzionalizzarsi: gli scienziati si inseriscono stabilmente nella carriera universitaria e diffondono le loro scoperte e le loro acquisizioni attraverso pubblicazioni accreditate sempre più distinte da quelle di argomento filosofico e letterario. Tendono così a scomparire scienziati con interessi filosofici globali: gli uomini di scienza rinunciano ad assumere un ruolo-guida nel campo culturale ed etico, concentrandosi esclusivamente su circoscritti argomenti di ricerca; inizia la “specializzazione” della scienza, che di per sé fu necessaria per il progresso delle sue conoscenze. Parallelamente tale ambito comincia a essere considerato un sapere “neutrale”, una tendenza potenzialmente pericolosa, che nel tempo produrrà conseguenze storiche di grandissima rilevanza.

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Per approfondire Saperi alternativi nella medicina del primo Ottocento: Mesmerismo e omeopatia

La medicina, superstite ponte tra filosofia e scienza Nel primo Ottocento la medicina costituisce ancora un terreno “ponte” tra i due saperi: non pochi medici condividono la visione vitalistico-spiritualistica dei filosofi romantici, assumendo anche posizioni antiscientifiche o, in alcuni casi, addirittura oscurantistiche, e si appassionano a saperi alternativi come il Mesmerismo (➜ PER APPROFONDIRE OL Saperi alternativi nella medicina del primo Ottocento: Mesmerismo e omeopatia). Tuttavia, anche in campo medico le conoscenze fisico-chimiche avanzano inesorabilmente: già nel 1785 Lavoisier, considera la respirazione come un fenomeno biochimico; il sistema nervoso e circolatorio cominciano a essere indagati sotto il profilo chimico-fisico (Galliani, 1802); Alessandro Volta (1745-1827) scopre i fenomeni elettrici nei tessuti viventi e il potenziamento delle conoscenze in campo ottico consente ingrandimenti microscopici che aprono la strada allo studio scientifico moderno dei tessuti e delle cellule.

506 Ottocento Scenari socio-culturali


2 Il ruolo egemone della filosofia tedesca La situazione della filosofia Il sapere filosofico a sua volta si frammenta nei vari paesi: in Francia Auguste Comte (1798-1857) prepara il Positivismo, in Inghilterra si sviluppa essenzialmente il pensiero economico (Stuart Mill) e il tema dell’Utilitarismo morale (Jeremy Bentham). Nel panorama filosofico del tempo il ruolo egemone è svolto sicuramente dalla Germania, dove si sviluppa la corrente filosofica dell’Idealismo e della Naturphilosophie (filosofia della natura), strettamente connessa alla cultura romantica. L’Idealismo tedesco si pone in un rapporto di contestazione con il Materialismo, il Razionalismo settecenteschi, l’ottica stessa con cui nel periodo illuminista si studia la natura indagandone con metodo scientifico le leggi. Il distacco dal razionalismo materialistico settecentesco Sul movimento romantico influiscono in particolare due filosofi: Johann Gottlieb Fichte (1762-1814) e soprattutto Friedrich Wilhelm Joseph Schelling (1775-1854), che nel 1799 succede a Fichte alla cattedra nell’università di Jena, diventando punto di riferimento dei primi romantici (i fratelli Schlegel e Novalis). Sia Fichte sia Schelling assegnano alla filosofia il compito di conoscere l’Assoluto, entrambi si distaccano dal razionalismo e, alla fine del loro itinerario umano e intellettuale, approderanno a una visione più religiosa che filosofica. Fichte Nel pensiero di Fichte il mondo non ha una consistenza propria, ma è un prodotto dell’attività creatrice dell’Io. Nella concezione del filosofo tedesco l’Io non va confuso con l’Io empirico di questa o quella persona: l’Io di cui parla Fichte è un principio spirituale, infinito e assoluto, costantemente proiettato verso la conquista di una libertà sempre più alta da ogni limite costituito dal mondo esterno, dalla natura (il “non Io”).

Daniel Huntington, Filosofia e arte cristiana, olio su tela, 1868 (County Museum of Art, Los Angeles).

Schelling Nel Sistema dell’Idealismo trascendentale (1800) Schelling va oltre le posizioni di Fichte, prospettando una visione unitaria, a fondamento spiritualistico, di Io e natura: la nostra percezione dei fenomeni naturali è resa possibile dall’identità dello Spirito in noi e fuori di noi, ovvero nella natura. Primo grado di manifestazione dello Spirito, la Natura è essa stessa Spirito, ma «in letargo», «pietrificato», Spirito ancora in moto verso la coscienza. Persino tra mondo inorganico e organico non c’è frattura, poiché tutto il reale rappresenta gradi diversi di manifestazione dello Spirito. Per Schelling solo l’arte è in grado di cogliere l’Assoluto (➜ D11 OL), l’armonia originaria di natura e Spirito, mentre la conoscenza scientifica si ferma alla superficie dei fenomeni, è una conoscenza limitata e addirittura erronea quando pretende di essere completa. Schelling rifiuta drasticamente le leggi della meccanica e lo stesso metodo matematico-sperimentale, che pretende di iscrivere la ricchezza del reale in categorie determinate arbitrariamente: l’universo non è una macchina, ma «un poema». Hegel e lo storicismo idealistico Attraverso i suoi scritti principali (Fenomenologia dello Spirito, 1807 e Enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio, 1817) Georg Wilhelm Friedrich

Modelli del sapere e tendenze filosofico-scientifiche

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Hegel (1770-1831), uno dei più grandi pensatori della tradizione occidentale, prende le distanze dall’irrazionalismo romantico e ridà un’impronta razionalistica e sistematica al pensiero filosofico, ricreando un poderoso edificio concettuale che si contrappone, o per lo meno oltrepassa, le posizioni dei romantici e di Schelling: quello di Hegel è l’ultimo, grandioso, tentativo della filosofia di fornire un’interpretazione globale della realtà. Ad esso facciamo qui solo un accenno. Per Hegel ciò che governa il reale, l’essenza della realtà, in cui si rivela l’Assoluto, lo Spirito infinito, si identifica nella ragione, che si manifesta in gradi successivi, attraverso un processo dinamico e dialettico di tesi, antitesi, sintesi. Non è l’arte, come pensa Schelling, a poter conoscere l’intrinseca razionalità del reale, e neppure possono farlo le scienze, che operano attraverso astratte definizioni, bensì la filosofia, mediante l’adozione di un metodo dialettico di interpretazione che rispecchia il principio dialettico su cui, secondo Hegel, si regge il pensiero e si struttura il reale: ogni momento, nel divenire storico, è infatti sintesi dei momenti precedenti ed è a sua volta destinato a essere superato e insieme compreso in una sintesi superiore, orientata verso una progressiva conquista di razionalità. Nella Fenomenologia viene delineato, come in una sorta di grandioso Bildungsroman (“romanzo di formazione”), il percorso storico dello Spirito umano e dello Spirito dei popoli dalla schiavitù (“il non-sapere”) alla progressiva conquista della libertà, che si identifica nella consapevolezza razionale propria della filosofia, e in particolare della filosofia idealistica. Lo storicismo hegeliano avrà un’influenza grandissima.

Il sapere nel primo Ottocento SVILUPPO DEL DIVARIO TRA DUE CULTURE

Scienza

Filosofia

• la scienza si specializza: gli studiosi non hanno più interessi culturali generali • molti scienziati intraprendono la carriera universitaria • la ricerca si istituzionalizza • le scoperte sono diffuse su riviste specializzate • la medicina rimane unico ponte tra scienza e filosofia

• anche la filosofia si frammenta, ma l’Idealismo tedesco ha un ruolo guida • Fichte e Schelling contestano il metodo scientifico • Hegel contrasta tale irrazionalismo romantico con il proprio onnicomprensivo sistema

online D10 Giacomo Leopardi I limiti della conoscenza delle leggi di natura Zibaldone [4189-4190]

online D11 F. W. J. von Schelling

La superiorità dell’arte come mezzo di conoscenza Sistema dell’Idealismo trascendentale

Fissare i concetti Modelli del sapere e tendenze filosofico-scientifiche 1. Come si configura il rapporto tra scienza e filosofia dopo l’Illuminismo? 2. Che cos’è la filosofia della Natura? 3. Come si configura il rapporto tra razionalismo materialistico illuminista e visione spiritualistica romantica?

508 Ottocento Scenari socio-culturali


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Caratteri e forme della letteratura nella prima metà dell’Ottocento 1 Il panorama dei generi letterari

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Mappa interattiva Rivolte napoleoniche e flussi letterari

Una visione d’insieme sulla letteratura italiana della prima metà dell’Ottocento Durante l’età napoleonica l’Italia vede il tramonto dei generi letterari più tradizionali, come l’epica, ma non conosce la vitale sperimentazione di nuove forme letterarie che caratterizza altri paesi europei, in particolare la Germania e l’Inghilterra: rispetto al periodo illuministico sembrano spegnersi i fermenti più innovativi e il nostro paese perde il prestigio che aveva contraddistinto in particolare l’età rinascimentale. Domina in ambito letterario il Neoclassicismo, in sostanziale continuità con il tradizionale ossequio al Classicismo proprio della nostra cultura e con la persistenza radicata del repertorio mitologico, ma esso non produce risultati di particolare rilievo. Fa eccezione l’opera di Foscolo, che interpreta il Classicismo in modo del tutto personale. Con le sue opere principali – l’Ortis (1802), modellato sul fortunato romanzo I dolori del giovane Werther di Goethe (1774) e poi con il carme Dei Sepolcri (1806) – Foscolo dà voce poetica a suggestioni e temi già romantici. Anche quando, con notevole ritardo, si afferma anche in Italia il Romanticismo (a partire dal 1816), non si può dire che la produzione letteraria spicchi per originalità e qualità nel coevo panorama europeo. I nostri letterati sono impegnati a tutto campo nel sostenere la lotta risorgimentale e si propongono più l’efficacia nel coinvolgere gli italiani che la qualità artistica dei testi. Anche in questo periodo emergono però grandi, singole voci: nell’ambito poetico Leopardi, la cui grandezza rimase a quel tempo sostanzialmente misconosciuta; nell’ambito narrativo, invece, Manzoni produce, con i suoi Promessi Sposi, un romanzo di straordinario spessore, degno certamente di collocarsi a fianco della grande narrativa europea.

2 La lirica La centralità della lirica, genere romantico per eccellenza Un elemento di vistosa trasformazione nel panorama dei generi letterari dell’Ottocento è la rapida decadenza dei generi poetici della tradizione, in particolare del poema, ormai sentiti come anacronistici nel nuovo clima romantico e troppo legati alla poetica classicistica. Per contro, l’emergere dell’individualità, il culto romantico delle passioni, l’esplorazione dell’interiorità portano in tutta Europa al trionfo del genere lirico. Se per i romantici è la musica la forma d’arte per eccellenza, la lirica viene valorizzata proprio in quanto forma letteraria più vicina alla musica. Nel Romanticismo la poesia è identificata con tale genere: la visione estetica dei romantici enfatizza l’autonomia dell’arte da ogni finalità pratica o educativa e per-

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ciò la lirica, proprio in quanto espressione pura dell’Io, è considerata l’unica vera forma di poesia. Si tratta evidentemente di una lirica ormai del tutto svincolata dalla visione classicistica del labor limae, della “perfezione” frutto di un lungo e faticoso lavoro, e nella quale è in primo piano la spontaneità creativa dell’ispirazione che può realizzarsi solo in testi brevi, frutto di un momentaneo, irripetibile stato d’animo. Sulla base di questa concezione il Romanticismo produce in Europa altissime voci poetiche (da Novalis a Hölderlin in Germania, da Shelley a Keats in Inghilterra): nell’insieme di questa ricca produzione si realizza una vera e propria rivoluzione dei contenuti e delle forme poetiche, che anticipa il linguaggio evocativo e simbolico della poesia moderna. La poesia in Italia: un panorama deludente In Italia, a parte i casi isolati di Foscolo e Leopardi, la poesia del primo Ottocento non raggiunge grandi risultati artistici e non accede al codice della modernità fondato dalla lirica europea In Italia si afferma soprattutto la poesia patriottica, che accompagna i momenti salienti del movimento risorgimentale e che è finalizzata a propagandarne ideologia e valori (➜ C19). Si tratta di una poesia militante, che sacrifica quasi sempre la qualità al mito della popolarità: da qui la presenza di toni enfatici ed esortatori e l’adozione di forme metriche particolarmente orecchiabili (come i versi parisillabi fortemente ritmati). Quanto al linguaggio, esso rimane tutto sommato ancorato a forme aulico-classicheggianti ed è chiaro che ciò costituisce un limite, proprio per le finalità fortemente comunicative che gli autori si propongono. L’esigenza della popolarità induce per lo più gli scrittori di versi a rinunciare alla tradizionale presenza dell’“Io lirico” di tipo petrarchesco (con l’autorevole eccezione di Leopardi), affidando l’enunciazione a personaggi diversi da chi scrive e movimentando la scena della poesia “teatralizzandola”, costruendo cioè una sorta di cornice scenica dietro le effusioni patetico-sentimentali di fanciulle perseguitate, esuli malinconici e così via. Più piana e tutto sommato accessibile appare la lingua delle Romanze (1822-24) e delle Fantasie (1829) di Giovanni Berchet (1783-1851) che, nella Lettera semiseria, uno dei testi chiave del dibattito romantico in Italia, identifica con chiarezza il pubblico a cui la nuova letteratura deve rivolgersi (➜ C19 D1d ). Nelle Fantasie risulta sicuramente coinvolgente l’idea di affidare alla figura di un esule, uno dei protagonisti dell’immaginario romantico, la rievocazione, in forma di sogno o immaginazione, dei momenti “eroici” ed esemplari della storia italiana, come il giuramento di Pontida (1167) con cui i comuni italiani si alleano contro il Barbarossa. Nelle Romanze la volontà di agganciare un vasto pubblico sollecitandone l’adesione emotiva induce Berchet a intrecciare ai motivi patriottici temi amorosi e atmosfere patetico-sentimentali, il tutto con ritmi quasi cantabili e scelte linguistiche volutamente “facili”, ispirate al melodramma. Per la stessa ragione si afferma in Italia anche la tendenza a dare alla poesia una vera e propria forma narrativa. Sono assai diffuse e incontrano largo successo le ballate (che danno a volte spazio anche al tema del macabro e dell’orrido, sul modello della Leonora di Bürger a cui fa riferimento la Lettera semiseria) e le vere e proprie novelle in versi: lo sfondo della vicenda è in genere storico, dal Medioevo di maniera dell’Ildegonda (1820) di Tommaso Grossi alle guerre napoleoniche della Fuggitiva (1816) dello stesso Grossi. Nell’Edmenegarda (1841) di Giovanni Prati

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la vicenda è invece ispirata a un fatto di cronaca recentissimo. In ogni caso sono rappresentate difficili vicende sentimentali, protagoniste delle quali sono eroine spesso in conflitto con la morale tradizionale. Dopo l’Unità d’Italia, tramontato l’interesse per il tema storico-patriottico, si accentua nella poesia – i cui nomi principali sono quelli di Aleardo Aleardi (1812-78) e di Giovanni Prati (1814-84) – il gusto per la descrizione paesaggistica e abbondano i toni sentimentali o addirittura lacrimevoli (si è parlato di “Arcadia romantica”). A questa sostanziale degenerazione del gusto romantico si opporranno negli ultimi decenni dell’Ottocento da una parte gli scapigliati e dall’altra, in modo diverso, Carducci. Unica testimonianza di grande livello In un panorama decisamente modesto spicca la poesia dialettale (➜ C20). All’accentuato tradizionalismo e alla convenzionalità del linguaggio poetico dominante, due grandi scrittori oppongono l’uso del dialetto: il milanese con Carlo Porta (1775-1821), il romano con Gioacchino Belli (1791-1863). Uno strumento consapevolmente assunto e magistralmente utilizzato in funzione di una poetica realistica, volta a dar voce a figure sociali e ad aspetti della realtà che la poesia del tempo ignorava e di una visione “dal basso” assunta come punto di vista dominante della rappresentazione.

3 Il romanzo Il trionfo del romanzo in Europa Fra Sette e Ottocento svaniscono il poema epico e i generi parodici ad esso connessi (come il poema eroicomico), a cui seguirà dalla metà dell’Ottocento la tragedia di impianto classico. Al contempo la poetica romantica mette radicalmente in discussione la nozione stessa di genere. Questo fatto, di capitale importanza, tende a creare confini molto fluidi tra ciò che è letteratura e ciò che di per sé non lo è: memorie, diari, lettere tendono a invadere il campo del letterario, anche per la forte propensione di questa età alla confessione, all’“espansione” dell’io (non è un caso che si affermino i romanzi epistolari, sul modello della Nouvelle Héloïse di Rousseau e del Werther di Goethe). La contestazione dei princìpi della poetica classicistica, unitamente a un insieme di circostanze socio-culturali (il consolidarsi del ruolo economico e politico della borghesia, l’ampliamento numerico e sociale del pubblico, la creazione di un forte mercato editoriale), favorisce la straordinaria affermazione, già preparata dal Settecento, del romanzo, destinato appunto a prendere il posto del poema e di altri sottogeneri: l’Ottocento è stato definito «il secolo del romanzo». Unica forma letteraria che non è stata soggetta alla precettistica classica, il romanzo contribuisce in modo determinante sul piano tematico a estendere i confini di ciò che può essere rappresentato in ambito letterario e, dal punto di vista formale, alla mescolanza degli stili e dei “modi” del discorso che infrangerà definitivamente la gerarchia degli stili stabilita dalla poetica classica. Le tipologie di romanzo che si affermano sono varie: • romanzi di impronta autobiografica che hanno il loro modello di riferimento nel Werther di Goethe (1774) (➜ C13), come René di Chateaubriand (1802) (➜ D1 ), Adolphe di Constant (1816), Obermann (1804) di Sénancour. In questo filone può iscriversi il primo romanzo moderno italiano: Ultime lettere di Jacopo Ortis di Ugo Foscolo, ispirato al Werther;

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• il romanzo gotico o “nero”, che si sviluppa soprattutto in Inghilterra, e il romanzo fantastico come Frankenstein di Mary Shelley (➜ C18 OL); • il romanzo storico (molto apprezzato in Italia) a cominciare da Walter Scott, che inaugura la moda con lo straordinario successo di Ivanhoe (1819) (➜ C17 T1 ); • il romanzo realista, in cui spicca il contributo della letteratura francese: da Il rosso e il nero e La certosa di Parma di Stendhal alla Commedia umana di Balzac e infine a Madame Bovary di Flaubert, che per la modernità delle tecniche narrative costituirà un modello per il romanzo naturalista del secondo Ottocento (➜ C17); • il romanzo popolare, spesso pubblicato a puntate in appendice ai giornali (il feuilleton), che si articola in un universo sfaccettato ma che è sempre contraddistinto dalla volontà di attirare il più largo consenso dei lettori grazie a trame avvincenti e avventurose, all’uso della suspense e alla creazione di personaggi in cui il pubblico di massa potesse facilmente identificarsi. Spiccano in questa produzione il fortunatissimo I misteri di Parigi di Eugène Sue (1842-43) e i romanzi di Alexandre Dumas padre I tre moschettieri (1844) e Il conte di Montecristo (1845). Il romanzo storico in Italia A parte rari esempi di romanzo introspettivo, come Fede e bellezza (1830 ➜ D7 OL) di Niccolò Tommaseo, in cui si dà spazio all’analisi di complesse dinamiche psicologiche, gli scrittori italiani si orientano nettamente verso il sottogenere del romanzo storico, il cui atto di nascita sono proprio i Promessi sposi di Manzoni (1827), a cui seguiranno innumerevoli romanzi storici tra il 1827 e il 1840. L’esperienza del romanzo storico non produce risultati di rilievo, soprattutto per la tendenza a un’imitazione superficiale del grande modello manzoniano: la ricchezza delle soluzioni narrative dei Promessi sposi viene ridotta a formule ripetitive (fanciulle virtuose perseguitate, amori contrastati ecc.), la problematica visione manzoniana della vita è schematicamente trasformata in una contrapposizione obbligata tra buoni e cattivi (dove i cattivi sono inevitabilmente i potenti), la severa riflessione morale di Manzoni si ritrova traslata in moralistico sentimentalismo. Così accade ad esempio nel romanzo Marco Visconti (1834) di Tommaso Grossi. Ancora più difficile risulta imitare il sapiente rapporto tra macrostoria e microstoria, che costituisce il grande fascino del romanzo manzoniano. Nel fitto panorama dei romanzi storici risultano interessanti, come documenti di un genuino patriottismo, i romanzi di Massimo d’Azeglio, Ettore Fieramosca (1833) e Niccolò de’ Lapi (1841), e L’assedio di Firenze (1836) e la Battaglia di Benevento di Guerrazzi. I romanzi di Guerrazzi non seguono il modello manzoniano né quello scottiano, ma risentono piuttosto della suggestione del romanzo nero inglese e del titanismo byroniano. A partire dal 1840 l’interesse dei lettori e degli scrittori si sposta dalla storia passata alla realtà contemporanea e alla dimensione sociale, e il genere del romanzo storico conosce un rapido declino. Emergeranno nuovi filoni narrativi, come la narrativa campagnola (o “rusticale”), in cui è rappresentato il mondo contadino come depositario di valori positivi, in contrapposizione al mondo cittadino, amorale e senza scrupoli. Un primo, fortunato esempio di romanzo “rusticale” è Angiola Maria di Giulio Carcano (1839). La memorialistica In rapporto alla lotta risorgimentale si moltiplicano gli scritti di chi ad essa partecipò, con l’obiettivo di condividere ricordi personali e ideali patriottici con il popolo di una nazione che stava nascendo e andava formata: da I miei ricordi di Massimo d’Azeglio a Le ricordanze della mia vita di Luigi Settembrini (➜ C19 T6 OL).

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L’esempi più celebre della scrittura di memorie è Le mie prigioni di Silvio Pellico, in cui il patriota piemontese, che aveva aderito alla Carboneria, rievoca gli anni trascorsi nella prigione dello Spielberg (➜ C19 T8 , T9 OL). Nella seconda metà del secolo, in un clima ideologico e politico ormai diverso, si collocano gli iscritti memorialisti che rievocano il clima eroico ed entusiasta delle imprese garibaldine, come Da Quarto al Volturno. Noterelle d’uno dei Mille, di Giuseppe Cesare Abba. Il teatro: la fortuna del melodramma Nel primo Ottocento l’unico esempio di letteratura drammatica di un certo interesse in Italia sono le due tragedie manzoniane, Il conte di Carmagnola (1820) e Adelchi (1822), che mettono in discussione, secondo le prospettive dei teorici romantici tedeschi, le unità pseudo-aristoteliche. Nel complesso, tragedia e commedia non incontrano più il gusto del pubblico, attratto invece dal genere del melodramma: nei melodrammi ottocenteschi il rapporto fra testo e musica tende decisamente a privilegiare la seconda rispetto alla qualità della scrittura del libretto. Importanti i melodrammi verdiani, in cui rifluiscono anche spunti patriottici facilmente riconosciuti dal pubblico.

La letteratura nella prima metà dell’Ottocento

POESIA

• decadenza dei generi tradizionali • trionfo della lirica, rivoluzionata nei contenuti e nelle forme • panorama deludente in Italia: prevalgono lirica patriottica, ballate e novelle in versi • uniche eccezioni: Foscolo e Leopardi, ma anche Porta e Belli

ROMANZO

• sostituisce molti generi in via di estinzione • innovativo per forme e temi, estende i confini della letteratura • diverse tipologie: storico, popolare, autobiografico, gotico, realista • in Italia si affermano il romanzo storico (Manzoni) e la memorialistica risorgimentale

TEATRO

• in Italia scarso interesse verso tragedia e commedia • successo del melodramma (Verdi)

Fissare i concetti Caratteri e forme della letteratura nella prima metà dell’Ottocento 1. Quali sono le ragioni del successo del genere lirico nel primo Ottocento? 2. Quali sono le caratteristiche della poesia patriottica italiana? 3. Quali sono le tipologie di romanzo che hanno più successo in Italia nel primo Ottocento?

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L’evoluzione della lingua 1 Il problema della lingua nel primo Ottocento Contro l’egemonia del francese Durante il periodo napoleonico l’istituzione di stati che dipendevano direttamente dalla Francia, l’annessione diretta alla Francia di ampie zone dell’Italia e la presenza massiccia di soldati francesi nel nostro paese comportano una forte influenza del francese, già infiltratosi nell’italiano durante l’Illuminismo, come lingua di prestigio culturale. A questa diffusione del francese, particolarmente evidente nell’ambito politico e amministrativo in seguito alle riforme napoleoniche della pubblica amministrazione, si contrappone la difesa e valorizzazione del patrimonio culturale e linguistico italiano. Essa è rappresentata soprattutto dai cosiddetti puristi (il termine allude appunto alla difesa della purezza della lingua italiana da ogni tipo di imbarbarimento), il cui maggiore rappresentante è Antonio Cesari. I puristi e i classicisti Tra il 1806 e il 1811 l’abate veronese Antonio Cesari (17601828) ristampa il Vocabolario della Crusca con l’aggiunta di circa 50.000 vocaboli trecenteschi caduti in disuso (Giunte veronesi). Se Pietro Bembo, nell’ambito della questione cinquecentesca della lingua, aveva proposto come modelli linguistici in prosa e in poesia i grandi autori del Trecento (in particolare Boccaccio e Petrarca), Cesari guarda piuttosto ai testi del Trecento minore come modelli dello “scrivere bene”, a cui ispirarsi: «tutti [...] in quel benedetto tempo del 1300 parlavano e scrivevano bene», afferma egli nella sua Dissertazione sopra lo stato presente della lingua italiana (1810); anche i mercanti e i bottegai, a suo parere, in quello che Cesari considera il secolo d’oro della lingua toscana, possedevano «un certo natural candore [...] una grazia di schiette maniere». Cesari propone quindi l’imitazione anche degli autori minori (specie appartenenti alla letteratura devozionale) o del linguaggio delle arti e non solo, come sosteneva il Bembo, dei grandi letterati. Anche Vincenzo Monti (1754-1828), lo scrittore più noto dell’età napoleonica e rappresentante della poesia neoclassica, ripropone l’autorità del Vocabolario della Crusca e rifiuta la penetrazione del francese, ma dissente dal restringere il modello linguistico a un solo secolo (il Trecento) e a una sola regione (la Toscana), suggerendo come modelli anche autori moderni, da Parini ad Alfieri. Inoltre propone aggiornamenti e correzioni che aprano la lingua al lessico scientifico e tecnico e ai neologismi (Proposta di alcune correzioni e aggiunte al Vocabolario della Crusca, 1817-1826). Simile è la posizione di un altro classicista, Pietro Giordani, che condivide con Monti l’idea che l’imprescindibile modello di chi scrive debba essere la tradizione letteraria. Si tratta sempre di una prospettiva linguistica fondamentalmente elitaria, che dà per assodata la diversità tra lingua scritta e lingua parlata. I romantici Coerentemente con le loro idee in campo estetico, i romantici oppongono in campo linguistico al principio di imitazione il principio della naturalezza, della spontaneità, rifiutando una lingua scritta libresca, antiquata, lontana da quella parlata. La lingua dev’essere moderna e popolare, espressione della nazione e compresa dal maggior numero possibile di lettori.

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Nel concreto, però, questo obiettivo non viene realizzato (tranne che da Manzoni): gli autori di romanzi storici, il genere più popolare, sono incapaci di liberarsi da una sintassi contorta e da un lessico aulico. Riguardo poi alla lingua poetica, essa rimane ancora più artificiosa e aulica della prosa. Il fondamentale contributo di Manzoni Anche a prescindere dai Promessi sposi, Manzoni, muovendo da una visione della lingua opposta a quella dei puristi e dei classicisti, offre il contributo principale e più autorevole alla questione della lingua del suo tempo (una questione che attraversa i secoli e che era stata aperta da Dante con il De vulgari eloquentia). Certamente Manzoni è indotto a riflettere sulla questione della lingua dai problemi contingenti e concreti incontrati come romanziere nella stesura dei Promessi sposi, ma si rivela poi in grado di porre la questione della comunicazione in termini generali, che non riguardino cioè solo la comunità degli scrittori (e la lingua letteraria), ma l’intero corpo dei parlanti e scriventi della nazione. Nelle lettere all’amico Claude Fauriel (storico e linguista francese) Manzoni si mostra ben consapevole dei problemi della situazione italiana: non esiste una lingua scritta viva, moderna, comune, adatta alle occasioni della comunicazione sociale media, perciò si usa una lingua accademica, lontana dalle esigenze della quotidianità, segnata da un forte divario rispetto alla lingua parlata, a sua volta frammentata nei diversi dialetti della penisola. La soluzione linguistica adottata nei Promessi sposi, cioè il fiorentino moderno parlato dalle persone colte, appare a Manzoni anche la soluzione più valida al problema della lingua in Italia, capace di imporsi a livello nazionale e di vincere le divisioni linguistiche proprie del nostro paese. Alla base dell’idea di Manzoni stanno da un lato la convinzione dell’indiscussa centralità avuta da Firenze nella storia della lingua e dall’altro l’idea che sia l’uso dei parlanti a costituire l’unica norma in campo linguistico. La proposta di Manzoni è accolta dal neonato stato italiano, che ne fa il perno della formazione di base degli italiani. Ma l’effettiva unificazione linguistica del paese avverrà almeno un secolo dopo e seguirà strade molto diverse da quella prospettata da Manzoni.

La situazione della lingua nell’Ottocento La situazione in italia

Il dibattito sulla lingua

• italiano scritto di matrice letteraria, appannaggio di pochi, inadatto ai generi della modernità e alla pronta comunicazione • italiano parlato da una minoranza fra una maggioranza di dialettofoni

Nella prima metà del secolo si contrappongono: • puristi e classicisti (a favore della tradizione letteraria e contro l’uso di francese e francesismi) • romantici (a favore di una lingua moderna e popolare)

Manzoni nei Promessi sposi sceglie il fiorentino parlato dalle persone colte, offrendo una soluzione alla questione della lingua

Fissare i concetti L’evoluzione della lingua 1. Quale obiettivo si propone il gruppo dei cosiddetti “puristi”? 2. Quali sono le posizioni di Cesari, Monti e Giordani relativamente alla questione della lingua? 3. Qual è, invece, la posizione dei romantici? 4. Illustra il ruolo di Manzoni nella questione della lingua.

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Libri, lettori, lettura

Nuovi libri, nuovi modi di leggere Lo sviluppo dell’editoria In Europa, già nel primo Ottocento il mercato del libro inizia ad ampliarsi, grazie alla crescita di un pubblico medio e piccolo borghese, soprattutto in rapporto alla straordinaria fortuna del romanzo. La trasformazione della produzione di libri in impresa commerciale di vasta portata dipende però innanzitutto da fondamentali innovazioni nella tecnica di produzione del libro, come la graduale sostituzione dei torchi in legno con rotative meccaniche e in seguito la meccanizzazione della composizione tipografica. Dal libraio all’editore L’editore, soprattutto in Inghilterra, Francia e Germania, tende ad assumere una fisionomia separata e un’importanza sempre più rilevante rispetto al libraio: quest’ultimo cura la distribuzione del libro, ma è l’editore a decidere quali libri pubblicare, sia in rapporto alla sua personale visione culturale, sia (e soprattutto) in rapporto alle richieste del mercato. Avviandosi ad assumere tratti capitalistici, per gli autori l’editoria può allora diventare un mondo spietato: ne è consapevole lo scrittore francese Honoré de Balzac, tra i primi a raffigurare la dura realtà di chi cerca di affermarsi nel na-

Johannes Jelgerhuis, La bottega del libraio Pieter Meijer Warnars sulla Vijgendam ad Amsterdam, olio su tela, 1820 (Amsterdam, Rijksmuseum).

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scente mercato editoriale nel romanzo Le illusioni perdute (1837-1843), come vediamo in un passo che presentiamo (➜ D12 OL), in cui un giovane di belle speranze si presenta da un libraio-editore per pubblicare un suo romanzo e ne ricava una dura lezione. In relazione ai fenomeni più generali dello sviluppo dell’editoria e del consolidarsi di un nuovo pubblico, ovunque in Europa (anche in Italia) la produzione di libri aumenta considerevolmente e si diversifica. In particolare la tiratura dei romanzi cresce in modo esponenziale: dalle 1000-1500 copie all’inizio dell’Ottocento alle 5000 copie verso il 1840, per arrivare alle 30.000 realizzate dai romanzi fantascientifici di Verne. Un nuovo mercato è aperto dalla serializzazione del romanzo, cioè l’edizione in fascicoli periodici a basso costo (addirittura Il capitale di Karl Marx viene letto dai francesi per la prima volta in dispense settimanali). La lettura è favorita dalla diffusione delle biblioteche circolanti che, già largamente presenti nella seconda metà del Settecento, raggiungono in Inghilterra il migliaio all’inizio dell’Ottocento. Malviste, considerate dai benpensanti fonti di corruzione morale (negli stati tedeschi sono addirittura vietate), riescono tuttavia ad affermarsi, creando nuove occasioni e nuovi modi di lettura soprattutto per l’emergente pubblico femminile. Dal libro “autorevole” al libro d’evasione Fino al primo Settecento il libro era ancora considerato uno strumento accreditato, gestito e controllato dalle autorità (secolari ed ecclesiastiche) per garantire la moralità e la disciplina sociale. Già nella seconda metà del XVIII secolo era iniziata però una trasformazione (o per lo meno una diversificazione) della sua funzione. L’evoluzione dei modi di vita, il diffondersi di una mentalità sempre più laica e l’estendersi della lettura a nuove categorie sociali fanno sì che l’at-


tività della lettura si leghi alla soggettività dell’individuo e al piacere di leggere. Si tratta di un processo che nel primo Ottocento muove i primi passi e che anche nei paesi più progrediti come l’Inghilterra coinvolge ancora una parte minima della popolazione, ma che è destinato a crescere in modo rapido negli ultimi decenni del XIX secolo, parallelamente all’affermazione del romanzo. La lettura empatica e il trionfo del romanzo Già verso gli ultimi decenni del Settecento, in contrapposizione alla visione illuministica della lettura educativa e utile, si diffonde dunque una visione e una modalità di leggere “emotiva”, fondata sull’immedesimazione del lettore nei personaggi. Tale tendenza nel primo Ottocento cresce ancora di più. La lettura «narcotica», come la definisce con riprovazione il filosofo tedesco Fichte, è giudicata negativamente dai difensori dell’etica borghese, ma nessuna sconfessione riesce a fermarla, così come nessun pregiudizio riesce a ostacolare il trionfo del romanzo (a cui tale lettura soprattutto si applica) nei gusti di un pubblico che va facendosi sempre più eterogeneo. Considerato dai moralisti un genere pericolosamente distraente, soprattutto per le donne, chiamate dalla famiglia borghese a svolgere nuovi compiti, il romanzo si lega a ritmi personali e a situazioni informali di lettura: come evidenziano anche le rappresentazioni pittoriche, si legge a contatto della natura o in luoghi privati (come la camera da letto), che di per sé vanificano ogni controllo e censura. Le donne e il romanzo Se in passato le donne leggevano testi religiosi, ora scelgono romanzi, riviste femminili, libri di cucina. La donna è comunque vista dagli editori soprattutto come potenziale consumatrice di romanzi, in particolare nella provincia francese. L’associazione romanzo-pubblico femminile è frutto di radicati pregiudizi sull’intelligenza femminile: esseri dalla limitata razionalità, le donne

erano considerate creature emotive, il cui regno elettivo era l’immaginazione. Inoltre il romanzo, all’opposto della lettura istruttiva e utile, era considerato il genere adatto a chi aveva tempo a disposizione. Mentre i quotidiani, in cui si riferivano gli avvenimenti pubblici, erano considerati di competenza maschile e gli uomini li commentavano in luoghi di ritrovo come i pub o i cabaret, i romanzi, che davano spazio alla vita interiore, facevano riferimento alla sfera privata in cui ancora le donne erano relegate. Proprio per questi presupposti i mariti e i padri borghesi temevano i possibili effetti negativi dei romanzi, che potevano stimolare nelle donne sogni d’evasione e suggestioni erotiche (anche per lo spazio sempre maggiore dato in essi al tema dell’adulterio femminile, da Emma Bovary ad Anna Karenina). Ogni cautela e remora risultò però impotente a contrastare il desiderio di lettura delle donne, anche delle classi medio-basse, destinate a diventare clienti abituali delle biblioteche popolari circolanti, che prestavano libri a basso prezzo.

Franz Eybl, Ragazza che legge, olio su tela, 1850 (Vienna, Österreichische Galerie Belvedere).

online D12 Honoré de Balzac Un cinico libraio-editore Illusioni perdute

D13 Giacomo Leopardi La vita effimera dei libri d’oggi Zibaldone [4269-4270]

Libri, lettori, lettura 4 517


Arte nel tempo

Il Neoclassicismo Tra mito ed etica

Antonio Canova, Amore e Psiche, bozzetto, terracotta, 1787 (Venezia, Museo Correr).

Nell’ultimo quarto del Settecento la Rivoluzione industriale e il pensiero illuminista portano la produzione artistica a confrontarsi con i cambiamenti sociali. Il pensiero razionale trova la sua via di espressione visuale nei canoni neoclassici, che idealizzano il reale rappresentandone l’essenza e recuperano l’antico privo degli eccessi barocchi, come esempio di verità etica e di razionalità estetica.

IMMAGINE INTERATTIVA

Antonio Canova, Amore e Psiche, marmo, 1787-1793 (Parigi, Musée du Louvre).

Amore e Psiche di Antonio Canova: la creazione del canone di perfezione Antonio Canova (1757-1822), di base a Roma ma chiamato per importanti committenze in tutta Europa, fa della sua pratica scultorea uno strumento di rievocazione dell’antico anelando a un’ideale di bellezza e di perfezione che muove dalla ripresa dei canoni della scultura classica secondo l’interpretazione di Winckelmann, per il quale l’unica via per l’arte deve essere quella di interpretare l’arte greca, massimo esempio secondo lo storico di «quieta grandezza» e «nobile semplicità». La grazia quasi astratta che caratterizza le opere della maturità di Canova emerge in modo esemplare nel gruppo scultoreo Amore e Psiche, a cui lo scultore lavora tra il 1787 e il 1793, realizzando due copie, oggi conservate al Louvre e all’Ermitage. Se si osservano i bozzetti in cui lo scultore inizia a immaginare l’interazione tra i due personaggi, si nota come Canova progressivamente ridefinisce le forme rendendole essenziali ed equilibra i movimenti in modo che i corpi esprimano una perfezione astratta e impalpabile. Nella scultura definitiva Amore coglie Psiche al risveglio abbracciandola alle spalle e volgendosi verso di

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lei. Scegliendo dal mito di Apuleio il momento del ricongiungimento, Canova rappresenta le due figure nell’istante sospeso appena prima del bacio. Lo spazio vuoto tra i volti è il centro del moto a spirale che idealmente segna la posizione delle braccia. Il corpo semisdraiato di Psiche disegna una linea curva che smussa la diagonale che parte dall’ala di Amore. Da qualunque prospettiva lo si osservi, il gruppo scultoreo appare racchiuso da una forma piramidale che ne ordina e bilancia movimenti e direzioni. Un marmo levigatissimo e di un bianco puro dà forma a due corpi completamente privi di quella carnalità e di quel pathos fondamentali nell’estetica barocca: la grazia delle anatomie e la leggerezza dei movimenti rendono le due figure quasi impalpabili, di una grazia assoluta e concettuale. Nell’Amore e Psiche di Canova l’evocazione della perfezione ideale della Grecia classica diventa una reinterpretazione a tutti gli effetti, che non ha nessun residuo di copia, ma che rilegge in una composizione inedita il mito greco, facendolo vivere di un’estetica tutta settecentesca.


Il Romanticismo in Europa Immaginazione e sentimento

La prima metà dell’Ottocento vede diffondersi in tutta Europa il movimento culturale del Romanticismo, che in seguito alla crisi dei valori illuministi afferma il valore della forza immaginativa e sentimentale dell’individuo. Il Congresso di Vienna, in cui vengono ristabilite le sovranità e i confini del periodo prenapoleonico, inaugura un secolo in cui l’Europa, trasformata dalla rivoluzione industriale, dall’urbanizzazione e dall’emergere di nuove classi sociali come la borghesia e il proletariato, viene attraversata da moti rivoluzionari e indipendentisti. A questi profondi cambiamenti storici si accompagnano quelli culturali, come la nascita del romanzo e la codifica di nuovi linguaggi visuali. Nelle arti figurative vediamo l’affermarsi di un sistema in cui l’artista vuole essere più autonomo dalla committenza, “libero” di sperimentare e di produrre opere che sono personale espressione del suo punto di vista e che vengono acquistate da collezionisti e intenditori d’arte.

L’incendio delle camere dei Lord di William Turner Nella pittura di paesaggio dell’inglese William Turner (1755-1851) il mutamento profondo dei soggetti e delle forme che caratterizza la pittura romantica rispetto a quella di tradizione accademica, ancora legata ai canoni neoclassici, emerge con evidenza. Il paesaggio, privo di riferimenti alla classicità, non è più quello ideale delle vedute archeologiche; lo sguardo sulla città supera quello preciso e distante, “da camera ottica”, dei vedutisti. La concezione turneriana del paesaggio deriva dal concetto di natura come manifestazione dell’infinito, come forza a tratti terribile ed eterna che sopravvive all’uomo e lo pone di fronte alla sua finitezza, suscitando il sentimento del Sublime. Questa visione interseca poi l’ambiente trasformato dalla rivoluzione industriale attraverso la rappresentazione del treno, di vedute urbane e industriali. Turner traduce questa visione della natura con una pittura di puro colore in cui il disegno e la composi-

zione prospettica vengono meno per lasciare il posto ad ampie superfici di colore che creano spazi immensi, e se da un lato richiamano il colorismo dell’ultimo Tiziano, dall’altro sembrano anticipare l’astrattismo novecentesco. Questi aspetti si ritrovano nell’opera L’incendio delle camere dei Lord e dei Comuni, in cui il pittore rappresenta l’incendio, davvero avvenuto, osservandolo dal Tamigi. Pur es-

sendo una veduta urbana, in questo dipinto il soggetto è la natura: in primo piano la superficie acquea del fiume riflette l’arancione del fuoco che divampa nel cielo, rendendo impossibile percepire in modo distinto il parlamento inglese, inghiottito dalle fiamme. La forza della natura appare incontrastabile e all’uomo non resta che osservare impotente e rapito, come i due gruppi di persone ai lati del dipinto.

William Turner, L’incendio delle camere dei Lord, olio su tela, 1834 (Cleveland, Cleveland Museum of Art).

Arte nel tempo 4 519


Arte nel tempo

La nascita della fotografia

Tra realismo e messa in scena

L’Ottocento vede la nascita e l’affermazione di un linguaggio visuale che trasformerà radicalmente la produzione e la fruizione delle immagini: la fotografia. La data canonica a cui si fa risalire la sua origine è il 1839, anno in cui sia Louis Daguerre che Henri Fox Talbot illustrano i loro procedimenti fotografici davanti alle Accademie di Francia e di Londra. In realtà quelli di Daguerre, il dagherrotipo, e di Fox Talbot, la calotipia, erano solo due dei procedimenti fotosensibili messi a punto in quegli anni. Hippolyte Bayard, per esempio, aveva esposto nello stesso 1839 alcune prove fotografiche su carta in una mostra allestita a Parigi in cui dava prova del suo procedimento di stampa positiva diretta utilizzando la carta immersa in cloruro d’argento. Convinto dallo scienziato Arago, amico di Daguerre, ad aspettare a rendere nota la sua scoperta, pur essendo arrivato insieme a quest’ultimo alla messa a punto di un procedimento chimicamente e tecnologicamente valido, egli non lo rese pubblico fino all’inizio del 1840.

Autoritratto come annegato di Hippolyte Bayard Considerato uno dei pionieri dimenticati della storia della fotografia, Hippolyte Bayard (1801-1887) fu l’autore di una delle prime messe in scena fotografiche della storia. Il 18 ottobre 1840 realizzò un autoritratto a torso nudo con gli occhi chiusi intitolando l’immagine Autoritratto come annegato e corredandola di questa didascalia: «Questo che vedete è il cadavere di M. Bayard, inventore del procedimento che avete appena conosciuto. Per quel che so, questo infaticabile ricercatore è stato occupato per circa tre anni con la sua scoperta. Il governo, che è stato fin troppo generoso con il signor Daguerre, ha detto di non poter far nulla per il signor

Hippolyte Bayard, Autoritratto come annegato, 1840, positivo diretto ai sali d’argento.

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Bayard, che si è gettato in acqua per la disperazione […]». L’Autoritratto come annegato non solo rappresenta una delle prime forme di indagine sulle potenzialità manipolatorie dell’immagine fotografica e sul legame tra realtà e finzione: allestendo questa fotografia in modo da inscenare la sua morte, Bayard intuiva che la fotografia, oltre a catturare un frammento di realtà, avrebbe potuto rendere credibile una messa in scena. Ma è anche una testimonianza del dibattito e del fervore che si erano accesi attorno alla nascita di questo linguaggio, e della molteplicità di tecniche e procedimenti scoperti per la messa a punto di immagini tecnologiche e riproducibili.


Ottocento Scenari socio-culturali Neoclassicismo e Romanticismo

Sintesi con audiolettura

1 La visione del mondo. Figure, luoghi e centri della cultura

Un trauma storico Tra la fine del Settecento e i primi decenni dell’Ottocento si susseguono in Europa rivolgimenti storici radicali e si avvia la rivoluzione industriale, che sconvolge secolari modi di vivere e lavorare. Ne deriva un senso di precarietà e insicurezza che influenza la visione del mondo e l’immaginario, determinando un universo tematico contrapposto a quello illuminista. In questo nuovo contesto mutano anche le modalità del lavoro e il paesaggio subisce una metamorfosi: sorgono i quartieri industriali e quelli operai, che cambiano il volto delle città. Un nuovo immaginario e un nuovo universo tematico Riferendosi al “Romanticismo” in senso lato e non a un preciso movimento con una sua poetica, si può identificare tale corrente con un nuovo modo di vedere l’uomo, la realtà e la storia che si contrappone a quello del razionalismo illuminista. La cultura romantica valorizza le qualità che distinguono un soggetto da un altro ed esalta gli individui superiori (gli eroi). La personalità romantica è particolarmente sensibile: è inappagata, ribelle alle convenzioni della società, ma è anche preda di conflitti interiori. Comune è l’aspirazione al superamento dei limiti della razionalità: si esplora così, per la prima volta (anche se in senso diverso da quello freudiano), il lato “notturno” e misterioso dell’Io, l’inconscio; esso è il tramite dell’artista con l’essenza, con l’anima. Mediatori verso il viaggio interiore sono l’estasi, la poesia e il sogno, di cui si inizia studiare il linguaggio. Nel mondo esterno, invece, i romantici non vedono, come gli illuministi, solo un insieme di fenomeni fisici, soggetti a leggi meccanicistiche ma, panteisticamente, un organismo vivente pervaso dallo Spirito infinito, il cui mistero può essere compreso dal poeta più che dallo scienziato. La condizione dell’uomo moderno, a cui dà voce la poesia romantica, è caratterizzata dalla nostalgia di una perduta armonia con la natura, dal “male del desiderio” (Sehnsucht in tedesco), cioè dalla brama inappagata di certezze, di ideali, di una bellezza non più presente; e anche da un’aspirazione all’infinito, in opposizione alla realtà limitata di cui l’uomo è prigioniero e da cui può liberarsi solo attraverso l’arte. Il Romanticismo, insomma, si contrappone nettamente alla visione laica e materialistica dell’Illuminismo e riscopre la dimensione del trascendente, del divino: un’operazione cui non è estranea l’esperienza delle brutalità della storia coeva, che spinge a rinnegare la fiducia verso il progresso. I romantici, infatti, riscoprono il senso del divenire storico, che rende un’epoca diversa da un’altra e non valutabile sulla base di parametri astratti. Si afferma il culto del passato, in particolare del Medioevo, visto come l’età cristiana per eccellenza in cui si sono anche formate le nazioni europee. Si abbandona anche il cosmopolitismo illuminista: nel Romanticismo nascono l’idea di nazione – espressione dello Spirito di un popolo, del suo “genio”, delle sue tradizioni – e l’ideale della patria, che accomuna gli abitanti di una nazione. I valori e i modelli di comportamento L’assoluta centralità dell’Io si associa a nuovi modelli di comportamento: l’esibizione dell’emotività e dei turbamenti interiori caratterizza personaggi come Werther e Ortis, nuovi modelli umani. Mentre per gli illuministi la ricerca della felicità costituiva il valore fondamentale a cui tendere, gli eroi romantici quasi si

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compiacciono dell’infelicità, considerata condizione esistenziale elettiva per distinguersi dalla massa. Anche l’amore, esperienza chiave, è concepito come passione totalizzante. Già dai primi anni dell’Ottocento, soprattutto nella classe borghese, quello famigliare conquista un posto centrale. La famiglia – di cui il padre è il capo indiscusso – assume un decisivo ruolo etico nel controllo autoritario dei comportamenti e della trasmissione dei valori, negando autonomia di scelta ai giovani e alle donne. La fisionomia e la condizione degli intellettuali Con il tramonto della corte e della Chiesa come principali centri di aggregazione degli intellettuali, questi ultimi stentano a trovare un’adeguata collocazione sociale e vivono una condizione di insicurezza e precarietà. Aumenta il numero dei letterati di origine borghese che devono cercare di guadagnarsi da vivere con la propria attività ma, sebbene anche in Italia inizi a svilupparsi l’editoria, manca ancora, per chi pubblica delle opere, una normativa legale che tuteli il diritto d’autore: si diffonde, quindi, il fenomeno delle edizioni pirata. Gli intellettuali troveranno un’identità forte e riconosciuta, almeno sul piano ideologico, solo con l’età risorgimentale, divenendo gli artefici della diffusione del sentimento patriottico. Nel primo Ottocento il pubblico dei lettori va ampliandosi, anche in Italia come nei paesi europei più evoluti. La nuova letteratura, frutto delle idee romantiche, guarda ormai anche (e forse soprattutto) ai ceti medi. È soprattutto il genere del romanzo (e in Italia il romanzo storico) ad attrarre lettori e lettrici, mentre tramontano inesorabilmente i generi della letteratura classicistica come l’epica e la tragedia. Nella penisola è soprattutto il melodramma ad attrarre e ad attestarsi come il vero genere nazional-popolare.

2 Modelli del sapere e tendenze filosofico-scientifiche

Il divorzio tra filosofia e scienza e l’inizio della separazione tra le “due culture” Nei primi anni dell’Ottocento scienza e filosofia, che nell’età dei Lumi erano accomunate dall’obiettivo di creare un nuovo sapere, laico e moderno, tendono a separarsi e diversificarsi. La scienza si specializza, sceglie specifici campi di ricerca e accantona i grandi problemi di tipo filosofico, rinunciando però così a esercitare un ruolo guida di tipo culturale nella società. Il ruolo egemone della filosofia tedesca In campo filosofico, come per il Romanticismo letterario, il paese egemone è la Germania, dove si affermano l’Idealismo di Fichte, Schelling ed Hegel e la cosiddetta filosofia della Natura (a cui aderisce anche Goethe). Entrambi gli indirizzi si contrappongono al Razionalismo materialistico e allo Scientismo illuminista; rifiutano il metodo sperimentale e il linguaggio matematico, in nome di una visione spiritualistica.

3 Caratteri e forme della letteratura nella prima metà dell’Ottocento

Il panorama dei generi letterari Durante l’età napoleonica in Italia si assiste al tramonto dei generi letterari più tradizionali. In ambito letterario domina il Neoclassicismo senza produrre risultati di grande rilievo, a eccezione delle opere di Foscolo, che danno voce poetica a suggestioni e temi già romantici, e a quelle di Leopardi e Manzoni. La lirica È il genere lirico a trionfare in questo periodo: il Romanticismo, infatti, identifica la poesia con la lirica. Si tratta di una lirica improntata alla spontaneità creativa dell’ispirazione. In Italia, a parte i casi Leopardi e di Foscolo, essa non raggiunge grandi risultati artistici. Si afferma, in particolare, la poesia patriottica e militante: aulica e teatralizzata, a volte declinata nella forma della ballata o, dopo l’Unità, in componimenti di tono sentimentalistico; in genere, comunque, lavori che sacrificano la qualità al mito della popolarità. Il maggiore dei poeti patriottici è Giovanni Berchet. Unica testimonianza di

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poesia di grande livello è la poesia dialettale, i cui più alti rappresentanti sono Carlo Porta a Milano e Gioacchino Belli a Roma, capaci di dare voce agli strati della società più umili e ignorati dalla letteratura “alta”. Il romanzo La poetica romantica mette in discussione la nozione stessa di genere, con il superamento della precettistica classica. In questo clima, favorevole all’esaltazione dell’“Io”, il romanzo si afferma prepotentemente contribuendo, sul piano tematico, a estendere i confini di ciò che può essere rappresentato in ambito letterario e, dal punto di vita formale, alla mescolanza degli stili e dei “modi” del discorso. In Italia gli scrittori si orientano verso il sottogenere del romanzo storico, il cui atto di nascita è costituito dai Promessi sposi di Manzoni, verso la memorialistica risorgimentale e verso il genere del melodramma.

4 L’evoluzione della lingua

Il problema della lingua nel primo Ottocento Durante l’età napoleonica si diffondono ulteriormente i prestiti dal francese e l’uso di questa lingua come idioma della conversazione dei ceti colti. A quello che considerano un imbarbarimento si oppongono i puristi e i classicisti che, con varie posizioni difendono il prestigio della lingua italiana e l’autorità della tradizione letteraria, a cui ci si deve in ogni caso conformare. I romantici si battono, invece, per una lingua moderna e popolare, che sia comprensibile al maggior numero di persone possibile. Anche Manzoni si riconosce in questa posizione: le scelte linguistiche dei Promessi sposi (l’uso del fiorentino parlato dalle persone colte) vanno in questa direzione.

Zona Competenze Competenza digitale

1. Dopo esservi divisi in piccoli gruppi, svolgete una ricerca sullo sviluppo dell’editoria nell’Ottocento e analizzate uno dei seguenti aspetti: la nuova figura dell’editore; il nuovo rapporto tra editori e autori; il legame con il nascente capitalismo; i rapporti tra editoria e giornalismo. Infine, presentate l’argomento alla classe con una presentazione multimediale.

Esposizione orale

2. L’avvento del Romanticismo è preceduto da alcuni movimenti e tendenze che ne anticipano temi, sensibilità, modalità espressive. Individuali e presentali in un intervento orale di max 8 minuti evidenziando in particolare gli elementi che caratterizzeranno l’estetica romantica. 3. Realizza una presentazione orale di max 5 minuti sul tema del modello umano romantico, delineandone le caratteristiche fondamentali.

Scrittura

4. Traccia un confronto tra Illuminismo e Romanticismo che ne evidenzi le differenze per quanto riguarda la funzione dell’arte, il ruolo dell’intellettuale, la visione della realtà, la concezione della storia e la dimensione politica.

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Verso l’esame di Stato Tipologia C  Riflessione critica di carattere espositivo-argomentativo su tematiche di attualità Testo tratto da Friedrich Schiller, Della poesia ingenua e sentimentale (1796)

Vi sono istanti nella nostra vita in cui dedichiamo una sorta di amore di commosso rispetto alla natura nelle piante, nei minerali, negli animali, nei paesaggi, così come alla natura umana nei bambini, nei costumi del popolo contadino e del mondo primitivo, e non perché essa ristora i nostri sensi, e neppure perché 5 appaghi il nostro intelletto o il nostro gusto (anzi spesso può accadere il contrario dell’una e dell’altra cosa), ma unicamente perché essa è natura. Ogni uomo che sia minimamente raffinato e non difetti totalmente di sensibilità può farne esperienza passeggiando l’aperto, vivendo in campagna o indugiando presso i monumenti dei tempi antichi; in breve, quando in condizioni e situa10 zioni di artificio rimane stupito dalla visione della natura nella sua semplicità. […] Anche oggi la natura rimane l’unico fuoco di cui si nutre lo spirito poetico; solo da essa attinge tutta la sua forza, solo attraverso di essa parla anche nell’uomo artificioso che vive nel processo della cultura.

La sensibilità romantica assegna alla natura – e soprattutto al rapporto del soggetto con la natura, alle risonanze che essa produce nell’animo umano – un posto privilegiato, anche quale fonte di ispirazione poetica. E, soprattutto per i romantici tedeschi, ciò è legato alla sua “autenticità” e “spontaneità”, contrapposte all’artificio della cultura. Ritieni che un simile sentimento della natura possa ancora sopravvivere? Sono analoghe le esperienze che cerchiamo nei pochi “paradisi naturali” rimasti sulla nostra Terra? O invece il processo di civilizzazione ne ha definitivamente compromesso la possibilità, intaccando la natura stessa così come la nostra sensibilità? Sviluppa sul tema una riflessione critica, facendo riferimento a tue esperienze personali e di studio.

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Ottocento CAPITOLO

13 Tra Neoclassicismo e Preromanticismo

Già nella seconda metà del Settecento il recupero di modelli classici, che, soprattutto nell’età napoleonica, assume i tratti del “Neoclassicismo”, coesiste con l’emergere di una nuova sensibilità, un nuovo gusto, un nuovo immaginario a cui viene dato il nome convenzionale di “Preromanticismo”. Soprattutto nella cultura europea le due tendenze, e in particolare in alcuni autori di essa, di fatto si sovrappongono. Ma anche nella letteratura italiana non mancano testimonianze della compresenza di Neoclassicismo e spunti preromantici: ne è un esempio l’opera di Ugo Foscolo. Solo quindi per una schematizzazione scolastica presentiamo distinte le due “correnti”.

1 Il Neoclassicismo Monti: 2 Vincenzo la fedeltà al classicismo 3 Il Preromanticismo un genio 4 Goethe: poliedrico 525 525


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Il Neoclassicismo Il gusto neoclassico Dalla seconda metà del Settecento e in particolare durante l’età napoleonica si diffonde in Europa un vero e proprio culto dell’antichità classica, tradizionalmente definito Neoclassicismo per distinguerlo dal classicismo umanistico rinascimentale. Più che un vero e proprio movimento di pensiero e letterario (come fu propriamente il classicismo rinascimentale), il Neoclassicismo è un orientamento del gusto, favorito in Francia e in Italia dalla politica culturale del regime napoleonico): iniziato in ambito artistico-figurativo, in seguito coinvolge la letteratura, l’architettura, l’urbanistica e influenza l’arredamento, l’oggettistica, persino l’abbigliamento e le acconciature femminili, che si ispirano alla Roma imperiale, costituendo un vero e proprio fenomeno di costume. Il diffondersi del gusto dell’antico risente inizialmente dell’entusiasmo suscitato negli uomini di cultura europei dagli scavi archeologici di Ercolano, Pompei e Tivoli, iniziati nella prima metà del XVIII secolo, e dalla politica culturale dei papi (da Clemente XIV a Pio VI) che valorizza le scoperte archeologiche, lo studio e la tutela del patrimonio artistico antico di Roma, cercando di ripristinare il clima del mecenatismo rinascimentale. Roma, centro del Neoclassicismo “archeologico” La prima patria del Neoclassicismo è infatti proprio Roma, la città eterna, che continua, con nuove motivazioni, a essere meta del Grand Tour e ad attirare artisti e scrittori. Si ritrovano a Roma, tra gli altri, due figure chiave del Neoclassicismo italiano: Antonio Canova (che nei musei capitolini studia le figure della statuaria classica) e Vincenzo Monti, che nell’ode Prosopopea di Pericle, composta in occasione del ritrovamento di un busto di Pericle, celebra appunto l’età di Pio VI (➜ T2 OL). A Roma vive a lungo anche l’archeologo tedesco Joachim Winckelmann (1717-1768). La visione estetica di Winckelmann Nel 1779 viene tradotta la Storia dell’arte nell’antichità (1764) di Winkelmann, fondamentale per l’affermazione del gusto neoclassico. Lo studioso tedesco considera l’arte statuaria della Grecia classica un modello assoluto di perfezione, che l’artista moderno può solo cercare di imitare. Nella visione di Winckelmann il concetto di “bello” ha a che fare con la compostezza, la serenità, il dominio delle passioni, quella «quieta grandezza» che egli ravvisa nell’Apollo del Belvedere (➜ D1 ) e nel celebre gruppo marmoreo del Laocoonte (in realtà entrambe le opere sono copie di età romana). Per Winckelmann l’artista moderno deve imitare gli scultori della Grecia classica, cercando di rappresentare la bellezza ideale e universale, che è armonia, assenza di connotazioni realistiche e di elementi caratterizzanti. L’opera di Winckelmann si diffonde ben oltre la cerchia degli studiosi d’arte, gettando le basi della visione neoclassica anche nella letteratura e imponendo il mito della grecità nella cultura romantica europea (Hölderlin, Shelley, Keats ➜ C16). In ambito letterario l’ideale estetico neoclassico si traduce in generale nella predilezione per soggetti e immagini mitologiche, in particolare in Italia, e nell’impiego di uno stile classicheggiante: lo evidenzia chiaramente l’opera di Vincenzo Monti, il principale rappresentante del Neoclassicismo. Si tratta di una tendenza che nel nostro paese domina pressoché incontrastata nell’età napoleonica, mentre occorrerà attendere l’età della Restaurazione perché attecchiscano le istanze romantiche, già presenti in altri paesi da almeno quindici anni.

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Johann Joachim Winckelmann

D1

L’Apollo del Belvedere Storia dell’arte nell’antichità

J.J. Winckelmann, Storia dell’arte nell’antichità, trad. di L. Pampaloni, Boringhieri, Torino 1961

In questo celebre passo, tratto dalla Storia dell’arte nell’antichità (1764), l’archeologo Johann Joachim Winckelmann descrive la statua nota come Apollo del Belvedere (il suo nome deriva dal cortile dei palazzi Vaticani dove si trova ancora oggi). Winckelmann ritiene la statua originaria della classicità greca, ma si tratta in realtà di una copia romana (dell’età di Adriano) di un bronzo greco del IV secolo a.C.

La statua di Apollo rappresenta il più alto ideale artistico fra tutte le opere dell’antichità sfuggite alla distruzione. L’artista ha creato questa opera assolutamente secondo l’ideale, servendosi della materia solo per quel tanto che gli era necessario a realizzare e rendere visibile il suo proposito. [...] Il suo corpo si eleva al di sopra 5 di quello umano e la sua posa rivela la grandezza che lo pervade. Una primavera perenne, come nel beato Elisio1, riveste di amabile giovinezza la sua matura affascinante virilità e aleggia con grazia delicata sulla superba struttura delle sue membra. Penetra con il tuo spirito2 nel regno delle bellezze incorporee e cerca di farti creatore di una natura celeste, perché il tuo spirito possa inebriarsi di bellezze superiori alla 10 natura umana: là, o lettore, nulla vi è che sia mortale o schiavo dei bisogni umani. Non una vena, non un nervo, eccitano ed agitano questo corpo, ma uno spirito celestiale che vi si riversa come un fiume tranquillo quasi ricolma tutta la superficie di questa figura. Egli ha inseguito Pitone3 contro il quale per primo ha teso l’arco ed ora con il suo passo potente l’ha raggiunto e ucciso. Dall’alto del 15 suo spirito soddisfatto il suo sguardo va al di là e al di sopra della sua vittoria, verso l’infinito: disprezzo c’è nelle sue labbra e l’ira ch’egli trattiene tende le sue narici e sale fino alla fronte altera. Ma qui, la pace che vi aleggia beata e quieta non ne viene turbata e il suo sguardo è colmo di dolcezza, 20 come tra le Muse che si protendono per avvolgerlo nel loro abbraccio. [...] Al cospetto di questa meravigliosa opera d’arte dimentico ogni altra cosa e mi elevo al di sopra di me stesso per contemplarla come le si conviene. Il mio 25 petto sembra tendersi e sollevarsi di venerazione come quello che vedo tendersi ricolmo dello spirito di vaticinio4, e mi sento come trasportato a Delo e nei sacri boschetti della Licia5, in quei luoghi che Apollo rendeva sacri con la sua presenza: ché questa mia immagine sembra ricevere vita e movimento 30 come la bellezza di Pigmalione6, come è mai possibile ritrarla e descriverla? L’Apollo del Belvedere.

1 Elisio: la zona dell’oltretomba pagano in cui si immaginava che dimorassero per l’eternità gli eroi, i sapienti, i poeti. 2 Penetra con il tuo spirito: l’invito è rivolto al lettore, in seguito apertamente evocato perché possa elevarsi, entrando anche lui nella dimensione di perfezione

e armonia sovrumana di cui la statua è partecipe. 3 Pitone: il mostruoso serpente che infestava la regione greca della Focide e che, secondo il mito, fu ucciso da Apollo. 4 spirito di vaticinio: spirito profetico. Apollo era il dio dei responsi oracolari.

5 Delo... Licia: l’isola di Delo e la Licia (in Asia Minore) erano luoghi sacri ad Apollo.

6 Pigmalione: mitico re di Cipro. Scolpita una figura femminile, se ne innamorò e chiese alla dea Afrodite di infonderle la vita.

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Concetti chiave La bellezza ideale

La descrizione entusiastica dell’Apollo del Belvedere da parte di Winckelmann costituisce indirettamente un documento chiave dell’estetica neoclassica di cui vengono enunciati i princìpi fondamentali: creando la statua di Apollo (che Winckelmann ritiene un’opera originale greca) l’artista ha cercato di rappresentare la bellezza ideale. La materia, cioè il marmo in cui è scolpita la figura di Apollo, è solo il mezzo necessario per rendere visibile a tutti la bellezza incorporea. Imponenza, fascino aggraziato, giovinezza perenne caratterizzano la rappresentazione scultorea del dio, che secondo lo studioso tedesco non è paragonabile, quanto al risultato artistico, a nessun’altra rappresentazione successiva di Apollo. La bellezza del dio ritratto trova la sua essenza nel superamento delle passioni terrene, sacrificate a un’armoniosa superiorità. Assai significativo nel testo è l’invito a chi legge ad allontanarsi dalla dimensione terrena e umana, a entrare nel regno della bellezza incorporea.

Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

COMPRENSIONE 1. Quali parti della statua, nelle parole di Winckelmann, testimoniano in particolare il superamento delle passioni terrene? 2. Qual è l’atteggiamento di Winckelmann al cospetto della statua?

Interpretare

COMPETENZA DIGITALE 3. Dopo aver svolto una ricerca sull’argomento, realizza una presentazione multimediale sull’Apollo del Belvedere, arricchendola con immagini e video.

online

Gallery Lo “stile neoclassico”

Neoclassicismo e sensibilità romantica Riconducibile in parte al Neoclassicismo è anche l’opera poetica di Ugo Foscolo (1778-1827 ➜ C14). La sua concezione del ruolo della poesia è infatti essenzialmente neoclassica: a ispirare l’itinerario foscoliano è la ricerca dell’armonia, del bello, di una poesia che con la sua altezza e perfezione possa non solo superare i traumi della storia, ma anche sconfiggere il destino mortale dell’uomo («e l’armonia / vince di mille secoli il silenzio», Dei sepolcri, vv. 233-234 (➜ C14 T18 ). Per Foscolo il poeta è interprete dei grandi valori di una civiltà, cantore dei grandi uomini, così come Omero, il sommo poeta, ha reso eterne le vicende di Troia e degli eroi antichi. D’altra parte la tempestosa vita interiore («quello spirto guerrier ch’entro mi rugge», Alla sera, v. 14 (➜ C14 T15 ), le passioni civili e amorose di Foscolo appartengono sicuramente alla nascente sensibilità romantica. Anche l’uso del repertorio mitologico avvicina Foscolo al Neoclassicismo, ma il mito è reinterpretato attraverso una moderna sensibilità. In ambito europeo, in cui Neoclassicismo e Romanticismo coesistono cronologicamente e si sovrappongono, il mito della Grecia si connota come “paradiso perduto”, mondo di bellezza e armonia lontano e irraggiungibile, a cui i moderni guardano nostalgicamente, come è evidente nella celebre lirica di Keats Ode su un’urna greca (➜ C16 T6 ). I romantici avvertono la distanza tra i moderni e gli antichi, considerati più grandi e irrimediabilmente lontani. Introdotto espressamente da Schiller (➜ D2a ), il tema della frattura passato-presente, antichi-moderni è ricorrente nella letteratura tedesca, soprattutto in Hölderlin, in cui assume tratti espressamente romantici, connotandosi come “male del desiderio” (Sehnsucht).

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Sguardo sull'arte Il mito della romanità e gli usi politici del Neoclassicismo Al Neoclassicismo idealistico dei poeti tedeschi e inglesi, incentrato sul mito nostalgico della Grecia, si contrappone la mitizzazione di Roma antica, che non assume una funzione evasiva, come invece il mito della Grecia, ma si lega all’esaltazione di valori civili e politici da riportare in auge. Lo testimonia soprattutto la pittura: nel Giuramento degli Orazi (1784), una delle opere-manifesto del Neoclassicismo, Jacques-Louis David (17481825) intende rappresentare, alcuni anni prima della rivoluzione, i valori eroici della prima Repubblica romana a cui la società deve ispirarsi. Non molti anni dopo David celebrerà Napoleone, anche nel ruolo di ritrattista ufficiale: in questo caso il repertorio iconografico classicheggiante di cui si serve non si riconnette più alla Roma repubblicana, ma, significativamente, alla Roma imperiale, come nell’Incoronazione di Napoleone (1805-1807) in linea con il cosiddetto “neoclassicismo cesareo”. In Italia dopo la Repubblica Cisalpina il centro del Neoclassicismo diventa Milano, dal 1804 capitale del Regno d’Italia: artisti, architetti e poeti (come Monti) vengono cooptati per celebrare la gloria del nuovo Impero. Andrea Appiani (1754-1817) celebra le imprese di Napoleone nel ciclo di affreschi a Palazzo Reale. Lo scultore

Antonio Canova (1757-1822) ritrae Napoleone e la sua famiglia come dèi della mitologia classica: Paolina Bonaparte Borghese è rappresentata come Venere, senza alcun riferimento alla reale fisionomia della donna, Napoleone come Marte pacificatore, una figura maschile nuda, imponente, ma al tempo stesso portatrice di quella pacificazione a cui si aspira dopo il sangue versato nella rivoluzione. È Napoleone stesso in Francia e in Italia a dare impulso al gusto neoclassico, presentandosi come continuatore della Roma imperiale: il mito della romanità diventa funzionale alla propaganda di regime che utilizza, con un preciso significato ideologico,

strutture architettoniche scenografiche come l’arco di trionfo e indirizza l’urbanistica a funzioni celebrative. All’inizio dell’Ottocento risale il progetto di foro Bonaparte a Milano, secondo cui all’interno di una struttura circolare avrebbero dovuto collocarsi i luoghi fondamentali della vita sociale, culturale ed economica, come nel modello del foro romano: dal teatro alla Borsa, ispirata al Pantheon. Due secoli dopo anche il fascismo riproporrà, in una nuova versione del classicismo monumentale, miti, immagini e strutture della Roma imperiale funzionali all’autorappresentazione del regime come continuazione della Roma imperiale.

IMMAGINE INTERATTIVA

Jacques-Louis David, Il giuramento degli Orazi, olio su tela, 1784 (Parigi, Musée du Louvre).

Foro Bonaparte a Milano, progetto di Giovanni Antonio Antolini (incisione, 1800 ca.).

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Vincenzo Monti: la fedeltà al classicismo Il periodo romano Vincenzo Monti (1754-1828) nasce ad Alfonsine, presso Ravenna; trasferitosi a Ferrara, è ammesso nel 1775 nell’Arcadia. Tre anni dopo va a Roma, dove fa una rapida carriera grazie a una copiosa produzione di gusto neoclassico, in linea con la politica culturale del papato in quel periodo (Prosopopea di Pericle, 1779; La bellezza dell’Universo, 1781). A questa seguono molte altre opere, anche encomiastiche, per lo più ispirate alla poetica neoclassica (Ode al signor di Montgolfier, 1784; Feroniade, 1787). Allo stesso periodo appartengono anche i Pensieri d’amore e gli Sciolti al principe Sigismondo Chigi, entrambi del 1783, che testimoniano la suggestione esercitata su Monti dal gusto preromantico e dal modello del Werther di Goethe. Chiude il periodo romano la Bassvilliana (1793). Nel poemetto, ispirato da un fatto di cronaca (l’uccisione di Ugo di Bassville, delegato di Francia a Roma, in un tumulto popolare antifrancese), Monti depreca gli orrori della rivoluzione francese, allineandosi al conservatorismo politico della Chiesa di Roma. Dall’adesione agli ideali rivoluzionari alla celebrazione del regime napoleonico Nel 1797 Monti abbandona Roma e si trasferisce a Milano, dove aderisce agli ideali rivoluzionari (scrive le odi Il fanatismo, La superstizione, Il pericolo, 1789). In seguito diventa il poeta del regime napoleonico (già nel 1797 aveva dedicato a Napoleone Il Prometeo); seguiranno vari testi poetici di carattere celebrativo, come la tragedia Caio Gracco (1801) e Il Bardo della Selva nera (1806). Nel frattempo era divenuto professore di eloquenza all’università di Pavia (cattedra che tiene fino al 1804). Nel 1810 porta a termine quello che è considerato il suo capolavoro: la traduzione dell’Iliade.

Andrea Appiani, Ritratto di Vincenzo Monti, 1809 (Milano, Pinacoteca di Brera).

L’esaltazione del ritorno degli austriaci Negli anni della Restaurazione cerca di conquistare la benevolenza dei nuovi dominatori, il cui avvento al potere, terminata l’epopea napoleonica, è salutato con composizioni encomiastiche (Il mistico omaggio, 1815; Il ritorno d’Astrea, 1816). Collabora anche alla «Biblioteca italiana», il periodico di alto profilo fondato dal governo austriaco. La vita e l’esperienza poetica di Monti sono caratterizzate dal continuo, e spesso anche troppo disinvolto, adattamento ai tempi, che indurranno Foscolo a formulare sulla sua figura di intellettuale un giudizio estremamente severo (➜ INTERPRETAZIONI CRITICHE Un giudizio severo sulla figura di Monti OL). Monti passa dalla celebrazione della Roma papalina all’entusiasmo per la rivoluzione, dall’esaltazione di Napoleone a quella, infine, degli austriaci ritornati al governo, dedicando a ogni fase politica versi magniloquenti, nel ruolo di «segretario dell’opinione dominante» come lo ebbe a definire impietosamente il grande critico Francesco De Sanctis.

530 Ottocento 13 Tra Neoclassicismo e Preromanticismo


JacquesLouis David, Il dolore e il pianto di Andromaca sul corpo di Ettore, olio su tela,1783 (Parigi, Musée du Louvre).

La fedeltà al classicismo e la difesa della mitologia In una produzione multiforme come quella di Monti la costante è la fedeltà al classicismo: essa si traduce nella scelta di un linguaggio alto e classicheggiante, nell’uso di un repertorio mitologico, attraverso cui nobilitare la realtà. Monti è un convinto sostenitore dell’uso della mitologia, grazie alla quale la poesia può superare la dimensione del contingente: anche avvenimenti e personaggi della contemporaneità vengono trasfigurati miticamente da Monti: è il caso, ad esempio, dell’ode Al signor di Montgolfier (1784), in cui il volo del primo pallone aerostatico viene paragonato con toni epici alla mitica impresa degli Argonauti. A breve, però, la vincente cultura romantica non può che segnare il declino della stella di Monti: la malinconica difesa della mitologia presente nel Sermone sulla mitologia (1825), composto tre anni prima della morte (1828), appare quasi uno sconfortato testamento in un’epoca che segna ormai inesorabilmente il tramonto delle “belle favole” del classicismo. Oggi il vero capolavoro di Monti è considerato la traduzione dell’Iliade, in endecasillabi sciolti, pubblicata nel 1811 (➜ T1 ): è in questa versione che fino a pochi decenni fa le giovani generazioni leggevano a scuola il poema di Omero, a testimonianza del grande successo dell’operazione montiana. L’ambizione del poeta, pienamente realizzata, è non tanto quella di tradurre fedelmente il testo omerico, ma di ricrearlo, nell’intento di ridargli nuova vita in una diversa lingua letteraria, considerata da Monti, per la tradizione illustre da cui deriva, altrettanto nobile del greco di Omero.

Il Neoclassicismo Neoclassicismo più che una corrente, un orientamento del gusto nato come evasione dalla realtà contemporanea e vagheggiamento di un’arte di armonia classica arte

letteratura

• scoperte da scavi archeologici • visione estetica di Winckelmann (Storia dell’arte nell’antichità tradotta nel 1779): attraverso lo studio della statuaria della Grecia antica ambisce a rappresentare la bellezza ideale • il concetto di Bello rimanda alla compostezza, all’equilibrio, al dominio delle passioni

• mito della grecità • stile classicheggiante e immagini mitologiche

online

Interpretazioni critiche Ugo Foscolo Un giudizio severo sulla figura di Monti

IN ITALIA • Vincenzo Monti (1754-1828) riveste di forme classiche temi della modernità e trasfigura miticamente fatti e personaggi del suo tempo • Ugo Foscolo (1778-1827): concepisce il ruolo della poesia come ricerca del bello e dell’armonia, baluardo contro i traumi della storia e il destino degli umani, mostrando, tuttavia, anche una nuova sensibilità romantica

Vincenzo Monti: la fedeltà al classicismo 2 531


Vincenzo Monti

T1

La traduzione dell’Iliade: protasi del poema L’Iliade di Omero, vv. 1-41

V. Monti, L’Iliade di Omero, introduzione e commento di M. Mari, 2 voll., Rizzoli, Milano 1990

Non è un caso che la traduzione dell’Iliade, realizzata da Monti nel 1810, sia oggi considerata la sua opera maggiore: in questa impresa Monti abbandona ogni filtro, ogni opportunistica celebrazione dei vari potenti della terra, per mettere la sua penna magistrale al servizio esclusivo dell’amata antichità classica. Proponiamo la protasi del poema, uno dei passi più celebri della traduzione montiana.

AUDIOLETTURA

Cantami, o Diva1, del Pelìde2 Achille l’ira funesta, che infiniti addusse3 lutti agli Achei4, molte anzi tempo all’Orco generose travolse alme d’eroi5, 5 e di cani e d’augelli orrido pasto lor salme abbandonò6 (così di Giove l’alto consiglio s’adempìa7), da quando primamente disgiunse aspra contesa8 il re de’ prodi Atride9 e il divo Achille10. 10 E qual de’ numi inimicolli11? Il figlio di Latona e di Giove. Irato al Sire, destò quel Dio nel campo un feral morbo, e la gente perìa: colpa d’Atride, che fece a Crise sacerdote oltraggio12. 15 Degli Achivi era Crise alle veloci prore venuto, a riscattar la figlia con molto prezzo. In man le bende avea, e l’aureo scettro dell’arciero Apollo;

La metrica Endecasillabi sciolti 1 Cantami, o Diva: il poeta si rivolge, quasi ne fosse solo uno strumento, alla musa della poesia epica, chiedendole di narrare tramite la sua poesia (Cantami) le vicende degli eroi antichi. 2 Pelìde: Achille è di Peleo, re della Tessaglia. Nella poesia epica sono frequenti i patronimici. 3 addusse: provocò. 4 Achei: Greci. 5 molte... d’eroi: trascinò nell’oltretomba (Orco) prima del tempo molte generose anime (alme) di eroi. 6 di cani... abbandonò: abbandonò i loro cadaveri orribilmente in pasto a cani e uccelli. 7 di Giove… s’adempìa: si realizzava la suprema decisione di Giove. 8 da quando... contesa: da quel primo momento in cui un’aspra rivalità divise. 9 il re de’ prodi Atride: il re dei valoro-

e agli Achei tutti supplicando, e in prima 20 ai due supremi condottieri Atridi13: O Atridi, ei disse, o coturnati14 Achei, gl’immortali del cielo abitatori concedanvi espugnar la Prïameia cittade15, e salvi al patrio suol tornarvi. 25 Deh! mi sciogliete16 la diletta figlia, ricevetene il prezzo, e il saettante Figlio di Giove rispettate17. – Al prego tutti acclamâr18: doversi19 il sacerdote riverire, e accettar le ricche offerte. 30 Ma la proposta al cor d’Agamennóne non talentando, in guise aspre il superbo accomiatollo, e minaccioso aggiunse20: Vecchio, non far che presso a queste navi ned or né poscia21 più ti colga io mai; 35 ché forse nulla ti varrà22 lo scettro né l’infula23 del Dio. Franca non fia

si, Agamennone (della stirpe dei figli di Atreo), comandante delle armate greche. 10 il divo Achille: il divino Achille (perché figlio della dea Teti). 11 qual... inimicolli: chi degli dei li rese nemici? 12 Il figlio... oltraggio: Apollo, figlio di Giove e Latona. Quel dio scatenò una terribile pestilenza (feral morbo) nel campo acheo perché adirato contro Agamennone (il Sire), e la gente moriva; colpa di Agamennone, che aveva oltraggiato Crise, sacerdote di Apollo. Conquistata Tebe, alleata di Troia, gli Achei avevano preso come schiave le donne. Ad Agamennone era toccata la più bella, Criseide, figlia di Crise, sacerdote di Apollo che, come si dice ai vv. 15-17, si era recato alle navi (prore) achee per riscattare la figlia. 13 In man... Atridi: nelle mani aveva le bende sacerdotali e lo scettro dorato di Apollo, munito d’arco (bende e scettro sono ornamenti della veste sacerdotale). I due supremi condottieri a cui rivolge

532 Ottocento 13 Tra Neoclassicismo e Preromanticismo

la supplica per riavere la figlia sono Agamennone e Menelao. 14 coturnati: i coturni erano le calzature dei greci. 15 Prïameia cittade: la città di Priamo, cioè Troia. 16 mi sciogliete: liberate per me. 17 ricevetene... rispettate: ricevete per lei il riscatto e rispettate il figlio di Giove munito d’arco (Apollo arciero, v. 18). 18 acclamâr: acclamarono. 19 doversi: si doveva. 20 Ma la proposta... aggiunse: ma non piacendo (talentando) la proposta al cuore di Agamennone, superbo, lo congedò in modo (in guise) aspro e aggiunse minaccioso. 21 ned or né poscia: né ora né in seguito. 22 ti varrà: ti servirà. 23 l’infula: la sacra benda. L’infula era la benda che i sacerdoti avvolgevano intorno al capo come segno della loro consacrazione agli dei.


costei, se lungi dalla patria, in Argo, nella nostra magion pria non la sfiori vecchiezza, all’opra delle spole intenta24... 40 e a parte assunta del regal mio letto25. Or va, né m’irritar, se salvo ir brami26. [Crise, adirato, pregherà Apollo di vendicarlo. Il dio seminerà una terribile pestilenza tra le armate dei greci. Un indovino ne spiegherà la ragione. Agamennone allora sarà costretto a restituire Criseide; in cambio si prenderà la schiava di Achille, Briseide. L’eroe deciderà allora, per protesta, di ritirarsi dalla guerra, sottraendo alla sua gente la sua forza prodigiosa in battaglia (è questa l’ira funesta di Achille a cui si riferisce l’incipit del poema).] 24 costei... intenta: costei (si riferisce alla figlia del sacerdote, Criseide) non sarà libera (franca non fia), prima che in Argo, nella nostra casa, lontano dalla patria non

la raggiunga la vecchiaia, mentre sarà intenta a tessere (all’opra delle spole). 25 a parte… letto: da me presa come concubina.

26 se salvo ir brami: se desideri andartene incolume.

Analisi del testo «Gran traduttor de’ traduttor di Omero» La traduzione dell’Iliade di Monti, assieme al parallelo tentativo di Foscolo (Esperimenti di traduzione dell’Iliade) e alla traduzione dell’Odissea di Pindemonte, si inquadra nel culto di Omero che si diffonde nel primo Ottocento in Europa. L’obiettivo di Monti non è quello di mantenere la fedeltà filologica al testo di Omero, ma di “ricrearlo” per i moderni e in una lingua (quella della tradizione letteraria italiana) che ben può gareggiare con l’illustre modello. Con la sua traduzione Monti riesce veramente a ridare vita all’antico, grazie alla sua profonda conoscenza della letteratura antica, all’abilità di versificatore e alla raffinata competenza linguistica. L’operazione montiana, aspramente criticata da Foscolo, convince invece Madame de Staël, per la quale difficilmente l’Iliade sarebbe stata letta in altre traduzioni. E il giudizio della de Staël è davvero profetico perché, come detto, la traduzione montiana si imporrà nel tempo, esercitando una grande suggestione.

Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

COMPRENSIONE 1. Qual è l’argomento dell’Iliade, enunciato nell’invocazione alla Musa? 2. Quale divinità semina la morte nell’accampamento degli Achei e per quale ragione? STILE 3. Individua e sottolinea le molte anastrofi che rendono complesso l’andamento sintattico. LESSICO 4. Individua esempi del lessico aulico (in particolare latinismi) a cui Monti ricorre per costruire il tono epico alto e sostenuto che caratterizza la sua traduzione e fanne una schedatura, aiutandoti con il vocabolario.

Interpretare

SCRITTURA 5. Riscrivi il testo in una versione moderna e poi spiega, in una breve trattazione al massimo di 15 righe, la modalità con cui hai operato e le difficoltà (lessicali, morfologiche e sintattiche) incontrate.

online T2 Vincenzo Monti

Prosopopea di Pericle

Vincenzo Monti: la fedeltà al classicismo 2 533


3 Il Preromanticismo 1 In Germania: il gruppo dello Sturm und Drang Le origini dello Sturm und Drang I princìpi basilari del Romanticismo, poi diffusi in tutta Europa, si devono ai romantici tedeschi, in particolare ai fratelli Schlegel (che nel 1798 fondano la rivista «Athenaeum», al poeta Novalis, ai filosofi Fichte e, soprattutto, Schelling (➜ C15): quando si parla di Romanticismo è fondamentale fare riferimento anzitutto alla cultura tedesca. Proprio in Germania del resto sono più consistenti, sotto il profilo ideologico, le tendenze anticipatrici della visione romantica presenti già nella seconda metà del Settecento, così da legittimare la definizione di pre-romanticismo o protoromanticismo, cioè di una fase effettivamente embrionale del Romanticismo vero e proprio. Tali tendenze sono in particolare rappresentate dal gruppo (non si tratta di una vera e propria scuola) dello Sturm und Drang, attivo tra il 1770 e il 1785 e caratterizzato da una marcata polemica nei confronti del classicismo e del razionalismo. L’espressione Sturm und Drang, che letteralmente significa “Tempesta e assalto”, deriva dal titolo di un testo teatrale di Friedrich Maximilian Klinger, uno degli Stürmer, del 1776. Lo Sturm und Drang ha come teorici Georg Hamann (1730-1788) e Johann Gottfried Herder (1744-1803).

Caspar David Friedrich, Mare al chiaro di luna, olio su tela, 1836 (Amburgo, Hamburger Kunsthalle).

534 Ottocento 13 Tra Neoclassicismo e Preromanticismo


Del gruppo fanno parte, in giovinezza, Friedrich Schiller (1759-1805), come testimonia il dramma I masnadieri (1781), che sferra un aspro attacco contro le istituzioni (➜ T3 OL), e per alcuni anni Goethe stesso: il romanzo epistolare I dolori del giovane Werther (1774) costituisce il documento letterario più rappresentativo del clima ideologico e delle principali tematiche dello Sturm und Drang e, più in generale, del Preromanticismo. Gli Stürmer gettano le basi di molte tematiche romantiche: in particolare la distinzione fra poesia d’arte (Kunstpoesie) e poesia di natura (Naturpoesie) e l’esaltazione della poesia popolare (Herder), il culto del genio (➜ PAROLA CHIAVE Genio, PAG. 485), l’enfatizzazione del valore delle passioni, il tema della ribellione, della sfida titanica ai limiti imposti all’uomo dalla società e dal destino. Forse proprio per il radicalismo delle posizioni il gruppo si estingue ben presto e quasi tutti i suoi componenti si allontanano dall’originario spirito ribellistico, da Schiller a Herder (che a Weimar diviene amministratore ecclesiastico) a Goethe, che modifica le posizioni giovanili per aderire a una visione classicheggiante e armonica dell’arte e della vita. online T3 Friedrich Schiller

Il credo ribellistico degli Stürmer I masnadieri, II scena

2 In Inghilterra: la poesia sepolcrale e i Canti di Ossian Anche in Inghilterra nello stesso periodo (e anche prima) si presentano in ambito letterario e artistico orientamenti che anticipano il Romanticismo; ma, più che di correnti e di prese di posizione articolate, si tratta di tendenze del gusto, di mutamenti della sensibilità artistica, di cui è testimonianza sul piano teorico l’«estetica del sublime», teorizzata fin dal 1757 da Edmund Burke, che lega il “sublime” alle forti emozioni suscitate ad esempio da spettacoli naturali grandiosi, da scenari tempestosi e notturni. Esempio di questo mutamento della sensibilità e dell’affermarsi di un nuovo gusto è il filone della poesia “sepolcrale”, incentrato su malinconiche rappresentazioni naturali e sulla riflessione sulla morte: esponenti principali sono Edward Young (1683-1765), autore dei Pensieri notturni, pubblicati verso la metà del Settecento, e Thomas Gray (1716-1771), autore della popolare Elegia scritta in un cimitero campestre (1751 ➜ T4a ). Una straordinaria influenza è esercitata sulle letterature europee dalla cosiddetta “poesia ossianica”. Nel 1760 lo scrittore scozzese James Macpherson (1736-1796) pubblica, anonimi, i Frammenti di antica poesia raccolti negli altopiani di Scozia e tradotti dal gaelico, un ciclo di canti di carattere epico attribuiti da Macpherson a Ossian, leggendario bardo (ossia cantore) che sarebbe vissuto nel III secolo. Macpherson sosteneva di aver ritrovato e quindi tradotto in inglese moderno le composizioni; in realtà si tratta di un clamoroso falso letterario, in quanto lo scrittore scozzese aveva rielaborato frammenti di canti epici popolari, integrandoli con testi suoi. L’opera ebbe un grande successo in tutta Europa, inducendo Macpherson ad aggiungere nuovi materiali, fino all’edizione definitiva del 1773.

Il Preromanticismo 3 535


I Canti di Ossian inaugurano una vera e propria moda letteraria: i paesaggi naturali selvaggi e tenebrosi, l’atmosfera cupa delle vicende non potevano che incontrare il gusto di un pubblico internazionale, appassionato alle leggende medievali e alla ricerca di nuove emozioni. Anche in Italia I canti di Ossian, tradotti da Melchiorre Cesarotti fin dal 1763 (Poesie di Ossian, antico poeta celtico), hanno molta risonanza: evidenti echi del gusto ossianico si ritrovano nell’Ortis e in una sezione dei Sepolcri di Foscolo (vv. 70-90 ➜ C14 T18 ). Ma anche nel cultore per eccellenza del neoclassicismo, Vincenzo Monti, non mancano testimonianze della suggestione esercitata dal gusto preromantico.

Il Preromanticismo

CARATTERI GENERALI

• polemica nei confronti di classicismo e razionalismo • anticipazione del tema romantico della ribellione, della sfida titanica, del valore delle passioni contro le convenzioni sociali, della distinzione tra poesia d’arte e poesia di natura • al gruppo appartiene in gioventù Goethe

GERMANIA

Sturm und Drang (1770-1785)

INGHILTERRA

estetica del “sublime”: emozioni forti suscitate da spettacoli naturali grandiosi

Burke

poesia sepolcrale: incentrata sul tema della morte e su rappresentazioni naturali malinconiche

Young e Gray

poesia ossianica: rielaborazione di canti epici popolari che rappresentano atmosfere cupe

Macpherson

Caspar David Friedrich, Abbazia nel querceto, olio su tela, 1809-1810 (Berlino, Alte Nationalgalerie).

536 Ottocento 13 Tra Neoclassicismo e Preromanticismo


Testi In dialogo

Due esempi della poesia preromantica inglese In Inghilterra il Romanticismo è anticipato dall’affermarsi di un filone poetico incentrato sui temi della morte e della natura malinconica e tenebrosa. Proponiamo due brani che esemplificano l’interesse della poesia inglese verso le ambientazioni sepolcrali.

Thomas Gray

T4a T. Gray, Elegia scritta in un cimitero campestre, trad. di D. Caminita, in S. Guglielmino, Civiltà letterarie straniere, vol. I, Zanichelli, Bologna 1976

Elegia scritta in un cimitero campestre Questa celebre elegia di Thomas Gray esercita un’indubbia suggestione sul Foscolo dei Sepolcri, come possono testimoniare i pochi versi esemplari qui proposti.

[…] Un’ora inevitabile attende egualmente la gloria del blasone, la pompa del potere, 35 e quanto mai abbiano donato la bellezza e la ricchezza: i sentieri della gloria non conducono che alla tomba1. Né voi, Orgogliosi, imputate a loro la colpa se il Ricordo non eresse alcun trofeo sulla loro tomba, là dove, attraverso lunghe navate e volte scolpite, 40 l’eco dei canti rende più intense le note di lode2. Possono un’urna istoriata o un busto animato3 richiamare alla sua dimora il respiro che fugge? Può la voce dell’Onore richiamare in vita la polvere silenziosa? O la lusinga blandire le deboli, fredde, orecchie della morte? 1 Un’ora inevitabile… alla tomba: il significato dei versi è che la morte attende inesorabilmente tutti gli uomini annullando l’orgoglio nobiliare e il censo. 2 Né, voi… di lode: nella parte

precedente dell’elegia il poeta fa riferimento alle tombe più semplici nel cimitero di campagna e invita i nobili altezzosi a considerare con benevolenza gli umili morti, che a differenza dei nobili

non dispongono di monumenti funebri sontuosi collocati nella chiesa. 3 animato: scolpito così bene da sembrare vivo.

John Constable, Illustrazione per l’elegia di Thomas Gray, acquarello, 1833 (Londra, British Museum).

Il Preromanticismo 3 537


James Macpherson

T4b

La notte Canti di Ossian

J. Macpherson M. Cesarotti, Canti di Ossian, La notte

Quelli che seguono (i versi iniziali di un poemetto dedicato alla notte) possono dare un’idea del gusto ossianico, soprattutto per quanto concerne la creazione di un’atmosfera inquietante e tenebrosa che troverà infinite repliche.

Trista è la notte, tenebria s’aduna1, tingesi il cielo di color di morte: qui non si vede né stella né luna, che metta il capo fuor delle sue porte. 5 Torbido è ‘l lago, e minaccia fortuna2; odo il vento nel bosco a ruggir forte: giù dalla balza va scorrendo il rio con roco lamentevol mormorio. Su quell’alber colà, sopra quel tufo3, 10 che copre quella pietra sepolcrale, il lungo-urlante ed inamabil gufo l’aer funesta col canto ferale4. Ve’ ve’: fosca forma la piaggia adombra5: 15 quella è un’ombra: striscia, sibila, vola via. [...] 1 tenebria s’aduna: le tenebre si addensano. 2 fortuna: fortunale, tempesta.

3 tufo: roccia. 4 l’aer... ferale: funesta l’aria con il suo lugubre canto.

5 Ve’ ve’… adombra: guarda, guarda: una forma scura stampa sulla terra la sua ombra.

Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

SINTESI 1. Presenta in sintesi il contenuto dei due passi proposti (max 5 righe). LESSICO 2. Analizza il lessico usato e individua i termini e le espressioni che fanno riferimento all’ambito sepolcrale.

Interpretare

SCRITTURA 3. In un testo di massimo 15 righe illustra le modalità con le quali i testi proposti affrontano il tema sepolcrale.

538 Ottocento 13 Tra Neoclassicismo e Preromanticismo


4

Goethe, un genio poliedrico 1 Una vita in multiforme e instancabile attività La prima formazione, gli studi giuridici, la vocazione alla letteratura Johann Wolfgang Goethe nasce nel 1749 nella città tedesca di Francoforte, da una ricca famiglia borghese. Sulla sua formazione ha una grande influenza il padre: giurista e consigliere imperiale, uomo colto e metodico, fa impartire al figlio un’istruzione accurata nei più vari campi, dal disegno, alla musica, alle discipline umanistiche, alle lingue moderne. Avviato poi dal padre a una carriera giuridica, Wolfgang affronta gli studi di diritto con scarsa convinzione, preferendo dedicare le sue energie alla letteratura. Il periodo dello Sturm und Drang e il Werther La formazione letteraria di Goethe è influenzata dal filosofo Herder, teorico del movimento preromantico Sturm und Drang conosciuto durante il periodo degli studi universitari. Nel 1772, per perfezionarsi nel diritto, lo scrittore si reca a Wetzlar e lì conosce Charlotte Buff, che gli ispirerà il romanzo autobiografico I dolori del giovane Werther (1774), in cui, come nella tragedia incompiuta Prometeo (1773), si avverte la presenza dello spirito ribelle dello Sturm und Drang. Il romanzo riscuote un grandissimo successo. Il trasferimento a Weimar e il Viaggio in Italia Nel 1775 Goethe accetta l’invito a recarsi alla corte ducale di Weimar, dove ricopre incarichi via via più importanti e si impegna in un’intensa attività politica, amministrativa e culturale. Nel 1786, insofferente degli impegni che lo portavano a trascurare l’attività letteraria, parte per un viaggio in Italia, dove rimane fino al 1788, raccogliendo le sue impressioni in un diario poi rielaborato e pubblicato anni dopo, con il titolo Viaggio in Italia. L’esperienza trasforma nel profondo lo scrittore, che abbandona il ribellismo, la passionalità della fase del Werther per abbracciare un ideale di vita ed artistico ispirato alla misura, all’equilibrio, alla ricerca di una “olimpica” serenità. Il periodo dei capolavori Tornato a Weimar, Goethe si dedica soprattutto a promuovere le attività culturali della corte, fino a trasformarla in uno dei centri intellettualmente più prestigiosi della Germania. Con grande scandalo della corte, si lega a Christiane Vulpius, una donna del popolo da cui avrà un figlio e che sposerà solo in seguito. Attivissimo fino alla vecchiaia, dopo il ritorno a Weimar Goethe affianca all’attività letteraria studi metodici in ambito scientifico, che spaziano dalla botanica all’anatomia, dalla mineralogia all’ottica (in passato si era interessato anche a studi esoterici e alchemici): l’obiettivo di Goethe era quello di ricercare l’unità tra i vari campi del sapere. Intorno al 1794 avvia un intenso e produttivo sodalizio con l’altro grande scrittore tedesco Friedrich Schiller. Su suo consiglio, Goethe riprende e conclude opere iniziate nel periodo giovanile, come il Wilhelm Meister, prototipo del “romanzo di formazione” e Faust, uno dei capolavori della letteratura mondiale, di cui pubblica la prima parte nel 1808 (ma lavorerà all’opera fino alla fine della sua vita).

Goethe, un genio poliedrico

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Segue, nel 1809 Le affinità elettive, bersaglio delle critiche dei moralisti per la rappresentazione critica del matrimonio. Negli ultimi anni Goethe si dedica anche alla poesia, con la raccolta Divano occidentale-orientale (Diwan è voce araba per “canzoniere”), e all’autobiografia (Dalla mia vita. Poesia e verità). Divenuto ormai un punto di riferimento per gli intellettuali europei, muore a Weimar nel 1832.

2 I dolori del giovane Werther: il manifesto della sensibilità preromantica

Un’opera di successo La prima opera che diede larga fama all’autore, non solo in ambito tedesco, ma europeo, è il romanzo I dolori del giovane Werther, pubblicato nel 1774, con cui Goethe seppe cogliere il disagio delle giovani generazioni, che nessuno era stato ancora capace di esprimere. Inoltre nel libro c’è già in embrione tutto il romanticismo, con intuizioni che scrittori e filosofi avrebbero poi sviluppato nei decenni successivi, anche se Goethe si mantenne poi sempre distante dai romantici, o per lo meno dalle forme più irrazionalistiche del romanticismo tedesco. La genesi autobiografica del Werther Alle radici del romanzo stanno sicuramente componenti autobiografiche: quando lo scrive anche Goethe è un giovane inquieto, incerto sul proprio futuro e sulla strada da intraprendere nella vita. Come Werther anche Goethe si era innamorato di una giovane donna (Charlotte Buff), promessa sposa a un altro, e aveva vissuto una passione ossessionante che lo aveva addirittura indotto a pensare al suicidio (ma nell’ideazione della vicenda entra anche la suggestione di un tragico fatto di cronaca). Infine, la vicenda narrata nel romanzo è pressoché contemporanea alla sua composizione, che si realizza in poche settimane, e anche questo ne sottolinea lo stretto legame con la biografia e la storia interiore di Goethe. La stesura dell’opera ha un effetto catartico sul suo autore, che si sente guarito da una distruttiva malinconia; ma, come egli stesso racconta nell’autobiografia, i «raggi incendiari» dell’opera colpirono tanti giovani, provocando un’epidemia di suicidi, tanto che in vari Stati il romanzo fu vietato o fatto ritirare dalle autorità.

IMMAGINE INTERATTIVA

Johann Heinrich Wilhelm Tischbein, Goethe nella campagna romana, olio su tavola, 1785 (Francoforte, Städelches Kunstinstitut).

540 Ottocento 13 Tra Neoclassicismo e Preromanticismo


La vicenda I dolori del giovane Werther è un romanzo epistolare in due libri, costituito dalle lettere scritte dal protagonista all’amico Wilhelm; nella parte conclusiva interviene un narratore esterno, «l’Editore» delle lettere, che ricostruisce gli ultimi momenti della vita del giovane. Werther, un giovane ardente, ipersensibile, inquieto e amante dell’arte e della natura, si trasferisce dalla città nel paese di Wahlheim, dove conosce la giovane Lotte, promessa sposa ad Albert, in quel momento in viaggio. Con la giovane Werther scopre da subito una profonda affinità spirituale e ben presto se ne innamora perdutamente. Al ritorno di Albert, decide di allontanarsi dal paese. Prende allora servizio come segretario presso un ambasciatore, ma è presto insoddisfatto per un incarico che mortifica le sue qualità e soprattutto è disgustato da un ambiente retrivo e pieno di pregiudizi (quello della nobiltà locale), dal quale viene umiliato e respinto per la sua origine borghese. Ritornato a Wahlheim, viene a sapere che Lotte ha sposato Albert. In una scena di forte intensità drammatica, dopo aver letto insieme a lei i Canti di Ossian, travolto dalla passione, Werther bacia Lotte, ma la giovane, pur innamorata, lo respinge con fermezza. Werther decide allora di togliersi la vita.

Wilhelm von Kaulbach, Werther e Lotte, 1865.

La valorizzazione preromantica del sentimento e dell’interiorità Pubblicato ben prima delle teorizzazioni del romanticismo, il romanzo ne anticipa il modo di sentire e la maggior parte delle tematiche. Un primo elemento che preannuncia il romanticismo è il valore attribuito al sentimento e alla passione, che ribalta completamente la prospettiva illuministica. Werther è già un eroe romantico: inquieto, ipersensibile, instabile, capace di passare «dalla depressione all’euforia, dalla dolce malinconia alla passione devastante» (lettera del 13 maggio). Vive ogni affetto, ogni emozione, ogni situazione con un’intensità totale: nella lettera del 12 agosto (➜ T5 ) ammette che le sue passioni «non erano mai lontane dalla follia». Nel romanzo è già romantica anche la contrapposizione tra l’infinita ricchezza dell’interiorità e la limitatezza del mondo esteriore, e la ribellione titanica ai vincoli e alle convenzioni sociali che ingabbiano l’individuo. Prettamente romantico, infine, è lo stretto rapporto del protagonista con la natura (➜ T3 OL), rappresentata come specchio dell’anima, prima idillica e consolatrice, poi minacciosa e distruttrice. Le novità del romanzo Il Werther fu letto in tutta Europa, suscitando grande entusiasmo soprattutto tra i giovani lettori e la cosa non sorprende: l’opera di Goethe, per la prima volta, poneva al centro il disagio della condizione giovanile ed enfatizzava la radicale diversità che, in un mondo in rapida evoluzione, si era creata fra i valori in cui i giovani credevano e quelli delle generazioni precedenti. I valori di Werther – spontaneità, passione, libertà da ogni convenzione, insofferenza per vincoli e divieti – sono infatti opposti a quelli della società dell’Ancien régime, nella quale egli si sente disadattato e infelice.

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Alla suggestione esercitata dal libro contribuì anche la scelta narrativa operata da Goethe: lo scrittore affida la narrazione alle sole lettere inviate da Werther all’amico Wilhelm omettendo le repliche del destinatario e le voci di altri personaggi (a parte le pagine finali); in tal modo l’unico punto di vista sulla vicenda è quello di Werther, con cui inevitabilmente i giovani lettori del tempo erano portati a identificarsi.

PER APPROFONDIRE

I dolori del giovane Werther DATAZIONE

1774

GENERE

romanzo epistolare con genesi autobiografica

TEMI

disagio e sofferenza della condizione giovanile, passioni e ideali frustrati in una società retriva e meschina

PROTAGONISTA

Werther, primo eroe romantico caratterizzato da interiorità e passioni contrastanti fino alla ribellione titanica

Un segno di protesta generazionale In ogni dettaglio Werther si pone in contrasto con il modello di uomo settecentesco ispirato all’equilibrio e alla razionalità. Un dettaglio solo apparentemente superficiale, in realtà rivelatore, è l’abbigliamento del giovane Werther, descritto accuratamente da Goethe in diversi passi del libro (e poi imitato dai giovani emuli del personaggio): frac azzurro scuro, panciotto giallo, calzoni infilati negli stivali, un look che rappresentava la «protesta giovanile contro la cultura effeminata del rococò» (Baioni). Anche l’abbinamento di colori, come osserva Vittorio Mathieu, non sarebbe casuale, ma espressione del disadattamento di Werther: nella Teoria dei colori, elaborata in seguito da Goethe, il giallo e l’azzurro rappresentano le due opposte polarità della luce e dell’ombra, dell’esaltazione e della malinconia, che Werther non riesce a conciliare; l’azzurro è poi per Goethe il colore «dell’infinito, dell’eternamente oltre» (Hadot), quindi dello spirito proto-romantico del personaggio. Anche in questo ambito, Werther è dunque un precursore: è superfluo ricordare come dopo di lui ogni generazione giovanile, per distinguersi dalle precedenti e manifestare la propria ribellione o la propria diversità si sia affidata a fogge

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di abbigliamento fortemente simboliche, a mode e ad altri segnali (dai capelli lunghi ai tatuaggi e così via).

Werther medita il suicidio, di Johann Daniel Donat (1744-1830.


Johann Wolfgang Goethe

T5

LEGGERE LE EMOZIONI

Werther e Albert a confronto: il tema del suicidio come parametro di due opposte visioni del mondo I dolori del giovane Werther, lettera del 12 agosto

J.W. Goethe, I dolori del giovane Werther, a cura di S. Marini, Principato, Milano 1995

La lettera ha un’importanza centrale nel romanzo, sia perché, nel confronto con Albert, mette in luce il modo di sentire anticonformistico di Werther, sia perché anticipa l’esito finale del romanzo. Werther chiede in prestito all’amico le sue pistole, con il pretesto di un viaggio. In realtà sta meditando di togliersi la vita, come mostra con il gesto rivelatore di portarsi la canna della pistola (per il momento scarica) sopra l’occhio destro. Infastidito da quell’atteggiamento provocatorio, Albert esprime la sua condanna del suicidio, mentre Werther difende, con foga appassionata, le ragioni di chi compie tale atto estremo.

12 agosto Certo, Albert è la miglior persona di questo mondo. Ieri ho avuto con lui un incontro fuori del comune. Ero capitato lì per un saluto, dato che mi era venuta voglia di fare un giro a cavallo per i monti, da dove anche adesso ti scrivo. E mentre vado 5 su e giù per la stanza, mi cadono sotto gli occhi le sue pistole. “Prestami le pistole per il viaggio”, dissi io. “Senz’altro” mi rispose, “purché ti prenda la briga di caricarle; io le tengo appese tanto per mostrarle”. Ne staccai una ed egli continuò: “Da quando la mia prudenza mi ha giocato un brutto tiro, non voglio più aver niente a che fare con questi arnesi”. Ero curioso di conoscere la storia. “Mi trovavo da tre 10 mesi da un amico in campagna” raccontò. “Avevo due terzette1 scariche e dormivo tranquillo. Una volta, mentre in un pomeriggio piovoso me ne stavo seduto in ozio, mi viene in mente (non so come), che potevamo essere aggrediti, che potevamo aver bisogno delle terzette, e che potevamo... Sai come vanno queste cose. Le consegnai al domestico per farle pulire e caricare. E quello si mette a scherzare con le 15 ragazze, tanto per spaventarle; e, Dio sa come, l’arma scatta con la carica ancora dentro e il proiettile colpisce una ragazza all’attaccatura della mano destra, e le fracassa il pollice. Dovetti prendermi le lamentele e pagare le cure; da allora lascio le pistole scariche. Caro mio, a che vale la prudenza? Il pericolo non si finisce mai di conoscerlo. Cioè...” 20 Ora tu sai che quell’uomo mi è molto caro in tutto, tranne che per i suoi “cioè”; non sanno forse tutti che ogni principio generale ha le sue eccezioni? Ma è così pignolo quel tipo! Quando ritiene di aver detto qualcosa di precipitoso, generico, inesatto, non la finisce più di circoscrivere, di modificare, di togliere e aggiungere, per cui in definitiva della cosa non resta più niente2. 25 E in questa circostanza egli sviscerò a fondo la questione: alla fine smisi di stare a sentirlo, mi distrassi e, con un gesto repentino, mi puntai la canna della pistola alla fronte, sopra l’occhio destro. “Beh!?”, disse Albert, facendomi abbassare la pistola. “Cosa fai?” “Non è carica”, replicai. 1 terzette: pistole a canna corta. 2 Ma è così pignolo… più niente: Werther, impulsivo e passionale, è insoffe-

rente della meticolosità di Albert. Ritiene che, prendendo in esame troppi dettagli, Albert non riesca a cogliere l’essenziale

delle situazioni.

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“Sia pure, ma che significa?”, incalzò lui spazientito; “non riesco a rendermi conto di come un uomo possa essere così stolto da spararsi: il semplice pensiero mi provoca disgusto”. “Che razza di gente siete voi”, esclamai “che tanto per dir qualcosa, sentite il dovere in ogni caso di sentenziare: questo è idiota, questo è intelligente, questo è giusto, 35 quest’altro è sbagliato3! Ma che significa tutto ciò? Avete mai indagato sui reconditi4 moventi di un comportamento? Sapete scoprirne con certezza le cause remote, per cui si è verificato e si doveva necessariamente verificare5? Se l’aveste fatto, non sareste così sbrigativi nei vostri giudizi”. “Mi concederai”, disse Albert, “che certi comportamenti restano riprovevoli6, a pre40 scindere dal motivo che li determina”. Mi strinsi nelle spalle e gli detti ragione. “Eppure, mio caro”, continuai, “anche in questo caso ci sono delle eccezioni. È vero che il furto è un delitto, ma l’uomo che va a rubare per salvare sé e i suoi dalla morte per fame, merita pietà o castigo? Chi oserebbe scagliare la prima pietra contro il marito che, in un momento di legittima 45 ira, sopprime la moglie infedele e il suo indegno seduttore? O contro la ragazza che, in un’ora di ebbrezza, si stordisce nelle irresistibili gioie dell’amore? Persino le nostre stesse leggi, queste algide7 pedanti, si lasciano ammorbidire e sospendono la pena”. “Questa è tutt’altra cosa”, replicò Albert, “in quanto un uomo, travolto dalle passioni, perde ogni capacità di ragionare e va considerato alla stregua di un ubriaco 50 o di un folle”. “Ah, voi gente assennata!”, sbottai sorridendo. “Passione! Ubriachezza! Follia! Ve ne state così impassibili, così incuranti di tutto, voi persone perbene! Rimproverate l’ubriaco, prendete in giro il pazzo, passate davanti a loro come il sacerdote e, come il fariseo8, ringraziate Dio perché non vi ha fatto simili a loro. Io mi sono ubriacato 55 più di una volta, le mie passioni non erano mai lontane dalla follia; due cose di cui non mi pento, perché nella mia pochezza ho imparato a capire che tutti gli uomini eccezionali, che hanno compiuto qualcosa di grande, qualcosa di temerario, sono stati considerati in ogni epoca ubriachi e pazzi. Ma anche nella vita quotidiana è insopportabile sentir dire, ogni volta che qualcuno è riuscito a compiere un’azione 50 libera, nobile, inattesa: ‘Quest’uomo è ubriaco, è pazzo! Vergogna a voi, equilibrati! Vergogna a voi, assennati!’”. “Ecco altre tue fissazioni”, disse Albert, “tu esageri in tutto, e almeno in questo caso hai certamente torto, dato che paragoni il suicidio, perché è di questo che stiamo parlando, alle grandi imprese: ma esso non può essere considerato nient’altro che una 65 debolezza. Infatti è certamente più facile morire che sopportare una vita di sofferenze”. Ero sul punto di troncare il discorso. Non c’è infatti nient’altro che mi faccia uscire dai gangheri, che trovarmi di fronte qualcuno armato di insulsi luoghi comuni, mentre io parlo a cuore aperto. Tuttavia mi dominai, perché avevo già sentito spesso la medesima cosa e ancor più spesso mi aveva sdegnato; replicai con una certa ani70 mosità: “Tu la chiami debolezza? Ti prego, non lasciarti ingannare dall’apparenza. 30

3 Che razza di gente… sbagliato: Werther utilizza la seconda persona plurale, accomunando Albert ai benpensanti e superficiali borghesi, da cui si sente completamente diverso, ed esprime il suo fastidio perché Albert ha pronunciato un giudizio sul suicidio senza considerare le situa-

zioni disperate che possono condurre a tale gesto. 4 reconditi: nascosti, segreti. 5 si doveva necessariamente verificare: Werther crede che in certe condizioni l’individuo non possa evitare di soccombere agli effetti devastanti delle passioni.

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6 riprovevoli: biasimevoli. 7 algide: fredde. 8 il fariseo: qui sta per “ipocrita”. Aderenti a un movimento religioso ebraico, i farisei erano particolarmente rigorosi nell’osservanza dei rituali e della legge; nei Vangeli se ne condanna l’eccessivo formalismo.


Un popolo che geme sotto il giogo di un tiranno, lo puoi forse chiamare debole se alla fine si ribella e spezza le sue catene? Un uomo il quale, in preda allo spavento di fronte al fuoco che ha invaso la sua casa, sente le forze moltiplicarsi e riesce a sollevare facilmente certi pesi, che in situazioni normali sarebbe in grado di muovere 75 appena; un uomo il quale nel furore dell’offesa subita, da solo ne affronta sei e li vince; questo tu lo chiameresti debole9? E dunque, mio caro, se lo sforzo è potenza, perché mai lo sforzo supremo dovrebbe essere il contrario?” Albert mi guardò e disse: “Non avertene a male, ma gli esempi che porti mi sembrano del tutto fuori luogo”. 80 “Può darsi”, risposi; “mi è già stato rimproverato parecchie volte che il mio modo di ragionare è spesso privo di logica. Vediamo allora se possiamo immaginarci in altro modo quale deve essere lo stato d’animo di un uomo che decide di gettar via il fardello della vita, di solito peraltro così gradito. Infatti possiamo parlare di una cosa soltanto se la condividiamo profondamente. La natura umana”, continuai, 85 “ha i suoi limiti: può sopportare fino a un certo punto gioia, sofferenza, dolore, ma soccombe non appena si oltrepassa la misura. Qui non si tratta di stabilire se un uomo è debole o è forte, ma se è in grado di tollerare l’estremo peso della sua sofferenza, sia morale che fisica. Secondo me è tanto strano dare del vigliacco all’uomo che si toglie la vita, quanto sarebbe assurdo dare del codardo a colui che 90 muore di febbre maligna”. “Paradossale! Davvero paradossale!” esclamò Albert. “Non quanto pensi tu”, ribattei, “ammetterai che definiamo mortale una malattia, nel caso che il nostro fisico subisca una tale aggressione, che le sue energie in parte sono consumate e in parte fuori uso, per cui esso non può più riprendersi né è capace di ripristinare il corso 95 normale della vita con una felice rivoluzione10. Ora, mio caro, applichiamo questo ragionamento all’animo. Considera l’uomo nella sua limitatezza, come le impressioni agiscano su di lui, come le idee si consolidino in lui, finché una passione travolgente lo priva di ogni serena capacità di riflessione e lo distrugge. 100

Invano l’uomo equilibrato e ragionevole cerca di capire lo stato dell’infelice, invano gli rivolge la parola, proprio come fa al capezzale dell’ammalato l’uomo sano, che non gli può trasmettere neanche una minima parte delle proprie forze”. Ad Albert questi discorsi suonavano troppo generici.

[Werther ricorda ad Albert il caso di una ragazza, suicida dopo essere stata abban105 donata dall’amante.] “Guai a colui che, assistendo a una cosa simile, dirà: ‘Che sciocca! Se avesse atteso e lasciato fare al tempo, avrebbe placato la propria disperazione e avrebbe trovato qualcun altro per consolarla’. Sarebbe come se uno dicesse: ‘Quel pazzo è morto di febbre. Se avesse aspettato finché le forze gli fossero tornate, finché i suoi umori 110 fossero migliorati11 e il fermento del sangue si fosse calmato, sarebbe andato tutto bene ed oggi egli sarebbe ancora in vita!’”. 9 Un popolo… debole: Werther cita casi in cui gli individui sono spinti ad agire da intense passioni.

10 felice rivoluzione: positivo cambia-

di salute fosse migliorato.

mento. 11 i suoi umori… migliorati: il suo stato

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Albert, che non aveva trovato calzante nemmeno questo paragone, mosse ancora qualche obiezione e fra l’altro osservò che avevo citato l’esempio di una ragazza semplice, ma che non riusciva a capire come si sarebbe potuto scusare un uomo 115 intelligente, di ampie vedute, capace di una visione più complessa e interdipendente delle cose. “Amico mio” esclamai allora, “l’uomo è uomo, e quel po’ di intelligenza che può avere, serve poco o niente, quando divampa la passione, e ci si sente angosciati dai limiti della natura umana. Anzi... ma ne riparleremo un’altra volta”, dissi, e presi il cappello. 120 Come mi sentivo il cuore gonfio! Ci separammo senza esserci capiti. Ma, d’altra parte, in questo mondo, è così difficile intendersi.

Analisi del testo Una lettera “pericolosa” Anche al lettore odierno appare subito evidente come la lettera in cui «Werther mette apertamente in discussione alcuni pilastri della visione del mondo della società dominante» (Manacorda) sia potenzialmente “pericolosa”. L’esaltazione del suicidio – tanto più in quanto il romanzo (omettendo le risposte dell’amico Wilhelm) dà rilievo alla prospettiva del protagonista senza contraddittorio – può esercitare sui lettori una suggestione più profonda che non il racconto stesso dell’atto. Il lettore qui è come “invitato” a fare proprie le idee del protagonista e a condividerne lo spirito pessimistico e autodistruttivo. Oltre a questo, nella lettera, provocatoriamente, e in certe situazioni particolari, trovano giustificazione reati (come il furto) e comportamenti comunemente allora considerati immorali (i rapporti amorosi fuori dal matrimonio) o folli (l’omicidio per gelosia), alla luce della convinzione, più volte affermata nelle opere goethiane, del valore relativo dei giudizi morali. Non stupisce perciò che vari editori del tempo censurassero la lettera.

La contrapposizione tra Werther e Albert Nel brano si scontrano due personalità e due sistemi di valori: il pur giovane Albert ha già fatto proprie le prerogative dell’adulto equilibrato e maturo, l’autocontrollo, la razionalità, il dominio di sé. Werther invece preferisce essere considerato eccessivo e folle, pur di vivere fino in fondo le emozioni della giovinezza. La piatta mediocrità borghese gli fa orrore, e a essa contrappone la forza delle passioni e l’autenticità dei sentimenti. Ne deriva anche l’opposta valutazione del suicidio: chi lo mette in atto, per Albert è un debole, per Werther è una persona le cui emozioni sono così intense e travolgenti da sopraffare ogni resistenza.

La solitudine di Werther L’episodio segna un passo in avanti nel crescente isolamento di Werther, che nella sua geniale eccezionalità non può essere compreso dal mondo piatto e mediocre che lo circonda. Sebbene i suoi ragionamenti non siano condivisibili – e l’autore stesso ci presenti il personaggio come in preda a un’irrefrenabile esaltazione – non può certo essergli d’aiuto l’eccessivamente pacato e conformista Albert, che parla con freddezza e distacco del suicidio, senza cogliere la richiesta d’aiuto dell’amico, il suo bisogno di comunicare con lui in modo vero e profondo.

Due amici che non possono comprendersi Albert non chiede a Werther perché si sia puntato la pistola alla fronte, perché sia così sofferente, agitato, come febbricitante. Con grande perspicacia psicologica, Goethe fa comprendere che un giovane in crisi come Werther ha bisogno più di ogni altra cosa di sentirsi capito. Lo spezzarsi della comunicazione tra i due è espresso da una reticenza: Werther, che stava spiegando come una passione straordinaria possa travolgere un individuo, rendendolo incapace di ragionare, al momento di parlare di sé si interrompe senza concludere la frase («Anzi… ma ne riparleremo un’altra volta»), e scrive con amarezza: «Ci separammo senza esserci capiti». Se dal punto di vista razionale Albert probabilmente ha ragione, tuttavia, per la sua scarsa attitudine alla comprensione e all’empatia, non si è dimostrato l’amico che avrebbe potuto tendere una mano a Werther e, forse, salvarlo.

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Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

SINTESI 1. Presenta in sintesi il contenuto del testo (max 10 righe). COMPRENSIONE 2. In seguito a quale episodio raccontato da Albert ha inizio il lungo colloquio tra i due? 3. Quali sono le cause del suicidio, secondo Albert? e secondo Werther? ANALISI 4. Evidenzia le frasi in cui Werther esprime la sua insofferenza verso la società borghese e spiega quali valori siano da lui respinti. 5. Quale giudizio contrastante mostrano i due personaggi nei riguardi della follia? STILE 6. A differenza delle frasi di Albert, quelle di Werther sono costellate di esclamativi e interrogativi. Per quale ragione?

Interpretare LEGGERE LE EMOZIONI

SCRITTURA 7. Pensi che Albert avrebbe potuto rispondere a Werther in modo migliore? Che cosa avrebbe potuto dirgli secondo te? Motiva la tua risposta in circa 15 righe. 8. Per quali ragioni è possibile affermare che il modo di sentire di Werther è anticonformistico? Argomenta con opportuni riferimenti al testo. (max. 15 righe) ESPOSIZIONE ORALE 9. In un intervento orale di massimo 5 minuti, confronta le ragioni di Albert e quelle di Werther, e spiega quali, fra di esse, ti sembrano condivisibili e quali no, e per quali ragioni.

3 Dall’autodistruzione di Werther alla formazione di Wilhelm Meister

Il superamento del “wertherismo” Al centro del Werther si pone la figura di un giovane dalle enormi potenzialità, ma incapace di metterle a frutto, tanto da essere annientato dall’eccesso delle sue doti, delle sue aspirazioni e soprattutto dall’abbandono a una passione funesta. Tutte le opere di Goethe successive a questa sua prima costituiscono, come osserva il filosofo Vittorio Mathieu, una risposta ai problemi esistenziali aperti dal romanzo giovanile. I romanzi di Wilhel Meister Goethe supera la pericolosa identificazione nel personaggio-modello di Werther nella vicenda di Wilhelm Meister, protagonista di un “romanzo di formazione” in cui, dopo varie vicissitudini, il personaggio giunge a inserirsi positivamente nel mondo: ogni esperienza, anche negativa, diventa una tappa utile nel suo “apprendistato” alla vita (➜ T6 OL). I romanzi dedicati a Wilhelm Meister sono in realtà tre: il primo, giovanile, La vocazione teatrale di Wilhelm Meister, viene interrotto dall’autore (sarà pubblicato postumo soltanto nel 1910); il secondo (il più importante e più celebre) riprende il primo, completandolo, e viene pubblicato da Goethe, con il titolo Wilhelm Meister. Gli anni dell’apprendistato, tra il 1795 e il 1796; seguì una terza parte, pubblicata nel 1829, Gli anni di peregrinazione di Wilhelm Meister. La vicenda Wilhelm Meister è figlio di un commerciante che vorrebbe avviarlo alla sua stessa attività; ma fin dall’infanzia il giovane scopre la sua «vocazione teatrale», e perciò, inviato dal padre in viaggio d’affari, preferisce unirsi a una compagnia di attori. Questi però lo deludono perché, interessati a un facile guadagno, non condividono il suo ideale dell’arte drammatica: illuminare e educare il popolo tedesco. La compagnia di attori viene poi ospitata nel palazzo di un conte, dove Wilhelm

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online

Per approfondire Massoneria e Bildungsroman

incontra Jarno, che gli fa conoscere il teatro di Shakespeare. Conquistato dal grande autore inglese, e dal personaggio di Amleto, in cui riconosce un alter ego, Wilhelm lo porta sulla scena, interpretandone egli stesso la parte. In seguito, un’inattesa svolta narrativa: Jarno introduce Wilhelm nella “Società della Torre”, affine alla massoneria, attraverso cui Wilhelm crede di poter realizzare gli ideali che prima aveva perseguito attraverso il teatro, che decide perciò di abbandonare. Il giovane viene poi a sapere di essere padre: Mariane, un’attrice sua amante di un tempo, è morta lasciandogli un figlio, Felix. Ottenuto l’amore della bellissima e nobile Natalie, Wilhelm è ormai maturo e pronto per affrontare la vita. Il confronto tra Werther e Wilhelm: il valore dell’agire Come Werther (e come lo stesso Goethe), Wilhelm, di famiglia borghese, è critico verso la sua classe sociale. Con la crisi dell’Ancien régime, l’individuo non si sente più infatti indissolubilmente legato alla classe sociale di appartenenza, ma si ritiene libero di scoprire in piena autonomia il proprio posto nel mondo: un compito non sempre facile, ma che può essere realizzato se l’individuo si pone dei traguardi e si impegna per raggiungerli, anziché ripiegarsi in un vagheggiamento velleitario dei propri sogni. In questo senso, il romanzo assume caratteri scopertamente pedagogici: il protagonista da aspirante attore si trasforma in un uomo socialmente utile grazie all’ideale di una vita piena e attiva: «solo nell’attività si può giungere a indagare e a conoscere sé stessi», così nel romanzo insegna la figura di un abate.

PER APPROFONDIRE

Wilhelm Meister DATAZIONE

La vocazione teatrale di Wilhelm Meister (post., 1910) Wilhelm Meister. Gli anni dell’apprendistato (1795-96) Gli anni di peregrinazione di Wilhelm Meister (1829)

GENERE

romanzo di formazione

TEMI

tappe di un “apprendistato alla vita” del protagonista, ricerca della propria identità nel mondo, ideale di una vita piena e attiva

Le caratteristiche dei romanzi di formazione Il romanzo di formazione (in tedesco, Bildungsroman) è un genere romanzesco in cui si descrive il percorso di crescita del carattere e dell’identità di un giovane protagonista, che cerca di comprendere, attraverso le sue esperienze personali, la realtà che lo circonda e il proprio ruolo in essa. Costanti di questo genere romanzesco sono: gli errori, attraverso cui il/la protagonista impara a comprendere le situazioni da evitare e i rischi; gli incontri con persone adulte o più esperte che possano consigliarlo; il confronto con figure che rappresentano scelte diverse di vita. Dal punto di vista

online T6 Johann Wolfgang Goethe

Gli ideali educativi della «Società della Torre» Wilhelm Meister. Gli anni dell’apprendistato VIII, V

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della tecnica narrativa, in genere è preferita la focalizzazione interna sul giovane protagonista; il genere si distingue anche per una particolare percezione del tempo, caratterizzato come un tempo di crescita, in cui “l’eroe/l’eroina” è mostrato non come «compiuto e immutabile, ma come diveniente, mutante, educato dalla vita» (Bachtin). (Testi di riferimento: M. Bachtin, Estetica e romanzo, Einaudi, Torino 1979; F. Moretti, Il romanzo di formazione, Einaudi, Torino 1999)


4 Faust, una moderna “Commedia” Una lunghissima elaborazione La composizione del Faust, una delle opere chiave della cultura mondiale, accompagna tutta la vita di Goethe: vi pone mano infatti poco più che ventenne, durante il periodo dello Sturm und Drang, verso il 17721773, pubblicando la prima parte nel 1808; negli anni della vecchiaia lavora alla seconda e ultima parte dell’opera, che sarebbe poi stata pubblicata postuma nel 1832. La prima e la seconda parte del Faust sono dissimili fra loro, sono quasi due opere indipendenti: • la prima – dalle vicende più romanzesche – si incentra sul piccolo mondo borghese e sulla tragica relazione amorosa tra Faust e Margherita; • la seconda – suddivisa in cinque atti e caratterizzata da un frequente e complesso ricorso all’allegoria – si estende al grande mondo della politica, dell’economia e della storia, e costituisce un’ideale sintesi delle trasformazioni del mondo moderno. Il motivo unificante dello Streben Accomuna le due parti dell’opera il tema chiave dello Streben che caratterizza la figura di Faust: il termine tedesco, a cui è tradizionalmente associato il personaggio, designa un’inesauribile sete di conoscenza e d’azione, il desiderio di fare sempre nuove esperienze, la tensione verso il superamento dei limiti umani.

La trama Parte prima: il “piccolo mondo” Dopo il prologo in Cielo, il dramma si apre sulla disperazione di Faust, un vecchio sapiente, profondamente insoddisfatto per le conoscenze libresche in tutti i campi del sapere che fino a quel momento ha inutilmente accumulato (➜ T7 OL). Egli medita addirittura di uccidersi. Superato il momento di disperazione, mentre rientra nel suo studio, gli appare Mefistofele, il diavolo, sotto le sembianze prima di un cane nero, poi di un chierico vagante e infine di un cavaliere. I due stringono un patto: Mefistofele aiuterà con le sue arti magiche Faust a realizzare tutti i suoi desideri; Faust in cambio gli donerà la sua anima, se riuscirà almeno per un istante a sentirsi appagato. Accompagnato da Mefistofele, Faust vive diverse esperienze. Ringiovanito da una strega, seduce la giovane Margherita, di cui uccide in duello il fratello, per poi abbandonarla; la giovane sarà condannata a morte per aver ucciso il bambino nato dalla sua relazione con Faust, ma la sua anima sarà salvata dalla Grazia celeste.

Anton Kaulbach, Faust e Mefistofele, olio su tela, fine XIX-inizio XX secolo.

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Parte seconda: il “grande mondo” Nella seconda parte è accentuato il carattere allegorico delle figure di Faust e di Mefistofele e del loro “viaggio” che si iscrive in un raggio d’azione molto ampio. Divenuti consiglieri dell’imperatore, Faust e Mefistofele risolvono la crisi finanziaria del regno attraverso l’invenzione della carta moneta; disceso nel mondo archetipico delle “Madri” Faust evoca Elena di Troia, simbolo della bellezza e in seguito, grazie alle arti magiche di Mefistofele, si unisce a lei, che genererà il figlio Euforione (simbolo della fusione tra spirito classico e spirito romantico). Faust e Mefistofele aiutano quindi l’imperatore in una guerra, ottenendo in cambio una vasta terra paludosa da bonificare. Faust si accinge all’impresa con entusiastica determinazione, progettando di edificare in quei luoghi strappati al mare una società futura, dove gli uomini vivano liberi, anche se il compimento della bonifica comporta l’ingiusta sofferenza e la morte di due poveri vecchi, Filemone e Bauci. Faust dichiara che la realizzazione del suo progetto potrebbe finalmente appagarlo e fargli chiedere all’attimo che sta vivendo di fermarsi; quindi muore. La scommessa con Mefistofele sembra dunque perduta e il diavolo si appresta a impadronirsi dell’anima di Faust. Tuttavia, nonostante le colpe di cui si è macchiato, per la sua instancabile attività sempre protesa al perfezionamento (lo Streben), Faust viene salvato e la sua anima è accolta in cielo. Faust: da figura leggendaria a personaggio letterario La figura di Faust è ispirata a un personaggio realmente esistito: un astrologo e mago tedesco del Cinquecento, che dichiarava di aver stretto un patto con il demonio e perciò di essere in grado di operare straordinari incantesimi. La leggenda sul personaggio si diffonde quando, nel 1587, un anonimo scrittore tedesco pubblica la Storia del dottor Johann Faust, che ebbe grande fortuna in tutta Europa. Pochi anni dopo, nel 1592, lo scrittore inglese Christopher Marlowe elabora la prima versione letteraria della vicenda di Faust nel dramma La tragica storia del dottor Faust: il protagonista è uno studioso appassionato di ogni campo del sapere, che, conteso fra un angelo buono e un angelo cattivo, alla fine è dannato, ma pure nella sconfitta conserva una sua grandezza. Le novità introdotte da Goethe nella leggenda Goethe recupera gli elementi preesistenti della leggenda, ma la sua rappresentazione del personaggio di Faust è profondamente innovativa poiché accentua il carattere simbolico del protagonista, facendone l’emblema universale dell’uomo e della sua inesausta ricerca di conoscenza e di esperienze. Anche la figura del diavolo tentatore risulta Ary Scheffer, Faust e Margherita nel giardino, 1846 (Collezione privata).

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completamente trasformata: sebbene lo scrittore rappresenti esteriormente Mefistofele con i tratti tipici del diavolo della superstizione popolare (il piede equino e quel qualcosa di inquietante che suscita una istintiva diffidenza), nel dramma goethiano Mefistofele è una figura dotata di razionale lucidità e di una moderna ironia, che si rivela già nel prologo in Cielo, dove conversa amabilmente con Dio. Dio stesso, peraltro, gli riconosce un ruolo fondamentale: proprio perché rappresenta il Male, è necessario nell’universo ed è di sprone all’uomo, che altrimenti «si adagerebbe con piacere in un assoluto riposo» senza estrinsecare la sua grandezza, la capacità di rinnovare costantemente il mondo, quasi cooperando all’opera della creazione. Il tradizionale patto col diavolo si trasforma così in una scommessa in cui si manifesta una moderna concezione dell’uomo e del senso della vita umana (➜ T8 ). Faust alla fine sarà salvato dalla dannazione solo perché ha conservato la spinta a progredire sempre, a non appagarsi di facili piaceri. Certamente non viene giudicato secondo i parametri dell’ortodossia cristiana, che lo condannerebbe, avendo compiuto azioni gravi e addirittura delittuose. Faust, un nuovo Dante Se Faust è certamente una proiezione ideale dell’autore stesso, nel suo continuo tendere a una meta, sempre però impossibile da afferrare, è però anche una figura mitico-simbolica, che riunisce in sé i tratti dell’Ulisse dantesco, ma soprattutto quelli di Prometeo, il titano ribelle: infrangendo i limiti dello spazio e del tempo, Faust vive nel suo “viaggio” tutte le esperienze della cultura e della storia europea, rendendo il libro una summa del sapere accumulato nei secoli, quasi una moderna Divina Commedia. online T7 Johann Wolfgang Goethe

Il carcere dei libri e l’ansia della conoscenza Faust Parte prima, Notte

Un’opera “totale” e multiforme Nel libro non trovano posto solo le immagini della cultura di tutti i tempi, ma anche quelle della storia: l’economia (l’invenzione della carta moneta come simbolo del passaggio all’economia borghese e mercantile), gli orizzonti della scienza (la creazione di un homunculus, embrionale forma di vita creata attraverso trasformazioni alchemiche, teorizzata nel Cinquecento da Paracelso), la tecnica (le bonifiche dei terreni paludosi). La complessità dell’opera, che Goethe stesso definiva «incommensurabile», trova riscontro in una forma del tutto peculiare: Faust è formalmente una tragedia in versi, ma all’interno di un involucro tradizionale trova posto una incredibile commistione di generi e stili, a cui corrisponde una grande varietà metrica. Si comprende dunque perché il capolavoro di Goethe sia stato avvicinato alla Divina Commedia.

Eugène Delacroix, Faust e Mefistofele, 1827 (Londra, Collezione Wallace).

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PER APPROFONDIRE

Faust DATAZIONE

1808 prima parte; 1832 (postuma) seconda parte

GENERE

formalmente tragedia in versi, ma commistione di stili de di generi

TEMI

• rappresentazione del mondo borghese • trasformazioni sociali e culturali del mondo moderno • patto-scommessa con il diavolo • amore come forza distruttiva • Streben, “sete di conoscere e di agire”, “tensione verso il superamento dei limiti umani”

L’attualità del Faust Faust nelle rappresentazioni letterarie, teatrali e cinematografiche Il Faust, che a prima vista potrebbe sembrare un’opera inattuale, in realtà tocca temi che vanno al cuore del mondo moderno. Non sorprende perciò il gran numero di rivisitazioni del mito faustiano, dalla letteratura al teatro al cinema. In particolare, si distinguono opere che mettono in evidenza gli aspetti inquietanti del patto con il demonio: l’esempio più famoso è il Doktor Faustus di Thomas Mann, del 1947, in cui, grazie al patto demoniaco, il musicista Adrian Leverkühn ottiene un periodo di eccezionale felicità creativa ma in cambio deve rinunciare a ogni affetto umano. Rientrano nello stesso ambito tematico opere in cui il patto con il diavolo è soltanto suggerito ma in cui è chiaro l’influsso del Faust goethiano, come Il ritratto di Dorian Gray (1891) di Oscar Wilde. Altre opere si mantengono più vicine allo spirito di Goethe

Scena dal film Faust di Sokurov del 2010.

nell’assegnare a Mefistofele un ruolo non convenzionale: ne è un esempio lo straordinario romanzo Il maestro e Margherita (1966-1967) di Michail Bulgakov, in cui, nella Russia totalitaria staliniana, l’intervento di Woland (questo il nome di uno dei diavoli) apre spazi di libertà. Per quanto riguarda il teatro, in passato si riteneva che l’opera fosse più adatta alla lettura che alla rappresentazione scenica, ma tale pregiudizio è stato smentito da memorabili messe in scena teatrali, come quella di Giorgio Strehler (1988 e 1991), e, più recentemente, quella di Glauco Mauri e Roberto Sturno (2000). Anche il cinema è tornato spesso a interpretare la vicenda di Faust, e anche in quest’ambito si segnalano capolavori, dal film muto Faust di Murnau del 1926, dalle suggestive scenografie espressionistiche, a La bellezza del diavolo di René Clair (1950), fino al recente Faust di Aleksandr Sokurov (2010), di grande forza visiva. Mefistofele e Faust in una scena del film Faust diretto da Friedrich Wilhelm Murnau del 1926.

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(Testo di riferimento: P. Orvieto, Il mito di Faust. L’uomo, Dio, il diavolo, Salerno, Roma 2006)


Johann Wolfgang Goethe

T8

Il patto tra Faust e Mefistofele

LEGGERE LE EMOZIONI

Faust, Parte prima, Studio [II] J.W. Goethe, Faust e Urfaust, trad. e cura di G.V. Amoretti, Feltrinelli, Milano 1991

Mefistofele invita Faust ad abbandonare la sua solitudine di studioso, per inoltrarsi nel vasto mondo, ricercando l’azione e il piacere; promette di seguirlo e di mettersi al suo servizio. Faust trasforma il patto in una scommessa: alla morte, cederà l’anima al demonio, ma solo se si sarà pigramente abbandonato al godimento dell’attimo di piacere, rinunciando alla sua tensione romantica all’infinito.

MEFISTOFELE Questi sono i piccoli fra i miei fedeli1. Ascolta, come, maturi già, ti consiglino il piacere, e l’azione! Essi ti vogliono attirare nel vasto mondo, fuori da questa solitudine dove si irrigidiscono sensi e linfe vitali. Smettila dunque di giocare con il dolore che, come un avvoltoio, ti divora la vita! 5 Anche la peggiore compagnia susciterà in te la sensazione di essere uomo fra uomini. Con ciò non vuol dire che io pensi di ficcarti fra la canaglia. Non sono uno dei grandi della terra, tuttavia se ti vuoi unire a me ed avviarti verso la vita, mi ci adatterò volentieri e sarò tuo da questo momento. Sarò tuo compagno e, se ti accontento, sarò tuo servo, sarò tuo schiavo! 10 FAUST Ed io a che cosa devo impegnarmi in cambio di ciò? MEFISTOFELE Per questo hai parecchio tempo davanti a te. FAUST No, no! Il diavolo è un egoista e non fa, facilmente, per amor di Dio, quello che può giovare altrui. Precisami le condizioni! Un servo come te porta con sé pericoli in casa. Io voglio di qua2 obbligarmi al tuo servizio, ad un tuo cenno non 15 MEFISTOFELE riposare e non aver tregua; quando noi ci ritroveremo di là3, dovrai fare altrettanto con me. FAUST Dell’al di là mi curo poco4. Frantuma dapprima questo mondo, ne potrà poi sorgere un altro. Da questa terra sgorgano le mie gioie e questo sole illumina 20 le mie pene. Se me ne posso liberare, succeda poi quello che può e deve. Su ciò non voglio più sentire parola, se, cioè, anche nella vita futura, si ami o si odi o se, anche in quelle sfere, esista un disopra ed un disotto5. MEFISTOFELE Se tale è il tuo punto di vista, corri il risico6. Conchiudi il patto! con gioia vedrai, in questi giorni, le mie arti: ti darò quello che nessun mortale ha 25 ancora veduto. FAUST Che cosa mi vuoi dare, tu, povero diavolo! Fu mai compreso, da un tuo pari, lo spirito di un uomo nel suo alto tendere7? Ma hai, forse, cibo che non sazia? Hai rosso oro che, senza posa, simile all’argento vivo, ti scorre via fra le dita? Un gioco al quale non si vinca mai? Una ragazza che, stretta al mio seno, se l’intenda,

1 piccoli… fedeli: Faust aveva appena

5 se, cioè… disotto: Faust non si preoc-

udito un coro di spiriti, evidentemente demoni minori. 2 di qua: nel mondo terreno. 3 di là: all’inferno. 4 Dell’al di là… poco: a Faust interessa soltanto la vita terrena.

cupa di come sia l’altro mondo, perché le sue pene e la sua felicità derivano soltanto dalla vita terrena. 6 risico: rischio. 7 fu mai… tendere: è stata mai compresa, da un diavolo come te, l’aspirazione uma-

na al perfezionamento? Mefistofele non possiede la caratteristica che, secondo l’antropologia rinascimentale, è propria soltanto dell’uomo, la capacità di autodeterminarsi. “Tendere” traduce la parola chiave Streben (che nel testo tedesco è sottolineata dalla rima).

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cogli occhi, col vicino? E l’onore, la bella gioia degli dei, che svanisce come una meteora? Mostrami il frutto che marcisce prima ancor che lo si colga e gli alberi che, giornalmente, rinverdiscono8! MEFISTOFELE Un tale compito non mi spaventa. Ti posso servire simili tesori. Tuttavia, caro amico, si avvicina il tempo in cui potremo godere in pace qualche 35 cosa di buono9. FAUST Se mai mi adagerò, placato, su un letto di pigrizia, sia, per me, subito finita! Se tu, illudendomi, mi ingannerai così ch’io possa compiacermi10 di me, se tu mi potrai sedurre con piaceri, sia quello l’ultimo giorno per me! Questa scommessa offro io! 40 MEFISTOFELE Accetto! FAUST E, qua, una stretta di mano! Se dirò all’attimo: fermati dunque! sei così bello11! allora mi potrai gettare in catene12, allora andrò volentieri in rovina. Allora potrà suonare a morto la campana, allora sarai liberato dal tuo servizio. Si arresti l’orologio e cada la lancetta13 e sia finito, per me, il mio tempo14! 30

8 Ma hai… rinverdiscono: Faust ricerca piaceri che non possano appagarlo, ma lo spingano sempre a cercare oltre. L’argento vivo è il mercurio, elemento alchemico legato alla capacità della materia di passare da una forma all’altra. 9 qualche… buono: qualche piacere. Mefistofele è convinto che l’uomo, quando abbia provato un grande piacere, si

accontenti di goderne, deponendo ogni aspirazione a migliorarsi. 10 compiacermi: essere soddisfatto. 11 Se dirò… bello!: Se mi sentirò perfettamente appagato, tanto da non desiderare nulla di più. 12 mi potrai gettare… catene: l’anima di Faust apparterrà allora per sempre al demonio.

13 cada la lancetta: la lancetta potrà cadere sulle sei, nel punto più basso del suo corso, senza la spinta a proseguire verso l’alto il suo giro nel quadrante. Il tempo per Faust sarà definitivamente fermo, nell’eterna dannazione. 14 sia finito… il mio tempo: il tempo sarà diventato inutile, perché non servirà più a progredire.

Analisi del testo La ricerca di un continuo perfezionamento Il testo mette a fuoco il senso della scommessa di Faust. A Faust interessa non l’aldilà, ma soltanto la vita terrena, che egli vuole vivere pienamente (rr. 18-22). L’eccezionalità di Faust si rivela già nella sua richiesta: non invoca, come l’uomo comune e privo di spirito, piaceri che lo possano saziare, legandolo per sempre a un’esistenza ripetitiva, ma piaceri che gli sfuggano, stimolandolo a una continua ricerca, una costante tensione al perfezionamento, in tedesco Streben, parola chiave del testo.

Mefistofele e Faust: le due facce dello spirito umano Rappresentando un principio scettico, di negazione, Mefistofele non è in grado di concepire la spinta umana a superarsi, e perciò, all’inizio della tragedia, dice a Dio: «Il piccolo dio del mondo (cioè l’uomo) è sempre tale e quale e sempre strambo come al primo giorno. Vivrebbe un po’ meglio, se tu non gli avessi dato una parvenza di luce del cielo. La chiama ragione e se ne serve unicamente per essere più bestiale di ogni altra bestia». Ma la sfiducia nell’uomo dichiarata da Mefistofele all’inizio della tragedia è espressa anche da Faust, che, angosciato dall’insufficienza del proprio sapere, si sente più simile a un essere infimo che a Dio: «Non somiglio agli Dei! Lo sento troppo profondamente! Al verme assomiglio che fruga nella polvere». Proprio nella sfida con Mefistofele Faust ritrova fiducia nelle illimitate potenzialità dell’uomo. La scommessa con Mefistofele, dunque, è per Faust anche una scommessa con sé stesso, sicché nelle due figure di Mefistofele e di Faust si può vedere uno sdoppiamento dello spirito umano: da una parte la tendenza all’autocritica e alla sfiducia, dall’altra la volontà di mettersi alla prova, con la convinzione di poter superare ogni ostacolo: due tendenze opposte, ma entrambe necessarie, come Goethe vuole mostrare, perché l’uomo dia il meglio di sé e possa raggiungere la pienezza dell’essere.

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Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

COMPRENSIONE 1. In che senso Faust e Mefistofele possono rappresentare due parti diverse dell’animo umano? ANALISI 2. Indica i piaceri richiesti da Faust, tali da spronare l’uomo senza la speranza di essere appagati. 3. Confronta le idee sull’uomo di Faust e quelle di Mefistofele. In cosa differiscono? Quale ritieni più veritiera e perché?

Interpretare

LEGGERE LE EMOZIONI

SCRITTURA 4. Alla luce del passo proposto, indica quale visione accomuna il Faust ad altre opere di Goethe e rifletti sugli elementi di possibile modernità del protagonista. 5. Come evidenziato nell’Analisi del testo, il passo dimostra come l’uomo oscilli tra la tendenza all’autocritica e alla sfiducia e la convinzione di potere superare ogni ostacolo, mettendosi alla prova. Ti riconosci nel pensiero di Goethe? Credi che le due componenti siano da collocare sul medesimo piano o che nella nostra vita l’una debba prevalere sull’altra? Esponi le tue riflessioni in un testo di massimo 20 righe.

online T9 Johann Wolfgang Goethe

L’utopia di Faust Faust, Parte seconda, atto quinto

5 Natura e civiltà: il romanzo alchemico delle Affinità elettive Il rapporto tra natura e civiltà nella visione di Goethe Natura e civiltà, come si può riscontrare in tutte le sue opere, sono i due poli inseparabili nella visione di Goethe. La coscienza pone l’uomo al grado più elevato dell’essere, ma questi non deve mai dimenticare di essere anche natura. È questo il tema di una delle opere di Goethe più suggestive, ma anche misteriosa e di difficile interpretazione, il romanzo Le affinità elettive, pubblicato nel 1809. Le “affinità elettive” della chimica Il titolo del romanzo si riferisce all’affinità tra fenomeni della natura e manifestazioni dell’animo: per una legge della chimica (già rilevata dagli antichi alchimisti) due elementi uniti in un composto, se messi a contatto con altri elementi con maggiore affinità chimica, si separano per formare nuovi e più stabili aggregati. La vicenda del romanzo Nel romanzo è ciò che accade ai non più giovani coniugi Edoardo e Carlotta, la cui unione, apparentemente felice, è in realtà instabile, perché i due si sono sposati quando erano ormai spente l’attrazione e la passione che li avevano legati nella giovinezza. La debolezza dell’unione si rivela quando i due, che si erano ritirati in una loro proprietà di campagna, vi ospitano il Capitano, un amico di Edoardo, e Ottilia, la giovanissima nipote di Carlotta. Razionalità come civiltà / passione come natura Le “affinità elettive” cominciano a mostrare la loro forza: Carlotta e il Capitano, i due caratteri più razionali, si scoprono sempre più in sintonia; ancora più dirompente, perché non frenata dalla ragione, è la passione fra Edoardo e Ottilia, entrambi irrazionali, uno per immaturità ed egoismo, l’altra per inesperienza. Ma, secondo l’anticonformistico sistema etico goethiano, la natura non risparmia chi è nella falsità e nell’errore: da un rapporto fra Edoardo e Carlotta, “falso” perché entrambi avevano fantasticato di giacere con la persona amata, nasce uno strano bambino, assomigliante alle immagini della loro fantasticheria, con gli occhi di Ottilia e le fattezze del Capitano.

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Da questo momento la situazione precipita: il bambino, «creatura della menzogna» (W. Benjamin), annega nel lago, per colpa involontaria di Ottilia, e la giovane, per il rimorso e l’impossibilità di vincere la passione per Edoardo, si lascia morire di anoressia; l’amante non le sopravvive, e Carlotta li fa seppellire insieme, uniti nella morte, non avendo potuto esserlo nella vita. Il simbolismo del romanzo tra natura e civiltà Il fascino del romanzo è nelle sue atmosfere simboliche e nel rispecchiamento fra situazioni psicologiche ed elementi naturali. Inoltre, tutta la narrazione è percorsa dal senso dell’immensa potenza della natura e insieme dallo sforzo dell’uomo di non abbandonarvisi passivamente, ma di imporsi una scelta etica. Ma l’equilibrio instabile tra uomo e natura – che nel Faust vede l’uomo temporaneamente vincitore – qui, in una visione più pessimistica, lo mostra soccombente di fronte al destino di distruzione e di morte che domina il tutto.

Le affinità elettive DATAZIONE

1809

GENERE

romanzo

TEMI

affinità tra fenomeni della natura e sentimenti dell’animo; razionalità come civiltà/passione come natura

Fissare i concetti Tra Neoclassicismo e Preromanticismo Il Neoclassicismo 1. Quando inizia ad affermarsi il gusto neoclassico? Da cosa fu favorita la sua diffusione? 2. Quale visione estetica viene promossa da Winckelmann? 3. Quale atteggiamento mostra Ugo Foscolo nei confronti del Neoclassicismo? Vincenzo Monti: la fedeltà al classicismo 4. Chi fu il maggior esponente del Neoclassicismo italiano in ambito letterario? Quali peculiarità caratterizza la “fedeltà” al gusto “neoclassico” di questo poeta? Il Preromanticismo 5. Cosa si intende con il termine “preromanticismo”? 6. Quali tematiche romantiche vengono anticipate dagli Stürmer? 7. Come si declina in Inghilterra la tendenza preromantica? Goethe, un genio poliedrico 8. Quale fu la formazione di Goethe? 9. Da che cosa venne influenzata la sua formazione letteraria? 10. Perché il Werther ebbe tanta influenza su tutta una generazione di giovani lettori? 11. In quale clima culturale nacque? 12. Per quali ragioni è possibile considerare Werther il primo eroe romantico della letteratura europea? 13. Qual è il tema centrale dei romanzi dedicati a Wilhelm Meister? 14. Qual è l’utilità delle esperienze negative per l’“apprendistato” alla vita del protagonista? 15. Che tipo di opera letteraria è il Faust? 16. Quali sono le caratteristiche del personaggio di Faust? 17. A cosa allude il titolo del romanzo? 18. In cosa consiste il fascino del romanzo?

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Ottocento Tra Neoclassicismo e Preromanticismo

Sintesi con audiolettura

1 Il Neoclassicismo

Dalla seconda metà del Settecento e, in particolare, durante l’età napoleonica, sulla scia della forte suggestione suscitata dagli scavi archeologici a Ercolano e a Pompei e sotto la spinta della politica culturale dei papi, si diffonde in Europa un orientamento del gusto noto come Neoclassicismo, per distinguerlo dal classicismo rinascimentale. Il Neoclassicismo interessa prima l’ambito artistico- architettonico e quindi la letteratura, ma ne sono influenzati anche la moda, l’arredamento, l’oggettistica, e costituisce un vero e proprio fenomeno di costume. Il culto dell’antico si afferma inizialmente soprattutto a Roma, dove operano, tra gli altri, lo scultore Antonio Canova, il letterato Vincenzo Monti e l’archeologo tedesco Winckelmann (1717-1768), la cui Storia dell’arte nell’antichità fonda l’estetica neoclassica. Winckelmann propone di fatto il principio di imitazione, perché considera l’arte statuaria della Grecia classica come un modello assoluto di perfezione: la bellezza ideale e universale viene identificata nell’armonia, nell’equilibrio e nel perfetto controllo delle passioni. In ambito letterario il Neoclassicismo comporta l’impiego di uno stile classicheggiante che predilige soggetti e immagini mitologiche, come risulta evidente nell’opera di Vincenzo Monti, il principale rappresentante del Neoclassicismo italiano. Riconducibile al gusto neoclassico è anche l’opera di Foscolo, fondata su una concezione della poesia che va alla ricerca del bello e dell’armonia, anche se nel poeta si avverte già una sensibilità romantica. In ambito europeo Neoclassicismo e Romanticismo coesistono cronologicamente.

2 Vincenzo Monti: la fedeltà al classicismo

Il più rappresentativo esponente del Neoclassicismo italiano è Vincenzo Monti (1754-1828). La sua opera si caratterizza, in linea con la politica culturale del papato, per la fedeltà al gusto neoclassico, che si traduce nella scelta di un linguaggio alto e classicheggiante e nell’uso di un repertorio mitologico, finalizzato alla nobilitazione della realtà. Capolavoro di Monti è la traduzione dell’Iliade in endecasillabi sciolti (1811).

3 Il Preromanticismo

In Germania: il gruppo dello Sturm und Drang Il Romanticismo, i cui princìpi basilari si devono ai romantici tedeschi (in particolare ai fratelli Schlegel, al poeta Novalis e ai filosofi Fichte e Schelling) è anticipato, in Germania e in Inghilterra, da tendenze del gusto che si è soliti definire Preromanticismo. In Germania tali tendenze sono rappresentate dallo Sturm und Drang (1770-1785), letteralmente “Tempesta e assalto”, un gruppo di cui fanno parte nella giovinezza anche Schiller e Goethe. Gli Stürmer anticipano il tema romantico della ribellione, della sfida titanica, dell’esaltazione del valore delle passioni contro le convenzioni sociali, dell’esaltazione della poesia popolare, della distinzione fra poesia d’arte (Kunstpoesie) e poesia di natura (Naturpoesie).

Sintesi Ottocento

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In Inghilterra: la poesia sepolcrale e i Canti di Ossian Anche in Inghilterra si manifestano in ambito artistico-letterario orientamenti che anticipano il Romanticismo: nel 1757 viene teorizzata da Edmund Burke l’«estetica del sublime», che lega il “sublime” alle emozioni forti suscitate da spettacoli naturali grandiosi e da scenari tempestosi e notturni. Esempio di questa nuova sensibilità è la poesia “sepolcrale”, un filone poetico incentrato sul tema della morte, su malinconiche rappresentazioni naturali, i cui esponenti principali sono Edward Young e Thomas Gray. Ma la poesia che esercita una grande influenza sulle letterature europee è soprattutto la cosiddetta “poesia ossianica” che deve il suo nome ai Canti di Ossian, rielaborazione di canti epici popolari a opera di James Macpherson che li attribuisce invece a un cantore antico, Ossian appunto. Tradotti da Melchiorre Cesarotti, i Canti di Ossian diffondono anche in Italia il gusto per le atmosfere cupe, tenebrose, per paesaggi selvaggi.

4 Goethe: un genio poliedrico

Una vita in multiforme e instancabile attività Goethe nasce a Francoforte nel 1749 da una ricca famiglia borghese. Sotto l’influenza del padre riceve un’istruzione in più campi del sapere (musica, discipline umanistiche, disegno, lingue moderne) e intraprende la carriera giuridica. La sua formazione letteraria è influenzata dal filosofo Herder, teorico del movimento dello Sturm und Drang. I dolori del giovane Werther: il manifesto della sensibilità preromantica Nel 1774, nel periodo in cui aderisce allo Sturm und Drang, Goethe pubblica la sua prima opera che gli dà fama grazie alla rappresentazione del disagio delle giovani generazioni, I dolori del giovane Werther, il cui protagonista già presenta le caratteristiche del futuro eroe romantico: l’esasperata passionalità, l’anticonformismo, il disadattamento sfociante nel suicidio. Nel libro è preromantica anche la rappresentazione della natura, in sintonia con lo stato d’animo del protagonista: prima idillica, poi tempestosa e distruttiva. Dall’autodistruzione di Werther alla formazione di Wilhelm Meister Dopo aver prefigurato la ribellione romantica con il Werther, un giovane dalle enormi potenzialità, ma incapace di metterle a frutto, Goethe affronta ancora il problema dell’inserimento e del ruolo dell’individuo nella società borghese, esordendo nel nuovo genere letterario del romanzo di formazione con il personaggio di Wilhelm Meister (al centro di tre diversi romanzi), che, dopo aver seguito la propria passione per il teatro, nonostante la volontà paterna di farne un commerciante, dopo varie vicissitudini, scopre la sua vera vocazione, la professione di medico. Il romanzo assume caratteri pedagogici: Wilhelm nel suo percorso di formazione si trasforma in un uomo socialmente utile, grazie all’ideale di una vita piena e attiva.

558 Ottocento 13 Tra Neoclassicismo e Preromanticismo


Faust, una moderna commedia Il tema del rapporto tra l’individuo d’eccezione e il mondo borghese moderno è affrontato anche nel Faust, complessa opera teatrale suddivisa in due parti, che accompagna tutta la vita di Goethe (la prima parte viene pubblicata nel 1808, la seconda nel 1832). Egli riprende la figura leggendaria di un mago rinascimentale che avrebbe ceduto l’anima al demonio in cambio del sapere, facendone l’emblema dell’uomo moderno, sempre impegnato a superare i propri limiti. La prima parte si concentra sull’amore tragico tra Faust e Margherita, la seconda estende le riflessioni sul mondo dell’economia, della politica e della storia. Motivo unificante tra le due parti è quello dello Streben, che si identifica con l’inesauribile sete di conoscenza che caratterizza Faust. Il protagonista, accompagnato dal diavolo Mefistofele, vive una serie di stupefacenti avventure. A differenza del Faust della leggenda medioevale, dannato a causa del patto con il demonio, il personaggio goethiano è salvato dalla dannazione perché ha conservato la spinta a progredire sempre, a non appagarsi di facili piaceri. Le affinità elettive L’anticonformismo che caratterizza tutte le opere di Goethe emerge anche nel romanzo della sua tarda età, Le affinità elettive (1809), fondato su una suggestiva analogia fra i legami chimici che si stabiliscono tra elementi “affini”, tendenti a legarsi in composti stabili, e le anime “gemelle”, spinte a unirsi da una fatale passione, contro cui nulla possono le convenzioni borghesi e gli ostacoli di un vincolo matrimoniale.

Zona Competenze Esposizione orale

1. L’avvento del Romanticismo è preceduto da alcuni movimenti e tendenze che ne anticipano temi, sensibilità e modalità espressive. Individuali e presentali in un intervento orale di circa 8 minuti. 2. Illustra gli elementi di modernità presenti nelle opere di Goethe, ricorrendo a citazioni dai suoi testi (intervento orale di 3 minuti).

Competenza digitale

3. Dopo aver letto la parte del capitolo dedicata al Neoclassicismo e dopo aver preso visione della Gallery sullo “stile neoclassico” proposta online (PAG. 528), realizza un PowerPoint per presentare alla classe le tue riflessioni sul gusto neoclassico in arte e letteratura. 4. Prepara una presentazione multimediale in cui spieghi il concetto di Bildung (formazione) secondo Goethe, e individui i rapporti con le diverse opere dell’autore.

Scrittura argomentativa

5. Scrivi un testo argomentativo in cui evidenzi quale idea di intellettuale emerge dalle opere di Goethe (max. 10 righe).

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Verso l’esame di Stato Tipologia A Analisi del testo

Johann Wolfgang Goethe

Due visioni del mondo I dolori del giovane Werther, lettera del 29 giugno J.W. Goethe, I dolori del giovane Werther, a cura di S. Marini, Principato, Milano 1995

L’altro ieri è venuto dalla città il medico per visitare l’intendente1 e mi ha trovato disteso per terra, in mezzo ai fratellini di Lotte, proprio mentre alcuni mi saltavano addosso, altri mi prendevano in giro e io li stuzzicavo con pizzicotti, facendo un gran baccano. Il dottore, una marionetta tutta dogmi2, che mentre 5 parla si aggiusta la piega ai polsini e tira fuori una gala3 interminabile, trovò indecoroso questo comportamento per una persona colta; me ne accorsi da come storceva il naso. Io però non mi scomposi, gli lasciai fare i suoi serissimi discorsi e mi misi a ricostruire il castello di carte che i bambini avevano demolito. Poi se n’è andato in città a raccontare che i figli dell’intendente erano 10 già abbastanza maleducati per conto loro e che questo Werther avrebbe finito per rovinarli del tutto. Sì, caro Wilhelm, i bambini sono su questa terra le creature più vicine al mio cuore. Quando li osservo e scorgo in piccolo i germi di tutte le virtù e di tutta la forza di cui un giorno essi avranno bisogno; quando vedo nella loro caparbietà 15 la futura costanza e fermezza di carattere; nella vivacità, il buonumore e la facilità per destreggiarsi fra i pericoli della vita, e tutto questo nella spontaneità e integrità, allora ripeto a me stesso di continuo le auree parole del Maestro dell’uomo: “Se non diventerete come uno di loro4!”. Eppure, carissimo, questi che sono nostri pari, che dovremmo considerare come modelli, li trattiamo co20 me subalterni. Non devono avere una volontà propria! Perché noi forse non la abbiamo? E dove sta il privilegio? Nell’essere adulti e avere più esperienza? Oh, Signore del cielo, Tu vedi soltanto bambini vecchi e bambini veri, nient’altro; quelli nei quali più ti compiaci, già da tempo lo ha annunciato Tuo Figlio. Ma la gente, pur credendo in Lui, non Lo ascolta – anche questa è una vecchia 25 storia! – e cresce i figli a propria immagine e somiglianza e... Addio, Wilhelm! Non voglio vaneggiare oltre sull’argomento.

1 intendente: funzionario pubblico; è il padre di Lotte. 2 dogmi: principi preconcetti.

560 Ottocento 13 Tra Neoclassicismo e Preromanticismo

3 gala: guarnizione di trina o di stoffa increspata. 4 le auree… loro: riferimento al

Vangelo (Mt 18, 3).


Comprensione e analisi

Puoi rispondere punto per punto oppure costruire un unico discorso che comprenda le risposte a tutte le domande proposte. 1. Chi è il protagonista? A chi si rivolge? 2. Riassumi i fatti narrati nella lettera. 3. Sintetizza le idee di Werther a proposito del modo di trattare i bambini. 4. Quale significato può avere, secondo te, la circostanza che il medico venga dalla città? 5. Spiega il senso della metafora riferita al medico, definito una «marionetta tutta dogmi». 6. In che modo il passo mette in luce l’anticonformismo di Werther?

Interpretare

Nel brano si contrappongono due visioni del mondo: da un lato quella rigida e convenzionale del medico, dall’altro quella passionale, spontanea, insofferente delle norme e dei vincoli, di Werther. Sulla base delle tue conoscenze del Werther e di altre opere di Goethe, rifletti sul tema del rapporto tra individuo e società nella sensibilità e nella cultura dell’età in cui visse e operò lo scrittore. Puoi anche fare riferimento ad altri autori o testi che conosci.

Verso l’esame di Stato Tipologia C  Riflessione critica di carattere espositivo-argomentativo su tematiche di attualità J.W. Goethe, I dolori del giovane Werther, a cura di S. Marini, Principato, Milano 1995

8 gennaio 1772 Che razza di gente è quella il cui animo è tutto assorbito dal cerimoniale, che per anni non fa altro che pensare e agire all’unico scopo di conquistare un posto più in vista a tavola? E non è da dire che non abbia altro da fare: anzi, 5 il lavoro si accumula, perché per il disbrigo di questi piccoli traffici non riesce a portare a termine affari ben più importanti. La settimana scorsa, durante una gita in slitta, vi fu una discussione, che rovinò tutto il divertimento. Sciocchi sono quelli che non vedono come non sia la posizione a contare, e come anzi chi occupa il primo posto raramente riveste il ruolo più importante! 10 Quanti re sono governati dal proprio ministro, quanti ministri dal proprio segretario! E allora, chi è il primo? Credo colui che sa guardare al di sopra degli altri, che ha tanto potere o astuzia da far confluire le energie e le passioni altrui verso la realizzazione dei suoi piani.

Nel Werther Goethe mostra la difficoltà per un giovane di vivere in un mondo dominato da idee per lui inaccettabili (in particolare, per Werther, il conformismo borghese e le barriere sociali tra nobiltà e borghesia); mentre nel Wilhelm Meister, grazie all’ideale massonico di un’élite senza distinzione di classe, capace di rendere migliore l’umanità, tali difficoltà sono superate. Facendo un confronto con il mondo odierno, ritieni che oggi esistano modi di pensare o stereotipi sociali di ostacolo per i giovani? Che cosa, secondo te, aiuterebbe a superarli? Sviluppa sul tema una tua riflessione critica, facendo riferimento a tue esperienze personali e di studio. Puoi articolare il tuo elaborato in paragrafi opportunamente titolati e presentarlo con un titolo complessivo che ne esprima sinteticamente il contenuto.

Verso l’esame di Stato 4 561


Ottocento Quattrocento e Cinquecento CAPITOLO

14 Ugo Foscolo LEZIONE IN POWERPOINT

L’uomo Foscolo visto dalla poetessa Angela Veronese... Uno dei ritratti di Foscolo più vivi e “parlanti” – e probabilmente più vicini alla realtà – è quello di una giovane poetessa veneta, Angela Veronese, che lo descrive senza alcuna concessione a una ritrattistica di tipo “monumentale”, raffigurandolo non solo nell’aspetto fisico, ma anche nel comportamento disinvolto ed espansivo. Il suo vestito di panno grigio oscuro, senza alcun segno di moda, li suoi capegli rossi radati1 come quelli d’uno schiavo, il suo viso rubicondo tinto non so se dal sole oppur dalla natura, li suoi vivacissimi occhi azzurri seminascosi sotto le lunghe palpebre, le sue labbra grosse come quelle d’un Etiope, la sua sonora ed ululante2 voce, mel dipinsero a prima vista per tutt’altro che per elegante poeta. Egli appena mi vide s’alzò da sedere dicendo: È questa la Saffo campestre3? È molto ragazza; si vede dai suoi occhi ch’è vera poetessa. – Il suo complimento mi fece ridere. – Gran bei denti – esclamò egli – ditemi alcuni dei vostri versi. Dietro a queste lodi non mi sembrò più tanto brutto; mi fece coraggio e gli recitai un mio idilio pastorale, ch’egli applaudì avvicinandosi a me più che non permetteva la decenza della vita civile. A. Chiades, Addio, bello e sublime ingegno, addio (Ugo Foscolo e Isabella Teotochi Albrizzi), Scheiwiller, Milano 1987 1 capegli rossi radati: capelli rossi tagliati corti. L’autrice sottolinea la differenza con l’acconciatura dei nobili che, fino al periodo della rivoluzione francese, portavano i capelli lunghi con

il codino, e spesso parrucche. 2 ululante: qui sta per sonora, squillante. 3 Saffo campestre: con riferimento alla celeberrima poetessa greca, dato che Angela scriveva

poesie; campestre perché viveva in una villa di Breda di Piave, dove il padre lavorava come giardiniere e dove Foscolo l’aveva incontrata.

... e da Giuseppe Pecchio Altri tratti del carattere sono testimoniati anche nella fortunata biografia di Giuseppe Pecchio (uscita nel 1830, sarà ristampata, contribuendo a far nascere il mito del Foscolo “irregolare”) che, con un taglio da pamphlet giornalistico, ne disegna un ritratto vivace, talvolta anche irriverente, come quando ne ricorda gli atteggiamenti, alquanto teatrali, da donnaiolo impenitente: Avvezzo a conversar con le muse, aveva contratto il gusto delle belle donne. [...] Le giovani italiane, sempre avide di rinomanza, e propizie alla gloria, si lasciavano volentieri avvicinare da questo straordinario cascamorto, con quel suo stile alla Jacopo Ortis; ora gentile, or sentenzioso, or con un burbero cipiglio; or borbottando versi tra’ denti, or restando immobile pilastro per ore intere, colle labbra strette, cucite, or balzando in piedi colla spensieratezza d’un fanciullo. G. Pecchio, Vita di Ugo Foscolo, a cura di G. Nicoletti, Longanesi, Milano 1974

562


Vicino alle idee materialistiche dell’Illuminismo, Foscolo trae dalla delusione per la politica napoleonica l’impulso per una visione nuova, in cui già si avverte uno spirito romantico. Anche grazie alla lettura di Vico, Foscolo valorizza infatti l’importanza del sentimento, delle passioni, della fantasia e della poesia nel fondare i valori della civiltà. Modello di riferimento nell’opera e nella visione foscoliane è il mondo antico: il Neoclassicismo foscoliano non è però mai formale o antiquario, ma è fondato sulla consapevolezza che nel mondo antico vanno ritrovati i valori irrinunciabili della civiltà occidentale. Nella visione foscoliana e nella vita stessa del poeta assume un ruolo centrale il sentimento patriottico rivolto a un’Italia non ancora nata, ma già da lui pensata libera e unita sulla base di un comune patrimonio culturale. Non è quindi certo casuale il mito di Foscolo (e in particolare dei Sepolcri) nel nostro Risorgimento.

1 Ritratto d’autore letteratura come 2 Laautoritratto valori e civiltà: 3 Poesia, dai Sepolcri alle Grazie 563 563


1

Ritratto d’autore 1 Una vita inquieta, pienamente vissuta

VIDEOLEZIONE

Dalla Grecia a Venezia Foscolo nasce il 6 febbraio 1778, a Zante, anticamente chiamata Zacinto, isola greca allora sotto il dominio della Repubblica veneziana. La madre, Diamantina Spathys, è greca; il padre Andrea, medico, di Venezia. Primo di quattro tra fratelli e sorelle, Foscolo in realtà non si chiama Ugo, ma Niccolò, ed è lui stesso ad attribuirsi il nome di Ugo: dapprima accanto, poi in sostituzione del proprio. La nascita, il luogo in cui trascorre l’infanzia, l’origine della madre sono mitizzati da Foscolo, che si sente un erede della Grecia classica, come ricorda in una lettera: «non oblierò mai che nacqui da madre greca, [...] e che vidi il primo raggio di sole nella chiara e selvosa Zacinto, risuonante ancora de’ versi con che Omero e Teocrito la celebravano». La famiglia si trasferisce poi a Spalato, in Dalmazia (l’odierna Croazia), dove Ugo studia in seminario. Nel 1788, quando ha soltanto dieci anni, il padre muore e la famiglia, soprattutto a causa delle difficoltà economiche, si disperde: la madre affida i figli ai parenti di Zacinto per recarsi a Venezia, dove soltanto nel 1792 Ugo può raggiungerla. Venuto da un’isola lontana, in cui si parlava greco moderno, Ugo non sa neppure esprimersi correttamente in italiano, ma impara in fretta, accogliendo gli innumerevoli stimoli culturali offerti da Venezia: frequenta la biblioteca Marciana, è assiduo nei caffè ritrovo degli intellettuali e, nonostante l’origine oscura e la giovanissima età, viene accolto nei più prestigiosi salotti veneziani, come quello di Isabella Teotochi Albrizzi, colta gentildonna di origine greca.

CARTA INTERATTIVA DEI LUOGHI

Cronologia interattiva 1789

Scoppia la Rivoluzione francese.

1778

Niccolò (poi Ugo) nasce il 6 febbraio a Zante, nelle isole Ionie, da Diamantina Spathys e Andrea Foscolo.

1788

Morte del padre.

564 Ottocento 14 Ugo Foscolo

1793

In Francia inizia il “Terrore”.

1797

Trattato di Campoformio.

Fine 1792-inizio 1793

Foscolo si trasferisce a Venezia.

1799

Inni alla notte di Novalis.

1802 1793

Prime affermazioni come intellettuale: rappresentazione del Tieste; Ode a Bonaparte liberatore.

1802

Dalla Repubblica Cisalpina nasce la Repubblica italiana. Napoleone console a vita. Viene pubblicato Il genio del cristianesimo di Chateubriand.

Seconda edizione milanese dell’Ortis.

1803

Pubblicazione delle Poesie.

1803

Terza sinfonia, l’“Eroica”, di L. Van Beethoven.

1804-1806

È in Francia, sulla Manica, con l’esercito napoleonico.


L’adesione agli ideali giacobini Nel periodo della sua formazione, lo stimolo intellettuale più forte ha a che fare con l’ambito della politica. Sono gli anni della Rivoluzione francese e delle prime imprese napoleoniche: ovunque, come egli stesso ricorda in una lettera, fervono «le opinioni di libertà universale» e anch’egli diviene giacobino e sostenitore di Napoleone. Seguendo l’esempio di Alfieri, per lui sempre fondamentale, affida inizialmente al teatro le sue idee libertarie e, nel 1797, a diciannove anni non ancora compiuti, fa rappresentare a Venezia il Tieste, una tragedia antitirannica di stampo alfieriano; nello stesso 1797 scrive l’ode A Bonaparte liberatore, in cui esalta Napoleone come liberatore dell’Italia. Divenuto sospetto al governo oligarchico veneziano per tali opere, deve abbandonare la città lagunare. Si trasferisce a Bologna, nella repubblica Cispadana, dove si arruola nell’esercito napoleonico, a cui, con diverse mansioni, sarebbe restato legato fino alla definitiva caduta di Napoleone, nel 1815. La scelta della professione militare Foscolo dunque intraprende la professione militare, una scelta inconsueta per un intellettuale. Vi è indotto da diverse ragioni: la prima è che, seguendo l’insegnamento di Alfieri, preferisce una professione al di fuori del campo letterario, per essere libero di scrivere senza condizionamenti; la seconda è che ritiene l’esercito napoleonico fondamentale per difendere gli ideali giacobini. Quando le armate napoleoniche abbattono l’antico regime oligarchico veneziano, Foscolo torna nella sua città da vincitore e assume l’incarico di segretario della “Società patriottica d’istruzione pubblica”, un circolo democratico e libertario. Il “tradimento” di Campoformio Ma, nello stesso 1797, la fede di Foscolo in Napoleone crolla quando, con il trattato di Campoformio, quest’ultimo cede Venezia all’Austria, rivelandosi uno spregiudicato politico e non un disinteressato liberatore dell’Italia. Due anni dopo il letterato ripubblica l’ode A Bonaparte liberatore con una lettera dedicatoria a Napoleone (➜ T1 OL). Rivolgendosi a lui, Foscolo fa riferimento al trattato in termini espliciti di condanna: “quel Trattato che trafficò la mia patria, insospettì le nazioni, e scemò dignità al tuo nome”.

1810

Esce la versione di Vincenzo Monti dell’Iliade.

1808-1809

Cattedra universitaria a Pavia.

1814

Napoleone è sconfitto e abdica. Crollo dell’Impero napoleonico.

1815

Si chiude il congresso di Vienna.

1811

1816

Berchet pubblica la Lettera semiseria di Grisostomo.

1816

Rappresentazione a Milano dell’Aiace.

Esilio volontario in Inghilterra. 1812-1813

1807

Dei Sepolcri.

Periodo fiorentino; lavora alle Grazie; pubblica Notizia intorno a Didimo Chierico.

1827

Muore a Turnham Green. Dopo l’unificazione dell’Italia (1871) sarà sepolto in Santa Croce.

1815

Foscolo raggiunge la Svizzera.

Ritratto d’autore 1 565


Lo scrittore affida l’espressione della sua delusione al romanzo Ultime lettere di Jacopo Ortis (1802), in cui rappresenta un giovane che vive in modo drammatico la delusione del tradimento di Campoformio. Il libro ottiene un’immediata popolarità, esercitando un’influenza non soltanto letteraria: molti giovani (anche giovani donne), leggendolo, si avvicinano alla politica e si appassionano alle sorti dell’Italia. Molti di loro costituiranno la successiva generazione di patrioti del Risorgimento. Tra campagne belliche e letteratura Costretto ad abbandonare Venezia, ormai soggetta all’Austria per effetto del trattato, Foscolo si sposta nei territori dominati dai francesi, prima a Milano e poi a Bologna. Pur non risparmiando nei suoi scritti critiche ai francesi, non abbandona l’esercito e quando, nel 1799, gli austro-russi invadono la penisola italiana, partecipa a vari combattimenti con l’esercito napoleonico. Dopo la vittoria francese di Marengo (1800), Foscolo torna a Milano: sono anni di intensa attività intellettuale (completa e pubblica l’Ortis nel 1802, e le Poesie nel 1803), di amori passionali (in particolare per la nobile Antonietta Fagnani Arese, a cui dedica l’ode All’amica risanata; ➜ T14 ), di attività politica, ma anche di grandi dolori, come il suicidio del fratello minore Giovanni, nel 1801. Tra il 1804 e il 1806, come ufficiale napoleonico, si reca in Francia, sulla Manica, dove Napoleone prepara un’armata con l’intenzione – poi non realizzata – di invadere l’Inghilterra. Per il poeta è un momento di fecondo rapporto con la cultura europea (traduce fra l’altro il Viaggio sentimentale dell’inglese Sterne), ma anche di approfondimento dei classici: sulle navi, in attesa della guerra, gli sembra di rivivere la condizione degli antichi eroi omerici e inizia a tradurre l’Iliade; entrambe queste componenti culturali saranno fondamentali per i Sepolcri, composti al termine di questo periodo. In questi anni si colloca la relazione con una giovane donna inglese, Fanny Hamilton, da cui Foscolo ha una figlia, Mary (chiamata Floriana), che vivrà con lui in Inghilterra dal 1821 e che gli rimarrà vicina negli ultimi, difficilissimi anni di vita. IMMAGINE INTERATTIVA

Giuseppe Bossi, La riconoscenza della Repubblica italiana a Napoleone, olio su tela, 1802 (Milano, Pinacoteca di Brera).

Realizzato nel clima di promozione delle arti, in seguito al rafforzamento del potere napoleonico a Milano, il dipinto allegorico raffigura Napoleone in trono, in una piena rievocazione neoclassica dell’antichità, mentre porge un ramo di ulivo alla giovane Repubblica italiana, nata dalla Repubblica Cisalpina. Alle sue spalle Ercole e Minerva tengono per le chiome, in gesto di sottomissione, la Fortuna; a fianco del trono, la Storia scrive le gesta del condottiero; sullo sfondo, si intravede il profilo dell’ampliamento urbano monumentale previsto per il Foro Bonaparte.

566 Ottocento 14 Ugo Foscolo


L’affermazione come intellettuale Nel 1806 il poeta torna a Venezia, non più soggetta all’Austria ma ormai parte del Regno d’Italia, e riprende a frequentare il salotto di Isabella Teotochi, dove una discussione con il poeta Ippolito Pindemonte sull’editto napoleonico di Saint-Cloud gli ispira il carme Dei Sepolcri, il suo capolavoro (1807). Per Foscolo questo è il periodo di maggiore serenità e soddisfazioni: ormai famoso come intellettuale, grazie all’interessamento di Vincenzo Monti, con cui aveva stretto amicizia, ottiene nel 1808 una cattedra di eloquenza presso l’università di Pavia. Sembrerebbe l’inizio di una prestigiosa carriera accademica, ma purtroppo, dopo qualche mese, la cattedra viene soppressa. Il poeta ha però il tempo di tenere una prolusione (Dell’origine e dell’ufficio della letteratura) in cui incita gli italiani al patriottismo e alla libertà: un discorso entusiasticamente acclamato dal numeroso pubblico accorso, ma che suscita l’allarme delle autorità. Un segretario della Pubblica Istruzione accusa il poeta di essere «pericoloso per la gioventù» e di istigare alla ribellione. La frattura con gli intellettuali milanesi e il soggiorno fiorentino Le posizioni non ossequienti al regime procurano a Foscolo molti nemici; anche Vincenzo Monti, allora il più influente degli intellettuali italiani, sempre pronto a celebrare con lodi iperboliche i potenti di turno, interrompe i suoi rapporti con Foscolo, seguìto dalla maggior parte dei letterati milanesi. Foscolo è ormai isolato: nel 1811 fa rappresentare al Teatro alla Scala la tragedia Aiace, in cui vengono notate allusioni critiche al regime napoleonico. Ne nasce uno scandalo: l’opera viene proibita e l’autore invitato ad allontanarsi da Milano. Si reca allora a Firenze, città da lui prediletta, celebrata nei Sepolcri, e vi rimane tra il 1812 e il 1813, ritrovando serenità e ispirazione letteraria: qui scrive infatti un’altra tragedia, la Ricciarda, di argomento amoroso, e lavora alla sua ultima grande opera, Le Grazie, poi rimasta incompiuta; nel 1813 pubblica la traduzione del Viaggio sentimentale di Sterne. In questa occasione traccia un nuovo autoritratto, meno

Andrea Appiani, Venezia che spera di unirsi all’Italia, olio su tela, seconda metà sec. XIX (Milano, Museo del Risorgimento).

Ritratto d’autore 1 567


passionale e irruente di Ortis: attribuisce infatti la traduzione di Sterne a un personaggio autobiografico di sua invenzione, Didimo Chierico, un alter ego riflessivo, ironico e distaccato, descritto in una Notizia intorno a Didimo Chierico, pubblicata con la traduzione (➜ T19 OL). L’esilio dall’Italia Ma nel 1813 la sconfitta di Napoleone a Lipsia e i drammatici avvenimenti che ne seguono strappano Foscolo alla tranquillità fiorentina. Coltivando la speranza che il Regno d’Italia possa sopravvivere al crollo dell’impero napoleonico, il poeta torna a Milano, riprende il suo posto nell’esercito e partecipa attivamente agli eventi. Ma ogni tentativo di mantenere l’indipendenza italiana fallisce e, nel 1814, Milano è ormai saldamente in mano agli austriaci. Dato che, a differenza di altri letterati milanesi, Foscolo aveva tenuto un atteggiamento critico e non servile verso il regime napoleonico, mantenendo così intatto il suo prestigio, nel 1815 gli austriaci gli offrono la direzione della «Biblioteca italiana», pubblicazione creata per guadagnarsi il favore degli intellettuali italiani. Il poeta è posto di fronte a un conflitto di coscienza: accettare avrebbe significato, per la prima volta nella sua vita, conquistare una posizione sociale ed economica sicura e ottenere una rivincita sugli uomini di cultura milanesi che lo avevano emarginato; tuttavia, schierarsi a favore dell’Austria reazionaria avrebbe significato tradire sé stesso, il suo passato e la sua attività intellettuale, come egli stesso spiega in alcune splendide lettere (➜ T3 ). Per non prestare il giuramento di fedeltà richiesto dagli austriaci, Foscolo lascia dunque l’Italia, dove non sarebbe più tornato. In volontario esilio si rifugia dapprima in Svizzera, nel 1815; poi, dal 1816, in Inghilterra, dove è ben accolto dagli intellettuali inglesi, favorevoli alla causa della libertà italiana. Purtroppo la situazione economica del poeta è sconfortante: da sempre abituato a vivere al di sopra delle sue possibilità e a contrarre debiti, Foscolo per guadagnarsi da vivere è costretto a lavori editoriali faticosi e mal retribuiti, soprattutto saggi sulla letteratura italiana: un’attività che gli impedisce quasi completamente di dedicarsi alla poesia, ma che è di notevole interesse per la sua novità metodologica.

Pietro Benvenuti, Elisa Baciocchi Bonaparte circondata da artisti a Firenze, olio su tela, 1813 (Versailles, Museé National). Il primo personaggio a destra della statua è Foscolo.

568 Ottocento 14 Ugo Foscolo


Gli ultimi, difficili, anni A poco a poco, tuttavia, le condizioni economiche del poeta in Inghilterra divengono insostenibili: subisce il carcere per debiti e deve cercare alloggio in sobborghi sempre più popolari e malfamati, dove si nasconde sotto falso nome per sfuggire ai creditori. Alla fine, ammalato e depresso al punto da interrompere i contatti epistolari con i familiari per non informarli della difficile situazione in cui vive, si isola sempre più, frequentando solo pochi amici fedeli, confortato da Floriana, la figlia ritrovata in Inghilterra. Nell’ultimo periodo di vita abita a Turnham Green, un misero sobborgo abitato da famiglie proletarie. Qui Foscolo si spegne nel 1827, a 49 anni. Dapprima sepolto in Inghilterra, quando l’Italia viene unificata – come molti patrioti italiani avevano chiesto e come aveva meritato – nel 1871 il suo corpo viene trasportato dal cimitero inglese di Chiswick in Santa Croce, a Firenze, dove riposa insieme ai grandi italiani da lui celebrati nei Sepolcri.

2 Le lettere

PER APPROFONDIRE

L’epistolario Un interessante ritratto dell’“uomo” Foscolo emerge dal suo ricco corpus di lettere, uno dei più significativi epistolari della letteratura italiana. Oltre alle lettere d’amore – le più conosciute, più volte pubblicate in sillogi, cioè raccolte autonome in cui, come osserva il critico Mario Fubini, Foscolo assume spesso online toni passionali, melodrammatici e “ortisiani” – sono T1 Ugo Foscolo di grande interesse le lettere scritte a persone ami«La nostra salute sta nelle mani di un conquistatore» Scritti letterari e politici: testi dal 1796 al 1808, che. Esse coniugano la sincerità alla perfezione dello Lettera dedicatoria dell’“Ode a Bonaparte Liberatore” stile, facendo conoscere lo scrittore nel suo autentico spessore umano e documentando un periodo online T2 Ugo Foscolo storico di cruciale importanza come quello dell’Italia Il linguaggio della passione napoleonica. Al vasto epistolario sono dedicati diversi Lettera ad Antonietta Fagnani Arese volumi (XIV-XXII) dell’Edizione nazionale foscoliana.

Foscolo critico La visione del mondo e il ruolo dell’intellettuale

3

Foscolo è uno degli autori della letteratura italiana che affiancano alla scrittura letteraria una significativa attività critica. Non soltanto scrive testi illuminanti per l’interpretazione delle proprie opere (come la Lettera a Guillon sui Sepolcri), ma nel periodo londinese compone saggi su diversi autori italiani come Dante, Petrarca, Boccaccio, Parini e anche su sé stesso, elaborando una metodologia poi apprezzata e ripresa da Francesco De Sanctis (1817-1883), fondatore della critica moderna in Italia. Per la prima volta, come poi avrebbe fatto De Sanctis, Foscolo lega il piano letterario a quello storico ed etico-politico; inoltre, come viene oggi riconosciuto, Foscolo va persino oltre De Sanctis per l’attenzione prestata all’aspetto stilistico dei testi, riconoscendo con moderna sensibilità i rapporti fra il livello tematico e quello formale delle opere letterarie.

Léon Cogniet, Autoritratto, olio su tela, 1817 (Cleveland, Cleveland Museum of Art).

Ritratto d’autore 1 569


Ugo Foscolo

Foscolo motiva la dolorosa scelta dell’esilio

T3

EDUCAZIONE CIVICA

nucleo Costituzione competenza 1

Epistolario Nella lettera, scritta ai familiari il 31 marzo 1815 e di cui riproduciamo una breve parte, Foscolo spiega i motivi per cui decide di abbandonare l’Italia, partendo per un volontario esilio nonostante una proposta da parte austriaca di dirigere la prestigiosa rivista «Biblioteca italiana». Il poeta avrebbe dovuto prestare un giuramento di fedeltà al nuovo occupante: cosa per lui inaccettabile, perché, in contrasto con i suoi princìpi e i suoi valori, non gli avrebbe permesso di esercitare liberamente la propria attività di intellettuale.

U. Foscolo, Epistolario, vol. VI, Le Monnier, Firenze 1966

Miei cari, [...] L’onore mio, e la mia coscienza, mi vietano di dare un giuramento che il presente governo1 domanda per obbligarmi a servire nella milizia2, della quale le mie occupazioni e l’età mia e i miei interessi m’hanno tolta ogni vocazione. Inoltre tradi5 rei la nobiltà, incontaminata fino ad ora, del mio carattere col giurare cose che non potrei attenere3, e con vendermi a qualunque governo. Io per me mi sono inteso di servire l’Italia, né, come scrittore, ho voluto parer partigiano di Tedeschi, o Francesi, o di qualunque altra nazione: mio fratello4 fa il militare, e dovendo professare quel mestiere ha fatto bene a giurare; ma io professo letteratura, che è arte liberalissima 10 e indipendente, e quando è venale non val più nulla. 1 il presente governo: il governo austriaco tornato a Milano dopo il crollo dell’impero napoleonico. 2 a servire... milizia: Foscolo era impie-

gato nell’esercito; come ad altri ufficiali, gli era stato richiesto un giuramento di fedeltà agli austriaci, sostituitisi ai francesi nel dominio dell’Italia.

3 attenere: mantenere. 4 mio fratello: si tratta di Giulio, fratello minore del poeta, che esercitava la professione di militare.

Analisi del testo Una scelta difficile Giurare fedeltà agli austriaci, e mostrare così un atteggiamento servile, avrebbe significato per Foscolo tradire la propria storia personale, i propri ideali, la propria identità umana e letteraria. Ecco perché egli decide di partire e lasciare l’Italia in esilio volontario. Spicca nel breve passo la presenza di termini ed espressioni che delineano un ritratto morale del poeta (l’onore mio, la mia coscienza, «la nobiltà...del mio carattere») e l’emergere di una dimensione patriottica che tanto sarà apprezzata nel Risorgimento («Io per me mi sono inteso di servire l’Italia»).

Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

COMPRENSIONE 1. Spiega l’affermazione di Foscolo: «io professo letteratura, che è arte liberalissima e indipendente, e quando è venale non val più nulla». Quale concezione della letteratura rivela?

Interpretare EDUCAZIONE CIVICA

nucleo

Costituzione

competenza 1

SCRITTURA 2. Nell’epistola il poeta afferma “Io per me mi sono inteso di servire l’Italia, né, come scrittore, ho voluto parer partigiano di Tedeschi, o Francesi”. Pensi che oggi una posizione di lealtà intellettuale, ferma e lucida come quella di Foscolo, possa essere attuale? Per quali ragioni? Motiva la tua risposta in un testo scritto (max 10 righe).

online T4 Ugo Foscolo

Il caro prezzo della libertà Epistolario

570 Ottocento 14 Ugo Foscolo


Il compito dell’intellettuale. I modelli di vita Per comprendere l’opera di Foscolo si deve considerarne la formazione illuministica, innanzitutto per quanto riguarda la concezione dell’intellettuale come coscienza critica della società. Le figure di riferimento sono Parini e Alfieri: da Parini egli riprende l’idea del ruolo fondamentale esercitato dalla letteratura nel promuovere il progresso civile; da Alfieri l’idea che la letteratura debba educare alla libertà. Con toni alfieriani, Foscolo stesso ricorda: «Dal momento che appresi a pensare e a scrivere, giurai di non vergare una linea che non ardesse di libertà», mentre nei Sepolcri dirà di voler lasciare in eredità agli amici «di liberal carme l’esempio». Il modello alfieriano è presente in Foscolo anche nei momenti decisivi della sua stessa vita, in particolare nella scelta dell’esilio: Foscolo rifiuta l’offerta di collaborare con gli austriaci perché, come rivendica in una sua lettera, la letteratura è «arte liberalissima e indipendente, e quando è venale non val più nulla» (➜ T3 ). La concezione materialistico-meccanicistica Di derivazione illuministica è anche la concezione foscoliana della natura e dell’uomo, rigorosamente materialistica, da ritrovare nell’epicureismo del poeta latino Lucrezio (circa 98-55 a.C.) ma soprattutto nel pensiero di Diderot e La Mettrie. La natura è vista come un meccanismo impersonale, privo di senso e di scopo, in cui la materia assume ciclicamente forme diverse. È assente ogni prospettiva di vita ultraterrena: al di là della morte c’è soltanto il «nulla eterno», come Foscolo scrive nel sonetto Alla sera (➜ T15 ). Una sensibilità già romantica L’autore, però, va oltre le prospettive dell’Illuminismo, evidenziando una sensibilità già romantica per il valore attribuito al sentimento, alla fantasia, all’immaginazione, alle passioni: componenti che superano la dimensione strettamente razionale. Nell’Ortis il protagonista, alter ego dell’autore, afferma che l’uomo, abbandonato alla sola ragione «fredda, calcolatrice», è «scellerato, e scellerato bassamente» (lettera del 1° novembre 1797). L’influenza di Vico e la visione della storia La visione foscoliana della storia deriva soprattutto dalla lettura delle opere di Giambattista Vico (1668-1744), che avranno una decisiva influenza sui Sepolcri e anche sulle Grazie. Nella Scienza nuova, Vico distingue tre fasi dello spirito umano che si manifestano sia nell’individuo, sia nell’evoluzione della società; queste sono dominate rispettivamente dal prevalere del senso, dalla fantasia e dalla ragione («gli uomini prima sentono senz’avvertire, dappoi avvertono con animo perturbato e commosso, finalmente riflettono con mente pura»). Come l’uomo passa dall’infanzia alla maturità e alla vecchiaia, così le civiltà si evolvono da uno stadio primitivo, dominato dai sensi, alla fase degli eroi, resa feconda dalle passioni e dall’immaginazione, grazie alle quali si fondano i valori delle comunità civili; esse, però, tendono poi a degenerare nell’ultima età, razionale, in cui le passioni generose s’inaridiscono e prevalgono il calcolo e l’egoismo; così le civiltà si esauriscono, ricadendo in una nuova barbarie, dalla quale possono nuovamente uscire ripercorrendo le medesime fasi in un processo ciclico (i «corsi e ricorsi» vichiani). Dall’influenza di Vico derivano l’ammirazione di Foscolo per la civiltà delle origini, la Grecia omerica, l’appello costante alle passioni nobili e generose e, più in generale, l’interesse per la storia. Ritratto d’autore 1 571


4 La funzione e i caratteri della poesia

Stampa dell'orazione foscoliana del 1809 all'Università di Pavia.

Il compito della cultura e della parola poetica La poetica di Foscolo è in relazione con la sua concezione del mondo e dell’uomo, come si coglie in particolare nelle lezioni tenute a Pavia nel 1809, Sull’origine e i limiti della giustizia (per i laureati in giurisprudenza) e l’orazione inaugurale, Dell’origine e dell’ufficio della letteratura (➜ T5a OL). Foscolo evidenzia una concezione pessimistica della natura umana, in cui si avverte l’influenza del pensiero di Niccolò Machiavelli (1469-1527) e del filosofo inglese Thomas Hobbes (1588-1679): per istinto naturale l’uomo è egoista e violento e la società non può che essere caratterizzata dalla legge del più forte e da una perenne conflittualità. Questa tendenza, però, può e deve essere arginata; l’uomo può essere indotto alla compassione, alla tolleranza, all’acquisizione di valori che rafforzino i vincoli sociali: proprio questo, per Foscolo, è il compito della parola poetica, che sola è capace di rasserenare gli animi, di purificarli, contrastando la barbarie e le pulsioni violente (➜ T5a,b,c OL). Ne deriva un’immensa responsabilità dell’intellettuale: utilizzare la parola senza un senso di responsabilità etica, in modo insincero e opportunistico, appare a Foscolo la più grave delle colpe (tema, questo, quanto mai attuale).

Il Neoclassicismo foscoliano Proprio perché per Foscolo l’arte si pone come alternativa alla natura istintiva dell’uomo e alla violenza della storia, essa non deve rispecchiare il mondo com’è, ma proporne uno migliore, creando un’armonia che non esiste nella vita reale, ma a cui gli uomini naturalmente tendono (➜ T5c OL). Ne consegue una poetica che, nonostante l’impegno civile che la sottende, è del tutto estranea al realismo e, al contrario, tende a favorire l’immaginazione e la fantasia: ne discende anche la scelta foscoliana di una lingua raffinata e classicheggiante, lontana da quella comune. La concezione foscoliana della poesia e la ricerca, ad essa affidata, dell’armonia, ma anche l’idea, espressa soprattutto nei Sepolcri, che la poesia, con la sua bellezza, possa vincere i traumi della storia e sconfiggere il destino mortale dell’uomo, riconduce alcune opere di Foscolo (o parti di esse) alla visione estetica neoclassica. Maronline cata è, inoltre, nella sua opera la presenza del repertorio mitoT5 La parola, formatrice dell’animo umano logico, l’uso di un linguaggio che utilizza latinismi e grecismi, T5a Ugo Foscolo l’impiego di solenni perifrasi e di una sintassi latineggiante. La responsabilità degli «uomini letterati» Ma certamente del tutto particolare è il Neoclassicismo foLettera apologetica scoliano: Foscolo vede nel mondo classico un paradigma per T5b Ugo Foscolo il presente; non considera i miti greci e latini come un ornaIl valore formativo dei racconti poetici sui «cuori palpitanti» dei giovani mento della poesia, al modo dei classicisti, ma li sente ancora Dell’origine e dell’ufficio della letteratura vivi e attuali, modello perenne per ogni civiltà. T5c Ugo Foscolo Inoltre in Foscolo il culto dei classici coesiste con una sensibiLa poesia rivelatrice di una «universale secreta armonia» lità, una soggettività già prettamente romantica («quello spirto Principi di critica poetica guerrier ch’entro mi rugge»).

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La letteratura come autoritratto Ultime lettere di Jacopo Ortis: i caratteri generali, la trama, 1 Le la storia editoriale

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Per approfondire Alter ego ed eteronimi: da Foscolo a Pessoa

Un romanzo autobiografico e il ritratto di una generazione delusa Un caratteristico tratto di Foscolo è la tendenza all’autobiografismo: in tutte le sue opere lo scrittore traccia in modo più o meno diretto un ritratto di sé, a cominciare dalle Ultime lettere di Jacopo Ortis (1802), la sua prima opera importante, in cui Foscolo fa del giovane protagonista una sorta di alter ego. Le Ultime lettere di Jacopo Ortis appartengono al genere del romanzo epistolare, che grande successo aveva avuto nella letteratura europea tardo-settecentesca, dalla Nuova Eloisa di Rousseau (1761) a I dolori del giovane Werther di Goethe (1774). Quest’ultimo romanzo (letto da Foscolo in una traduzione italiana del 1788) costituisce, come si dirà in seguito, il principale modello dell’opera, sia per la tipologia del protagonista, sia per il tema centrale (una irrealizzabile passione amorosa), sia per la conclusione tragica della vicenda narrata (il suicidio). Le lettere di Jacopo (indirizzate all’amico Lorenzo Alderani) nella finzione narrativa sono datate tra il 1797 e il 1799 e di poco successiva (1802) è l’edizione principale del romanzo, che risulta quindi di stringente attualità sul piano storico, esprimendo la delusione di tanti giovani del tempo per la politica napoleonica. Giustamente l’Ortis è stato definito un “romanzo di giovani” (e forse destinato prima di tutto a tali fruitori) per la componente dominante della passione (politica e amorosa), per la centralità dell’io e l’intolleranza del giovane protagonista di fronte a ogni compromesso. Ad accrescere l’interesse dei lettori dell’epoca per l’opera è anche la scelta di Foscolo di mettere in scena nel romanzo personaggi della cultura contemporanea a tutti noti (Parini) o comunque di evocarli (Alfieri). La vicenda A causa del trattato di Campoformio, per cui Venezia è ceduta agli austriaci, Jacopo, giovane di ideali repubblicani e giacobini, è costretto ad abbandonare la città, rifugiandosi sui Colli Euganei. La delusione per la condotta di Napoleone, ispirata alla “ragion di stato”, spegne la volontà di vivere di Jacopo, che aveva accolto i francesi come liberatori dell’Italia. Sui Colli Euganei il giovane è temporaneamente confortato dall’amore per la bellissima Teresa, che però è destinata dal padre, il signor T***, a un matrimonio di interesse con il ricco e nobile Odoardo; costui non è amato dalla ragazza, ma è in grado di restituire alla famiglia il benessere economico perduto a causa delle errate speculazioni paterne. Odoardo si allontana temporaneamente e l’amore tra Jacopo e Teresa esplode; quando il promesso sposo ritorna, Jacopo lascia i Colli Euganei e il territorio veneziano, iniziando un desolato pellegrinaggio attraverso l’Italia, in cui deve constatare a ogni tappa la drammatica condizione di un paese diviso, dominato dagli stranieri, incapace di riscattarsi. Giunto sul confine, a Ventimiglia, mentre si appresta a passare in Francia, Jacopo fa un’ultima e più profonda riflessione sulla politica e sulla storia, comprendendo che emigrare sarebbe inutile: in ogni luogo la sua ansia di giustizia rimarrebbe inappagata, perché ovunque nel mondo i più forti sopraf-

La letteratura come autoritratto

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fanno i più deboli; decide perciò di non abbandonare la penisola. Appresa la notizia del matrimonio di Teresa, torna sui Colli Euganei e si toglie la vita con un pugnale. L’amico Lorenzo pubblica le sue lettere, integrandole con il racconto degli ultimi momenti della vita di Jacopo. Una complessa storia editoriale L’Ortis ha una complessa storia editoriale, legata alle vicende biografiche del suo autore. In un giovanile Piano di studi (1796), Foscolo afferma di aver quasi completato un romanzo intitolato Laura, lettere, che però non ci è pervenuto. Nel 1798, a Bologna, lo scrittore intraprende la prima stesura dell’Ortis, ma deve interromperla per combattere con le armate napoleoniche contro gli austro-russi, che avevano occupato parte dell’Italia. L’editore fa allora completare il romanzo da un certo Angelo Sassoli che, come oggi è stato appurato, poté avvalersi di materiali foscoliani e lo pubblica nel 1800. Al suo ritorno, Foscolo rinnega tale edizione, da lui non autorizzata, e riscrive il romanzo, pubblicandolo nel 1802 con mutamenti considerevoli nelle vicende e nei personaggi: Teresa, che nella prima edizione è una giovane vedova con una bambina, nella seconda diviene una fanciulla costretta dal padre alle nozze; Odoardo, nella prima stesura una figura positiva (un giovane pittore amico di Jacopo), nella seconda diviene un personaggio pedante, privo di slanci; il tema politico, solo accennato nella prima stesura, assume un ruolo assai più rilevante nella seconda, per l’aggiunta delle lettere che descrivono le peregrinazioni di Jacopo attraverso l’Italia. Sebbene l’Ortis sia un libro ideato nel tempo della giovinezza di Foscolo, lo scrittore non lo considera mai del tutto superato e lo utilizza come una sorta di «diario aperto» (Isella), a cui affida la registrazione dei mutamenti intervenuti nella propria situazione e in quella politica italiana: perciò, nonostante le gravi difficoltà dell’esilio, ne pubblica una nuova edizione in Svizzera nel 1816, con significativi cambiamenti e, in particolare, con l’importante aggiunta di una lettera antinapoleonica, datata 17 marzo (➜ T8 OL). Un’ultima edizione, con altri interventi meno rilevanti, è stampata a Londra nel 1817, quando Foscolo si trasferisce in Inghilterra.

La storia editoriale dell’Ortis 1796

1798

In un Piano di Studi, Foscolo accenna a un progetto di romanzo dal titolo Laura, lettere. Il romanzo non ci è pervenuto

Prima stesura a Bologna dell’Ortis, interrotta da Foscolo che si allontana dalla città per combattere contro gli austro-russi

574 Ottocento 14 Ugo Foscolo

1800

1802

1816 - 1817

Edizione non autorizzata dell’opera affidata dall’editore ad Angelo Sassoli

Prima edizione (con ampi mutamenti), a Milano, dell’opera da parte di Foscolo. Rilevanza del tema politico

Seconda edizione in Svizzera (con significativi cambiamenti) e terza edizione a Londra (con interventi poco rilevanti)


2 I modelli letterari La tradizione italiana Se nell’Ortis l’ispirazione autobiografica è centrale, non è irrilevante, nel determinare la fisionomia dell’opera, la presenza di vari modelli, sia italiani sia stranieri. Tra gli scrittori italiani il principale in cui Foscolo maggiormente si identifica è Alfieri: all’influenza alfieriana rimanda la presenza del tema della libertà, il rifiuto sdegnoso di una società pragmatica e meschina, il titanismo (secondo una diffusa interpretazione, lo stesso suicidio di Jacopo è espressione di un atteggiamento “titanico” di ascendenza alfieriana). Ma in vari punti dell’opera si avverte anche la suggestione derivata dall’opera e dalla figura di Dante, exul immeritus e, soprattutto in rapporto al tema dell’amore infelice, di Petrarca. Il modello del Werther Modello principale dell’Ortis, come si è detto, è però il Werther di Goethe (➜ C13). Con il celebre romanzo goethiano le Ultime lettere di Jacopo Ortis hanno in comune, come già accennato, tratti fondamentali dell’intreccio (la passione amorosa irrealizzabile, il conflitto tra il protagonista e il mondo, la tragica risoluzione del suicidio). Come Werther, anche Jacopo incarna una nuova tipologia di personaggio, animato dalle emozioni, dalla passione più che dalla razionalità: non a caso, come Werther, anche Jacopo ha un “antagonista”, Odoardo, che è invece caratterizzato da una visione del mondo aridamente razionalistica. Ma, mentre il dramma di Werther ha a che fare soprattutto con la frattura tra io e società (la borghesia, classe sociale da cui proviene lo rifiuta, ma neppure l’aristocrazia lo accoglie), nell’Ortis si fa sentire soprattutto l’eco di un trauma storico-politico che costituisce l’antefatto, di fondamentale importanza, dell’azione narrativa. Dal Werther, Foscolo riprende la particolare struttura epistolare: la vicenda si costruisce attraverso le sole parole di Jacopo, mentre vengono omesse le risposte del suo interlocutore, l’amico Lorenzo (la cui “voce” entra in scena in rari momenti e in particolare per ricostruire gli ultimi, drammatici momenti di vita di Jacopo). Tale scelta narrativa permette di concentrare l’attenzione sul solo protagonista e sulla sua soggettiva percezione degli eventi, oltre che di porre il lettore nella posizione di privilegiato confidente-destinatario, come se ricevesse le confidenze di un amico. Inoltre, le lettere di Jacopo registrano le vicende man mano che si snodano, con le emozioni di volta in volta a esse legate, suscitando un’impressione di veritiera immediatezza.

sovrapposizione autore/personaggio e l’intreccio 3 La amore/politica Foscolo e Jacopo Ortis: somiglianze e differenze Per molti aspetti il protagonista Jacopo è una proiezione dell’autore, di cui rispecchia anzitutto la delusione dopo il trattato di Campoformio del 1797, con cui Napoleone cede Venezia all’Austria. Foscolo attribuisce inoltre al personaggio i propri sentimenti, le proprie idee, emozioni, esperienze, letture, creando così, come già si è detto, una sorta di alter ego. Foscolo sviluppa dunque nel romanzo quella forte commistione tra arte e vita che sarà propria dei romantici: nelle sue lettere d’amore si firma spesso Jacopo Ortis; di contro, inserisce nel romanzo lettere quasi identiche a quelle da lui scritte alle amanti reali. Ad accrescere l’identificazione, fa premettere all’opera un proprio ritratto, prestando in un certo qual modo al suo personaggio persino il suo

La letteratura come autoritratto

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volto. Tra il personaggio e l’autore sussistono, però, anche delle diversità: dopo il trattato di Campoformio Foscolo, a differenza del protagonista del romanzo, non solo non si suicida ma neppure rinuncia alla politica e all’azione, continuando a collaborare con i francesi e a militare nell’esercito napoleonico nonostante la cocente disillusione nei confronti di Napoleone. Nel personaggio di Jacopo, quindi, è come se Foscolo avesse proiettato la parte di sé più autodistruttiva, ma anche la più coerente e idealista. Ma la parte ideale di sé, che non accetta compromessi con il potere, rappresentata da Ortis, rimane in Foscolo sempre viva e pronta a riemergere: non è un caso che, nel 1816, allontanandosi dall’Italia in volontario esilio, il poeta decida di ripubblicare, aggiornandolo, il romanzo giovanile, quasi a illuminare attraverso di esso le ragioni ideali di quella coraggiosa scelta. Il rapporto fra il tema politico e l’amore per Teresa L’Ortis si impernia su due temi principali, quello politico e quello amoroso-sentimentale. Ma qual è il rapporto che lega i due motivi, apparentemente estranei? In primo luogo, un rapporto di causalità: Jacopo non può sposare Teresa perché, essendo esule e perseguitato, condannerebbe anche la moglie a una vita di stenti (come mostra l’episodio in cui a Pietra Ligure incontra un vecchio compagno di università, anch’egli esule per motivi politici, che trascina la moglie e la sua bambina piccola in una squallida miseria). Più rilevante e significativo è il parallelismo tra i due temi a livello simbolico: come Napoleone “vende” Venezia all’Austria per i motivi utilitaristici della “ragion di stato” – tradendo chi, come Jacopo, aveva creduto in motivazioni ideali – allo stesso modo il signor T*** sacrifica la felicità della figlia, destinandola per motivi di interesse al nobile e ricco Odoardo. Un ulteriore legame tra il motivo politico e quello amoroso – messo in luce dalla critica a orientamento psicanalitico, e in particolare da Giovanni G. Amoretti – è il rapporto di amore-odio di tipo edipico che lega Jacopo sia a Napoleone sia al padre di Teresa, il signor T***. Tra le due figure sussistono evidenti corrispondenze: come Napoleone sottrae a Jacopo Venezia, la città-madre oggetto del suo desiderio, così, per ragioni pragmaticamente economiche, il signor T*** gli toglie Teresa; come Jacopo ammira Napoleone e insieme lo detesta per il suo “tradimento”, così appare legato al signor T*** da un rapporto ambivalente, in cui non manca la dimensione affettiva, che si evidenzia più volte nel romanzo e persino nel momento chiave del suicidio (soccorso dal signor T***, Jacopo spira proprio fra le sue braccia).

4 Lo stile appassionato di un romanzo imperfetto Stile e lessico Il romanzo foscoliano inaugura un tipo di prosa che non ha precedenti nella nostra letteratura: intenzione programmatica dell’autore era dar voce alle emozioni tumultuose ed esacerbate del protagonista, così da colpire il lettore e coinvolgerlo nel dramma del giovane protagonista. Da qui la scelta di uno stile più lirico che narrativo, spesso enfatico: frequente è l’inserimento di frasi interrogative ed esclamative, il ritmo dei periodi è franto. D’altra parte il lessico è per lo più espressione della tradizione letteraria e la lettura risulta talvolta faticosa, soprattutto per il pubblico attuale.

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Un’opera imperfetta L’Ortis è un libro ricco di spunti tematici interessanti e innovativi, ma è comunque un’opera imperfetta, che va forse vista come una sorta di serbatoio di motivi a cui l’autore attinge per la stesura di altre sue opere più mature e più compiutamente elaborate. Un limite del romanzo, rimarcato dai critici a cominciare da Francesco De Sanctis, è la mancanza di sviluppo narrativo, dal momento che Jacopo, a differenza di Werther, appare fin dall’inizio votato al suicidio. Foscolo stesso, pur amando il libro come testimonianza della propria giovinezza, era consapevole dei suoi difetti stilistici. In una lettera all’amica Isabella Teotochi Albrizzi le confida: «Scriverò meglio forse come Autore – ma l’Uomo non scriverà più come in quel libro».

EDUCAZIONE CIVICA

EDUCAZIONE CIVICA

L’Ortis come libro di educazione patriottica A differenza del Werther, l’effetto principale del romanzo di Foscolo non fu quello di indurre i giovani al pessimismo, ma di motivarli all’impegno patriottico. Nell’Ortis, a partire dall’edizione 1802, il tema politico assume un’importanza centrale; a detta dell’autore, l’amore è «la parte meno importante dell’opera». Proprio per la componente patriottica, il romanzo contribuì a sensibilizzare molti intellettuali stranieri alla causa italiana, mentre in Italia ebbe il merito di avvicinare alla politica giovani e ragazze, che spesso per la prima volta giungevano a interessarsi alla situazione della loro patria. Lo stesso Giuseppe Mazzini, nelle sue Note autobiografiche, racconta come durante il periodo universitario avesse imparato il libro a memoria e ne fosse rimasto talmente suggestionato da decidere fin da allora di vestirsi sempre di nero in segno di lutto per la patria, identificandosi a tal punto con il protagonista del romanzo foscoliano da far temere alla propria madre che potesse uccidersi.

Il successo tra il pubblico femminile

nucleo Costituzione competenza 1, 3

PARITÀ DI GENERE equilibri #PROGETTOPARITÀ

Il romanzo riuscì ad avvicinare alla politica anche un consistente pubblico femminile, allora in genere refrattario all’argomento. L’entusiasmo delle giovani lettrici è così ricordato da Giuseppe Pecchio: «Un romanzo in Italia era la scoperta d’un nuovo pianeta. Ognuno voleva leggerlo. Era su le camminiere [mensole sopra il caminetto] di tutte le signore, le italiane, sì gaie, si vedevano colle ciglia umide di pianto. Non era più la morte della cuccia [cagnolina] o del canarino che si piangeva, ma la morte di Jacopo Ortis. La curiosità passò dal libro all’autore, che non era difficile a raffigurare, perché egli aveva avuto la furberia di premettere al romanzo un ritratto di Jacopo Ortis, ch’era il proprio, abbellito però come un ritratto per nozze». In seguito, lo stesso Foscolo si dichiarerà orgoglioso di aver avvicinato con il suo romanzo le donne italiane e il grande pubblico alla politica.

Ultime lettere di Jacopo Ortis GENERE

romanzo epistolare

MODELLI

tradizione italiana: Dante (exul immeritus); Petrarca (amore infelice); Alfieri (titanismo, aspirazione alla libertà); I dolori del giovane Werther di Goethe (struttura epistolare, intreccio)

TEMI

STILE

• amore come passione infelice e assoluta • caduta delle illusioni politiche giovanili e delusione storica • conflitto io/società • eroismo tragico del suicidio

lirico ed enfatico

La letteratura come autoritratto

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Ugo Foscolo

T6

L’apertura drammatica del romanzo

EDUCAZIONE CIVICA

nucleo Costituzione competenza 1

Ultime lettere di Jacopo Ortis U. Foscolo, Ultime lettere di Jacopo Ortis, a cura di G. Nuvoli, Principato, Milano 1986 (esemplata sull’Edizione Nazionale delle Opere di Ugo Foscolo, vol. IV, a cura di G. Gambarin, Firenze 1955) ANALISI INTERATTIVA

Il romanzo si apre con una dedica al lettore da parte di Lorenzo Alderani, immaginario amico di Jacopo ed editore delle lettere. Segue la prima lettera, caratterizzata da un tono drammatico, con la quale Jacopo informa l’amico del fatto che, in seguito agli eventi storici, è stato costretto a lasciare Venezia per rifugiarsi sui Colli Euganei.

Al lettore Naturae clamat ab ipso vox tumulo1

Pubblicando queste lettere, io tento di erigere un monumento alla virtù sconosciuta; e di consecrare alla memoria del solo amico mio quelle lagrime, che ora mi si vieta 5 di spargere su la sua sepoltura2. E tu, o Lettore, se uno non sei di coloro che esigono dagli altri quell’eroismo di cui non sono eglino stessi capaci, darai, spero, la tua compassione al giovine infelice dal quale potrai forse trarre esempio e conforto3. Lorenzo Alderani

1. Naturae clamat ... tumulo: epigrafe ricavata dai vv. 91-92 della traduzione latina dell’Elegia scritta in un cimitero di campagna (Elegy written in a country churchyard) di Thomas Gray (1751) realizzata nel 1772 dall’abate Giovanni Costa. Il verso originale, il n. 91, recita: «E’en from the

tomb the voice of nature cries»; nella lettera del 25 maggio così traduce Foscolo: «Geme la natura perfin nella tomba», concetto che verrà ripreso anche nei Sepolcri («il sospiro/che dal tumulo a noi manda Natura», vv. 49-50; vedi pag. 620). 2 mi si vieta... sepoltura: l’accenno, volu-

tamente indeterminato, indica che anche Lorenzo subisce persecuzioni politiche. 3 esempio e conforto: Jacopo può essere esempio di libertà per i lettori e di conforto perché egli, giovane infelice, nelle sue lettere esprime le loro stesse sofferenze.

Da’ colli Euganei, 11 Ottobre 17971. Il sacrificio della patria nostra è consumato: tutto è perduto; e la vita, seppure ne verrà concessa, non ci resterà che per piangere le nostre sciagure, e la nostra infamia2. Il mio nome è nella lista di proscrizione3, lo so: ma vuoi tu ch’io per salvarmi da chi 5 m’opprime mi commetta a chi mi ha tradito4? Consola mia madre: vinto dalle sue lagrime le ho obbedito, e ho lasciato Venezia per evitare le prime persecuzioni, e le più feroci. Or dovrò io abbandonare anche questa mia solitudine antica5, dove, senza perdere dagli occhi il mio sciagurato paese, posso ancora sperare qualche giorno di pace? Tu mi fai raccapricciare, Lorenzo; quanti sono dunque gli sventurati? E noi, pur10 troppo, noi stessi italiani ci laviamo le mani nel sangue degl’italiani6. Per me segua che può7. Poiché ho disperato e della mia patria e di me, aspetto tranquillamente la prigione e la morte. Il mio cadavere almeno non cadrà fra le braccia straniere; il mio nome sarà sommessamente compianto da’ pochi uomini buoni, compagni delle nostre miserie; e le mie ossa poseranno su la terra de’ miei padri8. 1 11 Ottobre 1797: la data d’inizio del romanzo corrisponde al giorno in cui vennero resi noti i contenuti del trattato di Campoformio, poi siglato il 17 ottobre 1797: il “tradimento” napoleonico è l’elemento che mette in moto la narrazione. 2 la nostra infamia: il disonore degli italiani che hanno subito senza reagire la cessione all’Austria dell’antica Repubblica Serenissima di Venezia.

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3 di proscrizione: dei cittadini perseguitati. 4 per salvarmi... tradito: per salvarmi da chi mi perseguita (gli austriaci) mi affidi a chi mi ha tradito (i francesi). Jacopo rifiuta di rifugiarsi nei territori della Cisalpina, controllati dai francesi. 5 questa mia... antica: questi luoghi solitari dei Colli Euganei, antico possesso della mia famiglia. 6 ci laviamo... italiani: allusione al com-

portamento di Ponzio Pilato nel Vangelo.

7 Per me segua che può: accada quello che deve accadere. Jacopo si affida fatalisticamente al destino. 8 il mio... padri: il periodo, scandito con un parallelismo in tre frasi epigrafiche («il mio cadavere... il mio nome... le mie ossa») ribadisce la volontà di Jacopo di morire e di essere sepolto nei luoghi a lui cari.


Analisi del testo La presentazione di Jacopo. Il “pubblico ideale” del romanzo Fin dall’apertura del romanzo il lettore è informato, tramite le parole di Lorenzo, sulla morte di Jacopo («quelle lagrime, che ora mi si vieta di spargere su la sua sepoltura»), le cui lettere appaiono perciò una sorta di testamento: si tratta di una prospettiva di lettura molto importante. Lorenzo pone il giovane amico su un ideale piedistallo eroico («io tento di erigere un monumento»); l’espressione virtù sconosciuta richiama il titolo di un’opera di Alfieri (Della virtù sconosciuta), presentando così il protagonista come un alfieriano eroe della libertà. Il lettore è dunque invitato non solo a compiangere il giovane, ma anche a trarre «esempio e conforto» dalla sua vicenda. La dedica delinea anche il “pubblico ideale” del libro, persone sensibili e capaci di commuoversi alle sofferenze di un giovane sventurato, mettendo così in rilievo un tema centrale per Foscolo: la compassione.

Due diverse voci narranti Le due voci narranti (Lorenzo e Jacopo) appaiono in netto contrasto, anche perché le parole di Lorenzo si collocano in un tempo posteriore alla morte di Jacopo, quando il dramma si è ormai compiuto ed è stato consegnato alla memoria, mentre la lettera di Ortis è scritta “a caldo”. Diverso è quindi lo stile: quello di Lorenzo è caratterizzato da espressioni di attenuazione (tento, spero, forse) che smorzano il tono del discorso, evidenziando il carattere pacato e riflessivo del personaggio. Lo stile di Jacopo, invece, si annuncia già dalla prima lettera come specchio del carattere passionale del protagonista, con espressioni recise e lapidarie, degne di un eroe tragico. La citazione evangelica «è consumato» (r. 1) (sono le ultime parole di Gesù pronunciate sulla croce, nel Vangelo di Giovanni) conferisce alle sofferenze del giovane un’aura di martirio, che le accomuna alla passione di Cristo.

Il dramma individuale e quello collettivo Il dramma di Jacopo rappresenta quello di molti altri giovani: illusi dagli ideali rivoluzionari, si erano sentiti traditi da Napoleone che, cedendo Venezia ai nemici austriaci, li aveva esposti alle rappresaglie degli avversari politici filoaustriaci. Ne è spia l’oscillazione tra la prima persona singolare («chi mi ha tradito», r. 4), che evidenzia come Jacopo si senta personalmente tradito da Napoleone, e plurale («patria nostra», r. 1), che sottolinea come il dramma del protagonista sia comune ad altri giacobini. Per accrescere il pathos, Foscolo si avvale efficacemente anche del non detto: Jacopo esprime raccapriccio per le notizie comunicategli dall’amico sulle persecuzioni subìte a Venezia dai giacobini (che il lettore può soltanto immaginare, in quanto mancano nel romanzo le lettere di Lorenzo). Lo sfondo storico della vicenda appare così tanto più tragico quanto più indeterminato.

Un protagonista già votato alla morte Edizione del 1802 delle Ultime lettere di Jacopo Ortis.

Fin da questa prima lettera il protagonista pensa alla morte e spera soltanto di essere sepolto nella sua terra, compianto da quelli che gli hanno voluto bene: è la stessa conclusione a cui, pur in modo più consapevole, arriverà alla fine del romanzo, la cui struttura appare così circolare. Jacopo dunque si configura come un personaggio “statico”, con un dramma già compiuto al principio dell’opera.

Uno stile “patetico”, al servizio delle emozioni La prime righe del romanzo hanno un ritmo franto, lapidario, che esprime la presa di coscienza di una situazione politica drammatica, avvertita dal protagonista come irreversibile; le brevi frasi sono inframezzate dalla successione incalzante delle interrogative, riferite a una situazione senza via d’uscita, viste le alternative, entrambe miserevoli: subire le persecuzioni austriache o affidarsi ai francesi traditori. Sul piano lessicale si nota la frequenza di termini riferibili al campo semantico del vissuto emozionale (perduto, piangere, sciagure, lagrime, ecc..), che intendono costruire fin dal principio una forte empatia tra il protagonista e i lettori.

La letteratura come autoritratto

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Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

COMPRENSIONE 1. Perché Jacopo Ortis si sente tradito da Napoleone? ANALISI 2. Che cosa si comprende del carattere di Lorenzo e di Jacopo attraverso le prime lettere? E del loro rapporto di amicizia? 3. Come si spiega, nella lettera, il passaggio dalla prima persona plurale alla prima singolare? STILE 4. Lo stile delle lettere di Jacopo è caratterizzato dal prevalere della funzione emotiva. Sottolinea gli elementi che la contraddistinguono (frasi esclamative, interrogative, puntini di sospensione, espressioni relative a sentimenti e stati d’animo). Con le opportune citazioni, indica i sentimenti di Jacopo espressi nella lettera. 5. Quali espressioni evidenziano il sentimento patriottico di Jacopo?

Interpretare

SCRITTURA 6. Come ha riscontrato Maria Antonietta Terzoli, Jacopo riprende nelle lettere espressioni evangeliche: indicale e poi prova a spiegarne le ragioni, alla luce del senso della lettera e del romanzo (max 15 righe). 7. L’Ortis ha stimolato le generazioni risorgimentali, motivandole all’impegno patriottico (➜ EDUCAZIONE CIVICA L’Ortis come libro di educazione patriottica, pag. 577). Ti sembra che il messaggio del romanzo sia ancora attuale? Tu e i tuoi coetanei provate un senso di appartenenza nei confronti del vostro paese o ritenete che – in un mondo globalizzato – l’idea di patria sia superata? Motiva la tua risposta in un testo di circa 20 righe.

EDUCAZIONE CIVICA

nucleo

Costituzione

competenza 1

Ugo Foscolo

T7

La passeggiata ad Arquà: l’affinità romantica tra Jacopo e Teresa Ultime lettere di Jacopo Ortis

U. Foscolo, Ultime lettere di Jacopo Ortis, a cura di G. Nuvoli, Principato, Milano 1986

In una delle prime lettere (di cui leggiamo uno stralcio significativo), Jacopo racconta di aver visitato la casa di Petrarca ad Arquà con la famiglia di Teresa e con Odoardo, promesso sposo di Teresa. La passeggiata e la conversazione rivelano la perfetta armonia tra Jacopo e Teresa, due anime fatte una per l’altra. In quell’occasione la fanciulla gli rivelerà per la prima volta il suo animo, raccontandogli di essere costretta dal padre a un matrimonio senza amore con l’insignificante (e da lei non amato) Odoardo.

20 Novembre1. Più volte incominciai questa lettera: ma la faccenda andava assai per le lunghe; e la bella giornata, la promessa di trovarmi alla villa per tempo, e la solitudine – ridi? – L’altr’jeri, e jeri mi svegliava proponendo di scriverti; e senza accorgermi, mi 5 trovava fuori di casa. Piove, grandina, fulmina: penso di rassegnarmi alla necessità, e di giovarmi di questa giornata d’inferno, scrivendoti. – Sei o sette giorni addietro s’è iti2 in pellegrinaggio. Io ho veduto la Natura più bella che mai. Teresa, suo padre, Odoardo, la piccola Isabellina, ed io siamo andati a visitare la casa del Petrarca in Arquà3. 10 Arquà è discosto, come tu sai, quattro miglia dalla mia casa; ma per più accorciare il cammino prendemmo la via dell’erta4. S’apriva appena il più bel giorno d’autun1 20 Novembre: del 1797. 2 s’è iti: siamo andati.

580 Ottocento 14 Ugo Foscolo

3 Arquà: località nei Colli Euganei presso Padova dove si trovano la casa e la tomba

di Petrarca, che vi morì nel 1374. 4 la via dell’erta: il sentiero in salita.


no. Parea che Notte seguìta dalle tenebre e dalle stelle fuggisse dal Sole, che uscia nel suo immenso splendore dalle nubi d’oriente, quasi dominatore dell’universo; e l’universo sorridea. Le nuvole dorate e dipinte a mille colori salivano su la volta del 15 cielo che tutto sereno mostrava quasi di schiudersi per diffondere sovra i mortali le cure della Divinità. Io salutava a ogni passo la famiglia de’ fiori e dell’erbe che a poco a poco alzavano il capo chinato dalla brina. Gli alberi susurrando soavemente, faceano tremolare contro la luce le gocce trasparenti della rugiada; mentre i venti dell’aurora rasciugavano il soverchio umore alle piante. Avresti udito una solenne 20 armonia spandersi confusamente fra le selve, gli augelli, gli armenti, i fiumi, e le fatiche degli uomini: e intanto spirava l’aria profumata delle esalazioni che la terra esultante di piacere mandava dalle valli e da’ monti al Sole, ministro maggiore della Natura. – Io compiango lo sciagurato che può destarsi muto, freddo e guardare tanti beneficj senza sentirsi gli occhi bagnati dalle lagrime della riconoscenza. Allora ho 25 veduto Teresa nel più bell’apparato delle sue grazie. Il suo aspetto per lo più sparso di una dolce malinconia, si andava animando di una gioja schietta, viva, che le usciva dal cuore; la sua voce era soffocata; i suoi grandi occhi neri aperti prima nell’estasi, si inumidivano poscia a poco a poco; tutte le sue potenze5 parevano invase dalla sacra beltà della campagna. In tanta piena6 di affetti le anime si schiu30 dono per versarli nell’altrui petto: ed ella si volgeva a Odoardo. Eterno Iddio! parea ch’egli andasse tentone7 fra le tenebre della notte, o ne’ deserti abbandonati dalla benedizione della Natura. Lo lasciò tutto a un tratto, e s’appoggiò al mio braccio, dicendomi – ma, Lorenzo! per quanto mi studi8 di continuare, conviene pur ch’io mi taccia. Se potessi dipingerti la sua pronunzia, i suoi gesti, la melodia della sua voce, 35 la sua celeste fisonomia, o ricopiar non foss’altro le sue parole senza cangiarne o traslocarne sillaba, certo che tu mi sapresti grado9; diversamente, rincresco10 persino a me stesso. Che giova copiare imperfettamente un inimitabile quadro, la cui fama soltanto lascia più senso che la sua misera copia? [...] Lorenzo, ne sono stanco; il rimanente del mio racconto, domani: il vento imperver40 sa; tuttavolta vo’11 tentare il cammino; saluterò Teresa in tuo nome. 5 potenze: energie vitali. 6 piena: intensità. 7 tentone: a tentoni. Si dice di un procedere incerto, nell’oscurità, di chi non può

vedere nulla e si affida al tatto, tastando il terreno con i piedi o con un bastone. Dunque Odoardo è totalmente insensibile alle bellezze della natura.

8 mi studi: mi sforzi. 9 mi sapresti grado: me ne saresti grato. 10 rincresco: dispiaccio. 11 tuttavolta vo’: tuttavia voglio.

Analisi del testo Il tempo della vicenda narrata e il tempo della scrittura Nella lettera si alternano due piani temporali: quello in cui si svolge la visita ad Arquà, una giornata autunnale che ancora conserva il radioso splendore estivo, e quello della «giornata d’inferno», che annuncia l’inverno imminente, durante la quale Jacopo scrive la lettera, quando una pioggia incessante sembra minacciare la fine del mondo. I due piani temporali si alternano a più riprese perché Jacopo, impaziente di vedere Teresa, tenta più volte di uscire per recarsi da lei, interrompendo la stesura della lettera, ma è ogni volta costretto a rinunciare a causa delle intemperie: e allora torna a casa e riprende la sua narrazione. L’alternanza tra i due piani temporali sembra assumere un valore simbolico: la giornata radiosa rispecchia l’armonia di Jacopo con il mondo, ritrovata grazie all’amore per Teresa, mentre la tempesta preannuncia il desolato e tragico seguito del romanzo.

L’affinità elettiva tra Jacopo e Teresa. Il medium della natura Nel passo della lettera riportato è protagonista lo splendore della natura: è ritratto un paesaggio autunnale, ma pervaso dall’ultima luce del sole e ancora vitale. La rappresentazione ha

La letteratura come autoritratto

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tratti idillici, propri di una natura quasi arcadica, in cui dominano la bellezza e l’armonia, che accomuna ogni elemento del creato. La commozione di Jacopo di fronte a ciò che lo circonda, in cui si manifesta una sensibilità già romantica, lo accomuna a Teresa, che vive le stesse emozioni, in una piena sintonia spirituale con il giovane. Significativa oltremodo è invece la distanza di Odoardo, che di fronte a tanta bellezza si mostra del tutto insensibile: «…parea ch’egli andasse tentone tra le tenebre della notte...». Significativamente la giovane Teresa, che si era inizialmente rivolta al promesso sposo, lascia il suo braccio per quello di Jacopo.

Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

SINTESI 1. Sintetizza il contenuto della lettera in circa 3 righe. LESSICO 2. Analizza la lettera dal punto di vista lessicale e individua i termini e le espressioni che rivelano la tensione emotiva del protagonista. STILE 3. Sulla base dell’episodio descrivi i caratteri di Jacopo, Teresa, Odoardo e del signor T***.

Interpretare

SCRITTURA CREATIVA 4. Riscrivi l’episodio cambiando il punto di vista di Jacopo con quello di uno di questi personaggi: Teresa, Odoardo, il signor T***.

online T8 Ugo Foscolo

Il Giovine Eroe si mostra per quello che è: «un animo basso e crudele» Ultime lettere di Jacopo Ortis

Ugo Foscolo

T9

Dopo quel bacio... il tema delle illusioni

LEGGERE LE EMOZIONI

Ultime lettere di Jacopo Ortis U. Foscolo, Ultime lettere di Jacopo Ortis, a cura di G. Nuvoli, Principato, Milano 1986

Nel brano si descrive lo stato d’animo di Jacopo dopo aver baciato Teresa.

15 maggio1. Dopo quel bacio io son fatto2 divino. Le mie idee sono più alte e ridenti, il mio aspetto più gajo, il mio cuore più compassionevole. Mi pare che tutto s’abbellisca a’ miei sguardi; il lamentar degli augelli3, e il bisbiglio de’ zefiri4 fra le frondi son 5 oggi più soavi che mai; le piante si fecondano, e i fiori si colorano sotto a’ miei piedi; non fuggo più gli uomini, e tutta la Natura mi sembra mia. Il mio ingegno5 è tutto bellezza e armonia. Se dovessi scolpire o dipingere la Beltà, io sdegnando ogni modello terreno la troverei nella mia immaginazione. O Amore! le arti belle sono tue figlie; tu primo hai guidato su la terra la sacra poesia, solo alimento degli animali 10 generosi che tramandano dalla solitudine i loro canti sovrumani sino alle più tarde generazioni, spronandole con le voci e co’ pensieri spirati6 dal cielo ad altissime imprese: tu raccendi ne’ nostri petti la sola virtù utile a’ mortali, la Pietà, per cui sorride talvolta il labbro7 dell’infelice condannato ai sospiri: e per te rivive sempre il piacere fecondatore degli esseri, senza del quale tutto sarebbe caos e morte. Se 15 tu fuggissi, la Terra diverrebbe ingrata8; gli animali, nemici fra loro; il Sole, foco

1 15 maggio: del 1798. 2 fatto: diventato. 3 lamentar degli augelli: il cinguettio degli uccelli.

582 Ottocento 14 Ugo Foscolo

4 zefiri: venticelli primaverili. 5 mio ingegno: la mia disposizione d’animo. 6 spirati: ispirati.

7 il labbro: la bocca (sineddoche). 8 ingrata: sgradevole.


malefico; e il Mondo, pianto, terrore e distruzione universale. Adesso che l’anima mia risplende di un tuo raggio, io dimentico le mie sventure; io rido delle minacce della fortuna, e rinunzio alle lusinghe dell’avvenire. - O Lorenzo! sto spesso sdrajato su la riva del lago de’ cinque fonti: mi sento vezzeggiare9 la faccia e le chiome 20 dai venticelli che alitando sommovono10 l’erba, e allegrano i fiori, e increspano le limpide acque del lago. Lo credi tu? io delirando deliziosamente mi veggo dinanzi le Ninfe11 ignude, saltanti, inghirlandate di rose, e invoco in lor compagnia le Muse e l’Amore; e fuor dei rivi che cascano sonanti e spumosi, vedo uscir sino al petto con le chiome stillanti12 sparse su le spalle rugiadose, e con gli occhi ridenti le Na25 jadi13, amabili custodi delle fontane. Illusioni! grida il filosofo14. - Or non è tutto illusione? tutto! Beati gli antichi che si credeano degni de’ baci delle immortali dive del cielo; che sacrificavano alla Bellezza e alle Grazie; che diffondeano lo splendore della divinità su le imperfezioni dell’uomo, e che trovavano il Bello ed il Vero accarezzando gli idoli15 della lor fantasia! Illusioni! ma intanto senza di esse io non 30 sentirei la vita che nel dolore, o (che mi spaventa ancor più) nella rigida e nojosa indolenza16: e se questo cuore non vorrà più sentire, io me lo strapperò dal petto con le mie mani, e lo caccerò come un servo infedele. 9 vezzeggiare: carezzare. 10 sommovono: fanno ondeggiare. 11 Ninfe: divinità dei boschi.

12 stillanti: imperlate di gocce d’acqua. 13 Najadi: divinità delle fonti e delle acque. 14 il filosofo: il filosofo illuminista.

15 idoli: creazioni dell’immaginazione. 16 indolenza: inerzia.

Analisi del testo La metamorfosi prodotta dall’amore e il tema delle illusioni Nella prima parte della lettera Foscolo rappresenta lo sconvolgimento emotivo e spirituale indotto in lui dal primo bacio di Teresa. L’esperienza ha prodotto in lui una metamorfosi, che ha investito ogni sfera del suo essere: le sue idee sono divenute più alte, il suo aspetto più gajo, il suo cuore più compassionevole, il suo stesso intelletto «è tutto bellezza e armonia». L’amore si prospetta come esperienza non solo genericamente positiva, ma addirittura salvifica, antidoto alle pulsioni distruttive e all’attrazione funesta per la morte che caratterizza il protagonista. Alla fantasia del giovane, che vive un momento felice di pienezza esistenziale, appaiono naturalmente delle immagini di bellezza, evocate secondo i modi dell’immaginario neoclassico. L’ultima parte del testo dà spazio a una riflessione critica attraverso la voce del filosofo che contesta, alla luce di un credo razionalistico, come illusorio il mondo ideale in cui, complice l’amore, Jacopo-Foscolo si è rifugiato. La riflessione foscoliana, rivendicando il valore delle illusioni, considera quindi malinconicamente la distanza che separa il mondo antico, naturalmente disposto ad aderire al mito, agli “idoli della fantasia”, dal mondo moderno, da un presente arido e disilluso. Una visione che troverà in Giacomo Leopardi una piena definizione.

Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

SINTESI 1. Sintetizza il contenuto della lettera in circa 5 righe. COMPRENSIONE 2. In cosa consistono le illusioni e che in modo rendono migliore la vita? STILE 3. Che figura retorica è contenuta nell’espressione «delirando deliziosamente» (r. 21)?

Interpretare LEGGERE LE EMOZIONI

SCRITTURA 4. Nella lettera a Jacopo, dopo aver baciato Teresa, il mondo appare trasfigurato. Ti è mai capitato, sull’onda di una passione sconvolgente, di percepire la realtà in modo diverso? Credi, come sostiene Jacopo riferendosi al pensiero del filosofo, che l’eccesso di razionalità del mondo moderno possa ridurre le emozioni a pure illusioni? Motiva la tua risposta in un testo di circa 20 righe.

La letteratura come autoritratto

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online T10 Ugo Foscolo

La visita alle tombe di Santa Croce e i fantasmi di Montaperti Ultime lettere di Jacopo Ortis

Ugo Foscolo

T11

Il colloquio fra Jacopo e Parini

EDUCAZIONE CIVICA

nucleo Costituzione competenza 1

Ultime lettere di Jacopo Ortis U. Foscolo, Ultime lettere di Jacopo Ortis, a cura di G. Nuvoli, Principato, Milano 1986

Mentre l’amata Teresa è ormai prossima alle nozze con Odoardo, Jacopo sta peregrinando per l’Italia. Nel dicembre del 1798 si trova a Milano, capitale della Repubblica Cisalpina. Nel capoluogo lombardo il giovane incontra il poeta Giuseppe Parini, a cui confida le sue speranze di contribuire a liberare l’Italia ma da cui riceve una disillusa lezione di vita. Riproduciamo la parte centrale e più nota della lunga lettera, in cui si dà voce appunto al dialogo tra Parini e Jacopo.

Milano, 4 Dicembre. [...] Jer sera dunque io passeggiava con quel vecchio venerando nel sobborgo orientale della città sotto un boschetto di tigli1. Egli si sosteneva da una parte sul mio braccio, 5 dall’altra sul suo bastone2: e talora guardava gli storpj suoi piedi, e poi senza dire parola volgevasi a me, quasi si dolesse di quella sua infermità, e mi ringraziasse della pazienza con la quale io lo accompagnava. S’assise3 sopra uno di que’ sedili ed io con lui: il suo servo ci stava poco discosto. Il Parini è il personaggio più dignitoso e più eloquente ch’io m’abbia mai conosciuto; e d’altronde un profondo, generoso, meditato dolore a chi non dà somma 10 eloquenza? Mi parlò a lungo della sua patria, e fremeva e per le antiche tirannidi4 e per la nuova licenza5. Le lettere prostituite6; tutte le passioni languenti e degenerate in una indolente vilissima corruzione: non più la sacra ospitalità, non la benevolenza, non più l’amore figliale – e poi mi tesseva gli annali recenti7, e i delitti di 15 tanti uomiciattoli ch’io degnerei di nominare, se le loro scelleraggini mostrassero il vigore d’animo, non dirò di Silla e di Catilina, ma di quegli animosi masnadieri che affrontano il misfatto quantunque e’ si vedano presso il patibolo8 – ma ladroncelli, tremanti, saccenti – più onesto9 insomma è tacerne. – A quelle parole io m’infiammava di un sovrumano furore, e sorgeva10 gridando: Chè non si tenta? morremo? 20 ma frutterà dal nostro sangue il vendicatore11. – Egli mi guardò attonito: gli occhi 1 nel sobborgo... tigli: ai giardini di Porta Venezia. 2 sul suo bastone: nel 1798, anno in cui Foscolo immagina l’incontro, Parini era anziano (sarebbe morto l’anno successivo) e, fin dalla giovinezza, era claudicante a causa di una malattia. 3 S’assise: si sedette. 4 per le antiche tirannidi: il dominio spagnolo (secc. XVI-XVII) e quello austriaco (sec. XVIII). 5 nuova licenza: riferimento al potere francese, segnato da forme di degenerazione della libertà (licenza) e da arbitri. 6 Le lettere prostituite: la letteratura venduta ai potenti (cioè i letterati che si ven-

584 Ottocento 14 Ugo Foscolo

dono al potere). 7 mi tesseva... recenti: mi narrava gli avvenimenti più recenti. 8 animosi... patibolo: coraggiosi delinquenti (masnadieri) che affrontano i misfatti anche se sono certi di essere condannati a morte. Il mito del fuorilegge è tipicamente romantico ed è reso celebre in particolare da una fortunata opera teatrale dell'intellettuale tedesco Friedrich Schiller, I masnadieri (1781). Silla (138-78 a.C., un protagonista delle guerre civili a Roma, dittatore e persecutore degli avversari politici con liste di proscrizione) e Catilina (che ordì una congiura antisenatoria nel 63 a.C., sventata da

Cicerone, e fu sconfitto in battaglia) sono ricordati come uomini spietati, ma dotati di una grandezza d’animo pure nella crudeltà. 9 onesto: onorevole, dignitoso. 10 sorgeva: mi alzai in piedi. 11 Chè... vendicatore: perché non tentare (la libertà della patria)? Moriremo? Ma dal nostro sangue nascerà un vendicatore? Le parole di Jacopo sono sottolineate dalla citazione di un passo dell’Eneide (IV, 625) in cui Didone, morendo, chiede che dal suo sangue nasca contro i romani un vendicatore, che sarebbe stato Annibale. Tutta la lettera è intessuta di echi classici, a elevarne lo stile e sottolinearne l’importanza.


miei in quel dubbio12 chiarore scintillavano spaventosi, e il mio dimesso13 e pallido aspetto si rialzò con aria minaccevole – io taceva, ma si sentiva ancora un fremito rumoreggiare cupamente dentro il mio petto. E ripresi: Non avremo salute14 mai? ah se gli uomini si conducessero sempre al fianco la morte15, non servirebbero sì 25 vilmente. – Il Parini non apria bocca; ma stringendomi il braccio, mi guardava ogni ora più fisso. Poi mi trasse, come accennandomi perch’io tornassi a sedermi: E pensi tu, proruppe, che s’io discernessi un barlume di libertà, mi perderei ad onta della mia inferma vecchiaja in questi vani lamenti? o giovine degno di patria più grata! se non puoi spegnere quel tuo ardore fatale, ché non lo volgi ad altre passioni? 30 Allora io guardai nel passato – allora io mi voltava avidamente al futuro, ma io errava sempre nel vano16 e le mie braccia tornavano deluse17 senza pur mai stringere nulla; e conobbi tutta tutta18 la disperazione del mio stato. Narrai a quel generoso Italiano la storia delle mie passioni, e gli dipinsi Teresa come uno di que’ genj celesti i quali par che discendano a illuminare la stanza19 tenebrosa di questa vita. E alle mie pa35 role e al mio pianto, il vecchio pietoso più volte sospirò dal cuore profondo. – No, io gli dissi, non veggo più che il sepolcro: sono figlio di madre affettuosa e benefica; spesse volte mi sembrò di vederla calcare tremando le mie pedate20 e seguirmi fino a sommo il monte, donde io stava per diruparmi21, e mentre era quasi con tutto il corpo abbandonato nell’aria – essa afferravami per la falda delle vesti, e mi ritraeva22, ed io 40 volgendomi non udiva più che il suo pianto. Pure s’ella – spiasse tutti gli occulti miei guai, implorerebbe ella stessa dal Cielo il termine degli ansiosi23 miei giorni. Ma l’unica fiamma vitale che anima ancora questo travagliato mio corpo, è la speranza di tentare la libertà della patria. – Egli sorrise mestamente; e poiché s’accorse che la mia voce infiochiva, e i miei sguardi si abbassavano immoti sul suolo, ricominciò: – Forse que45 sto tuo furore di gloria potrebbe trarti a difficili imprese; ma – credimi; la fama degli eroi spetta un quarto alla loro audacia; due quarti alla sorte; e l’altro quarto a’ loro delitti. Pur se ti reputi bastevolmente fortunato e crudele per aspirare a questa gloria, pensi tu che i tempi te ne porgano i mezzi? I gemiti di tutte le età, e questo giogo della nostra patria24 non ti hanno per anco25 insegnato che non si dee26 aspettare libertà 50 dallo straniero? Chiunque s’intrica27 nelle faccende di un paese conquistato non ritrae che il pubblico danno, e la propria infamia. Quando e doveri e diritti stanno su la punta della spada, il forte scrive le leggi col sangue e pretende il sacrificio della virtù28. E allora? avrai tu la fama e il valore di Annibale che profugo cercava per l’universo un nemico al popolo Romano29? – Né ti sarà dato di essere giusto impunemente30. 55 Un giovine dritto e bollente di cuore, ma povero di ricchezze, ed incauto d’ingegno quale sei tu, sarà sempre o l’ordigno del fazioso, o la vittima del potente31. E dove32 12 in quel dubbio: in quell’incerto. 13 dimesso: abbattuto. 14 salute: salvezza. 15 si conducessero... morte: fossero sempre consapevoli di dover morire. 16 errava... vano: brancolavo sempre nel vuoto. 17 deluse: vuote. 18 tutta tutta: completamente. 19 stanza: dimora, sede (è la terra). 20 calcare... pedate: seguire tremando le mie orme. 21 diruparmi: gettarmi nel vuoto. 22 mi ritraeva: mi tirava indietro.

23 ansiosi: angosciati. 24 I gemiti… patria: le sofferenze del popolo italiano nei secoli passati e il presente giogo della dominazione francese. 25 per anco: ancora. 26 dee: deve. 27 s’intrica: s’immischia. 28 Quando… virtù: quando il senso della giustizia è sovrastato dalla forza, il conquistatore impone la legge con il sangue e obbliga (gli oppositori) a sacrificare il diritto. 29 E allora?... popolo Romano: si può pensare di combattere l’oppressore

dall’esterno, come tentò di fare Annibale, che esule (da Cartagine), cercava un alleato per prendersi la sua rivincita su Roma. 30 Né ti sarà dato… impunemente: e non ti sarà concesso di comportarti secondo giustizia senza pagarne il prezzo. 31 Un giovine … potente: un giovane retto e appassionato (dritto e bollente), ma senza mezzi, e imprudente per carattere (incauto d’ingegno) quale sei tu, sarà sempre o lo strumento di un intrigante (fazioso) o la vittima di un potente. 32 dove: anche se.

La letteratura come autoritratto

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tu nelle pubbliche cose33 possa preservarti incontaminato dalla comune bruttura, oh! tu sarai altamente laudato; ma spento poscia dal pugnale notturno della calunnia34; la tua prigione sarà abbandonata da’ tuoi amici, e il tuo sepolcro degnato appena di 60 un secreto sospiro. – Ma poniamo che tu superando e la prepotenza degli stranieri e la malignità de’ tuoi concittadini e la corruzione de’ tempi, potessi aspirare al tuo intento; di’? spargerai tutto il sangue col quale conviene nutrire una nascente repubblica35? arderai le tue case con le faci della guerra civile36? unirai col terrore i partiti37? spegnerai con la morte le opinioni? adeguerai con le stragi le fortune38? ma se tu cadi 65 tra via, vediti esecrato39 dagli uni come demagogo, dagli altri come tiranno. Gli amori della moltitudine sono brevi ed infausti; giudica, più che dall’intento, dalla fortuna40; chiama virtù il delitto utile, e scelleraggine l’onestà che le pare dannosa; e per avere i suoi plausi, conviene o atterrirla, o ingrassarla41, e ingannarla sempre. E ciò sia. Potrai tu allora inorgoglito dalla sterminata fortuna reprimere in te la libidine del supremo 70 potere che ti sarà fomentata e dal sentimento della tua superiorità, e della conoscenza del comune avvilimento? I mortali sono naturalmente schiavi, naturalmente tiranni, naturalmente ciechi. Intento tu allora a puntellare il tuo trono, di filosofo saresti fatto tiranno; e per pochi anni di possanza e di tremore42, avresti perduta la tua pace, e confuso il tuo nome fra la immensa turba dei despoti. – Ti avanza ancora un seggio 75 fra’ capitani43; il quale si afferra per mezzo di un ardire feroce, di una avidità che rapisce per profondere44, e spesso di una viltà per cui si lambe la mano che t’aita a salire45. Ma – o figliuolo! l’umanità geme al nascere di un conquistatore; e non ha per conforto se non la speranza di sorridere su la sua bara. – Tacque – ed io dopo lunghissimo silenzio esclamai: O Cocceo Nerva! tu almeno 80 sapevi morire incontaminato46. – Il vecchio mi guardò – Se tu né speri, né temi fuori di questo mondo – e mi stringeva la mano – ma io! – Alzò gli occhi al Cielo, e quella severa sua fisionomia si raddolciva di soave conforto, come s’ei lassù contemplasse tutte le tue speranze47. – Intesi un calpestio che s’avanzava verso di noi; e poi travidi gente fra’ tiglj; ci rizzammo48; e l’accompagnai sino alle sue stanze.

33 nelle pubbliche cose: nella vita politica. 34 spento… calunnia: caduto poi vittima della calunnia (per metafora: pugnalato a morte per mano di calunniatori che colpiscono nel buio delle tenebre). 35 col quale conviene... repubblica: che è necessario spargere per fondare un nuovo ordine politico e sociale. Si vuol dire che tentare di instaurare nuovi regimi, anche se giusti nelle intenzioni, implica necessariamente l’uso della violenza (si tratta di una questione che le recenti esperienze della rivoluzione francese e della fallita rivoluzione napoletana del 1799 avevano reso d’attualità). 36 arderai… civile: le devastazioni nella guerra civile sono evocate dall’immagini degli incendi appiccati dalle faci (“fiac-

586 Ottocento 14 Ugo Foscolo

cole”). 37 unirai… i partiti: allusione alla dittatura che cancella i partiti politici. 38 adeguerai... fortune: imporrai un’equa distribuzione delle ricchezze con la strage (dei più ricchi). 39 vediti esecrato: sappi che sarai odiato. 40 più che… fortuna: più dal risultato che dall’intenzione. 41 ingrassarla: arricchirla. 42 di possanza e di tremore: di potere e di paura (tremore sia dei sudditi sottomessi sia del tiranno che teme per il suo potere). 43 Ti avanza... fra’ capitani: ti resta ancora la possibilità di cercare di ottenere un alto grado militare. 44 rapisce per profondere: saccheggia (le popolazioni) per elargire donativi (ai

propri soldati).

45 si lambe... salire: si lecca la mano che ti aiuta (t’aita) a fare carriera. L’immagine figurata indica la necessità di un’adulazione servile anche per fare carriera nell’esercito. 46 O Cocceo... incontaminato: Cocceo Nerva era un senatore romano, che (come ricorda Tacito, Annali VI 26) preferì suicidarsi per conservare la propria dignità (morire incontaminato), piuttosto che doversi piegare al potere tirannico dell’imperatore Tiberio. Nell’edizione a stampa dell’Ortis, Foscolo fa riportare in nota il passo di Tacito. 47 Alzò... speranze: il gesto di Parini sottolinea la fede religiosa del poeta, che rende per lui inaccettabile il suicidio. 48 ci rizzammo: ci alzammo in piedi.


Analisi del testo Un Parini “reinterpretato” L’incontro tra Ortis e Parini, a cui Foscolo affida una funzione molto importante nel messaggio complessivo della sua opera, si immagina accaduto a Milano, pochi mesi prima della morte del poeta (avvenuta nell’agosto 1799). L’incontro è frutto della fantasia di Foscolo: non è affatto certo che abbia avuto modo di conoscere di persona l’autore del Giorno. Quello che appare chiaro è che Foscolo sceglie Parini innanzitutto come esempio autorevole di intellettuale ideale, integerrimo, alieno da compromessi, quale appare in particolare nell’ode La caduta, un testo di particolare rilevanza nella costruzione del “mito di Parini” operante sulle generazioni più giovani. All’autore della Caduta si associa ovviamente, nella visione foscoliana, anche l’intellettuale, che assume una funzione civile, quale demistificatore dei costumi dell’aristocrazia, che si manifesta nel Giorno. Ma certo l’intellettuale che compare nel testo foscoliano è soprattutto un’invenzione foscoliana e non può essere identificato nel Parini storico: al di là dei contenuti del dialogo, basterebbero già a evidenziarlo i modi enfatici e comunque appassionati del suo discorso, di certo più “alfieriani” che pariniani. Quanto ai contenuti, Foscolo affida alla figura di Parini, nel ruolo di portavoce delle sue idee, non solo l’aspra denuncia dello svilimento politico e valoriale presente, ma anche una più generale visione “machiavellica” della politica che non può, per varie ragioni, essere davvero attribuita a Parini.

La “sceneggiatura” di un tema chiave: il ruolo dell’intellettuale in un tempo drammatico Il colloquio serve a Foscolo per “mettere in scena” il tema fondamentale del compito dell’intellettuale, rapportato a un preciso momento storico, quello del passaggio dagli ideali rivoluzionari, che avevano appassionato tanti giovani, alla delusione, dopo che l’epopea napoleonica si era trasformata in regime. Tra i due interlocutori, Jacopo rappresenta nel dialogo la voce idealista di chi, smanioso di azioni generose per la libertà della patria, è disposto a sacrificare persino la vita. A Parini è affidato invece il ruolo di “coscienza critica” che, pur sviluppando una severa diagnosi della decadenza dei tempi, smorza la passionale reazione di Jacopo al degrado e alle ingiustizie, spingendolo a una riflessione sulle reali possibilità di azione nella difficile situazione italiana. Agli “astratti furori” di Jacopo si contrappongono nel dialogo le amare, realistiche, considerazioni di Parini, che si iscrivono in una visione che appare nel dialogo via via più pessimistica man mano che l’argomentazione procede.

Un pessimismo sempre più radicale In un primo tempo, Parini diagnostica severamente la generale corruzione, la “prostituzione” della cultura, pronta a vendersi, e la crisi di una intera civiltà, che ha ormai perduto i valori più importanti; quindi si riferisce in particolare a Jacopo, mettendo in discussione la possibilità, per «un giovine dritto (onesto) e bollente di cuore, ma povero di ricchezze» di svolgere un’azione efficace, mantenendosi «incontaminato dalla comune bruttura». Prospetta poi una visione negativa della rivoluzione – ammesso che possa realizzarsi – la quale implicherebbe nuove violenze, terrore, stragi (con evidente memoria della rivoluzione francese). Ma la “lezione” del vecchio poeta al giovane prosegue con un quadro di spirito machiavellico sull’andamento di ogni tempo della politica, che manifesta una visione radicalmente pessimistica. Di fatto il discorso di Parini finisce per sancire la impossibilità dell’azione e per avallare la decisione di Jacopo di porre termine a una vita che non trova senso.

Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

SINTESI 1. Dividi il testo in sequenze, assegnando un titolo di sintesi a ciascuna di esse. 2. Riassumi le critiche alla società milanese espresse nella lettera. COMPRENSIONE 3. Che cosa consiglia Parini a Jacopo? Come reagisce quest’ultimo? 4. Quali sono le possibilità di intervento dell’intellettuale nella politica e nella storia prese in esame nella lettera? Quali vengono respinte? Per quali ragioni?

La letteratura come autoritratto

2 587


ANALISI 5. Nella lettera il personaggio di Ortis è connotato da grande passionalità. Sottolinea alcune delle espressioni che la evidenziano.

Interpretare

SCRITTURA 6. Alla luce dell’analisi svolta, illustra e discuti il giudizio di Luigi Russo sul personaggio Parini: «Il Parini sentì forte la dignità di sé, come uomo, come individuo, ma si tirò in disparte di fronte alle lotte politiche: austriaci o francesi, egli s’inchinò, rassegnato e docile all’eterna onnipotenza dei reggitori del suo paese. Ma il Parini delle Ultime lettere è un Parini fortemente alfierizzato e foscoleggiante; il che capita sempre agli uomini di generoso sentire che investono di sé stessi anche gli indifferenti o le persone miti, come tutti fossero partecipi della loro accesa passione». Organizza la tua esposizione (max 15-20 righe) in base a questi punti: a. Quali temi alfieriani emergono nella lettera? b. In che senso il ritratto di Parini può essere definito foscoleggiante?

EDUCAZIONE CIVICA

7. Nella lettera Foscolo, attraverso le parole pronunciate da Parini, denuncia la «prostituzione» della cultura, pronta a vendersi, asservendosi al potere. Credi che oggi gli intellettuali riescano a esprimere la loro voce per guidare un processo di rigenerazione etica e civile della nostra società o che abbiano abdicato al loro ruolo?

nucleo

Costituzione

competenza 1

8. Di fronte a una crisi di valori come quella analizzata lucidamente nella lettera dall’anziano Parini, come ti comporteresti? Saresti – in quanto giovane – animato dalla passione e dalla smania di azioni idealiste, come Jacopo, o saresti più propenso a un’analisi pessimista e realistica della situazione, come Parini?

Ugo Foscolo

T12

La natura “sublime” e la riflessione sulla storia: la lettera da Ventimiglia

LEGGERE LE EMOZIONI

Ultime lettere di Jacopo Ortis U. Foscolo, Ultime lettere di Jacopo Ortis, a cura di G. Nuvoli, Principato, Milano 1986

Jacopo continua il suo viaggio in Liguria, da cui dovrebbe passare in Francia attraverso le Alpi. A Pietra Ligure incontra un vecchio compagno di università, anch’egli esule, che vaga con la moglie e una piccola figlia in condizioni di estrema miseria. Giunto a Ventimiglia, sui confini tante volte violati dalle invasioni straniere, Ortis riflette sulle vicende italiane, inscrivendole nel corso millenario della storia. In questa luce, ogni sua speranza si dissolve: in nessun luogo della terra – «foresta di belve» – esiste la giustizia, ovunque regnano sopraffazione e violenza; perciò Jacopo rinuncia a passare in una terra straniera. Tutto sembra ormai convergere verso la scelta finale del suicidio.

Ventimiglia, 19 e 20 Febbraro1. [...] Alfine eccomi in pace! – Che pace? stanchezza, sopore di sepoltura. Ho vagato per queste montagne. Non v’è albero, non tugurio, non erba2. Tutto è bronchi3; aspri e lividi macigni; e qua e là molte croci che segnano il sito4 de’ viandanti assassina5 ti. – Là giù è il Roja5, un torrente che quando si disfanno i ghiacci precipita dalle viscere delle Alpi, e per gran tratto ha spaccato in due questa immensa montagna. V’è un ponte presso alla marina6 che ricongiunge il sentiero. Mi sono fermato su 1 Febbraro: febbraio (dell’anno 1799). 2 Non v’è... erba: l’anafora, con le tre successive negazioni, sottolinea come il paesaggio appaia privo di vita. 3 bronchi: nudi rami, sterpi. La paro-

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la evoca la selva dei suicidi, nell’Inferno dantesco (If XIII, v. 26). L’asprezza del paesaggio è sottolineata anche a livello fonico. 4 sito: luogo.

5 Roja: torrente che sfocia presso Ventimiglia. Il deittico Là giù conferisce un senso di immediatezza alla descrizione. 6 alla marina: al mare.


quel ponte, e ho spinto gli occhi sin dove può giungere la vista; e percorrendo due argini di altissime rupi e di burroni cavernosi, appena si vedono imposte su le cer7 8 10 vici dell’Alpi altre Alpi di neve che s’immergono nel Cielo e tutto biancheggia e si confonde – da quelle spalancate Alpi cala e passeggia ondeggiando la tramontana9, e per quelle fauci10 invade il Mediterraneo. La Natura siede qui solitaria e minacciosa, e caccia da questo suo regno tutti i viventi. I tuoi confini, o Italia, son questi! ma sono tutto dì11 sormontati d’ogni parte dalla 12 13 15 pertinace avarizia delle nazioni. Ove sono dunque i tuoi figli ? Nulla ti manca se non la forza della concordia. Allora io spenderei gloriosamente la mia vita infelice per te: ma che può fare il solo mio braccio e la nuda mia voce? – Ov’è l’antico terrore della tua gloria? Miseri! noi andiamo ogni dì memorando14 la libertà e la gloria degli avi, le quali quanto più splendono tanto più scoprono la nostra abbietta 20 schiavitù. Mentre invochiamo quelle ombre magnanime, i nostri nemici calpestano i loro sepolcri. E verrà forse giorno che noi perdendo e le sostanze, e l’intelletto, e la voce, sarem fatti simili agli schiavi domestici degli antichi, o trafficati15 come i miseri Negri, e vedremo i nostri padroni schiudere le tombe e disseppellire, e disperdere al vento le ceneri di que’ Grandi per annientarne le ignude16 memorie: poiché oggi 17 25 i nostri fasti ci sono cagione di superbia, ma non eccitamento dell’antico letargo. Così grido quand’io mi sento insuperbire nel petto il nome Italiano, e rivolgendomi intorno io cerco, né trovo più la mia patria. – Ma poi dico: Pare che gli uomini sieno fabbri delle proprie sciagure18; ma le sciagure derivano dall’ordine universale, e il genere umano serve orgogliosamente e ciecamente a’ destini19. Noi argomentiamo 20 30 su gli eventi di pochi secoli: che sono eglino nell’immenso spazio del tempo? Pari alle stagioni della nostra vita mortale, pajono talvolta gravi di straordinarie vicende, le quali pur sono comuni e necessarj effetti del tutto. L’universo si controbilancia21. Le nazioni si divorano perché una non potrebbe sussistere senza i cadaveri dell’altra. Io guardando da queste Alpi l’Italia piango e fremo, e invoco contro agl’invasori 35 vendetta; ma la mia voce si perde tra il fremito ancora vivo di tanti popoli trapassati, quando i Romani rapivano22 il mondo, cercavano oltre a’ mari e a’ deserti nuovi imperi da devastare, manomettevano gl’Iddii de’ vinti23, incatenavano principi e popoli liberissimi, finché non trovando più dove insanguinare i lor ferri24, li ritorceano contro le proprie viscere25. Così gli Israeliti trucidavano i pacifici abitatori di 26 40 Canaan , e i Babilonesi poi strascinarono nella schiavitù i sacerdoti, le madri, e i figliuoli del popolo di Giuda27. Così Alessandro rovesciò l’impero di Babilonia28, e dopo avere passando arsa gran parte della terra, si corrucciava che non vi fosse 7 su le cervici: sulle cime. 8 di neve: innevate. 9 la tramontana: vento freddo del settentrione. Il vento che proviene dalle Alpi, superando il confine italiano, evoca le invasioni straniere tante volte subìte dall’Italia nel corso dei secoli. 10 per quelle fauci: attraverso quei valichi. L’espressione figurata evoca l’insaziabile avidità delle nazioni straniere, minacciose, come se fossero pronte a divorare l’Italia. 11 tutto dì: continuamente. 12 pertinace avarizia: insaziabile avidità. 13 i tuoi figli: gli italiani, che dovrebbe-

ro difendere la loro patria dalle invasioni straniere. 14 memorando: ricordando. 15 trafficati: venduti. 16 ignude: non onorate dagli italiani. 17 fasti: glorie. 18 Pare... sciagure: secondo le apparenze, gli uomini sono responsabili delle proprie disgrazie. 19 serve... destini: è orgoglioso e cieco strumento del destino. 20 eglino: essi. 21 si controbilancia: mantiene un costante equilibrio tra creazione e distruzione (se qualcosa, nella natura e nella storia viene creato, qualcos’altro viene distrutto).

22 rapivano: rapinavano. 23 manomettevano... vinti: profanavano le divinità dei vinti.

24 ferri: armi. La metonimia sottolinea la violenza dell’immagine. 25 li ritorceano... viscere: finivano per dilaniarsi in guerre civili. 26 Israeliti... Canaan: gli ebrei massacrarono i pacifici abitanti della regione di Canaan, in Palestina. 27 Babilonesi... Giuda: i Babilonesi poi deportarono in schiavitù i figli del popolo di Giuda. 28 l’impero di Babilonia: l’impero persiano, nel 331 a.C.

La letteratura come autoritratto

2 589


un altro universo. Così gli Spartani tre volte smantellarono Messene29 e tre volte cacciarono dalla Grecia i Messeni che pur Greci erano della stessa religione e nipoti 30 45 de’ medesimi antenati. Così sbranavansi gli antichi Italiani finché furono ingojati dalla fortuna di Roma. Ma in pochissimi secoli la regina del mondo divenne preda de’ Cesari, de’ Neroni, de’ Costantini, de’ Vandali, e de’ Papi. Oh quanto fumo di umani roghi ingombrò il Cielo della America, oh quanto sangue d’innumerabili popoli che né timore né invidia recavano agli Europei, fu dall’Oceano portato a 31 50 contaminare d’infamia le nostre spiagge ! ma quel sangue sarà un dì vendicato e si rovescierà su i figli degli Europei! Tutte le nazioni hanno le loro età. Oggi sono tiranne per maturare la propria schiavitù di domani: e quei che pagavano dianzi vilmente il tributo, lo imporranno un giorno col ferro e col fuoco. La Terra è una foresta di belve. La fame, i diluvj, e la 55 peste sono ne’ provvedimenti della Natura come la sterilità di un campo che prepara l’abbondanza per l’anno vegnente: e chi sa? fors’anche le sciagure di questo globo apparecchiano la prosperità di un altro32. Frattanto noi chiamiamo pomposamente virtù tutte quelle azioni che giovano alla sicurezza di chi comanda e alla paura di chi serve. I governi impongono giustizia: 60 ma potrebbero eglino imporla se per regnare non l’avessero prima violata? Chi ha derubato per ambizione le intere province, manda solennemente alle forche chi per fame invola del pane. […] Lorenzo, sai tu dove vive ancora la vera virtù? in noi pochi deboli o sventurati; 65 in noi, che dopo avere sperimentati tutti gli errori, e sentiti tutti i guai della vita, sappiamo compiangerli e soccorrerli. Tu o Compassione, sei la sola virtù! tutte le altre sono virtù usuraje33. Ma mentre io guardo dall’alto le follie e le fatali sciagure della umanità, non mi sento forse tutte le passioni e la debolezza ed il pianto, soli elementi dell’uomo? 70 Non sospiro ogni dì la mia patria? Non dico a me lagrimando: Tu hai una madre e un amico – tu ami – te aspetta una turba di miseri, a cui se’ caro, e che forse sperano in te – dove fuggi? anche nelle terre straniere ti perseguiranno la perfidia degli uomini e i dolori e la morte: qui cadrai forse, e niuno avrà compassione di te; e tu senti pure nel tuo misero petto il piacere di essere compianto. Abbandonato da 75 tutti, non chiedi tu ajuto dal Cielo? non t’ascolta; eppure nelle tue afflizioni il tuo cuore torna involontario a lui – va, prostrati; ma all’are domestiche34. O Natura! hai tu forse bisogno di noi sciagurati, e ci consideri come i vermi e gl’insetti che vediamo brulicare e moltiplicarsi senza sapere a che35 vivano? Ma se tu ci hai dotati del funesto36 istinto della vita sì che il mortale non cada sotto la soma 37 ed ubbidisca irrepugnabilmente38 a tutte le tue leggi, perché 80 delle tue infermità poi darci questo dono ancor più funesto della ragione39? Noi tocchiamo con mano tutte le nostre calamità ignorando sempre il modo di ristorarle40. 29 Messene: città del Peloponneso, sottomessa agli spartani. 30 sbranavansi: si massacravano fra loro. 31 Oh quanto fumo... spiagge: si riferisce alle stragi degli indiani d’America. 32 La fame... altro: ispirandosi alla concezione del filosofo Hobbes (1588-1679), Foscolo vede la storia come una successione di violenze in cui gli uomini si com-

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portano reciprocamente come belve, e la inscrive nel più generale meccanismo della natura, in cui si alternano crescita e distruzione, nascita e morte. 33 usuraje: false, non disinteressate. 34 all’are domestiche: agli altari della tua patria, intesi anche come luoghi culto degli affetti familiari e dei defunti. 35 a che: perché, per quale scopo.

36 funesto: in quanto comporta che si perpetui il dolore insito nella vita stessa. 37 la soma… infermità: il peso dei tuoi mali. 38 irrepugnabilmente: senza ribellarsi. 39 perché... ragione: almeno senza la ragione gli uomini potrebbero sopportare (come fanno gli animali) il dolore dell’esistenza. 40 ristorarle: porvi rimedio.


Perché dunque io fuggo? e in quali lontane contrade io vado a perdermi? dove mai troverò gli uomini diversi dagli uomini? O non presento io forse i disastri, le infermi85 tà, e la indigenza che fuori della mia patria mi aspettano? – Ah no! Io tornerò a voi, o sacre terre, che prime udiste i miei vagiti, dove tante volte ho riposato queste mie membra affaticate, dove ho trovato nella oscurità e nella pace i miei pochi diletti, dove nel dolore ho confidato i miei pianti. Poiché tutto è vestito di tristezza per me, se null’altro posso ancora sperare che il sonno eterno della morte – voi sole, o 90 mie selve, udirete il mio ultimo lamento, e voi sole coprirete con le vostre ombre pacifiche il mio freddo cadavere. Mi piangeranno quegli infelici che sono compagni delle mie disgrazie – e se le passioni vivono dopo il sepolcro, il mio spirito doloroso sarà confortato da’ sospiri di quella celeste fanciulla ch’io credeva nata per me, ma che gl’interessi degli uomini e il mio destino feroce mi hanno strappata dal petto.

Analisi del testo Le «mal vietate Alpi» Il primo elemento significativo è la descrizione delle Alpi. Baluardo naturale a difesa dell’Italia, appaiono a Jacopo spalancate al vento di tramontana, che «per quelle fauci invade il Mediterraneo», richiamando alla mente del protagonista le continue invasioni straniere subite dall’Italia. L’immagine delle «mal vietate Alpi», ripresa nei Sepolcri (➜ T18 , v. 182), è opposta a quella dell’Ode a Bonaparte liberatore (1797), scritta da Foscolo prima del trattato di Campoformio, quando il passaggio delle Alpi era visto come il momento culminante dell’epopea napoleonica.

La natura sublime Il paesaggio grandioso e desolato, dalle forme aspre e dai colori lividi, pervaso da immani forze distruttrici, («precipita dalle viscere», «ha spaccato... questa immensa montagna», «spalancate Alpi») evoca un presentimento di morte, sottolineato dal lessico (sopore di sepoltura, aspri e lividi macigni; bronchi), che richiama l’Inferno dantesco. Il paesaggio funereo, romanticamente specchio dell’animo desolato di Ortis, ormai prossimo alla morte, assume le connotazioni del “sublime”, proprio della sensibilità tardo settecentesca, teorizzato da Edmund Burke (1729-1797), di cui presenta tutti i caratteri: riempie l’animo della sua grandiosità, suscitando un misto di orrore e attrazione. Al paesaggio impervio e minaccioso, opposto ai vari paesaggi idillici rappresentati nel romanzo, corrisponde lo stato d’animo di Ortis che, nelle sue riflessioni, si eleva al di sopra della natura e della storia, contemplandole come dall’alto. Proprio dall’accettazione di una realtà non più elata da alcuna illusione egli trae la forza per la scelta del suicidio, sentita come “eroica”.

La caduta degli ideali illuministici

La riflessione di Jacopo Ortis nella lettera da Ventimiglia costituisce un microsaggio di filosofia della storia. Riallacciandosi alle concezioni politiche e antropologiche di Machiavelli e di Thomas Hobbes, Foscolo rivela un pessimismo ormai radicale, in netto contrasto con gli ideali illuministici di progresso e di positività della natura umana. La storia appare dominata dal potere e dalla violenza (una concezione che sarà ripresa nell’Adelchi manzoniano: «Una feroce / forza il mondo possiede»); di conseguenza, i popoli sono – ciclicamente – vincitori e vinti, oppressi o oppressori. Così avviene per l’Italia: ai tempi di Jacopo è soggetta a dominazioni straniere, ma in passato erano stati i Romani a opprimere popoli liberissimi. Molti eventi della storia testimoniano il medesimo processo ciclico: così gli Israeliti, giungendo nella Terra Promessa, avevano trucidato i Cananei, ma in seguito erano stati deportati dai Babilonesi, che a loro volta erano stati poi sottomessi da Alessandro Magno. La situazione dell’Italia si inscrive così in un contesto più vasto, in cui l’oppressione straniera, più che un’ingiustizia da vendicare, diviene esempio dell’«alterna onnipotenza delle umane sorti» (Dei Sepolcri, vv. 153-154). Ma, a sua volta, anche la storia appare inscritta in una più generale legge cosmica, per cui tutte le cose nascono e sono poi distrutte, in un meccanismo privo di senso e di scopo («L’universo si controbilancia»). Nel passo, inoltre, è messo in discussione il mito illuministico della ragione, definita «dono [...] funesto», in quanto svela, senza porvi rimedio, l’infelicità degli esseri umani. In quest’ot-

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tica, il desiderio di vivere appare come un inganno della Natura teso alla perpetuazione della specie. Tale “pessimismo cosmico” avrà un’influenza decisiva sulla formazione di un altro grande autore italiano dell’Ottocento, Giacomo Leopardi, lettore dell’Ortis.

La scelta di Jacopo La lettera da Ventimiglia ha un’importante funzione strutturale nel romanzo, perché da tali riflessioni consegue la rinuncia di Jacopo a raggiungere la Francia e la decisione di tornare nei Colli Euganei, in un percorso circolare che diviene simbolo di una vita priva di alternative. Se in nessun luogo del mondo, infatti, si può trovare la giustizia, che senso avrebbe per Jacopo rifugiarsi in un altro paese? E se l’etica, come insegnava Machiavelli, non ha nulla a che vedere con la politica e, come Jacopo afferma nella lettera, l’unica vera virtù è la compassione, nata dalla coscienza della comune infelicità del genere umano, a Jacopo non rimane altro che una sepoltura dove possa essere compianto da chi lo ha amato.

Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

COMPRENSIONE 1. Dopo aver contestualizzato questa lettera all’interno dell’Ortis, presentane in uno schema le argomentazioni. 2. Perché Jacopo decide infine di non emigrare oltre confine? 3. Quali leggi si possono riconoscere nella storia, secondo la riflessione di Ortis? 4. Che cosa significa l’espressione «La Terra è una foresta di belve» (r. 54)? ANALISI 5. Analizza le caratteristiche del paesaggio descritto all’inizio della lettera e mettine in luce gli aspetti “sublimi”. Quale rapporto esiste fra il protagonista e il paesaggio? In che senso la descrizione del paesaggio è vicina alla sensibilità romantica? STILE 6. Analizza la descrizione del paesaggio dal punto di vista linguistico. a. Individua i termini relativi al campo semantico della morte, e a quello della violenza e devastazione: a quali tematiche si collegano? b. Evidenzia gli aggettivi utilizzati: denotano un coinvolgimento emotivo o un atteggiamento distaccato? Motiva la tua risposta.

Interpretare

LEGGERE LE EMOZIONI

TESTI A CONFRONTO 7. Confronta la rappresentazione della natura in questa lettera con quella del dipinto di Caspar David Friedrich, Viandante sul mare di nebbia (vedasi anche pag. 478), evidenziando in una trattazione di circa 15-20 righe eventuali analogie tra le due opere. a. In che modo viene descritto il paesaggio? b. Quali emozioni e quali associazioni simboliche evoca questo tipo di paesaggio? c. Soffermati sugli elementi di novità del rapporto tra uomo e paesaggio. SCRITTURA 8. Nella lettera si avverte una profonda corrispondenza tra paesaggio e stato d’animo. Ti è mai capitato, di fronte allo spettacolo grandioso della natura, di provare forti emozioni? Di percepire una consonanza tra i tuoi sentimenti e le tue sensazioni e lo scenario nel quale sei immerso? Ti capita di scegliere il luogo delle tue passeggiate in accordo con il tuo stato d’animo?

online T13 Ugo Foscolo

Il quadro dipinto da Teresa e l’amore oltre la morte Ultime lettere di Jacopo Ortis

592 Ottocento 14 Ugo Foscolo

Caspar David Friedrich, Viandante sul mare di nebbia, olio su tela, 1818 (Amburgo, Kunsthalle).


5 Autobiografia foscoliana in versi: le Odi e i Sonetti VIDEOLEZIONE

La struttura e la composizione della raccolta Tra il 1802 e il 1803 Foscolo pubblica le Poesie, una raccolta dei sonetti e delle odi, in tre successive edizioni, progressivamente accresciute con nuovi testi. La silloge completa e definitiva, pubblicata a Milano nell’autunno del 1803, comprende due odi e dodici sonetti. Le forme metriche presenti possono essere ricondotte ai due modelli poetici fondamentali per l’autore, Parini e Alfieri: l’ode neoclassica, il cui modello è pariniano, e il sonetto, che rimanda a una lunga tradizione poetica italiana, di recente rinnovata da Alfieri. Il carattere distintivo del breve canzoniere è l’estrema selettività: Foscolo esclude infatti numerosi testi giovanili, in particolare le canzoni di argomento politico, che pure avevano conseguito una certa fama. Ne deriva una raccolta poetica unitaria (anche per la presenza quasi costante nei componimenti del tema autobiografico) e raffinata, che evidenzia il carattere innovativo della lirica foscoliana. Il tema delle odi: la celebrazione della bellezza Le due odi si ispirano alla poetica neoclassica, come evidenzia anche solo la fitta presenza di immagini mitologiche, e sono accomunate dal tema della bellezza. La prima, A Luigia Pallavicini caduta da cavallo, scritta nel 1800, è rivolta alla gentildonna del titolo, rimasta ferita per una caduta da cavallo, a cui si augura di recuperare la bellezza perduta. La seconda ode, All’amica risanata, scritta nel 1802-1803, si incentra sulla grazia di Antonietta Fagnani Arese, tornata al fascino e alla seduzione dopo una lunga malattia. La prima ode ha ancora un carattere occasionale e si richiama alla poesia galante del Settecento, mentre la seconda si eleva a una considerazione universale sulla bellezza, vista come “bello ideale”, conforto alle miserie umane. Al tema della bellezza si associa quello della poesia che, celebrandola, può eternare uno splendore in realtà transitorio e fugace; l’ode si conclude con un significativo autoritratto del poeta, che si ritrae come continuatore, nella poesia italiana, della lirica greca. I sonetti: alle radici della propria identità L’autobiografismo delle Odi è ancora più accentuato nei sonetti, che possono essere accostati all’Ortis, in quanto ispirati a una sensibilità proto-romantica, come rivelano i temi: il contrasto fra l’io del poeta e la realtà in cui si trova a vivere, la delusione esistenziale, l’esilio, lo spezzarsi dei legami con i familiari (la morte del fratello, la lontananza dalla madre), la meditazione sul nulla e sulla morte. Nell’insieme i sonetti costituiscono una sorta di autobiografia ideale in cui, con un’armoniosa compresenza di motivi classici e romantici, il poeta tratteggia il suo io più profondo. Questo avviene soprattutto in tre sonetti considerati maggiori, tra i capolavori del genere lirico di ogni tempo: Alla sera, collocato da Foscolo come primo dei dodici, forse per la riflessione di carattere filosofico che lo caratterizza; A Zacinto, in cui il ricordo dell’isola natale coincide con la riscoperta dei miti della Grecia classica; In morte del fratello Giovanni, in cui, al compianto per la tragica sorte del fratello deceduto giovanissimo, il poeta associa il proprio destino di sradicato e di esule. Nel loro insieme i dodici sonetti, secondo la critica moderna, costituiscono una sorta di canzoniere, nel quale i singoli testi non sono disposti in modo casuale ma secondo un disegno che fa della silloge un macrotesto, ovvero una struttura in cui ogni singolo elemento occupa, nella volontà dell’autore, una specifica posizione. Il numero di dodici (uno per ogni mese dell’anno) rimanda al Canzoniere di Petrarca (in cui i sonetti sono uno per ogni giorno dell’anno, più il sonetto proemiale).

La letteratura come autoritratto

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Le caratteristiche formali dei sonetti: un modello stilistico rinnovato Dal punto di vista stilistico i sonetti foscoliani sono molto distanti dalla poesia di Petrarca per la presenza di un’accesa passionalità, che rimanda al modello della lirica alfieriana (oltre che testimoniare la più volte citata sensibilità preromantica di Foscolo). Un esplicito omaggio al poeta astigiano è il sonetto VII, al centro della raccolta: un autoritratto modellato su un sonetto dell’Alfieri. D’altra parte, i sonetti di Foscolo si distinguono dal modello alfieriano per una musicalità più fluida, prodotta da un uso intenso degli enjambements, secondo l’importante modello del poeta cinquecentesco Giovanni Della Casa (1503-1556), già ripreso da Tasso. Il carattere distintivo dei maggiori sonetti foscoliani è, però, soprattutto l’equilibrio classico delle forme che, in una estrema concentrazione espressiva, disciplina e domina l’impeto disordinato delle passioni. Non a caso il sonetto introduttivo, Alla sera, quasi una sorta di proemio all’intera raccolta, è dedicato alla ricerca di pace e di tranquillità nella contemplazione della sera, che placa l’inquietudine dell’animo e lo “spirito guerriero” del poeta. Auger Lucas, Allegoria della poesia (particolare), olio su tela, XVIII secolo (Collezione privata).

Poesie STRUTTURA

raccolta di 12 sonetti e due odi

DATAZIONE

1803 (edizione definitiva)

TEMI

STILE

594 Ottocento 14 Ugo Foscolo

• odi: celebrazione della bellezza valore della poesia eternatrice. • sonetti: autobiografismo, la morte, l’esilio, riflessioni di carattere filosofico.

equilibrio classico delle forme


Ugo Foscolo

T14

All’amica risanata Odi

U. Foscolo, Opere, a cura di F. Gavazzeni, Ricciardi, MilanoNapoli 1974-1981

LEGGERE LE EMOZIONI

EDUCAZIONE ALLE RELAZIONI

Nel 1802, anno di composizione dell’ode, Foscolo intratteneva una appassionata relazione, testimoniata da numerose lettere (➜ T2 OL), con Antonietta Fagnani, moglie del conte Arese. Durante l’inverno, la giovane donna era stata a lungo malata; guarita, ritorna ammaliante e il suo splendore è visto dal poeta come una delle espressioni del bello ideale, l’aurea beltate, fonte per gli uomini di conforto e serenità.

Qual dagli antri marini l’astro più caro a Venere co’ rugiadosi crini fra le fuggenti tenebre 5 appare1, e il suo vïaggio orna col lume dell’eterno raggio2, sorgon così tue dive membra dall’egro talamo3 e in te beltà rivive, 10 l’aurea4 beltate ond’ebbero ristoro unico a’ mali le nate a vaneggiar menti mortali5. Fiorir sul caro viso veggo la rosa6, tornano 15 i grandi occhi al sorriso insidïando7; e vegliano per te in novelli pianti trepide madri, e sospettose amanti8. Le Ore che dianzi meste 20 ministre eran de’ farmachi9, oggi l’indica veste, e i monili cui gemmano effigïati Dei inclito studio di scalpelli achei, La metrica Strofe di cinque settenari e un endecasillabo rimati secondo lo schema abacdD; il secondo e il quarto verso sono sdruccioli, tutti gli altri sono piani 1 Qual... appare: come emergendo dalle profondità del mare appare il pianeta Venere, con i raggi risplendenti per la rugiada, fra le tenebre che si dissolvono. La parola crini (propriamente “capelli”), a indicare i raggi della stella Venere, fa sì che il lettore sovrapponga all’immagine dell’astro che sorge in cielo quella di Venere emergente dalle acque. Il ritorno della donna alla salute e alla bellezza è collocato sullo sfondo di immagini della

bellezza ideale (gli astri, l’immagine mitologica di Venere). 2 il suo... raggio: abbellisce il suo cammino con i raggi eterni del sole. 3 sorgon... talamo: così si leva il tuo corpo divino dal letto di malattia; con la figura retorica dell’ipallage, l’aggettivo egro “malato” è riferito al letto (talamo) e non alla donna, come se il poeta avesse voluto dissociarla dall’idea del male fisico. 4 aurea: dorata, splendida. L’aggettivo sottolinea la preziosità della bellezza (beltate, al verso precedente beltà) come ornamento della vita. 5 ond’ebbero... mortali: per cui ebbero l’unico conforto ai loro mali gli animi de-

gli uomini, altrimenti destinati a inseguire vane passioni. 6 veggo la rosa: vedo i colori rosati. 7 insidïando: tendendo insidie amorose, facendo innamorare. 8 vegliano... amanti: a causa tua perdono il sonno, versando nuovi pianti, madri preoccupate e amanti gelose. 9 Le Ore... farmachi: le Ore che, prima, tristi ti recavano le medicine. Le Ore sono divinità mitologiche che accompagnano il carro del Sole, rappresentando lo scorrere del tempo e i momenti in cui è suddiviso.

La letteratura come autoritratto

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25 e i candidi coturni e gli amuleti recano10, onde a’ cori notturni te, Dea, mirando obbliano i garzoni le danze, 30 te principio d’affanni e di speranze11.

O quando l’arpa adorni e co’ novelli numeri e co’ molli contorni delle forme che facile 35 bisso seconda12, e intanto fra il basso sospirar vola il tuo canto più periglioso13; o quando balli disegni14, e l’agile corpo all’aure fidando15, 40 ignoti vezzi16 sfuggono dai manti17, e dal negletto18 velo scomposto sul sommosso19 petto. All’agitarti, lente cascan le trecce20, nitide 45 per ambrosia recente21, mal fide22 all’aureo pettine e alla rosea ghirlanda che or con l’alma salute april ti manda23. Così ancelle d’Amore 50 a te d’intorno volano invidïate24 l’Ore,

10 l’indica... recano: ti recano la veste di seta (indica perché la seta preziosa era di provenienza orientale), i monili ornati da raffigurazioni di divinità mitologiche, preziosa opera di cesellatori greci (scalpelli è metonimia) e i candidi calzari (coturni sarebbero propriamente le alte calzature indossate dagli attori greci sulla scena) e (altri) monili (propriamente “portafortuna”). Le Ore spesso accompagnano Venere e le porgono ornamenti: si pensi ad esempio al quadro della Nascita di Venere, di Botticelli, in cui una delle Ore le porge un manto ricamato di fiori. Antonietta viene così accostata a Venere, non soltanto nel paragone iniziale, ma anche per l’accompagnamento delle Ore. 11 onde a’ cori… di speranze: per cui nelle feste (cori è un grecismo, dal greco

596 Ottocento 14 Ugo Foscolo

khorós, che ha il senso di danza unita al canto) notturne i giovani, contemplando te, causa dei loro affanni e delle loro speranze (amorose), dimenticano le danze. 12 O quando... seconda: o quando suoni l’arpa e ne accresci il fascino, sia suonando nuove melodie sia con i contorni flessuosi delle tue forme, modellate dalla morbida veste di bisso (tessuto sottile e pregiato). 13 fra il basso... periglioso: fra i sommessi sospiri (degli innamorati) si eleva più seducente il tuo canto. Il contrasto fra le note alte del canto della donna e il tono basso dei sospiri di chi, affascinato, la contempla, ne sottolinea il fascino seducente; l’enjambement fra i versi delle strofe successive ne amplifica l’eco sonora, per evocare la suggestione del canto

di Antonietta.

14 balli disegni: tracci figure di danza armoniose come un disegno. L’anastrofe sottolinea l’armonia dei movimenti della danza. 15 all’aure fidando: affidando all’aria. 16 ignoti vezzi: bellezze prima nascoste. 17 dai manti: dalle vesti. 18 negletto: scomposto. 19 sommosso: ansante, palpitante. 20 All’agitarti… le trecce: nei movimenti cadono allentate (lente) le trecce. 21 nitide... recente: lucenti per gli unguenti profumati appena sparsi. 22 mal fide: ribelli. 23 che or… ti manda: che ora Aprile (è personificato) ti manda insieme con la salute vivificatrice (alma). 24 invidïate: invidiate dalle altre donne.


meste le Grazie mirino chi la beltà fugace ti membra, e il giorno dell’eterna pace25. 55 Mortale guidatrice d’oceanine vergini la Parrasia pendice tenea la casta Artemide e fea terror di cervi 60 lungi fischiar d’arco cidonio i nervi26.

Lei predicò la fama olimpia prole27; pavido28 diva il mondo la chiama, e le sacrò l’Elisio 65 soglio, ed il certo telo, e i monti, e il carro della luna29 in cielo. Are così a Bellona, un tempo invitta amazzone, die’ il vocale Elicona30; 70 ella il cimiero e l’egida or contro l’Anglia avara e le cavalle ed il furor prepara31. E quella a cui di sacro mirto te veggo cingere 75 devota il simolacro32, che presiede marmoreo agli arcani tuoi lari33 ove a me sol sacerdotessa appari34, 25 meste... pace: le Grazie tolgano il loro

28 pavido: timoroso (riferito a il mondo,

favore a chi (mentre sei nel pieno del tuo splendore) ti ricorda (ti membra) la fugacità della bellezza e la tua mortalità. 26 Mortale... i nervi: la casta Artemide (Diana), un tempo donna mortale, guidatrice delle vergini oceanine (divinità mitologiche), abitava sulle pendici del monte Parrasio e, terrorizzando i cervi, faceva scoccare da lontano le corde del suo prezioso arco cidonio (ossia fabbricato a Cidone, una città dell’isola di Creta famosa per la produzione degli archi). La parola chiave Mortale introduce la seconda parte dell’ode, dedicata alla forza eternatrice della poesia: Foscolo immagina che tre divinità mitologiche, Diana, Bellona e Venere, in origine fossero donne mortali, rese divine, e quindi eterne, dalla poesia. 27 Lei... prole: la fama la dichiarò di stirpe divina. Diana era figlia di Giove e di Latona.

soggetto di chiama e sacrò). 29 le sacrò... luna: le (cioè a Diana), consacrò il trono dei Campi Elisi (dell’Ade), il dardo infallibile (certo telo) e i monti, e il carro della luna. Si credeva che Diana, chiamata dea triforme, si manifestasse anche sotto le sembianze della Luna e di Proserpina, regina dell’Ade. Telo è un latinismo da telum, che indica un’arma da getto, in particolare una freccia o un dardo. 30 Are così… Elicona: allo stesso modo, il monte Elicona, risonante di canti (vocale), consacrò altari (Are) a Bellona (cioè la trasformò in divinità, dea della guerra). Il monte Elicona, in Beozia, era sede delle Muse; per metonimia, indica i poeti e, qui, il loro canto. 31 ella il cimiero… prepara: ella (Bellona) ora prepara contro l’ingorda Inghilterra (l’Anglia avara) l’elmo, l’egida (la pelle che

copriva lo scudo di Giove; qui è simbolo di guerra), i cavalli e il furore guerriero. Foscolo allude ai preparativi di guerra contro l’Inghilterra allora intrapresi da Napoleone. L’accenno all’attualità appare però poco intonato ai temi dell’ode. 32 quella... simolacro: la dea (Venere) di cui, devota, ti vedo cingere di mirto la sacra immagine. Il mirto è la pianta sacra a Venere. La bella Antonietta, dedita agli amori, è immaginata come devota seguace di Venere. 33 che presiede… lari: che (soggetto è il simolacro) domina marmoreo nelle tue stanze più nascoste. I Lari, divinità protettrici della casa, erano conservati nella parte più interna della dimora; qui si allude alla camera da letto. 34 ove... appari: dove a me soltanto appari sacerdotessa (cioè concedi il tuo amore),

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regina fu, Citera 80 e Cipro ove perpetua odora primavera regnò beata35, e l’isole che col selvoso dorso rompono agli euri e al grande Ionio il corso36. Ebbi in quel mar la culla, ivi erra ignudo spirito di Faon la fanciulla37, e se il notturno zeffiro38 blando39 sui flutti spira 90 suonano i liti un lamentar di lira: 85

ond’io, pien del nativo aer sacro40, su l’Itala grave cetra derivo per te le corde eolie41, 95 e avrai divina i voti fra gl’inni miei delle insubri nipoti42. IMMAGINE INTERATTIVA

Angelica Kauffmann, Sibilla che legge, olio su tela, 1780-1785 (Torino, Galleria Sabauda).

35 regina... beata: felice regnò su Citera e Cipro, dove in eterno c’è profumo di fiori primaverili. Il regno di Venere è descritto come un luogo di eterna primavera (come ad esempio appare nelle Stanze di Poliziano). Foscolo lega così la stagione primaverile, in cui Antonietta torna alla salute e alla bellezza, all’eterna primavera del mito di Venere. 36 l’isole... corso: sulle isole selvose che con le loro pendici rompono il corso ai venti euri e alle onde del mar Ionio. L’accenno alle isole Ionie, fra le quali è Zacinto, luogo di nascita del poeta (v. 85: Ebbi in

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quel mar la culla), prepara la dichiarazione di poetica conclusiva dell’ode. 37 ivi erra... fanciulla: lì erra come spirito incorporeo (ignudo spirito) Saffo, amante di Faone. Secondo una leggenda tramandata dal poeta latino Ovidio, ma priva di fondamento nella realtà, la poetessa greca Saffo sarebbe morta gettandosi dalla rupe di Leucade per amore di Faone. Perciò, secondo Foscolo, quei luoghi sarebbero ancora imbevuti dello spirito dell’antica poesia greca. 38 zeffiro: vento primaverile. 39 blando: dolce, delicato.

40 pien... sacro: ispirato dal luogo natale, consacrato alla poesia.

41 su l’Itala... eolie: sulle corde dai suoni più gravi della lirica italiana (cetra indica con una metonimia la poesia), io, ispirato da te, innesto quelle della musicale poesia eolica. Qui Foscolo esprime la sua poetica neoclassica, rivolta a un ideale di armonia. 42 e avrai... nipoti: e tu, resa divina dai miei versi, sarai invocata dalle future donne lombarde. I Galli insubri abitavano anticamente la Lombardia, in cui viveva la milanese Antonietta. Gli ultimi versi chiudono l’ode con ironica leggerezza.


Analisi del testo La struttura e i contenuti dell’ode

Andrea Appiani, Josephine Bonaparte Beauharnais come Venere, olio su tela, 1796 (Collezione privata).

L’ode può essere suddivisa in due sezioni e ulteriormente scandita in quattro parti specularmente corrispondenti. La prima sequenza (vv. 1-12) introduce, sin dall’apertura dell’ode, il tema chiave della bellezza. Una raffinata similitudine paragona la rinascita e il recupero della bellezza della donna, guarita dalla malattia, all’ascesa luminosa della stella Venere sul mare, annunciando il sorgere del sole. L’espressione rugiadosi crini (v. 3), riferita ai raggi del pianeta, evoca a sua volta l’immagine della dea Venere sorgente dalle acque. Dallo sfondo elegante dei salotti milanesi, la bellezza di Antonietta si eleva e trasfigura per inscriversi nell’atmosfera eterna del mito, diventando emblema della bellezza ideale capace di confortare la vita inquieta e affannosa degli uomini («le nate a vaneggiar menti mortali»). Nella seconda sequenza (vv. 13-54) si passa dallo scenario vasto e luminoso del mare e dalla riflessione sul carattere universale della bellezza all’ambito consueto della vita di Antonietta, descritta mentre si adorna per una festa dove, con il suo fascino sensuale, attrae tutti gli sguardi, apparendo come la più affascinante delle donne mentre suona l’arpa, canta e danza. Oggetto dell’ammirazione generale, Antonietta è ornata secondo la moda classicheggiante del tempo. L’atmosfera neoclassica è accentuata dall’evocazione di altre figure del mito, le Ore e le Grazie. I vv. 52-54 segnano un passaggio argomentativo fortemente rilevato, come una cerniera tra la prima e la seconda parte dell’ode, che ne evidenzia il nucleo tematico: il fatto che, nonostante il giovanile splendore, la bellezza di Antonietta, come tutte le cose terrene, è transitoria e fugace. La parola chiave mortale apre la terza sequenza (vv. 55-84), sottolineando per contrasto il ruolo della poesia eternatrice, che permette di vincere la caducità delle cose umane, consegnandole all’eternità. Foscolo esemplifica tale valore della poesia immaginando che le dee Diana, Bellona e Venere fossero state in origine donne mortali, poi divinizzate e rese eterne dalla poesia. L’ultima sequenza dell’ode (vv. 85-96), con un andamento circolare, torna allo scenario iniziale delle distese marine, ma alla figura della donna subentra quella dell’autore: nato in un’isola del mar Ionio, presso cui nacque Venere, e ispirato dai versi dell’antica poetessa Saffo, che ancora sembrano aleggiare in quei luoghi con la loro eterna armonia, si propone di innestare sulle note più gravi della poesia italiana quelle più leggere e armoniose dell’antica lirica greca. Grazie al poeta e ai suoi versi anche la donna amata potrà vincere il tempo e la morte. L’ode si chiude così con una dichiarazione di poetica prettamente neoclassica.

Un’ode neoclassica La lirica può essere considerata un perfetto esempio di poesia neoclassica. In primo luogo per i temi: il tema del “bello ideale”, ispirato al Neoclassicismo di Winckelmann, che innalza chi lo contempla a una sfera più elevata rispetto alla vita quotidiana, un tema sottolineato dalle parole chiave (beltà, v. 9; aurea beltate, v. 10) e la concezione della poesia eternatrice, di origine classica. Sono inoltre numerose le figure del mito evocate nell’ode: dalle Grazie e le Ore, a Venere (che la donna onora particolarmente, cingendo la sua effigie di mirto), Diana e Bellona. Ma, soprattutto, neoclassiche sono le scelte stilistiche che conferiscono unità all’opera: una lingua poetica intarsiata di termini di registro elevato, con molti latinismi (dive, egro talamo, inclito studio); anche il movimento sintattico dei periodi, pur nitidi e armoniosi, caratterizzato dal frequente ricorso all’iperbato («le nate a vaneggiar menti mortali»), è latineggiante.

La letteratura come autoritratto

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Il rapporto tra poesia e pittura Gli ornamenti di Antonietta si ispirano alla moda neoclassica del tempo: i gioielli con incise immagini mitologiche, le calzature leggere (classicamente coturni), la veste di foggia greca che mette in risalto le forme perfette del corpo e l’arpa erano oggetti consueti per le donne eleganti dell’epoca. Come ricorda il critico Mario Praz, «Grazie e Amori eran familiari presenze nelle camere d’una dama del Primo Impero non meno che in quelle d’una donna romana o pompeiana». Tra le aristocratiche e le intellettuali del periodo, tra la fine del Settecento e il primo Ottocento, sono di gran moda i ritratti di donne con l’arpa e con la lira (perché musiciste e poetesse), vestite secondo la foggia neoclassica e raffigurate in un’ambientazione che le allontana dalla loro epoca per collocarle in uno scenario ideale e remoto.

Jacques-Louis David, Ritratto di Juliette Récamier (particolare), olio su tela, 1800 (Parigi, Musée du Louvre).

Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

PARAFRASI 1. Fai la parafrasi delle due ultime strofe; poi spiega che tipo di rapporto c’è tra Foscolo e la poesia classica. COMPRENSIONE 2. Quale idea della bellezza emerge nell’ode? Quali sono gli effetti suscitati? Qual è la funzione che Foscolo attribuisce alla bellezza? ANALISI 3. Individua i passi in cui si riscontrano riferimenti a Venere e spiega come in ciascuno la dea della bellezza sia messa in rapporto con Antonietta. 4. Indica i passi dell’ode in cui sono presenti riferimenti alle divinità mitologiche delle Ore e illustrane il significato. STILE 5. Riporta in uno schema gli elementi neoclassici dell’ode di Foscolo.

Interpretare

LEGGERE LE EMOZIONI

EDUCAZIONE ALLE RELAZIONI

SCRITTURA 6. In un testo di max 15 righe, spiega come nella lirica vengano sviluppati questi temi: a. il tema della bellezza consolatrice; b. il tema della poesia eternatrice; c. il tema del recupero della mitologia. 7. Quale valore attribuisci alla bellezza? Ti senti costretto a uniformarti ai canoni estetici seguiti dai tuoi coetanei o ti senti libero di esprimere te stesso? ESPOSIZIONE ORALE 8. Secondo la tendenza del Neoclassicismo propria dell’ambiente milanese del tempo di Foscolo (che in campo artistico si riscontra, ad esempio, nella pittura di Appiani), l’ode non suggerisce un’idea di staticità, ma al contrario di movimento armonioso. Indica i passi dell’ode in cui si riscontra un senso dinamico e prova a individuare la ragione di tale caratteristica. Esponi il risultato delle tue riflessioni in un intervento orale di circa tre minuti.

600 Ottocento 14 Ugo Foscolo


Ugo Foscolo

T15

Alla sera Sonetti

U. Foscolo, Opere, a cura di F. Gavazzeni, Ricciardi, MilanoNapoli 1974-1981

AUDIOLETTURA

ANALISI INTERATTIVA

Alla sera, composto tra il 1802 e il 1803, occupa il primo posto tra i sonetti di Foscolo ed assume perciò un carattere proemiale per l’intera raccolta. Il tema fondamentale è la predilezione del poeta per la sera, che dà tregua alle inquietudini della vita e riflette il profondo dell’anima.

Forse perché della fatal quïete1 tu sei l’immago2 a me sì cara vieni3 o Sera! E quando ti corteggian liete 4 le nubi estive e i zeffiri sereni4, e quando dal nevoso aere inquïete tenebre e lunghe all’universo meni5 sempre scendi invocata6, e le secrete 8 vie del mio cor soavemente tieni7. Vagar mi fai co’ miei pensier su l’orme che vanno al nulla eterno8; e intanto fugge 11 questo reo tempo9, e van con lui le torme delle cure onde meco egli si strugge10; e mentre io guardo la tua pace, dorme 14 quello spirto guerrier ch’entro mi rugge11.

La metrica Sonetto con schema ABAB ABAB CDC DCD

1 fatal quïete: la pace destinata a tutti gli uomini, cioè la morte; la dieresi prolunga il suono di quïete. 2 immago: immagine. La parola latina, con il suo più vasto spettro semantico rispetto alla traduzione italiana (in latino imago si riferisce alle maschere funebri degli antenati e alle apparizioni illusorie, come spettri e fantasmi), conferisce un senso di mistero. 3 a me... vieni: giungi a me così gradita. 4 E quando... sereni: sia quando ti accompagnano come in un corteo le nubi estive e gli zeffiri (i venti primaverili) che rasserenano il cielo. L’immagine del corteo suggerisce l’idea di una personificazione della sera di tipo classico. 5 e quando... meni: sia quando dall’aria nevosa rechi all’universo lunghe ore di tenebra che provocano inquietudine. L’aggettivo inquïete, sottolineato dall’enjambement, viene trasferito dallo stato d’animo alle tenebre della sera, a sottolineare il legame fra spazio esterno e interiorità. L’iperbato (inquïete tenebre

e lunghe) sottolinea il prolungarsi della sera invernale. 6 scendi invocata: soggetto è la Sera del v. 3. 7 secrete... tieni: percorri dolcemente le strade più profonde del mio cuore. 8 Vagar... eterno: mi induci a vagare con la mente attraverso pensieri che portano all’infinito nulla. L’espressione nulla eterno evidenzia la concezione materialistica di Foscolo per cui dopo la morte c’è il nulla, secondo la concezione epicurea di Lucrezio, letto e studiato dall’autore nel periodo in cui componeva il sonetto. 9 reo tempo: tempo triste, negativo. Il tempo è negativo sul piano personale, perché porta affanni e sofferenze, e sul piano storico, per le condizioni politiche dell’Italia. 10 torme... strugge: le schiere degli affanni con cui (il tempo) si consuma per me. 11 dorme... rugge: trova requie l’inquietudine che mi tormenta dentro. Lo spirto guerrier è l’animo tormentato da passioni e in contrasto con il mondo. Le allitterazioni in r, producendo un effetto di fremito e di vibrazione, sottolineano la violenza delle passioni, evidenziata anche dal verbo rugge.

Antonio Canova, Figura pensosa, matita su carta, 1798.

La letteratura come autoritratto

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Analisi del testo Tra materialismo illuministico e sensibilità romantica Il sonetto, dedicato a una intensa meditazione sulla vita e sulla morte, si fonda su una premessa materialistica: l’espressione nulla eterno (v. 10), infatti, allude all’idea che dopo la morte non vi sia una sopravvivenza dell’anima. A partire da tale premessa, di derivazione epicurea e illuministica, il componimento dà però espressione a una sensibilità già romantica: proprio dinnanzi alla sera, vista come immagine della morte e dell’annullamento dell’essere, il poeta trova requie e serenità, per il placarsi degli affanni e delle inquietudini che contristano l’esistenza. Romantici (o, più propriamente, preromantici) sono il tema notturno e l’immagine della natura come specchio dell’anima, così come l’autoritratto del poeta, connotato dall’inquietudine, dalla passionalità, dal conflitto con il mondo. Pure romantico è il desiderio di evasione, tanto più in quanto si riferisce a un tempo e uno spazio interiori, infinitamente più vasti di quelli, limitati, del mondo esterno. Si tratta di temi per molti aspetti affini a quelli dell’Ortis; solo non presentati, però, con l’appassionata immediatezza del romanzo, ma guardati invece come da un’immensa distanza, che relativizza e placa inquietudini e passioni.

La compresenza armonica di elementi classici e romantici Questo complesso stato d’animo, insieme appassionato e contemplativo, trova perfetta espressione nello stile del sonetto, che armonizza elementi classici (che conferiscono pacatezza e armonia) e romantici, passionali. Se il ritmo, variato e mosso per i numerosi enjambement, asseconda il flusso mobile e vario dei sentimenti, il rasserenarsi dell’inquietudine in armoniosa compostezza è messo in rilievo da parole chiave poste alla fine dei versi: ad esempio dorme riferito allo spirto guerrier (vv. 13-14) e fugge riferito al reo tempo (vv. 10-11), che indicano il dissolversi degli affanni nella pace della sera. La componente classica dello stile è ben presente nel lessico, nobilitato dai frequenti latinismi (immago, reo, cure, meco), e nella sintassi latineggiante, caratterizzata dalla frequenza di iperbati. Richiama la poesia classica anche la personificazione della sera estiva (o Sera, v. 3), circondata dalle nubi e dai venti zeffiri come in un festoso corteo.

La struttura e la forma del sonetto: le quartine Il sonetto può essere suddiviso in due parti (che rappresentano due movimenti interiori), coincidente l’una con le quartine (vv. 1-8), l’altra con le terzine (vv. 9-14). La prima parte ha carattere descrittivo ed è dedicata alla consonanza della sera con l’animo del poeta, sia che appaia come sera estiva, immagine di uno stato d’animo lieto e sereno, sia come cupa e nevosa sera invernale, specchio di un’inquietudine romantica. Forse, con cui il sonetto si apre, sottolinea come l’affinità dell’animo del poeta con la sera, immagine della morte e dell’annullarsi di ogni cosa, sia percepita come un sentimento oscuro e indeterminato, che la ragione non giunge a chiarire fino in fondo. Il lessico evoca un senso di pacatezza e armonia: la morte è indicata come fatal quïete, un’espressione priva di connotazioni funeree che, attraverso il ritmo rallentato dalla dieresi sulla parola in rima, suggerisce un’idea di tranquillità e di pace, di serena accettazione del destino (la quïete della morte è definita fatal). Il carattere descrittivo delle quartine è evidenziato dal risalto che vi assumono gli aggettivi, sia per il numero (10 contro i 3 delle terzine), sia per la frequente posizione in rima (4 degli 8 versi terminano con un aggettivo), sia per gli enjambement che, isolando l’attributo alla fine del verso, ne ampliano la risonanza, come accade, in particolare, per gli enjambement dei vv. 5-6 (inquïete / tenebre) e 7-8 (secrete / vie).

Il dinamismo interiore delle terzine Come evidenzia il critico Pierantonio Frare, se le quartine sono dominate da un movimento “centripeto”, rivolto verso l’io poetico, come se la sera discendesse verso di lui, all’opposto, nella seconda parte, le terzine sono connotate da un movimento “centrifugo”, di allontanamento dagli affanni della vita quotidiana (questo reo tempo), per rivolgersi verso uno spazio

602 Ottocento 14 Ugo Foscolo


Joseph Wright of Derby, Dovedale by Moonlight, olio su tela, 1785 ca. (Houston, Museum of Fine Arts).

interiore, eterno, infinito (il nulla eterno), rasserenante, che lenisce i conflitti e allontana le angosce della vita. Così il reo tempo si vanifica nel nulla eterno e lo spirto guerrier si placa nella calma della sera. La condizione d’animo mossa e inquieta delle terzine è sottolineata dall’elevato numero di verbi (8 contro i 6 delle quartine), in gran parte di movimento, fra cui Vagar, parola chiave che apre questa seconda parte del sonetto.

Il livello fonico e ritmico Il contrasto fra passionalità e contemplazione trova espressione in tutto il sonetto anche a livello fonico: si alternano suoni vibranti (ad esempio negli ultimi due versi, in cui l’allitterazione di r, come un fremito, sottolinea la passionalità dell’io), vocalismi cupi (la ripetizione della vocale u ai vv. 5-6) e suoni dolci, soavi, predominanti in particolare nella prima quartina. Il contrasto fra il tempo esterno e quello interiore è poi evidenziato dalla cesura del v. 10 (la pausa è particolarmente prolungata perché fra vocali). Il sonetto evidenzia così la novità della poesia di Foscolo: la passione romantica, trascesa però in una dimensione armoniosa e contemplativa.

Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

COMPRENSIONE 1 Quali sono i sentimenti espressi nel sonetto? 2. Spiega perché il poeta ritiene che la sera sia il momento della giornata a lui più congeniale. Quale significato simbolico riveste la sera per Foscolo? ANALISI 3. Il sonetto è costruito come un’apostrofe alla sera. Quali effetti determina tale scelta? 4. Individua le parole chiave del sonetto, spiegando i motivi della scelta. LESSICO 5. Per indicare che la sera è un’immagine della morte, Foscolo utilizza il latinismo immago (in latino: imago). Quali sono, a tuo parere, i motivi di tale scelta lessicale? STILE 6. Analizza l’iperbato ai vv. 5-6. Che effetto tende a suscitare? Come influisce sul ritmo dei versi? 7. Nelle quartine vi è una prevalenza di vocali aperte (a, e), mentre nelle terzine prevalgono le vocali chiuse (o, u): qual è l’effetto prodotto sul tono dei versi? 8. Rileva gli enjambements presenti nel sonetto: quale effetto hanno sulla struttura e sul ritmo del sonetto? Si può affermare che essi pongano in rilievo alcune immagini o situazioni? Se sì, quali?

Interpretare

SCRITTURA 9. Il sonetto pone a confronto due aspetti del tempo: quello esteriore e quello interiore della coscienza. In un testo di max 10 righe spiega come si sviluppa tale confronto e a quale ambito culturale può essere ricondotto. ESPOSIZIONE ORALE 10. Attraverso il sonetto, Foscolo traccia un complesso e articolato ritratto di sé. Quali elementi psicologici lo caratterizzano? Quali rapporti puoi individuare con il ritratto dell’Ortis? In un intervento orale di circa tre minuti, esponi il risultato delle tue riflessioni.

La letteratura come autoritratto

2 603


Ugo Foscolo

T16

A Zacinto Sonetti

U. Foscolo, Opere, a cura di F. Gavazzeni, Ricciardi, MilanoNapoli 1974-1981

ANALISI INTERATTIVA

Composto tra il 1802 e il 1803, il sonetto – uno dei più celebri dell’autore – rievoca l’isola in cui Foscolo nacque, Zante, chiamata classicamente Zacinto. Dal ricordo della propria infanzia il poeta risale a un passato mitico, la cui compiutezza e armonia è in contrasto con la propria angosciosa condizione di sradicamento.

Né più mai toccherò le sacre sponde1 ove il mio corpo fanciulletto giacque2, Zacinto mia3, che te specchi nell’onde 4 del greco mar da cui vergine nacque Venere, e fea quelle isole feconde col suo primo sorriso4, onde non tacque le tue limpide nubi e le tue fronde 8 l’inclito verso di colui che l’acque cantò fatali5, ed il diverso esiglio6 per cui bello di fama e di sventura 11 baciò la sua petrosa Itaca Ulisse7. Tu8 non altro che il canto avrai del figlio, o materna mia terra9; a noi prescrisse 14 il fato illacrimata sepoltura10.

La metrica Sonetto con schema ABAB ABAB CDE CED

1 Né più... sponde: non potrò mai più raggiungere le sacre sponde (dell’isola di Zacinto). L’anastrofe di Né più mai rallenta il ritmo, accentuando il senso di lontananza dell’isola; l’aggettivo sacre ha diverse connotazioni: si riferisce al mito (Venere nacque presso l’isola), ma anche alla sacralità della patria e del luogo di nascita e dell’infanzia. 2 ove... giacque: dove fui fanciullo; ma il verbo giacere evoca la primissima infanzia e il bambino disteso nella culla. 3 Zacinto mia: l’apostrofe (figura frequente nelle poesie di Foscolo) sottolinea quanto l’isola natale sia viva nell’immaginazione del poeta. 4 te specchi... sorriso: ti rispecchi nelle

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acque del mar Ionio, da cui, come giovane fanciulla, nacque Venere e, al suo primo apparire, con la sua bellezza e il suo sorriso, rese splendide le isole greche per la fecondità della vegetazione. Il poeta richiama il mito della nascita di Venere dalle spume del mare presso l’isola di Citera e, rifacendosi all’immagine di Venere nel De rerum natura di Lucrezio, la rappresenta come dea della bellezza e della fecondità della natura. 5 onde... fatali: ragione per cui cantò la bellezza del tuo cielo riflesso nel limpido mare, e le tue fronde verdeggianti, l’illustre (inclito) verso del poeta (Omero) che cantò i viaggi per mare (l’acque) voluti dal fato (fatali). 6 il diverso esiglio: il viaggio errante in diverse direzioni, lontano dalla patria. L’aggettivo diverso ha il senso del latino

diversus “in varie direzioni”. Il sintagma ricalca un’espressione virgiliana, diversa exilia (Eneide III, 4). 7 bello... Ulisse: Ulisse, nobilitato dalla fama e dalle sventure, riuscì infine a tornare a Itaca e baciò la terra della sua isola (per l’amore che lo legava a essa). 8 Tu: si rivolge ancora a Zacinto. 9 non altro... mia terra: sarai soltanto ricordata nei versi del poeta. A differenza di Ulisse, Foscolo non potrà tornare nella sua terra natale; vi tornerà soltanto con il pensiero e la poesia. 10 a noi... sepoltura: il fato ha riservato a noi una sepoltura in una terra lontana (illacrimata: priva del compianto dei familiari). Il plurale noi include il poeta nella categoria degli eroi romantici, segnati da un destino avverso e dall’esilio.


Analisi del testo L’impossibile ritorno e il paradiso perduto delle origini Il sonetto esprime il rimpianto del poeta in esilio per Zacinto, luogo dell’infanzia e patria perduta, e si incentra sulla contrapposizione tra il passato, dimensione dell’infanzia e del mito, ricco di vitalità e armonia, e il futuro, angoscioso e privo di speranza. La contrapposizione è evidenziata dalla struttura della poesia, divisa in due parti disuguali: la prima, costituita dalle quartine e dalla prima terzina, dall’andamento fluido e mosso, riferita al passato, personale e mitico, si estende ininterrottamente per ben 11 versi, travalicando la consueta scansione metrico-sintattica tra quartine e terzine; la seconda, scarna e asciutta, intimamente desolata, coincide con la seconda terzina. L’impossibilità del ritorno è già fortemente sottolineata dalle tre negazioni iniziali (Né più mai), che imprimono al verso un andamento rallentato e scandito. Il verbo toccherò e il termine sponde sottolineano il confine invalicabile fra terra e mare; l’aggettivo sacre, collocando il luogo in una sfera mitica, ne ribadisce ulteriormente l’irraggiungibilità.

Zacinto e il mare greco, luogo del mito Dal tempo dell’infanzia il sonetto risale all’universo primigenio del mito, connotato da immagini di armonia e vitalità, legate alla nascita di Venere, dea della bellezza, ma anche – con suggestione lucreziana – forza generatrice della natura. «Zacinto è il centro luminoso di una scena sempre più vasta: prima la vediamo specchiarsi nel mare, poi la scorgiamo circondata da isole ridenti di bellezza e di fecondità, e mentre il poeta, in un verso magico, ce la rivela tutta in un cielo ampio e aerato (“le tue limpide nubi e le tue fronde”), ci suggerisce intorno a lei il Mediterraneo tutto, per cui errante Ulisse tende alla sua Itaca» (Fubini). La suggestiva evocazione di un vasto spazio marino, a cui fanno riferimento i numerosi termini riferiti al campo semantico del mare (in particolare le parole in rima dei vv. 1-8, tutte terminanti in -acque e in -onde; e l’aggettivo limpide riferito alle nubi, ma per il significato associato all’acqua, le fa immaginare rispecchiate nel mare) è enfatizzata dal ritmo ampio dei versi, legati da numerosi enjambements, e dalla struttura sintattica, in cui le relative sono inserite una nell’altra come cerchi concentrici.

Il tema autobiografico e il contrasto tra epoca classica e moderna Il tema autobiografico si sviluppa attraverso un confronto con due figure dell’antichità: Ulisse e il poeta Omero; confronto che sottolinea la differenza tra il passato e l’epoca moderna: Ulisse, eroe classico, pur dopo un lungo vagare nelle acque del Mediterraneo, torna all’isola natale; il poeta, invece, simbolo dell’eroe romantico (il noi del v. 13 lo include in una più vasta categoria esistenziale), non può giungere alla meta desiderata. Analogo è il confronto tra i due poeti, Foscolo e Omero. Omero è cantore di un mondo con cui l’uomo è in armonia, mentre per il poeta romantico la poesia risarcisce di ciò che la realtà non può più offrire («Tu non altro che il canto avrai del figlio», v. 12). Il contrasto tra l’armonioso passato mitico e lo squallido presente è evidenziato dalla differenza stilistica tra le due parti del sonetto: al ritmo ampio, caratterizzato da numerosi enjambement della prima parte, subentra nell’ultima terzina un ritmo spezzato, con frasi brevi, recise e lapidarie; alle immagini di vitalità, bellezza e armonia si sostituisce la tomba illacrimata; all’ampiezza temporale di un passato risalente alle origini mitiche subentra un futuro privo di speranza; ai termini relativi al campo semantico della vitalità si oppone, nella seconda terzina, una scelta lessicale di negazioni e immagini di morte «tu non altro…» e l’aggettivo illacrimata, cioè “priva di lacrime”, “non compianta”), che culmina nella parola chiave sepoltura.

La struttura “circolare” e le corrispondenze interne del sonetto Le due sezioni si armonizzano però nella struttura circolare del sonetto, evidenziata dagli unici due futuri (toccherò, v. 1; avrai, v. 12), uno in incipit, l’altro in explicit, che sottolineano l’impossibilità del ritorno a Zacinto e il ricordo dell’isola natale attraverso la poesia. Un’altra corrispondenza lega le apostrofi del v. 3 «Zacinto mia» e del v. 13 «o materna mia terra», sottolineando l’immagine della terra madre, datrice di vita, ma che non può accogliere nella morte il corpo del poeta in esilio.

La letteratura come autoritratto

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La lontananza da Zacinto: il sistema simbolico del sonetto Nel sonetto l’isola, rappresentata come infinitamente distante, costituisce un crocevia simbolico in cui convergono le complesse significazioni del testo. Una prima causa di lontananza è biografica: Foscolo, esiliato dal territorio veneziano a causa del trattato di Campoformio, affida al sonetto la testimonianza del suo sradicamento. Un secondo elemento, meno noto e messo in luce dal critico Arnaldo Di Benedetto, è legato agli scenari geopolitici dell’epoca napoleonica: Zacinto e altre isole veneziane dello Ionio, tolte a Venezia in seguito al trattato, proprio nel 1802 (anno in cui Foscolo scrive il sonetto), dopo un iniziale periodo di indipendenza, persero la libertà (e divennero difficilmente raggiungibili per il poeta), essendo state poste sotto il dominio inglese. Alla distanza dell’isola dovuta alle circostanze biografiche e storiche si sovrappone quella culturale, in quanto essa viene vista anche come emblema dell’immaginario classico (il mito, la natura, le origini), contrapposto a quello romantico (il desiderio inappagato, l’esilio, la tomba). Il sonetto può essere anche letto in senso antropologico, come contrapposizione tra gli archetipi dell’acqua, simbolo di vita e di fecondità, e della terra, emblema di aridità e desolazione (nel Novecento il poeta Thomas Stearns Eliot [1888-1965] costruirà su tale opposizione simbolica il suo capolavoro, La terra desolata). Gli archetipi, elemento della psicologia analitica di Jung (1875-1961) offrono un’ulteriore chiave di lettura del tema della lontananza dall’isola, suggerendo una lettura psicoanalitica della poesia: dietro all’impossibile ritorno alla terra materna si celerebbe il desiderio inconscio di una regressione alla fusione originaria con la madre; una chiave simbolica a cui rinvierebbe la stessa figura di Venere, raffigurata dal poeta come vivificatrice del mondo naturale e quindi come dea madre («fea quelle isole feconde», v. 5).

L’isola di Zante in una litografia di Edward Lear (1848).

606 Ottocento 14 Ugo Foscolo


Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

COMPRENSIONE 1. Che cosa accomuna o distingue Foscolo da Ulisse e Foscolo da Omero? 2. Quali sono i momenti della vita dell’autore toccati nella poesia? ANALISI 3. Completa la tabella, illustrando gli aspetti associati alle figure di Zacinto, Venere, Omero e Ulisse. Figure

Significato simbolico

Zacinto

Terra natale, terra “madre” del poeta. Paradiso perduto della poesia classica…

Suggerisce il ricordo di…

Perché?

Venere

Venere

LESSICO 4. Riporta i termini presenti nel sonetto relativi al campo semantico dell’acqua e della fecondità, e quelli relativi all’aridità. Collega poi i due campi semantici ai temi della poesia. STILE 5. Analizza il sonetto dal punto di vista sintattico e cerca di rispondere a queste domande: a. Esiste coincidenza tra struttura sintattica e struttura strofica? Perché? b. Quanti blocchi sintattici ci sono? Individuali. c. Quale effetto hanno sulla struttura e il ritmo del sonetto gli enjambements? 6. Per quali aspetti la struttura del sonetto può essere definita “circolare”? 7. Indica le figure retoriche del sonetto, evidenziandone gli effetti.

Interpretare

TESTI A CONFRONTO 8. Confronta il sonetto con In morte del fratello Giovanni (➜ T17 ), evidenziandone questi aspetti: a. interlocutore dell’io poetico; b. figura materna; c. tema dell’esilio; d. tema della tomba. SCRITTURA 9. Rivolgendosi con il sonetto alla sua terra natale, Foscolo rievoca e crea l’ambiente entro cui la sua arte si rivelò. In un passo della lettera del 29 settembre 1808 così il poeta ricorda la sua culla: «Fin che sarò memore di me stesso non oblierò mai che nacqui da madre greca, che fui allattato da greca nutrice, e che vidi il primo raggio di sole nella chiara e selvosa Zacinto, risonante ancora de’ versi con che Omero e Teocrito la celebravano». Spiega in un breve testo (max 15 righe) perché si può affermare che il Classicismo foscoliano abbia una profonda connotazione autobiografica.

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2 607


Collabora all’analisi

T17

Ugo Foscolo

In morte del fratello Giovanni Sonetti

U. Foscolo, Opere, a cura di F. Gavazzeni, Ricciardi, MilanoNapoli 1974-1981

Il sonetto, composto tra la primavera e l’estate del 1803, è l’ultimo dei sonetti scritti da Foscolo. Il poeta esprime il suo dolore per la morte del giovane fratello, tanto più cocente per la propria condizione di esule da Venezia, che non gli consente neppure di visitarne la tomba. Solo la madre, sulla tomba del fratello, può ricomporre in qualche modo la famiglia disgregata. Unica speranza che resta al poeta nel futuro è che il suo corpo sia restituito, come quello di Giovanni, all’affetto della madre. Giovanni Dionigi, fratello minore di Foscolo, anch’egli militare nell’esercito napoleonico, era morto a vent’anni, nel 1801, suicida per debiti di gioco.

Un dì, s’io non andrò sempre fuggendo di gente in gente1, me vedrai seduto su la tua pietra2, o fratel mio, gemendo 4 il fior de’ tuoi gentili anni caduto3. La Madre or sol suo dì tardo traendo4 parla di me col tuo cenere muto5, ma io deluse a voi le palme tendo6 8 e sol da lunge i miei tetti saluto7. Sento gli avversi numi, e le secrete cure che al viver tuo furon tempesta8, 11 e prego anch’io nel tuo porto quïete9. Questo di tanta speme oggi mi resta10! Straniere genti, almen le ossa rendete 14 allora al petto della madre mesta11.

La metrica Sonetto con schema ABAB ABAB CDC DCD 1 Un dì... gente: un giorno, se non sarò sempre in fuga, spostandomi da un luogo all’altro. Foscolo si riferisce alla sua vita errabonda di esiliato, dopo aver abbandonato Venezia, ceduta agli austriaci con il trattato di Campoformio. 2 su la tua pietra: sulla tua tomba. La metonimia sottolinea la fredda durezza del sepolcro. 3 gemendo... caduto: piangendo la tua giovinezza stroncata nel fiore degli anni. 4 La Madre... traendo: ora soltanto la madre, trascinando a fatica le sua stanca vecchiaia.

608 Ottocento 14 Ugo Foscolo

5 col... muto: con le tue spoglie, che non possono risponderle. L’espressione cenere muto ricalca l’espressione mutam… cinerem di Catullo e sottolinea l’assenza di speranza in una vita ultraterrena, analoga a quella del poeta latino. 6 deluse... tendo: protendo invano (deluse) a voi le braccia (le palme, la parte per il tutto). Il gesto sottolinea la lontananza ed evoca il mancato abbraccio di Enea al padre Anchise, nel VI libro dell’Eneide. 7 sol... saluto: solo da lontano posso salutare la mia casa (i miei tetti). In quel periodo Foscolo era infatti a Milano e, a causa della situazione politica, non gli era concesso tornare a Venezia, dove il fratello era sepolto.

8 Sento... tempesta: sento gli stessi dèi nemici e le stesse angosce che hanno tormentato la tua vita. 9 prego... quïete: aspiro anch’io a trovare pace nella morte. Il poeta sottolinea come, per quanto sia fisicamente lontano dalla tomba del fratello, gli è vicino perché prova le sue stesse afflizioni. La metafora della vita come tempesta evoca quella della morte come porto. 10 Questo... resta: questo mi resta delle tante speranze della giovinezza. 11 Straniere... mesta: il sonetto si conclude con la preghiera del poeta di restituire le proprie spoglie alla madre, se fosse morto lontano da Venezia.


Collabora all’analisi Comprendere e analizzare

Il sonetto è incentrato sulla sofferenza per la morte del fratello e sull’impossibilità di recarsi sulla sua tomba, poiché il poeta è in esilio dallo stato veneziano. Si focalizza su tre figure: il fratello, la madre e il poeta, il cui autoritratto, speculare a quello di Giovanni, è fortemente connotato in senso romantico (la mancanza di radici che lo costringe a fuggire «di gente in gente», l’esilio, la delusione esistenziale [v. 12], il desiderio di pace nella morte). Una lettera di Ugo a Vincenzo Monti ne dà testimonianza: «La morte dell’infelicissimo mio fratello ha esulcerato tutte le mie piaghe: tanto più ch’ei morì d’una malinconia lenta, ostinata, che non lo lasciò né mangiare né parlare per quarantasei giorni. Io figuro i martirj di quel giovinetto e lo stato doloroso della nostra povera madre fra le cui braccia spirò. Ma io temo che egli stanco della vita siasi avvelenato, e mia sorella mi conferma in quest’opinione. La morte sola finalmente poté decidere della battaglia che le sue grandi virtù, e i suoi grandi vizj manteneano da gran tempo in quel cuore di fuoco». 1. Quale ritratto del fratello ne emerge? 2. Qual è invece il ritratto del poeta? In che cosa è accomunato al fratello? Anche questo testo foscoliano rivela una sensibilità romantica trasposta in forme classiche, come evidenziano i latinismi (cure, speme). Un altro elemento classico è la ripresa di un celebre carme di Catullo, in cui il poeta latino, sulla tomba del fratello nella Troade, scrive di «aver parlato invano alla sua cenere che non risponde» («mutam nequiquam alloquerer cinerem»). Il sonetto foscoliano è accomunato al carme catulliano da un’analoga concezione materialistica, priva della speranza cristiana nella sopravvivenza dell’anima (ne è spia la ripresa dell’espressione di Catullo al v. 6: cenere muto), ma è nello stesso tempo pervaso da una moderna sensibilità romantica. Alla lontananza fisica (il poeta, diversamente da Catullo, non può raggiungere la tomba del fratello) si contrappone un’affinità spirituale. Il poeta condivide il destino sfortunato del fratello (gli avversi numi, v. 9), la disperazione («le secrete / cure che al viver tuo furon tempesta», vv. 9-10) e il desiderio di morte («prego anch’io nel tuo porto quïete», v. 11): temi romantici, estranei al carme di Catullo. 3. Individua i termini di origine classica. 4. Individua le parole chiave che evidenziano una sensibilità romantica. A legare i due fratelli nel sonetto foscoliano, in una sorta di figura triangolare, è la madre, simbolo delle radici familiari, che ricorre in tre diverse immagini: mentre parla di Ugo col cenere muto del fratello, quasi a voler prolungare il momento in cui la famiglia era unita; mentre il poeta tende vanamente le braccia verso di lei e verso la tomba del fratello, lontani e irraggiungibili (v. 8), con un’immagine che ricorda l’impossibile abbraccio nell’Ade di Enea e dell’ombra di Anchise (Eneide, l. VI). L’ultima raffigurazione della madre è affidata a un ipotetico e incerto futuro, quando il poeta, immaginando di morire lontano da lei, prega che almeno le proprie ossa le siano restituite. 5. Quali effetti produce, a tuo parere, l’allitterazione del v. 5: «suo dì tardo traendo», riferita alla madre? 6. Descrivi la figura della madre, quale appare nell’insieme del sonetto; presta attenzione anche agli aggettivi che le sono attribuiti. Perché, a tuo parere, il poeta le conferisce un’importanza così centrale nel sonetto dedicato al fratello? 7. Nel sonetto Foscolo mette in rilievo i legami fra sé, il fratello e la madre. Evidenziali, presentando gli opportuni riferimenti testuali. Il sonetto, diversamente da Alla sera e da A Zacinto, ha una struttura classicamente ordinata, in cui i periodi sintattici corrispondono a quelli metrici e ognuna delle quartine e delle terzine si chiude con il punto fermo. 8. Che effetto produce, a tuo giudizio, tale rigorosa scansione metrica? 9. Sintetizza il tema centrale di ciascuna delle quattro parti del sonetto, evidenziando per ciascuna una parola chiave.

La letteratura come autoritratto

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Interpretare

10. Confronta il sonetto di Foscolo con il carme CI di Catullo, evidenziando analogie e differenze.

5

10

Multas per gentes et multa per aequora vectus advenio has miseras, frater, ad inferias, ut te postremo donarem munere mortis et mutam nequiquam alloquerer cinerem, quandoquidem fortuna mihi tete abstulit ipsum, heu miser indigne frater adempte mihi. Nunc tamen interea haec prisco quae more parentum tradita sunt tristi munere ad inferias, accipe fraterno multu manantia fletu, atque in perpetuum, frater, ave atque vale. Varcando tanti mari, passando per tanti popoli giungo fratello alla tua tomba amara, a portarti l’ultimo dono, un’offerta di morte, a parlare alla tua cenere che non risponde, perché il destino mi ti ha preso, ha preso proprio te, mio povero fratello, tu che non meritavi. E anch’io così, come sempre usarono i padri, reco le stesse offerte alle tue esequie, tu accettale, così grondanti di pianto fraterno; e addio, fratello amato, addio per sempre. Catullo, I canti, trad. di E. Mandruzzato, Rizzoli, Milano 1982

INTERPRETAZIONI CRITICHE

11. Sintetizza in uno schema gli elementi classici e romantici del sonetto. 12. Quali correlazioni puoi istituire tra questo e gli altri sonetti foscoliani? Quali temi comuni si possono riconoscere? Quali elementi lessicali ricorrono anche in altri sonetti?

Carlo Dionisotti Foscolo esule C. Dionisotti, Foscolo esule, in Appunti sui moderni, Il Mulino, Bologna 1988

In questo passo critico Carlo Dionisotti (1908-1998) traccia un ritratto di Foscolo esule.

[…] Esule era stato sempre, fin dalla giovinezza. Già allora il mito dell’esilio gli si era inflitto nel cuore, nella prosa del romanzo e nella poesia. Ed era traboccato nel cuore, nella prosa degli Italiani, che in quel mito della fuga, dalla propria casa e terra, e dalla vita stessa, fuga selvatica, non di donne inermi né di cavalieri 5 erranti ma dei figli di Caino, avevano appreso a rifiutare e spregiare l’età presente, i lumi della natura e della civiltà moderna, primo passo sulla via del risorgimento nazionale. Quali che fossero stati i motivi occasionali, nel marzo del 1815, poco oltre il mezzo del cammino di una vita prodigalmente vissuta, il Foscolo era fuggito dall’Italia 10 inseguendo un illusorio richiamo della giovinezza, quasi volesse ricominciare

610 Ottocento 14 Ugo Foscolo


daccapo e insieme ricapitolare la propria vita a sfida della morte. Dopo la fuga, nella corrispondenza con gli amici e con la famiglia, prese a servirsi del nome, che aveva celebrato nell’Ortis, di Lorenzo Alderani, insistendo in questo trasparente e inutile travestimento durante il soggiorno svizzero. A Zurigo fra uomini di cultura 15 tedesca, non tardò ad accorgersi che la sua fame era ivi di tendenza goethiana, tutta e soltanto dovute all’Ortis. Onde la tentazione, alla quale già era predisposto, di una nuova edizione del romanzo, spacciata come l’unica corrispondente al testo originario, e accompagnata, quasi fosse un testo classico, da una lunga e frottolata1 notizia bibliografica e critica. 20 Testo più bugiardo, dal frontespizio innanzi, non esiste nella storia della letteratura italiana. Non era merce esportabile in Inghilterra tal quale, benché il frontespizio portasse la falsa data di Londra. Ma è notevole che anche a Londra, appena arrivato, il Foscolo volle pubblicare una nuova edizione dell’Ortis. Due anni più tardi, nel 1819, pubblicò senza successo l’inedita romantica tragedia Ricciarda. Nel 1822, 25 nascosti in un monumentale volume altrui, apparvero, come tradotti dal greco, alcuni frammenti delle Grazie. Ma il Foscolo poeta, che non trovava più ascolto intorno a sé, in terra straniera, neppure più trovava una sufficiente ragion d’essere in sé. Non perché gli mancasse l’ascolto, ma perché gli era mancata la forza di cercare e riconoscere la verità dell’e30 silio, quale che fosse, e di reprimere la menzogna che trovava facile ma effimero ascolto. L’esule italo- greco faceva spicco per la sua eccezionale personificazione di due lingue letterature che in quel momento erano predilette entrambe dagli Inglesi. Anche avrebbe potuto rendersi utile, ossia guadagnarsi da vivere, illustrando con articoli critici quelle due letterature. Anche avrebbe potuto semplicemente insegna35 re le due lingue, come tanti stranieri, tanti modesti e molto ricercati maestri italiani facevano. Ma Jacopo Ortis non poteva sopravvivere in figura di pedagogo. Mancò al Foscolo nella inizialmente splendida e poi gelida solitudine dell’esilio, la forza di smentire la propria anacronistica identificazione col personaggio del romanzo e di accettare la realtà di un esilio diverso. […] 1 frottolata: sconclusionata, infondata.

Analisi e produzione di un testo argomentativo Comprensione e analisi

1. Quali critiche muove Dionisotti al comportamento che Foscolo tenne durante il suo esilio in Inghilterra? 2. Quale immagine di Foscolo emerge dalle parole del critico? 3. Cosa intende dire Dionisotti, quando a proposito dell’Ortis dice «Testo più bugiardo, dal frontespizio innanzi, non esiste nella storia della letteratura italiana»? (rr. 20-21)

Produzione

4. La figura di Foscolo ha sempre destato sentimenti contrastanti: c’è chi lo ha denigrato e chi, al contrario, lo ha esaltato. Sulla base di quanto hai letto in merito alla sua opera e alla sua vita, quale opinione ti sei fatto dello scrittore e dell’uomo Foscolo? Elabora un testo in cui esponi le tue opinioni, sostenute da adeguate argomentazioni.

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3

Poesia, valori e civiltà: dai Sepolcri alle Grazie 1 Dei sepolcri: la genesi e la tipologia testuale

Antonio Canova, Studio per la stele funeraria di Vittorio Alfieri, 1803 (Bassano del Grappa, Museo Civico).

Significato e attualità dei Sepolcri Un poemetto di 295 versi intitolato “Alle tombe” a prima vista può sgomentare e apparire poco attraente per il lettore, evocando immagini tristi e funeree. La scelta di Foscolo è tuttavia consapevole: porsi nella prospettiva della morte richiede coraggio, intellettuale e morale, ma induce il lettore a riflettere su ciò che si sottrae all’annullamento, anche in assenza, come nel caso dell’autore, di una speranza religiosa di sopravvivenza ultraterrena dell’anima: sopravvivono alla nostra scomparsa i sentimenti di amore e amicizia di chi ci ha voluto bene, il ricordo e l’esempio lasciati, le opere compiute, tutto ciò che si è saputo costruire. In tale prospettiva, pensare alla morte conduce a dare un senso e un valore alla vita stessa: nel pensiero del Novecento questa riflessione si ripresenterà (in particolare, per la corrente filosofica dell’Esistenzialismo, il punto di partenza per una vita autentica è la consapevolezza della precarietà dell’esistenza umana). Un altro messaggio importante che i Sepolcri ci trasmettono riguarda l’importanza della memoria storica e culturale: nel nostro tempo, in cui vari fattori determinano un appiattimento sul presente e un abbandono della memoria, i Sepolcri fanno riflettere sul rapporto fecondo che lega il passato e il futuro. Dato il ruolo fondamentale che Foscolo attribuisce ai poeti, il capolavoro foscoliano ci ricorda quanto la cultura sia fondamentale per l’identità di una nazione e per la costruzione di un mondo “umano”. Le circostanze della composizione Tornato nel 1806 dalla Francia in Italia, a Venezia, ormai parte del Regno d’Italia napoleonico (annullati quindi gli effetti del trattato di Campoformio), Foscolo riprende a frequentare il salotto di Isabella Teotochi Albrizzi, dove partecipa a un dibattito sull’editto napoleonico di Saint-Cloud, promulgato in Francia nel 1804 e poi esteso all’Italia il 5 settembre del 1806. Ispirato a princìpi illuministici di igiene pubblica, l’editto vietava di seppellire i morti nelle chiese e imponeva che le sepolture fossero collocate fuori dall’abitato. Inoltre, per ragioni egualitarie, vietava la costruzione di monumenti funebri che differenziassero i morti e sottoponeva a rigido controllo l’apposizione di lapidi ed epigrafi. Come emerge da alcune lettere scritte da Foscolo alla nobildonna, in un primo tempo il poeta aveva assunto le parti di filosofo «indifferente», cioè materialista e laico, prendendo le difese della legge, contro il poeta Ippolito Pindemonte (1753-1828), che la contestava da

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un punto di vista religioso. In seguito, tuttavia, alla luce di una riflessione più meditata, Foscolo aveva riconosciuto quanto fosse fondata la critica dell’amico all’editto: di qui nascono i Sepolcri, capolavoro dello scrittore, pubblicati a Brescia nel 1807 e dedicati proprio a Pindemonte.

Jacques Sablet, Elegia romana, olio su tela, 1791 (Brest, Museé des Beaux Arts).

All’incrocio di diversi generi I Sepolcri sono un poemetto di 295 versi (endecasillabi sciolti) che costituisce un unicum nella letteratura italiana. Per la complessa ispirazione l’opera si colloca all’incrocio di diversi generi letterari. In primo luogo i Sepolcri sono un’epistola, ossia un testo poetico indirizzato a un destinatario – qui Ippolito Pindemonte – a cui, secondo le consuetudini del genere, il poeta si rivolge nei passaggi salienti del discorso («Vero è ben, Pindemonte!», v. 16). Ma le epistole, il cui principale modello classico è quello del poeta latino Orazio, sono in genere caratterizzate da un registro colloquiale; non così i Sepolcri, definiti da Foscolo stesso anche carme, a sottolinearne il carattere alto e solenne e lo stile, che ricorda quello del poeta greco Pindaro per l’arditezza dei passaggi argomentativi. Per la centralità del tema del sepolcro, il carme foscoliano si iscrive nel genere, molto in auge, della poesia sepolcrale proto-romantica, ma Foscolo sottolinea con forza la differente ispirazione della sua opera. Nella Lettera a Guillon, rispondendo all’abate e critico francese Aimé Guillon (che aveva criticato l’opera foscoliana perché – a differenza di quella di Young e di Gray – non induceva a una meditazione cristiana sui sepolcri) Foscolo osserva che l’autore dei Sepolcri «considera i sepolcri politicamente; ed ha per iscopo di

Dei Sepolcri DATAZIONE

1807

GENERE

carme in endecasillabi sciolti

TEMI

STILE E STRUTTURA

• la tomba come centro degli affetti familiari e dei valori civili • negazione della sopravvivenza dell’anima • valore del ricordo personale ed esistenziale e della memoria storica • funzione della poesia che sfida l’opera distruttrice del tempo e perpetua il ricordo

• sublime, chiaroscuro e armonia • prevalenza delle immagini sulla struttura razionale • ricorso alle transizioni

Poesia, valori e civiltà: dai Sepolcri alle Grazie 3 613


animare l’emulazione politica degli Italiani con gli esempi delle nazioni che onorano la memoria e i sepolcri degli uomini grandi» e si propone di «predicare non la resurrezione de’ corpi, ma delle virtù». Proprio per la forte presenza della dimensione etico-politica, i Sepolcri possono essere ricondotti anche al genere dell’orazione civile, in quanto esortano gli italiani, in particolare in una parte, ai valori di libertà, indipendenza e convivenza civile. Nell’ultima parte, dedicata alle gesta degli eroi omerici, il capolavoro foscoliano si riallaccia ai grandi modelli dell’epos (in particolare l’Iliade). Nel suo complesso, inoltre, può anche essere assimilato al genere del poema filosofico, come il De rerum natura di Lucrezio.

visione filosofica e i temi: tra Illuminismo 2 La e proto-Romanticismo La concezione foscoliana: oltre il materialismo Centro simbolico in cui si condensano tutte le tematiche del carme è il sepolcro: tradizionale simbolo di morte, nel carme foscoliano diventa al contrario simbolo di vita, la vita degli affetti, delle memorie culturali, dei grandi ideali. Sostrato filosofico del carme è la concezione materialistico-meccanicistica, che Foscolo deriva dal poeta latino Lucrezio ma soprattutto dalla cultura illuministica: la negazione dell’immortalità dell’anima e l’assenza di ogni prospettiva trascendente pervade l’intera opera e non viene mai messa in discussione sul piano razionale. Tuttavia Foscolo, che rappresenta in modo emblematico la transizione tra cultura illuministica e romantica, non è appagato dalle indiscutibili verità della ragione («vero è ben, Pindemonte!»), che non offrono alcuna risposta all’angoscia dell’uomo di fronte alla morte, ma cerca e trova una sua risposta: una risposta irrazionale (Foscolo parla infatti di illusioni e usa espressioni come pietosa insania), legata alle passioni e ai sentimenti più nobili dell’uomo, fondata sulla fede in valori laici che possono accomunare gli uomini e dare un senso alla loro vita. Sono valori perenni, capaci di istituire un ponte tra le generazioni passate, presenti e future: dall’amicizia alla compassione, dalla memoria al rispetto delle tradizioni e all’amore di patria. Una riflessione sui valori personali e collettivi I Sepolcri sono nel complesso definibili come una riflessione sui valori, «magari accettati con la coscienza della loro illusorietà, ma necessari all’uomo, al suo vivere» (Macchioni Jodi): • I valori privati e il culto della libertà Nella prima parte del carme Foscolo evoca e valorizza gli affetti personali, come l’amore, l’amicizia, la «corrispondenza d’amorosi sensi» tra vivi e defunti. Fondamentale è poi per il poeta, secondo una sensibilità già romantica, l’intensità dei sentimenti e delle passioni, associata al culto della libertà, che l'intellettuale afferma di voler trasmettere come eredità ai posteri, auspicando che la sua poesia possa essere esempio di «caldi / sensi» e di «liberal carme». Sono componenti proprie già di Alfieri, ma emergenti nella sensibilità del Romanticismo. • L’amore per la patria Valore fondamentale messo in luce dal carme è l’amore per la patria, che lega tra loro personaggi come l’ammiraglio inglese Orazio Nelson,

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Verso il Novecento Erri De Luca Il tema dei valori nella poesia del Duemila

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Interpretazioni critiche Giovanni Getto Il tema del tempo nei Sepolcri

morto eroicamente durante la battaglia di Trafalgar, gli antichi greci combattenti a Maratona e infine Ettore, sfortunato difensore della propria città. Un sentimento patriottico che l’autore si propone, nel ruolo di poeta vate, di suscitare negli italiani attraverso il carme, che effettivamente fu fonte di ispirazione nel Risorgimento. Foscolo inscrive il tema nel tempo lungo della storia, auspicando che dalla memoria di un glorioso passato gli italiani traggano stimolo per il futuro e ispirazione per rendere l’Italia libera e unita. Emblema di tale rapporto in cui il passato è linfa vitale per il futuro sono alcune figure centrali del carme, come quella di Vittorio Alfieri che, sdegnato per l’avvilimento del paese, trova conforto e speranza nella memoria dei grandi compatrioti sepolti in Santa Croce; Cassandra – consapevole, a differenza delle altre donne troiane, che Troia sarebbe caduta – che insegna ai giovani ad amarla e a perpetuarne la memoria; e naturalmente il poeta stesso, che in questi come in altri personaggi si rispecchia, conferendo al carme un intenso carattere autobiografico. • La compassione Va però sottolineato come nei Sepolcri il sentimento patriottico si inscriva in un più vasto orizzonte valoriale per cui, più dei greci vincitori, è celebrato lo sconfitto Ettore. Le parole di Cassandra, a conclusione del carme, mettono in luce quello che per Foscolo è il più elevato valore umano, la compassione, la solidarietà per le sventure e le sofferenze altrui: un fondamentale tema foscoliano, messo più volte in rilievo dall’autore, dalla lettera da Ventimiglia dell’Ortis, al Velo delle Grazie, alle Lezioni pavesi. • L’alta funzione della poesia Nella concezione foscoliana sintetizzata dai Sepolcri è infine da sottolineare il ruolo centrale della poesia. Non a caso le figure dei poeti, tra cui si pone lo stesso autore, segnano i momenti fondamentali del carme, accompagnandone la progressione argomentativa. Foscolo si ispira alla concezione del filosofo Vico, secondo cui la poesia, attivando l’immaginazione e il sentimento, fonda e perpetua i valori che uniscono la comunità. Nei Sepolcri perciò sono poste in primo piano le figure dei grandi poeti e le diverse funzioni della poesia: critica verso i potenti, come quella di Parini; fautrice di libertà, come quella di Alfieri e di Foscolo stesso; ma soprattutto consolatrice, eternatrice della memoria, come la poesia omerica, capace di tramandare gli ideali e i sentimenti più nobili che ci rendono umani. La prospettiva spazio-temporale Il fascino della breve e densissima opera è conferito anche dalla profondità della riflessione sul rapporto dell’uomo con il tempo, rappresentato nel carme in tutte le sue dimensioni: il tempo breve della vita individuale («per me alla terra non fecondi questa / bella d’erbe famiglia e d’animali», vv. 4-5), quello cosmico della natura, con la materia sottoposta a un incessante ciclo di trasformazioni («una forza operosa le affatica / di moto in moto», vv. 19-20), e il tempo della memoria, che si proietta oltre la durata della vita individuale e, grazie alla poesia, fino alla fine della storia dell’umanità. ... e quella spaziale Alla vastità dell’orizzonte temporale è correlato nel carme un progressivo ampliamento della dimensione spaziale: da Milano a Firenze, cuore artistico e culturale dell’Italia, si procede verso oriente fino alla Grecia di Maratona e di lì, oltre l’Egeo, alla Troade finché, nell’ultimo verso del carme, i luoghi geografici sfumano nell’orizzonte sconfinato del mito, lungo le terre circondate dal leggendario Oceano.

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3 Lo stile e la struttura Uno stile personale La complessa ispirazione dell’opera si traduce in uno stile personalissimo, forse inizialmente impervio per il lettore, ma di straordinaria efficacia. Tre caratteristiche stilistiche dei Sepolcri – il sublime, il chiaroscuro e l’armonia – possono servire come categorie interpretative (sulla scorta di un’analisi critica di Rodolfo Macchioni Jodi). Lo stile sublime Nella Lettera a Guillon, Foscolo dichiara di aver mirato nei Sepolcri al “sublime” (conveniente all’elevatezza degli argomenti trattati), riconoscendo che tale stile produce un’apparente oscurità, perché affida al lettore la comprensione dei passaggi intermedi, fatti intuire soltanto attraverso le transizioni, «formate da tenuissime modificazioni di lingua e da particelle», elementi di collegamento da cui ricavare i trapassi da un concetto all’altro. Il chiaroscuro L’altro elemento è la prevalenza delle immagini sulle argomentazioni razionali. Ispirandosi al sensismo e alla filosofia di Vico, Foscolo intende indirizzarsi alla fantasia e al sentimento del lettore («non al sillogismo de’ lettori, ma alla fantasia e al cuore»). Di conseguenza affida il messaggio soprattutto ad esempi e immagini suggestive spesso accostate per contrasto, con un effetto di “chiaroscuro”, per cui si alternano visioni di morte e di vita, di luce e di ombra come correlato di un pensiero dialettico che si sviluppa attraverso antitesi e contrapposizioni. L’armonia Foscolo stesso, in un saggio scritto durante l’esilio inglese, dichiara di aver mirato in modo particolare all’armonia del carme, conferendo ai diversi passaggi una musicalità corrispondente alle immagini evocate: «ciascun verso ha una sua inconfondibile misura e accenti che si convengono all’argomento. La melanconia del sentimento è regolata da misure lente e spaziate, mentre le immagini vivaci corrono con il passo svelto della gioia [...]; al poeta italiano [Foscolo] si deve il meritato riconoscimento, se non altro, d’aver conferito a ciascun verso una sua melodia, così come ciascun periodo è retto dalla sua propria armonia». Contribuisce infatti al fascino dei Sepolcri l’accuratissima e suggestiva tessitura fonica che, con estrema varietà e duttilità di accenti, favorita dalla scelta metrica degli endecasillabi sciolti, si avvale degli effetti fonosimbolici dello stile per evocare suoni, immagini, armoniosamente variati.

Bertel Thorvaldsen, La danza delle muse sul monte Elicona, 1807 (Berlino, Alte Nationalgalerie).

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La struttura argomentativa dei Sepolcri Impostazione del problema: servono a qualcosa le tombe? (1-3) Prima ipotesi: inutilità del sepolcro (1-22)

PRIMA PARTE

La «corrispondenza d’amorosi sensi» (1-90)

Antitesi: utilità del sepolcro (23-50)

La “nuova legge” e Parini (51-90)

Chi muore perde i piaceri della vita: come può un sepolcro risarcirlo? (3-15) Concezione materialistica: dopo la morte non resta nulla se non la materia che assume altre forme (16-22) Valore umano e vitale delle “illusioni” (23-29) La vita si prolunga nel ricordo di chi ci ha amato (29-40) Esempio negativo di chi non lascia «eredità d’affetti» (41-50) Parini, un poeta degno di essere ricordato (51-72) Parini e Milano (72-77) La sepoltura abbandonata di Parini (78-90)

Nascita della civiltà dalla ferinità primitiva (91-96) Il culto delle tombe e la religione “civile” degli antichi (97-103) In contrasto: aspetti negativi della religiosità medievale (104-114)

SECONDA PARTE

Il culto dei morti e la civiltà (91-150)

Il rapporto tra i sepolcri e le diverse civiltà (97-150)

Il cimitero antico (114-129) La civiltà inglese e i valori patriottici. Nelson (130-136) In contrasto: gli italiani che disonorano la loro patria (137-145) Il compito del poeta e l’esempio che intende trasmettere (145-150)

TERZA PARTE

Il tema patriottico (151-212)

I grandi del passato come esempio per l’Italia futura (151-197)

I valori e la poesia eternatrice (213-295)

Firenze (165-185) Alfieri, poeta-profeta del riscatto nazionale (186-197)

La battaglia di Maratona (197-212) La giustizia (213-227)

QUARTA PARTE

Le sepolture in Santa Croce (151-164)

La poesia (228-253)

La memoria (254-271)

Esempio di Aiace (213-225) Il destino di Foscolo (226-227) Il compito del poeta (228-229) I sepolcri e le Muse (230-234) L’esempio di Troia (235-253) Le donne troiane e Cassandra (254-262) Profezia della distruzione di Troia (263-268) Permanenza della memoria storica (269-271) La pietà per i sepolti (272-279)

La compassione (272-295)

Omero (279-291) Il compianto per Ettore e le sciagure umane (292-295)

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Ugo Foscolo

T18 U. Foscolo, Opere, a cura di F. Gavazzeni, Ricciardi, MilanoNapoli 1974-1981

EDUCAZIONE CIVICA

Dei Sepolcri

LEGGERE LE EMOZIONI

EDUCAZIONE ALLE RELAZIONI

nucleo Sviluppo economico e sostenibilità competenza 7

DEORUM MANIUM IURA SANCTA SUNTO1

A IPPOLITO PINDEMONTE All’ombra de’ cipressi e dentro l’urne confortate di pianto2 è forse il sonno della morte men duro3? Ove4 più il Sole per me alla terra non fecondi questa 5 bella d’erbe famiglia e d’animali5, e quando vaghe di lusinghe innanzi a me non danzeran l’ore future6, né da te, dolce amico, udrò più il verso

La metrica Endecasillabi sciolti v. 1-22 Il carme si apre con una domanda: può un sepolcro e il compianto dei vivi risarcire di tutto quanto si è perduto con la morte? È poi enunciata la concezione materialistica foscoliana, per cui tutto, senza eccezione, è soggetto all’opera distruttrice del tempo.

1 DEORUM... SUNTO: siano sacri i diritti

PER APPROFONDIRE

degli dei Mani (le anime divinizzate dei defunti). L’epigrafe, tratta dal De legibus di Cicerone, dove è citata come norma appartenente alle XII Tavole, introduce il tema della legge che, secondo le teorie

vichiane, non può essere imposta autoritariamente da un governo straniero come l’editto di Saint-Cloud, ma dovrebbe ispirarsi alla civiltà dei popoli a cui è rivolta. 2 All’ombra... pianto: all’ombra dei cipressi (che proteggono i sepolcri nei cimiteri) e dentro i sepolcri (classicamente denominati urne) confortati dal pianto dei superstiti. I versi sono riferiti alla legislazione illuministica che, per salvaguardare la salute pubblica, obbligava a collocare i cimiteri a distanza dall’abitato e vietava di interrarvi delle piante, che si riteneva ostacolassero la circolazione dell’aria e favorissero i contagi. 3 men duro: meno doloroso.

4 Ove: quando. 5 il Sole per me... animali: il sole non dia vita sulla terra per me (così che anch’io ne possa godere) a questa bella natura, nel suo insieme (famiglia) di piante e di animali. 6 vaghe... future: le Ore non danzeranno più dinanzi a me, attraenti per le speranze future. L’illusione di una felicità futura, una delle maggiori attrattive che legano alla vita, è rappresentata dall’immagine neoclassica delle Ore, divinità che nella mitologia significano lo scorrere del tempo e sono raffigurate come fanciulle danzanti intorno al carro del sole.

Il dibattito europeo sulle sepolture e l’editto di Saint-Cloud L’opera foscoliana si inserisce in un dibattito sulle sepolture, allora molto vivo in Europa, perché contrapponeva due opposte visioni della vita: una di ispirazione illuministica, l’altra cristiana. L’ideologia illuministica, egualitaria e razionalistica, aveva ispirato varie leggi simili all’editto di Saint-Cloud, dettate da preoccupazioni medico-sanitarie. La prima, emanata dal parlamento di Parigi nel 1765 (ma non immediatamente applicata per le polemiche sollevate), per evitare i contagi prevedeva di allontanare i cimiteri dalle città e rendere anonime le sepolture. In Italia l’assolutismo illuminato austriaco aveva già realizzato cimiteri di questo tipo, come quello di Verona, lontano dall’abitato e privo di nomi sulle lapidi, che aveva suscitato l’indignazione del cattolico Pindemonte, dedicatario dei Sepolcri foscoliani. Anche Parini, (morto nel 1799, quindi prima dell’editto di Saint-Cloud) era stato sepolto in una tomba anonima, come sarà ricordato nei Sepolcri, in un cimitero

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suburbano milanese organizzato dagli austriaci secondo i medesimi criteri. L’editto napoleonico di Saint-Cloud riprende tali princìpi, prevedendo di collocare i cimiteri fuori dall’abitato; non vieta espressamente di apporre epigrafi sulle tombe ma, imponendo un rinnovo frequente delle sepolture, porta di fatto a cancellare in breve tempo i nomi, e quindi la memoria, dei defunti: perciò Foscolo scrive che la «nuova legge […] il nome a’ morti / contende» (vv. 51-53). La riflessione di Foscolo si inserisce nel dibattito europeo anche per un’altra ragione: durante la rivoluzione francese si tenta in ogni settore (si pensi al calendario rivoluzionario) di sostituire una simbologia laica a quella cristiana e, a tale scopo, nel 1791 a Parigi, per onorare gli eroi della patria a somiglianza del culto dei santi, era stato istituito il Pantheon, destinato ai grandi uomini francesi; così, nei Sepolcri, Foscolo immagina la chiesa di Santa Croce in Firenze come il pantheon di una futura nazione italiana.


e la mesta armonia che lo governa7, 10 né più nel cor mi parlerà lo spirto8 delle vergini Muse9 e dell’amore, unico spirto a mia vita raminga10, qual fia ristoro a’ dì perduti11 un sasso12 che distingua le mie dalle infinite 15 ossa che in terra e in mar semina morte? Vero è ben, Pindemonte! Anche la Speme, ultima Dea13, fugge i sepolcri: e involve tutte cose l’obblio nella sua notte14; e una forza operosa le affatica 20 di moto in moto; e l’uomo e le sue tombe e l’estreme sembianze e le reliquie della terra e del ciel traveste il tempo15. Ma perché pria del tempo a sé il mortale invidierà l’illusïon che spento 25 pur lo sofferma al limitar di Dite16? Non vive ei17 forse anche sotterra, quando gli sarà muta l’armonia del giorno, se può destarla con soavi cure nella mente de’ suoi18? Celeste è questa 30 corrispondenza d’amorosi sensi, celeste dote è negli umani19; e spesso per lei20 si vive con l’amico estinto e l’estinto con noi21, se pia22 la terra che lo raccolse infante e lo nutriva,

7 la mesta... governa: la musicalità malinconica che lo contraddistingue. Foscolo si riferisce ai versi di Ippolito Pindemonte, a cui è rivolto il carme. 8 lo spirto: l’ispirazione. 9 delle vergini Muse: di una poesia libera. Le Muse per metonimia rappresentano la poesia. 10 unico... raminga: unico conforto per la mia vita errabonda di esule. 11 qual... perduti: quale compenso sarà per la vita perduta. 12 un sasso: una pietra tombale. 13 la Speme, ultima Dea: la Speranza, l’ultima dea (ad abbandonare gli uomini). Secondo un mito a cui fa riferimento il poeta greco Teognide, quando gli dei si stabilirono sull’Olimpo, abbandonando gli uomini, lasciarono presso di loro solo la Speranza. 14 involve... notte: la dimenticanza avvolge tutto nella sua oscurità. 15 una forza... tempo: la forza incessante della natura dissolve tutte le cose in un continuo ciclo di trasformazioni; così il tempo tramuta in altre forme l’uomo, le sue tombe, l’ultimo aspetto di tutte le cose e ciò che alla fine resta della terra e dei corpi celesti.

vv. 23-90 Rispetto all’ipotesi prima formulata dell’inutilità delle tombe, viene avanzata una prima riserva: l’“illusione” di una corrispondenza tra i vivi e i morti, che prolunga l’esistenza dei morti nel ricordo dei vivi. Perché si produca tale «corrispondenza d’amorosi sensi» è necessario, però, che chi ha perso la vita sia degno di memoria, e che i viventi siano in grado di apprezzarne e raccoglierne l’eredità. È quindi introdotto il riferimento alla nuova legge sulle sepolture. Segue l’esempio di Parini, degno di essere ricordato, ma ingiustamente trascurato dai milanesi e sepolto in una fossa comune.

16 Ma perché... Dite: ma perché prima del tempo l’uomo destinato a morire (mortale) vorrà privarsi dell’illusione che, benché defunto, sembra fermarlo sulle soglie del regno dell’oltretomba? Nella mitologia romana Dite è la divinità che presiede al regno dei morti, corrispondente al greco Plutone. 17 ei: egli.

18 se... suoi: se può risvegliarla nella mente dei suoi (l’illusione che egli sia ancora vivo) grazie alle dolci cure (offerte alle tombe). Il passo è di controversa interpretazione: alcuni riferiscono il pronome enclitico la di destarla all’illusione (della sopravvivenza), altri a «l’armonia del giorno»: in ogni caso il senso sarebbe che grazie al ricordo si prolungherebbe la vita oltre la morte. 19 Celeste... umani: tale corrispondenza di sentimenti d’amore è una dote divina che rende gli uomini immortali. L’aggettivo celeste, parola chiave posta in evidenza nel verso e ripetuta al v. 31, si contrappone a estinto dei successivi vv. 32-33 a indicare che, attraverso il ricordo dei vivi, l’uomo può conseguire una sorta di immortalità, dote tradizionalmente attribuita agli dei. 20 per lei: grazie a tale dote. 21 si vive... noi: il chiasmo sottolinea la «corrispondenza d’amorosi sensi», cioè la corrispondenza di affetti e di valori tra chi è ricordato e chi ricorda. 22 pia: pietosa. Per ipallage, alla terra è attribuito il sentimento di pietà dei congiunti; l’espressione suggerisce l’immagine della terra-madre.

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35 nel suo grembo materno ultimo asilo porgendo, sacre le reliquie renda dall’insultar de’ nembi e dal profano piede del vulgo23, e serbi un sasso il nome, e di fiori odorata arbore amica24 40 le ceneri di molli25 ombre consoli. Sol chi non lascia eredità d’affetti26 poca gioia ha dell’urna; e se pur mira dopo l’esequie27, errar vede il suo spirto fra ’l compianto de’ templi Acherontei28, 45 o ricovrarsi sotto le grandi ale del perdono d’Iddio29: ma la sua polve30 lascia alle ortiche di deserta gleba31 ove né donna innamorata preghi, né passeggier solingo oda il sospiro 50 che dal tumulo a noi manda Natura32. Pur nuova legge impone oggi i sepolcri fuor de’ guardi pietosi, e il nome a’ morti contende33. E senza tomba giace il tuo sacerdote, o Talia34, che a te cantando 55 nel suo povero tetto educò un lauro35 con lungo amore, e t’appendea corone36; e tu gli ornavi del tuo riso i canti37 che il lombardo pungean Sardanapalo, 23 sacre... vulgo: difenda, consacrandole, le spoglie mortali dalle intemperie e dalle profanazioni del volgo. 24 di fiori... amica: un albero amico (perché offre conforto e protezione), profumato di fiori. È da sottolineare il latinismo arbore, di genere femminile secondo la derivazione latina, che evidenzia l’umanizzazione della natura, ricorrente nel carme. 25 molli: dolci, protettive. 26 eredità d’affetti: qualcuno che ricordi chi è morto con affetto. 27 se pur... esequie: se pure (con la sua immaginazione) si spinge a pensare cosa accadrà dopo la cerimonia funebre (dopo la sua morte). 28 fra ’l compianto... Acherontei: fra il pianto dei regni dell’oltretomba. Foscolo riprende l’uso classico di templum inteso come vasto spazio circoscritto. Acherusia templa è un’espressione ripresa dal poeta latino Lucrezio. 29 ricovrarsi... Iddio: essere accolte in paradiso grazie al perdono divino. Le grandi ale sono una metafora di origine biblica per indicare il rifugio protettivo della bontà divina (Salmi 16, 8: sub umbra alarum tuarum, “all’ombra delle tue ali”). I suoni, con l’incontro tra vocali di grandi e ale, la sonorità delle liquide r, l, e la ripetizione della vocale a suggeriscono un senso di spaziosità.

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30 polve: polvere, resti mortali. 31 alle ortiche... gleba: alle ortiche di una terra abbandonata. La crescita delle ortiche, in opposizione all’«ombra de’ cipressi» e al profumo dell’«odorata arbore amica» dei vv. 1 e 39, sottolinea l’abbandono della tomba di chi non è ricordato da nessuno. 32 né passegger... Natura: né un viandante solitario senta il richiamo naturale evocato dal sepolcro. Nella solitudine il viandante riesce a raccogliersi in modo più profondo e a sentire più intensamente la «corrispondenza d’amorosi sensi», in un dialogo silenzioso. Foscolo ricorda un verso dell’Elegia scritta in un cimitero campestre di Thomas Gray, posto anche, in traduzione latina, come epigrafe dell’Ortis («Naturae clamat ab ipso vox tumulo»): chi visita un sepolcro si sente “naturalmente” più vicino a colui di cui visita la tomba. 33 Pur nuova... contende: nonostante ciò una nuova legge costringe oggi a collocare i sepolcri lontano dagli sguardi e dall’affetto dei vivi e nega la fama ai morti, togliendo loro la possibilità di essere identificati e ricordati. La nuova legge (l’editto di SaintCloud) si contrappone al sentimento naturale descritto nei versi precedenti e impone (un verbo in cui si avverte la durezza di una legge autoritaria) di porre le tombe fuori dall’abitato e quindi lontane dagli sguardi pietosi dei vivi e dalle loro cure. Secondo

le teorie filosofiche di Vico, riprese da Foscolo, le leggi devono derivare dalla storia di un popolo e non essere astrattamente imposte dall’esterno: la nuova legge, che si pone in contrapposizione con l’antica legge romana sui diritti dei morti, citata nell’apertura del carme, assume una connotazione negativa, in cui nuova ha il significato negativo di innaturale ed empia. 34 senza tomba... Talia: giace senza una propria tomba il tuo cultore, o Talia. Talia è la musa della poesia satirica, genere letterario a cui può essere ricondotto Il giorno di Parini. Il poeta milanese morì nel 1799, quindi prima dell’editto di Saint-Cloud, ma venne sepolto in una fossa comune per una legge austriaca ispirata ai medesimi principi illuministici, che prevedeva la possibilità di porre iscrizioni soltanto sul muro di recinzione e non sulle singole tombe. 35 nel suo... lauro: nella sua povera dimora coltivò la poesia. Il lauro (premio per i poeti) è una metonimia per indicare la poesia; la povertà di Parini evidenzia il rigore e l’onestà con cui il poeta milanese coltivò un’arte libera e mai adulatrice dei potenti. 36 t’appendea corone: l’immagine neoclassica delle corone votive offerte alla Musa sottolinea la dedizione di Parini alla sua arte. 37 e tu... canti: la Musa attribuiva bellezza poetica ai versi di Parini.


cui solo è dolce il muggito de’ buoi 60 che dagli antri abduani e dal Ticino lo fan d’ozi beato e di vivande38. O bella Musa, ove sei tu? Non sento spirar l’ambrosia, indizio del tuo Nume39, fra queste piante ov’io siedo e sospiro 65 il mio tetto materno40. E tu venivi e sorridevi a lui sotto quel tiglio ch’or con dimesse frondi va fremendo perché non copre, o Dea, l’urna del vecchio cui già di calma era cortese e d’ombre41. 70 Forse tu fra plebei tumuli guardi vagolando42, ove dorma il sacro capo del tuo Parini43? A lui non ombre pose44 tra le sue mura la città, lasciva d’evirati cantori allettatrice45, 75 non pietra, non parola46; e forse l’ossa col mozzo capo gl’insanguina il ladro che lasciò sul patibolo i delitti47. Senti raspar fra le macerie e i bronchi la derelitta cagna ramingando48 80 su le fosse e famelica ululando; e uscir del teschio, ove fuggia la luna49, l’ùpupa, e svolazzar su per le croci sparse per la funerea campagna e l’immonda accusar col luttuoso 85 singulto i rai di che son pie le stelle alle obblïate sepolture50. Indarno 38 il lombardo... vivande: colpivano con la satira il corrotto nobile lombardo, il cui unico interesse è il muggito dei buoi, che dalle stalle lungo l’Adda (antri abduani) e il Ticino lo rendono ricco e ozioso. Sardanapalo, a cui sono paragonati i nobili milanesi, è un re assiro, citato anche da Dante come esempio di lussuria. 39 spirar... Nume: il profumo di ambrosia, indizio della presenza di una divinità. 40 fra queste... materno: fra queste piante di tiglio dove io ora sono seduto e rimpiango la mia casa materna. Foscolo immagina che la Musa ricerchi il sepolcro di Parini presso i giardini di Porta Orientale (Porta Venezia) dove il poeta era solito recarsi. Nello stesso boschetto di tigli Foscolo immagina l’incontro tra Ortis e Parini nelle Ultime lettere di Jacopo Ortis. 41 con dimesse... ombre: con i rami abbassati, quasi in segno di tristezza, sembra fremere di indignazione, o dea, perché non ricopre con la sua ombra il sepolcro del vecchio Parini, a cui già prima (quando era in vita) donava il conforto dell’ombra e della quiete. La rappresentazione

antropomorfica dell’albero, descritto come se provasse sentimenti umani, mette per contrasto in risalto l’insensibilità dei cittadini milanesi, incapaci di apprezzare la grandezza di Parini. 42 fra plebei... vagolando: guardi vagando incerta qua e là, fra sepolture di persone ignote (poste nei cimiteri suburbani di Milano, come precisa Foscolo in una nota). 43 il sacro... Parini: il corpo, che dovrebbe essere considerato sacro, di Parini (perché consacrato alla Musa, cioè alla poesia). La sineddoche di sacro capo, a indicare il corpo del poeta, richiama la poesia classica, a partire dall’Iliade (XV, 39) in cui Giunone giura sul sacro capo di Zeus. 44 non... pose: non pose l’ombra d’un albero. 45 lasciva... allettatrice: corrotta e più propensa ad attirare (con guadagni e onori) cantanti evirati. Nel Settecento vigeva ancora l’uso, contro cui Parini aveva polemizzato con l’ode La musica, di evirare giovani cantanti d’opera perché mantenessero una voce acuta, adatta a

ruoli femminili.

46 non... parola: non un monumento, né un’epigrafe.

47 l’ossa... delitti: insanguina le sue ossa (deposte in una fossa comune) con il suo capo mozzato (per la pena di morte) il ladro che soltanto sul patibolo (alla fine della vita) pose termine ai suoi delitti. L’immagine macabra vuole sottolineare le conseguenze del divieto di apporre lapidi sui sepolcri: il corpo sepolto del grande poeta non viene distinto da quello di un criminale. 48 Senti... ramingando: tu (si riferisce alla Musa) senti (nel cimitero suburbano) scavare con le unghie tra le rovine e gli sterpi la cagna randagia, vagando qua e là raminga tra le tombe. 49 fuggia la luna: evitava la luce lunare. Il soggetto è l’upupa. 50 l’immonda... sepolture: e (senti) l’immonda (ùpupa) rimproverare con il suo lugubre verso, simile a un singhiozzo, i raggi con cui le stelle illuminano pietosamente le sepolture dimenticate. L’upupa è erroneamente associata ai rapaci notturni;

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sul tuo poeta, o Dea, preghi rugiade dalla squallida notte51. Ahi! su gli estinti non sorge fiore, ove non sia d’umane 90 lodi onorato e d’amoroso pianto52. Dal dì che nozze e tribunali ed are dier alle umane belve esser pietose di sé stesse e d’altrui53, toglieano i vivi all’etere maligno54 ed alle fere 95 i miserandi avanzi che Natura con veci eterne a sensi altri destina55. Testimonianza a’ fasti eran le tombe, ed are a’ figli56; e uscian quindi i responsi de’ domestici Lari57, e fu temuto 100 su la polve degli avi il giuramento58: religïon che con diversi riti le virtù patrie e la pietà congiunta tradussero59 per lungo ordine d’anni. Non sempre i sassi sepolcrali a’ templi 105 fean pavimento; né agl’incensi avvolto de’ cadaveri il lezzo i supplicanti contaminò60; né le città fur meste d’effigïati scheletri: le madri balzan ne’ sonni esterrefatte, e tendono 110 nude le braccia su l’amato capo del lor caro lattante onde nol desti secondo il mito narrato nelle Metamorfosi di Ovidio, in upupa si sarebbe trasformato il personaggio mitologico Tereo, a cui la moglie Progne, per vendetta, aveva fatto mangiare le carni del loro figlio Iti; perciò l’upupa è chiamata immonda, come se tale uccello si cibasse di carne umana. Tale descrizione errata dell’upupa si trova già nella Notte di Parini, citata da Foscolo a proposito di questo passo. 51 Indarno… notte: invano, o Musa (Dea), invochi la rugiada sulla tomba del poeta dalla cupa tristissima notte. 52 ove... pianto: in un luogo in cui non sia accompagnato dall’onore di lodi (per il defunto) e da un pianto pieno d’amore. Il senso è che la natura distrugge impietosamente ogni cosa; i fiori deposti sulla tomba, segno di amore per chi vi è sepolto, non crescono senza le cure degli uomini. vv. 91-150 Sulla base della filosofia di Vico, Foscolo indica la sepoltura dei morti come momento fondamentale per il passaggio dalla primitiva condizione ferina alla civiltà. Egli mostra poi come nel culto dei morti si rispecchino i valori dei diversi popoli, antichi e moderni. A esemplificazione, il poeta introduce quattro quadri degli usi

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sepolcrali, due positivi (l’antichità e la moderna Inghilterra) e due negativi (il Medioevo e il Regno d’Italia napoleonico).

53 Dal dì... altrui: dal giorno in cui le istituzioni del matrimonio, della legge e della religione condussero gli uomini, dallo stato ferino in cui vivevano, al rispetto per sé stessi e alla compassione per gli altri (e quindi alla civiltà). Foscolo riprende in questo passo La scienza nuova di Vico, che osservava come il passaggio dalla barbarie alla civiltà fosse per tutte le popolazioni contrassegnato da tre elementi: il matrimonio, la religione e la sepoltura dei morti: «Osserviamo tutte le Nazioni, così barbare come umane, [...] custodire questi tre umani costumi: che tutte hanno qualche religione, tutte contraggono matrimoni solenni, tutte seppelliscono i loro morti» (Scienza nuova, I, De’ Principj). 54 toglieano... maligno: i vivi sottraevano alla corruzione atmosferica. Come osserva il critico Raffaello Ramat «in quel togliere è la grande conquista: esso segna la coscienza che ha l’uomo d’essere altro dalla cieca Natura, e di dover costruire un suo mondo di pietà in opposizione a quella spietata legge».

55 Natura... destina: la natura, con incessanti trasformazioni, destina ad altre forme di vita. 56 Testimonianza... figli: le tombe erano testimonianza delle imprese gloriose (dei defunti) e altari per i figli. Sulle tombe degli antichi erano infatti poste iscrizioni a testimonianza delle virtù del defunto e delle imprese compiute. 57 uscian... Lari: dalle tombe venivano tratti i responsi dei Lari (divinità protettrici della casa). 58 fu temuto... giuramento: il giuramento fatto sulla tomba degli antenati era considerato sacro e inviolabile. 59 religïon... tradussero: culto religioso che, con riti diversi, le virtù degli antenati e, insieme, il rispetto dei discendenti verso i morti perpetuarono. 60 Non sempre... contaminò: non in ogni epoca della storia si usava inserire lapidi (a chiusura dei sepolcri sottostanti) nel pavimento delle chiese; né l’odore dei morti (sepolti nelle chiese), mescolandosi al profumo dell’incenso, contaminava coloro che in chiesa supplicavano gli dei. Seppellire i morti nelle chiese era un’usanza di origine medievale, contrastata dalle leggi illuministiche.


il gemer lungo di persona morta chiedente la venal prece agli eredi dal santuario61. Ma cipressi e cedri 115 di puri effluvii i zefiri impregnando62 perenne verde protendean su l’urne per memoria perenne63, e prezïosi vasi accogliean le lagrime votive64. Rapìan gli amici una favilla al Sole 120 a illuminar la sotterranea notte65 perché gli occhi dell’uom cercan morendo il Sole; e tutti l’ultimo sospiro mandano i petti alla fuggente luce66. Le fontane versando acque lustrali67 125 amaranti educavano e vïole68 su la funebre zolla; e chi sedea69 a libar latte70 e a raccontar sue pene ai cari estinti, una fragranza intorno sentia qual d’aura de’ beati Elisi71. 130 Pietosa insania72 che fa cari gli orti de’ suburbani avelli alle britanne vergini73 dove le conduce amore della perduta madre, ove clementi pregaro i Genii del ritorno al prode 135 che tronca fe’ la trïonfata nave del maggior pino, e si scavò la bara74. 61 né le città... santuario: né le città furono rese lugubri da raffigurazioni di scheletri, per le quali le madri si ridestano d’improvviso dal sonno, terrorizzate, e tendono le loro braccia nude sul capo del loro caro bambino piccolo, per proteggerlo, affinché non sia ridestato dai lunghi gemiti di una persona morta che, dalla chiesa dove è sepolta, chiede ai parenti preghiere, da pagare al sacerdote. 62 Ma... impregnando: ma piante funebri come cipressi e cedri, impregnando l’aria primaverile di freschi profumi. Il Ma avversativo sottolinea il cambio di scena e il ritorno alla rappresentazione dei cimiteri antichi, immagine di una concezione positiva della vita. La macabra scena medievale è incastonata all’interno della rappresentazione positiva dell’antichità. 63 perenne... perenne: l’immagine della pianta, con il verbo protendean, suggerisce un’idea di protezione, di preservazione della memoria, evidenziata dalla ripetizione, con il chiasmo del sintagma sostantivo + aggettivo, della parola chiave perenne, che evoca l’eternità della memoria. Come in altri passi del carme, l’elemento naturale sembra animato, a sottolineare l’intensità dei sentimenti coinvolti.

64 vasi... votive: vasi raccoglievano lacrime versate in voto. Nelle antiche tombe si trovavano piccoli vasi, che si era erroneamente creduto servissero a raccogliere lacrime (Foscolo in una sua nota ai Sepolcri parla di vasi lacrimatori), mentre in realtà contenevano essenze profumate. 65 Rapìan... notte: gli amici rubavano al sole una fiaccola (ponevano lampade sepolcrali) per illuminare la notte della morte e della sepoltura. I riti degli antichi tendevano a risarcire i morti di quanto avessero perduto: in primo luogo la luce del sole, simbolo di vita. 66 tutti... luce: tutti gli animi rivolgono l’ultimo sospiro di rimpianto alla luce del sole, che sembra fuggire da loro. È frequente nei testi classici, come le tragedie greche, lo sguardo di rimpianto del morente verso la luce del sole. 67 lustrali: purificatrici. 68 amaranti... vïole: facevano crescere piante di amaranto e di viola. La pianta di amaranto, dai fiori rosso porpora, è simbolo di immortalità; il termine greco amárantos significa “che non appassisce”. 69 chi sedea: chiunque sedesse sulla tomba. 70 a libar latte: a versare latte, secondo un rito funebre pagano.

71 sentia... Elisi: sentiva intorno un profumo simile a quello dei beati campi Elisi (sede riservata, secondo gli antichi, agli spiriti grandi e virtuosi). 72 Pietosa insania: sentimento irrazionale, dettato dall’umana pietà. L’espressione, quasi un ossimoro, sintetizza uno dei temi fondamentali del carme: la civiltà nasce dall’illusione di una sopravvivenza che, secondo Foscolo, convinto materialista, pur essendo irrazionale ispira comportamenti virtuosi, pietosi e civili. È il tema dell’illusione, centrale nell’opera foscoliana. 73 fa cari... vergini: rende cari alle giovani inglesi i giardini (orti) dei cimiteri (avelli) che circondano la città. 74 clementi... bara: dove pregarono gli dèi protettori della patria (i Genii) che fossero clementi del ritorno (lasciassero ritornare incolume) per il valoroso (l’ammiraglio inglese Orazio Nelson) che troncò l’albero maestro (pino è metonimia) della nave catturata (il vascello francese Orient) nella battaglia del trionfo su Napoleone e in quel legno si fece scavare la bara. Durante la battaglia di Abukir (1798), Nelson aveva affondato la flotta di Napoleone, facendosi poi costruire la bara con il legno della nave ammiraglia da lui

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Ma ove dorme il furor d’inclite gesta e sien ministri al vivere civile l’opulenza e il tremore75, inutil pompa 140 e inaugurate immagini dell’Orco sorgon cippi e marmorei monumenti76. Già il dotto e il ricco ed il patrizio vulgo, decoro e mente al bello Italo regno, nelle adulate reggie ha sepoltura 145 già vivo, e i stemmi unica laude77. A noi morte apparecchi riposato albergo ove una volta la fortuna cessi dalle vendette, e l’amistà raccolga non di tesori eredità, ma caldi 150 sensi e di liberal carme l’esempio78. A egregie cose il forte animo accendono l’urne de’ forti, o Pindemonte79; e bella e santa fanno al peregrin la terra che le ricetta80. Io81 quando il monumento 155 vidi ove posa82 il corpo di quel grande che temprando lo scettro a’ regnatori gli allor ne sfronda, ed alle genti svela di che lagrime grondi e di che sangue83; catturata. Al momento della stesura dei Sepolcri, come Foscolo ben sapeva, gli dei non erano stati clementi con Nelson, ucciso dopo aver combattuto eroicamente e aver distrutto la flotta napoleonica, durante la battaglia di Trafalgar (1805). Foscolo dà prova di coraggio nell’esaltare il più valoroso nemico di Napoleone, l’unico che fino ad allora gli avesse inflitto sconfitte; il riferimento alle giovani fanciulle, partecipi degli eventi politici, è inteso a mostrare l’elevato grado di civiltà del popolo inglese, contrapposto a quello italiano. 75 Ma... tremore: ma, dove l’ardente desiderio di compiere imprese gloriose sia spento e la vita civile sia dominata dal desiderio di ricchezze e dal timore nei confronti di chi detiene il potere. L’avversativa Ma introduce il quadro negativo dell’Italia, contrapposto alla civiltà inglese. 76 inutil... monumenti: come inutile sfoggio di lusso e come vane immagini mortuarie (Orco è uno dei nomi di Plutone, dio degli inferi, e per metonimia indica il regno dei morti), prive di auspici favorevoli (inaugurate significa prive di “auguri”, auspici necessari per trasformarle in un luogo sacro), sorgono steli (di pietra) funebri e monumenti di marmo. Dalla memoria dei propri concittadini, ricchi e potenti ma vili e inetti, gli italiani non possono trarre alcun sentimento di emulazione, perciò i preziosi sepolcri restano inerti e non mezzo di contatto tra i vivi e i

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morti. È evidente il contrasto con le tombe dei grandi uomini sepolti a Santa Croce (vv. 151-164), da cui gli italiani verranno successivamente nel carme invitati a trarre auspici per un futuro Risorgimento. 77 Già il dotto... laude: già i notabili appartenenti ai tre collegi elettorali (quindi i potenti) del Regno d’Italia (polemicamente definiti da Foscolo vulgo, cioè popolo privo di dignità e di coscienza politica), ornamento e classe dirigente e intellettuale del bel Regno d’Italia (l’espressione è ironica) sono sepolti vivi nelle loro lussuose dimore, in cui regna l’adulazione; e l’unica loro gloria sono gli stemmi nobiliari. Nel Regno d’Italia Napoleone aveva istituito tre collegi elettorali: dei dotti, dei ricchi possidenti e dei nobili. 78 A noi... l’esempio: a me (invece) la morte procuri un luogo tranquillo, qualora (ove) finalmente la sorte cessi di perseguitarmi e gli amici (amistà “amicizia”) possano raccogliere non eredità di ricchezze, ma di sentimenti nobili e appassionati e l’esempio di una poesia libera. vv. 151-197 Tema dei versi è lo spirito di emulazione suscitato dalle tombe dei grandi uomini, come i grandi italiani sepolti in Santa Croce. È quindi introdotto un elogio a Firenze, città che può ispirare un futuro riscatto dell’Italia. L’elogio di Firenze è scandito in tre momenti: il celebre riferimento ai grandi italiani sepolti nella chiesa di Santa

Croce (vv. 151-164); l’esaltazione della bellezza del paesaggio fiorentino e il ricordo di Dante e Petrarca (vv. 165-179); l’evocazione di Alfieri, che proprio dalla chiesa fiorentina (dove lui stesso verrà sepolto), trae ispirazione per meditare sulle sorti dell’Italia e sperare in un suo futuro riscatto (vv. 180-197).

79 A egregie... Pindemonte: le tombe dei grandi accendono negli uomini di pari valore il desiderio di compiere gesta altrettanto eccellenti. L’iterazione della parola chiave forte sottolinea il legame tra i grandi uomini e coloro che aspirano a emularli. L’importante passaggio argomentativo del carme è evidenziato dall’appello al destinatario Pindemonte. 80 ricetta: accoglie. 81 Io: la figura del poeta è messa in risalto dall’isolamento del pronome, soggetto, posto a grande distanza dal verbo gridai, al v. 165. Come scrive il critico Giovanni Getto, l’io «si ricongiunge al proprio verbo principale con lo squillo vibrante di un’epica tromba (gridai), dopo di aver descritto un arditissimo volo, simile a un ideale arco di trionfo». 82 posa: riposa. 83 temprando... sangue: insegnando ai prìncipi a rendere più saldo il loro potere (temprare lo scettro, cioè rendere più saldo l’acciaio dello scettro; è una metonimia), ne toglie le apparenze gloriose, e svela ai popoli le lacrime e il sangue dei sudditi su


e l’arca di colui che nuovo Olimpo 160 alzò in Roma a’ Celesti84; e di chi vide sotto l’etereo padiglion rotarsi più mondi, e il Sole irradïarli immoto85, onde all’Anglo che tanta ala vi stese sgombrò primo le vie del firmamento86; 165 te beata, gridai, per le felici aure pregne di vita, e pe’ lavacri che da’ suoi gioghi a te versa Apennino87! Lieta dell’aer tuo veste la Luna di luce limpidissima i tuoi colli 170 per vendemmia festanti88, e le convalli popolate di case e d’oliveti mille di fiori al ciel mandano incensi89: e tu prima, Firenze, udivi il carme che allegrò l’ira al Ghibellin fuggiasco90, 175 e tu i cari parenti e l’idïoma desti a quel dolce di Calliope labbro che Amore in Grecia nudo e nudo in Roma d’un velo candidissimo adornando, rendea nel grembo a Venere Celeste91: 180 ma più beata ché in un tempio accolte serbi l’Itale glorie92, uniche forse da che le mal vietate Alpi e l’alterna onnipotenza delle umane sorti93 armi e sostanze t’invadeano ed are94

cui (il potere) è fondato. Foscolo riprende l’interpretazione del Principe di Machiavelli elaborata da Rousseau, che vedeva l’opera come un’indiretta denunzia dei misfatti e degli inganni dei potenti. 84 l’arca... Celesti: la sepoltura di chi a Roma innalzò una costruzione che appare come l’Olimpo per gli dei. Foscolo si riferisce a Michelangelo e alla cupola di San Pietro, che sembra rinnovare, per la grandiosità, la dimora divina (nuovo Olimpo) immaginata nell’antichità. 85 e di chi... immoto: e di colui che vide, sotto la volta del cielo, diversi pianeti ruotare intorno al sole e quello, restando immobile, illuminarli. Foscolo si riferisce a Galileo, che con le sue ricerche contribuì a provare l’esattezza del sistema copernicano. 86 onde... firmamento: per cui, per primo aprì la via della scoperta delle leggi astronomiche all’inglese (Anglo: Isaac Newton) che con la sua scienza spaziò come in volo per le vie del firmamento. L’elogio dell’inglese Newton, insieme a quello di Nelson ai vv. 131-136, testimonia l’ammirazione di Foscolo per la civiltà inglese. 87 Te beata... Apennino: te beata (o Firen-

ze) – gridai – per la tua atmosfera piena di vita e per i corsi d’acqua che l’Appennino versa a te dalle sue cime. Firenze, contrapposta da Foscolo a Milano, è celebrata per le sue bellezze naturali, oltre che per l’arte e la cultura. 88 Lieta... festanti: la luna, più luminosa per la trasparenza dell’aria, riveste di una luce limpidissima le tue colline, festose nel periodo della vendemmia. 89 convalli... incensi: le valli tra le colline, piene di vita per le case e gli uliveti, mandano al cielo mille profumi di fiori. 90 tu prima... Ghibellin fuggiasco: tu per prima, Firenze, udivi i versi che alleviarono l’ira (verso i suoi concittadini) di Dante, esule ghibellino. Dante era un guelfo bianco, ma Foscolo lo definisce ghibellino, per sottolineare come durante l’esilio si fosse avvicinato alle posizioni filo-imperiali. Il carme a cui si riferisce Foscolo è la Divina commedia; Foscolo accoglie perciò l’ipotesi, non da tutti accettata, che Dante avesse iniziato a comporre il poema già prima dell’esilio. 91 e tu i cari parenti... Celeste: e tu (Firenze) desti i cari genitori e la lingua fiorentina a Petrarca, attraverso cui sem-

brava parlasse la musa Calliope, poeta che rese spirituale l’amore, sensuale e istintivo nella poesia greca e latina, rivestendolo del velo candidissimo dell’ideale, e restituendolo così a quella celeste delle due Veneri. Petrarca nacque ad Arezzo da genitori fiorentini in esilio. A partire da Platone, gli antichi distinguevano due Veneri: una preposta all’amore terrestre e sensuale, l’altra a quello spirituale, capace di nobilitare l’animo volgendolo all’ideale. 92 ma più beata... glorie: ma più beata perché conservi le glorie italiane raccolte in un tempio. La ripresa a distanza dell’appellativo beata, rafforzato dal comparativo, chiude circolarmente il discorso su Firenze tornando alla chiesa di Santa Croce, vista come futuro pantheon per l’Italia. 93 da che... sorti: da quando le Alpi, male difese dagli italiani, e l’onnipotenza del destino, che assegna ai popoli alterne sorti di grandezza e di miseria. I versi riprendono la concezione ciclica della storia espressa nella lettera da Ventimiglia dell’Ortis. 94 armi... are: ti tolsero armi (un esercito autonomo), ricchezze e culti religiosi (are, cioè “altari”).

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185 e patria e, tranne la memoria, tutto. Che ove speme di gloria agli animosi intelletti rifulga ed all’Italia, quindi trarrem gli auspici95. E a questi marmi96 venne spesso Vittorio97 ad ispirarsi. 190 Irato a’ patrii Numi, errava muto ove Arno è più deserto, i campi e il cielo desïoso mirando98; e poi che nullo vivente aspetto gli molcea la cura, qui posava l’austero99; e avea sul volto 195 il pallor della morte e la speranza100. Con questi grandi abita eterno101: e l’ossa fremono102 amor di patria. Ah sì103! da quella religïosa pace un Nume parla104: e nutria contro a’ Persi in Maratona 200 ove Atene sacrò tombe a’ suoi prodi, la virtù greca e l’ira105. Il navigante che veleggiò quel mar sotto l’Eubea106, vedea per l’ampia oscurità scintille balenar d’elmi e di cozzanti brandi107, 205 fumar le pire igneo vapor, corrusche d’armi ferree vedea larve guerriere cercar la pugna108; e all’orror de’ notturni

95 Che ove... auspici: perché, se una speranza di gloria risplenderà per gli animi più valorosi e per l’Italia, trarremo forza e ispirazione di qui (quindi: da Santa Croce). 96 marmi: metonimia per indicare i sepolcri marmorei. 97 Vittorio: Alfieri, chiamato familiarmente per nome a sottolineare l’affinità, un’ideale fraternità con il poeta dei Sepolcri. 98 Irato... mirando: adirato per le sorti dell’Italia errava silenzioso nei luoghi più deserti presso l’Arno, guardando con desiderio i campi e il cielo. Sfiduciato per la situazione presente dell’Italia e ormai vicino alla morte, Alfieri, con un’immagine romantica, sembra cercare con lo sguardo più vasti e liberi orizzonti. 99 poi che... austero: poiché nessuna visione di cose attuali (vivente aspetto) gli mitigava l’angoscia, (quell’uomo) severo si fermava qui (a Santa Croce). 100 il pallor... speranza: Alfieri morì nel 1803. Pur non avendolo potuto conoscere, Foscolo lo aveva visto a Firenze nei suoi ultimi anni, come ricorda in una propria nota al carme: «così io scrittore vidi Vittorio Alfieri negli ultimi anni della sua vita. Giace in Santa Croce». 101 Con questi... eterno: Alfieri fu sepolto a Santa Croce e la duchessa d’Albany fece erigere dallo scultore Canova il suo monumento funebre, che sarebbe stato

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completato nel 1810. 102 fremono: il verbo, parola chiave del carme, indica che le grandi passioni, come quella di Alfieri per la patria italiana, restano vive oltre la morte: dalla tomba di Alfieri sembra emanare un fremito di amore di patria. vv. 197-212 Nei versi è centrale il tema patriottico. Con una delle “transizioni” di cui parla nella Lettera a Guillon, da Firenze e dalla tomba di Alfieri in Santa Croce, luogo simbolo di un possibile riscatto italiano, Foscolo passa a Maratona, per mostrare l’eternità della gloria di chi combatte per la patria, con una visione di grande forza fantastica (i fantasmi dei combattenti di Maratona rinnovano ogni notte la grande battaglia).

103 Ah sì: l’esclamazione sottolinea la partecipazione emotiva del poeta.

104 da quella... parla: da quella pace religiosa della morte sembra parlare qualcosa di divino. 105 e nutria... ira: e quella stessa divinità dell’amore di patria, a Maratona, dove Atene fece tumulare i valorosi ateniesi morti in quella battaglia (490 a.C.), alimentava la virtù dei greci e l’ardore di guerra contro i persiani. Con un trapasso improvviso di tempo e di luogo, tipico dei Sepolcri, Foscolo collega l’amore di patria, di cui

Alfieri è ispiratore, a quello dei greci nella battaglia di Maratona, emblema di lotta per la libertà. 106 che veleggiò... Eubea: che percorse con una nave a vela il tratto di mare tra l’Eubea (isola di fronte a Maratona) e la piana di Maratona. Il verbo veleggiò sottolinea la lentezza della navigazione, durante la quale, secondo una leggenda tratta dalla Periegesi della Grecia del greco Pausania (II secolo d.C.), nell’oscurità notturna si profilano i fantasmi degli antichi guerrieri che rinnovano la battaglia, simbolo della loro gloria eterna. 107 vedea... brandi: vedeva nell’ampia oscurità della notte balenare i riflessi scintillanti degli elmi e delle spade cozzanti tra loro. È evidente il fonosimbolismo del passo, che rende il contrasto tra l’oscurità della notte con il suono ampio della a, e il bagliore improvviso delle luci con la brevità di balenar, tronco e accentato sull’ultima, e il ricorrere del suono acuto della i (scintille), mentre cozzanti suggerisce fonicamente il cupo fragore della scena. 108 fumar... pugna: i roghi funebri (dei guerrieri morti) emanare vapore infuocato, vedeva fantasmi (larve) di guerrieri, scintillanti (corrusche) per le armi di ferro, cercare la battaglia. L’iterazione del verbo vedea sottolinea la straordinarietà dell’apparizione.


silenzi si spandea lungo ne’ campi di falangi un tumulto e un suon di tube 210 e un incalzar di cavalli accorrenti scalpitanti su gli elmi a’ moribondi, e pianto, ed inni, e delle Parche il canto109. Felice te che il regno ampio de’ venti, Ippolito, a’ tuoi verdi anni correvi110! 215 E se il piloto ti drizzò l’antenna oltre l’isole Egee111, d’antichi fatti certo udisti suonar dell’Ellesponto i liti112, e la marea mugghiar portando alle prode Retee l’armi d’Achille 220 sovra l’ossa d’Aiace113: a’ generosi giusta di glorie dispensiera è morte114; né senno astuto né favor di regi all’Itaco le spoglie ardue serbava, ché alla poppa raminga le ritolse 225 l’onda incitata dagl’inferni Dei115. E me che i tempi ed il desio d’onore fan per diversa gente ir fuggitivo,

109 all’orror... canto: e (contrapposto) all’orrore del silenzio notturno si avvertiva diffondersi in lontananza il fragore tumultuoso delle falangi e un suono di trombe, e un incalzare di cavalli che accorrevano e scalpitavano sugli elmi dei moribondi e (si sentivano) il pianto (dei morenti e degli sconfitti) e gli inni (dei vincitori) e il canto delle Parche. Alle immagini visive dei versi precedenti subentrano quelle uditive, con il contrasto tra l’iniziale silenzio notturno, immagine del nulla e della morte, e il ridestarsi di rumori e suoni, immagine della gloria indimenticabile della grandiosa battaglia. La scena si chiude con il trionfo dei vincitori, il pianto degli sconfitti e il canto delle Parche, simbolo del destino che accomuna vincitori e vinti. Nella mitologia greca le Parche sono tre divinità che simboleggiano l’esistenza: una inizia il filo della vita, l’altra lo lavora, la terza lo tronca al momento della morte. Il canto delle Parche rappresenta per gli eroi di Maratona il compimento del destino. vv. 213-253 Lo scenario marino, tra la Grecia e l’Ellesponto, evoca il primo eroe omerico del carme: Aiace, lì sepolto, morto suicida per l’ingiustizia di cui è stato vittima (non aver ricevuto le armi di Achille, a lui dovute essendo il più valoroso degli eroi greci, ma che Ulisse si era fatto assegnare grazie alla sua astuzia e abilità di parola). Ora la marea riporta le armi sulla tomba dell’eroe,

strappandole alla nave di Ulisse, a simboleggiare come la morte compensi dei torti sopportati in vita. È poi introdotto il tema della poesia eternatrice che, con la sua armonia, «vince di mille secoli il silenzio» e, donando gloria eterna, consola i grandi uomini delle ingiustizie e sofferenze subite. Ne è esempio la città di Troia che, pur distrutta dai Greci, vive eternamente nella memoria di tutti grazie ai poemi omerici.

110 Felice... correvi: felice te, o Ippolito (Pindemonte), che nel tempo della tua giovinezza percorrevi viaggiando il vasto mare, il regno su cui i venti spaziano liberamente. Foscolo fa riferimento a un giovanile viaggio di Pindemonte: Ippolito è chiamato felice perché ha potuto esplorare il Mediterraneo e avvertire la viva memoria degli antichi eventi. È implicito il passaggio logico dai luoghi della battaglia di Maratona, che ne serbano memoria, ai luoghi dell’Asia minore – teatro della guerra di Troia, anch’essi memori di quell’evento – che in giovinezza Pindemonte visitò e di cui ha potuto sentir riecheggiare il ricordo. 111 il piloto... Egee: il timoniere diresse la rotta della nave al di là delle isole dell’Egeo (quindi verso l’Asia Minore e la regione di Troia). L’antenna è l’albero della nave, che per sineddoche rappresenta tutta l’imbarcazione. 112 d’antichi... liti: certamente hai sentito

le spiagge dell’Ellesponto risuonare della memoria di antichi eventi mitici. Alcuni versi omerici, citati dallo stesso Foscolo, ricordano che i sepolcri degli antichi eroi della guerra di Troia erano stati posti lungo le coste dell’Ellesponto perché i naviganti li vedessero e ricordassero chi vi era sepolto. 113 la marea... Aiace: la marea risuonare minacciosa portando le armi di Achille sul promontorio reteo (vicino a Troia), sopra il sepolcro di Aiace. Ad Aiace, l’eroe greco più valoroso dopo Achille, sarebbero dovute toccare le armi di quest’ultimo ma Ulisse, più astuto e abile parlatore, se le era fatte ingiustamente assegnare da Agamennone. Aiace era allora caduto in preda a un folle furore e, perduto l’onore, si era ucciso. Secondo una leggenda riportata da Pausania, una tempesta aveva tolto le armi dalla nave di Ulisse per riportarle sulla tomba di Aiace. 114 a’ generosi... morte: la morte è dispensatrice di una giusta gloria per coloro che, agendo generosamente, l’hanno meritata. 115 né senno astuto... Dei: né l’astuzia né il favore dei re (Agamennone e Menelao) poté conservare all’eroe di Itaca (Ulisse) le spoglie di guerra difficili da conquistare, perché l’onda marina, resa tempestosa (e vendicatrice) dalle divinità protettrici dei morti, le strappò alla nave di Ulisse, errante per i mari durante il suo viaggio di ritorno.

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me ad evocar gli eroi chiamin le Muse del mortale pensiero animatrici116. 230 Siedon custodi de’ sepolcri, e quando il tempo con sue fredde ale vi spazza fin le rovine, le Pimplee fan lieti di lor canto i deserti, e l’armonia vince di mille secoli il silenzio117. 235 Ed oggi nella Troade inseminata eterno splende a’ peregrini un loco eterno per la Ninfa a cui fu sposo Giove, ed a Giove die’ Dardano figlio onde fur Troia e Assaraco e i cinquanta 240 talami e il regno della Giulia gente118. Però che quando Elettra udì la Parca che lei dalle vitali aure del giorno chiamava a’ cori dell’Eliso, a Giove mandò il voto supremo119: E se, diceva, 245 a te fur care le mie chiome e il viso e le dolci vigilie, e non mi assente premio miglior la volontà de’ fati, la morta amica almen guarda dal cielo onde d’Elettra tua resti la fama120. 250 Così orando121 moriva. E ne gemea122 l’Olimpio123; e l’immortal capo accennando piovea dai crini ambrosia su la Ninfa e fe’ sacro quel corpo e la sua tomba124.

116 E me... animatrici: e le Muse, ispiratrici della vita spirituale degli uomini, chiamino me, che i tempi sfavorevoli e il desiderio di onore e gloria hanno reso esule, in fuga da un luogo all’altro, a celebrare gli eroi. I versi sottolineano l’affinità tra la figura di Aiace e quella di Foscolo, entrambi vittima di un destino ingiusto. Le Muse sono definite animatrici del pensiero perché, secondo la concezione vichiana, la poesia, ispiratrice di sentimenti e passioni, precede e fonda il pensiero razionale. 117 Siedon... silenzio: le Pimplee (le Muse) siedono presso i sepolcri e quando il tempo, con la sua crudele forza devastatrice, spazza via persino le rovine, confortano e allietano con il loro canto (letteralmente “danno la vita”: fan lieti “rendono fertili”) i luoghi in abbandono e dimenticati (deserti), cosicché l’armonia (del canto) vince di mille secoli il silenzio (della morte). Troia, città di cui, al tempo di Foscolo, non si conoscevano neppure le rovine (poi scoperte dall’archeologo tedesco Heinrich Schliemann nel secondo Ottocento), è ricordata da tutti grazie alla poesia di Omero. Le Muse sono dette Pimplee

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dal monte Pimpla in Tessaglia, dove era loro consacrata una fonte. Il Tempo, per il suo corso veloce, è rappresentato come alato; che le ali spazzino via tutto ne indica l’azione distruttrice; le ali del tempo sono fredde per esprimere il senso raggelante della morte, che non risparmia nulla. 118 nella Troade… gente: nella regione di Troia, divenuta un deserto (l’aggettivo inseminata “non seminata”, rende l’idea che di Troia non sia restato più nulla) risplende eterno un luogo (dove un tempo era la città), reso eterno grazie alla ninfa Elettra, a cui fu sposo Giove e che a Giove generò il figlio Dardano, da cui ebbero origine Troia e (attraverso le varie generazioni) Assaraco, i cinquanta figli di Priamo (talami indica i loro letti nuziali) e il regno dei discendenti di Iulo (figlio di Enea, dai discendenti del quale fu fondata Roma). Secondo il mito, la stirpe troiana derivò da Giove e dalla ninfa Elettra, che chiese al re degli dei di mantenere per sempre la memoria della sua stirpe. L’iterazione sottolinea la parola chiave eterno. 119 Però che... supremo: poiché quando Elettra sentì la Parca che (troncando il filo della vita) dalla viva aria del giorno la chia-

mava alle danze dell’Eliso, oltretomba dei beati, rivolse a Giove l’ultima preghiera. 120 fur care... fama: furono care le mie chiome e il viso (la mia bellezza) e le dolci veglie amorose; e il Fato non mi consente un premio migliore, almeno guarda dal cielo la tua amante morta, perché resti eterna la fama della tua Elettra. È ripresa la concezione omerica per cui neppure gli dei possono opporsi alla volontà del Fato. Giove può però concedere ad Elettra il dono divino dell’eternità attraverso la fama. 121 orando: pregando. 122 gemea: gemeva. Nei Sepolcri anche gli dèi non sono immuni dalla sofferenza. 123 l’Olimpio: Giove, perché abita nell’Olimpo. 124 e l’immortal... tomba: e accennando in segno di assenso, con il suo capo immortale, irrorava di ambrosia stillata dai suoi capelli la ninfa, consacrandone il corpo e la tomba; poiché nel sepolcro di Elettra saranno sepolti i suoi discendenti, anche la loro fama sarà resa eterna. L’ambrosia, mitico nutrimento degli dei omerici, era usata anche come unguento che preservava dalla corruzione, perciò vale come simbolo di immortalità.


Ivi125 posò Erittonio, e dorme il giusto 255 cenere d’Ilo126; ivi l’Iliache donne sciogliean le chiome, indarno ahi! deprecando da’ lor mariti l’imminente fato127; ivi Cassandra, allor che il Nume in petto le fea parlar di Troia il dì mortale, 260 venne; e all’ombre cantò carme amoroso, e guidava i nepoti, e l’amoroso apprendeva lamento a’ giovinetti128. E dicea129 sospirando130: Oh se mai d’Argo, ove al Tidide e di Laerte al figlio 265 pascerete i cavalli, a voi permetta ritorno il cielo, invan la patria vostra cercherete131! Le mura opra di Febo sotto le lor reliquie fumeranno132. Ma i Penati di Troia avranno stanza 270 in queste tombe133; ché de’ Numi è dono servar nelle miserie altero nome134. E voi palme e cipressi che le nuore piantan di Prìamo, e crescerete ahi presto di vedovili lagrime135 innaffiati, 275 proteggete i miei padri136: e chi la scure asterrà pio dalle devote frondi men si dorrà di consanguinei lutti e santamente toccherà l’altare137. vv. 235-295 L’Iliade è esempio di come la poesia possa eternare il ricordo oltre la distruzione materiale dei luoghi. Al poema omerico è poi legato il tema della “compassione”, che inscrive il sentimento patriottico in un più vasto orizzonte umano: tutta l’umanità, infatti, compiange e per sempre compiangerà («E tu onore di pianti, Ettore, avrai») Ettore, l’eroe sconfitto, caduto mentre difendeva la propria patria.

125 Ivi: nel sepolcro di Elettra, che accoglie anche i suoi discendenti. 126 posò... Ilo: fu sepolto Erittonio e riposano le ceneri del giusto Ilo. Erittonio è figlio di Dardano, Ilo il nipote; «giusto / cenere d’Ilo» è un’ipallage perché assegna l’attributo giusto a cenere e non a Ilo, come se la qualità della giustizia restasse a lui legata anche nel sepolcro. 127 ivi... fato: lì (presso il sepolcro dei grandi troiani) le donne troiane scioglievano le loro chiome, in segno di supplica, cercando invano di stornare il destino di morte incombente sui loro mariti. È ripreso il motivo per cui, nell’antichità, i sepolcri degli antenati divengono altari (vv. 97-98). L’interiezione ahi! esprime la partecipazione compassionevole del poeta, perché le preghiere delle donne troiane,

come quella della fanciulla inglese per il ritorno di Nelson, non verranno esaudite. 128 ivi Cassandra... giovinetti: lì venne Cassandra quando Apollo, ispirandole nell’animo la virtù profetica, le faceva predire la fine di Troia; e cantò ai morti lì sepolti un carme in cui esprimeva il suo amore (per i fondatori della sua patria) e insegnava ai giovani un canto ispirato dall’amore e dalla tristezza (per l’imminente fine della città). L’iterazione di ivi sottolinea la centralità del sepolcro dei grandi troiani, simbolo di memoria. A Cassandra, figlia di Priamo, vanamente amata da Apollo, il dio aveva concesso la virtù profetica, ma anche il destino di non essere creduta. La preveggenza di Cassandra, contrapposta alla cecità delle donne troiane, le fa comprendere che, essendo Troia destinata a cadere, sarebbe potuta rimanerne solo la memoria. La figura di Cassandra, centrale nel carme, evidenzia il rapporto tra la memoria del passato e il futuro: si collega perciò a quella di Alfieri e di Foscolo stesso. 129 dicea: diceva. Il discorso profetico di Cassandra si estende fino all’ultimo verso del carme. 130 sospirando: in segno di tristezza per l’infelice futuro che sta profetizzando. 131 Oh se mai... cercherete: oh se mai il destino vi permetterà di ritornare da Ar-

C.L.F. Becker (attribuito), Omero canta a un gruppo di giovani Greci, olio su tela, XIX secolo (Collezione privata).

go (città della Grecia che, per sineddoche, rappresenta l’intera Grecia) dove, come schiavi, farete pascolare i cavalli di Diomede (figlio di Tideo) e Ulisse (figlio di Laerte), cercherete vanamente la vostra patria. 132 Le mura... fumeranno: le mura di Troia, opera di Apollo, fumeranno sotto le loro macerie. Secondo il mito, il re di Troia Laomedonte aveva edificato le mura della città con l’aiuto degli dei Apollo e Poseidone, a cui però si era rifiutato di pagare il compenso dovuto; perciò gli dei lo avevano punito facendo distruggere la città. È sottolineato il contrasto tra le mura grandiose, edificate dagli dei, e ciò che ne resta dopo la distruzione e l’incendio di Troia. 133 Ma i Penati... tombe: ma le divinità tutelari di Troia avranno posto in queste tombe. 134 ché de’ Numi... nome: perché è un dono divino poter conservare una fama gloriosa anche nella sventura. 135 di vedovili lagrime: delle lacrime delle vedove. Cassandra profetizza la morte di molti troiani, pianti dalle loro vedove. 136 proteggete i miei padri: proteggete le tombe dei miei antenati. Cassandra si rivolge alle piante che proteggono i sepolcri. 137 e chi... altare: e chi, religiosamente, si asterrà dal troncare con una scure le fronde delle piante consacrate ai defunti, non sarà

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Proteggete i miei padri. Un dì vedrete 280 mendico un cieco errar sotto le vostre antichissime ombre138, e brancolando penetrar negli avelli, e abbracciar l’urne, e interrogarle139. Gemeranno gli antri secreti140, e tutta narrerà la tomba 285 Ilio raso due volte e due risorto splendidamente su le mute vie per far più bello l’ultimo trofeo ai fatati Pelidi141. Il sacro vate, placando quelle afflitte alme col canto, 290 i Prenci Argivi eternerà per quante abbraccia terre il gran padre Oceàno142. E tu onore di pianti, Ettore, avrai ove fia santo e lagrimato il sangue per la patria versato, e finché il Sole 295 risplenderà su le sciagure umane143. punito dagli dei con la morte di consanguinei e toccherà l’altare (per le suppliche) con mani più pure (perciò i suoi voti saranno più graditi agli déi). Troncare i rami di una pianta consacrata a un defunto era considerato dagli antichi un sacrilegio: si ricordi il passo dell’Eneide (II, 512-514) in cui il vecchio Priamo si rifugia presso un altare protetto da un’antichissima pianta di alloro, dove viene empiamente ucciso da Pirro, figlio di Achille. 138 mendico... ombre: un mendicante cieco (Omero) errare sotto le vostre antichissime ombre. Omero, secondo la tradizione, è raffigurato come cieco, ma la sua cecità simboleggia anche il suo disinteresse per la realtà che lo attornia. L’essere errante lo accomuna a Dante (v. 174) e allo stesso Foscolo (vv. 226-227). La povertà, come per Parini, sottolinea il disinteresse e l’integrità morale del poeta. Le ombre sono antichissime perché Omero scrive il suo poema secoli dopo la guerra di Troia, il cui ricordo era giunto a lui indirettamente, attraverso i canti degli aedi. 139 brancolando... interrogarle: a tentoni (perché cieco) penetrare nelle camere sepolcrali e abbracciare le ombre dei morti nelle urne, e interrogarle. La scena ricorda la discesa nel regno dei morti di Ulisse nell’Odissea e di Enea nell’Eneide. L’abbraccio indica la partecipazione di Omero alle loro sofferenze. 140 Gemeranno... secreti: le camere sepolcrali più interne e nascoste risuoneranno di gemiti. I morti soffrono nel rievocare le terribili vicende della guerra. 141 tutta... Pelidi: tutti i sepolti nella tomba narreranno la storia di Ilio (Troia), due volte rasa al suolo e due volte ricostruita ancora più splendidamente sulle vie divenute deserte dopo la distruzione, per rendere più splendido l’ultimo trionfo sul-

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la città, riservato dal Fato ai discendenti di Peleo (Achille e suo figlio Pirro, ma il termine indica in generale tutti i greci). La città era stata precedentemente distrutta da Ercole e dalle Amazzoni. 142 Il sacro... Oceàno: il poeta sacro, consolando con il suo canto quelle anime addolorate, eternerà la fama dei principi greci in tutte le terre circondate dall’Oceano. Per Foscolo il poeta – vate e perciò ispiratore di valori – è sacro; Omero consola della morte i sepolti nella tomba troiana perché dona a loro e alla loro città una fama eterna in tutto il mondo (che, nell’antichità, si pensava fosse circondato da un unico mare, detto Oceano). 143 E tu... umane: e tu, Ettore, riceverai

onore e compassione in tutti i luoghi in cui il sangue versato per la patria sarà considerato sacro e degno di compianto, e fino a quando il sole illuminerà la vita sulla terra abitata e il dolore degli uomini. Parla ancora Cassandra che, dopo essersi rivolta ai giovani, affidando loro il compito di conservare la memoria della città dopo la sua distruzione, si rivolge al proprio fratello Ettore, sepolto in quella tomba, promettendo che sarà compianto fino al termine delle vicende di un’umanità accomunata dalle sventure. Il carme si chiude così circolarmente, sull’urna di Ettore, confortata dal pianto della sorella e dalla compassione di tutto il genere umano, dando implicita risposta alla domanda con cui si apre.

Arnold Böcklin, L’isola dei morti (la prima delle cinque versioni), olio su tela, 1880 (Basilea [Svizzera], Kunstmuseum Basel).


Analisi del testo L’articolazione complessiva del carme I Sepolcri sono un testo profondamente unitario, intessuto di richiami a distanza, che si sviluppa in un crescendo ma, come Foscolo stesso precisa nella Lettera a Guillon per farne meglio comprendere la struttura, può essere suddiviso in quattro parti, corrispondenti a quattro macrosequenze argomentative. Tali sequenze, aperte da frasi dalla sintesi epigrafica, sono fra loro legate da corrispondenze strutturali: in ciascuna, ad esempio, è presentata una figura di poeta (nell’ordine, Parini, Foscolo, Alfieri e Omero). Lo stile varia nelle diverse sezioni, paragonabili ai movimenti di una sinfonia, con un effetto di climax, dall’orrido preromantico della prima parte all’innalzarsi epico e grandioso della finale profezia di Cassandra.

La prima parte (vv. 1-90): la «corrispondenza d’amorosi sensi» Il tema della legge Il carme è preceduto da un’epigrafe, una legge romana del periodo arcaico sui diritti dei defunti citata da Cicerone e volta a mettere in rilievo come la disposizione legislativa napoleonica “nuova”, cioè autoritariamente imposta ed estranea alla civiltà italiana («Pur nuova legge impone oggi», v. 51), violi un principio enunciato da Vico, secondo cui le leggi devono derivare dalla storia di un popolo: i «governi debbono essere conformi alla natura degli uomini governati» (Vico, La scienza nuova, LXIX). L’epigrafe evidenzia così il rifiuto foscoliano del razionalismo illuministico e la valorizzazione della dimensione storica, profondamente connaturata al carme. La concezione materialistico-meccanicistica… I primi versi propongono una domanda, solo apparentemente retorica: in base alla concezione materialistico-meccanicistica di una natura la cui forza distruttiva è resa dalle immagini, di gusto preromantico, delle ossa disseminate ovunque, e della distruzione finale che attende la terra e i corpi celesti, come può un sepolcro consolare chi non gode più della vita? … e il suo superamento A questo punto (dal v. 23) – con una svolta segnata dalla forte avversativa Ma – si apre una riflessione che si protrae fino alla fine del carme, volta a superare il pessimismo iniziale, mostrando come l’uomo possa andare oltre il limitato tempo della vita individuale attraverso la memoria, la civiltà, la storia e la poesia. L’illusione e la «corrispondenza d’amorosi sensi» Chiavi per il superamento del pessimismo indotto dalla concezione meccanicistica sono due concetti: l’illusione e la «corrispondenza d’amorosi sensi», che spostano il discorso dalla dimensione razionale a quella sentimentaleaffettiva, evidenziando la sensibilità proto-romantica dell’autore. L’illusione, elemento centrale di tutta la concezione foscoliana, è quell’insieme di credenze che, sottraendosi alla “tirannia” della ragione – che ci mostra come ogni cosa venga annientata – danno ciononostante valore e senso alla vita (amicizie, affetti, bellezza della natura e dell’arte). Un esempio di illusione è il sentimento provato alla morte delle persone care. Secondo ragione, per i non credenti esse non ci sono più; ma è quasi impossibile accettare del tutto questa idea: senza che si possa razionalmente giustificarlo, l’amore ce le fa sentire ancora vive e vicine. La «corrispondenza d’amorosi sensi», il legame affettivo tra persone così intenso da non spezzarsi con la morte, dona una sorta di immortalità, avvicinando la condizione umana a quella degli dei, come evidenzia la ripetizione della parola chiave celeste, al v. 29 e in apertura del v. 31, contrapposta a estinto dei successivi vv. 32-33. L’esempio negativo: Milano dimentica di Parini Tale reciprocità di affetti viene considerata da Foscolo sia in una dimensione privata (a essere ricordati sono i buoni, che destano il rimpianto di chi ancora vive) sia in quella pubblica, in quanto una comunità che alimenti i più alti valori civili coltiva il ricordo dei concittadini più degni. A questo proposito è proposto l’esempio – negativo per la Lombardia napoleonica – del primo dei poeti dei Sepolcri, Parini: la sua poesia, sferzante verso i milanesi, non gli ha meritato il ricordo dell’ingrata città, tanto che ora il suo corpo giace abbandonato in una tomba anonima, in una squallida periferia. Si prepara così la seconda parte del carme, un excursus antropologico-storico dedicato al rapporto tra il culto dei morti e la comunità civile. Lo stile: un inizio “preromantico” Questa prima sezione è contraddistinta da immagini cupe, talvolta anche “orride”, di gusto ossianico e preromantico, come la distesa infinita di ossa che ricopre terra e mare, e la lugubre scena notturna del cimitero abbandonato in cui giace Parini, le cui connotazioni funeree sono messe in risalto dal fonosimbolismo della u e dai suoni duri e cupi delle consonanti c e g, che sottolineano la crudezza delle immagini. Ad accentuare

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l’atmosfera raccapricciante, la parola bronchi, per indicare i rami spogli, evoca uno scenario infernale, il XIII canto dell’Inferno dantesco con la selva dei suicidi.

La seconda parte (vv. 91-150): il culto dei morti e la civiltà Le istituzioni segnano il sorgere della civiltà L’introduzione solenne, dalla concisione epigrafica, dei vv. 91- 96, con un vertiginoso salto temporale all’indietro riporta al momento della nascita e dello sviluppo della civiltà che, con un esplicito richiamo alla filosofia vichiana, coincide per Foscolo con le istituzioni del matrimonio, dei riti religiosi e, prima ancora, della sepoltura dei morti, in cui avviene il passaggio dell’uomo primitivo dallo stato belluino a quello umano e civile grazie al sentimento di compassione («alle umane belve esser pietose»). Le usanze sepolcrali riflettono i caratteri delle civiltà in cui si inscrivono. Per dimostrarlo, Foscolo propone quattro quadri, due di segno positivo e due di segno negativo, in cui il culto dei morti rivela il modo di intendere la vita delle diverse civiltà. Due quadri opposti del passato: Medioevo e Antichità Un quadro oscuro e negativo è quello del Medioevo visto, secondo una prospettiva ancora illuministica, come ossessionato dalla caducità della vita e dal terrore dell’aldilà, che impediscono di godere dell’esistenza. Al Medioevo è contrapposta l’Antichità, che attribuisce alla vita pieno significato e valore, come rivelano gli usi funebri di inscrivere sulle tombe le gesta gloriose (i fasti), al fine di suggellarle per sempre tramandandone la memoria, e di offrire ai morti (con «pietosa insania», cioè in modo irrazionale, ma profondamente umano) ciò che confortava anche in vita, quasi idealmente prolungandola: la luce, il profumo dei fiori, le offerte funebri, le confidenze dei vivi. Due quadri opposti del presente: Inghilterra e Italia napoleonica Ai due quadri del passato se ne affiancano due del presente, anch’essi di segno opposto. Positivo è quello della contemporanea Inghilterra, in cui rivivono le generose illusioni degli antichi e l’elevato grado di civiltà, mostrato dall’immagine di una giovane donna che, partecipe del destino della propria patria, prega per l’ammiraglio Nelson, l’unico che allora fosse stato in grado di vincere Napoleone. Agli inglesi sono contrapposti gli italiani (e soprattutto le loro classi dirigenti), preoccupati solo delle ricchezze materiali e della propria tranquillità, passivamente assoggettati alle direttive napoleoniche, incapaci di assumere un impegno civile, tanto da essere considerati come morti anche quando sono in vita («nelle adulate reggie ha sepoltura già vivo»). Lo stile: il gioco dei contrasti Alla struttura oppositiva che caratterizza questa seconda parte del carme corrisponde uno stile ricco di contrasti, con un effetto di accentuato “chiaroscuro”. I cimiteri antichi sono raffigurati come in un quadro neoclassico, connotato dalla luminosità e dall’armonia, in contrapposizione alle immagini cupe e macabre del Medioevo (le raffigurazioni degli scheletri che, come un memento mori, intristiscono le città, oppure la scena notturna della madre che si ridesta angosciata dalla visione dei morti); allo stesso modo, alla scena di gusto preromantico dei cimiteri inglesi curati come giardini, con la fanciulla assorta nella preghiera, fa da contraltare la freddezza marmorea dei monumenti esteriormente pomposi, ma incapaci di suscitare emozioni. L’autoritratto foscoliano Anche questa seconda sezione si chiude con il ritratto di un poeta: l’autore stesso che, ponendo qui in rilievo il tema autobiografico che percorre tutto il carme, auspica, in contrasto con la viltà e l’ignavia degli italiani del suo tempo, di lasciare quella eredità ed esempio di «caldi sensi e di liberal carme» che contribuisca a preparare un futuro riscatto dell’Italia. Si preannuncia così la sezione successiva del carme, dedicata al tema patriottico.

La terza parte (vv. 151-212): il tema patriottico e Firenze, culla della futura Italia Questa parte è segnata da un marcato innalzamento di tono e da un carattere eroico, sottolineato fin dall’inizio dalla parola chiave egregie e dall’iterazione dell’aggettivo forte: «A egregie cose il forte animo accendono l’urne de’ forti». Il ricordo dei grandi, consacrato dalle tombe, può ridestare quei sentimenti di amore per la patria che soli possono far risorgere l’Italia. Come scrive il critico Enzo Neppi: «Prima di tutto, mossa cruciale, Foscolo sposta il suo sguardo a volo d’uccello da Milano, fulcro politico intorno a cui s’impernia il dominio francese, a Firenze, culla della cultura italiana. Come noto, Firenze, nella basilica di Santa Croce, raccoglie la memoria di tutte le forze italiane più libere e vive, nei diversi campi del pensiero, della scienza e dell’arte. Qui sono infatti le tombe di Machiavelli, Michelangelo e Galileo, qui è la memoria di Dante e Petrarca, padri della poesia

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italiana, ma anche quella di Alfieri, sua ultima gemma, a cui più intimamente si ispira Foscolo. [...]. Attraverso queste diverse figure, il poeta può così contrapporre alle Alpi – che nonostante la loro mole imponente non vietano la discesa in Italia delle potenze nemiche – le pareti della basilica fiorentina (riletta qui in chiave interamente civile), che almeno preservano la memoria, quando tutto il resto è stato invece invaso e distrutto. [...]». La raffinatezza stilistica La centralità del tema è evidenziata dalla raffinata eleganza dello stile; le immagini luminose e armoniose creano un effetto di aerea vastità, a sottolineare sia l’armonia tra uomo e natura nel paesaggio fiorentino, sia l’altezza del pensiero umano, a cui i grandi italiani sepolti in Santa Croce hanno saputo elevarsi: Machiavelli svelando la realtà della politica, Michelangelo innalzando grandiosi monumenti, Galileo spingendosi a contemplare il sistema dei pianeti, ammirando «sotto l’etereo padiglion rotarsi / più mondi, e il Sole irradïarli immoto» (vv. 161-162), e aprendo la strada a Newton che simboleggia la capacità sublime dell’umano pensiero di osservare il cosmo. Il tema è sottolineato dal campo semantico della visione svelata (svela, vide, sgombrò) e da una specie di climax (alzò, «sotto l’etereo padiglion», «tanta ala vi stese», «le vie del firmamento»). La figura di Alfieri, poeta profetico e patriottico A tali sentimenti di “magnanima esaltazione” è ispirata la figura principale di poeta della terza parte (in cui sono ricordati anche Dante e Petrarca): Vittorio Alfieri, considerato da Foscolo soprattutto per la sua ispirazione patriottica e rappresentato come se, esaltandosi per le memorie dei grandi di Santa Croce, ne traesse la speranza di un futuro riscatto dell’Italia; una connessione tra memoria del passato e futuro che caratterizza anche le figure di Cassandra e di Foscolo stesso, costituendo uno dei nodi del carme. L’eterna gloria degli eroi di Maratona Con uno degli arditi trapassi di tempo e di luogo che caratterizzano i Sepolcri, per l’affinità del tema patriottico la scena si sposta da Santa Croce, santuario della futura nazione italiana, a Maratona, luogo venerato da chi voglia combattere per la patria. L’eternità della gloria degli eroi combattenti per la libertà della Grecia contro i persiani è icasticamente raffigurata dal «realismo magico» (Getto) delle figure «sospese tra la vita e la morte» dei fantasmi guerrieri che ogni notte si stagliano luminosi dall’oscurità, a simboleggiare una gloria che non si spegne mai. La trama fonosimbolica Nei versi, l’accuratezza della trama fonosimbolica contribuisce alla vivida intensità della rappresentazione. Come rileva il critico Giuseppe Nicoletti, nel brano «si intrecciano tre temi sonori: un primo tema inaugurato da mar di v. 202 e costituito da una serie di forme tronche dell’infinito (balenar, fumar, cercar, incalzar), un secondo avviato da Eubea dello stesso verso e caratterizzato dal marcato raddoppiamento vocalico in fine di parola (vedea, vedea, spandea) e infine un tema fortemente espressivo in chiave soprattutto consonantica (cozzanti, accorrenti, scalpitanti). Le modalità di raccordo di questi temi e di altri minori sono assai varie: si va dalla rima interna all’assonanza, fino alla ripresa di segmenti versali [parti di versi, emistichi] in corrispondenza fonica («fumar le pire igneo vapor»; «cercar la pugna; e all’orror») e di corrispondenze fra incipit e clausole di uno stesso verso in funzione di dissolvenza sonora e di chiusa («e pianto ed inni, e delle Parche il canto»)». Anche la chiusura della terza parte (con il trionfo dei vincitori, il pianto degli sconfitti e, su entrambi, il canto delle Parche, simbolo del destino) prepara la seguente e conclusiva, in cui la passione patriottica è stemperata in un più comprensivo orizzonte umano che accomuna vincitori e vinti. Antonio Canova, Monumento funebre a Maria Cristina d’Austria, 1798-1805 (Vienna). Particolare della costruzione a forma piramidale con il leone (la forza fisica) e il genio funerario alato (lo spirito umano) che si stanno spegnendo (simboli della vita che si allontana).

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La quarta parte (vv. 213-295): i valori e la poesia eternatrice Il mare greco Il mare greco presso l’isola di Maratona si allarga nelle distese di acque sempre più vaste dell’ultima sezione («il regno ampio de’ venti»), scenario dei poemi omerici. Sono i luoghi che il destinatario del carme, Ippolito Pindemonte (autore di una traduzione dell’Odissea a cui si era accinto nel periodo in cui Foscolo scriveva i Sepolcri) aveva percorso durante un viaggio giovanile. La poesia eternatrice In quest’ultima parte emerge un nuovo tema: tramite della memoria non sono ormai più i sepolcri, anch’essi destinati a disgregarsi come ogni cosa materiale, ma la poesia, la cui armonia «vince di mille secoli il silenzio», superando ogni limitazione temporale. Il tema della poesia eternatrice, centrale nell’opera foscoliana, emerge nei vv. 230-234, tra i più affascinanti del carme, con l’immagine delle Muse che custodiscono i sepolcri e ne perpetuano i ricordi quando essi sono spazzati via dalle ali del tempo. L’esempio di Troia Come sempre nei Sepolcri, il concetto riceve forza persuasiva da un esempio: quello della città di Troia, scomparsa ma rimasta viva nei secoli grazie alla poesia omerica. I versi foscoliani ne ripercorrono la storia: dalla mitica capostipite Elettra al momento in cui Cassandra, grazie alle sue capacità profetiche, “vede” nel futuro la distruzione della città; ma anche la consacrazione poetica grazie a Omero che, con profonda umanità, non solo glorifica i vincitori greci, ma onora anche gli sconfitti troiani e fra loro il più sfortunato e valoroso, Ettore. La chiusura dei Sepolcri I Sepolcri si chiudono così circolarmente, perché l’urna di Ettore è «confortata di pianto»: non solo quello di Cassandra, sua sorella, ma dell’intera umanità dei secoli a venire, che ama questo eroe, commossa dall’immortale poesia di Omero fino a quando il sole illuminerà le «sciagure umane». Così la domanda con cui si apre il carme riceve una grandiosa e solenne risposta.

Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

COMPRENSIONE 1. Qual è la funzione dei sepolcri secondo Foscolo? 2. Che cosa intende il poeta con l’espressione «corrispondenza d’amorosi sensi»? (v. 30) Quale speranza nutre Foscolo dopo la morte? 3. Perché, secondo Foscolo, soltanto «chi non lascia eredità d’affetti / poca gioia ha dell’urna»? (vv. 41-42) 4. A chi appartengono «l’urne de’ forti» (v. 152)? Perché questi sono menzionati? 5. Nei Sepolcri Foscolo confronta Milano e Firenze: per quali aspetti le due città sono contrapposte? Quali sono le ragioni della dura critica contro Milano? 6. Nei Sepolcri che cosa lega Orazio Nelson a Ettore? ANALISI 7. Analizza nei Sepolcri le immagini della luce e dell’oscurità e indicane il valore simbolico. 8. Individua nei Sepolcri i principali elementi pre-romantici e i principali elementi classici. 9. Analizza in una tabella come questa i temi indicati: Versi

Il modo in cui è trattato

Il valore attribuito dal poeta

La legge La speranza per il futuro Il compito della poesia La libertà 10. Indica e descrivi i luoghi in cui si snodano i Sepolcri, quindi analizzane il valore simbolico.

634 Ottocento 14 Ugo Foscolo


11. Completa la tabella e analizza i rapporti intercorrenti tra le diverse dimensioni del tempo nei Sepolcri: Versi

Tematiche affrontate

Interpretazione

Tempo breve della vita umana Tempo cosmico della natura Tempo della storia 12. Descrivi i caratteri dei seguenti poeti rappresentati nei Sepolcri e indica i valori trasmessi: Parini, Alfieri, Dante, Petrarca, Omero, Foscolo stesso. 13. Completa la tabella e interpreta il significato dei personaggi della storia e del mito citati: Personaggi

Versi

Descrizione

Interpretazione e significato

Funzione

Aiace Cassandra Ettore Omero Agamennone Ulisse Alfieri Dante STILE 14. Rintraccia le perifrasi con cui Foscolo introduce i personaggi nei Sepolcri. Spiega il motivo di questa scelta stilistica. 15. Analizza i vv. 226-295 dal punto di vista formale (aspetto lessicale, sintattico e ritmico, utilizzo di figure retoriche).

Interpretare

TESTI A CONFRONTO 16. Confronta il ritratto di Parini presentato nell’Ortis (➜ T11 ) e nei Sepolcri, evidenziando elementi comuni e differenze. ESPOSIZIONE ORALE 17. I Sepolcri sono anche una riflessione sul concetto di civiltà. Come viene descritto lo sviluppo della civiltà? In che senso essa appare minacciata da possibili “ricorsi” vichiani? Rispondi in un intervento orale di max 3 minuti. SCRITTURA 18. «Esilio, erranza, impossibile nostos, vana ricerca di una meta al proprio vagare, incessante metamorfosi di tutte le cose» caratterizzano i Sepolcri secondo il critico Enzo Neppi. In un testo scritto di circa 20 righe spiega il significato di tale giudizio e indica le forze che secondo il poeta si contrappongono a questa desolata condizione esistenziale. 19. Foscolo invita a guardare al passato come fonte di ispirazione di grandi ideali. Credi che il suo messaggio sia attuale e condivisibile? Credi che coltivando la memoria collettiva si possa conservare un patrimonio culturale che funga da stimolo per agire nel nostro presente e costruire un futuro migliore?

EDUCAZIONE CIVICA

nucleo Sviluppo economico e sostenibilità

competenza 7

LEGGERE LE EMOZIONI

EDUCAZIONE ALLE RELAZIONI

20. La possibilità di instaurare con chi ci ha lasciati per sempre una «corrispondenza d’amorosi sensi» è per te una fonte di conforto o credi che sia soltanto un’illusione?

Poesia, valori e civiltà: dai Sepolcri alle Grazie 3 635


4 Un alter ego ironico e disincantato: Didimo Chierico Un nuovo autoritratto L’autoritratto passionale dell’Ortis non è l’unico che Foscolo tracci di sé. Un’immagine diversa, e addirittura alternativa dello scrittore, specchio di una nuova disposizione d’animo, è affidata anni dopo alla Notizia intorno a Didimo Chierico, pubblicata in appendice alla versione foscoliana del Viaggio sentimentale di Sterne, realizzata nel 1813 durante il soggiorno fiorentino: si tratta di informazioni biografiche su un personaggio d’invenzione a cui Foscolo attribuisce la traduzione dell’opera, Didimo Chierico appunto. In realtà, con Didimo Foscolo dà vita a una nuova “maschera” di sé stesso, vistosamente – e programmaticamente – contrapposta al personaggio di Jacopo. Già la scelta del nome è significativa: Didimo è un erudito greco, vissuto nel I secolo a.C; chierico (opposto a laico) significa invece “religioso, sacerdote”; nel Medioevo “chierico” era sinonimo di letterato e perciò il nome sembra alludere alla dedizione quasi sacerdotale del personaggio alla letteratura (nei Sepolcri anche Parini è definito sacerdote della musa Talia). Una dedizione che risulta, però, in parte alternativa alla rovente passione politica espressa dall’Ortis. «Didimo è l’anti-Ortis, o per meglio dire l’Ortis sopravvissuto, divenuto letterato, traduttore, commentatore, meglio disposto all’indulgenza verso sé e verso gli altri, ma con nell’animo integri gli ideali e i sentimenti di un giorno: un Ortis che, scrutato a fondo, si rivela a dir del suo autore, più disingannato che rinsavito» (Fubini). Il distacco dalle passioni di Didimo-Foscolo Di Didimo, Foscolo scrive che «teneva ormai chiuse le sue passioni; e quel poco che ne traspariva, pareva calore di fiamma lontana»: un distanziamento dalla dimensione emotiva e passionale online che lo scrittore visse realmente nel periodo fiorentino quando, T19 Ugo Foscolo Didimo, un Ortis «più disingannato che lontano dalle polemiche milanesi, si dedicava alla stesura delle rinsavito» Grazie. Come scrive efficacemente il critico Giuseppe De RoberNotizia intorno a Didimo Chierico VII; XI-XIII tis, «se Ortis scrisse i Sonetti, e Foscolo i Sepolcri, Didimo scrisse le Grazie». I critici hanno perciò parlato di un Foscolo “didimeo”, più incline a un atteggiamento di sereno distacco dal mondo che di polemica e contrasto, capace di una sorridente e tollerante accettazione degli uomini, nonostante i loro difetti. La tecnica narrativa A evidenziare il mutamento è anche la tecnica narrativa: diversamente da Ortis, che si confessa in prima persona, qui interviene un narratore-testimone che può riferire le abitudini, i discorsi, le azioni del protagonista, ma senza entrare nel suo animo, che rimane perciò alquanto misterioso. Anche la prosa è lontanissima dal pathos e dall’enfasi emotiva dell’Ortis: Foscolo sceglie qui un registro asciutto e referenziale.

Notizia intorno a Didimo Chierico

GENERE

TEMI

636 Ottocento 14 Ugo Foscolo

appendice alla versione foscoliana del Viaggio sentimentale di Sterne, nella quale vengono riportate informazioni biografiche su un personaggio di invenzione: Didimo Chierico

• distacco dalle passioni • tollerante accettazione degli uomini


5 Le Grazie: alla ricerca di un’«universale secreta armonia» Un’opera incompiuta e frammentaria Le Grazie, poema allegorico neoclassico che Foscolo avrebbe voluto dedicare al celebre scultore Antonio Canova, è l’ultima grande opera di Foscolo, rimasta però incompiuta. L’autore vi dedica un lungo arco di tempo, soprattutto durante il soggiorno fiorentino del 1812-1813 e poi durante l’esilio, lavorando però in modo non sistematico: da una parte componendo frammenti come se fossero poesie indipendenti (spesso riscritte più volte con numerose varianti), dall’altro elaborando piani compositivi dell’opera, senza giungere a concluderla e pubblicarla, fatta eccezione per alcuni frammenti. Gli editori delle Grazie hanno quindi dovuto compiere un lavoro complesso, tentando di immaginare come l’opera si sarebbe dovuta presentare nelle intenzioni di Foscolo, e di conseguenza hanno predisposto edizioni fra loro molto diverse; l’ultima e più attendibile, a cui si fa attualmente riferimento, è quella di Mario Scotti, compresa nell’Edizione nazionale delle opere di Ugo Foscolo, che documenta le varie fasi redazionali dell’opera. Un complesso iter creativo Durante il periodo in cui compone i sonetti e le odi neoclassiche, Foscolo pubblica quattro frammenti sulle Grazie (1803), inserendoli in uno scritto erudito, il commento alla Chioma di Berenice di Callimaco (raffinato poeta d’età ellenistica); qualche anno dopo, nel 1808, in una lettera a Monti, citando una serie di opere che aveva intenzione di comporre, nomina un poema Alle Grazie, in cui si proponeva di trattare «tutte le idee metafisiche sul bello». Ma soltanto nel periodo del soggiorno fiorentino (1812-1813), ispirato dalle bellezze della città e dalle opere artistiche degli Uffizi – fra cui una statua di Venere appena scolpita da Antonio Canova – l’autore comincia a scrivere l’opera a ritmo sostenuto. La composizione del poema, tuttavia è interrotta dagli incalzanti avvenimenti storici legati alla caduta di Napoleone, che inducono Foscolo a lasciare Firenze per Milano e poi l’Italia per l’esilio. In Inghilterra, Foscolo continua a lavorare alle Grazie, indotto forse più dal fascino che ha su di lui l’argomento che dall’obiettivo di terminare il poema nella difficile situazione di esule. Quasi a sancire una definitiva rinuncia a concludere l’opera, nel 1822 – in un volume fatto predisporre dal duca di Bedford per illustrare la sua collezione di opere artistiche, che includeva una copia del gruppo scultoreo delle Grazie di Canova – Foscolo pubblica alcuni versi del poema, inserendoli in una trattazione in prosa (Di un antico inno alle Grazie) che chiarisce il senso generale dell’opera. Le Grazie, un mito personale di Foscolo Foscolo dichiara una personale predilezione per il mito delle Grazie, divinità intermedie tra gli uomini e gli dei, vedendolo come la rappresentazione di un legame fra valori estetici, intellettuali e morali: un ideale da lui profondamente sentito. La grazia è più della semplice bellezza, è un’armonia fra tutti gli aspetti della persona: bellezza, intelligenza, bontà, gentilezza. Come Foscolo scrive negli Appunti sulla ragione poetica: «è una dilicata armonia che spira contemporaneamente spontanea dalla beltà corporale, la bontà del cuore e la vivacità dell’ingegno congiunte in sommo grado in una sola persona». Per Foscolo, le Grazie simboleggiano tutto ciò che si oppone alla brutalità degli istinti, che ingentilisce le persone e rende il mondo più armonioso, lieto e sereno. Poesia, valori e civiltà: dai Sepolcri alle Grazie 3 637


La struttura del poema Il poema, dapprima strutturato come un unico carme, successivamente viene diviso in tre inni, dedicati alle dee Venere, Vesta e Pallade. Si tratta però di un progetto, come si è detto, che Foscolo non realizzerà mai definitivamente. Nell’insieme i tre inni delineano, in forma didattico-allegorica, un percorso storico modellato sulla filosofia vichiana, contrassegnato da un progressivo incivilimento dell’umanità ma anche da corsi e ricorsi. Il primo inno, dedicato a Venere e ambientato in Grecia, descrive l’apparizione di Venere e delle Grazie dal mare Ionio. La loro comparsa induce gli uomini, ancora preda della barbarie, a incamminarsi sulla strada della civiltà. Il significato allegorico dell’inno è la missione civilizzatrice esercitata dalla bellezza, dall’armonia, dall’arte, che le Grazie rappresentano simbolicamente. Il secondo inno, dedicato a Vesta, porta la scena «nell’Italia de’ giorni nostri», a Firenze, luogo elettivo della cultura e dell’arte italiana, e mostra come l’armonia delle Grazie si manifesti in varie arti, musica, poesia e danza, coltivate da tre «donne gentili», eredi delle figure femminili della poesia stilnovistica. Il terzo inno, dedicato a Pallade, si stacca nettamente dai precedenti per lo scenario ideale e mitico, l’isola perduta di Atlantide (secondo il Timeo di Platone, nell’Atlantico, oltre le colonne d’Ercole), dove le Grazie vengono condotte da Pallade lontano dalle passioni umane. Potranno ritornare fra gli uomini e continuare così la loro opera civilizzatrice, ma protette da un velo che Pallade fa tessere per loro da un gruppo di divinità minori e sul quale sono raffigurati i più sacri, puri e nobili sentimenti umani. Più degli altri, il terzo inno è incentrato sul divario fra ideale e reale, fra le tendenze brutali e il mondo rasserenante di bellezza e armonia creato dalla poesia e dall’arte, rappresentato dall’isola perduta che gli uomini non possono più raggiungere. Lo stile Le Grazie hanno caratteristiche stilistiche in comune con i Sepolcri, in particolare la prevalenza delle immagini sulle argomentazioni razionali. Il poema associa tre mondi diversi, quello reale e contemporaneo della storia, quello edificato dall’arte e dalla poesia e quello “metafisico” delle idee.

Antonio Canova, Cinque danzatrici con il velo, pittura a tempera su carta, 1813 (Possagno, Museo Gypsoteca Antonio Canova).

638 Ottocento 14 Ugo Foscolo


L’armonia, già ricercata nei Sepolcri, è l’elemento stilistico caratterizzante delle Grazie, in cui la poesia gareggia con la pittura e con la musica. La realtà storica non è assente dal poema ma, a differenza dei Sepolcri, appare in brevissimi flash (ad esempio i riferimenti alle guerre napoleoniche e alla campagna di Russia) che, con un effetto di chiaroscuro, intaccano solo momentaneamente le immagini prevalenti nell’opera, di bellezza, armonia e serenità. Perché Foscolo non conclude Le Grazie? Può sorprendere il fatto che Foscolo non abbia concluso Le Grazie, a cui lavora per lungo tempo e a cui dedica approfondite pagine di riflessione teorica. Varie possono essere le motivazioni: le difficili circostanze della vita di Foscolo in esilio, il fatto che l’opera fosse divenuta inattuale, essendo mutate le circostanze storiche e ormai tramontato il Neoclassicismo; o ancora, il fatto che l’ideale a cui tende l’opera non può mai essere compiutamente afferrato e raggiunto, coincidendo perciò, per sua natura, con una forma incompiuta e frammentaria. Il dibattito critico: opera minore o capolavoro? A differenza dei Sepolcri, unanimemente giudicati un capolavoro, la valutazione delle Grazie è controversa; è anche dibattuto se si tratti di un’opera di evasione o si proponga in qualche modo di incidere nell’attualità. In ogni caso, i valori di cultura e civiltà sono presentati come «risentita alternativa» (Vitilio Masiello) alla negativa realtà storica del periodo. Quanto al valore letterario, è certo giudicato anche in rapporto alle diverse visioni della letteratura presenti nelle varie epoche: se il critico ottocentesco Francesco De Sanctis le ritiene un’opera decisamente meno ispirata dei Sepolcri, nel primo Novecento, quando predomina un ideale di poesia “pura”, di tipo ermetico, le Grazie vengono considerate il vero capolavoro di Foscolo. Attualmente, la critica sulle Grazie non tende più, come in passato, a contrapporle ai Sepolcri ma, al contrario, riconosce una continuità fra le due opere: «le Grazie non contraddicono, ma compiono [completano] l’opera anteriore del Foscolo: segnano il momento in cui la tendenza palese in tutta l’arte foscoliana verso la contemplazione serenatrice si è fatta, per una diuturna [continua] esperienza di poesia, consuetudine» (Fubini).

Le Grazie GENERE

poema allegorico neoclassico incompiuto in endecasillabi sciolti

STRUTTURA

3 inni mitologici a Venere (Grecia classica), Vesta (Firenze), Pallade (Atlantide)

TEMI

STILE

• visione pessimistica della storia e della civiltà • funzione civilizzatrice della poesia

prevalenza di immagini sulle argomentazioni razionali

Poesia, valori e civiltà: dai Sepolcri alle Grazie 3 639


Sguardo sull'arte Le Grazie nel mito e nell’arte Le Grazie, un simbolo estetico ed etico Le Grazie, in greco Càriti, figlie di Zeus, dee della vita serena e piacevole, sono in genere rappresentate come un gruppo di tre fanciulle, nude o coperte di un velo trasparente, che danzano con movenze armoniose. Simili, ma non identiche, nel mito greco prendono i nomi di Talia (la Prosperità), Aglaia (lo Splendore) ed Eufrosine (la Letizia).

Nelle rappresentazioni pittoriche si tengono spesso per mano, allacciate in una danza. Alcuni filosofi dell’antichità, come Seneca nel trattato De beneficiis (Sui benefici), considerano le Grazie anche come simbolo etico, raffigurazione dei benefici che – con un reciproco e continuo scambio – si possono dare, ricevere e contraccambiare in modo circolare. I filosofi neoplatonici fiorentini del Rinascimento le interpretano invece come figurazione del legame tra il mondo terreno e quello delle idee. Le Grazie e il Neoclassicismo

PER APPROFONDIRE

Il mito delle Grazie ha particolare fortuna nel periodo del Neoclassicismo, quando diviene uno dei simboli del “bello ideale”; le tre dee divengono allora uno dei soggetti prediletti degli artisti neoclassici. Negli stessi anni in cui Foscolo compone i suoi versi, Canova le rappresenta in un gruppo scultoreo (di cui possediamo due versioni, una attualmente conservata all’Ermitage di San Pietroburgo e l’altra, ordinata dal duca di Bedford, al Victoria and Albert Museum di Londra.

Antonio Canova, Le Grazie, 1813 (Possagno, Museo Gypsoteca Antonio Canova).

Il fascino misterioso dell’«isola non trovata» da Foscolo a Guccini Per sottrarle alla violenza delle passioni umane, degenerata in continue guerre, nel III inno Pallade conduce le Grazie ad Atlantide, l’isola che, per le colpe degli uomini, gli dei avrebbero inabissato nell’Oceano, secondo il mito narrato da Platone nel Timeo. Nel poema (3, framm. 1), Atlantide rappresenta un luogo meraviglioso e incantato, ma remoto e inaccessibile («invan la chiede all’onde oggi il nocchiero» e, «se illuso è dal desio, biancheggiar mira i suoi monti da lunge»): come un miraggio, l’isola sembra sottrarsi a chi tenti di avvicinarla. Il motivo fiabesco dell’isola che non c’è, luogo irraggiungibile e affascinante che gli uomini intravedono da lontano ma non riescono a raggiungere, è stato ripreso nel primo Novecento da Guido Gozzano (1883-1916), nella poesia La più bella (pubblicata su rivista per la prima volta nel 1913): «È l’isola fatata che scivola sui mari; / talora i naviganti la vedono vicina... […] Ma, se il piloto avanza, / rapida si dilegua come parvenza vana, / si tinge dell’azzurro color di lontananza...».

online T20 Ugo Foscolo

Proemio e dedica a Canova Le Grazie, vv. 1-26

640 Ottocento 14 Ugo Foscolo

Affascinato da questa immagine suggestiva e misteriosa, il cantautore Francesco Guccini l’ha riproposta nella canzone L’isola non trovata, che dà il titolo all’omonimo album del 1970 ed è, come afferma lo stesso cantautore, una “parafrasi” del testo gozzaniano: «Ma bella più di tutte l’isola non trovata, quella che il re di Spagna s’ebbe da suo cugino, / il re di Portogallo, con firma suggellata e bulla del pontefice in gotico-latino... / Il Re di Spagna fece vela cercando l’isola incantata, / però quell’isola non c’era e mai nessuno l’ha trovata: / svanì di prua dalla galea come un’idea, / come una splendida utopia, è andata via e non tornerà mai più...». La canzone di Guccini, per le sonorità suggestive della ballata, rende perfettamente il senso di fascino e di mistero dell’isola in fuga, con la sua suggestione simbolica; in fondo «l’Isola Non-Trovata» rappresenta tutto ciò che, senza riuscirci, gli uomini vorrebbero trovare sulla terra e che pure continuano a cercare: potrebbe essere la pace, la verità, il bene…

online T21 Ugo Foscolo

L’apparizione delle Grazie Le Grazie, Inno I, vv. 65-86

online T22 Ugo Foscolo

Inno II Le Grazie, vv. 111-125


Ugo Foscolo

T23

Il velo delle Grazie Le Grazie, Inno III, vv. 31-85

U. Foscolo, Poesie e carmi, a cura di Pagliai, Folena, Scotti, Le Monnier, Firenze 1985

In un ampio frammento, destinato al terzo libro del poema, Foscolo immagina che, nei periodi in cui, per i corsi e i ricorsi vichiani, il mondo torna allo stato di barbarie, le innocenti Grazie trovino rifugio nell’isola di Atlantide, inaccessibile agli uomini. Qui alcune dee, guidate da Minerva, tessono un velo che possa preservarle dalle violente e rovinose passioni umane, recando in sé l’immagine dei sentimenti più nobili e puri, come l’amore coniugale, l’amore materno, l’amicizia, la compassione. Il velo simboleggia, dunque, i valori della civiltà che possono preservare l’equilibrio e l’armonia anche in un mondo devastato dalla barbarie e dalla violenza.

Mesci, odorosa Dea, rosee le fila1; e nel mezzo del velo ardita2 balli, canti fra ’l coro3 delle sue speranze Giovinezza: percote a spessi tocchi 35 antico un plettro il Tempo4; e la danzante discende un clivo onde nessun risale5. Le Grazie a’ piedi suoi destano6 fiori a fiorir7 sue ghirlande, – e quando il biondo crin t’abbandoni e perderai il tuo nome, 40 vivran que’ fiori, o Giovinezza, e intorno l’urna funerea spireranno odore8. Or mesci, amabil Dea, nivee le fila9; e ad un lato del velo Espero sorga dal lavor di tue dita10; escono, errando 45 fra l’ombre e i raggi fuor d’un mirteo bosco11, due tortorelle12 mormorando ai baci13: mirale occulto un rosignol, e ascolta silenzioso; e poi canta imenei14: 1 Mesci... fila: dea profumata (è Flora), intreccia (Mesci) all’ordito un filo da ricamo di colore rosa. Erato, una delle muse della poesia (musa della poesia amorosa), cantando fornisce a Flora, dea dei fiori, il soggetto da ricamare nella parte centrale del velo, ossia una fanciulla danzante, immagine della giovinezza; per il ricamo sceglie perciò fili di colore rosa. 2 ardita: entusiasta, sicura (della sua bellezza). 3 coro: nel teatro greco il coro è costituito da persone che cantano e danzano; perciò le speranze sono immaginate come fanciulle danzanti che circondano la Giovinezza, sempre associata alla speranza. 4 percote... il Tempo: il Tempo percuote velocemente (a spessi tocchi) un antico plettro con cui si fa risuonare la lira. Il ritmo veloce della musica rappresenta il rapido fuggire della giovinezza; il plettro è antico come il tempo. 5 discende... risale: discende un pendio

da cui nessuno può risalire. Nessuno può riavere la giovinezza perduta. 6 a’ piedi suoi destano: ai suoi piedi (cioè della Giovinezza) fanno spuntare. 7 a fiorir: per adornare. 8 quando... odore: quando i capelli biondi ti avranno abbandonata e non potrai più chiamarti Giovinezza, quei fiori resteranno comunque, o Giovinezza, e spargeranno il loro profumo anche oltre la tua fine. Il tema è quello della memoria e, come nell’ode All’amica risanata, quello della poesia eternatrice che potrà conservare intatto lo splendore della giovanile bellezza. Il tema del tempo e della poesia, di importanza primaria nell’opera foscoliana, determinano la collocazione del quadro al centro del velo. 9 nivee le fila: nel velo vengono ora intrecciati fili candidi come la neve (nivee… fila). 10 ad un lato... di tue dita: a un lato del velo, ricamato da Flora, sorga Espero.

Espero è la stella della sera; al suo apparire, gli antichi celebravano le cerimonie nuziali, durante le quali le giovani spose venivano condotte nella loro nuova casa, accompagnate da canti corali detti imenei. Il quadro è dedicato all’amore coniugale. 11 mirteo bosco: bosco di mirti. Il mirto è una pianta sacra a Venere, quindi simbolo dell’amore. 12 tortorelle: anche le tortore sono simbolo dell’amore fedele. 13 mormorando ai baci: emettendo il loro timido verso, tubando (mormorando) mentre si baciano. 14 mirale... imenei: nascosto (occulto), un usignolo le guarda (leggi mìrale), e silenzioso ascolta, poi intona canti nuziali (imenei) in onore degli sposi. Il canto dell’usignolo simboleggia la voce della poesia, che celebra valori positivi come la purezza dell’amore coniugale.

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fuggono quelle vereconde al bosco15. 50 Mesci, Madre de’ fior, lauri alle fila16; e sul contrario lato erri co’ specchi dell’alba, il sogno17; e mandi alle pupille sopite del guerrier miseri i volti18 della madre e del padre allor che all’are 55 recan lagrime e voti19; e quei si desta, e i prigionieri suoi guarda e sospira20. Mesci, Flora gentile, oro alle fila; e il destro lembo istorïato esulti d’un festante convito21: il Genio22 in volta23 60 prime coroni agli esuli le tazze24; or libera è la gioja, ilare il biasmo25, e candida è la lode26. A parte siede bello il Silenzio arguto in viso e accenna che non fuggano i motti oltre le soglie27. 65 Mesci cerulee28, Dea, mesci le fila; e pinta29 il lembo estremo abbia una donna che con l’ombre e i silenzi unica veglia30; nutre una lampa31 su la culla e teme non i vagiti del suo primo infante32 70 sien presagi di morte; e in quell’errore33 non manda a tutto il Cielo altro che pianti. Beata! ancor non sa come agl’infanti provido è il sonno eterno, e que’ vagiti presagi son di dolorosa vita34.

15 fuggono… bosco: le tortorelle (quelle) intimorite fuggono nel bosco. 16 Mesci… alle fila: intreccia, madre dei fiori (Madre de’ fior, appellativo di Flora) all’ordito gli allori (lauri); cioè un filo da ricamo del colore dell’alloro, ossia verde. Gli allori sono simbolo della gloria militare del guerriero ritratto. 17 sul contrario... il sogno: sul lato opposto del velo si presenti un sogno fatto dal guerriero all’alba, che rispecchi la vera immagine delle cose. Secondo la tradizione i sogni dell’alba sarebbero i più veritieri. 18 alle pupille... volti: agli occhi chiusi del guerriero addormentato i volti dolenti (miseri). 19 allor... voti: quando piangendo recano lacrime e voti (agli dei) sugli altari. 20 quei... sospira: quello si sveglia e guarda i suoi prigionieri e sospira. Al pensiero dei propri genitori angosciati per lui, il guerriero depone l’odio verso il nemico e lo guarda con umanità e compassione. Il riquadro si ispira all’Iliade e all’episodio in cui Achille, pensando al proprio vecchio genitore Peleo che lo attende, restituisce il corpo di Ettore al padre Priamo. Il tema

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della compassione per i vinti accomuna il passo delle Grazie alla conclusione dei Sepolcri. 21 il destro lembo... convito: il lato destro del velo ricamato (istorïato) risplenda della lieta scena di un festoso banchetto. 22 il Genio: la divinità protettrice del banchetto. 23 in volta: a turno, girando tra gli ospiti del convito. 24 prime... tazze: incoroni per prime le tazze degli esuli. Le tazze, riempite di vino, erano incoronate con ghirlande di foglie e fiori; per primi, in segno di ospitalità, le ricevono gli esuli, che più degli altri hanno bisogno di essere rallegrati. 25 libera... biasmo: la gioia si può manifestare liberamente, le critiche sono espresse con benevola ironia. 26 candida... lode: la lode è sincera, priva di adulazione. Nel convito si può parlare liberamente di tutto. 27 A parte… le soglie: il Silenzio siede in disparte, con un’espressione vivace dipinta sul viso, e invita (accenna) a che le parole dette non escano dalla sala del banchetto. Poiché non dappertutto c’è la stessa libertà che regna nel banchetto, il

Silenzio personificato invita alla discrezione. 28 cerulee: azzurre come il cielo. 29 pinta: dipinta, raffigurata. 30 con l’ombre… veglia: da sola veglia nell’ombra e nel silenzio (della notte). 31 nutre una lampa: alimenta d’olio (tiene accesa) una lampada. 32 teme non… infante: teme che (costrutto alla latina) i vagiti del suo primo bambino. 33 errore: timore infondato. 34 Beata... vita: fortunata! Non sa ancora come per i bambini il sonno eterno della morte sia provvidenziale e come quei vagiti siano presagio di una vita dolorosa. I versi esprimono una concezione pessimistica dell’esistenza. L’idea che il pianto dei bambini appena nati sia presentimento di future sofferenze sarà ripresa da Leopardi nel Canto notturno di un pastore errante dell’Asia e deriva dal De rerum natura di Lucrezio (V, 226-227). C’è poi il tema, foscoliano e romantico, dell’illusione, necessaria per affrontare la vita: è bene che la madre, lungi dal presagire la futura sofferenza del proprio figlio, lo creda destinato a una vita felice.


75 Come d’Erato al canto ebbe perfetti Flora i trapunti35, ghirlandò l’Aurora gli aerei fluttuanti orli del velo d’ignote rose a noi36; sol la fragranza37, se vicino è un Iddio, scende alla terra. 80 E fra l’altre immortali ultima venne rugiadosa la bionda Ebe38, costretti in mille nodi fra le perle i crini39, silenziosa; e l’anfora converse40: e dell’altre la vaga opra fatale 85 rorò d’ambrosia41, e fu quel velo eterno42.

35 Come... trapunti: appena Flora, guidata dal canto di Erato, ebbe terminato (perfetti) i ricami. 36 ghirlandò… rose a noi: l’Aurora adornò con ghirlande di rose, di una specie a noi sconosciuta, gli orli del velo leggero e impalpabile (aerei fluttuanti, grammaticalmente però riferito a orli). 37 la fragranza: il profumo. Le rose invi-

sibili, di cui sulla terra si avverte soltanto il profumo, simboleggiano l’ideale, inafferrabile per gli uomini. 38 rugiadosa... Ebe: fresca come un fiore rugiadoso (fresca di rugiada) la bionda Ebe. Ebe, la dea della giovinezza, è coppiera degli dei. 39 costretti... crini: con i capelli intrecciati in mille nodi ornati di perle.

40 converse: rivolse (verso il velo). 41 dell’altre... ambrosia: irrorò d’ambrosia il bel lavoro (la vaga opra) delle altre dee, che illustrava il destino degli uomini (fatale). L’ambrosia, nutrimento degli dèi, aveva il potere di rendere immortali cose o uomini su cui fosse versata. 42 fu quel velo eterno: quel velo divenne eterno.

Analisi del testo Dal mondo ideale al mondo reale Idea fondamentale delle Grazie è che il mondo ideale, costruito dalla poesia e dall’arte, possa influire su quello reale e renderlo migliore, vincendo l’istinto ferino degli uomini, mitigando le passioni troppo violente e riportando equilibrio, misura e armonia. Tale messaggio è sintetizzato nell’episodio del velo delle Grazie che, perciò, assume un rilievo centrale nel poema, come testimonia Foscolo stesso pubblicandolo nel 1822, in Inghilterra, a conclusione della dissertazione Di un antico inno alle Grazie.

La tessitura del velo Fuggite da un mondo in cui infuriano le ultime e più tragiche guerre napoleoniche, e trovando come unico rifugio l’isola di Atlantide, inaccessibile agli uomini, le Grazie potranno tornare nel mondo soltanto coperte da un velo, rappresentazione allegorica dell’arte e della poesia. Varie dee impiegano le loro arti per istoriare il velo, su cui sono rappresentati cinque quadri con i colori più radiosi dell’arcobaleno, offerti da Iride a Flora, dea dei fiori (è la fanciulla che li sparge nella Primavera di Botticelli), la quale ricama guidata dalle Muse: Talia con il suono della cetra, Tersicore con la danza ed Erato con un canto in cui descrive a Flora le immagini da raffigurare (ciascuna descritta da una strofa, contrassegnata nel primo verso dall’invito mesci, da un diverso appellativo rivolto alla dea dei fiori – salvo l’ultima, senza appellativi – e dall’indicazione del colore dominante nel riquadro). Al lavoro sovraintende Pallade, dea delle arti pacifiche, mentre Psiche, che rappresenta la personificazione dell’anima nel mito, siede in silenzio e pensosa, a simboleggiare la profondità di sentimento necessaria all’arte. Il velo è alla fine irrorato di ambrosia per renderlo eterno, come l’arte e la poesia. Sul velo sono raffigurati i mali che contristano la vita: la guerra, l’esilio, la morte; quest’ultima è richiamata negli ultimi versi con un’immagine di profondo pessimismo ripresa dal poeta latino Lucrezio: il pianto del bimbo appena nato è interpretato come un presagio luttuoso dalla madre e di infelicità dallo stesso poeta.

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Il riscatto dai mali della vita Ma le sofferenze sono mitigate dai valori positivi raffigurati dal velo, che rendono dolce l’esistenza, nonostante tutto: l’amore coniugale e la famiglia, l’amicizia e la solidarietà (gli esuli sono festeggiati per primi), la libertà di parola e la lealtà (i conversari del convito sono sinceri e privi di adulazione) e infine la compassione; il guerriero, infatti, visti in sogno i genitori afflitti che pregano per il suo ritorno, diviene più mite verso i prigionieri: evidente il richiamo all’Iliade e all’episodio di Priamo che ottiene da Achille, commosso pensando al vecchio padre, la restituzione del corpo di Ettore. Un richiamo che lega le Grazie ai Sepolcri, che si chiudono proprio sul personaggio di Ettore. Alla vita sono così donati colori luminosi e splendenti, come quelli del velo (il verde della gloria e l’oro del convito) e tonalità più intime, delicate e raccolte (il bianco dell’innocenza, il tenue colore rosato della giovinezza e l’azzurro dell’amore materno); manca invece il rosso, il colore delle passioni, simbolo di come queste siano mitigate e sublimate dalle Grazie.

Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

COMPRENSIONE 1. In che cosa consiste il dono che le Grazie hanno fatto agli uomini? Che cosa rappresenta? ANALISI 2. Descrivi il ruolo delle varie divinità nella realizzazione del velo. LESSICO 3. Analizza il lessico e individua i termini e le espressioni che appartengono al registro aulico.

Interpretare

SCRITTURA 4. Alla luce dei passi delle Grazie letti, in un testo di max 20 righe spiega il seguente giudizio critico di Vitilio Masiello: «il poema non è, nella sua essenza e nel suo significato ultimo, che una celebrazione dei valori della “civiltà” intesa come perenne superamento degli istinti belluini e guerrieri dell’uomo, come assidua ricerca di una “armonia” la quale si pone come metafora e simbolo di dominio delle passioni egoistiche ed antisociali e fondamento di una più “mite” e razionale, pacata e umana dimensione del vivere [...]».

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Gadda contro Foscolo

Foscolo ieri e oggi

Per approfondire

Per approfondire

Fissare i concetti Ugo Foscolo Ritratto d'autore 1. Dove nasce Foscolo e qual è il legame con la sua terra natìa? 2. Quali sono gli eventi storici che influenzano il suo impegno politico e intellettuale? 3. Quali sono le esperienze più dolorose della vita di Foscolo? La letteratura come autoritratto 4. Quale fu la vicenda editoriale dell’Ortis? 5. Quali sono i modelli letterari che ispirano la stesura dell’Ortis? 6. Quali sono i temi e il valore dell’Ortis e quale il parallelismo con il contesto storico? 7. Quali temi vengono trattati nelle Odi foscoliane? 8. Per quale motivo i Sonetti possono essere definiti un’“autobiografia” ideale di Foscolo? Poesia, valori e civiltà: dai Sepolcri alle Grazie 9. In che modo la partecipazione di Foscolo al dibattito sull’editto di Saint-Cloud ha influenzato l’autore nell’ispirazione dei Sepolcri? 10. A quale genere appartengono i Sepolcri? 11. Quali elementi di attualità si possono riscontrare nei Sepolcri? 12. Qual è la struttura argomentativa dell’opera? 13. Quali sono i temi trattati nei Sepolcri? A quale visione filosofica si ispira Foscolo nei Sepolcri? 14. Qual è l’idea di civiltà che emerge dai Sepolcri? 15. Perché Didimo Chierico può essere definito un “anti-Ortis”? 16. Qual è la struttura delle Grazie? A quale genere appartengono? 17. Perché le Grazie rimasero incompiute? 18. Chi sono i modelli letterari per la produzione poetica di Foscolo?

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Ottocento Ugo Foscolo

Sintesi con audiolettura

1 Ritratto d’autore

Una vita inquieta, pienamente vissuta Foscolo nasce il 6 febbraio 1778 a Zante, un’isola greca all’epoca sotto il dominio della Repubblica di Venezia. La madre è greca, mentre il padre è un medico veneziano. Quando nel 1788 il padre muore, la famiglia si disperde: la madre parte per Venezia e Ugo potrà raggiungerla soltanto nel 1792. Nella città veneta il giovane entra in contatto con gli ambienti intellettuali e viene accolto nel salotto di Isabella Teotochi Albrizzi. Nel periodo della sua formazione, Foscolo aderisce agli ideali giacobini, intraprende la professione militare e si arruola nell’esercito napoleonico. Nel 1797, quando Napoleone cede Venezia all’Austria con il trattato di Campoformio, egli sente traditi i suoi ideali: la delusione per questo momento storico verrà trasposta nel romanzo epistolare Ultime lettere di Jacopo Ortis (1802). Foscolo lascia così Venezia si sposta tra Milano e Bologna: in questi anni vive grandi amori e un profondo dolore: la morte del fratello minore Giovanni, suicidatosi nel 1801. Nel 1804 si unisce all’armata napoleonica pronta a invadere l’Inghilterra; proprio qui intreccia una relazione con Fanny Hamilton, dalla quale nascerà la figlia Mary, che gli resterà vicina negli ultimi anni. Nel 1806 torna a Venezia e l’anno successivo pubblica i Sepolcri. Nel 1808 gli viene offerta la cattedra di eloquenza a Pavia, ma i suoi rapporti con gli intellettuali milanesi e con il governo si deteriorano quando fa rappresentare nel 1811 l’Aiace, tragedia accusata di alludere criticamente al regime napoleonico e subito censurata. Si trasferisce allora a Firenze (1812-13): qui scrive Le Grazie e Le notizie intorno a Didimo Chierico. Dopo la sconfitta di Napoleone a Lipsia, Foscolo torna a Milano e nel 1815 il governo austriaco gli offre la direzione della «Biblioteca italiana»; egli, però, sceglie l’esilio per non prestare giuramento agli austriaci, tradendo i suoi ideali. Dopo un anno trascorso in Svizzera, Foscolo si trasferisce nel 1816 in Inghilterra, dove ritrova la figlia Fanny e viene accolto con favore dagli intellettuali inglesi; tuttavia, vivendo al di sopra delle sue possibilità, cade in miseria. Povero e malato, muore a Turnham Green, un sobborgo di Londra, nel 1827. Nel 1871 le sue spoglie vengono trasportate in Santa Croce a Firenze. Le lettere Il ricco epistolario foscoliano – dove si fondono sincerità, sentimenti e perfezione dello stile – ci consente di conoscere lo spessore umano dell’autore e costituisce un importante documento del periodo storico napoleonico. La visione del mondo e il ruolo dell’intellettuale Il pensiero di Foscolo ha le proprie radici nell’Illuminismo, movimento dal quale egli trae un ideale egualitario di stampo giacobino; vi si affianca una concezione dell’intellettuale come coscienza critica per il progresso civile – che gli deriva da Parini – e come ispiratore di libertà, di stampo alfieriano. Dall’Illuminismo, Foscolo deriva anche una visione meccanicistico-materialistica, che approfondisce con lo studio del poeta latino Lucrezio; ma il poeta mostra anche una sensibilità già romantica, nella quale grande valore viene attribuito al sentimento e all’immaginazione. Sul pensiero filosofico e sulla visione della storia di Foscolo influisce, inoltre, l’opera di Giambattista Vico. La funzione e i caratteri della poesia Foscolo espone la propria concezione della vita e dell’arte nelle lezioni tenute all’Università di Pavia nel 1809, in cui illustra, basandosi su una Sintesi Ottocento

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concezione pessimistica ispirata a Machiavelli e a Hobbes, come la natura umana sia fondata su istinti egoistici e feroci. Questi ultimi, però, possono essere controbilanciati da una tendenza più sociale, fondata sui valori della compassione e della tolleranza grazie alla figura dell’intellettuale, chiamato ad assumersi grande responsabilità etica, e alla poesia. A tale fine l’arte, alternativa alla realtà, non deve solo riprodurla, ma creare un’armonia esemplare che in essa non esiste, cui l’umanità da sempre tende: ne deriva una poetica che tende a favorire l’immaginazione e che, pur non dimenticando l’impegno civile, si accompagna a uno stile raffinato e classicheggiante. Questi aspetti avvicinano la visione estetica di Foscolo al Neoclassicismo; anche se il Neoclassicismo foscoliano, nel quale è già presente una sensibilità romantica, non considera i miti antichi come puro ornamento ma come un modello perenne per ogni civiltà.

2 La letteratura come autoritratto

Le Ultime lettere di Jacopo Ortis: i caratteri generali, la trama, la storia editoriale Le Ultime lettere di Jacopo Ortis è un romanzo epistolare autobiografico che raccoglie lettere fittizie datate tra il 1797 e il 1799 e inviate a Lorenzo Alderani dal protagonista Jacopo Ortis. Costui, giovane di ideali repubblicani e giacobini, è costretto a lasciare la sua Venezia e a rifugiarsi sui Colli Euganei dopo il trattato di Campoformio del 1797, con il quale Napoleone cedeva la città lagunare all’Austria. Nella nuova residenza egli si innamora di Teresa, già promessa dal padre, il signor T***, a un altro uomo, Odoardo. La delusione per la politica di Napoleone e l’impossibilità di poter coronare il suo amore con la giovane donna, da cui è pure riamato, spingono Jacopo – dopo una peregrinazione per l’Italia – al suicidio. L’Ortis ha una complessa storia editoriale: nel 1800 l’opera esce in un’edizione non autorizzata dall’autore; nel 1802 ne viene pubblicata a Milano la prima edizione da parte di Foscolo; nel 1816 è stampata una terza edizione svizzera e, infine, nel 1817 esce a Londra la terza edizione.

I modelli letterari Principale modello dell’Ortis è il Werther di Goethe, dal quale Foscolo riprende la struttura epistolare, il tema del contrasto con il mondo, quello della passione amorosa irrealizzabile e la tragica risoluzione del suicidio, sebbene il motore dell’Ortis sia un trauma storico-politico più che un generico conflitto tra “Io” e “Società”; ma ispirano l’opera anche Alfieri, per il tema della libertà e del titanismo; Dante, figura di exul immeritus in cui l’autore può identificarsi; e Petrarca, anch’egli cantore dell’amore infelice. La sovrapposizione autore/personaggio e l’intreccio amore/politica Jacopo Ortis è una proiezione dell’autore, una sorta di alter ego nel quale Foscolo traspone la parte di sé più autodistruttiva. Il romanzo risulta essere caratterizzato, dunque, da quella commistione tra arte e vita che sarà propria dei romantici. Al centro dell’opera si stagliano due temi: quello politico e quello amoroso-esistenziale; tra di essi esiste un parallelismo a livello evidentemente causale ma anche simbolico: come Napoleone “vende” Venezia all’Austria in nome della “ragion di stato”, allo stesso modo il padre di Teresa cede per interesse la figlia al ricco Odoardo; inoltre, da un punto di vista psicoanalitico, i temi risultano connessi anche perché Jacopo instaura un rapporto amore-odio di tipo edipico sia con Napoleone che con il signor T***, figure con evidenti ruoli corrispondenti. Lo stile appassionato di un romanzo imperfetto L’opera presenta uno stile più lirico che narrativo, spesso enfatico, caratterizzato dall’inserimento di frasi interrogative ed esclamative e da un ritmo franto dei periodi. I critici, pur evidenziandone la ricchezza di

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temi innovativi, ne sottolineano tuttavia una certa imperfezione, sotto forma di mancanza di sviluppo narrativo. Autobiografia foscoliana in versi: le Odi e i Sonetti Tra il 1802 e il 1803 Foscolo pubblica le Poesie, una raccolta di sonetti e odi in tre edizioni successive progressivamente accresciute. La silloge completa del 1803 comprende due odi e dodici sonetti. Le due odi (A Luigia Pallavicini caduta da cavallo e All’amica risanata) sono ispirate al canone neoclassico per lo stile e per il motivo della bellezza e della poesia eternatrice. I sonetti, strutturati come un canzoniere che rappresenta una sorta di autobiografia ideale dell’autore, coniugano elementi classici con sensibilità romantica, rinnovando nel profondo anche la struttura metrica con l’uso insistito dell’enjambement, ma mantenendo l’equilibrio classico delle forme.

3 Poesia, valori e civiltà: dai Sepolcri alle Grazie

Dei Sepolcri: la genesi e la tipologia testuale La discussione sull’editto di Saint Cloud (che, promulgato in Francia nel 1804 ed esteso in Italia nel 1806, imponeva la collocazione dei cimiteri fuori dall’abitato e l’anonimato delle tombe) tenuta nel salotto di Isabella Teotochi Albrizzi nel 1806 ispira Foscolo nella stesura dei Sepolcri. Il poeta in un primo momento si schiera infatti a favore del provvedimento legislativo, in nome della sua visione materialista e laica, in opposizione alle idee dell’amico Ippolito Pindemonte; poi, egli ha un ripensamento ed esprime le riflessioni nel suo capolavoro, indirizzato proprio a Pindemonte. L’opera, pubblicata a Brescia nel 1807, per la complessa ispirazione può essere ascritta a diversi generi. È in primo luogo un carme di 295 versi in forma di epistola, ma per la centralità del tema del sepolcro può essere ascritta anche al genere della poesia sepolcrale proto-romantica; vista la presenza della dimensione etico-politica il testo può essere ricondotto pure al genere dell’orazione civile e, considerato il racconto delle gesta degli eroi omerici, anche a quello del poema epico-filosofico.

La visione filosofica e i temi: tra Illuminismo e proto-Romanticismo Centro simbolico del lavoro è il sepolcro, qui mutato in simbolo positivo. Sostrato filosofico è la concezione materialistico-meccanicistica che Foscolo deriva dal poeta latino Lucrezio e dalla cultura illuministica; ma nell’opera si nota una transizione tra di essa e quella romantica: infatti l’autore non si sente completamente appagato dalle indiscutibili verità della ragione. Nei Sepolcri vengono celebrati valori come l’amore, l’amicizia, gli affetti familiari, il culto della libertà, l’amor di patria, la compassione, la solidarietà verso i vinti e la funzione eternatrice della poesia. L’orizzonte temporale rappresentato è vasto: si passa dal tempo breve della vita individuale, al tempo cosmico della natura e al tempo della memoria collettiva; la dimensione spaziale si adatta alla vastità del tempo: si passa dall’Italia alla Grecia e agli orizzonti sconfinati del mito. Lo stile e la struttura Lo stile dell’opera è caratterizzato dalla ricerca di uno stile sublime, con lessico elevato e ricorso alle «transizioni»; dal chiaroscuro, cioè dall’accostamento di immagini suggestive accostate per contrasto; e dall’armonia, improntata alla musicalità e sostenuta dalla scelta metrica degli endecasillabi sciolti. Un alter ego ironico e disincantato: Didimo Chierico Notizia intorno a Didimo Chierico rappresenta un autoritratto autoironico di Foscolo, elaborato mediante l’invenzione di un personaggio immaginario cui il poeta attribuisce la propria traduzione del Viaggio sentimentale di Sterne del 1813. Rispetto all’Ortis, in quest’opera l’autore prende le distanze dalla dimensione emotiva e passionale attraverso la creazione di un narratore-testimone e l’abbandono dell’uso della prima persona. La prosa è priva di pathos ed enfasi.

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Le Grazie: alla ricerca di un’«universale secreta armonia» Opera incompiuta e frammentaria, composta in un lungo periodo di tempo compreso tra il 1803 e il 1827, Le Grazie è un poema allegorico neoclassico incentrato sulla funzione civilizzatrice della bellezza e dell’arte che Foscolo avrebbe voluto dedicare allo scultore Antonio Canova. Il titolo richiama appunto le Grazie, divinità intermedie tra gli uomini e gli dei, la cui storia è raccontata in un mito che lo scrittore apprezzava e che considerava rappresentazione del legame fra valori estetici, intellettuali e morali. Il poema, dapprima strutturato come un unico carme, avrebbe dovuto, nel progetto di Foscolo, essere diviso in tre inni (a Venere, a Vesta e a Pallade), rispettivamente ambientati nella Grecia classica, a Firenze e nell’isola perduta di Atlantide. Stilisticamente vi si nota, come nei Sepolcri, la prevalenza delle immagini sulle argomentazioni razionali e l’armonia quale elemento caratterizzante; compaiono, inoltre, brevi intermezzi storici che, con effetto di chiaroscuro, si alternano alle immagini prevalenti di bellezza senza tuttavia interrompere il senso generale di serenità.

Zona Competenze Scrittura

1. Secondo il critico Fubini, le “illusioni” sono per Foscolo «sostanza stessa della storia umana». In un testo di max 15 righe spiega tale giudizio, citando esempi significativi in proposito.

Scrittura argomentativa

2. Scrivi un breve testo in cui evidenzi i modelli teorici cui Foscolo si ispira per le sue idee politiche. 3. In un testo argomentativo (di max 3 colonne di foglio protocollo) confronta le Ultime lettere di Jacopo Ortis con il modello del romanzo di formazione, discutendo il giudizio del critico Marco Cerruti, secondo cui quello foscoliano è un romanzo di formazione alla rovescia «nel senso che il protagonista, l’“eroe”, anziché la maturità e l’equilibrio, al termine del suo itinerario raggiunge la consapevolezza dell’inevitabilità dell’autodistruzione».

Esposizione orale

4. In una lettera (a Jakob Salomon Bartholdy, 1808), Foscolo afferma che, mentre nel Werther di Goethe il suicidio era da compiangere e perdonare come una «fatale malattia», egli voleva nell’Ortis farlo stimare come «unico rimedio di certi tempi». Spiega oralmente questa affermazione tenendo presenti i presupposti filosofici, i modelli culturali e il contesto storico-politico cui fa riferimento la composizione dell’Ortis.

Competenza digitale

5. Prepara una presentazione multimediale (di max 5 slide) in cui spieghi il valore e il significato assunto dal mito dell’opera di Foscolo attraverso alcuni esempi a tuo parere significativi, tratti da testi che hai letto e che devi presentare adeguatamente.

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Verso l’esame di Stato Tipologia A Analisi del testo

Ugo Foscolo

Non son chi fui, perì di noi gran parte U. Foscolo, Poesie, II, a cura di M. Palumbo, Rizzoli, Milano 2010

Non son chi fui; perì di noi gran parte: questo che avanza1 è sol languore e pianto. E secco è il mirto2, e son le foglie sparte3 4 del lauro4, speme5 al giovenil mio canto. Perché dal dì ch’empia licenza e Marte vestivan me del lor sanguineo manto6, cieca è la mente e guasto il core7, ed arte 8 la fame d’oro, arte è in me fatta, e vanto8. Che se pur sorge di morir consiglio, a mia fiera ragion chiudon le porte 11 furor di gloria, e carità di figlio9. Tal di me schiavo, e d’altri, e della sorte, conosco il meglio ed al peggior mi appiglio10, 14 e so invocare e non darmi la morte. La metrica sonetto con schema

6 Perché … manto: poiché dal

di rime ABAB, ABAB, CDC, DCD

giorno in cui la sfrenatezza dei rivoluzionari e la guerra mi hanno rivestito con il loro mantello di sangue. 7 cieca… core: la mia mente è resa cieca e il mio animo corrotto. 8 la fame … vanto: da leggere come la fame d’oro è fatta in me

1 avanza: rimane. 2 mirto: pianta sacra a Venere. 3 sparte: disperse. 4 lauro: alloro, pianta sacra ad Apollo. 5 speme: speranza.

arte, e vanto, cioè la brama di ricchezze è divenuta per me un’arte di cui vantarmi. 9 Che … figlio: Se anche mi viene il desiderio sfrenato di morire, al mio feroce proposito (fiera ragion) chiudono le porte la ricerca di gloria e l’affetto di figlio. 10 mi appiglio: mi aggrappo.

Comprensione e analisi

Puoi rispondere punto per punto oppure costruire un unico discorso che comprenda le risposte a tutte le domande proposte. 1. Sintetizza il contenuto del sonetto in max 5 righe. 2. Quale valore simbolico si può attribuire al mirto secco e alle foglie sparte dell’alloro? (vv. 3-4) 3. Qual è lo stato d’animo del poeta? 4. Individua gli enjambements presenti nel testo e indicane la funzione espressiva. 5. Individua tutti i termini e le espressioni che fanno riferimento alla disillusione provata da Foscolo.

Interpretazione

Partendo dal testo proposto e facendo riferimento alla produzione poetica di Foscolo, illustra il modo con il quale lo scrittore ha saputo rappresentare nelle sue opere l’età a lui contemporanea.

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Verso l’esame di Stato Tipologia B  Analisi e produzione di un testo argomentativo Testo tratto da F. Venturi, L’Italia dei liberatori, in L’Italia fuori d’Italia, Storia d’Italia, vol. 3. Dal primo Settecento all’Unità, Einaudi, Torino 1973

L’Italia classica, l’Italia dei dotti e degli artisti appariva in primo piano agli occhi dei conquistatori. Nell’estate del 1796 l’amministrazione francese dei territori occupati sembrava soprattutto affaccendata a rastrellare quadri, statue, manoscritti. [...] 5 Attraverso questo saccheggio e questo culto insieme del passato, andò nascendo un nuovo modo di sentire e d’interpretare gli uomini e le cose dei millenni trascorsi. La rivoluzione s’impadroniva così bruscamente non soltanto delle statue e dei quadri, ma di Virgilio, di Dante, di Ariosto, facendoli propri e chiamandoli a partecipare alle nuove cerimonie repubblicane, non dimenticando mai nel me10 desimo tempo di ricordare che il merito di questa loro risurrezione, di questo loro uscire dalle stanze dei dotti e dei principi era da attribuire interamente agli uomini che avevano avuto il coraggio e la capacità di ristabilire la libertà nelle terre italiane. [...] Quanto ai dotti e agli scrittori viventi, Napoleone era ben deciso a servirsene 15 con altrettanta spregiudicatezza quanta ne usava con le opere d’arte e i ricordi del passato. Non era forse convinto, come tutti gli altri, che gli intellettuali costituivano la parte della popolazione italiana più pronta ad accogliere le idee che venivano dalla Francia? L’incontro di Buonaparte con Barnaba Oriani1, a Milano, in quell’estate del 1796, 20 fa parte dell’imagerie dell’epoca2, né manca di qualche tinta evidentemente falsa. L’astronomo avrebbe confidato al generale di non aver mai messo piede nel ricco palazzo del governo milanese. [...] Napoleone voleva persuadere sé stesso e gli altri che gli intellettuali erano stati poco stimati e poco retribuiti nei regimi italiani che egli andava abbattendo. An25 che ad Oriani egli s’affrettò a far pagar i suoi «appointements»3. Parimenti volle che si riaprisse l’università di Pavia, e tutto fece per mostrarsi mecenate di un tipo nuovo, aiutando largamente soprattutto scienziati e tecnici, e proteggendo gli artisti capaci di creare un’immagine diversa della società che andava emergendo anche in Italia. Quando poi uno di questi dotti agiva, o si credeva avesse agito, 30 in modo diverso da quello che da lui s’attendeva, grande era lo scandalo. [...] Ma, e l’Italia non dotta? I francesi s’accorsero presto che a poco serviva dirla oppressa da secoli, guasta da una lunga tirannia civile e religiosa. Erano queste formule che ricorrevano spesso in quei primi mesi, sotto la penna di Buonaparte e dei suoi, con un misto di commiserazione e di superiorità. Ma, se le ombre 35 del passato erano spesse, quel che contava davvero era ciò che si muoveva nel presente. Né era facile intenderlo per i francesi, abituati a secoli d’assolutismo, di grande Stato accentrato. Quel che la conquista francese aveva invece scate1 Barnaba Oriani: astronomo (1752-1832) presso l’osservatorio di Brera; fu anche molto attivo nella società civile e ricoprì numerosi incarichi tecnico-

650 Ottocento 14 Ugo Foscolo

amministrativi coi governi sia asburgici sia francesi. 2 imagerie dell’epoca: l’iconografia del tempo, cioè l’immagine che di sé andavano

costruendo i francesi conquistatori. 3 «appointements»: compensi, emolumenti.


nato in Italia era innanzi tutto un moto cittadino, comunale, una ripresa di lotte secolari tra municipio e municipio, che andavano ritrovando sotto le strutture 40 degli Stati principeschi un’antica volontà di riaffermare l’autogoverno della propria città. Alba e Asti contro il re di Sardegna, Reggio contro il duca di Modena, Bologna e Ferrara contro lo Stato Pontificio, Bergamo, Brescia, Padova contro Venezia, le città delle Marche le une contro le altre, ecc. E rapidamente, in ognuno di questi centri, la lotta si fece subito sociale, tra cittadini e paesani, tra nobili 45 e borghesi, tra patrizi e plebei. Questo movimento aveva certo caratteri specificamente italiani. Ma – non dimentichiamolo – una delle fasi iniziali della rivoluzione francese era stata precisamente una rivolta municipale, provocata dalla pressione dei contadini e dalla ribellione contro la centralizzazione monarchica. La Francia era tuttavia, ormai, lontana dal 1789, e il Direttorio trovò non poca 50 difficoltà ad orizzontarsi nella situazione italiana. [...] La «grande nation» aveva fornito la spinta iniziale, gli effetti suoi erano stati autonomi e imprevedibili.

Comprensione e analisi

Puoi rispondere punto per punto oppure costruire un unico discorso che comprenda le risposte a tutte le domande proposte. 1. Quale era stato l’atteggiamento di Napoleone nei confronti degli intellettuali italiani immediatamente dopo le conquiste della campagna d’Italia? 2. Per quali motivi Napoleone e il governo del Direttorio erano sconcertati di fronte alla reazione delle popolazioni italiane in seguito alla conquista francese? 3. Con quali argomenti l’autore illustra e motiva le proprie affermazioni?

Produzione

Con la folgorante vittoria di Napoleone, al comando dell’Armata d’Italia, nel 1796 la penisola entrò nell’orbita francese per restarvi quasi ininterrottamente fino al 1814, in un quadro complesso di innovazioni, nuovi assetti territoriali e politici, aspettative deluse, esperienze di parziale autonomia e unità, subordinazione alle esigenze francesi e così via. Prova a tracciare, alla luce delle tesi sostenute nel brano proposto e delle tue conoscenze storiche e letterarie, un bilancio dell’influenza francese in Italia dalle repubbliche giacobine al dominio napoleonico. Elabora le tue riflessioni al riguardo sviluppandole in un testo argomentativo in cui tesi e argomenti siano organizzati in un discorso coerente e coeso.

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Verso l’esame di Stato Tipologia C  Riflessione critica di carattere espositivo-argomentativo su tematiche di attualità Milano, 4 dicembre. Siati1 questa l’unica risposta a’ tuoi consiglj. In tutti i paesi ho veduto gli uomini sempre di tre sorta2: i pochi che comandano; l’universalità che serve; e i molti che brigano3. Noi non possiam comandare, né forse siam tanto scaltri; noi non 5 siam ciechi, né vogliamo ubbidire; noi non ci degniamo di brigare. E il meglio è vivere come que’ cani senza padrone a’ quali non toccano né tozzi4 né percosse. […] Non che i tirannetti non si avveggano5 delle brighe; ma gli uomini balzati da’ trivj al trono hanno d’uopo di faziosi che poi non possono contenere6. Gonfj del presente, spensierati dell’avvenire, poveri di fama, di 10 coraggio e d’ingegno, si armano di adulatori e di satelliti, da’ quali, quantunque spesso traditi e derisi, non sanno più svilupparsi7: perpetua ruota di servitù, di licenza e di tirannia. Per essere padroni e ladri del popolo conviene prima lasciarsi opprimere, depredare, e conviene leccare la spada grondante del tuo sangue. Così potrei forse procacciarmi una carica, qualche migliajo di scudi 15 ogni anno di più, rimorsi ed infamia. Odilo un’altra volta: Non reciterò mai la parte del piccolo briccone. […]

1 Siati: sia per te. 2 sorta: tipi. 3 brigano: cercano di ottenere

4 tozzi: pezzi di pane. 5 si avveggano: si accorgano. 6 balzati da’ trivj… contenere:

qualcosa con raggiri e imbrogli.

balzati da posizioni infime al

potere hanno bisogno di sostenitori che poi non riescono a controllare. 7 svilupparsi: liberarsi.

In questo passo delle Ultime lettere di Jacopo Ortis, il protagonista esprime la propria condizione di intellettuale che, non potendo comandare e non volendo ubbidire, si trova fatalmente condannato all’isolamento e all’inazione. Rifletti sul complesso rapporto tra intellettuale e potere, che può essere di integrazione o di opposizione, e comunque mai pacifico e univoco, esprimendo le tue considerazioni e appoggiandoti, se lo ritieni, a esempi che ti sembrano significativi.

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Ottocento CAPITOLO

15 Romanticismo/ romanticismi

Il Romanticismo è un fenomeno culturale complesso che investe la letteratura, le arti figurative, la musica, il pensiero filosofico e l’ideologia politica e assume forme diverse a seconda dei differenti paesi europei nei quali si afferma: sarebbe, dunque, più corretto parlare di “romanticismi”. Le basi teoriche della poetica romantica sono formulate in Germania dal filosofo Schelling e dai fratelli Schlegel. Tratti fondamentali sono l’idea della poesia come conoscenza e il rifiuto dell’imitazione dei classici in nome della diversità dei moderni rispetto agli antichi.

fenomeno 1 Un complesso estetica 2 Ladelconcezione Romanticismo 653 653


1 Un fenomeno complesso Il Romanticismo è un fenomeno culturale molto complesso, che coinvolge il pensiero filosofico, la letteratura, la musica, le arti figurative, ma anche l’ambito politico. Difficile quindi schematizzarne le caratteristiche, anche perché assunse forme diverse a seconda dei vari paesi europei e delle loro tradizioni culturali e letterarie: sarebbe quindi più corretto parlare, anziché di Romanticismo, di vari “romanticismi”. Tra i paesi europei è la Germania a svolgere il ruolo principale nell’elaborazione dei principi teorici che definiscono il Romanticismo, fatti propri poi dagli altri paesi. I “romanticismi” europei: le date di nascita Quelle che seguono sono le date che corrispondono per convenzione alla nascita “ufficiale” del Romanticismo. In realtà motivi, spunti, temi, definibili in senso lato come “romantici” circolavano in Europa, come si è visto, a prescindere da queste date. Germania 1798 Viene fondata la rivista «Athenaeum» di cui sono responsabili e animatori i fratelli Schlegel: Friedrich (1772-1829) e August Wilhelm (1767-1845). Attorno agli Schlegel si raccoglie un gruppo ristretto: il filosofo Friedrich Wilhelm Joseph Schelling e gli scrittori Johann Ludwig Tieck e Novalis. Dall’università dove si riuniva, il gruppo è noto come “gruppo di Jena”. La rivista «Athenaeum», pubblicata a Berlino dal 1798 al 1800 (soli 6 numeri) è considerata l’organo ufficiale del Romanticismo tedesco: vi si ritrovano infatti i nuclei teorici principali del movimento romantico. Oltre a Novalis, grande testimone della poesia romantica tedesca è Friedrich Hölderlin (1770-1843). Nel 1800 la rivista chiude, il gruppo di Jena si scioglie e August Wilhelm Schlegel inizia un’importante opera di divulgazione delle idee romantiche, viaggiando in vari paesi europei.

Delphine de Custine, Ritratto di Friedrich Schlegel, olio su tela, 1816 (Francoforte, Goethe-Museum).

654 Ottocento 15 Romanticismo/romanticismi

Adolf Hohneck, Ritratto di August Wilhelm Schlegel, olio su tela, 1830 ca. (Dresda, Buchmuseum der Sächsischen Landesbibliothek).


La seconda scuola romantica tedesca è denominata “gruppo di Heidelberg” e dà spazio soprattutto alla valorizzazione delle tradizioni del popolo germanico. Massimi esponenti sono Clemens Maria Brentano e Ludvig von Armin, che curano una raccolta di ballate e poesie della tradizione germanica. Inghilterra 1798 La data corrisponde alla pubblicazione della raccolta delle Lyrical Ballads (Ballate liriche) di William Wordsworth e Samuel Taylor Coleridge, preceduta da un’importante Prefazione che enuncia una nuova poetica. Ai poeti cosiddetti “laghisti” segue la “seconda generazione romantica”, rappresentata da grandi figure come George Byron, John Keats e Percy Bysshe Shelley, autori di testi poetici chiave della letteratura romantica europea. L’Inghilterra sarà anche la patria del romanzo storico.

Parola chiave

MarieÉléonore Godefroid, Ritratto di Madame de Staël, olio su tela, 1808 (Versailles, Museo di storia della Francia).

Francia 1813 In questo anno viene pubblicato un saggio destinato a grande fortuna di Madame de Staël: De l’Allemagne (La Germania), in cui l’attivissima intellettuale francese sintetizza (e semplifica) le teorie estetiche dei tedeschi contribuendo così alla loro diffusione in Europa. Il manifesto del Romanticismo francese è però considerata la prefazione di Victor Hugo alla sua tragedia di argomento storico Cromwell (1827). La Francia è la culla del romanzo realistico moderno, da Stendhal a Flaubert. Italia 1816 Sulla rivista «Biblioteca italiana» viene pubblicato l’articolo di Madame de Staël Sulla maniera e l’utilità delle traduzioni che stimola un vivace dibattito noto come “polemica classico-romantica”. Il Romanticismo italiano ha tratti peculiari, legati alla specificità della cultura e alle vicende politiche del paese. Non produce risultati letterari di grande livello, a parte naturalmente Leopardi e Manzoni. Verso la metà dell’Ottocento il Romanticismo tende a esaurirsi per l’emergere di nuovi modelli di pensiero, di nuove istanze culturali e letterarie in rapporto a un nuovo contesto storico-sociale.

Romanticismo Il termine “romantico” nasce in Inghilterra verso la metà del Seicento per designare, con connotazione negativa, la materia e l’atmosfera, fantastica e irrazionale, dei romances, i romanzi cavallereschi medievali. Nel corso del Settecento “romantico” tende ad assumere un significato non più negativo: tradotto in Francia con pittoresque (“pittoresco”) o romanesque (“romanzesco”) designa un rapporto di tipo sentimentale con la natura selvaggia e solitaria (Rousseau, per definire questo rapporto, utilizza il termine romantique). È Friedrich Schlegel, il principale teorico del Romanticismo

in Germania, a fare del termine “romantico” (romantik, in tedesco) una categoria estetica: “romantica” è una nuova forma poetica, propria dei moderni, diversa da quella classica, propria degli antichi e dei loro imitatori. Nel corso del tempo il termine ha assunto un significato metastorico, figurato, soprattutto in riferimento all’amore: quando oggi definiamo “romantico” un atteggiamento, il carattere di una persona, un film, alludiamo di solito alla presenza di una vistosa componente sentimentale appassionata, che certamente è presente nella letteratura romantica, ma in cui essa non si esaurisce.

Un fenomeno complesso 1 655


2

La concezione estetica del Romanticismo Il Romanticismo si caratterizza, come si è visto, per la contrapposizione all’Illuminismo (➜ SCENARI PAGG. 8 ss.). Nell’ambito della visione dell’arte e della letteratura, la contrapposizione riguarda soprattutto il classicismo (o per lo meno le poetiche normative che al classicismo si richiamano) e si traduce in una concezione del tutto nuova. Essa trova espressione in particolare nella lirica, il genere più importante. La poesia come conoscenza assoluta In senso più propriamente filosofico la visione romantica dell’arte è affidata soprattutto alle intuizioni di Friedrich W. Schelling (1775-1854), punto di riferimento dei primi romantici (➜ D11 OL, PAG. 508). Per il filosofo tedesco l’arte attinge all’infinito, all’assoluto, ed è superiore alla filosofia: infatti mentre questa consente ai soli filosofi di accostarsi all’assoluto, ai princìpi universali, l’arte offre questa possibilità a tutti gli uomini attraverso la mediazione del poeta, che Novalis rappresenta come veggente, sacerdote di un culto iniziatico (➜ D1 OL). La valorizzazione del carattere conoscitivo della poesia è un aspetto del tutto nuovo (che anticipa le poetiche del simbolismo). Si tratta di una concezione antitetica al razionalismo illuministico: per i romantici l’essenza della realtà sfugge infatti agli strumenti razionali e può essere colta solo dall’intuizione poetica. In Italia questa concezione misticheggiante, o comunque irrazionalistica, della poesia non si afferma, anche a causa delle circostanze storico-politiche (la lotta risorgimentale), che impongono al letterato di assumere un ruolo civile, e alla letteratura di esercitare una funzione educativa e addirittura espressamente politica. La frattura tra antichi e moderni I romantici scoprono la vera e propria cesura che separa antichi e moderni e che comporta differenze fondamentali nel modo di far poesia. Già alla fine del Settecento, nel fondamentale saggio Sulla poesia ingenua e sentimentale (1795), Friedrich Schiller sottolinea la costituzionale diversità dei moderni, in particolare per quanto concerne il rapporto con la natura (➜ D2a ). Se gli antichi avevano con la natura un rapporto diretto e “ingenuo”, compiutosi ormai il distacco tra uomo e natura, i moderni possono solo avere con essa un rapporto “sentimentale”. È importante precisare che il significato di “sentimento” per Schiller è diverso dall’accezione comune del termine: il “sentimento” è legato alla struggente nostalgia per una condizione primigenia felice e inconsapevole ormai perduta e insieme esprime la tensione volta a riconquistarla (➜ PAROLA CHIAVE Sehnsucht, PAG. 489). Si tratta di un concetto essenziale per comprendere la stessa poesia leopardiana. I fratelli Schlegel, fondatori della rivista «Athenaeum» (1798-1800), culla del Romanticismo tedesco, ripropongono e approfondiscono la distinzione schilleriana tra antichi e moderni, con riferimento all’arte classica e a quella romantica. • L’arte antica è bellezza perfetta, forma ideale uguale nel tempo, mentre l’arte moderna è frutto caratteristico di un’individualità.

656 Ottocento 15 Romanticismo/romanticismi


• La poesia classica corrisponde a una visione oggettiva del mondo ed è imitazione della natura. La poesia romantica è invece soggettiva espressione della fantasia, delle emozioni, del sentimento individuali e mira all’indefinito (per questo l’arte suprema è la musica, che si impone nell’universo artistico con una rilevanza del tutto nuova). • La poesia classica è espressione di ordine e di armonia. La poesia moderna è invece caratterizzata dal conflitto, dalla disarmonia, dalla brama inesauribile di infinito e dalla malinconia: secondo A.W. Schlegel, l’aspirazione all’infinito e la malinconia sono soprattutto il frutto della visione del mondo introdotta dal cristianesimo (➜ D2b ). La contestazione del principio d’imitazione La poesia romantica, soprattutto tedesca, è percorsa da una nostalgia profonda per il mondo ellenico e mitizza la figura di Omero come sommo poeta. Respinge però l’imitazione dei classici e, più in generale, rifiuta il principio stesso di imitazione che era alla base della poetica classicistica. Queste le ragioni che inducono i romantici a contestare il principio di imitazione. • Mentre nelle poetiche classicistiche la grandezza di un’opera si misura sull’aderenza a grandi modelli del passato, per i romantici l’opera d’arte è frutto originale della spontaneità creativa e del genio individuale del poeta. • Ogni opera, in quanto organismo unico e irripetibile, ha in sé le proprie leggi organizzative e non può dipendere da regole esterne, né essere giudicata sulla base di principi estrinseci.

In questa incisione, da un disegno di John Flaxman (part., 1809, Londra, Victoria and Albert Museum), ispirato a un ciclo mitologico della tragedia greca (Oreste inseguito dalle Erinni), l’artista rappresenta le divinità della vendetta. Con un segno neoclassico, ritrae i geni alati con le chiome intrecciate di serpi e armati di fruste secondo la tradizionale iconografia, ma li trasfigura con sensibilità romantica, accentuandone la funzione e l’aspetto di fantasmi della coscienza umana.

La concezione estetica del Romanticismo 2 657


Franz Ludwig Catel, Veduta del Colosseo al chiaro di luna, (Hermitage, San Pietroburgo).

• Non esistono canoni assoluti e astratti che definiscano la bellezza perfetta. L’arte deve conquistare, interessare: i romantici accolgono così entro i confini dell’arte la dimensione del grottesco, del brutto, che acquista definitivo diritto di cittadinanza (dei diritti del brutto parla la prefazione al Cromwell di Hugo, considerata il manifesto del Romanticismo francese ➜ D3 OL). • Secondo la visione storicistica, propria del Romanticismo, ogni epoca è diversa da un’altra come ogni popolo ha la propria cultura e le proprie tradizioni. La poesia ha carattere “progressivo”, cioè è in perpetuo divenire e non può quindi richiamarsi a modelli precedenti. Il rifiuto delle regole Per tutte queste ragioni i romantici rifiutano le regole imposte dalla precettistica classica, a cominciare dalle tre unità pseudo-aristoteliche (tempo, luogo, azione) a cui soggiacevano i testi teatrali e che A.W. Schlegel attacca nel suo Corso di letteratura drammatica, che ha risonanza anche in Italia. Ma i romantici rifiutano la distinzione stessa dei vari generi, codificata dall’estetica classica, e persino quella tra prosa e poesia, perché unica è la poesia quando si manifesta.

PER APPROFONDIRE

Madame de Staël e la divulgazione delle idee romantiche Un ruolo essenziale nella divulgazione europea del Romanticismo tedesco è esercitato, come già si è accennato, da Madame de Staël e in particolare dal suo scritto Sulla Germania (1810). In esso la scrittrice francese distingue fra letteratura del Nord (Germania e Inghilterra) e letteratura del Sud (Francia e Italia). La seconda è più incline all’imitazione della poesia classica, mentre le radici della poesia romantica sono nordiche. Romantica è la poesia nata dalla cavalleria e dal cristianesimo, che ha introdotto l’inquietudine spirituale («questa riflessione inquieta, che talvolta ci divora come l’avvoltoio di Prometeo»), l’attitudine introspettiva nata dal senso del peccato e dal pentimento.

Chi sono i moderni per i romantici? Tutta l’arte moderna è romantica? È importante sottolineare che, quando i romantici parlano di “moderni”, non alludono necessariamente alla contemporaneità, ma si riferiscono soprattutto alla nuova visione del mondo e alla sensibilità che nasce con il Medioevo cristiano. Già moderna è l’arte che ama la disarmonia e il contrasto, andando oltre i parametri classicisti: moderni sono così soprattutto Shakespeare e Cervantes. Per contro, non tutta

online D1 Novalis Il poeta veggente Frammenti di letteratura

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l’arte moderna è romantica: romantica è l’arte che non segue i canoni classici e aspira a superare la dimensione della finitezza. Scrive Novalis, uno dei grandi romantici tedeschi: «Nel momento in cui io do a ciò che è comune un senso elevato, a ciò che è consueto un aspetto pieno di mistero, al noto la dignità dell’ignoto, al finito un’apparenza infinita, io lo rendo romantico» (Frammenti logologici, 105).


D2

La contrapposizione antichi/moderni Friedrich Schiller

D2a

La poesia moderna nasce dal sentimento Sulla poesia ingenua e sentimentale

Schiller, Sulla poesia ingenua e sentimentale, a cura di E. Franzini e W. Scotti, SE, Milano 1986

Il saggio di Schiller Sulla poesia ingenua e sentimentale (1794-95) è uno dei testi fondanti della cultura romantica: in esso lo scrittore tedesco introduce la fondamentale distinzione tra poesia antica e poesia moderna, che sarà più volte ripresa dai teorici del Romanticismo e che costituisce anche uno dei grandi temi della poesia romantica. Ne presentiamo alcuni passi significativi.

Fin quando rimanemmo semplici figli della natura, fummo felici e perfetti; poi siamo divenuti liberi e abbiamo perduto entrambi questi beni. Di qui nasce una nostalgia duplice e molto diversa verso la natura: una nostalgia per la sua felicità, una nostalgia per la sua perfezione1 [...]. 5 Quando ci si ricorda della bella natura che circondava gli antichi Greci, quando si pensa con quale familiarità questo popolo vivesse con la libera natura sotto il suo cielo felice, quanto più vicino alla pura natura fosse il suo modo di rappresentare e quale fedele specchio di questo siano le sue opere poetiche, deve stupirci se in un simile popolo si incontrano così scarse tracce dell’interesse sentimentale2, che 10 noi moderni nutriamo verso scene e caratteri naturali. Il Greco è di certo al sommo grado preciso, fedele, minuzioso nella descrizione della natura, ma sicuramente non di più né con una più profonda partecipazione emotiva che nella descrizione di un abito, di uno scudo, d’una corazza, di un arnese domestico o di un qualsiasi prodotto meccanico. Non sembra che nel suo amore per l’oggetto faccia qualche 15 distinzione tra ciò che esiste per sé stesso e ciò che esiste in virtù dell’arte e della volontà umana. Sembra che la natura interessi di più il suo intelletto e il suo desiderio di sapere che il suo sentimento morale; non l’ama con profondità, con partecipazione, con dolce tristezza come noi moderni. [...]. Da dove deriva dunque questo spirito così diverso? Perché mai noi, che in tutto ciò 20 che è natura siamo superati in così infinita misura dagli antichi, proprio noi possiamo renderle omaggio in misura superiore, possiamo amarla intimamente, possiamo abbracciare persino il mondo inanimato con il più caldo sentimento3? Questa è la risposta: la natura è ormai scomparsa dall’umanità, e soltanto fuori di questa, nel mondo inanimato, nuovamente possiamo incontrarla nella sua verità. 25 [...] Per questo il sentimento che ci spinge ad amare la natura è così simile al sentimento con cui rimpiangiamo la perduta età dell’infanzia4 e dell’innocenza infantile. Essendo la nostra infanzia la sola natura integra che ancora sia possibile incontrare 1 Fin quando... perfezione: la conquista della libertà dalla condizione istintuale, naturale, comporta la perdita della felicità e della perfezione, che dall’uomo civilizzato non possono che essere rimpiante nostalgicamente. 2 sentimentale: con questo aggettivo Schiller allude al sentimento complesso, proprio dei moderni, di nostalgia e desiderio di una felicità e perfezione perdute,

in contrapposizione all’atteggiamento “ingenuo” degli antichi nei confronti della natura. 3 Perché mai noi... caldo sentimento: Schiller dà qui voce a quel nuovo modo, complesso, soggettivamente partecipe, di guardare alla natura che si ritrova in tanti testi romantici e che deriva dalla perdita all’interno dell’io della naturalità, della semplicità, per cui lo spirito

moderno si proietta costantemente all’esterno nella disperata ricerca fuori di sé della natura. 4 Per questo... infanzia: il passo che mitizza la condizione infantile come “ingenua”, vicina alla natura e perciò stesso felice, richiama da vicino alcuni fondamentali concetti alla base della poesia leo­ pardiana della “rimembranza”.

La concezione estetica del Romanticismo 2 659


nell’umanità civilizzata, non c’è da stupirsi se ogni traccia della natura al di fuori di noi ci riconduce alla nostra infanzia. 30 Per gli antichi Greci tutto era diverso. Presso di loro la cultura non degenerò al punto di far abbandonare per essa la natura. L’intero edificio della loro vita sociale era fondato su sensazioni e non sul lavoro composito dell’arte5; la loro stessa teoria degli dèi6 era l’ispirazione di un sentimento ingenuo, il parto di un’immaginazione gioiosa, non di una ragione tortuosa come accade per la fede nelle moderne nazioni. [Schiller passa quindi a considerare i riflessi che l’allontanamento dalla “naturalità” e dalla felice condizione di armonia produce sull’evoluzione della poesia, delineando due tipologie di poeti, l’“ingenuo” e il “sentimentale”, alle quali corrispondono differenti forme artistiche.] I poeti sono ovunque, e per definizione, i conservatori della natura. Quando non possono più esserlo compiutamente, e già sperimentano su loro stessi l’influsso devastante di forme arbitrarie e artificiose, oppure hanno dovuto combattere un simile influsso, allora essi si presentano come i testimoni e i vendicatori della natura7. O saranno natura perduta o la cercheranno. Da ciò hanno origine due generi poetici 40 totalmente diversi, da cui l’intero campo della poesia viene esaurito e misurato. Tutti i poeti che siano realmente tali apparterranno, a seconda delle caratteristiche dell’età in cui fioriscono o delle circostanze casuali che influenzano la loro formazione generale e la loro momentanea disposizione d’animo, o al genere ingenuo o a quello sentimentale [...] 45 Se ora si applica a entrambi gli stati8 il concetto di poesia, che semplicemente consiste nel conferire all’umanità la più completa espressione possibile, vediamo che nello stato della semplicità naturale, in cui l’uomo agisce ancora con tutte le sue forze contemporaneamente, come unità armonica, e in cui la totalità della sua natura si esprime compiutamente nella realtà, l’elemento costitutivo della poesia è 50 l’imitazione più perfetta possibile del reale; invece nello stato della cultura, in cui per l’uomo quell’armonico concorso di tutte le forze della propria natura è semplicemente un’idea9, ciò che definisce il poeta è la capacità di elevare la realtà all’ideale o, il che è lo stesso, alla rappresentazione dell’ideale. 35

5 lavoro composito dell’arte: costruzione artificiosa e complessa. 6 teoria degli dèi: visione religiosa. 7 i conservatori della natura... i vendicatori della natura: i poeti per loro natura cercano di salvaguardare la condizione naturale. Quando le forme sociali allontanano irreparabilmente dalla natura, i poeti si fanno testimoni della sua esistenza e

cercano di restaurare il più possibile la condizione della naturalità. 8 entrambi gli stati: si allude alla condizione spirituale “ingenua” degli antichi e a quella invece “sentimentale” nell’accezione che si è visto, dei moderni (stati che Schiller subito dopo definisce rispettivamente «della semplicità naturale e della cultura»).

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9 quell’armonico concorso... è semplicemente un’idea: nella condizione moderna l’armonia di tutti gli elementi della natura umana è solo un concetto ideale, un’aspirazione. La poesia moderna quindi avrà sempre a che fare con la rappresentazione dell’ideale.


Concetti chiave Dalla comunione con la natura alla ricerca “sentimentale” dell’armonia perduta

Il saggio di Schiller fonda un’essenziale distinzione tra la poesia degli antichi, che nasce da una spontanea comunione con la natura (l’uomo antico stesso in fondo è natura) e quella dei moderni che invece è il frutto di una consapevole ricerca di ciò che è stato perduto ed esprime le emozioni e i sentimenti che la ricerca della perduta armonia comporta. L’elemento distintivo della poesia moderna è dunque per Schiller il sentimento, termine che nel testo dello scrittore e in genere nei romantici assume un significato diverso e ben più complesso della comune accezione: il sentimento è insieme consapevolezza di ciò che non c’è più e tensione verso la sua riconquista, ed è comunque una condizione complessa, costitutiva della modernità.

La “lontananza” del mondo antico

Il testo di Schiller documenta la prospettiva storicistica che ispira ai romantici una nuova visione della poesia: non esistono parametri validi per ogni tempo, perché la poesia scaturisce da condizioni diverse ed esprime quindi in tempi diversi, diversi modi di sentire. Anche da Schiller il mondo greco è mitizzato (come dimostra l’aggettivazione costantemente positiva impiegata per rappresentarlo), è considerato archetipo di serenità, di naturalità e armonia, ma non ne deriva, come invece per gli autori del Neoclassicismo, la necessità di imitare la poesia classica: al contrario, quel mondo è sentito come irrimediabilmente “diverso” e lontano dal mondo moderno, in cui domina la crisi d’identità dell’uomo, frutto della civilizzazione e dell’allontanamento dalla naturalità. La poesia degli antichi è “ingenua”, come quella dei moderni è necessariamente “sentimentale”; la prima imita la realtà, una realtà che è armonica, la seconda, cercando l’armonia in un mondo in cui non c’è più, non può che ritrarre l’ideale.

Caspar David Friedrich, Il tempio di Giunone ad Agrigento, olio su tela, 18281830 (Dortmund, Museum für Kunst und Kulturgeschichte).

Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

COMPRENSIONE 1. Nella riflessione di Schiller è centrale l’individuazione della categoria psicologica o, meglio, antropologica, che egli chiama “sentimento” e associa alla modernità: che cosa intende lo scrittore per “sentimentale”? 2. Perché secondo Schiller la dimensione “sentimentale” non era presente nei greci?

Interpretare

SCRITTURA 3. In un testo di circa 10 righe spiega perché Schiller associ la poesia moderna (sentimentale) alla rappresentazione dell’ideale.

La concezione estetica del Romanticismo 2 661


August Wilhelm Schlegel

La poesia moderna è frutto della visione cristiana

D2b

Corso di letteratura drammatica Nel passo, tratto dal Corso di letteratura drammatica (che riunisce le lezioni tenute da A.W. Schlegel a Vienna, pubblicate nel 1809-1811), viene definita la categoria psicologico-spirituale che sta alla base della poesia romantica, distinguendola dalla poesia degli antichi: la malinconia, intesa come struggente tensione verso l’infinito. Una condizione interiore che secondo Schlegel è stata indotta dal cristianesimo, vero e proprio spartiacque tra la civiltà degli antichi e la civiltà dei moderni.

A.W. Schlegel, Corso di letteratura drammatica, trad. di G. Gherardini, in M. Puppo, Il romanticismo, Studium, Roma 1967

Alcuni filosofi, i quali per altro s’accordano con noi nella maniera di riguardare1 il genio particolare2 dei moderni, hanno creduto che il carattere distintivo della poesia del Nord fosse la melancolìa3; la quale opinione, dove sia chi bene la intenda4, non s’allontana dalla nostra. Appo5 i Greci, la natura umana bastava a sé stessa, non pre5 sentiva alcun voto6 e si contentava d’aspirare al genere di perfezione che le sue proprie forze possono realmente farle conseguire. Ma, quanto a noi7, una più alta dottrina8 c’insegna che il genere umano, avendo perduto per un gran fallo9 il posto che gli era stato originariamente destinato10, non ha sulla terra altro fine che di ricuperarlo; al che tuttavia non può giungere, s’egli resta abbandonato11 a sé stesso. La religione sensua10 le12 de’ Greci non prometteva che beni esteriori e temporali13: l’immortalità, se pur vi credevano, non era da essi che appena appena scorta in lontananza, come un’ombra, come un leggier sogno che altro non presentava se non una languida14 imagine della vita, e spariva dinanzi alla sua luce sfolgoreggiante. Sotto il punto di vista cristiano, tutto è precisamente l’opposto: la contemplazione dell’infinito ha rivelato il nulla15 di 15 tutto ciò che ha de’ limiti; la vita presente si è sepolta nella notte; e sol di là dalla tomba risplende l’interminabile giorno dell’esistenza reale16. Una siffatta religione risveglia tutti i presentimenti che riposano nel fondo dell’anime sensitive17, e li mette in palese18; ella conferma quella voce secreta la qual ne19 dice che noi aspiriamo ad una felicità cui non si può conseguire in questo mondo, – che nessun oggetto caduco20 20 può mai riempiere il voto21 del nostro cuore, – ch’ogni piacere non è quaggiù che una fugace illusione. Allorché dunque, simile agli schiavi ebrei i quali prostesi sotto i salci di Babilonia faceano risonare de’ loro lamentevoli canti le rive straniere22, la nostr’anima esiliata su la terra sospira la sua patria, quali possono mai essere i suoi accenti23, se non quelli della melancolìa? E però24 la poesia degli antichi era quella 25 del godimento; la nostra è quella del desiderio: l’una si ristringeva al presente, l’altra si libra25 fra la ricordanza del passato e il presentimento dell’avvenire.

1 riguardare: considerare, giudicare. 2 il genio particolare: il particolare spirito (➜ PAROLA CHIAVE Genio, PAG. 485). 3 melancolìa: malinconia. 4 dove sia... intenda: se viene adeguatamente compresa.

5 Appo: presso (latinismo da apud). 6 non presentiva alcun voto: non avvertiva alcuna mancanza..

7 quanto a noi: per ciò che riguarda noi moderni.

8 una più alta dottrina: si allude al cristianesimo.

9 per un gran fallo: per un grande errore (il peccato originale). 10 il posto... destinato: l’Eden, il paradiso terrestre. 11 abbandonato: da Dio. 12 sensuale: basata sui sensi, materialistica. 13 temporali: terreni. 14 languida: sbiadita. 15 il nulla: la nullità. 16 sol... reale: nella visione cristiana solo dopo la morte inizia la vera vita. 17 sensitive: sensibili.

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18 li mette in palese: li mette in luce. 19 ne: ci. 20 caduco: mortale. 21 voto: vuoto. 22 simile... straniere: come gli ebrei schiavi, prostrati sotto i salici di Babilonia (allude alla cosiddetta “cattività babilonese”), facevano risuonare dei loro canti lamentosi la terra straniera. 23 accenti: parole. 24 però: perciò. 25 si libra: rimane sospesa.


Concetti chiave Modernità e cristianesimo

Anche questo celebre testo è incentrato sull’opposizione poesia antica-poesia moderna, che ha qui come fondamento la diversità della visione religiosa: pagana negli antichi, cristiana nei moderni. La poesia del mondo antico non può essere che fondata sui sensi: la religione pagana impedisce infatti l’intuizione del trascendente, il senso vero dell’immortalità dell’anima. La poesia antica è ancorata esclusivamente alla dimensione terrena, al godimento dei sensi. La modernità invece è nata con il cristianesimo che ha introdotto l’introspezione, la spiritualità, ha invitato l’uomo a guardare oltre la dimensione sensibile. La vera vita per il cristiano è l’aldilà, mentre la vita terrena è una specie di esilio, durante il quale l’uomo vive il costante e struggente desiderio di ritrovare la vera patria. Per il cristiano la felicità non si può ottenere in questo mondo, quindi egli vive una condizione di costante inappagamento. Proprio per questo, in quanto figlia della sensibilità cristiana, la poesia romantica è “poesia del desiderio”, poesia della malinconia, protesa in modo struggente verso il futuro e memore del passato. La consapevolezza di una sostanziale diversità dei moderni rispetto agli antichi e alla loro poesia, che Schlegel qui focalizza, giustifica l’opposizione dei romantici a ogni forma di imitazione.

Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

COMPRENSIONE 1. Illustra gli snodi fondamentali del discorso di Schlegel. 2. Che cosa significa per Schlegel “moderni”? 3. Spiega il seguente passo, di centrale importanza nel testo: «Sotto il punto di vista cristiano, tutto è precisamente l’opposto: la contemplazione dell’infinito ha rivelato il nulla di tutto ciò che ha de’ limiti; la vita presente si è sepolta nella notte; e sol di là dalla tomba risplende l’interminabile giorno dell’esistenza reale». Rileva l’importanza delle antitesi costruite da Schlegel: infinito/limiti, vita/morte, notte/giorno.

Interpretare

SCRITTURA 4. Il termine “malinconia” è qui usato in modo pregnante e diverso dall’uso comune. Ricerca sul vocabolario il significato etimologico del termine melancolìa (comunemente melanconia) e le diverse sfumature di significato che può assumere, poi, in un testo di massimo dieci righe, rifletti sul diverso significato rispetto a quello odierno.

online D3 Victor Hugo

Poesia romantica e grottesco Cromwell

Fissare i concetti Il Romanticismo e la nascita della lirica moderna 1. Quali sono le date di nascita dei “romanticismi” europei? 2. Quali sono i fondamenti della concezione estetica del Romanticismo?

La concezione estetica del Romanticismo 2 663


Ottocento Romanticismo/romanticismi

Sintesi con audiolettura

1 Un fenomeno complesso

Il Romanticismo è un fenomeno culturale che coinvolge filosofia, musica, arti figurative e ideologia politica. Le date di nascita ufficiali del Romanticismo in Europa sono le seguenti. Germania 1798 I fratelli Schlegel fondano la rivista «Athenaeum», culla del Romanticismo tedesco. Attorno agli Schlegel si raccoglie il “gruppo di Jena”, di cui fanno parte Tieck, Schelling e Novalis. Grandi testimoni della poesia romantica tedesca sono Novalis e Hölderlin. Inghilterra 1798 Pubblicazione delle Lyrical Ballads di Wordsworth e Coleridge. Francia 1813 Pubblicazione del saggio di Madame de Staël, La Germania (De l’Allemagne), con il quale vengono diffuse in Europa le teorie estetiche del Romanticismo tedesco. Il manifesto del Romanticismo francese è considerata, tuttavia, la prefazione di Victor Hugo alla sua tragedia storica Cromwell (1827). Italia 1816 Pubblicazione sulla «Biblioteca Italiana» dell’articolo di Madame de Staël Sulla maniera e l’utilità delle traduzioni.

2 La concezione estetica del Romanticismo

Il Romanticismo si caratterizza per la contrapposizione all’Illuminismo e al classicismo. La poesia viene interpretata, sulla base delle intuizioni di Schelling come una conoscenza assoluta. I romantici scoprono una vera e propria cesura che separa antichi e moderni, soprattutto in relazione con la natura. I primi, infatti, avevano instaurato con quest’ultima un rapporto diretto e “ingenuo”, mentre i secondi possono avere solo un rapporto “sentimentale”, cioè nostalgico di una condizione primigenia e felice e ormai perduta. L’arte moderna, inoltre, come sottolineano i fratelli Schlegel, è frutto dell’individualità, è espressione della fantasia e delle emozioni, della disarmonia e del conflitto; per questi motivi essa contesta il principio di imitazione e si fonda su una visione storicistica: ogni epoca è diversa dalle altre e dunque la poesia ha carattere “progressivo”. Vengono rifiutate anche le regole della precettistica classica, come ad esempio le tre unità aristoteliche.

Zona Competenze Sintesi

Costruisci una breve sintesi sul Romanticismo, indicando: – il significato del termine “romanticismo” – i caratteri della concezione estetica del Romanticismo.

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Ottocento CAPITOLO

16 La rivoluzione della poesia in Europa

Il Romanticismo promuove, soprattutto in Europa, un rinnovamento profondo della concezione della poesia, espressione dell’io lirico che cerca di penetrare il mistero della natura e di cogliere le manifestazioni dello Spirito infinito. Alle novità dei temi corrispondono nuove forme stilistiche e metriche che preludono alla poesia moderna. Da alcuni poeti tedeschi (Novalis, Hölderlin) già alla fine del Settecento sono definiti i temi che caratterizzano la lirica romantica: l’aspirazione dell’io lirico all’assoluto e all’infinito, il desiderio di comunione con la natura, il rimpianto per l’armonia perduta del mondo classico. La poesia romantica inglese (in particolare Byron, Keats, Shelley) unisce alla ribellione esistenziale nei confronti del conformismo l’amore per la Bellezza, identificata nella classicità rivissuta con sensibilità moderna.

nuova sensibilità 1 Una poetica poesia romantica 2 Lain Germania poesia romantica 3 Lain Inghilterra 665 665


1 Una nuova sensibilità poetica L’emergere del genere lirico Tra la fine del Settecento e la prima metà dell’Ottocento la rivoluzione romantica produce profonde trasformazioni anche (e soprattutto) nella poesia. Innanzitutto tende a emergere nettamente il genere lirico, sia per il tramonto del poema epico e di altri generi poetici classici, sia per la valorizzazione, propria del Romanticismo, dell’interiorità, degli aspetti emotivi e passionali: la poesia tende così sempre più a configurarsi come voce dell’io, frutto di un’ispirazione libera e spontanea. Al contempo, però, l’affermazione della filosofia idealistica fa della poesia l’espressione privilegiata della nuova visione del mondo e le attribuisce addirittura valore conoscitivo, come si è anticipato. Ciò avviene in particolare in Germania, dove sono elaborati i temi principali dell’immaginario romantico che rifluiscono poi nei testi narrativi e nella lirica. Il valore conoscitivo della poesia e la nuova identità del poeta Per la prima volta si crea un legame molto stretto tra filosofia e poesia (i poeti romantici come Novalis frequentano i maggiori filosofi, ne sono influenzati e a loro volta li influenzano) e proprio questo nesso conferisce alla nuova poesia un nuovo, straordinario spessore: si afferma, in particolare in Germania, un’idea di poesia come esperienza mistico-religiosa, di valore conoscitivo non solo pari ma addirittura superiore a quello della filosofia. La poesia non è più imitazione della natura, come nelle poetiche classicistiche, ma linguaggio della verità, manifestazione dell’essere, voce dello Spirito. Se la poesia è illuminazione del senso profondo del reale, il linguaggio poetico va necessariamente oltre la razionalità: da qui l’uso di un lessico estremamente condensato, di metafore del tutto inusitate, di arditi nessi analogici che preparano l’avvento della poesia moderna. Proprio perché investita di un altissimo ruolo conoscitivo, la poesia viene liberata da ogni vincolo precettistico, sganciata dai repertori usurati dalla tradizione e dalla pesante eredità della retorica. La trasformazione delle forme poetiche si avverte anche a livello metrico: sono abbandonate le forme metriche chiuse a vantaggio delle strofe aperte, ovvero senza un numero vincolato di versi per strofa, e con versi liberi da uno schema fisso di rime. A sua volta il poeta dell’età romantica, proprio perché depositario di una vera e propria “missione”, non ha più nulla in comune con il letterato tradizionale, non è più il custode di un patrimonio di immagini e tecniche ereditate dalla tradizione. Diventa invece “profeta”: annunciatore della verità come per Shelley, “veggente” come per Novalis. La poesia del quotidiano Un altro filone poetico, per certi aspetti contrapposto a quello ora tratteggiato, tende invece a portare la poesia a contatto con la realtà comune (Wordsworth): vengono così introdotti nell’ambito della poesia aspetti del quotidiano e di conseguenza viene adottato un registro linguistico anche prosastico. Nonostante le differenze, è comune a ogni manifestazione della poesia romantica la volontà di andare contro la tradizione, di sovvertire un’idea della poesia come “tecnica” retorica.

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2

La poesia romantica in Germania 1 Novalis: la poesia come esperienza esoterica

Lessico pietismo Movimento religioso che nasce all’interno del Protestantesimo contrastandone l’eccessivo razionalismo ed esaltando, invece, l’esperienza interiore.

Franz Gareis, Ritratto di Novalis, 1799.

Le opere e il ruolo nel panorama romantico È soprattutto in Novalis, pseudonimo letterario di Friedrich Leopold von Hardenberg (1772-1801), che la poesia assume più propriamente il carattere di una rivelazione, anche in rapporto alle posizioni filosofiche assunte dal poeta nell’ambito dell’Idealismo tedesco (affidate ai Frammenti) nonché alla lettura dei mistici tedeschi e all’influenza esercitata su di lui dall’indirizzo religioso del pietismo . Di nobile famiglia, Novalis riceve una rigida educazione religiosa. Esercita la professione di funzionario delle miniere, ma la sua breve vita è votata al culto della poesia. Fondamentale, nella scoperta della sua vocazione, è la conoscenza prima di Schiller, da cui rimane molto influenzato, e poi di Friedrich Schlegel. Novalis ha un ruolo di primo piano nella costituzione e negli orientamenti del primo gruppo romantico tedesco (il cosiddetto gruppo di Jena) e nelle posizioni assunte dalla rivista «Athenaeum», sulla quale compaiono in forma di aforismi o di brevi pensieri numerosi suoi scritti. Nella storia umana e letteraria di Novalis esercita un ruolo fondamentale la figura di Sophie, la sua fidanzata, che muore appena quindicenne e che ispira gli straordinari Inni alla notte (1798). Le altre opere letterarie di Novalis rimangono incompiute. Si tratta di due testi in prosa, che rappresentano in diverso modo la visione romantica: I discepoli di Sais, una sorta di fiaba, e il romanzo Enrico di Ofterdingen (1799). Per l’opposizione di Goethe rimane inedito e viene pubblicato postumo lo scritto Cristianità o Europa (1799), in cui ben si esprime l’anima antilluministica del Romanticismo tedesco: Novalis polemizza aspramente contro il razionalismo irreligioso ed esalta il Medioevo, auspicando una riconversione religiosa e mistica dell’Europa. Lo scavo nelle profondità dell’Io L’esperienza poetica si configura in Novalis come una consapevole discesa nel profondo, negli abissi dell’Io, nella dimensione “notturna” dell’essere. L’elemento catalizzatore di questa discesa, che conduce a una nuova e superiore conoscenza, è la morte della giovanissima fidanzata Sophie. La scomparsa dell’amata getta inizialmente il giovane poeta in uno stato di abbattimento, ma lo spinge poi a intraprendere un cammino di ricerca interiore nella speranza di un contatto mistico con Sophie. Per Novalis, del resto, il mondo esteriore è solo il mondo delle apparenze, delle “ombre”: occorre guardare al proprio interno, per poi rivolgere uno sguardo attivo e diverso all’esterno che attivi una conoscenza più profonda del mondo.

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Gli Inni alla notte Negli Inni alla notte (➜ T1 ), il suo testo più importante e rivoluzionario, Novalis assimila questo cammino iniziatico al sonno, alla notte: la discesa nell’oscurità della notte è la premessa per una risalita e una rinascita spirituale in cui il poeta-veggente riesce a cogliere pienamente il mistero cristiano della morte e della resurrezione. La funzione che Novalis attribuisce alla poesia è quella di rendere paradigmatico, esemplare, universale il cammino iniziatico compiuto dall’io lirico dal “qui” all’“oltre”, alla scoperta del mistero dell’essere, alla comunione mistica con il divino. Una poesia densa di oscure immagini simboliche Proprio per il suo carattere esoterico, la poesia di Novalis utilizza costantemente un linguaggio simbolico, che è arduo e forse impossibile interpretare univocamente (in particolare, risulta enigmatica soprattutto la ricca aggettivazione). La stessa figura di Sophie, la giovane amata, che Novalis cerca disperatamente di incontrare di nuovo, acquista negli Inni alla notte diversi significati simbolici: l’anima, la saggezza cui allude il suo stesso nome (sophia in greco significa “sapienza”), la Madonna, fino a fondersi con l’immagine di Cristo vittorioso sulla morte.

Novalis

T1

Primo inno alla notte

LEGGERE LE EMOZIONI

Inni alla notte, I Novalis, Inni alla notte, trad. di I. Porena, in I romantici tedeschi, volume secondo, Narrativa e lirica, a cura di G. Bevilacqua, Rizzoli, Milano 1995

Gli Inni alla notte, composti a partire dal 1797, vengono pubblicati nel 1800 sulla rivista «Athenaeum». Inizialmente composti in versi liberi, vengono poi trasformati, nella versione destinata alla pubblicazione sulla rivista, in prose liriche con alcune parti in versi liberi. Costituiscono la prova poetica maggiore di Novalis e sono tra le più alte testimonianze del Romanticismo tedesco. Gli Inni alla notte sono concepiti da Novalis come una sorta di poema scandito in sei inni di diversa ampiezza, suddivisibili in una prima parte (I, II, III inno) e in una seconda, più ampia (V e VI), mentre il IV inno funge da cerniera e punto di svolta. Presentiamo, nella versione definitiva in prosa lirica, il primo inno.

Chi tra i viventi, ricco di sensi, fra tutte le meraviglie dello spazio che immenso lo circonda, non ama la luce, che tutto rallegra – con i suoi colori, i suoi raggi, le sue onde – con la sua dolce onnipresenza di ridestante giorno. Anima segreta della vita1, la respira il mondo senza sosta, immenso, degli astri2 e nuota e danza nel suo 5 flutto azzurro, la respira la pietra scintillante, eternamente immota, la pianta avida e assennata e il selvaggio, ardente animale dalle molte forme – ma più di tutti il divino straniero3, dagli occhi pensosi, dall’andatura lieve e dalle labbra sonanti, soavemente schiuse. Regina della natura terrena, chiama ogni forza a metamorfosi infinite, annoda e discioglie infiniti legami, presta la sua immagine divina a ogni sostanza 10 terrena. Solo la sua presenza rivela le preziose meraviglie dei regni del mondo4.

1 Anima segreta della vita: si riferisce alla luce. 2 la respira... degli astri: espressione intensamente poetica: il mondo astrale la (cioè la luce) assorbe.

3 il divino straniero: l’uomo, straniero sulla terra, che pure egli domina. 4 Solo la sua presenza... del mondo: nella versione originaria in versi liberi qui terminava la prima strofa, dedicata al poetico

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elogio della luce, regina della terra, la cui presenza è necessaria perché si riveli la bellezza del mondo.


In basso mi volgo, verso la sacra, misteriosa, indicibile notte5. Il mondo è remoto – affondato in una fossa profonda – il suo luogo solitario e deserto. Tra le corde del cuore spira malinconia profonda. Come stillante rugiada, voglio sprofondare e mischiarmi alla cenere. – Lontani ricordi, desideri della giovinezza, sogni infantili, 15 le brevi gioie di tutta una lunga vita e le vane speranze tornano con vesti grigie, simili a nebbie della sera, dopo il tramonto6. In altri spazi ha aperto la luce le sue gioiose tende. Non tornerà più dai suoi figli, che ansiosi l’attendono con la fede dell’innocenza? Cosa goccia improvviso e carico di speranza sotto il cuore e inghiotte la molle aura 20 della malinconia? Anche tu godi di noi, notte oscura? Cosa reggi sotto il manto che, con forza invisibile, giunge alla mia anima? Balsamo prezioso stilla dalle tue mani, dal fascio di papaveri. Sollevi le ali pesanti del cuore7. Siamo scossi in modo oscuro e indicibile – con gioia e timore vedo un volto severo chinarsi su di me, dolce e raccolto, e mostra tra le infinite volute dei ricci la cara gioventù della madre8. Come povera e 25 puerile mi appare adesso la luce – come gioioso e benedetto il congedo del giorno9. – Dunque solo perché la notte ti porta via i servitori – vorresti seminare nell’immensità dello spazio le sfere lucenti, ad annunciare nei tempi della tua assenza il tuo potere immenso – il tuo ritorno10. Più divini di quelle stelle lampeggianti, ci appaiono gli innumerevoli occhi che la notte ha spalancato in noi11. Guardano più lontano delle più 30 pallide tra quell’esercito sterminato – incuranti della luce contemplano le profondità di un animo innamorato12 – ciò colma di voluttà ineffabile uno spazio più alto. Lode alla signora del mondo, alla nunzia suprema di mondi sacri, alla custode di un amore radioso – lei ti manda a me, dolce amore – sole delicato della notte (sono desto ora – ché sono Tuo e Mio) tu mi hai annunciato che la notte si è fatta vita – mi hai fatto 35 umano – consuma di ardore spirituale il mio corpo, ché, aria ormai, possa mischiarmi più intimamente con te e duri in eterno la notte nuziale13. 5 In basso... notte: qui ha inizio la seconda sezione, che introduce una svolta radicale. Il poeta abbandona la luce per rivolgersi lontano dal mondo, nel regno della notte, connotata subito come dimensione del sacro, del mistero, che proprio per questo non si può esprimere con parole comuni (indicibile). 6 Lontani ricordi... dopo il tramonto: l’immersione nella dimensione notturna fa affiorare i ricordi e i sogni, le labili speranze della vita passata. 7 Cosa goccia... del cuore: si apre la terza parte, che si sviluppa fino alla conclusione dell’inno. Alla malinconia che domina la seconda sezione si contrappone l’attesa speranzosa che la notte porti un dono prezioso, anche se ancora il poeta non sa che cosa sia: già la malinconia si è attenuata

(«inghiotte la molle aura della malinconia»; «Sollevi (soggetto è la notte) le ali pesanti del cuore»: cioè, fuor di metafora, “alleggerisci la pena del cuore”). Il fascio di papaveri letteralmente si riferisce all’effetto soporifero dell’oppio (ricavato dai papaveri). 8 vedo un volto... della madre: dalle profondità dell’Io emerge il volto giovane della madre. 9 Come povera... giorno: al confronto con i doni preziosi e misteriosi che porta la notte, la luce del giorno appare ormai misera e limitata. 10 Dunque... il tuo ritorno: il poeta si rivolge alla luce del giorno, affermando che dunque solo perché la notte ti sottrae i tuoi servitori (cioè gli uomini) vorresti seminare nell’immensità dello spazio le stelle (le sfere lucenti) ad annunciare durante

il periodo notturno, in cui sei assente, il tuo immenso potere, cioè la tua possibilità di ritornare sempre. 11 Più divini... spalancato in noi: si approfondisce il senso iniziatico della notte, che apre nell’uomo un nuovo “sguardo” su di sé e sul mondo, uno sguardo spirituale. 12 contemplano... innamorato: il nuovo sguardo attivato dalla notte consente al poeta di contemplare il profondo del proprio spirito, dove vive ancora intatto l’amore per Sophie. 13 Lode alla signora... la notte nuziale: l’inno si chiude con un’estatica lode alla notte, che ha riportato al poeta lo spirito dell’amata Sophie, a cui finalmente può unirsi in mistica eterna unione, perché lui stesso è divenuto, grazie alla notte, spirito.

Analisi del testo La contrapposizione tra luce e notte L’inno è strutturato sulla contrapposizione fra luce-giorno e notte, che nel corso della composizione va anche assumendo i tratti di una contrapposizione tra forme diverse di conoscenza: l’una, più superficiale, legata alle forme sensibili, alla contemplazione razionale della bellezza esteriore, l’altra volta a ritrovare l’essenza dell’Io e del mondo.

La poesia romantica in Germania 2 669


L’elogio della luce è sviluppato nella prima parte del testo (rr. 1-10): la luce è vita, anima del mondo e dell’universo; la luce pervade tutto, dal mondo minerale delle pietre fino al mondo vegetale e animale, ma soprattutto la luce dà vita all’uomo, «il divino straniero». Con un brusco passaggio, la seconda parte (rr. 11-18) si apre con la dichiarazione del poeta di volersi allontanare dalla luce per volgersi al mondo magico e misterioso della notte («in basso mi volgo», r. 11). Il primo effetto del cammino iniziatico che egli sceglie di percorrere è la malinconia, l’affiorare labile di ricordi, speranze, immagini di un lontano passato («simili a nebbie della sera, dopo il tramonto»). La notte ha quindi a che fare con la dimensione onirica, in cui il passato può tornare. Ma il cammino prosegue, addentrandosi più in profondità, e la notte assume ora un aspetto consolatore («Balsamo prezioso stilla dalle tue mani», r. 21), riportando alla luce il volto dolce e severo della madre. Nell’ultima parte (rr. 19-36) dell’inno, la notte va sempre più delineandosi come esperienza conoscitiva, un’esperienza condotta non secondo la direttrice della ragione, ma anzi abdicando a essa, finché il “viaggio iniziatico” porta il poeta a incontrare oltre la morte l’amata Sophie. Finalmente egli può unirsi spiritualmente all’amata, ora che ha liberato il suo spirito dai vincoli materiali e terreni, ora che ha nuovi “occhi” per vedere ciò che visibile non è.

Lo stile dell’enigmaticità L’inno di Novalis è un testo di ardua interpretazione, difficilmente riducibile a una lettura univoca. Contribuisce a renderlo tale l’uso particolarmente creativo del linguaggio (non a caso le traduzioni del testo dal tedesco originale differiscono notevolmente l’una dall’altra), che porta all’estremo la polisemia propria della lingua poetica, il continuo ricorso a preziose immagini metaforiche, i costrutti analogici, le personificazioni e, più in generale, l’utilizzazione di un registro alto: si tratta di scelte legate alle complesse valenze filosofiche della poesia di Novalis e alla funzione magico-sacrale che egli attribuisce alla poesia. La lirica romantica italiana farà scelte opposte, privilegiando la strada della “popolarità” e della comunicazione.

Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

COMPRENSIONE 1. Quale significato simbolico riveste la luce? Per quale ragione la notte appare inizialmente sinonimo di morte? 2. Quali verità sono svelate al poeta dalla notte? 3. Quale significato acquista l’atto volontario del poeta di respingere la luce e il giorno per immergersi nella dimensione notturna? Che cosa rifiuta e che cosa cerca? TECNICA NARRATIVA 4. L’inno ha una struttura apparentemente circolare, poiché si apre e si chiude con una “lode”: si tratta di una ripetizione, magari amplificata, oppure di un rovesciamento? ANALISI 5. Tra gli esseri che popolano la terra l’uomo ha un posto privilegiato: cerca di spiegare come Novalis rappresenta l’uomo. 6. Nell’ultima parte dell’inno, Novalis fa riferimento all’amata Sophie, che egli ritrova attraverso la mediazione della notte. Spiega il significato delle ultime righe. LESSICO 7. Il testo è ricchissimo di espressioni metaforiche altamente poetiche, a cui non sempre è possibile dare un significato univoco. Prova a spiegare queste in rapporto al contesto: la respira il mondo – le sue gioiose tende – sollevi le ali pesanti del cuore – innumerevoli occhi – esercito sterminato

Interpretare LEGGERE LE EMOZIONI

SCRITTURA 8. Che cos’è la notte per Novalis? Semplicemente un momento suggestivo della giornata, che magari favorisce l’introspezione, o qualcosa di ben più complesso e profondo? Commenta in particolare l’espressione «nunzia suprema di mondi sacri» con cui Novalis evoca la notte. Quali sensazioni provoca in te l’ambiente notturno? Ti angoscia il buio della notte o, al contrario, ti senti protetto dall’oscurità?

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PER APPROFONDIRE

Dal mito illuminista della luce alla predilezione romantica per la notte La diffusione degli scenari e delle tematiche “notturne” Tra la fine del Settecento e il primo Ottocento, in relazione all’avvento della sensibilità romantica, la notte costituisce uno degli scenari e dei temi prediletti e assume una vasta gamma di significati e valenze simboliche. Non è un caso che Fryderych Chopin (1810-1849) intitoli Notturni un ciclo di sue composizioni e che Ludwig van Beethoven (1770-1827) dedichi al “chiaro di luna” una delle sue più celebri sonate. In generale, la preferenza dei romantici per le tematiche notturne può essere interpretata come un’evidente contrapposizione all’Illuminismo, modello culturale in cui dominano, negli scritti di più diversa natura, le immagini e le metafore che alludono ai “lumi”, alla luce, appunto. La notte è il luogo in cui i contorni delle cose si sfumano, il mondo reale perde la sua definizione assumendo forme indeterminate, avanza il silenzio, cessa il rumore del quotidiano e si dilata lo spazio della soggettività in cui può emergere la dimensione interiore. Leopardi: la “poeticità” della notte Leopardi, oltre a lasciare nei suoi Canti degli straordinari scenari notturni, teorizza nello Zibaldone la costitutiva “poeticità” della notte, che per lui ha a che fare proprio con l’indefinito: «Le parole notte, notturno, ecc. [...], le descrizioni della notte ecc. […] sono poeticissime, perché la notte confondendo gli oggetti, l’animo non ne concepisce che un’immagine vaga, indistinta, incompleta, sia di essa che di quanto ella contiene». Per Leopardi, dunque, la notte è la condizione ideale per il potenziamento della fantasia e dell’immaginazione da cui, per lui, scaturisce la poesia. La notte inquietante dei Canti di Ossian Nei Canti di Ossian (➜ C13) la notte costituisce uno scenario ricorrente, generalmente pauroso e orrorifico: alla notte si associa spesso una natura tenebrosa, preda della furia degli elementi, popolata da spettri e presenze inquietanti. Un’atmosfera che, una volta assimilata dalla cultura europea, finisce per diventare maniera: lo testimonia la scena notturna dei Sepolcri foscoliani (➜ C14) in cui ricorrono tutti gli ingredienti tenebrosi

della “notte ossianica” (il teschio, l’upupa con il suo luttuoso canto, ecc.). La notte nella poesia romantica tedesca Ben diverso spessore è attribuito al tema della notte nella grande poesia romantica tedesca, in particolare con Novalis, nei suoi Inni alla notte, e con Hölderlin: in entrambi i poeti il soggetto assume complesse valenze filosofiche e simboliche. Come si è visto, la notte è per Novalis non tanto un momento del corso della giornata, quanto una dimensione dello spirito in cui si potenzia la visione interiore ed è possibile attingere a una conoscenza più elevata: immergendosi nella notte si percepisce l’unità mistica degli esseri oltre la morte e si vive appieno la vita vera, che è la vita dello spirito. Di segno opposto è il valore della notte per Hölderlin, altro grande poeta del Romanticismo tedesco: se la luce, che si associa in Hölderlin al mito solare dell’Ellade, è assoluta positività e serenità, la notte è simbolicamente la negazione dei valori, il regno oscuro del Caos, lo smarrimento del senso delle cose che caratterizza il mondo moderno, la perdita della speranza che gli dèi possano tornare tra gli uomini. La notte e la crisi La notte simboleggia spesso le tenebre dello spirito, lo smarrimento dell’anima (così accade nella più celebre notte della letteratura, quella che dà origine al cammino della Commedia). Alla disperazione notturna può seguire una svolta esistenziale, come nelle celebri pagine dei Promessi sposi che descrivono la “conversione” dell’Innominato (cap. XXI) o nella notte di Faust nell’omonimo dramma di Goethe (➜ C13). In entrambi i casi i personaggi rischiano di smarrirsi nella notte, di perdere la propria identità (quella di sapiente studioso Faust, quella di potente omicida prezzolato l’Innominato) e di concludere drammaticamente la loro vita nel suicidio; ma la notte che ha indotto nei due personaggi l’angosciosa autoanalisi e la coscienza del fallimento esistenziale ha come sbocco una metamorfosi positiva, poiché per entrambi l’avvento dell’alba e il suono festoso delle campane segnala il superamento della crisi e l’inizio di un nuovo corso della vita.

Karl Gustav Carus, Finestra a Oybin al chiaro di luna, olio su tela, 1825-1828 (Schweinfurt, Museo Georg Schäfer).

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2 La poesia di Hölderlin: tra “assenza” e “rifondazione” La vita e le opere Friedrich Hölderlin (1770-1843) è un altro grande interprete della sensibilità romantica tedesca. Nasce a Lauffen, in Germania e, orfano di padre, è destinato dalla madre alla carriera ecclesiastica; studia in vari seminari e si iscrive al corso di teologia nella città universitaria di Tubinga, dove conosce Hegel e Schelling, i due futuri filosofi dell’Idealismo, con i quali condivide l’entusiasmo per la rivoluzione francese appena scoppiata. L’insofferenza verso ogni dogmatismo gli impedisce però di svolgere l’ufficio di pastore; così, mentre matura la vocazione poetica, deve cercare i mezzi per vivere. Nel 1793 ottiene un posto come precettore a Francoforte: si innamora di Suzette Gontard, madre dei suoi allievi, che celebra in poesia con il nome grecizzante di Diotima e che in seguito abbandonerà per seguire la vocazione poetica. Del 1797 è il romanzo epistolare Iperione o l’eremita della Grecia, che associa il culto della Grecia a una sensibilità già romantica. Alla figura di Iperione è dedicata anche una bellissima lirica giovanile di Hölderlin, Canto del destino d’Iperione, che sintetizza poeticamente gli aspetti fondamentali della sua poesia ➜ T3 OL. Della sua vasta produzione ricordiamo anche l’elegia L’arcipelago, gli inni All’umanità e Al dio Sole e la tragedia La morte di Empedocle. Verso il 1802 comincia a soffrire di gravi disturbi psichici. Dal 1806 al 1843, anno della morte, vive segregato come folle in una torre sulle rive del fiume Neckar a Tubinga. La nostalgia della Grecia antica La poesia di Hölderlin è pervasa dal senso della privazione, del vuoto, dell’assenza di bellezza e valori che vive l’uomo moderno, emblema dell’hegeliana “coscienza infelice”. Da qui la struggente nostalgia della pienezza, per l’età felice della Grecia antica, mito di solarità, armonia, bellezza: la poesia di Hölderlin è in questo senso piena testimonianza dell’associazione tra la Sehnsucht romantica (il “male del desiderio”, lo “struggimento”) e il Neoclassicismo, che nel poeta tedesco non è un bagaglio erudito e convenzionale. Il contatto con la mitica bellezza propria della Grecia antica può però ancora avvenire in mo-

Bertel Thorvaldsen, Ganimede e l’aquila, 1817 (Copenaghen, Museo di Thorvaldsen)

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menti che solo il poeta può conoscere, rivivendo per gli altri uomini un rapporto “ingenuo” con la realtà o comunque rievocandolo nostalgicamente (➜ T2 OL). A differenza di altri romantici, tuttavia, per Hölderlin non c’è distacco tra l’età del mito classico dell’Ellade e il Cristianesimo: l’età moderna è “orfana del divino”, gli dèi sono lontani («sul nostro capo lassù in un altro mondo […]. Sogno di loro è, dopo, la vita»), ma l’«ultimo di essi» è proprio Cristo. Anzi, la lingua degli dèi che non si fa più sentire tra gli uomini o che essi non riescono più a sentire è anche il Verbo, la parola di Cristo; non a caso la poesia di Hölderlin è densa di rimandi non solo ai classici latini (Orazio, Virgilio) e greci (Pindaro e Sofocle) ma anche alla Sacra Scrittura. La missione del poeta Nella condizione di privazione propria dell’uomo moderno, il grande compito del poeta è rifondare l’unità perduta tra l’Io e il mondo, cogliere l’armonia superstite in un mondo in cui il divino è lontano, tornare a parlare per gli uomini la «lingua degli dèi». Solo il poeta può parlare questa lingua, perché è un individuo diverso dagli altri uomini e l’intuizione artistica è assimilabile alla contemplazione che è propria delle divinità. La poesia per Hölderlin è rivelazione, testimonianza della presenza superstite del divino tra di noi («E ciò che io vidi, il Sacro, sia mia parola»). In questo senso la produzione lirica di Hölderlin è al contempo “poesia dell’assenza” e “poesia della online rifondazione”, affidata alla straordinaria potenzialità della parola T2 Friedrich Hölderlin poetica. Ma questa è continuamente soggetta alla precarietà, al Quand’ero fanciullo trascorrere inesorabile delle cose. I momenti di grazia concessi al poeta lasciano allora il posto a momenti di assoluta negatività, alla online percezione della perdita di senso delle cose a cui Hölderlin dà il T3 Friedrich Hölderlin La struggente aspirazione al divino nome di Notte, cieca oscurità in cui è immerso l’uomo moderno, Canto del destino di Iperione perdita dell’armonia.

I principali esponenti della poesia romantica tedesca NOVALIS

HÖLDERLIN

poesia come rivelazione e viaggio iniziatico nell’Io

svanire della bellezza e dei valori

linguaggio simbolico

presenza del divino da salvare

richiami alla classicità

Fissare i concetti La poesia romantica in Germania 1. Che cosa significa e in relazione a che cosa il poeta romantico si può definire “profeta” e “veggente”? 2. Quale evento biografico risulta fondamentale per l’esperienza poetica di Novalis? 3. Quale significato assume in Novalis il tema della notte? 4. Con quale sentimento Hölderlin guarda alla Grecia antica? 5. Quale ruolo viene attribuito alla poesia e alla figura del poeta da Novalis e da Hölderlin?

La poesia romantica in Germania 2 673


3 La poesia romantica in Inghilterra 1 La prima generazione romantica Wordsworth e Coleridge: le Ballate liriche A differenza dei poeti tedeschi, in quelli inglesi l’espressione poetica di una nuova sensibilità non è sostenuta da una consapevolezza teorica comune, così che si possa parlare di una vera e propria “scuola romantica”. Si è soliti distinguere una prima generazione romantica (che avvia la sperimentazione di nuove forme poetiche) e una seconda generazione romantica. Della prima fanno parte William Wordsworth (1770-1850) e Samuel Coleridge (1772-1850). Coleridge nasce in una piccola cittadina del Devonshire. Dopo aver interrotto gli studi (è stato destinato alla carriera ecclesiastica) si stabilisce in campagna, dove conosce Wordsworth. Insieme, i due scrittori pubblicano nel 1798, anonime, le Ballate liriche (Lyrical Ballads). L’introduzione di Wordsworth alla seconda edizione (1800) è considerata il manifesto del Romanticismo inglese: vi si enuncia la necessità di una poesia nuova, spontanea, creativa e anticonvenzionale. Wordsworth cercherà ispirazione nel mondo semplice dei contadini della campagna inglese del Lake District, di cui egli stesso è originario; Coleridge è invece attratto dalla dimensione soprannaturale, dall’irrompere del mistero nella vita. Del resto i due poeti si spartiscono programmaticamente i ruoli, come dichiara proprio Coleridge: mentre Wordsworth avrebbe conferito il “fascino della novità” alle cose di tutti i giorni, egli avrebbe reso tangibile il soprannaturale. La ballata del vecchio marinaio Il contributo principale di Coleridge alle Ballate liriche è La ballata del vecchio marinaio, un celebre e suggestivo poemetto in forma di ballata popolare che apre la raccolta e che rimane la sua opera più significativa. Mentre si sta recando a una festa di nozze, uno degli invitati incontra un vecchio marinaio dallo sguardo magnetico che inizia a raccontargli una strana storia, attraendo la sua attenzione. Egli rievoca un viaggio nei mari del Sud con la sua nave: dopo aver passato la linea dell’equatore, l’imbarcazione è sospinta fino ai ghiacci del polo Sud a causa di violente tempeste, quando compare all’improvviso un albatro che sembra propiziare il viaggio. In effetti la nave riprende la rotta, ma l’uccisione dell’uccello da parte del vecchio marinaio, compiuta senza un motivo apparente, suscita una punizione soprannaturale: il vento cessa, il corso della nave si arresta e tutto l’equipaggio muore. Solo il narratore si salva ma, per espiare la sua colpa, sarà costretto a raccontare per sempre la sua storia. Altre opere di Coleridge L’interesse verso la dimensione demoniaca e soprannaturale a cui dà voce la celebre ballata è espresso da Coleridge anche nel poemetto incompiuto Christabel (1800), fondato sull’incontro tra la protagonista e una creatura soprannaturale, Geraldina, che finisce per trasformare anche Christabel in una specie di vampiro. Spirito complesso e tormentato, Coleridge è preda per anni dell’alcool e dell’oppio. Da una condizione di obnubilamento della coscienza, in seguito all’assunzione di sostanze psicotrope, prende origine il frammento poetico Kubla Khan (pubblicato nel 1816).

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Samuel Coleridge

T4

EDUCAZIONE CIVICA

La ballata del vecchio marinaio

nucleo Costituzione competenza 3 nucleo Sviluppo economico e sostenibilità competenza 5

I, vv. 51-82; II, vv. 107-142 S. Coleridge, La rima del vecchio marinaio, trad. di G. Giudici, a cura di M. Bacigalupo, SE, Milano 1987

Il poemetto è diviso in sette parti accompagnate da brevi didascalie esplicative in prosa, inserite da Coleridge nell’ultima edizione della ballata (1834). All’inizio del poemetto, prima della parte qui presentata, un vecchio marinaio dallo sguardo inquietante, capitato a un banchetto di nozze, cerca di far ascoltare a un invitato la sua tragica storia. Dopo essere stato respinto bruscamente, il marinaio, con la fissità penetrante del suo sguardo, riesce a calamitare l’attenzione dell’invitato e inizia a narrare la storia, che riguarda un viaggio per mare. Neppure l’arrivo della sposa alla festa potrà più distogliere l’invitato dall’ascoltare il racconto. Inizialmente la partenza della nave è rappresentata gioiosamente, ma l’irrompere improvviso di una terribile tempesta spinge la nave verso sud, finché essa arriva in Antartide.

«[...] E poi vennero nebbia e neve1 e freddo — ma tanto e tanto: alti i ghiacci galleggiavano, verdi come smeraldo. Un paese di ghiaccio e di boati tremendi dove non si vedeva cosa vivente. E fra i crepacci di quei ghiacci la neve triste riluceva: non si vedeva uomo né bestia — ghiaccio ovunque si stendeva. 55

Ghiaccio di qua e di là, 60 ghiaccio, ghiaccio assoluto: tutto ululìi, ruggiti e schianti, come rumori da svenuto! Finché un grande uccello marino, che è chiamato Albatro2 spuntò da quella nebbia di neve, e fu accolto con grande gioia e ospitalità. Finalmente passò un Albatro, di tra le nebbie spuntato; 65 nel nome di Dio l’accogliemmo quasi un Cristiano fosse stato. Mangiò cibo non mai assaggiato e intorno intorno poi volò. Con un boato si crepò il ghiaccio; 70 il timoniere lo attraversò. La metrica Quartine a rima alternata (ABCB) con frequenti allitterazioni. Si tratta del metro dell’antica ballata popolare inglese

1 E poi vennero nebbia e neve: la nave, spinta dalla tempesta, si trova tra i ghiacci dell’Antartide. 2 Albatro: uccello marino dalle grandi ali;

sarà reso celebre da una lirica dei Fiori del male di Baudelaire, intitolata appunto L’Albatro.

La poesia romantica in Inghilterra 3 675


Ed ecco che l’Albatro si dimostra uccello di buon augurio e segue la nave che ritornava verso Nord attraverso la nebbia e i ghiacci vaganti. Buon vento del Sud spirò in poppa e l’Albatro ci seguiva, volando per cibo o per gioco ai marinai, alle loro grida! Contro ogni legge di ospitalità, il vecchio Marinaio uccide il sacro uccello di buon augurio. 75 Su alberi o sàrtie, con ogni cielo, fu appollaiato nove sere; mentre la luna nella bruma bianca splendeva notti intere».

«O mio vecchio Marinaio, 80 Dio ti salvi! Perché mai fai quella faccia?»3. «Con una freccia io quell’Albatro ammazzai». […] La nave si trova improvvisamente in bonaccia. Ma giù la brezza, giù le vele, tristezza da non pensare; parlavamo appena per rompere 110 il silenzio del mare. Nel cielo di rame infocato meridiano un Sole di sangue proprio sull’albero sta fisso, della Luna non è più grande. Giorni e giorni, giorni e giorni, nemmeno un fiato ci ha spinto; fermi come dipinta nave sopra un oceano dipinto. 115

E l’Albatro comincia a essere vendicato. Acqua, acqua dappertutto, 120 e il fasciame che si accartoccia; acqua, acqua dappertutto, e da bere non una goccia. 3 «O mio vecchio marinaio... faccia?»: parla uno degli invitati al banchetto di nozze.

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Il vecchio Marinaio uccide l’Albatro, in un’incisione di Gustave Doré (1876).


Si guasta anche il fondo — o Cristo! Chi lo poteva immaginare! 125 Forme viscide ecco strisciano su quel viscido mare. Turbina intorno quando è notte dei fuochi fatui4 la danza; l’acqua, come olio di streghe, 130 ribolle verde e blu e bianca. Uno Spirito li aveva seguiti; uno di quelli abitatori invisibili del nostro pianeta, che non sono né anime di trapassati né angeli; su di essi si potrebbero consultare il dotto Giuseppe Ebreo e Michele Psello, platonico di Costantinopoli5. Sono molto numerosi e non c’è clima o elemento in cui non se ne trovino uno o più d’uno. Alcuni scoprono in sogno che uno Spirito ci persegue: nove braccia di sott’acqua dal paese di nebbia e neve. 135 Ed ogni lingua per arsura alla radice è disseccata; da non poter parlare, quasi da una fuliggine aggroppata6.

I compagni dell’equipaggio, per tanta disgrazia, vorrebbero riversare tutta la colpa sul vecchio Marinaio: in segno di ciò, gli appendono al collo l’uccello di mare da lui ucciso. Ahimè! Ché giovani e vecchi 140 mi fissano con sguardo atroce! Mi avevano appeso al collo l’Albatro, al posto della croce. 4 fuochi fatui: per la superstizione popolare erano le anime dei morti che si palesavano sotto forma di fiammelle.

5 Giuseppe... Costantinopoli: Flavio Giuseppe (I sec. d.C.), storico ebreo; Michele Psello, filosofo bizantino (1018-1096 circa), autore di

un trattato Sull’attività dei demoni.

6 aggroppata: soffocata.

Analisi del testo L’apparizione dell’albatro I naviganti si trovano in un mondo “alieno”: la nave viene imprigionata tra bufere di neve e giganteschi iceberg («alti i ghiacci galleggiavano,/verdi come smeraldo») e non c’è traccia umana, solo il sinistro rumore dei ghiacci che si rompono. Ma all’improvviso, proveniente chissà da dove, appare tra le nebbie un albatro e subito l’equipaggio vede in esso una figura salvifica («nel nome di Dio l’accogliemmo/quasi un Cristiano fosse stato»). Appena comparso l’albatro, la nave riesce ad attraversare una fenditura nel ghiaccio e per nove sere il grande uccello marino accompagna la nave nel suo cammino, come una specie di nume protettore.

La poesia romantica in Inghilterra 3 677


L’uccisione dell’albatro e la punizione del sacrilegio Inaspettatamente e senza alcuna plausibile ragione, il marinaio-narratore della storia uccide l’albatro: un gesto sconsiderato e sacrilego a cui seguirà la sventura per l’equipaggio. Entrata nell’oceano Pacifico e diretta verso la linea dell’equatore, la nave si trova improvvisamente ferma nella totale assenza di vento. Un sole implacabile, color rame e sangue, cade a perpendicolo sopra l’albero maestro. Il mare sembra subire una mostruosa metamorfosi; forme viscide vi strisciano, paurose apparizioni danzano di notte intorno alla nave, mentre l’acqua ribolle. I marinai stanno morendo ormai di sete; inferociti appendono al collo del marinaio l’albatro morto come punizione del misfatto compiuto. Nella parte della ballata che segue quella qui presentata (III-VII), la misteriosa maledizione seguita all’uccisione dell’albatro continua a manifestarsi: in lontananza appare una nave, ma si tratta di un vascello fantasma, maledetto, in cui l’unico equipaggio è costituito da uno scheletro (la Morte) e una donna (chiamata «Vita in morte») che si giocano a dadi la sorte dell’equipaggio. Allo scheletro spettano i compagni, che moriranno tutti; alla donna il vecchio marinaio, che però riesce a salvarsi, soccorso da una barca su cui si trova un santo eremita: il destino del marinaio sarà quello di errare di terra in terra, narrando la sua storia, così da insegnare il rispetto per ogni creatura di Dio.

Un significato simbolico? Del testo di Coleridge sono state date più interpretazioni, anche molto complesse. Di certo fin dall’inizio la narrazione è lontana da una dimensione realistica: il percorso che si compie, quello della nave e dell’io narrante, è contrassegnato dall’incontro con “presenze” (e l’albatro stesso lo è, non diversamente dalla nave-fantasma) che scandiscono un itinerario entro una dimensione allucinata, surreale, in cui anche il lettore entra facilmente, agevolato dal ritmo favoloso (la ballata appunto) della narrazione. L’intento di Coleridge è quello di riportare il mistero e il soprannaturale all’interno della poesia, anche se attraverso una vicenda orribile.

Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

COMPRENSIONE 1. Quale gesto incomprensibile ha un ruolo centrale nella vicenda evocata? 2. Perché i marinai appendono l’albatro al collo del vecchio? ANALISI 3. Quali elementi del testo appartengono al soprannaturale e al visionario, quali al realistico? Quale effetto genera il sovrapporsi di queste due dimensioni? STILE 4. Un tipico elemento della ballata popolare è la ripetizione: individua nel testo la presenza di questo stilema e l’effetto che produce sul lettore.

Interpretare

TESTI A CONFRONTO 5. Nella ballata viene utilizzato l’archetipo del viaggio: dopo aver ricordato altri esempi che conosci, cerca di spiegare quale significato si potrebbe attribuire al viaggio di cui qui si parla, anche in rapporto al clima culturale e ai motivi fondamentali del Romanticismo (max 15 righe). SCRITTURA CREATIVA 6. Procurati il testo dell’intera ballata, poi prova a trasformare il testo poetico in un racconto, cercando di conservare l’atmosfera onirico-surreale del testo di Coleridge. SCRITTURA ARGOMENTATIVA

EDUCAZIONE CIVICA

nucleo

Costituzione

competenza 3 nucleo

Sviluppo economico e sostenibilità

competenza 5

7. Nel testo è presentata l’uccisione di un animale, l’albatro, in chiave visionaria. Spostando questa azione dal piano simbolico a quello della realtà di oggi, rifletti sul rapporto uomo/animale e uomo/natura. Credi che il mondo animale e naturale siano sufficientemente tutelati in Italia? Credi che tu e i tuoi coetanei siate in grado di sensibilizzare gli adulti sull’urgenza della questione ambientale? Motiva la tua risposta in un testo di circa 20 righe.

678 Ottocento 16 La rivoluzione della poesia in Europa


2 La seconda generazione romantica Byron, Keats, Shelley La cosiddetta “seconda generazione romantica” inglese annovera i nomi di Byron, Keats e Shelley. Questi poeti sono accomunati dalla morte prematura, che ha consegnato alle generazioni future il loro volto, affascinante, di artisti giovani e dallo spirito ribelle, che li induce ad attaccare ogni forma di conformismo in campo politico (aderendo agli ideali rivoluzionari), sociale e comportamentale (Byron e Shelley praticando l’amore libero), religioso (professando l’ateismo). I loro atteggiamenti individualisti e addirittura anarchici per certi versi prefigurano i poeti “maledetti” di fine secolo. All’epoca suscitano scandalo, anche tenuto conto del fatto, non certo irrilevante, che sia Byron sia Shelley appartengono a importanti famiglie dell’aristocrazia inglese. Questi giovani poeti, seppur con modalità diverse, danno vita a una poesia nuova e antitradizionale, in cui non esiste alcuna opposizione tra culto del bello e della classicità e moderna sensibilità, come risulta evidente soprattutto nella celebre Ode su un’urna greca di John Keats (➜ T6 ). Vita e opere di Byron Nato a Londra da nobile famiglia, George Byron (1788-1824), entra nella Camera dei Lords nel 1808. Inquieto e anticonformista fin dalla prima giovinezza, inizia a viaggiare. Nel 1812 pubblica la prima parte del Pellegrinaggio del giovane Aroldo (➜ T5 ) (altri due canti seguiranno nel 1817 e 1818). L’opera ha un successo straordinario e crea uno dei miti romantici, quello dell’eroe solitario, insofferente dei vincoli sociali. Un mito che lo stesso Byron contribuisce ad alimentare con la sua vita sregolata e ribelle alle convenzioni sociali e morali. La figura dell’eroe ribelle è riproposta anche nella tragedia Manfred (1816-17); grande successo hanno anche le novelle in versi Il Giaurro, La sposa di Abido, Il corsaro. Dal 1817 Byron si stabilisce in Italia (paese mitizzato anche da altri romantici inglesi). Una svolta tematica e stilistica nella produzione dello scrittore è rappresentata dal Don Giovanni, in cui la cupa maschera di Aroldo viene abbandonata per una prospettiva burlesca e satirica. Byron muore nel 1824 in Grecia, dove era andato a combattere per l’indipendenza greca. Vita e opere di Keats La breve vita di John Keats (1795-1821), nato a Londra, è tutta votata alla poesia, nella quale raggiunge risultati considerati tra i più alti del Romanticismo inglese. A parte il poema mitologico Endimione del 1817, l’attività poetica di Keats è tutta concentrata in un solo biennio (1818-1819): in questo brevissimo periodo compone poemi (Iperione), ballate (La bella dama senza pietà [La Belle dame sans merci]) e cinque grandi odi, considerate il vertice della sua produzione (Ode alla malinconia, All’Autunno, A un usignolo, A Psiche e la celebre Ode su un’urna greca (➜ T6 ). Trasferitosi nel 1820 a Roma nella speranza di vincere la tubercolosi, muore a soli ventisei anni, l’anno dopo, nell’appartamento di piazza di Spagna dove si era stabilito. È sepolto a Roma nel cimitero degli acattolici. Shelley: la poesia come rivelazione dello Spirito e della Bellezza Nato nel Sussex da nobile e ricca famiglia, Percy Bysshe Shelley (1792-1822) studia a Eton e Oxford. È appassionato di romanzi gotici, ma coltiva anche interessi per l’alchimia, il magnetismo e l’occultismo. Spirito anticonvenzionale, viene espulso dall’università per aver scritto il libello Necessità dell’ateismo. Ne conseguono la rottura con la famiglia e l’inizio di viaggi cui lo spinge una continua inquietudine interiore. La poesia romantica in Inghilterra 3 679


Louis Edouard Fournier, Il funerale di Shelley, olio su tela, 1889 (Liverpool, Walker Art Gallery).

Anche la sua vita sentimentale è contraddistinta dall’instabilità: dopo un primo matrimonio con Harriet Westbrook, appena sedicenne, se ne separa per un nuovo amore. Si tratta di Mary (futura autrice del celebre romanzo Frankenstein), figlia del filosofo razionalista e di idee egualitarie William Godwin, di cui Shelley è divenuto discepolo. Con Mary, che ha sposato dopo il suicidio della prima moglie, si trasferisce in Italia, dove già si trova Byron, conosciuto nel 1816. Shelley costruisce con Byron un sodalizio intellettuale e un’amicizia che dureranno fino alla morte (1822), avvenuta in circostanze drammatiche: presso Lerici, in Liguria, dove vive con la moglie negli ultimi tempi, la barca a vela di Shelley naufraga durante una tempesta. Il suo corpo è ritrovato dieci giorni dopo presso Viareggio e l’amico Byron assiste al rogo del cadavere. Nella varia produzione poetica di Shelley (scrive anche ambiziosi poemi come il Prometeo liberato e il saggio Difesa della poesia) oggi si leggono soprattutto le liriche, più congeniali alla sua ispirazione poetica e in cui raggiunge altissimi risultati: Ode al vento occidentale, A un’allodola, Inno alla Bellezza intellettuale. Shelley attribuisce alla poesia un’altissima funzione: la poesia deve cambiare la visione del mondo, rigenerare l’umanità creando miti, risvegliare la presenza del divino e della Bellezza tra gli uomini. Il poeta è dunque un profeta di verità, anche se spesso rimane inascoltato. Nell’Inno alla Bellezza intellettuale (➜ T8 ), Shelley rievoca il momento esaltante in cui ha avvertito prepotentemente dentro di sé la vocazione alla poesia, che egli assume come missione da compiere. Esprime pienamente la sua visione della poesia la celeberrima Ode al vento occidentale, scritta in Italia nell’autunno del 1819, mentre sulle rive dell’Arno soffia un vento impetuoso. Il poeta si rivolge al vento selvaggio per tutta l’ode, che si sviluppa in una serie potente di immagini naturali, legate da similitudini e folgoranti metafore. Si tratta però di una poesia non naturalistica, ma simbolica: nel vento occidentale si manifesta lo Spirito rigeneratore che pervade tutto il mondo. Il poeta lo invoca chiedendo allo Spirito-vento di fare di lui la sua cetra, ovvero il suo strumento, il suo interprete tra gli uomini. La poesia di Shelley è spesso legata a immagini della natura di grande suggestione, sempre caricate di significati simbolici e attraverso le quali si intuisce la presenza di una visione panteistica del mondo: in ogni aspetto della natura si manifesta il divino. Shelley crede nella realizzazione dello Spirito tra gli uomini, nella possibilità di una comunione con il Tutto, ma non manca nella sua poesia la consapevolezza dei limiti che ostacolano lo slancio verso l’Infinito. Si tratta di un conflitto interno all’Io del poeta che Shelley tematizza nella lirica apertamente simbolica I due spiriti, in cui si contrappongono, appunto, le parole di due entità: l’una simboleggia il principio di realtà, i limiti oggettivi dell’esistenza umana che, come per il poeta tedesco Hölderlin, sono simbolicamente associati alla notte; l’altra il principio dell’amore e del sogno, il desiderio di infinito, simbolicamente collegati alla sfera della luce.

680 Ottocento 16 La rivoluzione della poesia in Europa


I principali esponenti della poesia romantica inglese PRIMA GENERAZIONE

Wordsworth: • spontaneità • ispirazione dalla natura

Coleridge: • mistero e soprannaturale • dimensione surreale

Fissare i concetti

SECONDA GENERAZIONE

Byron, Keats, Shelley: • atteggiamenti individualistici, ribelli e anticonvenzionali • poesia antitradizionale: il culto della Bellezza si fonde con la sensibilità moderna

La poesia romantica in Inghilterra 1. Quali sono i principali esponenti della prima e della seconda generazione romantica inglese? 2. Quale opera contiene il manifesto del Romanticismo inglese? 3. Quali sono le principali differenze tematiche tra la poesia di Wordsworth e quella di Coleridge? 4. Quali elementi biografici accomunano i poeti della seconda generazione romantica inglese? 5. Quale ruolo assume la natura nella produzione poetica di Shelley?

Charles Lock Eastlake, Il sogno di Lord Byron, olio su tela, 1827 (Londra, National Gallery).

La poesia romantica in Inghilterra 3 681


George Byron

T5 G. Byron, Il pellegrinaggio del giovane Aroldo, in Opere scelte, a cura di T. Kemeny, Mondadori, Milano 1993

Il pellegrinaggio del giovane Aroldo I versi che seguono sono tratti dal poema Childe Harold’s Pilgrimage (Il pellegrinaggio del giovane Aroldo, 1812-1818), un’opera del poeta inglese Byron che descrive in quattro canti le peregrinazioni del protagonista, in fuga attraverso l’Europa dalla mediocrità della società contemporanea e dell’umanità stessa, verso cui ostenta evidente disprezzo.

12 Ma si riconobbe presto1 come il meno adatto tra gli uomini a entrare nel gregge dell’Uomo, col quale ebbe poco in comune; incapace di sottoporre i suoi pensieri ad altri, sebbene la sua anima fosse soffocata 5 in giovinezza dai suoi stessi pensieri; spontaneo ancora, non voleva concedere il dominio della sua mente a spiriti a cui il suo si ribellava; orgoglioso nella sua solitudine, sapeva trovare una vita in sé stesso, per esistere fuori dall’umano.

1 Ma si riconobbe presto: il soggetto è Aroldo.

13 10 Dove si elevano i monti, là aveva amici; dove rombava l’oceano, là era la sua dimora; dove un cielo s’offre azzurro, e un clima raggiante, sentiva la passione e la forza di girovagare; il deserto, la foresta, la caverna, la schiuma dei frangenti 15 gli facevano compagnia; parlavano un linguaggio comune, più limpido del volume della lingua della sua terra, a cui spesso rinunciava per le pagine della Natura dai raggi del sole riflesse sul lago.

Analisi del testo Una sensibilità romantica Questo frammento esprime la frattura tra l’Io e la società, l’insofferenza dei limiti, la ricerca della solitudine e della comunione con la natura che costituiscono i temi più ricorrenti della sensibilità romantica. La figura di Aroldo, in cui si proietta l’autore stesso, anche considerato l’enorme successo del poema rappresenta una delle più significative immagini del volto prometeico dell’eroe romantico. Queste tematiche sono espresse in modo visionario e profetico, attraverso un linguaggio enfatico e ispirato.

Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

COMPRENSIONE 1. Per quale aspetto il personaggio di Aroldo si può ricondurre all’archetipo di Prometeo? 2. Che cosa intende dire Aroldo, quando parla di gregge dell’Uomo? (v. 2)? ANALISI 3. Quale caratteristica presenta il personaggio in relazione al contesto sociale nel quale vive?

Interpretare

ESPOSIZIONE ORALE 4. Quale ruolo svolge e quale valore assume la natura nel testo? Motiva la tua risposta in un intervento orale di circa tre minuti.

682 Ottocento 16 La rivoluzione della poesia in Europa


John Keats

T6 J. Keats, Poesie, trad. di M. Roffi, Einaudi, Torino 1983

Ode su un’urna greca Composta nel 1819 e pubblicata l’anno successivo, l’ode di Keats è considerata una delle testimonianze più significative della poesia inglese del primo Ottocento ed è rappresentativa dello stretto legame tra mito della grecità e sensibilità romantica che caratterizza la grande poesia europea dell’epoca. La lirica trae origine dalla contemplazione di un reperto antico: un’urna greca.

Tu della quiete ancora inviolata sposa, alunna del silenzio e del tempo tardivo1, narratrice silvestre2 che un racconto fiorito puoi così più che la nostra 5 rima dolcemente dire3, quale leggenda adorna d’aeree fronde4 si posa intorno alla tua forma? Di deità, di mortali o pur d’entrambi, in Tempe o nelle valli 10 d’Arcadia5? Quali uomini son questi o quali dèi, quali ritrose vergini qual folle inseguimento, qual paura quali zampogne e timpani, 15 quale selvaggia estasi6? Dolci le udite melodie: più dolci le non udite. Dunque voi seguite, tenere cornamuse, il vostro canto, non al facile senso, ma, più cari, 20 silenziosi concenti date all’intimo cuore7. Giovine bello8, alla fresca ombra mai può il tuo canto languire, né a quei rami venir meno la fronda.

1 Tu... tardivo: il poeta si rivolge a un’urna greca, che giace da tempo immemorabile nel silenzio («alunna del silenzio e del tempo tardivo»), il cui segreto non è stato ancora violato («della quiete ancora inviolata sposa»). 2 narratrice silvestre: l’urna torna a narrare la storia silvestre, ambientata fra i boschi, che vi è rappresentata. 3 che un racconto... dire: costruisci come “che puoi così dolcemente dire (narrare) un racconto fiorito più che la nostra rima” (la nostra poesia); fiorito potrebbe alludere al fatto che le vicende rappresentate sull’urna si svolgono in primavera. 4 aeree fronde: foglie di alti alberi. 5 Di deità... d’Arcadia: (è retto da quale

leggenda, al v. 6, sottinteso) di dei (deità), di uomini o di entrambi in Tempe o nelle valli dell’Arcadia? Sono evocati luoghi della Grecia antica legati alla poesia pastorale. Inizia da qui una serie di interrogative rivolte all’urna: il poeta cerca di cogliere il senso delle immagini raffigurate su di essa. 6 quali zampogne... estasi: la scena dell’inseguimento della fanciulla pudica, che un giovane (forse un satiro) cerca di baciare, si iscrive in un contesto ispirato al culto di Dioniso; ad esso alludono le zampogne, i cembali (timpani), come più sotto i flauti (le cornamuse, tenere, “dal morbido suono”) e soprattutto il riferimento alla selvaggia estasi, propria dei riti dionisiaci.

Stampa che riproduce un disegno di John Keats, 1819 ca. (Musée du Louvre, Parigi).

7 Dolci... cuore: è fondamentale, per cogliere il senso complessivo dell’ode, comprendere il significato di questi versi. Riferendosi agli strumenti musicali riprodotti sull’urna, il poeta dice che le melodie da essi prodotte, anche se non percepibili dai sensi (le non udite), sono più dolci di quelle che si possono veramente udire, sono un’armonia (concenti) silenziosa, cara al cuore più che all’udito. Indirettamente si afferma il potere dell’arte, considerata da Keats superiore alla realtà comune. 8 Giovine bello: il poeta si rivolge al giovane raffigurato sull’urna.

La poesia romantica in Inghilterra 3 683


Audace amante e vittorioso, mai 25 mai tu potrai baciare, pur prossimo alla meta, e tuttavia non darti affanno: ella non può sfiorire e, pur mai pago, quella per sempre tu amerai, bella per sempre9. O fortunate piante cui non tocca perder le belle foglie, né, meste, dire addio alla primavera; te felice, cantore non mai stanco di sempre ritrovare 35 canti per sempre nuovi; ma, più felice Amore! più felice, felice Amore! fervido e sempre da godere, e giovane e anelante sempre, 40 tu che di tanto eccedi ogni vivente passione umana, che in cuore un solitario dolore lascia, e sdegno: amara febbre10. 30

Chi son questi venienti al sacrificio? 45 E, misterioso sacerdote, a quale verde altare conduci questa, che mugghia ai cieli, mite giovenca di ghirlande adorna i bei fianchi di seta11? 50 Qual piccola città, presso del fiume o in riva al mare costruita, o sopra il monte, tra le sue placide mura, si è vuotata di questa folla festante, in questo pio12 mattino? 55 Tu, piccola città, quelle tue strade sempre saranno silenziose e mai non un’anima tornerà che dica perché sei desolata13.

9 Audace amante... bella per sempre: il giovane non potrà mai raggiungere e baciare la fanciulla, sebbene sia assai vicino alla meta, ma in compenso la sua bellezza non potrà mai sfiorire e lui, benché mai appagato, la amerà per sempre. 10 O fortunate piante... amara febbre: la strofa continua e approfondisce il tema espresso dalla precedente. Il poeta si rivolge alle piante effigiate sull’urna: fissate in un’eterna primavera, esse non conosceranno

il trascorrere del tempo, non perderanno le foglie; allo stesso modo l’amore fervido (“ricco di passione”) del giovane cantore vivrà sempre, in eterno anelante (“palpitante”) proprio perché inappagato e non conoscerà il dolore e l’amarezza che ogni reale (vivente) passione umana sperimenta. 11 Chi son questi... di seta: lo sguardo del poeta passa ora alla seconda immagine, quella di una piccola comunità che si prepara ad assistere a un sacrificio a cui

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è condotta una giovenca, con i fianchi morbidi (di seta), cinti di ghirlande. Keats mantiene l’efficace struttura della domanda che il poeta, fingendosi ignaro, rivolge all’immagine effigiata per recuperarne l’identità, la vita. 12 pio: perché dedicato a un momento religioso. 13 perché sei desolata: perché sei abbandonata (dalla popolazione accorsa al sacrificio).


O pura attica forma14! Leggiadro atteggiamento, 60 cui d’uomini e fanciulle e rami ed erbe calpestate intorno fregio di marmo chiude15, invano invano il pensier nostro ardendo fino a te si consuma, 65 pari all’eternità, fredda, silente, imperturbata effige16. Quando, dal tempo devastata e vinta, questa or viva progenie anche cadrà, fra diverso dolore, amica all’uomo, 70 rimarrai tu sola17, «Bellezza è Verità» dicendo ancora: «Verità è Bellezza». Questo a voi, sopra la terra, di sapere è dato: questo, non altro, a voi, 75 sopra la terra, è bastante sapere18. 14 O pura attica forma: il vaso proviene dalla regione dell’Attica, dove sorge Atene. 15 cui... chiude: che decora (cui chiude... intorno) un fregio di marmo (soggetto) che raffigura uomini e fanciulle e rami ed erbe calpestate.

16 pari all’eternità... effige: l’urna, fredda, silenziosa, immobile, è paragonata all’eternità. 17 Quando... tu sola: quando questa generazione (progenie) di uomini che ora vive corrosa e vinta dal passare del tempo

sarà scomparsa, tu sola rimarrai, amica dell’uomo in mezzo a nuovi dolori, diversi da quelli presenti. 18 è bastante sapere: basta sapere.

Analisi del testo Le scene rappresentate sull’urna Sull’urna greca che il poeta si sofferma a contemplare sono scolpite due scene: nella prima un giovane, su uno sfondo agreste, cerca di baciare una fanciulla; nella seconda gli abitanti di un villaggio, guidati dal sacerdote, vanno a un sacrificio. Le figure sono evocate dalla voce del poeta, che in un certo senso le interroga, cercando di strapparle all’azione distruttiva del tempo, di ridare loro la vita. Motivo conduttore della poesia è la struggente nostalgia di un grande passato e il ruolo della poesia, capace di eternare la bellezza.

Il fascino dell’antica Grecia e la genesi dell’ode L’ode è certamente una delle più suggestive e significative testimonianze del culto della Grecia che si diffonde negli ambienti colti europei tra la fine del Settecento e i primi decenni dell’Ottocento. Keats non conosce il greco, ma ha studiato appassionatamente, da autodidatta, dizionari e repertori della classicità. Più direttamente l’ode trae ispirazione dalla contemplazione entusiasta da parte del giovane poeta inglese dei fregi del Partenone, esposti dal 1816 al British Museum di Londra insieme ad altri manufatti classici.

Classicismo romantico L’intera ode è strutturata in forma di un dialogo immaginato tra il poeta e i suoi muti interlocutori: l’urna attica e le figure su di essa intarsiate. Questo dialogo esprime il senso della lontananza che divide l’uomo moderno dal mondo antico, paradiso perduto di bellezza, e al contempo il desiderio struggente che il filo si possa riannodare. La condizione spirituale che ispira l’ode si può dunque dire a pieno titolo insieme neoclassica e romantica e forse nessun’altra poesia come questa può dimostrare l’assurdità di opporre Neoclassicismo e Romanticismo, considerandole fasi diverse e differenti concezioni del mondo. Per lo meno, questa distinzione non ha senso per la poesia inglese e tedesca.

La poesia romantica in Inghilterra 3 685


Il potere eternatore dell’arte Nella prima strofa l’urna è inizialmente evocata con espressioni che alludono al lungo e lento trascorrere del tempo che ha reso muta l’urna greca. Ma al contempo subito si insinua nei versi la fiducia che l’urna (narratrice silvestre) possa tornare a parlare, a narrare ancora i miti antichi (racconto / fiorito). Segue una serie incalzante di frasi interrogative a cui corrisponde la domanda che il poeta rivolge alle figure rappresentate, forzandole quasi a rispondere, a tornare a parlare il linguaggio del mito, un tempo condiviso dagli uomini. Nella seconda e terza strofa l’immagine, prima quasi confusa, si va precisando. Sullo sfondo il suono dei flauti si può solo intuire, ma la melodia non udita realmente, proprio perché solo immaginata, risulta più dolce di una melodia reale; un giovane insegue una fanciulla per baciarla, un ragazzo suona il flauto. Entrambi non porteranno a termine l’azione: il canto non sarà compiuto sotto gli alberi, e mai essi diverranno spogli, il giovane non potrà mai baciare la fanciulla e raggiungere la gioia, perché la fanciulla in eterno continuerà a fuggire. Il significato simbolico del testo comincia a delinearsi: l’arte non soggiace al tempo distruttore, l’arte è capace di eternare la bellezza per sempre, sottraendola al divenire (un tema a cui dà altissima voce poetica anche Foscolo nei Sepolcri, composti circa quindici anni prima dell’ode di Keats). La fanciulla rappresentata rimarrà per sempre bella, gli alberi godranno di un’eterna primavera, il giovane musico sempre continuerà a cantare e suonare, il giovane innamorato audace godrà sempre della felice stagione amorosa del desiderio, mai raggiungerà la sazietà e mai proverà l’amarezza dell’amore consumato e stanco. Nella quarta strofa compare una seconda scena: è mattino e una piccola comunità festante, guidata da un sacerdote, conduce una giovenca a un sacrificio. Anche in questo caso il poeta ripete la suggestiva successione di interrogative, che corrispondono al suo desiderio di scoprire il segreto dell’immagine effigiata: che piccola comunità è quella che si dirige al sacrificio? Da quale cittadina proviene, le cui strade per sempre resteranno vuote e silenziose? Nell’ultima strofa, che chiude circolarmente l’ode, il poeta si rivolge di nuovo all’urna, esaltando la bellezza delle forme classiche su di essa istoriate. Assai significativo per la comprensione del messaggio dell’intera ode è il paragone tra l’urna, silenziosa, e l’eternità, mistero che sfida la ragione umana nel tentativo, vano, di comprenderlo. Mentre la vita umana è contingente, soggetta al tempo e alla morte, solo l’arte, grazie alla Bellezza, vince la morte; e la Bellezza, espressa attraverso l’arte, rappresenta la Verità: questo il messaggio profondo dell’ode.

Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

PARAFRASI 1. Fai la parafrasi della prima strofa. SINTESI 2. Sintetizza ogni strofa dell’ode in 2-3 righe. COMPRENSIONE 3. Spiega e commenta gli ultimi versi dell’ode: «Quando... è bastante sapere» (vv. 67-75). LESSICO 4. Nella prima strofa il poeta si rivolge all’urna greca con espressioni che appaiono tra loro in contraddizione, poiché alludono da un lato al silenzio («sposa della quiete», «alunna del silenzio») e dall’altro alla voce, alla narrazione («narratrice silvestre... che un racconto... puoi... dire»): cerca di spiegare il senso di questa contrapposizione. STILE 5. Individua gli aspetti dell’ode riconducibili al gusto neoclassico.

Interpretare

TESTI A CONFRONTO 6. Sulla base dell’analogia del tema (il dialogo del poeta con un reperto antico) fai un confronto fra questo testo e l’ode di Monti Prosopopea di Pericle (➜ C13 T2 OL); poi esprimi un tuo giudizio critico.

online T7 Percy Bysshe Shelley

Un inno all’amore universale Filosofia dell’amore

686 Ottocento 16 La rivoluzione della poesia in Europa


Percy Bysshe Shelley

T8

Inno alla Bellezza intellettuale Vv. 1-26; 54-85

P. B. Shelley, Poesie, a cura di G. Conte, Rizzoli, Milano 1989

Scritto nel 1816 sul lago di Ginevra, dove il poeta soggiorna insieme all’amico Byron, l’Inno è una delle prove più alte della poesia di Shelley: il poeta vi tesse una lode della Bellezza, una forza immateriale e misteriosa che pervade il mondo e che l’intuizione poetica può cogliere. Riproduciamo una parte del testo, che è composto nell’originale inglese da sette strofe numerate di dodici versi ciascuna.

I La sacra ombra di un’invisibile forza1 fluttua benché invisibile a noi vicino visita il mondo con una così incostante ala come i venti d’estate che strisciano 5 da fiore a fiore, come raggi di luna che dietro una montagna irta di pini piovono, visita con incostante sguardo ogni umano cuore e lineamento. Come tinte ed armonie della sera 10 come nuvole disperse nel vasto chiarore stellato come ricordo di musica fuggita come qualcosa che essere può cara per la sua grazia, e ancora più per il suo mistero. II 15 Spirito della Bellezza, che consacri con le tue tinte il pensiero e la forma mortale su cui risplendi, dove sei andato2? Perché vai via e lasci il nostro regno questa vasta oscura valle di lacrime, deserta3 e desolata? 20 Chiedi perché la luce del sole per sempre non tessa arcobaleni su quella fiumana laggiù perché ciò che apparve una volta debba debole farsi e svanire, perché paura e sogno e morte e nascita gettino sulla luce del giorno di questa terra 25 tanta oscurità, perché l’uomo ha per destino amore e odio, sconforto e speranza? […]

1 un’invisibile forza: quella della Bellezza, forza potente e misteriosamente operante, che permea il mondo. 2 Spirito della Bellezza... dove sei andato:

anche nella poesia di Shelley, come in quella di Hölderlin, è ricorrente il senso della privazione che caratterizza l’età moderna. La seconda strofa è dominata dal tema

dell’incertezza, del dolore, della mancanza di luce che affliggono la vita dell’uomo. 3 deserta: abbandonata (dalla Bellezza); nel testo originale vacant.

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V Quando ero ancora un ragazzo, cercavo 55 i fantasmi, e correvo attraverso molte stanze che ascoltavano, caverne e rovine, e boschi sotto la luce degli stellati, a passi pieni di paura inseguivo la speranza di parlare alto con chi era morto. Io rievocavo i nomi velenosi 60 di che si nutre la nostra giovinezza4. Non ero udito, non li vedevo quando meditando sul destino della vita, a quel dolce momento quando i venti stanno corteggiando tutte le cose 65 che si risvegliano a portare notizie di alati e di fiorite d’improvviso, la tua ombra cadde su di me. Io urlai, e giunsi le mie mani in estasi5. VI 70 Giurai che avrei dedicato le mie forze a te e alle tue, non ho mantenuto il giuramento? Con il cuore che batte e occhi inondati anche ora chiamo i fantasmi di innumerevoli stagioni6, ognuno dalla sua tomba senza voce: 75 in pergolati pieni di visioni di zelo appassionato e di gioie d’amore essi hanno superato come me l’invidia della notte. Essi sanno che mai gioia illuminò il mio ciglio senza 80 essere legata alla speranza che tu avresti liberato questo mondo dalla sua buia schiavitù7 che tu, o sacra Bellezza avresti donato ciò che queste parole 85 non sanno esprimere. [...]

4 i nomi velenosi... la nostra giovinezza: Shelley allude alle espressioni con cui nella giovinezza si invocano per nome presenze religiose, che in realtà non ci danno alcuna risposta. Il poeta abbandona ben presto la fede religiosa dei padri. 5 d’improvviso... in estasi: il poeta ri-

evoca il momento in cui lo spirito della bellezza discese su di lui ancora ragazzo e ricevette il battesimo dell’Arte, a cui avrebbe votato la sua vita. 6 i fantasmi… stagioni: le fantasie poetiche elaborate in tempi diversi, che hanno vinto il buio della notte invidiosa («hanno superato… l’invidia della notte»; in senso

688 Ottocento 16 La rivoluzione della poesia in Europa

simbolico, tutto ciò che ostacola la libera vita dello spirito). 7 buia schiavitù: il poeta, investito dallo spirito della bellezza, ha per Shelley il compito di redimere il mondo da ciò che frena la libera espressione dello spirito umano.


Analisi del testo La struttura e i contenuti Nella prima strofa la Bellezza, a cui la lirica è dedicata, viene evocata come presenza misteriosa e invisibile, ma non viene espressamente nominata. Il poeta ne costruisce il volto attraverso un accumulo di immagini e l’uso insistito della similitudine (ben sei, di cui quattro enfatizzate anche visivamente dalla collocazione anaforica: come... come... come). La seconda strofa esplicita il tema: il poeta si rivolge allo Spirito della Bellezza, per lamentarne la lontananza, ormai, dal mondo. Anche Shelley, come Hölderlin, dà voce al tema della perdita del Bello e del “divino” di cui soffre la società moderna. A espressioni positive, legate alla luce e alla solarità (consacri, risplendi), si contrappongono immagini negative, che nel loro insieme connotano la vita terrena e il mondo umano come regno dell’oscurità, del dolore e dell’incertezza (oscura valle di lacrime, fiumana, paura ecc.). La quinta e la sesta strofa focalizzano l’Io del poeta nel suo rapporto con la Bellezza. Nella quinta strofa in particolare l’io lirico rievoca nella prima parte la propria fanciullezza come momento magico in cui “si cercano i fantasmi”, ovvero in cui si è in spontaneo contatto con la dimensione del mistero, del trascendente, e si ascolta, in intima comunione, la voce della natura. Quindi rievoca il momento, simile a una sorta di estasi mistica, in cui ha incontrato lo spirito della Bellezza (la tua ombra cadde su di me) e ha scoperto così la sua vocazione poetica, che coinciderà con la ricerca della Bellezza nel mondo: una sorta di missione, come viene esplicitato nei primi versi della sesta strofa (Giurai che avrei dedicato le mie / forze a te). La vita del poeta appare indissolubilmente legata al culto della sacra Bellezza, la sua unica gioia è la speranza che essa liberi il mondo dalla sua buia schiavitù.

Un poeta “immaginifico” Colpisce nella lirica la sorprendente capacità di Shelley di creare una serie di immagini che si sovrappongono e accumulano così da intensificare progressivamente l’idea che il poeta vuole trasmettere. Da questa capacità è colpito Gabriele D’Annunzio (1863-1938), la cui caratteristica distintiva (si pensi a una lirica come L’onda) è allo stesso modo l’accumulo di immagini, che attinge spesso dalla poesia antica e moderna. Riportiamo un breve passo in cui D’Annunzio, il poeta “immaginifico” per eccellenza, esalta la capacità di Shelley di dar vita a immagini sempre nuove: Nessuno, certo, modulando il verso, ha saputo trovare armonie così aeree, non mai prima udite. Pare che veramente questo figlio dell’Oceano abbia risvegliato una voce che dormiva sconosciuta nel mondo. Anche le sue odi meno curate hanno qualcosa di sovrumano. Certe note sembrano uscite non dalla bocca di un mortale, ma da quella di un dio o di un demone. Certi versi paiono tessuti dall’elemento imponderabile d’un qualche sogno elisio [etereo, celestiale]. [...] Mentre egli possiede le più alte verità dei più alti maestri antichi, tutto è nuovo in lui. Le sue immagini non si ritrovano in alcun altro poeta: scaturiscono dal suo cervello con tale prodigiosa abbondanza che i più ricchi sembrano miseri al confronto di lui. Gabriele d’Annunzio, in appendice a P. B. Shelley, Poesie, a c. di G. Conte, Rizzoli, Milano 1989

Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

COMPRENSIONE 1. Come è presentato il momento in cui l’io lirico scopre la Bellezza e la poesia? 2. Nell’espressione «invidia della notte» (v. 78), quale significato assume la notte? Ha una connotazione positiva o negativa? ANALISI 3. Nella prima parte della quinta strofa si possono ritrovare riferimenti alla visione romantica del paesaggio? Quali? Individuali. LESSICO 4. La seconda strofa è strutturata su serie oppositive: elenca i termini che si riferiscono allo Spirito della Bellezza e quelli che si riferiscono alla dimensione terrena.

Interpretare

TESTI A CONFRONTO 5. Alla luce dell’analisi svolta, istituisci un confronto fra la poesia di Shelley e quella di Hölderlin, evidenziando gli elementi di affinità.

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Ottocento La rivoluzione della poesia in Europa

Sintesi con audiolettura

1 Una nuova sensibilità poetica

Poesia nuova e poeti nuovi Tra la fine del Settecento e la prima metà dell’Ottocento diventano centrali in poesia la voce dell’Io e agli aspetti emotivi e passionali. Al contempo, sotto l’influsso della filosofia idealistica, dai romantici tedeschi la poesia è concepita come un’esperienza mistico-religiosa e il poeta diviene depositario di una missione: è “profeta” e “veggente”. Accanto a questo approccio, si afferma anche un altro filone poetico che tende alla rappresentazione del quotidiano e che, di conseguenza, adotta un registro linguistico prosastico.

2 La poesia romantica in Germania

Novalis: la poesia come esperienza esoterica Nell’opera del poeta tedesco Novalis (17721801) la poesia ha il carattere di una rivelazione. Negli Inni alla notte la discesa nella profondità della notte è la premessa per una rinascita spirituale e per comprendere il mistero cristiano della morte e della resurrezione. La poesia di Hölderlin: tra “assenza” e “rifondazione” Per Friedrich Hölderlin (1770-1843) la poesia è l’espressione del venir meno della bellezza e dei valori nell’epoca moderna (ed è quindi “poesia dell’assenza”) ma anche della presenza superstite del divino nel mondo da tener viva (e perciò “poesia della rifondazione”). Si tratta di una poesia pervasa dalla nostalgia per l’età felice della Grecia antica.

3 La poesia romantica in Inghilterra

La prima generazione romantica La cosiddetta “prima generazione romantica” è rappresentata da William Wordsworth (1770-1850) e da Samuel Coleridge (1772-1834). Il primo propugna una poesia spontanea ispirata al mondo contadino; il secondo, invece, è attratto dalla dimensione del mistero e del soprannaturale. La seconda generazione romantica I poeti della seconda generazione romantica (Byron, Keats, Shelley) sono accomunati dalla ribellione nei confronti di ogni forma di conformismo. Nelle loro opere il culto del bello e della classicità si fonde con la sensibilità moderna.

Zona Competenze Scrittura

Uno dei temi ricorrenti nella poesia romantica è quello della notte, che i vari autori, pur partendo da un terreno comune, caricano di suggestioni e di valenze simboliche diverse. In un testo espositivo-argomentativo sviluppa questo confronto, rifacendoti, se lo ritieni opportuno, anche alla poesia foscoliana (circa 3 colonne di foglio protocollo).

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Ottocento CAPITOLO

17 Il romanzo europeo

Nel primo Ottocento il genere letterario del romanzo, già affermato nel Settecento nelle sue diverse tipologie, raggiunge una diffusione e una popolarità mai conosciute da altre forme letterarie. Questo successo è legato alla sua particolare natura di genere multiforme, che può accogliere in sé la più svariata gamma di temi e suggestioni, riuscendo così a corrispondere alla sensibilità, al gusto e alle attese di ogni tipo di pubblico anche di cultura non elevata. Tra le forme principali del romanzo di primo Ottocento spiccano il romanzo storico (ricordiamo in particolare Ivanhoe di Scott e NotreDame de Paris di Hugo) e il romanzo a impianto realista (come Orgoglio e pregiudizio della Austen, Il rosso e il nero di Stendhal e Papà Goriot ed Eugénie Grandet di Balzac). Madame Bovary di Gustave Flaubert costituisce, anche per la data di pubblicazione (1857), uno spartiacque tra il romanzo primo-ottocentesco e il romanzo naturalista, di cui Flaubert precorre le modalità narrative, in particolare per la scelta dell’impersonalità.

successo del genere 1 Ilromanzo romanzo storico 2 Ile realista il Naturalismo: 3 Verso Madame Bovary 691 691


1

Il successo del genere romanzo La popolarità del romanzo Il genere del romanzo, che si era sviluppato in Inghilterra nel secolo precedente, incontra in vari paesi europei durante l’Ottocento un crescente favore presso il grande pubblico, arrivando ad assumere i caratteri di un fenomeno culturale di massa. Le ragioni di questo straordinario successo sono molteplici e di natura sia sociologica sia più specificamente letteraria: • fin dai suoi esordi, il romanzo si è presentato come un genere libero da codificazioni rigide e pronto a dare voce anche ai soggetti solitamente trascurati dalla letteratura cosiddetta “alta”: è proprio questa natura “aperta” e spuria a renderlo la forma letteraria più idonea a rappresentare una realtà complessa e in continuo divenire come quella del XIX secolo. Alla visione dall’alto e totalizzante caratteristica dell’epica, che rispecchiava un indiscutibile sistema di valori comuni, il romanzo sostituisce una molteplicità di angolazioni e prospettive, specchio di una realtà storica composita in cui ogni individuo vuole dare spazio alla propria voce. Nella sua natura molteplice e polifonica, il romanzo si presenta come il genere più coerente con questo nuovo quadro;

Francesco Filippini, La lettura, Madame Bovary, olio su tela, 1881 (Collezione privata).

692 Ottocento 17 Il romanzo europeo


CarolusDuran, La Dame au gant (La Signora col guanto), olio su tela, 1869 (Parigi, Musée d’Orsay).

• fondamentale per spiegare il successo del romanzo è la progressiva affermazione della classe borghese (non a caso il grande filosofo tedesco Hegel definisce il romanzo «moderna epopea borghese»). Da un lato il romanzo ne diviene lo specchio e la forma di espressione più adeguata, dall’altro lo sviluppo di un ceto benestante, che dispone del tempo e della cultura necessari ad affrontare letture anche ponderose, offre al nuovo genere un pubblico su cui poter contare con una certa sicurezza; • il romanzo si presenta al pubblico come un genere, per così dire, “democratico”. La forma libera, che non si irrigidisce su formule e schemi retorici prefissati, e la lingua, pronta ad assorbire le sfumature più vicine alla quotidianità del parlato, lo rendono adatto anche a un pubblico non colto; • il romanzo per sua natura consente, inoltre, diversi livelli di lettura, a seconda della cultura e delle capacità del lettore: dal puro godimento dell’intreccio fino all’analisi più approfondita. Si comprende allora perché, con il romanzo, per la prima volta i lettori diventano “pubblico” nell’accezione moderna del termine e la lettura si configura sempre più come fenomeno di costume; • sempre per questa sua natura aperta e malleabile, poi, il romanzo si presta alle finalità di scrittura più disparate, dando luogo a un genere con molte ramificazioni. Si scrivono romanzi per raccontarsi, per educare, per emozionare nel senso più vasto e multiforme del termine. Testimonianza di questa rete sterminata di possibilità sono, ad esempio, sottogeneri quali il romanzo storico o il romanzo “nero”.

Le cause del successo del genere romanzo AFFERMAZIONE SOCIALE DELLA BORGHESIA

• trova rappresentazione nel romanzo • la classe borghese apprezza e legge i romanzi

LINGUA

• è più vicina a quella usuale e della comunicazione fra ceti diversi • la struttura polifonica permette la compresenza di stili e registri differenti in riferimento a vari contesti

VERSATILITÀ

si ramifica in molteplici tipologie e sottogeneri

Il successo del genere romanzo 1 693


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Il romanzo storico e realista 1 Il romanzo storico Un genere di grande fortuna All’interno del variegato mondo del romanzo ottocentesco, il romanzo storico costituisce indubbiamente una delle varianti di genere di maggiore successo. La grande fortuna che incontra presso il pubblico è assicurata da un insieme di fattori: innanzitutto il nuovo interesse per la storia, che si sviluppa con la cultura romantica, in particolare per periodi storici come il Medioevo; poi la possibilità di creare trame intricate e appassionanti, capaci di catturare l’attenzione dei lettori attraverso la sollecitazione emotiva (una caratteristica che fa del romanzo storico un “genere di consumo” analogo per qualche verso a certa odierna produzione televisiva); infine la valenza patriottica che spesso vengono ad assumere queste opere, nelle quali si narra di popoli oppressi in lotta per la libertà e di eroi che si oppongono a spietati tiranni: tutte situazioni in cui possono riconoscersi molte delle nazioni europee che nel corso dell’Ottocento si stanno faticosamente costruendo un’identità e che proprio nel passato vanno a cercare le loro radici. È il caso anche dell’Italia dove, a partire dal 1827 (anno della pubblicazione della prima versione dei Promessi sposi), il romanzo storico conosce un particolare successo (➜ C21). Il modello di Walter Scott La moda letteraria del romanzo storico ha come modelli indiscussi i titoli di successo dello scrittore scozzese Walter Scott che, a partire dal 1814, si impongono in tutta Europa. Il loro autore nasce a Edimburgo, in Scozia nel 1771; arriva alla letteratura nel 1814, una volta abbandonata la professione di avvocato, pubblicando il suo primo romanzo storico, Waverley, che ha notevole successo; ne seguono molti altri, in genere ambientati nel Seicento e Settecento. Ma la fama maggiore gli viene da Ivanhoe (1820), ambientato invece nel Medioevo. Coinvolto nel dissesto finanziario della casa editrice con cui pubblica, Scott è costretto a incrementare la produzione di romanzi (alla fine ben 29) per evitare la bancarotta. Muore nel 1832. I romanzi di Scott sono fondati sul gusto della ricostruzione storica scrupolosa di eventi, usi e costumi, del passato; le storie avventurose narrate sono collocate in ambienti di gusto romantico (castelli, di cui lo scrittore scozzese riproduce minuziosamente gli arredi e le atmosfere, ma anche prigioni, foreste, ecc…) che vogliono colpire il lettore. I personaggi di Scott (come l’esempio più celebre, Ivanhoe, protagonista dell’omonimo romanzo ➜ T1 ) sono entità a una dimensione, hanno la rigida compattezza di maschere che devono portare in scena un’unica caratteristica umana, vivendola fino all’estremo: chi il coraggio adamantino, chi la crudeltà più turpe e vigliacca. Le figure più illustri della grande storia rimangono in genere su uno sfondo lontano: Scott cala gli eventi, i meccanismi e le aspirazioni della storia al livello delle persone comuni, viste nella loro prosaica quotidianità. Proprio questa è la novità più importante e feconda della sua esperienza letteraria: i suoi eroi sono figure con

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una collocazione sociale media o medio-bassa, che acquistano importanza non perché nobili o potenti, ma perché capaci di cogliere e interpretare quello spirito comune di un popolo a cui lo scrittore vuole dare voce. I suoi romanzi, in tal modo, si colorano del motivo romantico dell’esaltazione dello spirito nazionale, in cui può riconoscersi un’intera collettività. Al di là delle trame intricate e dei colpi di scena, ingrediente essenziale del suo successo, quello di Walter Scott è un mondo schematico, dove è facilissimo distinguere il bene dal male, il giusto dallo sbagliato. E anche questa caratteristica favorisce senz’altro la diffusione di un modello di immediata comprensione per qualsiasi tipo di pubblico, di ogni livello culturale. Ivanhoe L’opera più celebre di Scott è il romanzo Ivanhoe. La vicenda è ambientata nell’Inghilterra del 1194, sullo sfondo delle lotte intestine tra i due popoli che abitano il paese: i crudeli Normanni, che l’hanno conquistato un secolo prima, e i Sassoni, che subiscono tutte le conseguenze della sconfitta. Il protagonista è il giovane ed eroico cavaliere Wilfred di Ivanhoe, figlio di Cedric, un nobile sassone ostile ai Normanni. Ivanhoe è stato cacciato dal padre a causa del suo amore per lady Rowena, che Cedric intende dare in sposa a un nobile sassone di stirpe reale, Athelstane, nella speranza, con questa unione, di riconquistare per il suo popolo il trono d’Inghilterra. Ivanhoe è partito per la terza crociata al seguito di re Riccardo Cuor di Leone, in assenza del quale l’ipocrita e ambizioso fratello, Giovanni Senzaterra, tenta di usurpare il trono. Re Riccardo ritorna dalla crociata e insieme a lui, sotto false spoglie, ritorna alla casa del padre anche Wilfred di Ivanhoe. In incognito partecipa al torneo di Ashby, nel quale affronta e vince tutti i cavalieri del principe Giovanni. Rimasto ferito, è curato dalla bellissima Rebecca, che subito si innamora di lui. Mentre attraversano un bosco, Ivanhoe, Rebecca, Cedric il Sassone e Rowena sono fatti prigionieri da alcuni cavalieri normanni, che li rinchiudono nel castello del crudele tiranno Reginaldo Front-de-Boeuf. Dopo una furiosa battaglia, il castello viene espugnato da un misterioso Cavaliere Nero e da una banda di arditi fuorilegge, guidata dal

Frank William Warwick Topham, La regina del torneo, “Ivanhoe”, olio su tela, XIX secolo (Collezione privata).

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leggendario Robin Hood, difensore dei poveri. Solo Rebecca resta prigioniera di un crudele templare, Brian-de-Bois-Guilbert, che ne vuole a tutti i costi l’amore. Accusata di stregoneria e condannata al rogo, la donna viene liberata da Ivanhoe, che uccide il malvagio templare. Riccardo intanto stabilisce il suo potere sui Normanni ribelli e ottiene la sottomissione dei Sassoni, avviando la fusione dei due popoli nemici in una nuova realtà nazionale, quella inglese. La storia si chiude col matrimonio tra Rowena e Ivanhoe, mentre Rebecca, che in cuor suo lo ha sempre amato invano, decide di lasciare l’Inghilterra. L’eredità di Scott Tra gli autori che fanno maggiormente tesoro della lezione scottiana figurano quelli della scuola del romanzo storico italiano, con Manzoni in testa (che però, come vedremo, se ne distanzia per l’approfondimento e la complessità nella ricostruzione delle ambientazioni e dei personaggi), oltre ai francesi Prosper Mérimée, autore della novella tragica Carmen (1845), e Victor Hugo, con il celebre Notre-Dame de Paris (1831) (➜ T2 OL). Una diversa versione di romanzo storico Victor Hugo (1802-1885) è considerato il padre del Romanticismo francese. I suoi romanzi più celebri sono Notre-Dame de Paris (1831) e I miserabili, pubblicato trent’anni dopo (1862), che testimonia ormai il passaggio dall’interesse per il passato, proprio del romanzo storico, ai problemi sociali che saranno al centro del Naturalismo. Hugo si muove all’interno del genere del romanzo storico in un modo del tutto particolare. Anch’egli adotta lo statuto del narratore extradiegetico e onnisciente (che cioè si pone al di fuori della storia narrata e che ne conosce motivazioni e sviluppi), tipico del romanzo storico. La sua però è un’onniscienza che aspira a collocarsi a un livello superiore rispetto a quanto accade nel romanzo storico tradizionale alla Walter Scott, cercando di farsi interprete del mistero dell’esistenza umana. Nella sua prosa, la descrizione del dato materiale diventa così una lettura simbolica del senso profondo che sottende alle cose: l’orrenda deformità di Quasimodo viene a rappresentare le storture che dominano la società e l’eterna lotta tra il bene e il male, entrambi presenti nell’animo dell’uomo. Il Medioevo di Quasimodo ed Esmeralda, protagonisti di Notre-Dame de Paris, è una rappresentazione lontana da qualsiasi orizzonte di credibilità: con la figura del gobbo Quasimodo, esteriormente deforme ma nobile d’animo, Hugo introduce nella letteratura moderna l’idea del “grottesco”: aspetti inconsueti e magari “brutti” che l’arte non deve rifiutarsi di rappresentare. Una posizione rivoluzionaria, che venne abbracciata da un’ampia parte del movimento romantico e che Hugo teorizza nella prefazione al dramma Cromwell del 1827, di poco precedente a NotreDame de Paris.

Fissare i concetti Il romanzo storico: dal modello di Scott alla produzione francese e italiana 1. Quali sono le principali caratteristiche del romanzo storico europeo dal punto di vista tematico e formale? 2. Quali elementi fanno di Ivanhoe di Walter Scott una tipica opera romantica? 3. Che cosa rappresenta per i romantici la ripresa o rivisitazione dell’epoca medievale? Quali aspetti di essa sono privilegiati? 4. Come si evolve il genere del romanzo storico in Francia? E in Italia?

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Walter Scott

T1

L’agnizione dell’eroe: il misterioso «cavaliere Diseredato» si svela come Ivanhoe

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Ivanhoe, XII W. Scott, Ivanhoe, trad. di L. Ferruta, Garzanti, Milano 2000

Ivanhoe, tornato segretamente in patria, partecipa in incognito al torneo organizzato da re Giovanni e, facendosi chiamare il «cavaliere Diseredato» (nome drammaticamente ammantato di mistero, che allude alla situazione dell’eroe dopo il ripudio da parte del padre Cedric), riesce ad avere la meglio sui campioni messi in lizza dal malvagio. Il testo che segue mostra la conclusione del torneo, che prevede la nomina del miglior cavaliere della giornata.

Così ebbe fine il memorabile torneo di Ashby-de-la-Zouche, uno dei più coraggiosamente combattuti dell’epoca. Infatti, anche se furono solo quattro i cavalieri che morirono sul campo, compreso uno che fu soffocato dal calore dell’armatura, più di trenta furono gravemente feriti, di cui quattro o cinque non guarirono più. Parecchi 5 furono coloro che rimasero invalidi per tutta la vita, e quelli che se la cavarono un po’ meglio portarono con sé nella tomba i segni della battaglia. Ecco perché quel torneo viene sempre ricordato nelle antiche cronache come il Nobile e Glorioso Passo d’Armi di Ashby. Era ora compito del principe Giovanni nominare il miglior cavaliere della giornata, 10 ed egli decise che l’onore toccava al cavaliere che la voce popolare aveva soprannominato Le Noir Fainéant1. Fu fatto notare al principe, criticando la sua decisione, che la vittoria era stata conseguita in realtà dal cavaliere Diseredato che nel corso della giornata aveva abbattuto da solo sei campioni e che aveva poi disarcionato e fatto cadere a terra il capo della fazione avversaria. Ma il principe Giovanni rimase del 15 suo parere, sostenendo che il cavaliere Diseredato e il suo gruppo avrebbero perso il torneo se non fosse stato per il potente aiuto del cavaliere dalla nera armatura, al quale perciò insisté di aggiudicare il premio. Tuttavia, con sorpresa di tutti i presenti, non si riuscì a trovare il cavaliere prescelto da nessuna parte. Aveva lasciato il campo immediatamente dopo la fine del tor20 neo ed era stato visto da alcuni spettatori scendere lungo una radura della foresta con lo stesso passo lento e gli stessi modi svogliati e indifferenti che gli avevano procurato l’epiteto di Fannullone Nero. Dopo che l’ebbero chiamato due volte con squilli di tromba e proclami degli araldi2, fu necessario nominare un altro per ricevere gli onori che a lui erano stati destinati. Il principe Giovanni non aveva ormai 25 altri pretesti per opporsi alla nomina del cavaliere Diseredato che fu quindi eletto campione della giornata. Attraverso il campo reso scivoloso dal sangue e ingombro di armature rotte e dei corpi di cavalli uccisi o feriti, i marescialli3 condussero il nuovo vincitore ai piedi del trono del principe Giovanni.

1 Le Noir Fainéant: “Il Nero Fannullone” è il significato del soprannome dato dal pubblico al cavaliere. Si tratta del re Riccardo, in incognito. 2 araldi: nel Medioevo l’araldo è un ufficiale della corte incaricato di rendere

pubbliche le decisioni del signore, del re o delle autorità comunali, a seconda del periodo e dell’ambiente. Qui il termine si riferisce più genericamente a dei messaggeri. 3 marescialli: nel Medioevo sono alti di-

gnitari di corte, in origine incaricati di sovrintendere alle scuderie regie e in seguito responsabili di importanti mansioni giuridiche e amministrative. Il termine è poi passato nel lessico militare, dove in vari paesi indica il grado supremo della gerarchia.

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«Cavaliere Diseredato», disse questi, «poiché solo con questo nome volete essere riconosciuto, vi conferiamo per la seconda volta4 gli onori di questo torneo e vi annunciamo il diritto di richiedere e di ricevere dalle mani della regina dell’amore e della bellezza la corona che il vostro valore vi ha giustamente meritato.» Il cavaliere si inchinò profondamente e con eleganza, ma non rispose nulla. 35 Mentre le trombe squillavano, mentre gli araldi si sfiatavano a tributare onore ai valorosi e gloria al vincitore, mentre le dame agitavano i fazzoletti di seta e i veli ricamati, e mentre tutti i presenti si univano in numerose grida di esultanza, i marescialli condussero il cavaliere Diseredato attraverso il campo fino ai piedi del trono d’onore occupato da Lady Rowena. Il campione fu fatto inginocchiare sul gradino 40 più basso. In effetti, dalla fine del combattimento il suo comportamento sembrava determinato più dall’intervento di coloro che gli erano intorno che dalla sua volontà, e fu visto barcollare mentre per la seconda volta veniva condotto attraverso la lizza5. Rowena, scendendo dal trono con passo aggraziato e fiero, stava per mettere la corona che aveva in mano sull’elmo del campione quando i marescialli esclama45 rono: «Così non va: dev’essere a capo scoperto». Il cavaliere mormorò debolmente qualche parola che andò perduta nella cavità dell’elmo, ma che sembrava esprimere il desiderio che non gli fosse tolto. I marescialli, non si sa se per amore del cerimoniale o per curiosità, non fecero caso alla sua riluttanza e gli tolsero l’elmo tagliando i lacci del casco e aprendo le 50 fibbie della gorgiera6. Quando l’elmo fu tolto, si videro i bei lineamenti, abbronzati dal sole, di un giovane uomo di circa venticinque anni in mezzo a una profusione di corti capelli biondi. Il volto era pallido come quello di un morto e segnato da una o due macchie di sangue. Rowena, non appena lo vide, gettò un debole grido, ma immediatamente, facendo 55 appello alla sua forza di carattere e imponendosi di continuare mentre tremava tutta per la violenza dell’improvvisa emozione, pose sulla testa china del vincitore la splendida corona premio della giornata, e con voce chiara e distinta pronunciò queste parole: «Io vi conferisco questa corona, signor cavaliere, come ricompensa al valore destinata al vincitore della giornata». A questo punto si fermò e poi con 60 tono fermo aggiunse: «E mai corona cavalleresca potrebbe essere messa su fronte più degna!». Il cavaliere abbassò il capo e baciò la mano della bella sovrana che aveva premiato il suo valore e poi, piegandosi ancora più in avanti, crollò ai suoi piedi. 65 La costernazione fu generale. Cedric, ammutolito dall’improvvisa apparizione del figlio che aveva bandito, si lanciò verso di lui come se volesse separarlo da Rowena. Ma ciò era già stato fatto dai marescialli di campo, i quali, intuendo la causa 70 dello svenimento, si erano affrettati a togliergli l’armatura e avevano scoperto che la punta di una lancia era penetrata nel pettorale della corazza e aveva ferito a un fianco Ivanhoe. 30

4 per la seconda volta: il cavaliere Diseredato è risultato vincitore anche nella prima giornata di torneo.

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5 la lizza: il recinto destinato alle prove d’armi. 6 gorgiera: il sottogola dell’armatura.

Francesco Hayez, Ivanhoe, incisione per l’edizione italiana del 1843.


Analisi del testo Un narratore rigorosamente esterno Il brano proposto è uno dei momenti topici del romanzo: il canonico colpo di scena attraverso il quale si giunge allo svelamento dell’eroe. Solo alla fine dei giochi, quando il cavaliere Diseredato è stato gravemente ferito e si teme per la sua vita, gli astanti possono vederne il volto e riconoscervi quello di Ivanhoe, che tutti credevano lontano. Questo episodio offre un esempio molto chiaro della narrativa di Scott. La scena si presenta al lettore come un palcoscenico perfettamente allestito e controllato da un regista esterno, che conosce ogni minimo dettaglio dell’azione e ne controlla lo sviluppo. La voce narrante appartiene dunque a un narratore onnisciente, che si colloca al di fuori dello spazio e del tempo degli eventi narrati e li valuta da un futuro indefinito, come ci fa capire l’espressione con cui si apre il brano: «Così ebbe fine il memorabile torneo di Ashby-de-la-Zouche, uno dei più coraggiosamente combattuti dell’epoca» (rr. 1-2). Questo punto di vista è una strategia narrativa che diventerà caratteristica del romanzo storico come genere.

Lo sfondo convenzionale di un Medioevo mitizzato Nella costruzione della scena è evidente l’intenzione dello scrittore di confermare una certa immagine “tipica” del Medioevo, la stessa che si è affermata e circola nei primi decenni dell’Ottocento, in seguito alla nuova passione romantica per i cosiddetti “secoli bui”. Già la situazione descritta costituisce di per sé un topos: il torneo che vede scontrarsi eroi misteriosi dai nomi suggestivi. Scott, poi, non perde occasione per arricchire la narrazione di tutti i dettagli del caso, proprio come in uno dei quadri di genere che all’epoca riscuotono tanto successo: gli «squilli di tromba» e i «proclami degli araldi» (r. 23), le dame che «agitavano i fazzoletti di seta e i veli ricamati» (rr. 36-37), Lady Rowena che scende dal trono d’onore «con passo aggraziato e fiero» (r. 43), la «splendida corona» (r. 57) offerta in premio al vincitore sono particolari che concorrono a tratteggiare un’immagine oleografica e pittoresca del Medioevo.

I “trucchi” del narratore di successo: sangue e suspense Il romanzo storico si vuole proporre fin dai suoi esordi come genere popolare, in grado di rispondere al gusto di un pubblico vasto e di cultura non necessariamente elevatissima. Non a caso, Scott sperimenta strategie narrative destinate a diventare peculiari della letteratura di consumo e ben note ancora oggi. Ad esempio prepara lo svelamento dell’eroe in modo tale da creare un effetto di suspense che tenga il lettore incollato alla pagina: prima lo si ammanta di un’aura di mistero chiamandolo con un nome enigmatico, poi si gioca a lungo con il particolare dell’elmo, che nasconde le reali sembianze del protagonista; in seguito sono descritte con accorata partecipazione le reazioni di lady Rowena e solo alla fine della scena, quasi casualmente, viene svelato il nome dell’eroe («la punta di una lancia era penetrata nel pettorale della corazza e aveva ferito a un fianco Ivanhoe», rr. 70-72), che ormai i lettori hanno già intuito ma di cui attendono ansiosamente una conferma. Un’altra strategia narrativa di Scott consiste nel soffermarsi spesso su particolari truci e cruenti, descritti con precisione quasi pedante. È, naturalmente, una strategia volta a suscitare il raccapriccio e a tenere alto il coinvolgimento emotivo del lettore: la menzione del cavaliere morto «soffocato dal calore dell’armatura» (r. 3), la precisazione che, anche se a morire furono «solo quattro» cavalieri, «parecchi furono coloro che rimasero invalidi per tutta la vita, e quelli che se la cavarono un po’ meglio portarono con sé nella tomba i segni della battaglia» (rr. 4-6), la descrizione del campo «reso scivoloso dal sangue e ingombro di armature rotte e dei corpi di cavalli uccisi o feriti» (rr. 2728) sono tutti tasselli di un disegno complessivo che vuole catturare l’attenzione del lettore con immagini a effetto.

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Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

SINTESI 1. Presenta in sintesi il contenuto informativo del testo in non più di 10 righe. TECNICA NARRATIVA 2. In quali punti del brano emerge con evidenza lo statuto del narratore onnisciente? ANALISI 3. Individua e isola le espressioni che si riferiscono al personaggio di Rowena: che tipo di immagine ti sembra che Scott voglia dare dell’eroina? Quale modello femminile viene a delinearsi?

Interpretare

LEGGERE LE EMOZIONI

SCRITTURA 4. Quale, tra i temi caratteristici del Medioevo romantico, è possibile individuare in questo brano? In che modo Scott cerca di far rivivere l’epoca medievale? Argomenta la tua risposta in un breve testo (max 15 righe). 5. Il gusto per il particolare cruento e scabroso è una caratteristica che avvicina Scott anche a certo giornalismo di cronaca contemporaneo. Ti sembra che le motivazioni alla base di questo tipo di scrittura siano in qualche modo simili? Qual è la tua opinione in merito alla ricerca dell’attenzione dello spettatore/lettore con qualsiasi mezzo? TESTI A CONFRONTO 6. Orlando, Don Chisciotte, Ivanhoe: tre cavalieri nati da tre culture diverse, in momenti storici diversi e con diversi ideali. Mettili a confronto: fai una schedatura delle caratteristiche fisiche, comportamentali, narrative di ognuno dei tre personaggi e del contesto storico-letterario delle rispettive opere, poi scrivi un breve testo (max 30 righe) in cui esponi il risultato del tuo confronto in parallelo.

online T2 Victor Hugo

Il gobbo di Notre-Dame: la storia si tinge di gusto dell’orrido Notre-Dame de Paris I, 5; XI, 4

2 Il romanzo a impianto realista L’interesse per l’attualità Mentre nei romanzi storici alla Scott si guarda a una realtà lontana nel tempo, proprio per questo carica di fascino (e spesso sfumata in un alone di eroismo), altri romanzieri traggono invece ispirazione dalla realtà contemporanea, che cercano di ritrarre nelle loro opere in tutta la sua complessità. Forse per la prima volta, la letteratura si sente chiamata a rappresentare il mondo in modo credibile ed esauriente: a rispondere a quello che, prendendo a prestito la terminologia del giornalismo moderno, potremmo chiamare “dovere di cronaca”. Una volontà documentaristica Non è certo un caso che Stendhal (1783-1842) come sottotitolo al suo romanzo Il rosso e il nero scelga la definizione Cronaca del 1830. Molto significativa è anche l’affermazione di un’altra delle figure chiave di questo ricchissimo filone letterario, il romanziere francese Honoré de Balzac (17991850): «La società francese stava diventando lo storico, io dovevo soltanto essere il segretario». Compito essenziale dello scrittore, dunque, diventa il documentare una realtà talmente vitale, ricca di spunti, personaggi e punti di vista diversi, che automaticamente diventa essa stessa “storia”: storia che si narra da sé, quasi senza bisogno della mediazione dell’artista (che risulta sminuito nel suo tradizionale ruolo creativo dal termine “segretario”). Siamo già sulla strada che, appena passata la metà del secolo, porterà all’opera di Gustave Flaubert, maestro indiscusso dei “naturalisti” (➜ PAG. 716 ss.).

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La nuova esigenza di una rappresentazione realistica viene ad assumere orientamenti e caratteristiche diverse a seconda del paese e del contesto storico, sociale e politico in cui si manifesta. La tradizione del romanzo in Inghilterra L’Inghilterra è il paese che vanta la più solida tradizione nel campo del romanzo, con precedenti settecenteschi del calibro di Daniel Defoe, Samuel Richardson e Henry Fielding. Qui la scrittura romanzesca si è ormai affrancata da tempo dal rapporto di sudditanza verso la cultura accademica, che altrove frena ancora la sperimentazione, e può inoltre contare sulla risposta di un pubblico assai ricettivo e più maturo che nel resto d’Europa. In Inghilterra il legame fra letteratura e realtà è già consolidato, ma nel corso dell’Ottocento questo interesse peculiare si affina e si approfondisce, trovando nel romanzo un prezioso strumento di analisi e talvolta anche di denuncia sociale. Jane Austen Tra le prime figure a scegliere la strada del romanzo in Inghilterra troviamo Jane Austen (1775-1817). Nata e vissuta nella provincia inglese, figlia di un pastore anglicano, Jane Austen fu un’autrice di successo. Nel corso di una carriera estremamente prolifica, la scrittrice analizza i meccanismi che regolano la vita delle famiglie medio e alto-borghesi nell’Inghilterra previttoriana, soffermandosi soprattutto sull’ambiente tipicamente inglese della provincia rurale a cui apparteneva. I suoi romanzi (tra i più celebri citiamo Orgoglio e pregiudizio, 1813; Mansfield Park, 1814; Emma, 1816) sono lo specchio di un mondo che cerca di mantenere un difficile equilibrio fra tradizione e spinte innovative di una realtà in veloce cambiamento: Jane Austen riesce a costruirne una rappresentazione viva ed efficace, fondata su un realismo attento e segnato da lievi tocchi di ironia. Con la sua opera per la prima volta fa il suo ingresso sul palcoscenico letterario un punto di vista femminile non aristocratico: l’autrice di Orgoglio e pregiudizio è, infatti, assai lontana dall’aura di privilegiata nobiltà che circonda, ad esempio, una Madame de Staël.

Giuseppe Canella, Piazza Luigi XVI a Parigi, olio su pannello, 1829 (Parigi, Museo Carnavalet).

Orgoglio e pregiudizio L’opera ancora oggi più celebre di Jane Austen è Orgoglio e pregiudizio, come testimoniano anche i numerosi adattamenti cinematografici e televisivi. Il romanzo ruota intorno alle vicende della famiglia Bennet, che vive a Longbourn, in Inghilterra, ed è composta dal padre (un pacifico signorotto di campagna), la madre e le cinque figlie, due delle quali già in età da marito. E trovare un marito alle figlie, alla bella e sensibile Jane e all’intelligente e spiritosa Elizabeth, è la principale preoccupazione della signora Bennet. Una nuova prospettiva si apre per lei quando nei pressi dell’abitazione dei Bennet, nella lussuosa dimora di Netherfield Park, si trasferisce il ricco scapolo Bingley, che s’innamora di Jane e ne è ricambiato. Ma un’improvvisa e inspiegabile partenza di Bingley per Londra rompe il rapporto tra i due, in un modo che sembra definitivo. Elizabeth, sempre molto incline a giudicare e sicura delle proprie opinioni, attribuisce la rottura fra Jane e Bingley a Darcy, un aristocratico amico di Bingley: questi, pur attratto da Elizabeth, ha sempre guardato alla famiglia Bennet con distacco e superiorità e i suoi modi sprezzanti hanno suscitato nella ragazza una forte avversione verso di lui.

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Ma nel tempo vi saranno diverse occasioni in cui Darcy avrà modo di mostrare a Elizabeth la sua vera natura di gentiluomo. Nel frattempo anche i malintesi tra Bingley e Jane vengono chiariti e i due si fidanzano, con grande gioia della signora Bennet. Ma la sua gioia diventa addirittura euforia quando Elizabeth, ormai del tutto ricredutasi sul conto di Darcy, accetta la sua proposta di matrimonio. Non può esserci conclusione migliore per un romanzo che si era aperto con il celebre incipit: «È cosa ormai risaputa che a uno scapolo in possesso di un’ingente fortuna manchi soltanto una moglie» (➜ T3 ). Le altre voci femminili del romanzo inglese Jane Austen inaugura un filone della moderna storia letteraria d’Europa, sul quale la seguiranno George Eliot (18191880), pseudonimo di Mary Ann Evans: Il mulino sulla Floss, 1860; Middlemarch, 1871-1872) e le sorelle Emily (1818-1848: Cime tempestose, 1847) e Charlotte Brönte (1816-1855: Jane Eyre, 1848) e che un secolo più tardi troverà pieno compimento nell’opera di Virginia Woolf. Tutte queste autrici sono accomunate dalla scelta, per le loro opere, di un’ambientazione prevalentemente provinciale (un mondo fino ad allora trascurato dalla letteratura) e dalla fine analisi psicologica dei rapporti che legano tra loro i personaggi. Charles Dickens Con l’opera di Charles Dickens (1812-1870: Il circolo Pickwick, 1836; Oliver Twist, 1838; David Copperfield, 1849-1850; Grandi speranze, 1860-1861, Tempi difficili, 1854; Il nostro comune amico, 1864) entriamo nel vivo del periodo vittoriano, un’epoca contraddistinta in Gran Bretagna da un fiorente progresso tecnico ed economico che però porta con sé anche un pesante bagaglio di problemi e contraddizioni. Proprio su questi lati negativi della moderna società industriale (che coinvolgono anche i bambini, sfruttati dall’implacabile legge del profitto) si soffermano spesso i romanzi di Dickens; non a caso, agli inizi della sua carriera, lo scrittore svolge a lungo un’attività di cronista giudiziario e giornalista, che contribuisce a formare in lui un’attenzione mai spenta per la realtà sociale, osservata con sguardo analitico. Con Dickens il realismo arriva a sfiorare gli ambiti della denuncia sociale, sia pure smorzata da una certa tendenza al sentimentalismo patetico.

Ritratto fotografico dello scrittore inglese Charles Dickens.

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Olof Johan Södermark, Henry Beyle, detto Stendhal, olio su tela, 1840 (Versailles, Palazzo).

In Francia: il romanzo durante la Restaurazione In Francia, già intorno agli anni Trenta del XIX secolo, il romanzo comincia ad aprirsi a un più diretto rapporto con la realtà contemporanea. È la Francia della Restaurazione, che vede il trionfo di una borghesia spesso gretta e bigotta, pronta ad anteporre le ragioni economiche agli ideali più nobili. In un panorama così scialbo e avvilente, dove le prospettive esistenziali appaiono quanto mai limitate, una rappresentazione fedele e spassionata della realtà deve per forza prendere atto del conflitto insanabile tra l’individuo e la società: il primo animato dall’entusiasmo e dagli slanci ideali della rivoluzione prima e del movimento romantico poi; la seconda bloccata nella palude di un conformismo squallido e opportunista. Come osserva Franco Moretti, nel mondo che si è venuto a creare una volta passata la bufera napoleonica, «gli interessi reali entrano in conflitto con gli ideali professati: il desiderio di libertà con l’aspirazione alla felicità; l’amore […] con la “carriera” intesa nel suo senso più alto. Tutto si sdoppia; a ogni valore se ne contrappone un altro di pari importanza». Uno sdoppiamento di valori di cui il soggetto si trova a essere ostaggio, impossibilitato com’è a compiere una scelta sicura e definitiva: i personaggi cui dà voce il nuovo romanzo realista francese non potranno che essere individui tormentati, insoddisfatti, eternamente in sospeso tra ciò che si vorrebbe essere e ciò che invece si deve essere. Il nuovo romanzo realista francese trova in Stendhal e Balzac i suoi maggiori esponenti, non a caso accomunati dalla particolare attenzione al legame profondo fra individuo e società: anche se inventati, i loro personaggi traggono sempre la propria veridicità dal nesso con una situazione storica specifica e con un ben preciso ambiente sociale. Mentre nei romanzi del primo Ottocento (come René di Chateubriand (➜ D1 , PAG. 486) si sviluppava un’analisi del personaggio essenzialmente sul piano introspettivo ed esistenziale, nel nuovo romanzo di impianto realista l’interiorità del personaggio viene messa in rapporto con un preciso contesto storico-sociale, che inevitabilmente la condiziona in modo profondo. Si tratta di una novità destinata a sviluppi ulteriori nel secondo Ottocento con la vera e propria corrente naturalista. Stendhal e la nascita del moderno Realismo Il primo e uno dei principali esponenti del nuovo romanzo realista francese è Henry Beyle (1783-1842), meglio conosciuto con lo pseudonimo di Stendhal. Nato a Grenoble nel 1873 da una famiglia dell’alta borghesia, Stendhal si trasferisce a Parigi, dove diventa membro del Ministero della Guerra. Nel 1800 segue le armate napoleoniche in Italia, che si trasforma per lui una seconda patria: in particolare è molto legato a Milano, dove vive fino al 1821 frequentando gli ambienti del Romanticismo lombardo. Chiusa l’epoca napoleonica, torna a Parigi alla ricerca di un impiego. Intanto si era dedicato allo scrivere, pubblicando Il rosso e il nero (1830), a cui seguirà La certosa di Parma (1839). Dopo aver soggiornato a Civitavecchia come console francese, muore a Parigi nel 1842. Il romanzo storico e realista 2 703


Più di qualsiasi altro autore contemporaneo, Stendhal esprime nei suoi romanzi la forza dirompente delle pulsioni individuali che si contrappongono alle rigide norme imposte dalla vita sociale. È proprio attraverso questo scontro che lo scrittore rappresenta con rigorosa precisione il mondo contemporaneo, servendosi di un linguaggio freddo e distaccato anche quando ci parla delle passioni umane più divoranti. Caratteristica del suo stile narrativo è una spiccata tendenza all’analisi: tutto ciò che viene fatto oggetto della sua narrazione (luoghi, persone, opinioni, sentimenti) è passato attraverso il vaglio di questa inesausta vena analitica, applicata tanto al vasto panorama della grande storia quanto ai più intimi recessi dell’interiorità. Basti pensare ai Ricordi d’egotismo (scritti nel 1832, ma pubblicati soltanto nel 1892), opera dichiaratamente autobiografica, che fin dal titolo rivela il proposito di studiare il mondo complesso dei moti dell’animo (con egotismo non si vuole tanto designare la propensione a porsi al centro del mondo, quanto la ferma intenzione di scrutarsi al solo fine di conoscersi). È un atteggiamento che l’autore non abbandonerà mai, anche a costo di mettere in luce aspetti ambigui e non propriamente positivi della propria psicologia. Infatti Stendhal mette qualcosa di sé in tutti i personaggi dei suoi libri, anche in quelli più odiosi e meschini: c’è un po’ di lui nella sfrenata ambizione di Julien Sorel, protagonista del romanzo Il rosso e il nero, così come nella passionalità istintiva e generosa di Fabrizio del Dongo nella Certosa di Parma. I sentimenti dei personaggi e le situazioni in cui vengono a trovarsi sono rappresentati da Stendhal in modo diretto e con un’esattezza spietata, senza reticenze né schermi di sorta. Insomma, con Stendhal il romanzo diventa un vero e proprio strumento di studio della realtà umana, con i suoi metodi e la sua precisa specificità, in modo analogo a quanto avviene in un laboratorio scientifico: possiamo dire che si inaugura con lui quel proficuo rapporto fra letteratura e scienza che nel Novecento porterà a esiti di altissimo valore. Non è un caso che un autore come Italo Calvino, che del dialogo con la scienza ha fatto uno dei capisaldi della propria poetica, abbia avuto sempre Stendhal fra i propri autori di riferimento. Il rosso e il nero Julien Sorel è un giovane ambizioso, di modeste origini. Grande ammiratore di Napoleone Bonaparte, grazie alla tenacia negli studi e alla mancanza di scrupoli riesce a elevare il suo status sociale, diventando precettore in casa di Monsieur de Rênal, sindaco conservatore di Verrières, nella Franca Contea; spinto dall’ambizione, ne conquista la moglie, Madame de Rênal, ma finisce per innamorarsene sul serio. Quando nel paese iniziano a spargersi delle voci e Rênal riceve una lettera anonima che lo informa dell’infedeltà della moglie, Julien decide di partire per la vicina Besançon e di entrare in seminario ➜ T5 . È assunto come segretario in casa del marchese de la Mole, la cui figlia Mathilde s’innamora di lui e ne è ricambiata. Quando Mathilde informa il padre della sua intenzione di sposare Julien, perché aspetta un figlio da lui, il marchese sospetta che Julien sia un cacciatore di dote, ma gli conferisce lo stesso un titolo e una rendita. Poco prima del matrimonio, una lettera di Madame de Rênal informa il marchese che Julien l’ha ingannata e che è un truffatore; ma la missiva è stata dettata dal nuovo curato di Verrières, che comunque riesce a convincere il marchese de la Mole. Vedendo infrangersi i suoi sogni e le sue speranze, Julien ritorna a Verrières e con un colpo di pistola ferisce Madame de Rênal, durante una funzione in chiesa. È imprigionato e condannato alla ghigliottina, nonostante i tentativi di Mathilde per salvarlo e l’affetto della stessa Madame de Rênal, che è sopravvissuta e che, colta dal rimorso, lo perdona. Dopo l’esecuzione, Mathilde seppellisce con le sue mani la testa di

704 Ottocento 17 Il romanzo europeo


Julien, emulando così la vicenda eroica e romantica del suo avo, Bonifazio de La Mole e della sua amante, da lei idolatrati. Madame de Rênal muore di disperazione tre giorni dopo. Balzac e La commedia umana Con Honoré de Balzac (1799-1850) siamo già nel pieno della stagione del romanzo realista. Proveniente da una famiglia borghese abbastanza agiata, Balzac, nato a Tours, compie gli studi prima nella città natale e poi a Parigi, dove si trasferisce con la famiglia nel 1814. Lavora come scrivano in uno studio notarile, ma a vent’anni scopre la vocazione letteraria, dedicandosi dapprima a opere di narrativa popolare non apprezzate dalla critica, tanto da spingerlo a intraprendere altre attività: diventa editore, stampatore e infine compra una fonderia di caratteri da stampa; ma tutte queste imprese si rivelano fallimentari, indebitandolo pesantemente. Nel 1829 pubblica per la prima volta un romanzo senza ricorrere a uno pseudonimo e riscuote finalmente un certo successo. A partire dal 1830 l’attività letteraria di Balzac diventa frenetica, tanto che in sedici anni arriva a scrivere circa novanta romanzi. I suoi primi successi di pubblico sono La pelle di zigrino (La peau de chagrin, 1831) e tre anni più tardi Papà Goriot (Le père Goriot, 1834). Nel 1842 Balzac decide di organizzare la sua opera monumentale in una specie di macrostruttura, dal titolo La commedia umana (La comédie humaine), un grandioso progetto di analisi della vita sociale e privata nella Francia della monarchia borghese di Luigi Filippo d’Orléans. Muore nel 1850, dopo un’esistenza vissuta come una continua rincorsa del successo e della visibilità sociale.

Lessico Naturalismo Corrente letteraria della seconda metà dell’Ottocento, che punta a utilizzare metodi analoghi a quelli delle scienze per descrivere la realtà sociale e psicologica.

Un’«opera mondo» La commedia umana, il monumentale progetto narrativo di Balzac iniziato nel 1829 e rimasto incompiuto, si articola in una serie di romanzi attraverso i quali l’autore passa al setaccio la società contemporanea, con tutte le sue miserie e le sue idiosincrasie, senza trascurare nessun ceto. Un progetto che qualche anno più tardi sarà ripreso da Zola, caposcuola del Naturalismo e, in Italia, da Giovanni Verga nel suo “Ciclo dei vinti”. Vera e propria «opera-mondo» che vuole dare voce, nella forma letteraria, alla complessa rete di rapporti e problemi che caratterizzano l’età contemporanea, La commedia umana avrebbe dovuto articolarsi in ben novantuno romanzi, suddivisi in tre insiemi principali: Studi di costumi (Études de moeurs), Studi filosofici (Études philosophiques) e Studi analitici (Études analytiques). A loro volta, gli Studi di costumi si suddividono in Scene della vita privata, Scene della vita di provincia, Scene della vita parigina, Scene della vita politica, Scene della vita militare, Scene della vita di campagna. Questo ambizioso progetto è sostenuto da una grande lucidità teorica. Nel 1836 Balzac scrive a Madame Hanska, la donna che gli rimarrà accanto fino alla morte: «Le Études de moeurs rappresenteranno tutti gli effetti sociali, senza che una situazione di vita, né una fisionomia, né un carattere di uomo o di donna, né un modo di vivere, né una professione, né una zona sociale, né un paese francese, né qualcosa dell’infanzia, della vecchiaia, dell’età matura, della politica, della giustizia, della guerra sia stato dimenticato […]. La seconda assise è costituita dalle Études philosophiques, giacché dopo gli effetti vengono le cause […], poi, dopo gli effetti e le cause, verranno le Études analytiques, che ricercano i principi». Il romanzo come strumento di analisi capillare della società Balzac procede dunque secondo un piano di lavoro articolatissimo e del tutto consapevole: nulla è lasciato al caso e il proposito implacabile che impera su questo lavoro ciclopico è Il romanzo storico e realista 2 705


quello dell’esaustività. Ogni singolo aspetto della compagine sociale deve passare attraverso il laboratorio dello scrittore, che saprà trovargli il posto più adeguato all’interno della sua opera. Non a caso Balzac afferma che il romanzo moderno deve essere il concorrente del codice civile, di cui deve avere lo stesso rigore e la stessa precisione nomenclatoria: ogni elemento ha un suo posto, un nome e una funzione.

Lessico feuilleton Romanzo d’appendice, cioè pubblicato a puntate su vari numeri di un giornale o di una rivista.

Lessico letteratura combinatoria Tecnica che consiste nell’offrire al lettore la possibilità di “scomporre” e “ricomporre” gli elementi narrativi, dando vita a interessanti esperimenti.

online

Per approfondire Eugénie Grandet

Il ricorrere dei personaggi in diversi romanzi L’espediente narrativo cui Balzac fa ricorso per dare compattezza a una compagine così vasta e variegata è lo stesso utilizzato anche dal feuilleton , che è arrivato poi fino a certa moderna narrativa commerciale: il ritorno, nei diversi romanzi, degli stessi personaggi, che il lettore impara a conoscere e a considerare come presenze note, amiche o nemiche. Si viene così a creare una sorta di mondo chiuso dove prima o poi tutti i personaggi si incontrano e di cui lo scrittore è non soltanto il cronista, ma anche il vero e proprio demiurgo, che manovra i destini delle sue creature. Nella Commedia umana ci sono alcune figure cardine delle quali, attraverso gli intrecci romanzeschi, è possibile seguire l’intera esistenza lungo l’arco di trenta o quarant’anni: ad esempio Rastignac, ma anche Vautrin, Du Marsay, Gobseck, d’Arthez, Bianchon. Il lettore viene così chiamato in prima persona a “costruire” il proprio romanzo, seguendo e riallacciando i fili delle varie trame esistenziali che vengono a intrecciarsi al suo interno. In un certo senso, nella Commedia umana possiamo leggere una sorta di esperimento antesignano di quella letteratura combinatoria che proprio in Francia, con lo sviluppo dello Strutturalismo, si affermerà nel secolo successivo. Tra i romanzi di Balzac si ritrovano alcuni degli indiscussi capolavori della narrativa ottocentesca, come Papà Goriot (➜ T6 ) ed Eugénie Grandet (➜ T7 OL). Papà Goriot Il romanzo Papà Goriot di Balzac si sviluppa essenzialmente attraverso tre ambienti: la pensione Vauquer, che ospita una variegata rassegna di personaggi – tra cui il protagonista – ciascuno dei quali avrà un qualche ruolo, maggiore o minore, nello svolgimento della trama; l’ambiente dell’alta finanza e infine quello dell’aristocrazia. Al centro della vicenda c’è la figura di papà Goriot, ricco commerciante a riposo, con due figlie, Anastasie e Delphine, sposate rispettivamente con un conte e con un banchiere. Egli le ama in un modo così totale e assoluto che per la loro felicità è pronto a dilapidare il suo patrimonio. Da parte loro, invece, le due ragazze lo vanno a trovare solo per ottenere i soldi necessari a soddisfare i propri capricci nella vuota e ipocrita società del tempo. La vicenda di Goriot si intreccia con quella di Eugène de Rastignac, un altro degli ospiti della pensione, che rappresenta il punto d’incontro tra i vari ambienti che interagiscono nell’economia del romanzo. Egli è un giovane ambizioso originario della provincia che, attratto dalle lusinghe dell’alta società parigina, trascura gli studi di giurisprudenza che lo hanno portato in città. È proprio l’ambizione che spinge Rastignac a sedurre donne altolocate, tra cui Delphine. Un ruolo di rilievo all’interno della vicenda è poi quello del signor Vautrin, che simboleggia quanto vi è di più negativo nel mondo borghese. Egli tenta di iniziare Eugène al male, spiegandogli come raggiungere i propri scopi con mezzi disonesti, mettendo da parte ogni scrupolo. Il romanzo si conclude con la morte di papà Goriot, ucciso non solo dall’età, ma anche dalle privazioni che si è imposto per amore delle figlie.

706 Ottocento 17 Il romanzo europeo


Il romanzo storico e realista ROMANZO STORICO

• interesse per la storia (rappresentata in rievocazioni “d’atmosfera” e talvolta anche per stereotipi) • gusto per le vicende avventurose

ROMANZO REALISTA

• realtà contemporanea vista sotto vari aspetti, anche problematici • analisi sociale • rapporto conflittuale individuo-società

Fissare i concetti La diffusione del romanzo realista in Inghilterra e in Francia 1. Quali sono le principali voci del romanzo realista inglese? 2. Su quale particolare ambiente sociale si focalizzano le opere di Jane Austen? 3. In che modo il contesto della Restaurazione influenza lo sviluppo del romanzo realista francese? 4. In che modo lo studio della realtà umana viene affrontato rispettivamente da Stendhal e da Balzac? 5. Che cos’è La commedia umana e quale progetto Balzac si propone di realizzare con quest’opera?

Jane Austen

L’orizzonte esistenziale di un’anziana coppia di borghesi campagnoli

T3

EDUCAZIONE CIVICA

nucleo Costituzione competenza 3

PARITÀ DI GENERE equilibri #PROGETTOPARITÀ

Orgoglio e pregiudizio, I Quello che segue è il capitolo d’esordio del capolavoro di Jane Austen, Orgoglio e pregiudizio. La trama si sviluppa attorno alle vicende delle cinque sorelle Bennet e in particolare di Elizabeth, descrivendo i loro sforzi per costruirsi un futuro attraverso il matrimonio; in queste pagine d’apertura, però, esse non compaiono e la scena è interamente occupata dal dialogo tra i loro genitori.

J. Austen, Orgoglio e pregiudizio, introduzione di S. Poledrelli, trad. di M. La Russa, Feltrinelli, Milano 2011

5

È cosa ormai risaputa che a uno scapolo in possesso di un’ingente fortuna manchi soltanto una moglie. Questa verità è così radicata nella mente delle famiglie del luogo che, nel momento in cui un simile personaggio viene a far parte del vicinato, prima ancora di conoscere anche 10 lontanamente i suoi desideri in proposito, viene immediatamente considerato come proprietà legittima di una o l’altra delle loro figlie. «Mio caro Mr Bennet», disse un giorno una signora al marito, «hai saputo che Netherfield Park è stato final15 mente affittato?». Il signor Bennet dichiarò di non saperlo. «Ormai non c’è dubbio,» ribatté la signora, «Mrs Long è appena stata lì e mi ha raccontato ogni cosa». Mr Bennet non rispose. 20 «Non vuoi sapere chi lo ha preso?» riprese sua moglie impaziente.

Edmund Blair Leighton, Una domenica mattina di pioggia, olio su tela, 1896 (Collezione privata).

Il romanzo storico e realista 2 707


1 un tiro a quattro: una vettura trainata da quattro cavalli, indizio certo di benessere economico.

«Sei tu che vuoi dirmelo, e non ho niente in contrario a sentirlo». Questo incoraggiamento fu sufficiente. «Dunque, mio caro, devi sapere che Mrs Long dice che Netherfield è stato affittato a 25 un ricchissimo giovane dell’Inghilterra del Nord, che è arrivato lunedì con un tiro a quattro1 per vedere il posto e ne fu talmente affascinato da prendere subito accordi con Mr Morris; prenderà possesso della proprietà prima di San Michele e parte della sua servitù arriverà per la fine della settimana ventura». «Qual è il suo nome?». 30 «Bingley». «È sposato o scapolo?». «Oh, scapolo, caro, a onor del vero! Un uomo libero e, per di più, ricchissimo: quattro o cinquemila sterline di rendita. Che fortuna per le nostre ragazze!». «Per quale motivo? Cosa c’entrano loro?». 35 «Mio caro Bennet!» replicò la moglie. «Come puoi essere noioso! Puoi immaginare che spero ne sposi una, no?». «È questo il suo intento nello stabilirsi qui?». «Intento? Sciocchezze! Come puoi parlare così? Nessuno però gli può impedire di innamorarsi di una di loro e di sposarla; motivo per il quale devi fargli visita ap40 pena arriva». «Non ne vedo la ragione. Puoi andare tu con le ragazze, o, cosa ancora migliore, puoi mandarle da sole, dato che non sei meno graziosa di loro. Mr Bingley potrebbe addirittura preferire te». «Mio caro, tu vuoi adularmi. Non nego di essere stata assai graziosa in passato, ma 45 non pretendo di essere adesso qualcosa di straordinario. Quando una donna è madre di cinque figliole in età da marito, deve rinunciare a pensare alla propria bellezza». «Questo accade solo nei casi in cui alla donna non ne resti più molta». «Ti ripeto, mio caro, che quando Mr Bingley diventerà nostro vicino, sarà tuo dovere andare a conoscerlo». 50 «Mi stai chiedendo un po’ più di quanto possa prometterti, te lo assicuro». «Ma pensa alle nostre figlie! Considera che partito sarebbe per una di loro! Sir William e Lady Lucas si sono decisi a fargli visita unicamente a questo scopo, dato che, in genere, come ben sai, non si recano dai nuovi arrivati. Davvero dovrai andare anche tu, perché a noi sarebbe impossibile farlo, se tu non ci hai precedute». 55 «Ti fai troppi scrupoli. Sono certo che Mr Bingley sarà felicissimo di conoscerti; e io, da parte mia, gli invierò due righe, a mezzo tuo, per assicurarlo del mio cordiale consenso a sposare quale delle mie figliole vorrà scegliere, sebbene avrò premura di mettere una buona parola per la mia piccola Lizzy». «Spero che non farai una cosa simile. Lizzy non vale più delle altre, è bella la metà 60 di Jane e non ha certo il carattere brioso di Lydia. Ma tu hai sempre avuto una preferenza per lei». «Nessuna di loro vale molto», replicò Mr Bennet, «sono tutte sciocchine e ignoranti come le altre ragazze; ma Lizzy è un po’ più acuta delle sorelle». «Come puoi insultare così le tue stesse figlie? Provi piacere a indispettirmi. Non hai 65 nessuna pietà dei miei poveri nervi». «Ti sbagli, mia cara. Ho un grande rispetto per i tuoi nervi. Sono miei vecchi amici. Ne parli accoratamente da almeno vent’anni». «Ah! Tu non hai davvero idea di quanto io soffra».

708 Ottocento 17 Il romanzo europeo


«Ma spero che riuscirai a resistere alle tue sofferenze e che vivrai abbastanza a lungo da vedere stabilirsi nei dintorni molti giovani con quattromila sterline di rendita». «A cosa servirebbe dato che, dovessero venirne venti, tu non ti degneresti di far loro visita?». «Rassicurati, cara, che quando saranno venti, andrò a far visita ad ognuno di loro». Mr Bennet era un tale impasto di vivacità e sarcasmo, di riservatezza ed esuberanza, 75 che ventitré anni di vita assieme non erano bastati alla moglie per comprenderne il carattere. Il suo, invece, era meno difficile da capire. Era una donna di intelligenza mediocre, poco colta e di carattere volubile. Quando era scontenta, si immaginava di essere nervosa. Il più grande obiettivo della sua vita era di far sposare le figlie; il suo unico passatempo era costituito dalle visite e dai pettegolezzi. 70

Analisi del testo Una scena da salotto: il ruolo della conversazione Nel breve capitolo di apertura di Orgoglio e pregiudizio si trovano concentrate alcune delle tematiche più importanti nella narrativa di Jane Austen: attraverso il vivace scambio di battute tra i due coniugi, magistralmente orchestrato dall’abile vena narrativa dell’autrice, il lettore può gettare uno sguardo nel mondo limitato e ristretto della borghesia rurale inglese di fine Settecento. Innanzitutto emerge nel testo la dimensione della conversazione, che nella Austen diventa tessuto fondante di ogni sviluppo narrativo: situazioni come quella del brano proposto sono frequentissime nei suoi romanzi, tutti costruiti sulla difficile arte di comunicare all’interno di un consesso sociale che, dietro lo schermo di un’apparente leggerezza, è in realtà regolato da norme ed equilibri delicatissimi, che è indispensabile rispettare. Il salotto è così il vero e proprio teatro in cui vanno in scena le piccole “avventure” della vita borghese.

Il tema del matrimonio C’è poi il tema del matrimonio, che viene rappresentato sia nello stadio consolidato di una coppia già matura, sia (per quanto riguarda le figlie della coppia) come progetto, o meglio speranza. Dalle parole della signora Bennet capiamo che il matrimonio, nel contesto sociale e antropologico a cui il romanzo fa riferimento, costituisce il principale orizzonte esistenziale nel futuro delle ragazze: si tratta di una prospettiva così importante da coinvolgere tutta la famiglia nei suoi tentativi per realizzarla (da notare che tutte le opere della Austen sono romanzi familiari, i cui interpreti sono legati fra loro da rapporti di parentela, già esistenti o solo auspicati). Il matrimonio è, nella Austen, un tema dalle profonde implicazioni economiche e sociali: per una giovane donna nell’Inghilterra di fine Settecento contrarre un matrimonio vantaggioso è infatti l’unico modo per assicurarsi una certa autonomia e una posizione accettabile in seno alla società.

Il denaro, croce e delizia Altro tema fondante, che emerge dal dialogo tra i due coniugi, è quello del denaro. Il “dossier informativo” che la signora Bennet ha saputo abilmente raccogliere su Bingley ruota tutto attorno al dato economico: di lui sappiamo, come prima cosa, che è «ricchissimo», poi che è arrivato «con un tiro a quattro» e che è fornito di una congrua servitù, fino a giungere all’informazione precisa del suo patrimonio: «quattro o cinquemila sterline di rendita». Quella della signora Bennett (così come quella di tante altre madri nei romanzi della Austen) non è semplice avidità: per la società borghese dell’Inghilterra di fine Settecento, che ha assistito con orrore alla rivoluzione d’oltremanica e guarda con timore e sospetto a qualsiasi elemento che possa turbare il sogno di un mondo ordinato e sicuro, un matrimonio economicamente solido rappresenta una garanzia di stabilità ed equilibrio per l’intera compagine sociale. Siamo assai lontani dai turbamenti e dai fremiti dell’amore romantico: non è questo ciò che cercano le eroine della Austen e nemmeno le loro trepide madri, che sono pronte a tutto pur di assicurare alle figlie un futuro senza scosse. Non a caso il critico contemporaneo Franco Moretti ha scritto che in questo genere letterario le storie devono sempre concludersi con dei matrimoni, perché «non è solo la fondazione dell’istituto familiare, ad essere in gioco, ma quel patto tra individuo e mondo, quel consenso reciproco che trova nel doppio “sì” della formula nuziale insuperata concentrazione simbolica».

Il romanzo storico e realista 2 709


Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

COMPRENSIONE 1. Spiega il significato dell’incipit del romanzo e rifletti sul tono con cui è enunciato. 2. Quale desiderio, mal celato, è al centro del dialogo fra Mr. Bennet e sua moglie?

Interpretare

SCRITTURA 3. Definisci brevemente quali sono i princìpi dominanti nell’educazione che la signora Bennet impartisce alle figlie. Il suo atteggiamento ti sembra in linea con quello del marito?

EDUCAZIONE CIVICA

PARITÀ DI GENERE equilibri

nucleo

#PROGETTOPARITÀ

Costituzione

4. Che cosa si può dedurre dal testo sul ruolo del padre nell’educazione dei figli? E sul ruolo della donna all’interno della società inglese dell’Ottocento?

competenza 3

SCRITTURA ARGOMENTATIVA 5. Secondo l’interpretazione di Franco Moretti, la centralità del matrimonio nelle opere della Austen, così come di molti altri romanzieri inglesi contemporanei, è legata a quella che potremmo definire una “paura sociale”. Quale evento storico ha contribuito a creare questo sentimento? Argomenta le tue opinioni, poi allarga la riflessione al ruolo del matrimonio nel mondo contemporaneo.

online T4 Jane Austen

Lo scontro tra Lizzy e Lady Catherine Orgoglio e pregiudizio, III, LVI

Stendhal

T5

LEGGERE LE EMOZIONI

Le scelte opportunistiche di Julien Sorel, un giovane ambizioso cresciuto nel mito di Napoleone Il rosso e il nero, cap. V

Stendhal, Il rosso e il nero, a cura di A. Cappi, trad. di M. Bontempelli, Newton Compton, Milano 1994

Pubblicato nel 1830, Il rosso e il nero offre un magnifico affresco dell’epoca post-napoleonica.

D’un tratto Julien cessò di parlare di Napoleone; annunciò che aveva risolto1 di farsi prete, e lo si vide costantemente, sotto la tettoia del padre, occupato a mandare a memoria una Bibbia latina che il curato gli aveva prestata. Il buon vecchio, stupito de’ suoi progressi, passava serate intere a insegnargli la teologia. Julien non mani5 festava davanti che sentimenti di pietà. Chi avrebbe potuto indovinare che quella figura di giovinetto, così pallida e così dolce, chiudeva in sé la risoluzione2 irremovibile di esporsi a mille morti piuttosto di rinunciare a far fortuna! Per Julien fare fortuna era anzitutto uscire da Verrières3; odiava il suo paese. Tutto ciò che vi vedeva gelava la sua immaginazione. 10 Fin dalla prima adolescenza aveva avuto momenti di esaltazione. Allora pensava con delizia che un giorno si sarebbe trovato al cospetto delle belle donne di Parigi e che avrebbe saputo destare la loro attenzione con qualche atto clamoroso. Perché non sarebbe riuscito a farsi amare da una di loro, come Bonaparte, povero ancora, era stato amato dalla brillante signora di Beauharnais? Da molti anni Julien non passava, 15 si può dire, un’ora della sua vita senza dirsi che Bonaparte, tenente oscuro e povero, s’era fatto padrone del mondo con la sua spada. Quest’idea lo consolava delle sue sventure che gli parevano grandi, e raddoppiava le sue gioie quando ne aveva.

1 risolto: deciso.

710 Ottocento 17 Il romanzo europeo

2 risoluzione: decisione.

3 Verrières: è il paese natale di Julien.


La costruzione della chiesa e le sentenze del giudice4 lo illuminarono d’un tratto; un’idea che gli venne lo rese come pazzo per qualche settimana, e finalmente5 20 s’impadronì di lui con tutta la forza della prima idea che un’anima appassionata crede d’aver inventata. «Quando Bonaparte fece parlare di sé, la Francia aveva paura di essere invasa; il valore militare era necessario, e di moda. Oggi si vedono preti di quarant’anni provvisti di centomila lire di assegno6, cioè del triplo dei famosi generali di divisione di 25 Napoleone. Occorron loro persone che li assecondino. Ecco qui il giudice, uomo di tanto senno, che finora s’è mantenuto tanto onesto, ed è così vecchio; e si disonora per paura di dispiacere a un vicario di trent’anni. – Bisogna esser prete7». 4 La costruzione… del giudice: poco prima Stendhal aveva spiegato che Verrières si stava fabbricando una chiesa magnifica, sproporzionata per un paese così piccolo; nello stesso tempo, il giudice aveva rischiato di perdere il posto per essere entrato in polemica con il giovane

vicario, sospettato di essere una spia dei conservatori, e in seguito aveva emesso numerose sentenze sfavorevoli a cittadini più progressisti. Tutti segni dei tempi cambiati, agli occhi del giovane e ambizioso Sorel. 5 finalmente: alla fine.

6 assegno: riferimento alle ricche prebende di cui godevano gli ecclesiastici.

7 Bisogna esser prete: la secca e risoluta affermazione di Julien racchiude tutto il suo progetto di vita, interamente improntato all’ambizione più sfrenata.

Analisi del testo Il mito di Napoleone Il senso di cocente disillusione che domina il contesto storico nel quale è ambientato il romanzo è rappresentato nel personaggio di Julien Sorel, giovane di umili origini, pieno di talento ma soprattutto divorato dall’ambizione e disposto a qualunque finzione o compromesso pur di riuscire nel proprio intento di avanzata sociale. Cresciuto con il mito di Napoleone, Julien non esita però a mettere da parte il proprio eroe e il modello militaresco da lui proposto non appena si accorge che nel mondo attuale la carriera ecclesiastica è molto più conveniente e “di moda”. Quando entrerà, in veste di istitutore, in casa del reazionario Rênal, il ritratto del suo eroe Bonaparte, che egli porta sempre con sé come una sorta di portafortuna, finirà nascosto sotto il materasso, perché nessuno scopra il suo passato di fervente ammiratore del generale: un gesto che diventa quasi l’emblema della sua esistenza, tutta costruita sull’opportunismo e l’ipocrisia.

Un romanzo di impianto realista In questo episodio si possono ravvisare alcuni dei tratti che caratterizzano il romanzo di impianto realista: il rilievo conferito alla rappresentazione storica di un’epoca e la cruda analisi dei sentimenti dei personaggi, che fanno del romanzo uno strumento di studio della realtà umana. L’ipocrisia e l’ambizione sfrenata di Julien Sorel sono delineati, infatti, senza infingimenti. Le parole di Stendhal riferite al giovane sono nette «chiudeva in sé la risoluzione irremovibile di esporsi a mille morti piuttosto di rinunciar a far fortuna!» (rr. 6-7).

Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

COMPRENSIONE 1. Quali sono le motivazioni che inducono Julien a intraprendere la carriera ecclesiastica? ANALISI 2. Dal brano del romanzo Il rosso e il nero appena letto quanto puoi intuire degli aspetti della figura di Napoleone che maggiormente affascinano Julien? STILE 3. Individua nel testo gli elementi che caratterizzano lo stile di Stendhal come lineare e di taglio giornalistico.

Interpretare LEGGERE LE EMOZIONI

SCRITTURA 4. Il progetto di vita di Julien Sorel è improntato alla rinuncia dei propri ideali in nome dell’ambizione. Come giudichi il suo comportamento? Credi che l’ipocrisia di Julien sia lo specchio dell’ambiente sociale in cui vive? Faresti le medesime scelte?

Il romanzo storico e realista 2 711


Honoré de Balzac

T6

La costruzione di un ambiente e di un microcosmo sociale: la pensione Vauquer Papà Goriot, I

H. de Balzac, Papà Goriot, trad. di E. Klersy Imberciadori, Garzanti, Milano 2015

La pensione Vauquer (dal nome della donna che la gestisce) è il principale teatro dell’azione romanzesca di Papà Goriot, mentre “gli attori” hanno le sembianze della varia umanità che ne costituisce la clientela, tanto di pensionanti quanto di habitués del vicinato che vi si recano soltanto a pranzare: Mademoiselle Michonneau, Victorine Taillefer, Madame Couture, Poiret, Bianchon, Vautrin, Eugène de Rastignac e lo stesso papà Goriot. Quello che segue è il brano d’apertura del romanzo, dove Balzac traccia con analitica precisione le coordinate ambientali dell’opera che sta cominciando, connotandole molto chiaramente in senso sociale.

La signora Vauquer, nata de Conflans, è una donna anziana che da quarant’anni tiene a Parigi una pensione familiare situata in via Neuve-Sainte-Geneviève, tra il Quartiere latino e il Faubourg1 Saint-Marceau. La pensione, nota come Casa Vauquer, accetta sia uomini che donne, giovani e vecchi, senza che i costumi di questa 5 rispettabile istituzione abbiano mai prestato il fianco alla maldicenza. […] La facciata, alta tre piani e sormontata da mansarde, è costruita in pietra e intonacata di quel colore giallo che dà un’aria volgare a quasi tutte le case di Parigi. Le cinque finestre che si aprono a ogni piano hanno piccoli riquadri a vetri e sono 10 munite di gelosie2, nessuna delle quali è sollevata come le altre3, tanto che tutte le loro linee risultano sfalsate. Nel senso della profondità, la casa ha due finestre4 ornate a pianterreno da grate di ferro. Dietro l’edificio c’è un cortile largo circa venti piedi5, dove vivono in armonia maiali, galline, conigli, e che ha una rimessa6 sul fondo. Tra la rimessa e la finestra della cucina sta appesa la moscaiola7 sotto cui 15 finisce l’acqua sporca del lavello. Il cortile si apre sulla rue Neuve-Sainte-Geneviève con una porticina da cui la cuoca butta le immondizie di casa, ripulendo quella sentina8 a forza d’acqua per non rischiare una pestilenza9. Il pianterreno, naturalmente riservato alla pensione, si compone di una prima stanza, illuminata dalle due finestre della strada, a cui si accede da una porta-finestra. 20 Questo salotto comunica con la stanza da pranzo, separata dalla cucina tramite la tromba di una scala coi gradini di legno e di mattonelle colorate e lucidate. Non c’è spettacolo più triste di quel salotto ammobiliato con poltrone e sedie coperte di stoffa a righe alterne opache e lucide. Nel mezzo c’è un tavolo rotondo con un piano di marmo di Sainte-Anne10 ornato da uno di quei vassoi di porcellana bian25 ca profilata d’oro semisbiadito che oggi si trovano dappertutto. La stanza, con un impiantito11 malconcio, è rivestita di legno fino all’altezza del gomito. Il resto delle

1 il Faubourg: il sobborgo. 2 gelosie: persiane. 3 sollevata come le altre: allineata con

5 venti piedi: circa sei metri e mezzo. 6 rimessa: deposito per la legna o per at-

le altre. 4 Nel senso... due finestre: la casa è profonda la larghezza di due finestre.

7 moscaiola: dispensa per mantenere i

screziato di bianco.

generi alimentari aerati e al riparo da mosche e altri insetti.

11 impiantito: pavimento.

712 Ottocento 17 Il romanzo europeo

trezzi vari.

8 sentina: canale di scolo, cloaca. 9 una pestilenza: il diffondersi del fetore. 10 marmo di Sainte-Anne: marmo grigio


pareti è tappezzato di una carta lucida che raffigura le principali scene del Telemaco12, con i suoi classici personaggi a colori. Il pannello tra le due finestre a inferriate presenta ai pensionanti il quadro del festino offerto da Calipso al figlio di Ulisse. 30 Da quarant’anni il dipinto provoca le battute di spirito dei giovani pensionanti, che s’immaginano di sentirsi superiori alla loro condizione scherzando sul pasto a cui la miseria li condanna. Il caminetto in pietra, il cui focolare sempre pulito sta a dimostrare che vi si accende il fuoco solo nelle grandi occasioni, si fregia di due vasi pieni di fiori artificiali, ormai vecchi e accartocciati, che inquadrano una 35 pendola di marmo bluastro di pessimo gusto. Da questa prima stanza esala un odore indefinibile, che si potrebbe chiamare odore di pensione. Sa di rinchiuso, di ammuffito, di rancido; dà una sensazione di freddo, di umido al naso, penetra negli abiti; sa di stanza dove si è cenato, puzza di servizio, di dispensa, di ospizio. Si potrebbe forse descrivere se s’inventasse un procedimento per misurare le particelle 13 40 elementari e nauseabonde che vi diffondono le emanazioni catarrali e sui generis di ogni pensionante, giovane o vecchio. Ebbene! Nonostante questi mediocri orrori, se paragonaste questa stanza all’attigua sala da pranzo, la trovereste elegante e profumata come si addice a un boudoir14. Interamente rivestita di legno, la stanza da pranzo era stata dipinta in passato di un colore oggi indistinto, sul cui sfondo 45 strati di sporcizia hanno delineato strane figure. Su credenze appiccicose, lungo le pareti, sono posate caraffe sbreccate, opache, dischi di metallo marezzato15, pile di piatti di spessa porcellana a bordi blu, fabbricati a Tournai. In un angolo c’è una cassetta a scomparti numerati che serve per tenere i tovaglioli, macchiati di vino o d’altro, di ogni pensionante. I mobili sono di quelli indistruttibili, ovunque pro16 50 scritti, ma piazzati lì come i rottami della civiltà agli Incurables . Potreste vedere un barometro con il frate cappuccino che esce quando piove, orribili stampe che tolgono l’appetito, tutte incorniciate di legno verniciato filettato d’oro; un orologio a muro di tartaruga con motivi di rame; una stufa verde, delle lampade d’Argand17 dove la polvere si combina con l’olio, un lungo tavolo coperto di tela cerata talmen55 te unta che un pensionante esterno in vena di burle vi potrebbe scrivere il nome servendosi di un dito a mo’ di stilo, sedie zoppicanti, logori tappetini di sparto18 che si sfilaccia sempre senza mai consumarsi, e inoltre miseri scaldapiedi con i buchi rotti, le cerniere sgangherate, e il legno che si carbonizza. Per spiegare come questo mobilio sia vecchio, screpolato, marcio, traballante, corroso, monco, orbo, 60 invalido, agonizzante, se ne dovrebbe fare una descrizione che ritarderebbe troppo la parte interessante della nostra storia e che i lettori frettolosi non perdonerebbero. Il pavimento di mattonelle è pieno di avvallamenti prodotti dallo sfregamento o dalla lucidatura. Vi regna insomma la miseria senza poesia; una miseria parsimoniosa, concentrata, logora. Se ancora non è insozzata, ha però delle macchie; se non ha 65 buchi, né stracci, non ci vorrà molto perché imputridisca.

12 Telemaco: opera di Fénelon (16511715), moralista francese autore di opere pedagogiche, fra cui appunto Le avventure di Telemaco, il figlio di Ulisse e Penelope, protagonista dei primi quattro libri dell’Odissea.

13 sui generis: caratteristiche, proprie. 14 boudoir: elegante salottino per signora.

15 marezzato: con chiazze e striature irregolari.

16 Incurables: l’ospizio degli Incurabi-

li accoglieva malati, ma anche vecchi e indigenti. 17 lampade d’Argand: tipo di lampada ad olio brevettato da Aimé Argand nel 1780. 18 sparto: pianta graminacea la cui fibra è utilizzata per produrre cordami e stuoie.

Il romanzo storico e realista 2 713


Analisi del testo Un narratore onnisciente, dal punto di vista percepibile Fin dalle prime battute del romanzo, è evidente che il narratore di Papà Goriot condivide lo stesso statuto di onniscienza che aveva caratterizzato il romanzo storico classico. L’ambiente della pensione Vauquer è descritto con una precisione e una completezza che possono appartenere soltanto a chi la stia guardando dall’esterno, da un punto di vista che consente di cogliere anche i particolari più minuti. Ma la narrazione non è del tutto distaccata e oggettiva: lo sguardo del narratore lascia intravedere la sua valutazione sull’ambiente che farà da sfondo al romanzo. Qualche esempio: l’esterno della pensione non è semplicemente “giallo”, ma di «quel colore giallo che dà un’aria volgare a quasi tutte le case di Parigi» (r. 8); del salotto si dice che «non c’è spettacolo più triste», con la sua mobilia consunta e modesta; la pendola di marmo bluastro viene definita «di pessimo gusto» e tutto l’ambiente viene riassunto come un insieme di «mediocri orrori». Sono tutte espressioni che presuppongono un giudizio netto e preciso da parte di chi scrive, il quale non ha alcuna remora a farlo pervenire al lettore, anzi, considera una parte sostanziale del proprio lavoro il farsene veicolo. Padre del realismo moderno, Balzac non è tuttavia ancora arrivato al metodo dell’impersonalità, che sarà il principio fondante della poetica di Flaubert e soprattutto dei naturalisti.

La precisione mai soddisfatta di uno sguardo implacabilmente realista La prima cosa che colpisce nella lettura di questo brano è senza dubbio la scrupolosa accuratezza con cui si cerca di rendere ogni minimo particolare, ogni dettaglio, ogni sfumatura, senza tralasciare nulla. Il realismo di Balzac sembra aver fatto propria la consapevolezza che la realtà sia troppo ricca e complessa per potersi esaurire entro lo spazio limitato di un’opera letteraria, per quanto di ampio respiro. Oggetti, forme, colori, impressioni non possono essere semplicemente nominati: ciò significherebbe restituirne al lettore soltanto una pallida ombra. Essi dovranno essere sviscerati, presentati più volte e da punti di vista differenti, inseriti in una rete di relazioni che dia loro uno spessore storico e sociale: la realtà cui Balzac dà voce non è mai univoca e monodimensionale. Ad esempio, prendiamo in considerazione il passo in cui si descrive la sala principale della pensione. Dopo un paio di righe puramente informative, che assegnano al locale una collocazione precisa nell’architettura dell’edificio, il narratore si espone con una nota di giudizio («Non c’è spettacolo più triste di questo salotto», rr. 21-22) che toglie al passo che segue qualsiasi pretesa di oggettività: a questo punto le «poltrone e sedie coperte di stoffa a righe» non sono più soltanto semplici pezzi di mobilia, ma diventano il segno tangibile della povertà senza redenzione che domina l’ambiente. Leggendo, automaticamente andiamo oltre la mera immagine dell’oggetto descritto e ne percepiamo l’umile ruvidezza, l’odore di stantio, intuiamo i sacrifici che sono stati necessari per acquistarlo e la vita grama che vi si svolge attorno. Allo stesso modo, basta il particolare del vassoio che pretende di abbellire il tavolo rotondo di marmo, «uno di quei vassoi di porcellana bianca profilata d’oro semisbiadito, che oggi si trovano dappertutto», per proiettare la sala della pensione Vauquer in un contesto economico e sociale più vasto, di cui essa è parte e immagine: il mondo della piccola borghesia che si arrabatta per darsi un contegno, ammantandosi di una parvenza di benessere e rispettabilità fatta di suppellettili dozzinali e falsamente lussuose.

Il triste “odore” della piccola borghesia Ma il passo in cui emerge con maggiore evidenza questo carattere di connaturata inesaustività del realismo balzachiano è quello dedicato all’odore che pervade la sala della pensione Vauquer, «l’odore di pensione» sul quale il narratore si sofferma per parecchie righe, utilizzandolo anche come aggancio per introdurre nel dato puramente ambientale l’elemento umano, con il riferimento alle «emanazioni catarrali e sui generis di ogni pensionante». Che cos’è più evanescente e immateriale di un odore? Sembrerebbe il particolare meno adatto a chi voglia realizzare una descrizione oggettiva, saldamente ancorata alla realtà. E invece Balzac vi dedica moltissimo spazio, soffermandosi sulle minime sfaccettature delle sensazioni olfattive che colpirebbero un ipotetico visitatore della pensione Vauquer: è come se volesse far entrare quell’ambiente nelle nostre fibre, perché rimanga impresso nella nostra memoria di lettori a un livello assai più profondo di quello della semplice verbalizzazione, insufficiente a rendere in modo adeguato la realtà.

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Il «realismo atmosferico» di Balzac Il critico Erich Auerbach parla per Balzac di «realismo atmosferico», intendendo con questo che il romanziere francese non descrive con precisione le cose solo per una volontà documentaria, per realizzare una fotografia di ambienti e personaggi: al contrario, egli vuole andare oltre la superficie materiale delle cose, per coglierne il senso profondo, che è ciò che le rende elementi partecipi di un preciso contesto storico, antropologico, culturale e sociale. «Ogni spazio si tramuta per lui in un’atmosfera morale e sensibile di cui s’imbevono il paesaggio, la casa, i mobili, le suppellettili, gli abiti, i corpi, il carattere, il comportamento, il sentire, l’agire e la sorte degli uomini, e in cui poi la situazione storica generale a sua volta appare come un’atmosfera totale abbracciante tutti i singoli spazi di vita». Un realismo totale e pervasivo, quello di Balzac, che sembra quasi non potersi accontentare dello spazio offerto dalla pagina scritta.

Un ambiente calato nel tempo e nello spazio Uno dei pilastri della poetica di Balzac, nonché uno dei principi cardine del romanzo moderno che proprio con lui si inaugura, è la stretta correlazione istituita dallo scrittore francese tra i suoi personaggi, gli ambienti che prendono vita nelle sue pagine e un contesto storico e sociale ben preciso e definito: «[Balzac] non soltanto […] ha collocato gli uomini, di cui con serietà narra la sorte, nella loro cornice storica e sociale esattamente circoscritta, ma ha inoltre inteso questo legame come necessità» (Auerbach). Per calare questo principio nel testo proposto, lo squallore e la miseria della pensione Vauquer non sarebbero pensabili al di fuori della gretta mentalità borghese dominante nella Francia orléanista, della quale essi diventano simbolo ed espressione e che si rispecchia in ogni particolare portato sulla pagina; al di fuori di quella realtà specifica, la descrizione di Balzac perderebbe qualsiasi valore di connotazione.

Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

SINTESI 1. Individua le parti di Casa Vauquer descritte nel brano proposto e sintetizzane la descrizione in max 4 righe ciascuna. COMPRENSIONE 2. Spiega con parole tue l’espressione «miseria senza poesia» alla r. 63 del brano. ANALISI 3. Individua gli oggetti che fanno del pianterreno della pensione Vauquer un luogo simbolo della borghesia parigina dell’epoca.

Interpretare

online T7 Honoré de Balzac

SCRITTURA 4. Nel brano non compare ancora alcun personaggio se non, attraverso un breve accenno, la proprietaria della pensione; tuttavia la descrizione di Casa Vauquer fa già immaginare i suoi frequentatori. Sulla base degli indizi presenti nella descrizione, delinea quelle che pensi possano essere le caratteristiche essenziali dei pensionanti della signora Vauquer (max 10 righe).

La costruzione di un personaggio: il signor Grandet Eugénie Grandet, I

Honoré de Balzac, ritratto del 1842 di Louis-Auguste Bisson (Parigi, Maison de Balzac).

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Verso il Naturalismo: Madame Bovary 1 Gustave Flaubert L’autore Con l’opera di Gustave Flaubert il romanzo francese affronta un’ulteriore svolta, avviandosi sulla strada del Naturalismo. Flaubert nasce nel 1821 a Rouen, in Normandia, da una famiglia borghese. Il padre è un celebre chirurgo. Avviato dalla famiglia alla carriera giuridica, Gustave interrompe gli studi universitari per disturbi nervosi che lo affliggeranno anche in seguito. Decide di stabilirsi a Croisset, nella casa di campagna della famiglia, e di dedicarsi esclusivamente alla letteratura: il suo primo romanzo è L’educazione sentimentale (il titolo sarà poi ripreso in una nuova versione, pubblicata nel 1869). Tra il 1845 e il 1851 viaggia molto (in Italia, Grecia e in Oriente), seguendo l’attrazione per un mondo diverso dalla sonnolenta vita della provincia. Nel 1851 inizia la stesura di Madame Bovary, il suo capolavoro, pubblicato in volume nel 1857, che gli costa un processo per immoralità, da cui viene però assolto. Il fascino dell’esotico e del lontano si esprime in Salammbô (1862), che lo consacra autore alla moda, stimato da letterati e intellettuali come Baudelaire e i fratelli Goncourt, che lo considerano un maestro. Del 1877 sono i Tre racconti, mentre rimane incompiuto il romanzo ferocemente satirico Bouvard et Pécuchet. Flaubert muore nel 1880.

2 Madame Bovary: uno scandaloso romanzo di successo Un soggetto apparentemente banale In Madame Bovary una giovane donna di bell’aspetto con la testa piena di sogni romantici sposa un modesto medico di provincia; delusa dal matrimonio, si abbandona ad avventure amorose e dissolutezze che la condurranno al suicidio. Sembrerebbe una trama semplice, scontata, quasi banale: quale tema romanzesco è più ovvio del tradimento? Eppure Gustave Flaubert riesce a trasformare questo topos letterario in uno dei capolavori della letteratura europea. La grandezza di quest’opera non sta nell’originalità della trama e nemmeno nell’interesse delle tematiche proposte. Non a caso il critico Jean Rousset ha definito Madame Bovary «il libro su nulla»: “nulla” è la vicenda in cui si trovano coinvolti i protagonisti, di nulla sono fatte le loro esistenze ordinarie e convenzionali, nulla sono gli squallidi ambienti piccolo-borghesi che ne sono teatro. Quella di Emma Bovary è una storia come tante se ne sentono e si svolge piana e prevedibile, senza colpi di scena; il lettore ha quasi l’impressione di conoscerne già tutti gli sviluppi, fino al tragico epilogo, che potrebbe essere l’oggetto di un articolo di cronaca nera. Un metodo narrativo innovativo Ma perché, allora, la vita così banale di questa giovane donna ha incontrato una risposta tanto entusiasta fra i lettori del tempo? E perché, trascorsi più di centocinquant’anni, possiamo considerare Madame Bovary un “classico”?

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La risposta si trova nel metodo di Flaubert, del tutto nuovo nella storia della letteratura. Egli descrive quel “nulla” di cui si è detto con spietata sincerità, senza schermi né mistificazioni, con la stessa precisione di uno scienziato che descrive le varie fasi di un esperimento. Questo rapporto diretto e trasparente con la realtà, anche nei suoi aspetti più sgradevoli, è la grande novità apportata da Flaubert e anche l’aspetto della sua opera che all’epoca generò più scandalo. Inoltre, quello di Flaubert non è semplice, banale “realismo”, perché non mancano nel romanzo frequenti, sottili, suggestive connotazioni simboliche legate al tema chiave, profondamente moderno, del vuoto esistenziale (➜ PER APPROFONDIRE Un realismo venato di simbolismo, PAG. 722). Infine non si può non apprezzare, nell’opera di Flaubert, la particolare ricerca di uno stile sempre sorvegliato, attento a ogni sfumatura. Un romanzo “scandaloso” Pubblicato in volume nel 1857, dopo essere uscito a puntate sulla «Revue de Paris» nel corso dell’anno precedente, il romanzo viene bloccato dalla censura e sia l’autore sia l’editore sono sottoposti a un processo per offesa alla morale. Eppure la letteratura francese non era affatto nuova ad argomenti quali sesso o adulterio: si pensi alla tradizione libertina del Settecento e all’opera di autori quali de Sade o Laclos. Ciò che però “disturba”, in Madame Bovary, è il modo asettico con cui questi soggetti vengono presentati al pubblico e l’assenza di interventi commentativi volti a salvaguardare i rassicuranti valori borghesi sovvertiti nell’azione del romanzo. La struttura e la vicenda Il romanzo è strutturato in tre parti: la prima è composta di nove capitoli; la seconda, quella più estesa, di quindici; la terza, infine, di undici. Prima parte Teatro dell’azione è la provincia settentrionale della Francia, nella regione della città di Rouen, in Normandia. Charles Bovary, un giovane medico vedovo, sposa una bella ragazza di campagna, Emma Rouault, figlia di un suo paziente occasionale. La giovane è di estrazione sociale modesta, ma è stata educata in un collegio religioso dove la sua formazione si è nutrita di letture romantiche e languidi sogni (➜ T8 OL): tutto ciò che ella desidera è conoscere gli agi dell’alta società e i fremiti di passione di cui parlavano le sue letture in collegio. Le sue aspirazioni sono destinate a una cocente delusione: Charles, infatti, è un uomo semplice e ordinario, mediocre nell’esercizio della sua professione come nella vita privata. A differenza della moglie, egli si sente pienamente appagato dalla vita matrimoniale: Flaubert ci dice di lui che «era felice e non si curava di nient’altro al mondo» (parte I, cap. V). Charles è un uomo buono, ma semplice e superficiale, bloccato al livello di una grossolana materialità e privo di quella sensibilità raffinata che Emma sognava nel proprio futuro compagno. Charles non sente alcuno stimolo a migliorarsi, perché la sua piccola routine lo soddisfa completamente e non si accorge dell’insoddisfazione che affligge Emma: la distanza dal marito e la noia della vita di provincia alimentano ben presto in lei il sogno di un “altrove” indefinito. A interrompere il grigiore della sua vita di moglie disillusa, giunge inaspettato l’invito a una festa offerta dal marchese d’Andervilliers al castello di Vaubeyssard. È l’occasione per Emma di assaporare il profumo di quel mondo favoloso e scintillante che ha sempre sognato. Ma la festa finisce ed Emma deve risalire sulla vettura che la riporterà alla sua vita di sempre. Quella che mostra la signora Bovary sul suo carrozzino, in viaggio verso casa, è forse una delle immagini più cariche di valore simbolico in tutto il romanzo: «Taciturna, Emma guardava le ruote girare». Il movimento circolare delle ruote rappresenta il ritorno dal sogno

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alla realtà di una vita che si ripete, sempre uguale a sé stessa. Quando scopre di essere incinta, per un momento crede che la nascita di un maschio potrebbe salvare il suo matrimonio. Seconda parte Ma quando alla fine partorisce una figlia, a cui viene dato il nome di Berthe, Emma se ne disinteressa e si spegne sempre di più. Pensando che la moglie potrebbe trarre giovamento da un cambiamento, Charles si trasferisce in un altro villaggio, Yonville. Qui Emma accetta il corteggiamento di una delle prime persone che incontra, un giovane studente di giurisprudenza, Léon Dupuis, che sembra condividere con lei il gusto per le «cose più belle della vita». Quando Léon per motivi di studio se ne va a Parigi, Emma allaccia una relazione con un ricco proprietario terriero, Rodolphe Boulanger, un avventuriero, esperto di donne, che per conquistarla sfrutta le sue debolezze di giovane moglie romantica e insoddisfatta. Quando Emma escogita un piano per fuggire con lui, Rodolphe si tira indietro, lasciando a Emma una lettera che ricomparirà alla fine del romanzo, dopo la sua morte. Il colpo per la donna è tale che ella si ammala gravemente. Durante una serata all’Opera di Rouen, dove Charles l’ha portata per cercare di distrarla dalla sua cupa malinconia, Emma reincontrerà per caso Léon. Terza parte Emma e Léon iniziano una relazione: Emma si reca in città ogni settimana per incontrarlo, mentre Charles crede che la moglie stia prendendo lezioni di pianoforte. A questo punto del romanzo Emma abbandona l’alone di etereo romanticismo che l’aveva circondata finora e con Léon si trasforma in un’amante ardita e spregiudicata. Ben presto però ritroverà anche nell’adulterio gli stessi difetti del matrimonio. Nello stesso tempo, Emma accumula debiti con Lheureux, un merciaio scaltro che sa sempre convincerla a comprare a credito, approfittando della sua inclinazione per il lusso. Alla disperata ricerca di denaro per pagare Lheureux, dopo che l’intero mobilio della casa è sotto sequestro, senza che il povero Charles sappia nulla, Emma si umilia a cercare aiuto anche presso Léon e Rodolphe, ma senza risultato. Persa ogni speranza di risolvere la situazione, Emma si avvelena e muore, con una penosa e lenta agonia che Flaubert descrive con precisione scientifica, in una pagina che susciterà grande scalpore per la crudezza dei particolari. Nelle battute finali del romanzo, Charles scopre i tradimenti e le bugie della moglie e trova le lettere scritte a Léon; completamente distrutto, muore di crepacuore poco dopo la moglie. L’influenza della cultura scientifica: il metodo dell’impersonalità Per capire appieno Madame Bovary non si può prescindere dal contesto culturale in cui si forma Flaubert: in Francia questi sono, infatti, gli anni del Positivismo in cui, in opposizione all’Idealismo di stampo romantico, si assiste all’emergere della visione scientifica come chiave di interpretazione della realtà. Inoltre, l’autore di Madame Bovary è nato e cresciuto in ambiente medico: il padre è un chirurgo, primario dell’ospedale di Rouen, e questo sostrato culturale è ben visibile nel romanzo, soprattutto nelle drammatiche pagine dell’agonia di Emma, per la cui stesura Flaubert consulta anche manuali di medicina e tossicologia. Flaubert pone sempre in primo piano il valore documentario dell’opera letteraria e sceglie di applicare il metodo scientifico all’analisi dei personaggi e del loro ambiente: infatti li considera dall’esterno, come puri oggetti di osservazione, con lo stesso distacco con cui un medico visita e studia il corpo dei propri pazienti.

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In questo consiste il metodo dell’impersonalità, pilastro della poetica flaubertiana: lo scrittore deve abbandonare l’intimismo che ha caratterizzato il Romanticismo, deve liberarsi delle proprie idee, inclinazioni e sentimenti e lasciare che i personaggi, tratti dal mondo reale, si sviluppino in piena autonomia, mantenendo sempre una fredda oggettività. Si comprende, anche da queste rapide notazioni, perché Flaubert sia stato considerato il maestro del Naturalismo francese.

Achille Lernot, Gustave Flaubert “disseziona” Madame Bovary, caricatura, 1869 (Parigi, Bibliothèque Nationale de France).

Il complesso rapporto tra protagonista e narratore «Madame Bovary c’est moi!»: è la celeberrima frase con cui Flaubert risponde alla letterata Amélie Bosquet, che gli chiede a chi si fosse ispirato per la costruzione del suo personaggio. Una dichiarazione divenuta proverbiale, che sembrerebbe alludere a una totale identificazione dello scrittore con il suo personaggio. In realtà, il rapporto che si viene a creare tra Flaubert e la “sua” Emma è assai più complesso. Il romanzo si nutre certamente di componenti autobiografiche: uomo schivo e introverso, anche Flaubert , come la sua eroina, aveva la tendenza, anche per i disturbi nervosi che lo affliggevano, a fuggire la realtà, sia attraverso i vari viaggi che compie prima di scrivere il suo capolavoro, sia attraverso l’isolamento della piccola proprietà di Croisset, dove si rifugia. Con Emma, Flaubert condivide anche la passionalità e la propensione a letture di gusto romantico durante la giovinezza, e da cui prende poi nettamente le distanze. Ma la celebre asserzione “Madame Bovary sono io” non allude tanto all’autobiografismo del romanzo, ma piuttosto alla scelta di Flaubert di rinunciare non solo alla propria voce, ma al proprio punto di vista per adottare in tutto e per tutto quello della sua eroina (diventando, in un certo senso, lei) così da poterne offrire ai lettori un’immagine il più possibile spassionata e autentica. Per fare solo un esempio, quando Emma entra per la prima volta nella sua casa di novella sposa, è attraverso i suoi occhi che noi visitiamo quelle stanze squallide e pretenziose, arredate con il pessimo gusto di un provinciale convinto di toccare l’apice dell’eleganza con la sua «pendola fatta a testa d’Ippocrate» appoggiata sul caminetto. Flaubert non lascia trapelare alcun commento, limitandosi a riprodurre lo sguardo deluso di Emma. La critica implicita del sentimentalismo romantico Eppure, al di là di questo sforzo strenuo di calarsi nel proprio personaggio, il pensiero dell’autore continua ad affiorare, creando una sottile tensione che si protrae lungo tutto il romanzo. Flaubert mette in mostra senza alcuna reticenza, il morboso romanticismo e l’esagerato fatalismo di Emma, che vive la deludente condizione di borghese provinciale con un’enfasi emotiva degna di una tragedia greca. Si percepisce nel testo la velata ironia con cui l’autore rappresenta i toni e le espressioni esagerate della sua eroina, che segnala la distanza di Flaubert rispetto al suo personaggio: quella di Emma è una visione del mondo limitata e velleitaria, tipica di chi non è in grado di vivere il ruolo assegnatogli dalla sua condizione sociale. D’altro canto, nell’opera di Flaubert è presente anche un’aspra critica a tutti quei valori della società borghese che contribuiscono a costruire una prigione morale attorno a Emma e che la spingeranno verso la rovina.

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Quello di Flaubert nei confronti della sua eroina è, dunque, un atteggiamento di adesione e di distacco critico nello stesso tempo. L’ossessione delle parole Fra le numerose dichiarazioni di poetica di Flaubert spicca un motivo ricorrente, come un rovello insistente da cui lo scrittore non riesce a liberarsi. L’inadeguatezza del linguaggio e l’impossibilità di riprodurre perfettamente il mondo reale nel mondo della parola costringono lo scrittore a una lotta continua e durissima alla ricerca del mot juste, la parola giusta: «Io preferisco crepare come un cane piuttosto che affrettare anche di un istante la mia frase, prima che sia matura». Per Flaubert la ricerca della parola più adeguata a esprimere un’idea, a descrivere un carattere o un ambiente, diventa una vera e propria ossessione, un tormento psicologico e anche fisico che lo accompagna per tutta la sua vita di scrittore. Basti pensare che per produrre le poco più di trecento pagine che compongono Madame Bovary Flaubert impiega quasi sei anni, anni febbrili e tormentati, di cui lui stesso dice: «La disperazione è il mio stato normale». Il problema dello stile diventa così il fulcro dell’intera sua ricerca letteraria, sempre animata dalla profonda convinzione che esista un solo modo per esprimere una certa cosa, un solo sostantivo per indicarla, un solo aggettivo per descriverla, e che allo scrittore spetti l’arduo compito di scovare quest’unico segno nell’universo infinito delle parole.

Madame Bovary di Gustave Flaubert • basato sulla sincerità del narratore e attuato con precisione scientifica fino alle estreme conseguenze METODO NARRATIVO • lo scandalo nasce, più che per il soggetto immorale (l’adulterio), per l’impersonalità, per l’assoluta mancanza di commento e giudizio del narratore: aspetto che è visto come un affronto ai valori borghesi

• illusioni adolescenziali della protagonista • delusione della realtà • fuga nell’adulterio e nelle smanie per gli agi e il lusso SOGGETTO “BANALE”

• critica implicita al sentimentalismo romantico, che conduce a una visione distorta della realtà • accusa feroce contro i falsi valori borghesi che sono alla base dell’oppressione morale-esistenziale e che portano alla rovina

Fissare i concetti Verso il Naturalismo: Madame Bovary 1. In che cosa consiste la novità di Madame Bovary? 2. Per quale motivo Madame Bovary generò scandalo? 3. Qual è il rapporto tra narratore e personaggio nella poetica di Flaubert? 4. Quali giudizi di Flaubert nei confronti del Romanticismo e dei valori borghesi emergono dal romanzo? 5. Spiega l’importanza delle scelte lessicali per Flaubert.

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EDUCAZIONE CIVICA

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La condizione di impotenza della donna e il fenomeno del “bovarismo” Madame Bovary: una lettura del “femminile” in un preciso contesto storico-sociale Quando Emma si accorge di aspettare un figlio, la sua speranza è di aver concepito un maschio. Le motivazioni che adduce aprono uno squarcio sulle condizioni della donna nel mondo borghese di metà Ottocento, stigmatizzate da Flaubert nel romanzo: «Un uomo, almeno, è libero; può esplorare le passioni e i paesi, superare gli ostacoli, assaporare le gioie più remote. Ma una donna è sempre incatenata. Inerte e flessibile, ha contro di sé le debolezze della carne e i rigori della legge. La sua volontà, come il velo del suo cappello trattenuto da un nastro, palpita a ogni vento, e c’è sempre qualche desiderio a darle slancio, qualche convenzione a trattenerla» (parte II, cap. III). Nel suo ruolo di critico della società, Flaubert dimostra una profonda comprensione del mondo femminile, insieme ad altri aspetti della contemporaneità. Il dramma di Emma, nel romanzo, è strettamente collegato al suo essere donna L’“altrove”, verso cui Emma si sente perennemente attratta, per un uomo è sempre a disposizione, a portata di mano, basta che lo voglia afferrare; per lei, invece, rimane irraggiungibile, perché in netto contrasto con la condizione di sudditanza in cui la pone la sua femminilità. Universo maschile vs universo femminile partire dal padre, gli uomini che Emma incontra hanno sempre il potere di influenzare e determinare in qualche modo il corso della sua vita; un potere che a lei, invece, viene costantemente negato. Si può quasi dire che la scelta di commettere adulterio sia il solo modo che Emma ha di esercitare un qualche potere sul proprio destino. Perfino il mediocre e indolente Charles, con tutti i suoi limiti, ha un ruolo fondamentale nel produrre lo stato di impotenza di Emma: non ha la capacità né la volontà di diventare un buon medico e questa inettitudine incatena lui e la moglie a uno stile di vita che, se soddisfa lui, è invece fonte di frustrazione per la donna, la quale però non può fare

PARITÀ DI GENERE equilibri

nucleo Costituzione competenza 3

#PROGETTOPARITÀ

proprio nulla per cambiare le cose. Rodolphe, che avrebbe i mezzi economici per offrire a Emma una via di fuga, la abbandona a sé stessa e lei, in quanto donna, non trova il coraggio e l’autonomia sufficienti per fuggire da sola. Léon, in prima battuta, potrebbe sembrare il compagno più vicino ad Emma, quello maggiormente in grado di comprendere il tarlo che la divora: condivide con lei molte passioni e, come lei, è insofferente nei confronti della vita di provincia. Entrambi sognano una vita più romantica ed eccitante, ma Léon potrà realizzare il suo sogno e trasferirsi nella tanto vagheggiata Parigi; Emma, invece, sarà costretta a rimanere a Yonville, prigioniera di una vita deludente. Il “bovarismo” Descrivendo in modo così accurato questa insoddisfazione (che porta a rifiutare la realtà per rifugiarsi in un mondo fittizio, fatto di sogni irrealizzabili), Flaubert non fa altro che documentare quella che nell’Ottocento borghese era diventata una vera e propria malattia sociale e che, sulla scia del successo incontrato dal romanzo, prese a essere chiamata bovarismo (il termine fu usato per la prima volta, a fine Ottocento, in una recensione dallo scrittore francese Barbey d’Aurevilly). Alla luce di questa sua vocazione di scrittore agganciato al vero, perciò, non stupisce sapere che Flaubert forse si è ispirato a un fatto di cronaca: in un paesino della Normandia, una giovane donna, Delphine Couturier Delamare, si era abbandonata a spese folli per mania di grandezza e, travolta dai debiti, si era suicidata. Più o meno, la trama di Madame Bovary. L’eroina flaubertiana divenne il simbolo di un malessere esistenziale tipicamente femminile assai diffuso nella borghesia del XIX secolo: il senso di soffocamento, di chiusura e grigiore indotto da esistenze apparentemente perfette, alle quali sembrava non mancare nulla, ma che in realtà conducevano alla nevrosi.

Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

Interpretare

COMPRENSIONE 1. In che senso la parabola esistenziale di Emma è strettamente legata alla condizione della donna nell’Ottocento? 2. Che cosa si intende con bovarismo? 3. In che modo le principali figure maschili del romanzo mostrano la distanza tra la libertà dell’universo maschile e i vincoli a cui è sottoposto l’universo femminile? LETTERATURA E NOI 4. In quali ambiti, ancora oggi, le scelte di vita delle donne subiscono maggiori condizionamenti rispetto a quelle degli uomini? DISCUSSIONE IN CLASSE 5. Discuti del tema proposto in classe con il docente e con i compagni, confrontando i diversi punti di vista emersi.

online T8 Gustave Flaubert

Una distorta educazione sentimentale Madame Bovary, parte I, cap. VI

Verso il Naturalismo: Madame Bovary 3 721


PER APPROFONDIRE

Un realismo venato di simbolismo Il capolavoro di Flaubert è considerato una testimonianza esemplare della cifra realista del romanzo, ma a una lettura attenta l’etichetta di “realismo” applicata a Madame Bovary risulta riduttiva. In effetti, il realismo di Flaubert ci appare arricchito di numerosissimi elementi di carattere simbolico, che ricorrono nel corso del romanzo attribuendogli una dimensione più profonda e sfumata. Pensiamo ad esempio al ricorrente “stare alla finestra” di Emma, a indicare il suo perenne tendere verso un indefinito “altrove” che le possa offrire una via di fuga dal suo piccolo mondo soffocante. O ancora, è significativo il ricorso massiccio dello scrittore a elementi appartenenti all’area semantica del cibo e del

Gottfried Schultz, Natura morta con frutta e piatti, olio su tavola, fine del XIX secolo (Winter Park, Morse Museum).

722 Ottocento 17 Il romanzo europeo

mangiare, in senso non solo denotativo, ma anche connotante, simbolico. Il banchetto di nozze di Charles ed Emma, ad esempio, è descritto con una precisione e un’abbondanza di particolari che gravano sulla pagina come la grossolana materialità del marito graverà sui sogni eterei e romantici della neo-signora Bovary. Di Charles, per descrivere la piena soddisfazione che trova nella vita matrimoniale, si dice che «se ne andava ruminando la sua felicità come chi, finito il pranzo, in piena digestione, rimastichi ancora il sapore dei tartufi» (parte I, cap. V); di Emma, invece, si dice che «tutta l’amarezza dell’esistenza le veniva scodellata davanti, sul piatto, e con il vapore del bollito le salivano dal fondo dell’anima altre zaffate di squallore» (parte I, cap. IX).


Gustave Flaubert

T9

EDUCAZIONE CIVICA

Le delusioni di un matrimonio piccolo-borghese

PARITÀ DI GENERE equilibri

nucleo Costituzione competenza 3

#PROGETTOPARITÀ

Madame Bovary, parte I, cap. VII G. Flaubert, Madame Bovary, trad. di R. Carifi, Feltrinelli, Milano 1994

Dopo le nozze, Charles ed Emma si sono sistemati nella casa del giovane medico a Tostes (parte I, cap. V). La delusione che Emma prova non appena arrivata nella sua modesta dimora di sposa trova ben presto una serie di conferme nell’ordinaria quotidianità che il marito è in grado di offrirle. In queste pagine assistiamo all’infrangersi di tutti i suoi sogni di ragazza.

Talvolta pensava che proprio quelli avrebbero dovuto essere i giorni più belli della sua vita, la luna di miele, come si dice. Ma per assaporarne tutta la dolcezza sarebbe stato necessario, senza dubbio, andarsene in quei paesi dai nomi sonanti dove i giorni che seguono alle nozze trascorrono nelle più soavi mollezze! A bordo di una 5 diligenza, sotto tende di seta azzurra, si sale lentamente per sentieri scoscesi, ascoltando la canzone del postiglione che riecheggia nella montagna insieme ai campanelli delle capre e al rumore sordo della cascata. Quando il sole tramonta, si respira sulle rive di un golfo il profumo dei limoni; poi, la sera, sulle terrazze delle ville, soli e tenendosi per mano, si contemplano le stelle e si fanno progetti per il futuro. 10 Era convinta che certi luoghi della terra fossero destinati a produrre la felicità, come un terreno particolare fa crescere certe piante che altrove appassiscono. Perché mai non poteva affacciarsi al balcone di uno chalet svizzero oppure rinchiudere la sua tristezza in un cottage scozzese, con un marito vestito d’un abito di velluto nero a lunghe falde, che indossa stivali flosci, un cappello a punta e mezze maniche? 15 Forse avrebbe desiderato confidarsi con qualcuno. Ma come esprimere un ineffabile disagio1, che muta aspetto come le nubi, che turbina come il vento? Le mancavano le parole, l’occasione, il coraggio. Certo, se solo Charles avesse voluto, se appena avesse sospettato, se una volta soltanto il suo sguardo avesse incontrato i suoi pensieri, era convinta che un’ab20 bondanza improvvisa sarebbe caduta dal suo cuore, come un albero lascia cadere i suoi frutti al primo tocco di una mano. Ma via via che le loro esistenze si facevano più intime si apriva dentro di lei un distacco che la separava da lui sempre di più. La conversazione di Charles era piatta come un marciapiede, e le idee più comuni vi sfilavano nella loro veste ordinaria senza produrre nessuna emozione, di allegria 25 o di sogno. Diceva di non avere mai provato la curiosità, durante il suo soggiorno a Rouen, di andare a teatro a vedere gli attori di Parigi. Non sapeva nuotare, né tirare di scherma, né usare la pistola, e una volta non riuscì nemmeno a spiegarle un termine d’equitazione che aveva trovato in un romanzo. Un uomo, invece, non doveva conoscere tutto, eccellere in molteplici attività, iniziar30 ti alle energie della passione, alle raffinatezze della vita, insomma a tutti i misteri? Non insegnava nulla, quello là, non sapeva nulla, non aveva interessi di nessun tipo. La credeva felice; e lei gliene voleva per quella calma così imperturbabile, per quella serafica pesantezza e per la felicità che lei stessa gli dava.

1 un ineffabile disagio: uno stato di malessere indefinito, che non si riesce a descrivere a parole.

Verso il Naturalismo: Madame Bovary 3 723


Qualche volta lei disegnava; ed era un grande piacere per Charles restarsene lì, in piedi, a guardarla china sul suo cartone, gli occhi semichiusi per mettere a fuoco il proprio lavoro, oppure il pollice che arrotolava delle palline di mollica2. Quanto al piano, più velocemente vi scorrevano le sue dita, più lui provava meraviglia. Batteva sui tasti ostentando sicurezza, e percorreva la tastiera dall’alto in basso senza interrompersi. Così scosso, il vecchio strumento dalle corde vibranti si faceva 40 sentire fino in fondo al villaggio se la finestra era aperta, e spesso il ragazzo di studio dell’ufficiale giudiziario che passava per la strada maestra, senza cappello e in pantofole, si fermava in ascolto con il suo foglio di carta in mano. Emma, del resto, sapeva come mandare avanti la casa. Mandava ai malati il conto delle visite in lettere così bene elaborate da non sembrare nemmeno fatture. Quando 45 poi, la domenica, avevano a pranzo qualche vicino, trovava il modo di offrire un piatto dall’aspetto gradevole, sapeva disporre piramidi di susine3 sui pampini4 di vite, serviva vasetti di marmellata rovesciandoli in un piattino, e parlava addirittura di acquistare gli sciacquabocca per il dessert. E da tutto questo ne derivava un aumento di considerazione per Bovary. 50 Lo stesso Charles finiva per stimarsi di più per il fatto di possedere una moglie simile. Mostrava con orgoglio, in sala, due piccoli schizzi a matita disegnati da lei; li aveva fatti incorniciare in cornici larghissime, appese alla parete mediante dei lunghi cordoncini verdi. Quelli che uscivano dalla messa lo vedevano sulla porta con delle belle pantofole ricamate. 55 Rincasava tardi, alle dieci, qualche volta a mezzanotte. Allora chiedeva da mangiare, e poiché la serva era già a letto veniva servito da Emma. Nominava uno per uno tutti quelli che aveva incontrato, i paesi dov’era stato, le cure che aveva prescritto, e soddisfatto di sé mangiava gli avanzi dello stracotto, grattava il formaggio, sgranocchiava una mela, vuotava la caraffa, poi si metteva a letto, si coricava sul dorso 60 e cominciava a russare. Dato che per molto tempo aveva avuto l’abitudine di portare il berretto di cotone, il suo fazzoletto non gli stava a posto sugli orecchi; così i capelli, la mattina, gli ricadevano tutti arruffati sulla faccia, imbiancati dalla lanugine del cuscino, i cui lacci si scioglievano durante la notte. Calzava sempre dei robusti scarponi che formavano, 65 al collo del piede, due grosse pieghe inclinate verso le caviglie, mentre la parte alta della calzatura si allungava diritta, tesa come se dentro vi fosse un piede di legno. Diceva che non c’era nulla di più adatto alla campagna. [...]. Tuttavia, in base a teorie della cui bontà era assolutamente convinta, decise di dedicarsi all’amore. Al chiar di luna, in giardino, recitava tutte le rime appassionate che 70 sapeva a memoria e sospirando cantava al marito qualche aria malinconica; ma poi si ritrovava altrettanto calma di prima, e Charles non appariva né più innamorato né più commosso. Quando ebbe così battuto un po’ l’acciarino sul suo cuore senza che ne sgorgasse una sola scintilla, incapace, del resto, di comprendere quanto lei per prima non 75 provava, come di credere a tutto quanto non si manifestava affatto in forme convenzionali, si persuase facilmente che la passione di Charles non aveva più nulla di eccessivo. Le sue espansioni erano divenute regolari; l’abbracciava a ore fisse. Era 35

2 palline di mollica: la mollica di pane bianco veniva utilizzata per cancellare i

724 Ottocento 17 Il romanzo europeo

segni di grafite della matita. 3 susine: prugne.

4 pampini: foglie di vite.


un’abitudine come tante, simile a un dolce previsto per tempo, dopo la monotonia del pranzo. 80 Un guardacaccia, che il dottore aveva guarito da una polmonite, aveva donato alla signora una piccola levriera italiana; lei se la portava con sé durante le sue passeggiate, dato che ogni tanto usciva per starsene un poco da sola e non avere più sotto gli occhi il solito giardino con la strada piena di polvere. Arrivava fino al faggeto di Banneville, nei pressi del padiglione abbandonato che fa angolo con il muro, dalla 85 parte dei campi. Nel fossato, tra le erbe, c’erano lunghe canne dalle foglie taglienti. Per prima cosa si guardava intorno, per vedere se qualcosa era cambiato dall’ultima volta che era stata là. Ritrovava al loro posto le digitali5 e i rafani selvatici, i ciuffi d’ortiche intorno ai grossi sassi, e le chiazze di lichene lungo le tre finestre che si disfacevano, marce, sui loro sostegni di ferro arrugginito. I suoi pensieri, dapprima 90 senza una meta, erravano a caso, come la sua levriera che girava in tondo in mezzo alla campagna, guaiva dietro alle farfalle gialle, dava la caccia ai topiragno6, oppure mordicchiava i papaveri ai bordi di una distesa di grano. Poi Emma riordinava le idee, si sedeva sull’erba, e frugandola a piccoli colpi con la punta dell’ombrello, non cessava mai di ripetersi: 95 “Ma perché, mio Dio, mi sono sposata?” Si chiedeva se non avrebbe potuto, per una diversa combinazione del caso, incontrare un altro uomo; e cercava di immaginare come sarebbero stati quegli eventi mai accaduti, quella vita differente, quel marito sconosciuto. Nemmeno uno, tra quelli che s’inventava, somigliava all’attuale marito. Forse sarebbe stato bello, spiritoso, 100 distinto, attraente, come di certo dovevano essere quelli che avevano sposato le sue antiche compagne di convento. Che facevano ora? In città, con il frastuono delle vie, il brusio dei teatri e lo splendore dei balli, conducevano esistenze che allargano il cuore e fanno sbocciare i sensi. Quanto a lei, la sua vita era fredda come un granaio che ha le finestre esposte a settentrione, e la noia, ragno silenzioso, tesseva 105 nell’ombra la sua tela in ogni cantuccio del suo cuore. 5 digitali: piante erbacee dai grandi fiori

6 topiragno: piccoli mammiferi inset-

penduli, riuniti in infiorescenze.

tivori simili a topi, ma con il muso più

allungato e dotato di lunghi peli sensoriali.

Analisi del testo Charles, un uomo refrattario all’“altrove” Attraverso il punto di vista di Emma il narratore ci presenta Charles come un uomo perfettamente appagato del “qui” e dell’“adesso” che gli sono capitati in sorte; la dimensione dell’“altrove”, che per Emma costituisce l’orizzonte esistenziale più importante, gli rimane completamente estranea. Per sua stessa ammissione, Charles non cerca nulla che si allontani dal suo presente, non lo incuriosisce minimamente quello scintillante mondo parigino che tanto affascina sua moglie, né lo attirano le attività alla moda («Non sapeva nuotare, né tirare di scherma, né usare la pistola») che potrebbero forse renderlo un po’ più interessante agli occhi di Emma. La sua conversazione (all’epoca parametro imprescindibile per determinare il valore sociale di un individuo) è «piatta come un marciapiede», le sue idee sono banali e incapaci di «produrre nessuna emozione, di allegria o di sogno». Le sue aspirazioni sono tutte limitate alla sfera dei bisogni materiali immediati: non è un caso che, nel corso del romanzo, attorno a lui si vengano ad accumulare numerose immagini e situazioni riconducibili all’area semantica del cibo, come nel testo proposto, dove assistiamo alla placida cena di Charles, descritta gesto per gesto, servita da un’Emma che possiamo immaginare quanto mai avvilita.

Verso il Naturalismo: Madame Bovary 3 725


L’“altrove” fittizio di Emma La visione di Emma, contrapposta all’appagata materialità in cui si consuma l’esistenza di Charles, è tutta tesa verso un “altrove” irraggiungibile, proprio perché si tratta di una visione eccessiva e ossessiva, incapace di un’analisi equilibrata della realtà. Questo aspetto emerge, ad esempio, quando Emma incolpa Charles di non aver saputo spiegarle «un termine d’equitazione che aveva trovato in un romanzo», mancanza del tutto perdonabile in un uomo che non si interessa di cavalli; lei, invece, nella sua visione distorta della realtà, vi legge una conferma definitiva dell’incapacità di Charles a renderla felice, lontano com’è dall’ideale di marito che, fin da quando era ragazza, ha preso forma nella sua mente. Non essendole concessa alcuna via di fuga reale da un’esistenza grigia e soffocante, Emma cerca di costruirsene una fittizia, lavorando a livello puramente mentale. Prima tenta di convincersi di essere davvero innamorata, come una scolara giudiziosa che si sforza di applicare diligentemente le regole studiate: «in base a teorie della cui bontà era assolutamente convinta», la donna non si fa mancare nessuno degli elementi tipici dell’amore romantico, conosciuto soltanto attraverso i libri, dal “chiar di luna” ai “versi appassionati”, dai sospiri ai malinconici adagi. Ma dinanzi al fallimento di qualsiasi tentativo di far sprizzare «una sola scintilla» dall’«acciarino» del suo cuore, ad Emma non rimane altro che mimare la fuga preclusa nella realtà: le sue passeggiate meditabonde nella campagna di Tostes vogliono rappresentare proprio questa sua brama verso l’altrove, destinata a rimanere inappagata per sempre. Anche il particolare della «piccola levriera italiana» contribuisce a caratterizzare la tensione di Emma verso l’esotico e il diverso: proprio un levriero compariva anche fra le immagini delle incisioni contenute nei keepsakes che Emma tanto ammirava in collegio (➜ T8 OL) e l’Italia, cui si fa riferimento nella razza del cane, è sempre stata vista dalla donna come il luogo della cultura più alta e raffinata, quella che a lei è ora negata per sempre. E proprio alla levriera viene paragonato il suo pensiero, che vaga confuso e senza alcuna meta apparente, prima di focalizzarsi su quello che è il nodo cruciale nell’animo tormentato della donna: «Ma perché, mio Dio, mi sono sposata?» (➜ T9 r. 95).

Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

COMPRENSIONE 1. Qual è il rapporto tra Emma e Charles? Quali sentimenti nutrono l’uno nei confronti dell’altra? TECNICA NARRATIVA 2. Cerca di individuare i punti del brano in cui emerge con maggiore evidenza il metodo dell’impersonalità adottato da Flaubert. Poi rispondi. a. Quale tipologia di narratore è presente? b. La focalizzazione è interna o esterna? c. Qual è il punto di vista? d. Per mezzo di quale tecnica Flaubert riproduce i pensieri della protagonista? Fai qualche esempio.

Interpretare

TESTI A CONFRONTO 3. Flaubert tende ad attribuire a oggetti, cose e ambienti una valenza spesso simbolica, attraverso cui si colgono particolari aspetti della psicologia dei personaggi. Considerando sia questo brano sia il (➜ T8 OL), individua i passi che secondo te possono essere letti in questa chiave e cerca di fornirne una tua interpretazione. SCRITTURA 4. Emma e Charles: due vite unite nel matrimonio ma inevitabilmente separate in quelle che erano le rispettive visioni del mondo. Traccia una breve descrizione in parallelo di questi due personaggi, evidenziando le aspirazioni dell’uno e dell’altra e spiegando perché non possono che rivelarsi inconciliabili (max 15 righe).

EDUCAZIONE CIVICA

nucleo

Costituzione

competenza 3

PARITÀ DI GENERE equilibri #PROGETTOPARITÀ

5. Nei suoi romanzi, e in particolar modo proprio in Madame Bovary, Flaubert vuole svolgere anche un ruolo di critica nei confronti della cultura e dei modelli sociali dominanti all’epoca. Fortissima, ad esempio, è la sua presa di posizione nei confronti dell’istituto matrimoniale: alla luce di quanto hai letto, commenta questo particolare aspetto della narrativa di Flaubert, facendo riferimento anche a punti specifici dei testi analizzati.

726 Ottocento 17 Il romanzo europeo


Sguardo sul cinema Madame Bovary, un “soggetto” di successo La vicenda di Emma Bovary ha ispirato notevolmente il cinema. Il primo adattamento cinematografico, che rimane anche uno dei più riusciti, è quello del grande regista francese Jean Renoir nel 1933. Tra le altre trasposizioni cinematografiche, una delle più celebri è quella di Vincente Minnelli del 1949, con Jennifer Jones nel ruolo della protagonista. Il regista gira un suo libero adattamento con lo stesso spirito dei suoi celebri musical, e così la scena del ballo in società ben poco conserva dell’asciutto realismo di Flaubert. Un’interpretazione cinematografica assai libera è anche quella portata sullo schermo nel 1989 dal regista Aleksandr Sokurov, che ambienta la vicenda in Russia modificando i tratti di alcuni personaggi e ponendo un forte accento sull’erotismo degli incontri della protagonista con i suoi amanti. Filologicamente fedele al testo di Flaubert è invece l’adattamento che Claude Chabrol ne trae nel 1991, con Isabelle Huppert. Una trama popolare come quella di Madame Bovary non poteva non diventare anche oggetto di sceneggiati televisivi e fiction. Nel Regno Unito ne sono state realizzate due (1975 e 2000). Serie analoghe sono state create anche in Germania e in Francia; in Italia, nel 1978, è stato un successo lo sceneggiato tratto dal romanzo con una particolare cura per l’ambientazione (per regia di Daniele D’Anza, con Carla Gravina nel ruolo della protagonista). La popolarità di Madame Bovary, tuttavia, non si limita a influenzare il cinema e la tv e investe anche la musica. L’eroina di Flaubert diventa il simbolo di tutte le domande angosciose che accompagnano l’uomo nella sua ricerca di un senso dell’esistenza nella canzone del cantautore Francesco Guccini intitolata Signora Bovary, che dà il nome all’intero album, uscito nel 1987.

Il manifesto del film Madame Bovary, diretto da Vincente Minnelli.

Una scena del film Madame Bovary del 1991, diretto da Claude Chabrol e interpretato da Isabelle Huppert nel ruolo di Emma.

online T10 Gustave Flaubert

La scintillante chimera dell’“altrove”: il ballo al castello Madame Bovary, parte I, cap. VIII

online T11 Gustave Flaubert

L’ebbrezza dell’amore adultero: Emma e Rodolphe Madame Bovary, parte II, cap. IX

online T12 Gustave Flaubert

La morte di Emma Madame Bovary, parte III, cap. VIII

Verso il Naturalismo: Madame Bovary 3 727


Ottocento Il romanzo europeo

Sintesi con audiolettura

1 Il successo del genere romanzo

La popolarità del romanzo All’inizio dell’Ottocento il romanzo vive un momento di straordinario successo, le cui ragioni sono di natura sia sociologica sia letteraria. Un elemento determinante è sicuramente la progressiva affermazione di una nuova classe borghese: da un lato il romanzo si dimostra una forma letteraria capace di rappresentarla, dall’altro essa fornisce un pubblico abbastanza colto e benestante da poter dedicare tempo e risorse alla lettura di testi di una certa lunghezza. Inoltre la lingua del romanzo, assai più vicina al vissuto rispetto a quella della poesia, è in grado di far dialogare i ceti più diversi, rendendo il romanzo stesso un genere democratico; mentre la sua struttura polifonica, pronta ad accogliere stili e registri espressivi anche molto lontani tra loro, riesce a fornire diversi livelli di lettura e a dar voce alla crescente complessità del mondo moderno. La sua versatilità, inoltre, impedisce al romanzo di finire ingabbiato in una codificazione di genere troppo rigida. In effetti, negli anni del suo maggiore sviluppo, esso riesce trovare strade diverse, adattandosi a differenti contesti culturali, politici e sociali.

2 Il romanzo storico e realista

Il romanzo storico Una delle varianti romanzesche di maggior successo, tanto da poter essere definita una vera e propria moda, è quella del romanzo storico, che bene risponde al nuovo interesse per la storia diffusosi grazie alla cultura romantica. Modello indiscusso è lo scozzese Walter Scott, con le sue storie avventurose ambientate per lo più in un Medioevo di maniera, intrise di patriottismo e animate dalla volontà di coinvolgere il lettore in un’atmosfera suggestiva: una scrittura che tende a emozionare più che a informare e educare. L’opera più celebre è il romanzo Ivanhoe (1820), ambientato nell’Inghilterra del 1194, sullo sfondo delle lotte intestine tra Normanni e Sassoni. Ingrediente essenziale del successo è la rappresentazione di un mondo schematico, nel quale è chiara la distinzione tra bene e male e protagonisti sono esponenti delle classi medie o medio-basse. Il suo modello ispirerà, in particolare, Victor Hugo, il padre del Romanticismo francese, autore di opere celeberrime come Notre-Dame de Paris (1831) e I miserabili (1862). Nei suoi romanzi, Hugo anticipa l’attenzione verso le tematiche sociali che saranno al centro del Naturalismo. Un’importante novità nelle sue opere riguarda lo statuto del narratore che è,

728 Ottocento 17 Il romanzo europeo


come nel romanzo storico, extradiegetico e onnisciente, ma cerca anche di farsi interprete del mistero dell’esistenza umana. A Walter Scott si rifà anche una fiorente scuola italiana: lo stesso Manzoni vi si ispira, ma nei Promessi sposi lo sostanzia con un rigoroso uso delle fonti e uno spessore morale sconosciuti all’autore di Ivanhoe. Il romanzo a impianto realista Con il romanzo a impianto realista l’attenzione si sposta sulla realtà contemporanea. Nelle opere di questo filone essa è analizzata in tutti i suoi aspetti, anche in quelli più oscuri e problematici. In Inghilterra, dove il romanzo realista ha cominciato a fiorire fin dal Settecento, prevale l’aspetto dell’analisi e anche della critica sociale, pur nei romanzi di autori diversissimi tra loro come Jane Austen, George Eliot (pseudonimo di Mary Ann Evans), le sorelle Emily e Charlotte Bronte e Charles Dickens. Jane Austen analizza con tagliente ironia e stile impeccabile i vizi e le idiosincrasie della piccola nobiltà rurale nell’Inghilterra previttoriana: un mondo che sembra non essere stato nemmeno sfiorato dai fremiti rivoluzionari, apparentemente bonario e pacifico, ma in realtà dominato da leggi economiche e sociali spietate, capaci di determinare in modo decisivo la vita delle persone. In questo contesto vivono le eroine della Austen, che l’autrice racconta con grande finezza psicologica, inaugurando un filone di scrittura al femminile assai fecondo in Inghilterra, da George Eliot fino a Virginia Woolf. L’opera più celebre della Austen è Orgoglio e pregiudizio (1813). Charles Dickens, invece, vero e proprio monumento nazionale per l’Inghilterra vittoriana, si concentra soprattutto sulla narrazione dei lati negativi della modernità: i guasti della società neo-industriale, con i suoi effetti deleteri e disumanizzanti sulla vita delle persone. In Francia è il tema del rapporto conflittuale dell’individuo con la società a fornire gli spunti maggiori: nella Francia bigotta e retriva della Restaurazione, gli aneliti alla libertà che ancora fremono negli animi di chi ha sentito dai propri padri il racconto della rivoluzione non possono che andare incontro a una dolorosa delusione. È così che nascono i personaggi tormentati e irrisolti di Stendhal, come ad esempio Julien Sorel nel Rosso e il nero (1830), divorati da un’ambizione sfrenata ma al tempo stesso sensibili a valori e ideali che ormai non trovano più spazio nel mondo contemporaneo. Stendhal può essere considerato il padre del moderno realismo poiché con lui il romanzo diventa uno strumento di studio della realtà umana. Anche Balzac, nei romanzi del ciclo della Commedia umana, vuole dare uno spaccato completo e impietoso della Francia del suo tempo; lo fa con il rigore e la pertinacia di uno scienziato che classifica con precisione dei campioni di laboratorio: la sua opera, un amplissimo “mondo chiuso” che egli stesso definisce una «concorrente del codice civile», ci porta già verso il metodo e lo stile che saranno di Flaubert. Tra i capolavori di Balzac vanno ricordati Papà Goriot ed Eugenie Grandet.

3 Verso il Naturalismo: Madame Bovary

Gustave Flaubert e Madame Bovary: uno scandaloso romanzo di successo Con l’opera di Gustave Flaubert (1821-1880), il romanzo francese si avvia sulla strada del Naturalismo. Il lavoro che diventa un vero e proprio paradigma per tutta la letteratura successiva di impianto realista (e non solo) è Madame Bovary (1857). Raccontando la storia apparentemente banale della sua eroina, Emma Bovary, lo scrittore inaugura un nuovo modo di avvicinarsi alla realtà attraverso la letteratura, elaborando uno sguardo assolutamente

Sintesi Ottocento

729


spassionato, alieno da qualsiasi forma di coinvolgimento emotivo o di giudizio morale su quanto si sta raccontando, che così può assumere l’aspetto rigoroso di uno studio scientifico. Questo metodo rivoluzionario, fondato sul distacco dalla materia narrata, rappresentata in modo asettico anche se disprezzabile secondo la morale comune, suscita all’epoca grande scandalo: il libro viene censurato e accusato di immoralità. Il romanzo, strutturato in tre parti, racconta la storia – ambientata in Normandia – di Emma Bovary che, insoddisfatta della vita di provincia e imbevuta di letture romantiche e sogni di grandezza, dopo il matrimonio con un uomo da lei considerato inadeguato entra in un vortice di tradimenti e bugie che la condurranno al dissesto economico e al suicidio. Il metodo di Flaubert risente del clima culturale dell’epoca: sono gli anni del Positivismo, nei quali si assiste all’emergere di una nuova visione scientifica come chiave di interpretazione della realtà. Secondo Flaubert l’opera letteraria deve assumere un valore documentario e per ottenere questo scopo è necessario adottare il metodo dell’impersonalità: lo scrittore deve liberarsi delle proprie idee (anche se in realtà la sua visione affiora in più punti) e lasciare che i personaggi si sviluppino in piena autonomia. Un altro aspetto fondamentale del romanzo di Flaubert è la sua cura maniacale alla ricerca della parola giusta per designare gli oggetti, tratteggiare un personaggio o descrivere un avvenimento in modo realistico e insieme simbolico. Il problema dello stile diviene in Flaubert il fulcro della ricerca letteraria.

Zona Competenze Sintesi

1. Attraverso uno schema illustra le diverse forme assunte dal romanzo nell’Ottocento, sintetizzandone le rispettive caratteristiche fondamentali.

Competenza digitale

2. Scegli due romanzi tra quelli affrontati; realizza una presentazione multimediale in cui indichi per ciascun romanzo titolo, autore, temi principali, ambientazione e tipologia dei personaggi, confrontando ed esponendo alla classe i dati raccolti.

Scrittura

3. Alla luce delle opere analizzate e facendo gli opportuni confronti tra i diversi modi di narrare, esponi l’immagine della società di metà Ottocento che emerge attraverso la narrativa realista (max 3 colonne di foglio protocollo).

730 Ottocento 17 Il romanzo europeo


CAPITOLO

18 La narrativa fantastica e il fascino del lato buio

Il genere fantastico, che si afferma alla fine del Settecento, appare congeniale alla concezione romantica, che riscopre la dimensione dell’irrazionale in contrapposizione alla visione razionale e positiva propria dell’Illuminismo.

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Ottocento

Il grande consenso riservato a questo genere, inaugurato dal romanzo gotico inglese, è stato spiegato con la sua capacità di veicolare le inquietudini profonde prodotte dai cambiamenti sociali e politici del tempo e dagli interrogativi suscitati dallo sviluppo scientifico e tecnologico: da essi nasce il celebre Frankenstein di Mary Shelley. Nei migliori interpreti del fantastico (Hoffmann, Poe), rispetto alle forme più appariscenti (fantasmi e altre apparizioni), prevalgono situazioni inspiegabili e presenze perturbanti, strumento per rappresentare incubi e ossessioni da sempre connaturati alla natura umana. Rimane tuttora enigmatico il piacere della paura che caratterizza inequivocabilmente il lettore appassionato dei racconti fantastici.

1 L’emergere della narrativa

di carattere fantastico

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18 La narrativa fantastica e il fascino del lato buio 1 L’emergere della narrativa di carattere fantastico 1 Alle origini del genere “fantastico” 2 Il romanzo gotico PER APPROFONDIRE Le strategie della narrazione fantastica

3 Il maestro del terrore e dell’orrore: Edgar Allan Poe PER APPROFONDIRE Il piacere di aver paura

Edgar Allan Poe T1 La rivisitazione del codice gotico Il ritratto ovale

T2 La poetica dell’effetto e dell’eccesso La maschera della Morte Rossa

Ann Radcliffe D1 Un castello misterioso I misteri di Udolpho

4 Il fantastico visionario di Hoffmann Ernst Theodor Amadeus Hoffmann T3 L’Orco Insabbia: tra incubo e realtà

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L’Orco Insabbia

5 Il tema del vampiro Théophile Gautier T4 Il mistero di Clarimonda si svela La morta innamorata

6 Frankenstein: la modernità come mostro Mary Shelley T5 La creazione dell’uomo artificiale

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EDUCAZIONE ALLE RELAZIONI

Frankenstein, o il Prometeo moderno, capp. III-IV

SGUARDO SUL CINEMA Il mito di Frankenstein

INTERPRETAZIONI CRITICHE Silvia Albertazzi Significato dell’irrompere del fantastico sulla scena letteraria

Sintesi con audiolettura Zona Competenze VERSO L’ESAME DI STATO

Tipologia C Riflessione critica di carattere espositivo-argomentativo su tematiche di attualità

732 Ottocento 18 La narrativa fantastica e il fascino del lato buio


Ottocento CAPITOLO

19 Il Romanticismo italiano e la letteratura risorgimentale

In Italia, nel 1816, un articolo di Madame de Staël attiva la contrapposizione tra classicisti e romantici; questi ultimi rifiutano la mitologia e le regole in favore di una poesia nuova e popolare. Il Romanticismo italiano è caratterizzato dalla prevalenza di temi storico-patriottici e dalla predilezione per il genere del romanzo storico. Un caso particolare nel panorama del romanzo in Italia è Le confessioni di un italiano di Ippolito Nievo, che si pone all’incrocio tra più generi: tra il romanzo storico, la memorialistica e il romanzo di formazione. Durante il periodo risorgimentale la letteratura assume un carattere pedagogico che trova espressione nella lirica patriottica. Nello stesso clima, l’idea comune di nazione è veicolata dal genere autobiografico, che si caratterizza come un memoriale di un’esperienza collettiva. L’esempio più significativo è quello della memorialistica garibaldina.

dibattito sul 1 IlRomanticismo in Italia confessioni di un italiano 2 Ledi Nievo: un romanzo all’incrocio dei generi

e Risorgimento: 3 Letteratura alla ricerca di un’identità nazionale

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Il dibattito sul Romanticismo in Italia 1 Un nuovo movimento La centralità del Nord Italia e di Milano Il Romanticismo si afferma in Italia più tardi rispetto agli altri paesi europei, anche per la presenza, particolarmente forte, del Classicismo nella nostra cultura. Le nuove idee trovano accoglienza nelle zone d’Italia più avanzate sotto il profilo economico, come la Lombardia (e in parte il Piemonte), mentre restano ai margini, confinati in un sostanziale provincialismo, il Veneto, Firenze e ampia parte della Toscana. Anche la cultura napoletana, dopo essere stata all’avanguardia durante l’Illuminismo, conosce un evidente regresso; ma alcuni intellettuali napoletani, sfuggiti alla repressione della rivoluzione napoletana del 1799, come Cuoco e Lomonaco, approdano esuli a Milano, dove danno vita a un vivace dibattito politico. L’articolo di Madame de Staël: Sulla maniera e l’utilità delle traduzioni In stretta continuità con l’Illuminismo, il centro del dibattito romantico in Italia è Milano. Qui, nel 1816 (anno considerato come data convenzionale della nascita del Romanticismo nella penisola) ha luogo un acceso dibattito tra letterati: l’occasione del dibattito è la pubblicazione, sul primo numero della rivista milanese «Biblioteca italiana», dell’articolo (in forma di lettera) Sulla maniera e l’utilità delle traduzioni di Madame de Staël (1776-1817), importante intellettuale francese, che ebbe un ruolo di primo piano nella divulgazione in Europa del Romanticismo tedesco.

PER APPROFONDIRE

La critica all’arretratezza e al provincialismo dei letterati italiani L’articolo di Madame de Staël è presentato al pubblico nella traduzione dal francese di Pietro Giordani (1774-1848), uno dei più autorevoli letterati italiani del momento e redattore della rivista (oltre che figura di riferimento per il giovane Leopardi, con il quale intreccia dal febbraio 1817 un fitto scambio epistolare). Gli intellettuali italiani conoscevano già l’autrice dell’articolo grazie alla grande diffusione in Italia dal suo scritto Sulla Germania (De l’Allemagne, 1810) che enunciava in forma divulgativa le principali posizioni e idee del Romanticismo tedesco.

La «Biblioteca italiana» (1816-1840) Rientrati nel Lombardo-Veneto dopo la fine del regime napoleonico, gli austriaci cercano di aggregare gli intellettuali non troppo compromessi con il passato regime attorno al progetto di un nuovo periodico: nel 1816 nasce la «Biblioteca italiana» e Foscolo viene contattato per dirigerla (➜ C14). L’obiettivo del governo austriaco è quello di ripristinare, nel nome di una cultura moderatamente aperta e non pedantesca, una nuova concordia tra gli intellettuali dopo le divisioni politiche e ideologiche dell’epoca rivoluzionaria. Foscolo rifiuta però l’incarico e lascia precipitosamente l’Italia, intuendo che il suo nome sarebbe stato usato per attirare uomini di cultura nell’orbita della politica austriaca.

Il nuovo gruppo dirigenziale della rivista (significativi i nomi di Giordani e Monti), rappresentativo di un Classicismo moderato, aperto anche al dibattito culturale europeo, all’inizio attrae molti intellettuali lombardi liberali (come Pietro Borsieri e Silvio Pellico): la pubblicazione dell’articolo di Madame de Staël sembra confermare tale indirizzo. Di fatto, invece, dal periodico ben presto si allontanano gli intellettuali più moderni, che confluiscono nel «Conciliatore», mentre la «Biblioteca italiana» sempre più si configura come l’organo ufficiale del governo austriaco (l’abbonamento è obbligatorio per i comuni). La rivista cessa le pubblicazioni nel 1840.

734 Ottocento 19 Il Romanticismo italiano e la letteratura risorgimentale


Nel suo intervento, la de Staël sprona i letterati italiani ad abbandonare la chiusura orgogliosa nel culto del passato, che ha prodotto nella cultura del Belpaese stasi, arretratezza e un sostanziale provincialismo. Madame de Staël accusa i letterati di sterile erudizione e di prediligere una letteratura fatta di parole e suoni, inautentica e indifferente ai contenuti. Gli italiani vengono invitati ad aprirsi al confronto con le letterature straniere, favorendo la traduzione delle opere tedesche e inglesi, così da trovare in esse nuovi stimoli. Madame de Staël scrive: «Dovrebbero a mio avviso gl’italiani tradurre diligentemente assai delle recenti poesie inglesi e tedesche; onde mostrare qualche novità a’ loro cittadini, i quali per lo più stanno contenti [si attengono] all’antica mitologia, né pensano che quelle favole sono da un pezzo anticate [diventate antiquate], anzi il resto d’Europa le ha già abbandonate e dimentiche [dimenticate]. Perciò gl’intelletti della bella Italia, se amano di non giacere oziosi, rivolgano spesso l’attenzione al di là dell’Alpi, non dico per vestire le fogge straniere, ma per conoscerle; non per diventare imitatori, ma per uscire di quelle usanze viete [superate]». La polemica classico-romantica L’articolo smuove le acque, inducendo i letterati italiani non solo a prendere posizione di fronte alle accuse della de Staël, ma a schierarsi su opposti fronti letterari. La conseguenza è una vivace polemica, denominata “classico-romantica”, che sarebbe più corretto definire classicistico-romantica: si tratta infatti di un dibattito che contrappone (tra il 1816 e la soglia degli anni Venti) seguaci del Classicismo e fautori della nuova letteratura romantica. In Italia il dibattito sulla nuova letteratura è ben lontano dalla profondità e dallo spessore filosofico del dibattito romantico europeo: più che altro ha il carattere di uno scontro (a volte anche aspro) fra letterati progressisti e conservatori, che si soffermano su questioni tutto sommato specifiche e non su una generale visione del mondo. I contendenti polemizzano sull’uso della mitologia, sull’opportunità di accogliere o rigettare le novità straniere, sull’imitazione o meno dei classici, sul rispetto, nei testi teatrali, delle tre unità pseudo-aristoteliche (tempo, luogo, azione) e così via. Certo la polemica serve, in un momento ancora incerto, a far uscire allo scoperto i letterati romantici che, grazie a essa, prendono coscienza di sé come gruppo: ne deriva la fondazione, da parte di alcuni di essi, del «Conciliatore», il periodico dei romantici, in grado di confrontarsi con l’autorevole «Biblioteca italiana», che di fatto diventerà la roccaforte dei classicisti.

Élisabeth Vigée Le Brun, Ritratto di Madame de Staëll come Corinna a Capo Miseno, olio su tela, 1809 (Ginevra, Musée d’Art et d’Histoire).

Il dibattito sul Romanticismo in Italia 1 735


«Il Conciliatore»: il “foglio azzurro” «Il Conciliatore» raccoglie gli intellettuali milanesi più aperti, da Federico Confalonieri (il promotore) a Ludovico di Breme, Silvio Pellico, Pietro Borsieri e Giovanni Berchet (senza dimenticare Manzoni, che appoggia il periodico pur mantenendosi in disparte). Il “foglio azzurro”, così chiamato dal colore della carta, è fondato nel 1818; bisettimanale, sarà costituito di sole quattro pagine a due colonne. Questa scelta è motivata dall’idea di incontrare un pubblico più vasto, quel popolo di cui parla Berchet nella Lettera semiseria di Grisostomo al suo figliuolo (➜ D1d ). L’obiettivo non verrà raggiunto: «Il Conciliatore» avrà un numero modesto di adesioni (solo 240 abbonati) e non riuscirà non solo a varcare i confini d’Italia, ma di fatto neppure a uscire dalla città di Milano.

Il primo numero della rivista «Il Conciliatore».

Gli obiettivi e il modello del «Conciliatore» La direzione è affidata a Silvio Pellico, mentre il programma è steso da Borsieri, che sottolinea l’obiettivo di offrire, attraverso la nuova rivista, un «servizio al pubblico» e l’intento esplicito di conciliare ambiti «utili» come la scienza, l’economia, il diritto, e «dilettevoli» come la letteratura. Il modello è quello autorevole del «Caffè», anche nell’idea di fondo di voler contribuire alla formazione di una moderna e illuminata opinione pubblica. In ambito letterario, fin dall’inizio la rivista si fa portavoce delle idee di fondo del Romanticismo (ecco perché uno scritto del Monti, Gli dei della Grecia, che egli proponeva per il primo numero, viene rifiutato) e di un’apertura al confronto con le culture europee. Il più articolato e importante intervento a difesa del Romanticismo pubblicato sul «Conciliatore», Idee elementari sulla poesia romantica di Ermes Visconti, è considerato uno dei “manifesti” del Romanticismo italiano. L’ideologia politica del «Conciliatore» In ambito politico, il giornale rivela abbastanza chiaramente l’adesione dei collaboratori all’ideologia liberale e patriottica: «romantico», scrive il Pellico nel maggio 1819 al fratello, «fu riconosciuto per sinonimo di liberale, né più osarono dirsi classicisti, fuorché gli ultra e le spie». L’affermazione corrisponde nel complesso al vero (anche se Giordani, ad esempio, è un classicista, eppure è imprigionato ed esiliato); tanto che il governo austriaco se ne accorge ben presto ed esercita sempre una severa censura sulle pagine della rivista. Dopo un interrogatorio subito da Pellico negli uffici di polizia, si decise di chiudere le pubblicazioni: l’ultimo numero esce il 17 ottobre 1819. In seguito ai moti del 1820-21, Borsieri e Pellico saranno arrestati, mentre Berchet andrà in esilio. La posizione dei classicisti Tra i classicisti che reagiscono alle affermazioni di Madame de Staël non mancano atteggiamenti sdegnati, sarcastici o quantomeno ironicamente irridenti (➜ D1b OL): posizioni miopi di chi ha visto nell’intervento della scrittrice francese un ingiustificato attacco alla gloriosa cultura italiana. Altri classicisti assumono invece una linea più equilibrata (come in particolare Pietro Giordani), riconoscendo come giuste le critiche rivolte agli intellettuali italiani, ma di fatto difendendo la concezione classicistica della poesia e il principio di imitazione (➜ D1a OL).

736 Ottocento 19 Il Romanticismo italiano e la letteratura risorgimentale


Nel 1816 anche Leopardi, allora giovanissimo, invia una Lettera ai compilatori della Biblioteca italiana per esprimere la sua posizione al riguardo: la lettera viene rifiutata, così come il successivo Discorso di un italiano intorno alla poesia romantica (1818). Il contributo di Leopardi, proprio perché rimasto inedito, non avrà influenza sul dibattito, ma la profondità e l’originalità delle argomentazioni del giovane scrittore avrebbero potuto arricchire notevolmente il fronte dei classicisti, tra i quali egli sostanzialmente si schiera. Il più noto poeta del tempo in Italia, Vincenzo Monti, all’inizio evita di intervenire nella polemica, restando prudentemente ai margini del dibattito. Solo parecchi anni dopo, quando ormai il Romanticismo trionfa e la polemica si è in sostanza esaurita, scrive il Sermone sulla mitologia (1825) in difesa dell’uso della mitologia; ma il tono malinconico dello scritto testimonia di per sé la percezione della sconfitta. Le posizioni dei romantici Allo stesso 1816 appartengono i primi interventi di parte romantica. I più significativi (che si possono a vario livello considerare i primi “manifesti” del Romanticismo italiano, poiché contribuiscono a definire la visione romantica della poesia) appartengono non a caso ai futuri collaboratori del «Conciliatore». Le posizioni dei romantici sono tutt’altro che omogenee ma, cercando di schematizzarle in termini molto generali, si può dire che essi: • rifiutano l’uso della mitologia, considerata un insieme di forme vuote e ormai lontane dalla realtà e dal sentire popolare, patrimonio di eruditi passatisti; • respingono le regole della poetica aristotelica in nome dell’originalità e della spontaneità; • rigettano il principio di imitazione in nome della storicità dell’arte, che comporta il divenire nel tempo delle forme artistiche, e propongono la creazione di una poesia moderna e popolare (nel senso di un nuovo pubblico, delineato con chiarezza da Berchet nella Lettera semiseria (➜ D1d ). I “manifesti” del Romanticismo italiano Altri scritti centrali nella storia del Romanticismo italiano sono: • l’opuscolo di Ludovico Di Breme Intorno all’ingiustizia di alcuni giudizi letterari italiani. Di Breme riconosce la fondatezza delle accuse di Madame de Staël e la necessità di rinnovare la cultura italiana; • l’opuscolo di Pietro Borsieri Avventure letterarie di un giorno (➜ D1c OL). L’intervento è strutturato in forma narrativa per dargli una forma antipedantesca. Particolarmente importante nel testo è la difesa del genere del romanzo, attaccato dai letterati classicisti, del quale Borsieri individua con chiarezza la moderna funzione; • Lettera semiseria di Grisostomo al suo figliuolo di Giovanni Berchet, il più noto dei manifesti romantici (➜ D1d ); • Idee elementari sulla poesia romantica di Ermes Visconti, uscito a puntate tra il 19 novembre e il 6 dicembre 1818 sul «Conciliatore»; • Lettera a M. Chauvet di Manzoni (composta nel 1820), successiva alla scelta di infrangere nel Carmagnola le unità di tempo e di luogo; ma soprattutto la Lettera a Cesare d’Azeglio sul Romanticismo (1823): in essa lo scrittore milanese si schiera dalla parte del Romanticismo, ma con motivazioni specifiche, connesse alla sua visione religiosa della vita (➜ C21).

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PER APPROFONDIRE

I caratteri specifici del Romanticismo italiano Il Romanticismo italiano si pone in un rapporto di continuità più che di rottura rispetto all’Illuminismo, di cui condivide pienamente la concezione della letteratura (e più in generale della cultura) come strumento di progresso civile: una continuità evidente nel capolavoro del nostro più grande romanziere, Manzoni. Quello italiano è dunque un Romanticismo moderato, poco incline all’esibizione individualistica, ma anche refrattario all’esplorazione del lato “oscuro” della realtà e della psiche, di certo in rapporto alle specifiche condizioni della cultura e della società italiane. Forti motivazioni per ancorare il Romanticismo italiano al concreto, a una letteratura legata alla storia, derivano dal legame con il movimento risorgimentale, a cui praticamente tutti gli scrittori romantici aderiscono, molti dei quali partecipando anche in prima persona alla lotta per l’indipendenza del paese. La necessità di coinvolgere la maggior parte della popolazione e di diffondere i valori-guida del Risorgimento assegna agli scrittori italiani un compito importante nell’elaborare in ambito letterario stimoli utili nella formazione di una coscienza nazionale: da ciò deriva la scarsa presenza nel nostro Romanticismo di motivi irrazionalistici e la netta prevalenza di temi storico-patriottici, sia nella poesia sia nella narrativa. In particolare è prediletta l’epoca medievale e l’età dei comuni, la cui lotta contro l’Impero ben poteva rappresentare quella degli italiani contro l’oppressione straniera. Molto significativo è anche il proliferare delle memorie dei patrioti, che intrecciano le vicende personali alla storia di una nazione che stava nascendo. Proprio per l’importante ruolo civile che per la prima volta rivestivano, gli scrittori romantici italiani si proposero di trovare un linguaggio che riuscisse a parlare alla maggior parte degli italiani e non solo ai letterati di mestiere. Un tentativo convinto, ma non sempre riuscito.

Altre due importanti riviste: «L’Antologia» e «Il Politecnico» Dopo la soppressione del «Conciliatore», nel granducato di Toscana si sviluppa un nuovo tentativo di dare vita a un periodico moderno e liberale: Giovan Pietro Vieusseux (17791863), già organizzatore di un importante ritrovo culturale (il “Gabinetto Vieusseux”), nel gennaio 1821 fonda «L’Antologia», poi soppressa nel 1833. La visione politica della rivista è moderata: prevalgono su quelli letterari interessi storici, economici e scientifici, nell’obiettivo dichiarato di sprovincializzare la nostra cultura. A questo fine si auspica la diffusione di traduzioni di opere straniere. Nel 1839 nasce «Il Politecnico» di Carlo Cattaneo (18011869), ispirato a una visione militante e democratica dell’attività intellettuale che conferisce alla rivista una fisionomia unica nel panorama della pubblicistica ottocentesca. L’obiettivo della rivista è sempre, illuministicamente, quello di dare un contributo «alla prosperità comune e alla convivenza ci-

vile»; ma Cattaneo vuole privilegiare la diffusione del sapere scientifico in modo che l’Italia possa uniformarsi alle nazioni più progredite (alla rivista collaborarono in gran numero fisici, chimici, biologi, oltre a filosofi e letterati). Il fondatore muove un deciso attacco al sapere sterilmente umanistico proprio della nostra tradizione culturale a favore di una cultura moderna capace di incidere veramente sulla società. Una visione a cui si richiamerà, negli anni difficili del secondo dopoguerra, lo scrittore Elio Vittorini (1908-1966), scegliendo significativamente per la rivista da lui fondata lo stesso nome («Il Politecnico», 1945-1947) del periodico di Cattaneo. Quanto allo stile, Cattaneo pensa che «non debba cercare altra efficacia che quella di una semplice e rapida evidenza» e considera un modello da seguire lo stile di Galileo e dei suoi seguaci, reso «bello di semplicità» dalla «grandezza degli argomenti» e dalla «coscienza del vero».

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D1

La polemica classico-romantica Proponiamo alcuni passi particolarmente significativi nell’ambito della polemica classico-romantica in Italia e che offrono punti di vista di entrambi gli schieramenti.

online D1a Pietro Giordani

“Un italiano” risponde al discorso della de Staël «Biblioteca italiana», aprile 1816

D1b Arnaldo Una parodia dei seguaci del Romanticismo Parodia dello statuto d’una immaginaria Accademia romantica

D1c Pietro Borsieri Elogio del romanzo Avventure letterarie di un giorno

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Giovanni Berchet

D1d

Il nuovo pubblico della letteratura romantica Lettera semiseria di Grisostomo al suo figliuolo

G. Berchet, Lettera semiseria di Grisostomo al suo figliuolo, in Lettera semiseria. Poesie, a cura di A. Cadioli, Rizzoli, Milano 1992

Il più celebre dei testi programmatici del nostro Romanticismo è la Lettera semiseria di Grisostomo al suo figliolo del milanese Giovanni Berchet (1783-1851), pubblicata a Milano nel 1816 e che ha grande diffusione. Nella Lettera semiseria (il cui titolo completo è Sul “Cacciatore feroce” e sulla “Eleonora” di Goffredo Augusto Bürger. Lettera semiseria di Grisostomo al suo figliolo), Berchet veste i panni di un personaggio immaginario, dal nome grecizzante di Grisostomo, il quale scrive al figlio, studente in collegio, che gli ha chiesto la traduzione di due ballate, di gusto romantico, del poeta tedesco Gottfried August Bürger. La seconda parte del testo di Grisostomo-Berchet contiene appunto la traduzione in prosa e il commento delle due ballate, mentre la prima presenta osservazioni generali sulla letteratura che esprimono la posizione di Berchet (e in genere dei romantici italiani), che ben si inseriscono nella polemica tra classicisti e romantici. Nella terza parte, l’autore finge di ritrattare le sue posizioni, esortando il figlio a seguire le regole classicistiche (da qui il titolo Lettera semiseria). Nel passo che presentiamo, tratto dalla prima parte della Lettera, particolarmente noto e importante, Berchet identifica il nuovo pubblico a cui si deve rivolgere la letteratura romantica.

Tutti gli uomini, da Adamo in giù fino al calzolaio che ti1 fa i begli stivali, hanno nel fondo dell’anima una tendenza alla poesia2. Questa tendenza, che in pochissimi è attiva, negli altri non è che passiva3; non è che una corda che risponde con simpatiche4 oscillazioni al tocco della prima. 5 La natura, versando a piene mani i suoi doni nell’animo di que’ rari individui ai quali ella concede la tendenza poetica attiva, pare che si compiaccia di crearli differenti affatto5 dagli altri uomini in mezzo a cui li fa nascere. Di qui le antiche favole sulla quasi divina origine de’ poeti6, e gli antichi pregiudizi sui miracoli loro,

1 ti: Grisostomo, che nella finzione è l’au-

3 in pochissimi... passiva: pochissimi so-

tore del testo, si rivolge al figlio. 2 Tutti... poesia: la sensibilità dell’uomo verso la poesia è uno dei tratti fondamentali della concezione romantica, che Berchet trae essenzialmente dal Corso di letteratura drammatica di August Wilhelm Schlegel.

no in grado di creare poesia, ma i più sono comunque capaci di apprezzarla (è quella che Berchet chiama «tendenza passiva»); 4 simpatiche: simpatetiche, fondate cioè sull’innata affinità (propriamente le simpatiche oscillazioni sono le vibrazioni provo-

cate in un corpo da quelle di un altro corpo senza che essi vengano a diretto contatto). 5 differenti affatto: completamente diversi. 6 antiche... poeti: nella mitologia greca ricordiamo in particolare il poeta Orfeo, figlio del dio Apollo.

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e l’«est deus in nobis7». Di qui il più vero dettato8 di tutti i filosofi: che i poeti fanno 10 classe a parte, e non sono cittadini di una sola società ma dell’intero universo. E per verità chi misurasse la sapienza delle nazioni dalla eccellenza de’ loro poeti, parmi che non scandaglierebbe da savio9. Né savio terrei chi nelle dispute letterarie introducesse i rancori e le rivalità nazionali10. Omero, Shakespeare, il Calderón, il Camoens, il Racine, lo Schiller per me sono italiani di patria tanto quanto Dante, 15 l’Ariosto, l’Alfieri. La repubblica delle lettere non è che una, e i poeti ne sono concittadini tutti indistintamente. [...] Il poeta dunque sbalza fuori delle mani della natura in ogni tempo, in ogni luogo. Ma per quanto esimio egli sia, non arriverà mai a scuotere fortemente l’animo de’ lettori suoi, né mai potrà ritrarre alto e sentito applauso, se questi non sono ricchi 20 anch’essi della tendenza poetica passiva. Ora siffatta disposizione degli animi umani, quantunque universale, non è in tutti gli uomini ugualmente squisita11. Lo stupido ottentoto12, sdraiato sulla soglia della sua capanna, guarda i campi di sabbia che la circondano, e s’addormenta. Esce de’ suoi sonni, guarda in alto, vede un cielo uniforme stendersegli sopra del capo, e s’addormenta. Avvolto perpetua25 mente tra ’l fumo del suo tugurio e il fetore delle sue capre, egli non ha altri oggetti dei quali domandare alla propria memoria l’immagine, pe’ quali il cuore gli batta di desiderio. Però13 alla inerzia della fantasia e del cuore in lui tiene dietro di necessità14 quella della tendenza poetica. Per lo contrario un parigino15 agiato ed ingentilito da tutto il lusso di quella gran ca30 pitale, onde pervenire a tanta civilizzazione, è passato attraverso una folta16 immensa di oggetti, attraverso mille e mille combinazioni di accidenti17. Quindi la fantasia di lui è stracca18, il cuore allentato per troppo esercizio19. Le apparenze esterne delle cose non lo lusingano20 (per così dire); gli effetti di esse non lo commovono più, perché ripetuti le tante volte. E per togliersi di dosso la noia, bisogna a lui investigare le ca35 gioni, giovandosi della mente21. Questa sua mente inquisitiva22 cresce di necessità in vigoria, da che l’anima a pro di lei spende anche gran parte di quelle forze che in altri destina alla fantasia ed al cuore; cresce in arguzia23 per gli sforzi frequenti a’ quali la meditazione la costringe. E il parigino di cui io parlo, anche senza avvedersene, viene assuefacendosi24 a perpetui raziocini o, per dirla a modo del Vico25, diventa filosofo. 40 Se la stupidità26 dell’ottentoto è nimica alla poesia, non è certo favorevole molto a 7 est deus in nobis: “c’è una presenza divina in noi”, espressione del poeta latino Ovidio. 8 dettato: opinione. 9 parmi... da savio: mi sembra (parmi) che non condurrebbe la sua indagine da persona saggia: il poeta è comunque un individuo eccezionale, la sua patria è l’universo e non la nazione di cui fa parte. 10 Né savio... nazionali: è evidente la polemica di Berchet verso coloro che, per malinteso culto della gloria nazionale, proprio in quell’anno hanno mal visto l’invito di Madame de Staël a far circolare in Italia testi stranieri. Seguono nomi di grandissimi poeti (da Omero a Schiller) che, sebbene nati in varie nazioni e in diverse epoche, Berchet considera italiani perché la grandezza poetica non ha patria. Il Camoens è il poeta porto-

ghese Luís de Camões (1525-80), autore dei Lusiadi. 11 squisita: perfetta. Berchet, dunque, istituisce (e lo farà in modo più dettagliato nel seguito del passo) una gerarchia all’interno di quella capacità di recepire la poesia che in sé è universale. 12 Lo stupido ottentoto: il rozzo ottentotto. Gli ottentotti sono una popolazione dell’Africa meridionale: qui il termine è sinonimo di uomo rozzo, incivile, che si limita a soddisfare i bisogni primari per la sola sopravvivenza materiale. 13 Però: perciò. 14 tiene dietro di necessità: consegue necessariamente. 15 un parigino: qui sinonimo di uomo colto e raffinato, ricco di letture ed esperienze colte, evidentemente una tipologia opposta all’ottentoto di prima.

740 Ottocento 19 Il Romanticismo italiano e la letteratura risorgimentale

16 folta: folla, gran quantità. 17 accidenti: eventi. 18 stracca: stanca, infiacchita. 19 il cuore... troppo esercizio: le emozioni indebolite dall’eccesso di sollecitazioni.

20 lusingano: attraggono. 21 bisogna... mente: ha necessità di indagare razionalmente (giovandosi della mente) le cause. 22 inquisitiva: indagatrice. 23 arguzia: sottigliezza di analisi. 24 assuefacendosi: abituandosi. 25 a modo del Vico: secondo Giambattista Vico (1668-1744), pensatore scoperto e valorizzato proprio nell’età romantica, l’eccesso di raziocinio indebolisce l’attitudine alla poesia. 26 stupidità: sempre nel senso di “rozzezza”, “incultura”.


lei la somma civilizzazione del parigino. Nel primo la tendenza poetica è sopita; nel secondo è sciupata in gran parte. I canti del poeta non penetrano nell’anima del primo, perché non trovano la via d’entrarvi. Nell’anima del secondo appena appena discendono accompagnati da paragoni e da raziocini: la fantasia ed il cuore 45 non rispondono loro che come a reminiscenze27 lontane. E siffatti canti28, che sono l’espressione arditissima di tutto ciò che v’ha di più fervido nell’umano pensiero, potranno essi trovar fortuna fra tanto gelo? E che meraviglia se, presso del parigino ingentilito, quel poeta sarà più bene accolto che più penderà all’epigrammatico29? Ma la stupidità dell’ottentoto è separata dalla leziosaggine del parigino fin ora de50 scritto per mezzo di gradi moltissimi di civilizzazione, che più o meno dispongono l’uomo alla poesia. E s’io dovessi indicare uomini che più si trovino oggidì in questa disposizione poetica, parmi30 che andrei a cercarli in una parte della Germania31. [...] L’annoverare qui gli accidenti fisici propizi o avversi alla tendenza poetica; il dire minutamente come questa, del pari che la virtù morale, possa essere aumentata o 55 ristretta in una nazione dalla natura delle istituzioni civili, delle leggi religiose e di altre circostanze politiche, non fa all’intendimento mio32. Te ne discorreranno, o carissimo33, a tempo opportuno, i libri ch’io ti presterò. Basti a te per ora il sapere che tutte le presenti nazioni d’Europa – l’italiana anch’essa né più né meno – sono formate da tre classi d’individui: l’una di ottentoti, l’una di parigini e l’una, per 60 ultimo, che comprende tutti gli altri individui leggenti ed ascoltanti, non eccettuati quelli che, avendo anche studiato ed esperimentato quant’altri34, pur tuttavia ritengono attitudine alle emozioni35. A questi tutti io do nome di «popolo». Della prima classe, che è quella dei balordi calzati e scalzi36, non occorre far parole. La seconda, che racchiude in sé quei pochi, i quali escono dalla comune37 in modo 65 da perdere ogni impronta nazionale, vuole38 bensì essere rispettata dal poeta, ma non idolatrata, ma non temuta. Il giudizio che i membri di questa classe fanno delle moderne opere poetiche, non suole derivare dal suffragio immediato delle sensazioni, ma da’ confronti. Negli anni del fervore eglino hanno trovato il bello presso tale e tal altro poeta, e ciò che non somiglia al bello sentito un tempo, pare loro ora di 70 doverlo ricusare39. [...] La lode che al poeta viene da questa minima parte della sua nazione non può davvero farlo andare superbo; quindi anche il biasimo ch’ella sentenzia40, non ha a mettergli grande spavento. La gente ch’egli cerca, i suoi veri lettori stanno a milioni nella terza classe. E questa, cred’io, deve il poeta moderno aver di mira, da questa 75 deve farsi intendere, a questa deve studiar41 di piacere, s’egli bada al proprio interesse ed all’interesse vero dell’arte. 27 reminiscenze: ricordi. 28 siffatti canti: i canti poetici. 29 E che meraviglia... epigrammatico: e come stupirsi se sarà accolto meglio dal parigino raffinato quel poeta che propenderà maggiormente verso la poesia concettosa (che più penderà all’epigrammatico)? 30 parmi: mi sembra. 31 in una parte della Germania: Berchet indica la Germania (o parte di essa) come la patria della poesia. E proprio in Germania era appunto nato il movimento romantico. 32 L’annoverare... intendimento mio:

l’autore non si propone di elencare le circostanze materiali (accidenti fisici) che favoriscano od ostacolino la tendenza poetica, né il ruolo che possano avere le istituzioni, la religione o le circostanze politiche. 33 o carissimo: Grisostomo si rivolge al figlio, cui appunto è indirizzata la lettera. 34 quant’altri: come i parigini. 35 pur tuttavia... emozioni: nondimeno mantengono una qualche capacità di provare emozioni (condizione per Berchet necessaria per poter apprezzare la poesia). 36 balordi calzati e scalzi: ottusi insensibili, sia benestanti che poveri.

37 escono dalla comune: si distinguono dagli altri.

38 vuole: deve. 39 Il giudizio... ricusare: Berchet attacca qui nei parigini un pubblico conservatore, che giudica le opere poetiche con criteri astratti, attraverso sterili paragoni con il bello ideale, identificato in passati modelli; ricusare, rifiutare. Sullo sfondo si intravede la polemica tra classicisti e romantici; eglino sta per “essi”, “questi”. 40 il biasimo... sentenzia: il giudizio negativo che esprime. 41 studiar: preoccuparsi.

Il dibattito sul Romanticismo in Italia 1 741


Concetti chiave Una nuova poesia per un nuovo pubblico

L’autore Giovanni Berchet nasce a Milano nel 1783 da una famiglia borghese di origine svizzera. Nel 1816 inizia a frequentare il gruppo dei romantici e scrivere la Lettera semiseria; nel 1818 è tra i più attivi collaboratori del «Conciliatore». Dopo la chiusura forzata la rivista, si rifugia prima in Svizzera e poi in Francia, ma il governo austriaco ne chiede l’estradizione. Ripara allora in vari paesi fino ad approdare nel 1822 a Londra, dove rimane fino al 1829. Intanto pubblica I profughi di Parga, le Poesie e le Fantasie, opere i cui temi patriottici sono in primo piano. Continuano nel frattempo le sue continue le sue peregrinazioni, prima in Belgio e poi a Nizza. Nel 1848 torna a Milano in occasione dei moti. Falliti i progetti di indipendenza dall’Austria, si reca a Torino, dove muore nel 1851. Tendenza poetica attiva e passiva La prima parte del testo è incentrata sull’enunciazione del principio romantico dell’universalità della tendenza poetica, dalla quale nessun uomo è escluso. Tuttavia Berchet distingue fra tendenza attiva (la capacità di produrre poesia), che è prerogativa di pochi, e tendenza passiva, che riguarda tutti gli uomini (ma seguirà poi una distinzione, che occupa la maggior parte del testo, tra i vari gradi con cui è recepita la poesia). Il poeta è uno di quei pochi esseri eccezionali che costituiscono, senza distinzione, la repubblica delle lettere. La voce divina dei poeti però ha bisogno, per esprimersi, di chi la recepisca. Nuova poesia, nuovo pubblico A questo punto Berchet introduce la distinzione tra ottentoti, parigini e popolo che costituisce l’aspetto più noto e interessante della Lettera semiseria. Alla base della distinzione, che finisce per identificare il pubblico ideale nel popolo, sta una libera interpretazione del principio vichiano secondo cui la facoltà poetica è propria delle epoche più arcaiche: a mano a mano che la civilizzazione procede e il sapere scientifico-filosofico avanza, l’ispirazione poetica, che si fonda sulla fantasia, tende ad affievolirsi, così come la capacità di recepire la poesia. Berchet applica però questo principio non a diverse età, ma a diverse categorie di persone. Non si tratta di una distinzione strettamente sociale, anche se il discorso fatto da Berchet finisce inevitabilmente per assumere anche un significato sociologico: identifica infatti nei ceti medi quel pubblico che, lontano dalla rozzezza e primitività (proprie degli ottentoti), come pure da un eccesso di raffinatezza e cultura (proprio dei parigini), è in grado di apprezzare veramente la poesia. Il popolo di cui parla Berchet, dando più precisa connotazione realistica al mito romantico della popolarità dell’arte, mantiene quell’«attitudine alle emozioni» che i parigini hanno perso e che è una qualità necessaria per recepire la poesia. Come scrive Berchet in un passo della lettera qui non riportato: il poeta moderno (che corrisponde al poeta romantico) deve essere consapevole che «...mille e mille famiglie pensano, leggono, scrivono, piangono, fremono e sentono le passioni tutte, senza pure avere un nome ne’ teatri....». Ed è a questo pubblico ampio, che di fatto coincideva con i vari strati della borghesia, che la letteratura romantica si rivolgeva. Ovviamente i termini ottentoto e parigino non vanno intesi letteralmente, come allusivi a una popolazione, ma in senso simbolico: il primo termine allude a una condizione di ignoranza, di elementarità del sentire, il secondo a un eccesso di raffinatezza e di raziocinio che ostacola la comprensione della poesia che, per i romantici, è spontanea creazione, espressione del sentimento e della fantasia. Da questa categoria di lettori il poeta non deve più farsi condizionare, ma deve invece rivolgersi a quel vasto pubblico a cui l’emergente industria editoriale sta cominciando a guardare con interesse anche in Italia.

William Wyld, Il duomo di Milano visto da una strada laterale, olio su tela, 1834 (Collezione privata).

742 Ottocento 19 Il Romanticismo italiano e la letteratura risorgimentale


Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

SINTESI 1. Dividi il testo in parti, titolandole, e sintetizzane il percorso argomentativo. COMPRENSIONE 2. Che cosa significa l’espressione «la repubblica delle lettere non è se non una»? 3. Quale rapporto fra scrittore e pubblico è auspicato da Berchet?

Interpretare

LEGGERE LE EMOZIONI

SCRITTURA 4 Sottolinea i passi in cui Berchet delinea le caratteristiche del popolo e spiega le ragioni per cui la poesia romantica può essere definita “popolare” (max 6-8 righe). 5. Berchet crede fermamente nella necessità di una poesia che si allontani dal culto dei classici e da un puro esercizio intellettualistico e ritiene, invece, che essa debba nascere dalla «fantasia» e dal «cuore». Quale rapporto hai con la parola poetica? Ti emoziona la lettura di poesie?

2 Il genere egemone del Romanticismo italiano: il romanzo storico La contrastata accettazione del genere romanzo A partire dagli anni Venti, anche in Italia il romanzo conosce una grande fortuna, soprattutto in seguito alla pubblicazione, nel 1827, dei Promessi sposi. Grazie al successo di pubblico e all’indiscutibile qualità dell’opera, I promessi sposi riescono a vincere la diffidenza e a volte la vera e propria ostilità degli ambienti letterari conservatori verso il genere del romanzo. I letterati tradizionalisti vedevano infatti nel romanzo un genere letterario minore, che non esisteva nella tradizionale codificazione dei generi e che poteva coinvolgere emotivamente in modo pericoloso i lettori (e soprattutto le lettrici). I teorici del Romanticismo italiano, da Pietro Borsieri nelle Avventure letterarie di un giorno (➜ D1c OL) a Berchet nella Lettera semiseria di Grisostomo (➜ D1d ), difendono invece il romanzo, intuendone le grandi potenzialità nella formazione di un nuovo pubblico. Si comprende che la mancanza, in Italia, di una narrativa moderna è il frutto di una società ancora arretrata, in cui manca una classe borghese solida. L’affermazione del romanzo storico Tra le varie tipologie di romanzo, gli scrittori italiani si orientano nettamente verso il sottogenere del romanzo storico, il cui atto di nascita è costituito proprio dai già citati Promessi sposi (1827), ai quali seguiranno innumerevoli lavori tra lo stesso 1827 e il 1840 (anno della redazione definitiva del romanzo manzoniano). È da ricordare che nel 1821-1822 sono elaborate le prime traduzioni dei romanzi di Scott, che costituisce anche per Manzoni il principale punto di riferimento. La predilezione della cultura italiana per il romanzo storico si spiega con i caratteri specifici del Romanticismo italiano a cui si è fatto riferimento: in rapporto alle vicende politiche del paese, gli scrittori e il pubblico italiani sono più interessati alle vicende storiche, sia pur romanzate, che all’invenzione fantastica. Attraverso la rievocazione di episodi salienti e di personaggi della storia italiana si può svolgere un’opera di educazione e sensibilizzazione politico-patriottica dei lettori: il pubblico, infatti, è indotto a riconoscere nel passato le proprie radici, il “genio” del popolo italiano (il passato è sempre presentato nei vari romanzi come “preistoria del presente”). In questo senso il romanzo storico svolge effettivamente un’azione importante nella formazione della coscienza risorgimentale. Oltre all’ingrediente storico però, secondo una “ricetta” adottata sistematicamente, gli scrittori inseriscono nei loro romanzi anche quelle vicende sentimentali che il Il dibattito sul Romanticismo in Italia 1 743


pubblico richiede sempre di più e la cui assenza ne pregiudicherebbe il successo; proprio questa commistione di storia e invenzione, oltre alla scarsa qualità letteraria di molti romanzi, induce Manzoni, “padre” del romanzo storico italiano, a prenderne le distanze e a formulare un giudizio severo su di esso nel saggio Del romanzo storico, pubblicato dopo una lunga gestazione nel 1850. Rivolgendosi a un pubblico di lettori comuni, che vogliono avvincere, i romanzieri utilizzano espedienti avventurosi, colpi di scena, ingredienti tratti anche dal romanzo gotico, accentuando il carattere popolare delle loro opere non solo rispetto al grande modello manzoniano, ma anche rispetto alla lezione di Scott. Anche nel romanzo storico del primo Ottocento si avverte l’influenza dei due principali schieramenti ideologico-politici del nostro Risorgimento: quello cattolicoliberale e quello democratico (➜ PAGG. 752-754). Al primo appartengono, tra gli altri, Tommaso Grossi (1790-1853), amico personale di Manzoni, autore del romanzo Marco Visconti (1834), incentrato su una vicenda amorosa che ha sullo sfondo eventi politici legati alla dinastia dei Visconti; Cesare Cantù (1804-1895), autore di Margerita Pusterla (1838); Massimo d’Azeglio (1798-1866), genero di Manzoni e autore, oltre che di Niccolò de’Lapi (1841), del fortunato Ettore Fieramosca (1833), romanzo di forte ispirazione risorgimentale, che trae spunto dalla disfida di Barletta, avvenuta ai primi del Cinquecento fra cavalieri francesi e italiani. Appartiene invece all’area democratica Francesco Domenico Guerrazzi (1804-1873), autore di La battaglia di Benevento (1828), L’assedio di Firenze (1836) e Beatrice Cenci (1853). Ma quelli citati sono solo gli esempi più noti di quella che diventa una vera e propria moda, destinata a esaurirsi verso la metà del secolo. Unico esempio di romanzo di notevole levatura letteraria, nel panorama complessivamente modesto della narrativa italiana del primo Ottocento, è Le confessioni di un italiano, composto nel 1858 da Ippolito Nievo (1831-1861) morto non ancora trentenne durante la spedizione dei Mille: un romanzo di impianto storico, ma ormai lontano dalle prerogative canoniche (e dai limiti) del genere. (➜ C17).

La poetica romantica in Italia

CARATTERI GENERALI

RUOLO “CIVILE” DELLA LETTERATURA

• dibattito tra classicisti e romantici • poesia moderna e popolare • rifiuto del principio di imitazione e dell’uso della mitologia

• sostegno al Risorgimento • interesse per la storia (soprattutto il Medioevo) e per i temi patriottici

predilezione per il romanzo storico

744 Ottocento 19 Il Romanticismo italiano e la letteratura risorgimentale


2

Le confessioni di un italiano di Nievo: un romanzo all’incrocio dei generi 1 L’autore Ippolito Nievo Nievo nasce a Padova nel 1831 e qui si laurea in legge nel 1855, ma non eserciterà la professione di avvocato a cui il padre voleva avviarlo. Assai presto si manifestano in lui interessi politici (aderisce alla corrente democratica) e letterari, che si traducono in una serie di opere: dalle novelle e romanzi di ambientazione e soggetto campagnolo (Il novelliere campagnolo e altri racconti; Il barone di Nicastro) alle liriche (Lucciole, 1858; Amori garibaldini, 1860). Tra il 1857 e il 1858 scrive il suo capolavoro: Le confessioni di un italiano, che verranno pubblicate postume presso Le Monnier con il titolo Confessioni di un ottuagenario senza l’ultima revisione d’autore. Egli partecipa, infatti, alla spedizione dei Mille e nel 1861 muore, appena trentenne, in un naufragio mentre sta rientrando a Napoli dalla Sicilia.

2 Il romanzo

Ippolito Nievo.

La trama Il romanzo Le confessioni di un italiano narra le vicende di Carlo Altoviti, orfano di madre e abbandonato dal padre. Il protagonista viene quindi allevato dalla zia materna al castello di Fratta, vicino a Portogruaro, allora sotto la Repubblica di Venezia. Si interessano a lui solo il vecchio servitore Martino e la capricciosa contessina Pisana, che Carlino amerà fino alla morte della donna, nonostante il suo comportamento volubile e contraddittorio. Il giovane studia legge a Padova e ben presto inizia a nutrire idee liberali, ma il trattato di Campoformio disillude brutalmente il suo entusiasmo per Napoleone; in seguito all’occupazione austriaca fugge dal territorio veneziano e ripara in varie città. A Napoli prende parte ai moti che portano alla nascita della Repubblica partenopea; fatto prigioniero, è condannato a morte ma viene salvato dall’intervento della Pisana, con la quale fugge a Genova e poi a Bologna. Costituitosi il Regno d’Italia, Carlo torna a Venezia e sposa, per suggerimento della Pisana, Aquilina, una ragazza semplice e concreta, che gli darà due figli. Dopo la caduta di Napoleone e l’avvento della Restaurazione, Carlo combatte con i patrioti di Guglielmo Pepe. È condannato ai lavori forzati all’isola di Ponza, dove si ammala e perde la vista. Graziato per una protezione autorevole sollecitata dalla Pisana, si reca con lei a Londra: qui è assistito dalla donna, che si riduce a elemosinare per lui. Carlino riacLe confessioni di un italiano di Nievo: un romanzo all’incrocio dei generi 2 745


quista la vista ma la Pisana, provata dalle fatiche e dagli stenti, muore. Carlo torna in Italia e, ormai vecchio, scrive le sue memorie.

Giuseppe Canella, Veduta di mulino (collezione privata).

Un romanzo all’incrocio tra diversi generi Il romanzo di Nievo, sebbene non abbia avuto da parte dell’autore le ultime correzioni, presenta molti elementi di interesse, innanzitutto per l’originalità dell’impianto: si tratta infatti di un romanzo complesso, all’incrocio tra diversi generi. Sicuramente Nievo guarda al fortunato modello del romanzo storico (sono molteplici gli echi diretti dei Promessi sposi, in particolare nelle pagine del tumulto di Portogruaro) ma vi introduce una variazione fondamentale: l’inserimento dell’attualità (mentre, come si è visto, il romanzo storico faceva riferimento esclusivamente alla storia passata). La narrazione, condotta in forma di memorie personali dal protagonista, che si immagina ormai ottantenne, può richiamare anche la memorialistica di carattere patriottico che fiorisce abbondantemente nell’ambito dell’esperienza risorgimentale. D’altra parte, caratteri specifici dell’opera di Nievo sono il rifiuto di ogni mitizzazione, di ogni visione idealizzante (si rimanda, a conferma di ciò, all’episodio dell’incontro tra Carlino e Napoleone ➜ T3 ) e la prospettiva dichiaratamente realistica e antieroica, con il frequente ricorso all’ironia. Il titolo (che richiama Le confessioni rousseauiane) sembrerebbe rimandare alla narrazione autobiografica settecentesca, ma in Nievo l’esperienza del protagonista è strettamente intrecciata al percorso storico-politico dell’Italia verso l’unità nazionale; ed è proprio questo nesso che a lui sta a cuore sottolineare, come già si comprende dalle prime parole del romanzo: «Io nacqui veneziano e... morrò per la grazia di Dio italiano...» (➜ T1 OL). La tipologia che più identifica il romanzo di Nievo è il Bildungsroman, il “romanzo di formazione”: la narrazione segue il percorso di Carlino Altoviti nella sua crescita spirituale, culturale e umana. Essa si svolge in un periodo storico di transizione per l’Europa e per l’Italia in particolare («a cavalcione di due secoli»), dall’ancien régime e dagli schemi immobili della vita feudale (ritratti in particolare nei primi cinque capitoli, relativi al castello di Fratta) agli avvenimenti napoleonici e allo scoppio dei primi moti, per arrivare fino al 1849, subito dopo la prima guerra d’indipendenza. Nell’itinerario, anche spaziale, del protagonista – che è condotto “fuori” dal mondo immobile di Fratta e immesso nella realtà tumultuosa della storia (un passaggio sottolineato, nel romanzo, dall’ampliarsi degli spazi e dall’accelerazione del tempo della narrazione) – si rispecchia la difficile nascita di una nazione. Il narratore-protagonista: un antieroe La storia di Carlino in sé non ha niente di esemplarmente eccezionale, così come “normale” si configura fin dalle prime righe del romanzo il protagonista-narratore, che non ha i tratti dell’eroe romantico né vuole incarnare la figura del patriota-modello. La narrazione della sua vicenda ai lettori è motivata esclusivamente dal periodo storico eccezionale in cui egli si è trovato a vivere: «nulla sarebbe di strano o degno di essere narrato, se la mia

746 Ottocento 19 Il Romanticismo italiano e la letteratura risorgimentale


vita non correva a cavalcione di questi due secoli che resteranno un tempo assai memorabile massime nella storia italiana». La storia di Carlino, come il narratore esplicita nel primo capitolo, è solo una delle tante: «sarà quasi un esemplare di quelle innumerevoli sorti individuali che [...] composero la gran sorte nazionale italiana» (➜ T1 OL). Lo sguardo “lungo” sulla storia italiana Ciò che dà particolare significato alla narrazione è la veneranda età del protagonista, immaginato da Nievo ottuagenario e perciò ricco di saggezza; ma soprattutto, grazie alla sua lunga vita, capace di abbracciare molti anni cruciali della storia italiana, estendendo il suo sguardo a ritroso, dal periodo risorgimentale agli ultimi decenni del Settecento. La scelta particolare di Nievo riguardo alla voce narrante comporta la presenza nel romanzo di uno sguardo “lungo” sulla storia italiana, che sottrae la narrazione alla retorica dei grandi ideali propria della letteratura risorgimentale. Nievo è tra i pochi scrittori a capire che, se si voleva davvero costruire una nuova nazione su basi solide, occorreva una riflessione seria e spassionata sui mali maggiori che affliggevano la società italiana, riflessione che non poteva prescindere dal risalire alle loro origini storiche. online Si capisce allora il valore del quadro che nel romanzo viene T1 Ippolito Nievo L’esordio del romanzo offerto del microcosmo di Fratta (➜ T1 OL e T2 OL), dove CarliLe confessioni di un italiano, cap. I no assiste «all’ultimo e ridicolo atto del gran dramma feudale». Esso non è solo una rappresentazione affettuosa e insieme online ironica, bensì un’analisi che permette di capire con quale tipo T2 Ippolito Nievo Il conte di Fratta, emblema della società di realtà si sarebbe scontrato quel nuovo mondo che il vento feudale della storia stava per portare anche in Italia. Le confessioni di un italiano, cap. I È indubbia, nel giovane romanziere, la fiducia nel valore pedagogico della letteratura: uno sforzo di comprensione-valutazioonline T3 Ippolito Nievo ne degli eventi indirizzato alla crescita morale e civile dei lettori. Carlo Altoviti incontra un Napoleone molto diverso dal mito Le confessioni di un italiano, cap. X

online T4 Ippolito Nievo

La bufera della storia e la fine di un mondo Le confessioni di un italiano, cap. XVIII

Lo stile Anche sul piano stilistico, le scelte di Nievo sono originali: è contrario sia al fiorentinismo manzoniano sia, ancor più, alle rigide posizioni dei puristi. Nievo attinge così il suo lessico agli ambiti più diversi, senza preclusioni: dai dialetti veneti e lombardi alla tradizione letteraria. Anche sul piano sintattico prevale la varietà: una misurata mimesi dei modi del parlato si associa ai procedimenti della prosa di tradizione letteraria.

Le confessioni di un italiano GENERE

romanzo all’incrocio di diversi generi: romanzo storico, romanzo autobiografico e memoriale, “romanzo di formazione”.

DATAZIONE

stesura tra il 1857 e il 1858. Pubblicazione, senza ultima revisione dello scrittore, nel 1867, con il titolo Confessioni di un ottuagenario.

TEMI

riflessione antiretorica sui grandi mali che affliggono la società italiana e ricerca delle origini storiche che li hanno prodotti.

STILE

lessico attinto agli ambiti più vari (dai dialetti veneti e lombardi alla tradizione letteraria).

Le confessioni di un italiano di Nievo: un romanzo all’incrocio dei generi 2 747


Ippolito Nievo

T5

La Pisana, una figura femminile fuori dagli stereotipi

EDUCAZIONE CIVICA

nucleo Costituzione competenza 3

PARITÀ DI GENERE equilibri #PROGETTOPARITÀ

Le confessioni di un italiano, cap. VIII I. Nievo, Le confessioni di un italiano, Einaudi, Torino 1964

Nel romanzo di Nievo ha un ruolo di primo piano la figura della Pisana, la contessina che compare sulla scena del romanzo fin dall’inizio e che ricompare poi nei momenti chiave dell’avventurosa esistenza di Carlo Altoviti. Si tratta di un personaggio originale, a tratti addirittura inquietante, di certo non riconducibile agli stereotipi romanzeschi del tempo. Anche dal passo che presentiamo la Pisana si mostra un personaggio di sorprendente modernità.

Le stranezze della Pisana toccavano sovente all’ingiustizia1; spesso apparivano svergognatezza2, se io non avessi ricordato quanto spensierata ella fosse di natura. Le sue simpatie non aveano più né ragione né scusa né durata né modo3. Questa settimana s’apprendeva4 d’un affetto rispettoso e veemente pel vecchio Piovano5 di 5 Teglio; usciva col velo nero sul capo e le ciglia basse; s’intratteneva con lui sulla porta della canonica volgendo le spalle ai passeggieri6; udiva pazientemente i suoi consigli e perfino le sue mezze prediche. Si ficcava in testa di diventare una santa Maddalena, si pettinava i capelli come li vedeva a questa santa in un quadretto che stava a capo del suo letto. Il giorno dopo compariva mutata come per incanto; la 10 sua delizia non era più il Piovano, ma il cavallante7 Marchetto; voleva a tutta forza8 ch’ei le insegnasse a cavalcare; scorrazzava pei prati a bisdosso9 d’un ronzino come un’amazzone, e si guastava10 la fronte e le ginocchia contro i rami della boscaglia. Allora non voleva seco11 che poverelli e contadini; si atteggiava, credo, a castellana del Medio Evo; camminava lungo il rio12 a braccetto di Sandro il mugnaio, e perfin 15 Donato, lo spezialino13, le pareva troppo azzimato e artifizioso14. Poco stante15, eccola cambiar registro; voleva esser condotta mattina e sera a Portogruaro16; faceva attrappire17 tutti i vecchi cavalli di suo padre nelle fangose carraie di quelle stradacce, ma si dovea sempre correre di galoppo. Godeva di eclissare la podestaressa, la Correggitrice18, e tutte le signore e donzelle della città. Giulio Del Ponte, il damerino 20 più vivace e desiderato, le serviva di riverbero19: parlava e gesticolava con lui, non perché avesse nulla a dirgli, ma per ottener voce di briosa e maligna20. Giulio ne era innamorato pazzamente e avrebbe giurato ch’ella aveva più brio di tutte le male lingue di Venezia. Ella invece sempre scontenta, sempre tormentata da desiderii mal definiti, e da una voglia sfrenata di piacere a tutti, di far bene a tutti, non pensa25 va che ciò, non si studiava che a ciò21, e rade volte si prendea la briga di neppur ascoltare quando altri parlava. 1 toccavano sovente all’ingiustizia: sconfinavano spesso nell’ingiustizia. 2 svergognatezza: spudoratezza. 3 Le sue simpatie... né modo: la Pisana si delinea attraverso le parole del narratore come dotata di una personalità eccentrica, imprevedibile e incostante, poco incline al vaglio razionale dei propri comportamenti. 4 s’apprendeva: si accendeva. 5 Piovano: curato. 6 passeggieri: passanti.

7 cavallante: stalliere, custode di cavalli. 8 a tutta forza: a tutti i costi. 9 a bisdosso: sul dorso senza sella. 10 si guastava: si feriva. 11 seco: con sé, vicino a sé. 12 rio: fiumicello. 13 lo spezialino: il garzone del farmacista. 14 troppo azzimato e artifizioso: elegante in modo ricercato e artefatto. 15 Poco stante: poco dopo. 16 Portogruaro: la cittadina vicino al feu-

748 Ottocento 19 Il Romanticismo italiano e la letteratura risorgimentale

do di Fratta. 17 attrappire: rattrappire. 18 la podestaressa, la Correggitrice: erano le mogli degli uomini più autorevoli e più in vista. 19 di riverbero: da specchietto di richiamo. 20 voce... maligna: fama di spigliata e di maliziosa. 21 non si studiava che a ciò: non si impegnava in altro che in questo.


Questa era una qualità singolarissima della sua indole, che purché fosse certa di far contento alcuno, a nessuna opera, per quanto difficile e schifosa, si sarebbe rifutata. Se uno storpio, uno sciancato, un mostro avesse mostrato desiderio d’ottenere un 30 suo sguardo lusinghiero, tosto ella glielo avrebbe donato così amorevole, così lungo, così infocato come al vagheggino22 più lindo e lucente. Era generosità, pensieratezza, o superbia? Forse questi tre motivi si univano a renderla tale; per cui non ebbe dintorno essere tanto odioso e spregevole che con un’attitudine23 di preghiera non ottenesse da lei confidenza e pietà, se non affetto e stima. Perfino con Fulgenzio si 35 addomesticava24 talvolta a segno da25 sedere al suo focolare intantoché dimenavano26 la polenta. E poi, uscita di là, la sola memoria di quel bisunto ipocrita sagrestano le metteva raccapriccio. Ma non poteva resistere a un’occhiata di adulazione. [...] Io mi maravigio ancora che non ne nascesse sotto gli occhi del Conte e del Cano40 nico27 qualche gravissimo scandalo; ma forse le apparenze furono peggiori della realtà, e le fatiche corporali e la vita selvatica e vagabonda attutirono per allora nella Pisana gli istinti focosi e sensuali. In ciò io era più disposto tuttavia a veder nero che bianco; perché essendo stato testimonio e compagno delle sue infantili effervescenze, durava grande fatica28 a credere che l’età più adulta avesse smorzato 45 in lei quello che suole accendere negli altri. Briaco29 d’amore e di rimembranze30, ogni qualvolta un impeto di compassione me la recava fra le braccia e non la sentiva tremare e sospirare come avrei voluto, la gelosia mi torceva l’anima: pensava 22 vagheggino: bellimbusto. 23 attitudine: atteggiamento. 24 si addomesticava: assumeva atteggia-

25 a segno da: al punto di. 26 dimenavano: mescolavano. 27 Conte... Canonico: rispettivamente il

menti di confidenza.

padre e lo zio della Pisana.

28 durava grande fatica: facevo molta fatica. 29 Briaco: ubriaco. 30 rimembranze: ricordi.

Francesco Hayez, I vespri siciliani, olio su tela, 1846 (Roma, Galleria Nazionale d’Arte Moderna e contemporanea).

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che a me restassero le ceneri d’un fuoco che avea bruciato per altri, e su quelle labbra dove m’immaginava dover gustare ogni gioia del paradiso trovava invece i 50 tormenti dell’inferno. Ella si stoglieva31 da me disgustata della mia freddezza, della mia rabbia continua; io fuggiva da lei colle mani nei capelli, colla disperazione nel cuore volgendo nell’animo pensieri di morte e di vendetta. [...] Nessuno al mondo esisterà mai, per quanto incantevole e perfetto, che avesse potuto concentrare in sé solo e per sempre tutti gli affetti, tutti i desiderii della Pisana. 55 Io che ne aveva una buona parte, desiderava l’altra: se avessi ottenuto questa, mi sarebbe mancata la prima. Poiché né Giulio, né alcun altro prima o dopo di lui, poté vantarsi di godere al pari di me la confidenza e la stima della Pisana. Io solo, io solo ebbi questa parte più intima e sola forse santa dell’anima sua; io solo, nei pochi intervalli che fui da lei beato d’amore, ho potuto credermi padrone di 60 tutto l’esser suo, veramente amante, poiché l’amava conoscendola com’ella era; veramente amato, perché al sentimento che mi desiderava, la ragione stessa dava la sveglia e l’abbandono soave della gratitudine. Oh! mi si conceda questo unico premio d’un amore sì lungo, paziente, infelice. Mi si conceda di poter credere che come io prelibai32 le delizie di quell’anima, così solo ne ebbi il pieno godimento. 65 Né lo spettacolo d’un bello e vario prospetto di natura33, né l’aspetto d’un quadro finitamente condotto può apprezzarsi degnamente se non da chi ha la vera conoscenza della natura e dell’arte. Nessuno potrà apprezzare certo i tesori di un’anima, se non ne ha indagato con lunga consuetudine e con devoto e profondo amore i più reconditi nascondigli. La Pisana fu una creatura siffatta, che soltanto chi nacque, 70 si può dire, e crebbe con lei, e pensò sempre a lei, e non amò che lei, può averla interamente indovinata. 31 si stoglieva: si scostava. 32 prelibai: gustai per primo.

33 prospetto di natura: prospettiva, panorama naturale.

Analisi del testo La Pisana: un personaggio moderno, refrattario agli schemi Insieme a Carlo, il protagonista-narratore, l’altra figura centrale nel romanzo di Nievo è sicuramente la Pisana, uno dei personaggi femminili più significativi e memorabili della nostra letteratura. Essa ha un ruolo importante anche sul piano dell’intreccio: non solo scompare e ricompare nei momenti chiave della vicenda ma, con il suo provvidenziale intervento, produce anche svolte sorprendenti nel corso degli eventi, come una sorta di deus ex machina. Si tratta di una figura che rimane enigmatica sino alla fine del romanzo e la cui personalità fin dalle prime pagine appare sotto il segno della volubilità e della contraddizione: «Volubile come una farfalla che non può ristar due minuti sulla corolla d’un fiore, senza batter le ali per succhiarne uno diverso, ella passava d’un tratto dalla dimestichezza al sussiego, dalla più chiassosa garrulità ad un silenzio ostinato, dall’allegria alla stizza e quasi alla crudeltà» (cap. III). Già da bambina la Pisana mostra, ben delineati, i tratti di un carattere forte e complesso: è capricciosa, sensuale e seduttiva, crudele e tirannica, ma anche capace di grande generosità, una generosità che nel corso della vicenda diventerà addirittura abnegazione e altruismo estremo, come quando a Londra si ridurrà a mendicare per consentire a Carlo di guarire da una grave infermità. Il suo comportamento nel corso del romanzo è sempre ispirato non dalle leggi sociali (anche se accetta un matrimonio di convenienza) ma dalle leggi del cuore e dell’istinto.

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Sempre autentica, indipendente, fedele solo a sé stessa, la Pisana non può in alcun modo essere iscritta entro i modelli femminili istituzionalizzati dalla letteratura del tempo: non è la brava moglie borghese, ma non è nemmeno la donna perduta; mobile e metamorfica, è una donna costantemente in fuga dai vincoli comportamentali del tempo e dalle immagini culturali e letterarie ad essi collegate. Si comprende facilmente perché questo personaggio femminile trasgressivo suscitò perplessità se non scandalo nei lettori benpensanti, tenuto conto anche del fatto che compariva in un romanzo che si proponeva fini educativi delle giovani generazioni.

L’infrazione degli schemi del Bildungsroman Mentre il protagonista maschile compie un cammino di educazione sentimentale, civile, morale (secondo lo schema narrativo del Bildungsroman, il romanzo di formazione), la Pisana, fin dall’inizio depositaria di tratti caratteriali che rimangono costanti, si sottrae a qualsiasi progetto pedagogico che derivi dall’esperienza di vita. Le linee del Bildungsroman che Nievo intende realizzare con Le confessioni si complicano, diventano confuse. L’educazione stessa ha svolto un ruolo solo negativo nella Pisana: troppo permissiva, l’educazione ricevuta da bambina, anziché smorzare le sue stranezze e i suoi capricci, vi ha lasciato libero sfogo, fissandoli in tratti definitivi di personalità. La Pisana è così un personaggio per certi aspetti “statico” (in termini narratologici), senza evoluzione: «ciò che manca alla Pisana è una crescita ordinatamente distribuita nel tempo, così come si configurava nel romanzo di formazione tradizionale. Il suo accesso al bene non è determinato da una maturazione progressiva e lineare, né tanto meno da una consapevolezza razionalmente raggiunta; al contrario, esso è completamente subordinato alle illuminazioni improvvise della sua indole strana e indomabile [...] se nel romanzo riuscirà a salvarsi da un destino di degradazione sociale e morale, non sarà grazie a un processo di normalizzazione, che la riporti entro i ranghi del “giusto” e del “buono”, bensì per una sorta di apoteosi, che da personaggio reale, in carne ed ossa, la trasformerà in eroina tragica, in cifra simbolica» (C. Gaiba). L’impossibilità di ricondurre il suo personaggio entro i limiti di un percorso prestabilito induce Nievo a ideare per la Pisana una morte purificatrice idealizzante, da eroina melodrammatica. Ma evidentemente la catarsi anche troppo obbligata del personaggio non risulta convincente per i lettori benpensanti e la Pisana rimane così un personaggio inquietante (e proprio per questo moderno), la cui interpretazione è ancora oggi una sfida aperta per la critica.

Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

COMPRENSIONE 1. Quale rapporto ha il protagonista con la Pisana? ANALISI 2. Il passo delinea abbastanza compiutamente la complessa personalità della Pisana. I tratti fondamentali del suo carattere sono la contraddittorietà e la volubilità: ripercorri il testo e indica alcuni esempi che lo comprovino.

Interpretare EDUCAZIONE CIVICA

nucleo

Costituzione

competenza 3

TESTI A CONFRONTO

PARITÀ DI GENERE equilibri #PROGETTOPARITÀ

3. Leggi autonomamente i primi tre capitoli del romanzo ricercando notazioni relative alla Pisana bambina e istituisci un confronto con le informazioni che su questo complesso personaggio sono fornite nel brano.

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3

Letteratura e Risorgimento: alla ricerca di un’identità nazionale 1 Il problema dell’identità: «fare gli italiani»

online

Verso il Novecento Il Risorgimento rivisitato di Luciano Bianciardi

La letteratura per la nazione Per l’Italia l’Ottocento è il secolo in cui il nostro paese diventa, in seguito alle lotte risorgimentali, una nazione unitaria. Al di à degli eventi politico-militari del Risorgimento che portano all’unificazione del paese (1860), il formarsi negli italiani di una coscienza comune e di un comune sentire è un processo lento e faticoso, che impegna tutte le forze intellettuali della società e nel quale la letteratura ha un ruolo fondamentale. Bisogna ricordare che l’Italia era un paese nel quale convivevano realtà sociali e culturali estremamente diverse, privo di una lingua unitaria, ma privo soprattutto di un’idea condivisa di popolo e di nazione. È anche per questo che, nel periodo risorgimentale, la letteratura tende spesso, come già si è detto, ad assumere un carattere fortemente pedagogico, prendendosi la responsabilità di formare i cittadini della nazione che andava allora costituendosi e che aveva, per la prima volta nella storia, la possibilità di chiamarsi “italiana”. Gli scrittori fanno ricorso a tutti gli strumenti retorici a propria disposizione per stimolare nei neo­italiani l’orgoglio verso la propria identità nazionale, anche a scapito della qualità dei testi che, a un lettore contemporaneo, possono apparire artefatti e stucchevoli. Il panorama ideologico Sulla produzione letteraria dell’epoca hanno un importante riflesso i principali orientamenti ideologici su cui si costruisce il complesso panorama delle lotte risorgimentali, che si definiscono a partire dagli anni Trenta dell’Ottocento e che qui ricordiamo brevemente. A questo proposito rimane sempre valida la schematizzazione operata al tempo dal grande critico Francesco De Sanctis (1817-1883), che tra gli scrittori di questo periodo individua due grandi “scuole”: quella cattolico-liberale – di tendenza moderata – e quella democratica – di tendenza più radicale – (naturalmente all’interno dei due schieramenti si delineeranno posizioni differenziate).

Baldassare Verazzi, Combattimento a Palazzo Litta durante le Cinque giornate di Milano, olio su tela, 1886 ca. (Milano, Museo del Risorgimento).

Il versante moderato: i cattolico-liberali Nei primi anni dell’Ottocento per gli intellettuali moderati la preoccupazione maggiore era stata la difesa del sistema di valori messo in discussione dall’Illuminismo e dalla Rivoluzione francese. A partire dagli anni Trenta, invece, la cultura cattolica italiana comincia a confrontarsi con le problematiche e le ideologie legate al clima risorgimentale e alla nascita in Italia di una nuova società borghese: particolarmente importante è il movimento noto come neoguelfismo, teorizzato dal canonico Vincenzo Gioberti, che individua nel Cattolicesimo e nella figura del papa l’unico ele-

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mento aggregante abbastanza forte da servire come punto di riferimento nel cammino di costruzione della nazione unita. Nell’atteggiamento dei cattolici emergono non poche contraddizioni e lacerazioni destinate a durare nel tempo, specchio delle diverse anime che convivono nel Cattolicesimo italiano in rapporto a due fondamentali aspetti: il problema dell’iniziativa politica dei cattolici e il rapporto con una cultura laica che negli altri paesi europei si era ormai conquistata un ruolo primario. Tratto comune di tutto lo schieramento liberal-moderato è l’idea che la società italiana possa progredire solo attraverso riforme graduali, mentre viene rifiutata qualsiasi ipotesi rivoluzionaria. Nella visione moderata, la questione dell’indipendenza va invece affidata agli strumenti della diplomazia, attraverso un’alleanza tra i diversi stati italiani. Inoltre, pur chiedendo che siano garantite le libertà fondamentali, i moderati non intendono affatto mettere in discussione la forma di governo monarchica e la immaginano temperata da blande forme di costituzionalismo ispirate al modello inglese. Il punto di riferimento principale per tutti i letterati di orientamento moderato è Alessandro Manzoni (➜ C21): proprio l’esempio dell’autore dei Promessi sposi, grande modello di equilibrio e di conciliazione, favorisce il formarsi di una cultura cattolica italiana che non si identifica nella visione ideologica della Restaurazione.

PER APPROFONDIRE

Il versante democratico Tutt’altro che compatto e omogeneo, lo schieramento democratico diede spazio a posizioni e idee alquanto diversificate. Dopo il fallimento dei moti carbonari del 1821, che aveva dimostrato l’inefficacia di una lotta politica fondata sulla cospirazione e lontana dalle reali condizioni del popolo, diviene più che mai evidente la necessità di individuare princìpi, ideali e punti di riferimento comuni. Proprio da questa consapevolezza prendono le mosse, negli anni Trenta, le prime iniziative di stampo democratico, soprattutto grazie all’opera di Giuseppe Mazzini. Con la fondazione nel 1831 della “Giovine Italia” nasce una tradizione democratica che si manterrà viva e attiva fino alla seconda metà del XX secolo: essa dà voce soprattutto all’ideologia della piccola e media borghesia, con i suoi valori prettamente

Il dibattito sul carattere dei popoli Il problema della ricerca di un’“identità nazionale” non nasce con i moti risorgimentali: si tratta in realtà di una riflessione le cui radici risalgono al pensiero politico del Rinascimento, da Machiavelli a Guicciardini, e che tra Settecento e Ottocento riceve nuovo impulso dalle discussioni sul “carattere” dei popoli che si diffusero soprattutto in Francia nell’ambito dell’Illuminismo. In quel periodo si accese un vivo interesse (ne è espressione ad esempio il Saggio sui costumi di Voltaire) per quello che gli intellettuali del tempo chiamavano esprit des nations, “spirito dei popoli”, inteso come insieme dei tratti che caratterizzano una nazione, in senso non solo etnico ma più ampiamente antropologico: lo spirito dei popoli riguarda infatti anche le tradizioni, i costumi, le forme del pensiero e dell’arte. Anche l’Italia fu coinvolta in questo nuovo interesse: ne sono esempi opere quali Descrizioni de’ costumi italiani (1728) di Pietro Calepio (1693-1762) o An Account of the Manners and Customs in Italy (1768, in italiano nel 1808) di Giuseppe Baretti (1719-1789). Si tratta per lo più di scritti concepiti per rispondere alle critiche dei viaggiatori stranieri che, arrivando in Italia (meta obbligata del Grand Tour), ne criticavano l’ar-

retratezza rispetto al resto d’Europa e la miseria in cui viveva gran parte della popolazione. Giacomo Leopardi, con il suo Discorso sopra lo stato presente dei costumi degl’Italiani scritto nel 1824, dà il contributo più originale e profondo al dibattito sul carattere nazionale. Egli condanna aspramente la mancanza in Italia di una società vera e propria, intesa come comunità consapevole e matura, e di un’opinione pubblica che ne sostenga e propaghi opinioni e ideologia, bilanciando con la sua forza di coesione la tendenza all’individualismo e alla difesa degli interessi privati. Il carattere degli italiani è contraddistinto, secondo il poeta, da una diffusa carenza di senso civico, accompagnata anche da una notevole dose di cinismo. Manca, insomma, una vita collettiva e, quel che è peggio, manca la volontà sincera e genuina di costruirne una. Quella di Leopardi è una visione del tutto pessimista, assai lontana dai quadri estetizzanti della realtà nazionale tratteggiati da tanti scrittori romantici; già nei primi decenni dell’Ottocento, il poeta di Recanati sa mettere in luce alcune delle problematiche fondamentali che emergeranno in tutta la loro gravità negli anni post-risorgimentali e che forse costituiscono ancora oggi un aspetto cruciale della società italiana.

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laici e repubblicani, volti a promuovere la modernizzazione delle strutture sociali ed economiche del paese, ancora frenato da un assetto civile di stampo feudale. Nonostante l’interesse manifestato dai democratici per le condizioni di vita delle masse popolari, non si viene mai a creare un vero contatto tra intellettuali e classi umili, in particolare quelle contadine. Proprio per questa distanza incolmabile, al di là della retorica e delle mitologie, il Risorgimento italiano rimane un movimento sostanzialmente elitario, che non sa farsi interprete delle vere esigenze del popolo né riesce a dar vita a un forte e genuino senso di appartenenza nazionale. A questo proposito è di straordinaria lucidità quanto, tempo dopo, scriverà Antonio Gramsci (1891-1937) nei Quaderni del carcere (1929-1935) ripercorrendo la storia degli intellettuali italiani in alcuni momenti cruciali nello sviluppo del paese. Il giudizio sul Risorgimento è sostanzialmente negativo: lontani dalla vita reale del paese, gli intellettuali dell’epoca non hanno saputo guidare il rinnovamento democratico dell’Italia, fallendo in quello che era il loro compito storico. Da qui la celebre definizione gramsciana del Risorgimento come «rivoluzione mancata».

2 Andare al passato per costruire il futuro: le memorie dei patrioti Dalla “scrittura dell’io” alla “scrittura del noi”: il nuovo valore della riflessione autobiografica Nel corso del XVIII secolo il genere autobiografico aveva conosciuto uno sviluppo straordinario, diventando uno strumento prezioso per la scoperta e l’analisi di una nuova soggettività, più moderna e complessa: basti ricordare Rousseau e, in Italia, Goldoni e Alfieri. Con il nuovo secolo, e in particolare in rapporto alle mutate circostanze storiche, in Italia la scrittura autobiografica assume un significato diverso: non è più solo scandaglio intimistico e viaggio nell’interiorità, ma si proietta su un orizzonte più ampio, in cui esperienza individuale e contesto storico si intersecano in un rapporto di scambio e rispecchiamento reciproco. La “scrittura dell’io” aspira a trasformarsi in “scrittura del noi” nella ricerca di un sistema di valori e ideali comuni: spesso il racconto di un’esperienza individuale tende così ad assumere un valore paradigmatico, di esempio per tutti. Più che di autobiografie (nelle quali chi scrive racconta di sé stesso) si può parlare di “memorie”: il memorialista scrive per fare dei propri ricordi un patrimonio comune e creare un legame tra passato e futuro. Non è un caso che la memorialistica conosca un momento di grande vigore nel periodo risorgimentale e postrisorgimentale: nell’intenzione degli autori di memorie gli ideali patriottici e l’impegno civile che animano i loro scritti possono contribuire alla costruzione di un patrimonio ideologico e spirituale comune alla nuova nazione che si sta formando. Pochi esempi di valore letterario I risultati della memorialistica risorgimentale non sono, però, sempre felici. I miei ricordi, del nobile sabaudo Massimo d’Azeglio (1798-1866), sono un’opera dall’intento apertamente pedagogico uscita postuma nel 1867. Il testo ricostruisce la formazione dell’autore tracciando un confronto tra il passato e l’epoca corrente, della quale d’Azeglio condanna severamente la perdita di quei valori di rettitudine e coerenza che animavano invece il primo Risorgimento. Al di là della finalità educativa, le migliori doti di scrittore di Massimo D’Azeglio emergono specialmente nelle parti dedicate alla sua prima giovinezza.

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Gerolamo Induno, Il generale Garibaldi con Sirtori e Bixio, si imbarca a Quarto, oio su tela, 1860 (Milano, Museo del Risorgimento).

Incompiute sono le Ricordanze della mia vita di Luigi Settembrini (1813-1876), importante esponente della cultura liberale e democratica dell’Italia meridionale. L’opera, stampata postuma tra il 1879 e il 1880 con una prefazione di Francesco De Sanctis, è per lo più dedicata all’impegno politico dell’autore nella sua terra natale. Sono pagine dominate dall’ardore e dall’entusiasmo patriottico, sia quando viene descritta la giovinezza felice trascorsa fra Napoli e Caserta, sia quando si narra delle lotte risorgimentali e della dura esperienza della prigione (➜ T6 OL), dove Settembrini fu rinchiuso dalla polizia borbonica dal 1839 al 1842, e poi ancora dal 1849 al 1859. La reale complessità della storia Come già evidenziato, si differenzia da questi modelli il più importante romanzo dell’Ottocento, dopo I promessi sposi: Le confessioni di un Italiano di Ippolito Nievo, che partecipò alla spedizione dei Mille e vi perse la vita. Nievo rifiuta il modello letterario della memorialistica, fondato su una ricostruzione del passato storico come patrimonio comune, a cui la nazione possa guardare con animo concorde. Per quanto convinto della positiva energia anche pedagogica insita nella letteratura, l’autore delle Confessioni non crede in una storia vista come “monumento”, dove bene e male sono nettamente distinti, dove tutte le esperienze possono essere ridotte a esempi, e le persone diventano meri caratteri: per lui, la storia rimane soprattutto un’esperienza umana, che dell’umano conserva tutte le debolezze e le incoerenze. Per questo motivo il suo Carlino è un antieroe del Risorgimento, coinvolto quasi per caso nelle vicende della sua nazione, che da lui vengono sempre vissute con passione sincera e generosa, senza però mai prendere il sopravvento sul versante più intimo e personale dei sentimenti, che si tratti degli affetti familiari, delle amicizie o dell’amore.

L’epopea dei Mille nei memoriali dei garibaldini Nell’ambito del genere memorialistico una menzione a parte spetta agli scritti che, nella seconda metà del secolo, scaturirono dalle varie imprese garibaldine, prodotti in genere da persone che vi avevano preso parte. Il livello e la qualità di questi diari, memorie e note sparse sono disomogenei. Per lo più si tratta di opere che risentono in maniera molto pesante degli intenti retorici dei loro autori, per i quali le preoccupazioni di carattere artistico e letterario sono decisamente subordinate alla volontà di conferire alle esperienze narrate un’aura di eroismo epico. Di fatto, però, è proprio l’enfasi retorica che domina queste narrazioni online a restituirci il fervido clima ideologico di quegli anni caldi della T6 Luigi Settembrini vita nazionale. Tra i memorialisti garibaldini più importanti Una conversazione tra compagni di cella Ricordanze della mia vita, Tre giorni in ricordiamo Eugenio Checchi, Memorie d’un Garibaldino (1888); cappella, 1 Alberto Mario, Camicia Rossa (1870); Giuseppe Cesare Abba, Da Quarto al Volturno. Noterelle d’uno dei Mille (1891). online Il memoriale di Abba (➜ T7 OL) è il racconto di una rivoluzione T7 Giuseppe Cesare Abba «Cavalcava un baio da gran Visir»: che, nella visione dell’autore, vedeva popolo e intellettuali uniti l’apparizione dell’eroe in una causa comune: una rappresentazione che dimostra Da Quarto al Volturno. Noterelle d’uno dei Mille scarsa consapevolezza di quelle che erano le effettive con-

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dizioni del meridione. La narrazione di Abba si sviluppa così sullo sfondo di una Sicilia fittizia, vista attraverso la lente deformante dell’idealismo di patria come una terra atavica e mitologica.

3 Il best seller del Risorgimento: Le mie prigioni di Silvio Pellico La vita Il patriota piemontese Silvio Pellico nasce a Saluzzo nel 1789. Dopo gli studi lavora a Lione nel settore commerciale; rientrato in Italia nel 1809, si stabilisce a Milano, dove conosce Monti e Foscolo e, intorno a 1812, comincia l’attività letteraria, inizialmente soprattutto in ambito teatrale. Scrive tragedie d’impostazione ancora classica, ma che da un punto di vista contenutistico virano già verso il Romanticismo. La più celebre è la Francesca da Rimini, rappresentata nel 1815, in cui l’episodio dantesco è interpretato alla luce delle influenze romantiche e risorgimentali. Sempre a Milano, per qualche tempo è membro e direttore del gruppo che animò l’esperienza milanese del «Conciliatore». Nel 1820 è arrestato per aver partecipato alle attività clandestine della Carboneria: la sentenza di condanna a morte in seguito viene commutata in 15 anni di carcere duro, da scontare nella fortezza di Spielberg, in Moravia. Nel 1830 Pellico è graziato; tornato in Italia si ritira dalla politica attiva, si estrania dai circoli letterari (mantenendosi grazie a un posto di bibliotecario) e nel 1832 pubblica Le mie prigioni. Muore a Torino nel 1854. L’opera Le mie prigioni è un libro di memorie in cui Pellico rievoca gli otto anni trascorsi nel carcere dello Spielberg. Pubblicata nel 1832, l’opera riscuote subito un enorme successo di pubblico e viene letta in tutt’Europa come documento accusatorio del carattere spietato della repressione austriaca. In realtà, nello scrivere le sue memorie, Pellico non è affatto animato da una volontà di denuncia: al contrario, l’esperienza del carcere aveva prodotto in lui una forte crisi mistico-religiosa, che lo spinge verso una visione pessimistica del mondo come ineluttabilmente dominato dal male, dove all’uomo non rimane altra scelta che quella di un’accettazione passiva e cristianamente rassegnata. L’unico barlume di salvezza va ricercato nei piccoli gesti quotidiani di amicizia e carità. Questa chiusura intimistica, che comporta anche la totale sfiducia verso qualsiasi forma di azione politica, non viene minimamente recepita dall’opinione pubblica, per la quale Le mie prigioni rimangono sempre simbolo dell’anelito italiano all’indipendenza e alla libertà. Una ricezione singolarmente selettiva, dunque, che dell’opera coglie soltanto gli aspetti che meglio rispondono alle attese e ai sentimenti del particolare clima politico e ideologico del Risorgimento.

Luigi Norfini, Ritratto di Silvio Pellico, olio su tela, 1861 (Firenze, Galleria d’Arte Moderna).

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Silvio Pellico

T8

La comune umanità di carcerati e carcerieri

LEGGERE LE EMOZIONI

Le mie prigioni, LXII S. Pellico, Le mie prigioni, a cura di A. Jacomuzzi, Mondadori, Milano 1986

I primi momenti di Silvio Pellico allo Spielberg, pur terribili e dolorosi, sono tuttavia rischiarati da qualche sprazzo di luce inaspettata: la discreta solidarietà del fabbro incaricato di mettergli le catene ai piedi e l’incontro con un altro prigioniero italiano, anche se i due possono comunicare soltanto attraverso il muro della cella.

Ci si facevano intanto i vestiti da prigioniero. Di lì a cinque giorni, mi portarono il mio. Consisteva in un paio di pantaloni di ruvido panno, a destra color grigio, e a sinistra color cappuccino; un giustacuore1 di due colori, egualmente collocati, ed un giub5 bettino di simili due colori, ma collocati oppostamente, cioè il cappuccino a destra ed il grigio a sinistra. Le calze erano di grossa lana; la camicia, di tela di stoppa piena di pungenti stecchi, un vero cilicio2; al collo una pezzuola di tela pari a quella della camicia. Gli stivaletti erano di cuoio non tinto, allacciati. Il cappello era bianco. Compivano3 questa divisa i ferri a’ piedi, cioè una catena da una gamba all’altra, 10 i ceppi della quale furono fermati con chiodi che si ribadirono sopra un’incudine4. Il fabbro che mi fece questa operazione disse ad una guardia, credendo che io non capissi il tedesco: «Malato com’egli è, si poteva risparmiargli questo giuoco; non passano due mesi, che l’angelo della morte viene a liberarlo». «Möchte es sein! (fosse pure!)» gli diss’io, battendogli colla mano sulla spalla. 15 Il pover’uomo strabalzò5 e si confuse; poi disse: «Spero che non sarò profeta, e desidero ch’ella sia liberata da tutt’altro angelo». «Piuttosto che vivere così, non vi pare» gli risposi «che sia benvenuto anche quello della morte?» Fece cenno di sì col capo, e se n’andò compassionandomi. Io avrei veramente 20 volentieri cessato di vivere, ma non era6 tentato di suicidio. Confidava che la mia debolezza di polmoni fosse già tanto rovinosa da sbrigarmi7 presto. Così non piacque a Dio. La fatica del viaggio m’avea fatto assai male: il riposo mi diede qualche giovamento. Un istante dopoché il fabbro era uscito, intesi sonare il martello sull’incudine nel sotterraneo. Schiller8 era ancora nella mia stanza. 25 «Udite que’ colpi?» gli dissi. «Certo, si mettono i ferri al povero Maroncelli». E ciò dicendo, mi si serrò talmente il cuore, che vacillai, e se il buon vecchio non m’avesse sostenuto, io cadeva. Stetti più di mezz’ora in uno stato che parea svenimento, eppur non era. Non potea parlare, i miei polsi battevano appena, un sudor freddo m’inondava da capo a piedi, e ciò non ostante intendeva tutte le parole di 30 Schiller, ed avea vivissima la ricordanza del passato e la cognizione del presente.

1 giustacuore: gilet. 2 cilicio: veste ruvida che si portava sulla nuda pelle per mortificarsi; in senso figurato vale “tortura, tormento”. 3 Compivano: completavano. 4 si ribadirono... incudine: che vennero ribattuti sopra un’incudine (blocco di

acciaio con la faccia superiore piana sul quale il fabbro appoggia il pezzo da foggiare con il martello). 5 strabalzò: sussultò. 6 era: ero. All’epoca era ancora in uso nella lingua letteraria per la prima persona singolare la desinenza in -a dell’im-

perfetto (più sotto: io cadeva, Non potea). 7 sbrigarmi: liberarmi, togliermi d’impiccio. 8 Schiller: è il carceriere con cui Pellico è entrato in confidenza.

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Il comando del soprintendente e la vigilanza delle guardie avean tenuto fino allora tutte le vicine carceri in silenzio. Tre o quattro volte io aveva inteso intonarsi qualche cantilena italiana, ma tosto era soppressa dalle grida delle sentinelle. Ne avevamo parecchie sul terrapieno sottoposto alle nostre finestre, ed una nel medesimo nostro 35 corridoio, la quale andava continuamente orecchiando alle porte e guardando agli sportelli per proibire i romori. Un giorno, verso sera (ogni volta che ci penso mi si rinnovano i palpiti che allora mi si destarono), le sentinelle, per felice caso, furono meno attente, ed intesi spiegarsi e proseguirsi, con voce alquanto sommessa ma chiara, una cantilena nella prigione 40 contigua alla mia. Oh qual gioia, qual commozione m’invase! M’alzai dal pagliericcio9, tesi l’orecchio, e quando tacque proruppi in irresistibil pianto. «Chi sei, sventurato?» gridai «chi sei? Dimmi il tuo nome. Io sono Silvio Pellico». «Oh Silvio!» gridò il vicino «io non ti conosco di persona, ma t’amo da gran tempo. 45 Accòstati alla finestra, e parliamoci a dispetto degli sgherri». M’aggrappai alla finestra, egli mi disse il suo nome, e scambiammo qualche parola di tenerezza. Era il conte Antonio Oroboni, nativo di Fratta presso Rovigo, giovine di ventinove anni. 50 Ahi, fummo tosto interrotti da minacciose urla delle sentinelle! Quella del corridoio picchiava forte col calcio dello schioppo, ora all’uscio d’Oroboni, ora al mio. Non volevamo, non potevamo obbedire; ma pure le maledizioni di quelle guardie erano tali, che cessammo, avvertendoci10 di ricominciare quando le sentinelle fossero mutate.

9 pagliericcio: sacco pieno di paglia o foglie secche usato come materasso.

10 avvertendoci: accordandoci.

Analisi del testo Un bene nascosto e imprevedibile, che prescinde dalla politica Il brano offre un esempio di uno dei caratteri più tipici della scrittura del Pellico e un tratto saliente del suo pensiero: la tendenza al ripiegamento intimistico e la convinzione che nell’essere umano esista una bontà innata in grado di superare qualsiasi barriera politica o ideologica. Il bene, per Pellico, è un’entità imprevedibile e misteriosa che può manifestarsi nei modi e nelle situazioni più inaspettate: sta all’uomo mantenere un animo abbastanza aperto, limpido e sincero, così da riuscire a percepirlo. Il fabbro incaricato di mettergli i ceppi che si abbandona a un’umana compassione nei confronti del prigioniero e l’umano carceriere Schiller con cui il prigioniero ha costruito una sorta di amicizia (➜ T9 OL) incarnano questa fede profonda in un bene che non smette di esistere nemmeno nella buia profondità del carcere, dove la violenza sembra averlo messo a tacere per sempre. È solo in queste manifestazioni inaspettate che l’uomo può trovare un qualche motivo di speranza: in tutte Le mie prigioni, infatti, non si fa mai riferimento alle idee o all’impegno politico che avevano caratterizzato la vita di Pellico prima dell’arresto. Lo scrittore non ne parla: come se, una volta conosciuti gli abissi cui può giungere la crudeltà umana, quel tipo di realtà avesse perso qualsiasi valore per lui.

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Dall’asciutta oggettività della descrizione alla riflessione meditativa Lo stile di Pellico è estremamente semplice ed essenziale: una scrittura veloce, basata sulla paratassi, con frasi brevi in rapida successione, quasi a richiamare i ritmi di una narrazione orale. Ciò che sostiene la sua prosa, tuttavia, è l’alternarsi continuo di descrizioni nitidamente oggettive (i dettagli della divisa dei detenuti) e di meditazioni moraleggianti, ricordi o rapide manifestazioni di sentimenti e pensieri personali, che possono essere inserite nel testo, oppure attribuite all’uno o all’altro dei personaggi in campo. Queste due parti si mantengono sempre distinte e separate, come se Pellico intendesse differenziare in modo netto il momento dell’osservazione da quello della riflessione, ponendo sempre l’accento su quest’ultimo: è, questo, un carattere della sua prosa che contribuisce a confermarne il valore di memoria personale, più che di testimonianza pubblica e di denuncia politica.

Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

SINTESI 1. Sintetizza il passo in max 5 righe. ANALISI 2. Si è detto del carattere essenzialmente intimistico dell’opera di Pellico, tutta volta a dar voce all’interiorità dello scrittore, piuttosto che a rendere conto di una realtà storica oggettiva. Rintraccia nel testo i segni di questo atteggiamento, soffermandoti soprattutto sulla vasta terminologia utilizzata dallo scrittore per indicare e descrivere i suoi stati d’animo. STILE 3. Evidenzia almeno due passaggi del testo in cui è evidente l’uso della paratassi.

Interpretare LEGGERE LE EMOZIONI

SCRITTURA 4. Spiega perché l’opera di Pellico è un esempio di memorialistica risorgimentale (max 10 righe). 5. Quale messaggio, secondo te, vuol comunicare Pellico attraverso la narrazione della sua prigionia? Lo condividi? L’autore vuole semplicemente trasmettere il ricordo delle esperienze del passato?

online Silvio Pellico T9 «Ho io a cessare d’esser uomo per quella canaglia di chiavi?»: il carceriere Schiller Le mie prigioni, LXVIII

Gerolamo Induno, La partenza dei coscritti, olio su tela, 1878 (Milano, Museo del Risorgimento).

Letteratura e Risorgimento: alla ricerca di un’identità nazionale 3 759


4 La celebrazione epica del Risorgimento: la lirica patriottica Al servizio della patria Negli anni caldi della lotta risorgimentale, anche nella produzione poetica – e, anzi, soprattutto in essa – dominano i temi legati alla lotta risorgimentale e al patriottismo. È di questo filone lirico che ci occuperemo qui, più per la sincerità delle passioni che animano questi componimenti che per i risultati poetici raggiunti, in genere assai modesti. Per dei poeti patrioti come Luigi Mercantini (1821-1872), Arnaldo Fusinato (18171889) o lo stesso Goffredo Mameli (1827-1849), autore di quello che sarebbe divenuto l’inno nazionale (➜ D2 ), la poesia è prima di tutto uno strumento per avvincere il pubblico della nazione nascente. Da questo fondamentale obiettivo derivano le scelte retoriche e metriche adottate da questi letterati: versi rapidi e martellanti, che incalzano l’uditorio con la stessa vivace sfrontatezza di una marcia militare e s’impongono alla memoria con immediata facilità; affollarsi di frasi esclamative e interrogative («Dov’è la Vittoria...?»), come a mimare un ipotetico dialogo con chi ascolta, che ha così l’impressione di essere chiamato in causa direttamente; abbondanza di figure retoriche – metafore, similitudini e personificazioni – per stimolare l’immaginazione. Una poesia “popolare”? Nonostante le intenzioni, la lirica patriottica non riesce a diventare una poesia veramente popolare (anche se tocca temi e motivi cari e vicini al popolo), né a operare un rinnovamento del linguaggio poetico capace di accogliere la lingua vera e viva di quel popolo italiano di cui canta, o auspica, le gesta eroiche. Un’intrinseca debolezza rintracciabile anche negli esperimenti compiuti in questo campo da un grande poeta come Alessandro Manzoni: la sua ode Marzo 1821 (➜ C21), composta per celebrare i moti carbonari ma resa pubblica soltanto nel 1848, reca tutti i segni di quell’enfasi retorica che contraddistingue quasi tutta la poesia risorgimentale. Il lessico e la sintassi della lirica patriottica rimangono legati a toni e stilemi aulici e dotti, che non sanno sganciarsi dai modelli classicheggianti proposti da quello che può essere considerato il padre del genere, Giovanni Berchet (1783-1851), autore fra l’altro del poemetto in versi Fantasie (1829), di cui fa parte Il giuramento di Pontida, rievocazione di un episodio glorioso della storia comunale italiana; ugualmente ostico si presenta il linguaggio di gran parte delle liriche riconducibili a questo filone. Tuttavia, anche grazie alla scuola, esse diventano parte del comune patrimonio nazionale, ma senza entrare davvero nell’immaginario degli italiani, che spesso le recitano senza afferrarne il significato reale. Lo stesso inno Fratelli d’Italia è un esempio di questa assimilazione inconsapevole.

Carlo Stragliati, Episodio delle Cinque Giornate di Milano in Piazza Sant’Alessandro, olio su tela, fine XIX secolo (Milano, Museo del Risorgimento).

760 Ottocento 19 Il Romanticismo italiano e la letteratura risorgimentale


Panorama ideologico dell’età risorgimentale CATTOLICOLIBERALI

• neoguelfismo di Gioberti • moderati, monarchici e riformisti • altri intellettuali che fanno riferimento a Manzoni

DEMOCRATICI

• laicismo e princìpi repubblicani di Mazzini • altri progressisti si posizionano variamente

Letteratura dell’età risorgimentale • Valore paradigmatico • Finalità pedagogiche

Prosa

Poesia

memorialistica

autobiografica: • Settembrini • D’Azeglio

garibaldina: Abba

• schemi retorico-formali della tradizione classicistica • rare influenze della poesia popolare

• Mercantini, Fusinato • Fantasie di Berchet, • Marzo 1821 di Manzoni • Il canto degli italiani di Mameli

unicità e originalità nel genere: • Confessioni di un italiano di Nievo • Le mie prigioni di Pellico

Letteratura e Risorgimento: alla ricerca di un’identità nazionale 3 761


Goffredo Mameli

D2 G. Mameli, Il canto degli italiani. Poesie d’amore e di guerra, Rizzoli, Milano 2010

EDUCAZIONE CIVICA

Il canto degli italiani

nucleo Costituzione competenza 1

Il canto degli italiani, meglio noto come Inno di Mameli, venne scritto nell’autunno del 1847 dall’allora ventenne studente e patriota genovese Goffredo Mameli (18271849) e messo in musica poco dopo a Torino da un altro genovese, Michele Novaro (1818-1885). Mazziniano convinto, Mameli sarebbe poi morto nel 1849 in seguito a una ferita riportata mentre combatteva a difesa della Repubblica romana.

Fratelli d’Italia, l’Italia s’è desta; dell’elmo di Scipio1 s’è cinta la testa. 5 Dov’è la Vittoria? Le porga la chioma; ché schiava di Roma Iddio la creò2. Stringiamoci a coorte3! 10 Siam pronti alla morte; l’Italia chiamò.

Uniamoci, amiamoci; l’unione e l’amore 25 rivelano ai popoli le vie del Signore. Giuriamo far libero il suolo natio: uniti per Dio7, 30 chi vincer ci può? Stringiamoci a coorte! Siam pronti alla morte; l’Italia chiamò.

Noi siamo da secoli calpesti4, derisi, perché non siam popolo, 15 perché siam divisi. Raccolgaci un’unica bandiera, una speme5: di fonderci insieme già l’ora suonò6. 20 Stringiamoci a coorte! Siam pronti alla morte; l’Italia chiamò.

Dall’Alpe a Sicilia, 35 dovunque è Legnano8; ogn’uom di Ferruccio9 ha il core e la mano10; i bimbi d’Italia si chiaman Balilla11; 40 il suon d’ogni squilla12 i Vespri suonò. Stringiamoci a coorte siam pronti alla morte l’Italia chiamò.

La metrica Versi senari, con accentazione fissa sulla seconda e sulla quinta sillaba

1 Scipio: il riferimento è al condottiero romano Scipione l’Africano. Numerosi sono i richiami di Mameli alla cultura classica e alla romanità gloriosa cui può rivolgersi come esempio la nuova nazione italiana. 2 Dov’è la Vittoria... la creò: il senso è: l’Italia sarà sempre vittoriosa, come lo furono un tempo i Romani; cioè, la Vittoria (personificazione classica) è destinata a porgere il capo (chioma per sineddoche) inchinandosi all’Italia, perché Dio l’ha resa schiava di Roma. 3 coorte: le coorti erano le parti in cui si divideva l’esercito romano. Ogni coorte costituiva un decimo di una legione

4 calpesti: calpestati. 5 una speme: un’unica speranza, ossia quella di liberarsi, tutta unita, dall’oppressione straniera. 6 di fonderci... suonò: è ormai arrivato il momento di unirci. 7 uniti per Dio: uniti nel nome di Dio. 8 Legnano: il riferimento è alla battaglia di Legnano del 1176, in cui la Lega lombarda sconfisse l’imperatore Federico Barbarossa. 9 Ferruccio: Francesco Ferrucci, capitano fiorentino che resistette all’assedio posto da Carlo V alla città nel 1530. Venne ucciso da Fabrizio Maramaldo, un italiano al soldo straniero, al quale rivolse la battuta divenuta poi celebre: «Tu uccidi un uomo morto». 10 il core e la mano: il coraggio e la prontezza di agire.

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11 Balilla: la figura dell’eroico ragazzino genovese Balilla, sebbene non sia stata storicamente accertata, rappresenta il simbolo della rivolta popolare di Genova contro la coalizione austro-piemontese. Dopo cinque giorni di lotta, il 10 dicembre 1746 la città venne finalmente liberata dalle truppe austriache che l’avevano occupata per diversi mesi. 12 squilla: campana. Il riferimento è alla sera del 30 marzo 1282, quando a Palermo tutte le campane suonarono per chiamare il popolo alla rivolta contro gli angioini, francesi, che governavano in Sicilia: sono i vespri siciliani (i Vespri, v. 41), conclusi con la cacciata dei francesi.


bevé, col cosacco, ma il cor le bruciò14. Stringiamoci a coorte siam pronti alla morte 55 l’Italia chiamò.

Son giunchi che piegano le spade vendute13: già l’Aquila d’Austria le penne ha perdute. Il sangue d’Italia, 50 il sangue Polacco, 45

13 Son giunchi… vendute: (sono giunchi) le deboli armi italiane che piegano le truppe mercenarie d’occupazione.

14 già l’Aquila... bruciò: ormai l’Austria austriaca è in declino (ha perso le penne); insieme con la Russia (il cosacco), ha

bevuto il sangue dell’Italia e della Polonia oppresse, ma il sangue si è fatto veleno, e le ha bruciato il cuore.

Concetti chiave Un componimento amato

Nato nel clima di fervore patriottico che già preludeva alla guerra contro l’Austria, il Canto degli Italiani divenne in breve il più amato canto dell’unificazione, non solo durante la stagione risorgimentale, ma anche nei decenni successivi; finché, nel 1946, fu scelto come inno della nuova Repubblica italiana.

Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

PARAFRASI 1. Fai la parafrasi del testo del Canto degli italiani. ANALISI 2. Rintraccia nel testo i riferimenti all’ideologia mazziniana cui aderiva Mameli. STILE 3. Evidenzia gli strumenti retorici e gli stilemi lessicali e linguistici presenti in questo testo. Quali sono gli espedienti retorici che rafforzano il messaggio del canto e spronano all’azione?

Interpretare

ESPOSIZIONE ORALE 4. Analizza il tipo di immaginario richiamato da Mameli nel testo dell’inno, i riferimenti storici e letterari e il lessico utilizzato: a quale tipo di pubblico ti sembra che potesse rivolgersi un testo di questo genere? Prova a inserire la tua riposta nel quadro delle discussioni che videro nel Risorgimento italiano una «rivoluzione mancata» (Gramsci).

EDUCAZIONE CIVICA

5. Dopo aver letto il testo e averne considerati i vari aspetti retorici ed emotivi, prova a indicare quali sono i motivi che ne hanno determinato il lungo successo, facendolo scegliere come inno della nazione italiana; senza dimenticare le critiche che, negli ultimi decenni (specie in occasione del 150° anniversario dell’Unità d’Italia, nel 2011) l’hanno investito, con la proposta di sostituirlo perché “brutto”. Qual è il tuo giudizio personale?

SCRITTURA nucleo

Costituzione

competenza 1

online

online

online

online

Il Risorgimento al cinema

I vecchi e i giovani di Luigi Pirandello

Noi credevamo: il Risorgimento visto attraverso la lente della disillusione

Tipologia B Analisi e produzione di un testo argomentativo

Per approfondire

Per approfondire

Sguardo sul cinema

Verso l'esame di Stato

Letteratura e Risorgimento: alla ricerca di un’identità nazionale 3 763


PER APPROFONDIRE

Gli ideali in musica: il melodramma ottocentesco L’Ottocento fu il secolo della musica d’opera e l’Italia ne divenne la patria grazie al fiorire del melodramma che – a partire da Rossini, Bellini e Donizetti, fino a Verdi – diede vita a una stagione unica e gloriosa, durante la quale la musica seppe diventare al tempo stesso interprete e veicolo dei grandi ideali risorgimentali. Lasciatosi alle spalle il modello metastasiano, che tendeva a privilegiare il testo poetico rispetto alla parte musicale, con un effetto distaccato, il melodramma romantico italiano lascia campo libero alla musica: è la scrittura a doversi adattare al suo fluire impetuoso. Nei libretti (in cui spesso interviene direttamente anche il musicista per apportare variazioni e modifiche), metro e scelte sintattiche e lessicali si adeguano alle esigenze della sonorità più immediata, che si dimostra in grado di afferrare il pubblico con una presa emotiva diretta ed efficace e che riesce ad accomunare tutti i ceti sociali: possiamo infatti dire che il melodramma divenne un vero e proprio fenomeno di massa, una passione diffusa tanto fra i borghesi quanto fra uomini e donne del popolo. D’altra parte, non si può negare che ci sia in esso una certa artificiosità: le situazioni sono infatti portate ai limiti in modo tale da colpire l’emotività degli spettatori (è proprio questo che comunemente intendiamo con il termine melodrammatico). Inoltre, la lingua utilizzata mantiene e addirittura amplifica il tono aulico e lo stile retorico che caratterizzano la poesia risorgimentale.

Eppure, al di là di tutto questo, il melodramma seppe diventare la forma di cultura più popolare e riuscì, più di quanto non fecero la poesia o il romanzo, a dar voce a sentimenti, miti, ideali ed emozioni il cui senso andava ben oltre il valore delle parole messe in musica (nella maggior parte dei casi le parole, private della musica, esprimevano ben poco): il melodramma è «l’unico genere artistico veramente nazionale e popolare capace di penetrare a fondo nel tessuto sociale, e nello stesso tempo il solo genere romantico italiano che sappia affascinare la cultura europea, tanto da diffondere ancora oggi nel mondo un’immagine tutta “romantica” del nostro paese» (Ferroni). Nel melodramma il fervore patriottico trovò la forma di espressione più adatta: l’esempio più significativo è dato da Giuseppe Verdi (1813-1901), che pur non occupandosi mai di politica in maniera attiva, divenne un vero e proprio personaggio-simbolo per chiunque aspirasse a un’Italia unita e indipendente. A metà dell’Ottocento era assai in voga lo slogan “Viva Verdi”, dove il nome del musicista era inteso come acrostico di “Vittorio Emanuele Re d’Italia”: il pubblico aveva infatti colto nell’energia vitale che emanava dalle opere di Verdi uno stimolo alla lotta per la libertà del popolo italiano. Basti pensare alla possibile lettura in chiave patriottica di opere quali I Lombardi alla prima crociata (1843) o alla celebre aria del Nabucco (1842), Va’ pensiero (➜ T10 OL).

online T10 Giuseppe Verdi

(librettista Temistocle Solera) Va’, pensiero, sull’ali dorate: il canto struggente di un popolo in prigionia Coro del terzo atto del Nabucco

Lo slogan “Viva Verdi” in un’incisione ottocentesca.

Louis-Léopold Boilly, L’effetto del melodramma, olio su tela, 1830 (Versailles, Musée Lambinet).

764 Ottocento 19 Il Romanticismo italiano e la letteratura risorgimentale


VERSO IL NOVECENTO

Il Risorgimento fallito: l’amara visione di tre scrittori siciliani Negli anni successivi all’unificazione entusiasmo patriottico e facili idealismi si esaurirono non appena l’impresa di costruire una vera nazione si manifestò in tutta la sua drammatica difficoltà: la retorica del Risorgimento vacilla proprio là dove si dimostra più difficile tradurre in pratica i suoi alti ideali. E il nodo più problematico del processo di unificazione italiana è il Sud: qui l’annessione al neonato stato italiano comportò tensioni e contrasti inconciliabili, destinati a dar vita a quella “questione meridionale” che ancora oggi non ha trovato una piena soluzione. Gli scrittori di queste terre, quelli siciliani in particolare, nelle loro opere diedero voce a questo orizzonte irto di problemi. Il loro Risorgimento non è quello eroico e luminoso dei memorialisti garibaldini, ma piuttosto rappresenta un’occasione perduta o al massimo una possibilità che si è realizzata solo in parte, magari in forme distorte e corrotte, in cui l’immobilismo e l’ingiustizia assurta a sistema finiscono per soffocare ogni speranza di un futuro migliore. È la prospettiva rappresentata da Federico De Roberto nel suo romanzo I Viceré, scritto tra il 1891 e il 1893 (➜ T11 OL). Anche nel Novecento la letteratura ha continuato a considerare con lo stesso occhio critico le origini dell’Italia come stato nazionale, avviando un processo di vera e propria demitizzazione. Non è un caso che la quasi totalità dei romanzi che si sono occupati del Risorgimento siano ambientati nel Sud, vero nodo problematico nella costruzione di una solida prospettiva unitaria. Significativo è l’esempio di due scrittori, Pirandello con I vecchi e i giovani e Tomasi di Lampedusa con Il Gattopardo, che hanno voluto rileggere le vicende risorgimentali in un’ottica antieroica e demistificatoria, ma che pure conserva intatto il fascino di un’epoca unica e straordinaria. I vecchi e i giovani di Luigi Pirandello Scritto nel 1899, pubblicato dapprima nel 1909 sulla «Rassegna contemporanea» e quindi nel 1913 dall’editore Treves, I vecchi e i giovani sfugge a una collocazione facile e immediata nella produzione di Luigi Pirandello (1867-1936). Fu l’autore

stesso a definirlo il «romanzo della Sicilia dopo il 1870, amarissimo e popoloso romanzo, ov’è racchiuso il dramma della mia generazione»: una prova in qualche modo a sé stante, in quanto risponde a un’esigenza di Pirandello di venire a capo del proprio vissuto, storico e personale. Il romanzo, come ha osservato il critico Carlo Salinari, mette in scena tre «fallimenti collettivi: quello del Risorgimento, come moto generale di rinnovamento del nostro paese, quello dell’unità, come strumento di liberazione e di sviluppo delle zone più arretrate e in particolare della Sicilia e dell’Italia meridionale, quello del socialismo, che avrebbe potuto essere la ripresa del movimento risorgimentale», che si sovrappongono ai «fallimenti individuali: dei vecchi che non hanno saputo passare dagli ideali alla realtà e si trovano a essere responsabili degli scandali, della corruzione e del malgoverno dei giovani». Il Gattopardo di Giuseppe Tomasi di Lampedusa Uscito postumo nel 1958 per i tipi di Feltrinelli, Il Gattopardo di Giuseppe Tomasi di Lampedusa incontrò un immediato successo di pubblico – alimentato anche dal celebre film che Luchino Visconti ne trasse nel 1963 – e stimolò al contempo un dibattito critico che ne fece un vero e proprio caso letterario di quegli anni. L’epopea garibaldina e la nascita del Regno d’Italia sono visti attraverso lo sguardo scettico e disincantato di un nobile siciliano, il principe di Salina, convinto che nulla potrà davvero cambiare nell’immobile società siciliana. Gli si contrappone il giovane nipote Tancredi, che combatte nelle file dei garibaldini, per opportunismo pragmatico più che per adesione agli ideali risorgimentali, come evidenzia la celebre espressione: “Se vogliamo che tutto rimanga com’è, bisogna che tutto cambi” enunciata durante un colloquio con lo zio. online Federico De Roberto T11 Il Risorgimento da farsa degli Uzeda I Viceré, I, 8

Fissare i concetti Il Romanticismo italiano e la letteratura risorgimentale Il dibattito sul Romanticismo in Italia 1. Quale scritto fornisce lo spunto iniziale per il dibattito sul Romanticismo in Italia? Quali riflessioni contiene? 2. Quali sono le posizioni dei classicisti? E quelle dei romantici? Le confessioni di un italiano di Nievo: un romanzo all’incrocio dei generi 3. Perché in Italia il romanzo storico riveste una particolare importanza? 4. Quali generi si intrecciano nel romanzo Le confessioni di un italiano di Nievo? 5. Delinea le caratteristiche di Carlo, protagonista del romanzo di Nievo. Letteratura e Risorgimento: alla ricerca di un’identità nazionale 6. Sai indicare le caratteristiche, gli autori, i generi più rappresentativi della letteratura risorgimentale? 7. Qual è il nesso tra Romanticismo e idea di nazione? 8. Perché a proposito de Le mie prigioni di Silvio Pellico si può parlare di un equivoco nella ricezione dell’opera? 9. Perché la lirica patriottica non è riuscita a diventare una poesia veramente popolare?

Letteratura e Risorgimento: alla ricerca di un’identità nazionale 3 765


Ottocento Il Romanticismo italiano e la letteratura risorgimentale

Sintesi con audiolettura

1 Il dibattito sul Romanticismo in Italia

Un nuovo movimento Le nuove idee romantiche che si erano diffuse in Europa trovano accoglienza soprattutto nel Nord Italia, nelle zone più avanzate economicamente. È infatti a Milano che nasce il Romanticismo italiano: sulla «Biblioteca italiana» (rivista classicista, poi organo ufficiale del governo austriaco) viene pubblicato nel 1816 un intervento di Madame de Staël, divulgatrice in Europa del Romanticismo tedesco, intitolato «Sulla maniera e l’utilità delle traduzioni», nel quale si invitano i letterati italiani ad abbandonare il culto sterile del passato e ad aprirsi alle letterature straniere. Ne deriva un ampio dibattito che contrappone classicisti e romantici: i primi si mantengono su posizioni conservatrici e difendono il principio di imitazione e la tradizione letteraria; i secondi si dimostrano aperti al cambiamento e contrari all’uso della mitologia e delle regole della poetica aristotelica in nome dell’originalità e del principio di imitazione in nome della storicità dell’arte; questi ultimi si raccolgono attorno al periodico liberale e patriottico «Il Conciliatore», fondato nel 1818 (e censurato dagli austriaci nel 1819), che si prefigge di conciliare ambiti «utili» come la scienza, l’economia e il diritto e «dilettevoli» come la letteratura. Ne seguono l’esempio qualche anno dopo – nel 1821 e nel 1839 – «L’Antologia» e «Il Politecnico», riviste votate alla sprovincializzazione della cultura italiana attraverso la diffusione del sapere storico, economico e scientifico in opposizione allo sterile umanismo tradizionale. Il Romanticismo italiano si pone in continuità con l’Illuminismo e ne condivide la concezione della letteratura come strumento di progresso civile, configurandosi come un Romanticismo moderato, poco incline all’esplorazione del “lato oscuro” della realtà. L’attitudine alla concretezza e la valorizzazione di una letteratura legata alla storia avvicinano il Romanticismo italiano al movimento risorgimentale, del quale gli intellettuali romantici diffondono i valori utili alla formazione di una coscienza nazionale. Nella produzione romantica italiana vengono così prediletti i temi storico-patriottici rispetto ai motivi irrazionalisti del Romanticismo europeo. Il più noto dei manifesti romantici è la Lettera semiseria di Grisostomo al suo figliuolo di Giovanni Berchet. Il genere egemone del Romanticismo italiano: il romanzo storico Il Romanticismo italiano predilige il genere del romanzo - che gli ambienti letterari conservatori avevano considerato fino a quel momento come un genere letterario minore – perché vedono in esso un utile strumento per la formazione di un nuovo pubblico. Si spiega così il grande successo in Italia del romanzo storico, genere in cui si iscrivono anche I promessi sposi: con la rievocazione di episodi e personaggi della storia italiana passata si fa opera di educazione e sensibilizzazione politico-patriottica dei lettori, che sono stimolati a ricercarvi le radici dell’identità del popolo italiano; nelle vicende storiche sono comunque inseriti quegli elementi sentimentali e romanzeschi che sono richiesti dal gusto del pubblico medio. Unico esempio di romanzo del primo Ottocento di notevole levatura letteraria è Le confessioni di un italiano di Ippolito Nievo (1831-1861).

766 Ottocento 19 Il Romanticismo italiano e la letteratura risorgimentale


2 Le confessioni di un italiano di Nievo: un romanzo all’incrocio dei generi

L’autore Il più importante romanzo ottocentesco dopo I promessi sposi è Le confessioni di un italiano di Ippolito Nievo, un partecipante alla spedizione dei Mille morto appena trentenne nel 1861; la sua opera viene scritta tra il 1857 e il 1858 e pubblicata postuma nel 1867 con il nuovo titolo Confessioni di un ottuagenario. Il romanzo Il romanzo presenta una natura complessa, all’incrocio tra diversi generi. Subisce l’influenza del romanzo storico ma, rispetto al modello manzoniano, si distingue per l’inserimento dell’attualità, che si innesta sulla storia passata. La presentazione in primo piano delle memorie del protagonista può richiamare anche la memorialistica di carattere patriottico; ma la tipologia che più identifica il romanzo di Nievo è il Bildungsroman, il “romanzo di formazione”. Al centro dell’opera vi è, infatti, la crescita spirituale, culturale e umana di Carlino Altoviti, un protagonista che non ha di certo i tratti “eccezionali” dell’eroe romantico, così come una storia che non viene presentata in nessun modo come esemplare. Per nulla propenso alla retorica patriottica propria dei testi risorgimentali, il romanzo di Nievo adotta una prospettiva realistica, a tratti incline all’ironia.

3 Letteratura e Risorgimento: alla ricerca di un’identità nazionale

Il problema dell’identità: «fare gli italiani» Nel periodo risorgimentale, a causa della particolare situazione storica del paese, impegnato in quegli anni nella lotta (non solo con le armi) per conquistare la dimensione di nazione, la letteratura italiana assume spesso toni pedagogici: essa infatti si era caricata del difficile compito di formare i cittadini della nazione che si stava allora costituendo, fornendo loro esempi luminosi a cui ispirarsi, infiammando i sentimenti patriottici e indicando temi e valori preziosi per la creazione di un’identità nazionale. Scrittori e poeti non trascurano alcuno strumento retorico per raggiungere quelle che all’epoca apparivano come le vere finalità dell’attività artistica e il fervore pedagogico, pur sincero, talvolta va a scapito della qualità dei testi. Questi letterati si dividono tra due grandi “scuole”: quella cattolico-liberale (di tendenza moderata e monarchico-costituzionalista) e quella democratica (di tendenza più radicale, laica e repubblicana). Andare al passato per costruire il futuro: le memorie dei patrioti Nella prosa del periodo risorgimentale, il posto più significativo è occupato dalla memorialistica, sviluppatasi come derivazione dell’autobiografia settecentesca. Ora però il racconto di un’esperienza personale non è più visto come uno strumento d’analisi interiore, ma viene ad assumere il valore di un esempio, al quale tutti gli italiani possano guardare per trarre ispirazione: possiamo dire che dalla narrazione dell’io si passa alla narrazione del noi. Il risultato letterario di questo genere di scritti non è sempre altissimo: tra i pochi esempi di un qualche valore, I miei ricordi di Massimo d’Azeglio e Le ricordanze di Luigi Settembrini. Un caso a parte è quello della memorialistica garibaldina, scaturita dalle imprese del celebre condottiero e per lo più prodotta da uomini che vi avevano preso parte, come Giuseppe Cesare Abba, Eugenio Checchi e Alberto Mario. Si tratta di opere nelle quali l’intento artistico è subordinato alla volontà di trasfigurare eroicamente le esperienze narrate, ma che hanno il merito di testimoniare il clima ideologico dell’epoca nella quale furono scritte. Come già evidenziato, Le confessioni di un Italiano di Ippolito Nievo si distingue in questo panorama. Giovane garibaldino anche lui, lo scrittore rifiuta il modello letterario della memorialistica che riduceva la storia a un paradigma e dà voce a una storia vista soprattutto come un’esperienza umana, di cui conserva tutte le debolezze e le incoerenze. Proprio per questo motivo il protagonista Carlino Altoviti può essere considerato un antieroe del

Sintesi Ottocento

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Risorgimento. Il best seller del Risorgimento: Le mie prigioni di Silvio Pellico Un altro caso a parte è quello di Silvio Pellico con Le mie prigioni. Scritte in un momento di forte crisi misticoreligiosa, queste memorie degli otto anni di dura prigionia scontati dall’autore (membro della Carboneria) nel carcere moravo dello Spielberg vennero però lette però come un documento di carattere politico, un’accusa durissima alla sopraffazione austriaca e un simbolo dell’anelito italiano all’indipendenza e alla libertà: in realtà, con Le mie prigioni Pellico dava voce a una visione pessimistica, che non credeva più nella politica come mezzo per conquistare la libertà e vedeva la religione come unica possibilità di conforto rimasta all’uomo. La celebrazione epica del Risorgimento: la lirica patriottica Anche la lirica partecipò con fervore ed entusiasmo al clima ideologico e culturale del Risorgimento: essa però non riuscì mai a diventare una poesia veramente popolare, perché non seppe sganciarsi dagli schemi retorici troppo aulici e dotti del Classicismo: una debolezza in cui incorse anche Manzoni, con Marzo 1821, poesia che con grande enfasi retorica celebrava i moti carbonari. La stessa enfasi che ritroviamo anche negli scritti di Giovanni Berchet e nell’inno nazionale, Il canto degli italiani, di Goffredo Mameli.

Zona Competenze Scrittura

1. In max 15 righe prepara un’introduzione per il romanzo di Ippolito Nievo, facendone risaltare l’originalità nell’ambito della produzione narrativa italiana dell’Ottocento. 2. Elenca almeno due autori della letteratura risorgimentale ed esponi le caratteristiche più rappresentative di questo genere. Prova quindi a spiegare qual è il nesso esistente tra Romanticismo e idea di nazione. 3. Scrivi e argomenta in max 15 righe per quale ragione, a conclusione del processo risorgimentale, si moltiplicano le memorie autobiografiche, quale finalità si propongono e quali caratteristiche presentano.

Esposizione orale

4. In un’esposizione orale indica i principali esponenti e temi della polemica classicoromantica. Se vuoi, puoi supportare la tua esposizione con una mappa concettuale o una presentazione multimediale. 5. Sulla base dei contenuti e dei testi antologizzati del capitolo individua quali problematiche del processo risorgimentale e dei suoi esiti vengono messe in luce dai diversi autori; valuta se si possa rintracciare una linea critica comune, quindi confrontala con le tue conoscenze storiche. 6. A conclusione della tua analisi, redigi una relazione per la classe sul tema: “Illusioni e delusioni del Risorgimento in alcune pagine della letteratura”. Per l’esposizione hai a disposizione max 10 minuti.

Competenza digitale

7. Prepara una presentazione multimediale sul melodramma ottocentesco, indicando in particolare quale ruolo svolse nella trasmissione degli ideali patriottici. Nella presentazione puoi inserire file audio o video di rappresentazioni di opere celebri disponibili in rete.

768 Ottocento 19 Il Romanticismo italiano e la letteratura risorgimentale


Ottocento CAPITOLO

20 La poesia dialettale

A torto considerata per lungo tempo “minore”, soprattutto in ambito scolastico, la letteratura dialettale assume una particolare importanza nell’Italia dell’Ottocento perché risponde alle esigenze di spontaneità e aderenza alla realtà del Romanticismo. Utilizza una lingua viva, il dialetto, allora l’unica impiegata nella vita quotidiana, dando così per la prima volta voce al popolo, il cui punto di vista era sempre stato escluso dalla letteratura alta. In dialetto scrivono due autori considerati tra i maggiori dell’Ottocento, Carlo Porta e Giuseppe Gioachino Belli. Porta rappresenta le vicissitudini di Milano tra il periodo napoleonico e la Restaurazione attraverso uno sguardo critico che contesta le ingiustizie e la prepotenza di chi detiene il potere. Belli, suddito dello Stato pontificio, rappresenta in più di duemila sonetti la realtà immobile e arcaica della Roma papale attraverso la parola, spesso dissacrante, del popolo.

poesia in dialetto, 1 Lalingua del “vero” 2 I poeti dialettali 769 769


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La poesia in dialetto, lingua del “vero” Il filo rosso del dialetto Il panorama della nostra letteratura sarebbe sicuramente incompleto se trascurasse una componente fondamentale per il nostro quadro culturale, la produzione in dialetto, assai apprezzata a livello europeo, ma fino a tempi relativamente recenti ingiustamente misconosciuta in Italia. Anche quando nella letteratura alta si impone il modello linguistico bembiano, fondato sul toscano letterario trecentesco, nella parlata della quotidianità si continua a usare il dialetto. Inoltre, fin dal Cinquecento, alcuni scrittori utilizzano il dialetto anche in testi letterari (ad esempio Ruzante nel Cinquecento, Basile nel Seicento), per conferire alle loro opere maggior immediatezza e verità, in contrapposizione polemica con il selettivo monolinguismo della letteratura “ufficiale”.

online

Verso il Novecento La poesia dialettale nel Novecento

Il Romanticismo crea le premesse per una valorizzazione della poesia in dialetto Nel XIX secolo l’affermazione della letteratura dialettale si lega all’esigenza romantica di immediatezza e spontaneità. La poesia in dialetto viene anche incontro a esigenze egualitarie, radicate fin dall’Illuminismo, e all’interesse romantico per il “popolo”, introducendo il punto di vista dal “basso” delle classi subalterne ed emarginate, in genere parlanti il solo dialetto, e dando quindi voce, come scrive il critico Dante Isella, «a una folla di uomini rimasti sempre senza volto». Lo svantaggio di una circolazione limitata Ma la produzione dialettale deve fare i conti con il pesante limite di una ridotta circolazione presso il pubblico, che è ristretto e non nazionale, come è evidente soprattutto nel caso di Porta, i cui versi a Milano sono notissimi, tanto da diventare spesso proverbiali, ma fuori dalla Lombardia sono pressoché sconosciuti. Significativamente Manzoni, pur dichiarandosi ammiratore di Porta, con I promessi sposi compie una scelta diversa sul piano linguistico e, alla sua morte, in una lettera all’amico Claude Fauriel, si rammarica che la scelta linguistica del dialetto non avesse fatto apprezzare il primo come avrebbe meritato al di fuori dell’ambiente milanese.

Un mercato a Roma in una stampa del XIX secolo (Roma, Museo di Roma in Trastevere).

770 Ottocento 20 La poesia dialettale


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I poeti dialettali 1 Carlo Porta, un testimone della storia milanese

Ritratto di Carlo Porta in un’incisione del XIX secolo (Civico Museo di Milano).

Il dialetto come lingua della realtà Il primo e più importante autore della letteratura ottocentesca in dialetto è Carlo Porta. Testimone di un periodo storico cruciale per Milano, caratterizzato da incessanti sovvertimenti politici, dalle repubbliche filo-francesi alla restaurazione austriaca (➜ T1a OL), Porta fornisce una rappresentazione incisiva dell’altalenarsi di speranze e delusioni dei milanesi. Erede delle istanze proprie dell’Illuminismo lombardo, Porta considera la poesia uno strumento utile per contribuire al rinnovamento della società attraverso la rappresentazione realistica delle dinamiche sociali e la denuncia delle ingiustizie. Da questa prospettiva deriva la scelta del dialetto milanese, che traduce la volontà dell’autore di aderire alla realtà nella sua concretezza, al di fuori di ogni reticenza e ipocrisia. Dalla sfortuna ottocentesca alla rivalutazione nel Novecento Proprio tale rappresentazione diretta della realtà, senza filtri e censure, ostacolò a lungo la pubblicazione delle opere del poeta milanese: durante la sua vita, ne uscì soltanto una stampa purgata e priva dei testi più significativi (1817), e, anche dopo la morte, la prima edizione non censurata, nel 1826, fu stampata fuori d’Italia (a Lugano). Per il pregiudizio contro i dialettali, anche l’apprezzamento dell’opera di Porta da parte della critica fu tardivo, ed è da attribuire a critici novecenteschi (tra cui, per primo, Attilio Momigliano, seguito poi in particolare da Dante Isella). La vita: un impiegato con la vocazione teatrale Nato a Milano (dove rimane tutta la vita) in una famiglia piccolo-borghese, Carlo Porta (1775-1821) è un semplice impiegato nella pubblica amministrazione, prima sotto gli austriaci, poi per la burocrazia napoleonica, poi nuovamente per gli austriaci nel periodo della Restaurazione. Fin dalla giovinezza però è anche un attore teatrale dilettante presso il Teatro patriottico (poi denominato “dei Filodrammatici”). Un’esperienza che esercita una grande influenza sulla sua opera: alcuni dei testi più riusciti e celebri di Porta sono «grandi monologhi teatrali» (Isella), di cui lo stesso poeta era apprezzato interprete. Il primo di essi è il poemetto Desgrazzi de Giovannin Bongee (1812; poi seguito nel 1813-1814 da Olter desgrazzi de Giovannin Bongee), con il quale Porta ottiene enorme successo nell’ambiente letterario milanese. Attraverso la testimonianza del povero protagonista, vittima delle prepotenze di alcuni soldati, Porta denuncia la sopraffazione dell’esercito francese: presentatosi come liberatore, e perciò accolto con favore da intellettuali (come lo stesso Porta e Foscolo), ne aveva tradito le speranze, sfruttando e opprimendo la popolazione italiana. A questo poemetto seguiranno a breve distanza di tempo altri due celebri monologhi, considerati fra i capolavori del Porta: La Ninetta del Verzee (1814) e El lament del Marchionn di gamb avert (1816). I poeti dialettali 2 771


La svolta della Restaurazione e l’avvicinamento alla poetica romantica Il 1816 è un anno cruciale per Porta: accusato di aver composto una satira antiaustriaca, la Prineide, in realtà opera dell’amico Tommaso Grossi (1790-1853), è interrogato e diffidato dalla polizia, tanto che per un breve tempo ipotizza di abbandonare l’attività letteraria. Ma i successivi eventi della storia gli fanno mutare parere, mostrandogli quanto il ruolo critico della letteratura sia ancora fondamentale. A partire da quello stesso 1816, infatti, la Restaurazione tenta di riportare in vita la struttura politica e sociale dell’ancien régime, ormai del tutto anacronistica. Ma Porta non resta indifferente: riunisce intorno a sé un gruppo di intellettuali – la “Cameretta” – con cui discute di attualità politica e letteratura, e in questi anni – gli ultimi della sua vita (morirà prematuramente nel dicembre del 1821, a 45 anni) – scrive altre opere fondamentali su questa nuova fase storica: La preghiera (➜ T1b ) e La nomina del cappellan, in cui rappresenta in modo ironico e critico il clima ideologico e sociale della restaurazione. In questo periodo divampa la polemica fra romantici e classicisti, cui Porta partecipa schierandosi a favore dei primi, con testi come El romanticismo (1819), in cui spiega come il valore della poesia romantica sia nella verità della rappresentazione e nell’espressione spontanea del sentimento. Con un’immagine concreta ed efficace, Porta paragona le costrittive regole della poesia classicistica a un busto con le stecche di ferro (un «bust coj stecch de ferr») e ricorda come l’arte romantica sia invece la «magia de moeuv [di muovere], de messedà, come se voeur [di mescolare con libertà], tutt i passioni che gh’emm sconduu in del coeur [nascoste nell’animo]».

Angelo Inganni, Veduta della piazza del Duomo dal Coperto dei Figini, olio su tela, 1842.

La prospettiva “dal basso”: uno sguardo che privilegia gli “umiliati e offesi” Anticipando Manzoni (e, secondo il critico Isella, in alcuni casi ispirandolo) Porta mostra nelle sue opere una predilezione per personaggi ingenui, indifesi, perdenti, esposti alle prepotenze e alle angherie dei potenti, e collocati al gradino più basso della società; ma, proprio per questo, spesso più umani e più veri. È significativo che nei tre monologhi già ricordati, oltre a scegliere il dialetto, Porta annulli in un certo senso la mediazione dell’autore e il filtro della sua visione del mondo (adottando così una prospettiva realistica ben più radicale rispetto a Manzoni) per dar voce direttamente ai protagonisti del popolo, che narrano in prima persona la loro storia. Giovannin Bongee, vittima di quei «prepotentoni de Frances» Giovannin Bongee, il prototipo di tali “umiliati e offesi”, che, attraverso un monologo, cerca di rivendicare la propria dignità calpestata, è un pover’uomo del popolo di indole non certo coraggiosa, il quale, confidandosi con un personaggio di più elevata condizione – che chiama Lustrissem, illustrissimo (mettendo con questo appellativo già in luce la sua tendenza a umiliarsi davanti ai potenti) – si lamenta delle sue “disgrazie”, dovute alla prepotenza dei militari napoleonici. Il Bongee racconta infatti come, mentre andava tranquillo per la

772 Ottocento 20 La poesia dialettale


sua strada, fosse stato fermato da soldati francesi, che lo avevano maltrattato; ma il peggio doveva ancora venire: giunto a casa, aveva trovato la moglie insidiata da altri ufficiali francesi, che avevano brutalmente stroncato i suoi timidi e inefficaci tentativi di protesta. Il monologo è uno dei capolavori di Porta.

Giovanni Migliara, illustrazione di un episodio del Marchionn di gamb avert, 1822.

La Ninetta del Verzee Come nel Bongee, anche nella Ninetta del Verzee l’autore lascia parlare la protagonista: Ninetta è una prostituta che si confida con un cliente in un linguaggio duro, crudo, senza dissimulare nulla, e che nella sua sincerità rivela un animo ingenuo e generoso. La donna è stata trascinata nel baratro dell’abiezione dall’amore mal riposto per un uomo cinico che, dopo averla derubata di tutto, l’ha indotta ad abbandonare il suo lavoro di onesta pescivendola per prostituirsi. La figura della prostituta (ricorrente nella letteratura ottocentesca) vittima dei vizi e dell’ipocrisia della società moderna, spesso presentata in modo edulcorato (si pensi ad esempio alla Traviata di Verdi e al romanzo La signora delle camelie di Dumas, da cui l’opera lirica è tratta), si mostra nel testo di Porta in tutta la sua autenticità, senza mai cadere nel patetico o in un’idealizzazione lontana dalla realtà.

PER APPROFONDIRE

El Lament del Marchionn di gamb avert Un altro personaggio di “perdente” di cui Porta sa mettere in luce l’umanità dandogli la parola in un toccante monologo è il protagonista del Lament del Marchionn di gamb avert, un povero sciancato, vittima di una donna astuta e corrotta, la bella Tetton (il nome già evoca il personaggio…), che lo sposa per fargli riconoscere il bambino concepito con un altro e lo sottopone a ogni sorta di tradimenti e di umiliazioni, finché se ne va via lasciandogli il bimbo, che il povero Marchionn accoglie di buon animo e accudisce con tenerezza, sempre convinto che sia figlio suo.

La “linea lombarda”: realismo, moralità, sperimentazione linguistica Milano, una città all’avanguardia La Lombardia, con Milano, si caratterizza come regione d’avanguardia della cultura italiana per circa due secoli, dal Settecento al Novecento. Milano è uno dei centri propulsivi prima dell’Illuminismo (attorno alla rivista «Il Caffè») e poi del Romanticismo, con il gruppo del «Conciliatore»; in seguito, nel capoluogo lombardo avranno il loro centro la Scapigliatura e, nel Novecento, l’avanguardia europea del Futurismo. La “linea lombarda” La cultura della città e della regione si caratterizza per alcuni tratti peculiari, a proposito dei quali i critici Luciano Anceschi e Dante Isella hanno parlato di una “linea lombarda”, che accomunerebbe, tra gli altri, gli illuministi Parini, Verri, Beccaria, Porta e Manzoni, gli scapigliati Dossi, Tessa e Gadda: tali caratteri sono il realismo (comune anche alla pittura lombarda), la moralità (si parla di “reali-

smo etico”) e la tendenza alla sperimentazione linguistica, non fine a se stessa, ma volta a rendere la complessità del reale. Come scrive Dante Isella, nella letteratura lombarda «lo strenuo esercizio dello stile è l’equivalente espressivo di un profondo senso del reale, osservato con animo partecipe, scrutato con l’occhio indagatore di chi dalla buccia delle cose specula le leggi dell’eterno fluire». Gli autori lombardi appaiono mossi da una tensione morale, da una volontà di scavo oltre le apparenze, che li induce alla ricerca di uno stile di forte e spesso violento impatto, talvolta con caratteri espressionistici, mai comunque convenzionale. A tale tendenza che per sua natura «aborre dal monolinguismo», si può ricondurre anche la linea dialettale, che in ambito milanese assume per la prima volta «pari dignità, anche a livello stilistico» rispetto alla tradizione in lingua.

I poeti dialettali 2 773


T1

Due momenti della storia nella poesia di Porta I testi qui presentati sono riferiti alla storia milanese, di cui Porta fu attento testimone. Il primo è un sonetto (➜ T1a OL) in cui il poeta dà voce, con la rude icasticità del dialetto, all’insofferenza dei milanesi per le prepotenze e le spoliazioni dell’esercito francese. Nel secondo (➜ T1b ), La preghiera, egli stigmatizza il clima degli anni della Restaurazione e il tentativo della nobiltà di riacquistare i propri privilegi con il sostegno di ideologie anacronistiche, come l’alleanza fra trono e altare e la concezione del potere per diritto divino (da quello regale ai privilegi della nobiltà).

online T1a Carlo Porta

Paracarr che scappee de Lombardia Poesie, 22

EDUCAZIONE CIVICA

Carlo Porta

T1b C. Porta, Poesie, lettere: itinerario antologico del “poetta ambrosian”, a cura di C. Beretta, Bompiani, Milano 1988

La preghiera

nucleo Costituzione competenza 1, 2

Composta nel 1820, la poesia, nota anche con il titolo L’offerta a Dio, rappresenta con pungente ironia il clima sociale e ideologico della Restaurazione. La nobile e presuntuosa donna Fabia racconta a un religioso suo ospite, l’ex francescano don Sigismondo, un incidente (in realtà di scarsa importanza e piuttosto ridicolo) da lei ritenuto di tragica gravità ed emblema della corruzione dei tempi. Caduta rovinosamente nello scendere dalla carrozza per entrare in chiesa, l’altezzosa nobildonna suscita le risa dei mendicanti e della povera gente lì accalcata. Per donna Fabia non c’è dubbio: si sta avvicinando la fine del mondo, se i “pezzenti” non rispettano più i nobili, «primm Cardin dell’ordine social». Ritenendo con ciò di fornire un luminoso esempio di carità cristiana, la donna si reca all’altare a pregare per i delinquent che l’hanno derisa: una preghiera in realtà blasfema perché fondata sul disprezzo dei poveri e sulla convinzione di dovere la propria condizione privilegiata a una speciale benevolenza divina. Secondo la sua poetica realistica, Porta non enuncia un giudizio esplicito sulla donna, ma ne lascia trasparire il carattere ottuso e presuntuoso attraverso la sua stolta “preghiera”.

Donna Fabia Fabron de Fabrian l’eva settada al foeugh sabet passaa col pader Sigismond ex franzescan, che intrattant el ghe usava la bontaa 5 (intrattanta, s’intend, che el ris coseva) de scoltagh sto discors che la faseva1.

La metrica: Sestine di endecasillabi, con lo schema ABABCC 1 Donna Fabia... faseva: Donna Fabia Fabroni di Fabriano era seduta sabato scorso presso il focolare con padre Sigismondo, un ex francescano che, intanto, le usava la cortesia (intanto, s’intende, che il ri-

774 Ottocento 20 La poesia dialettale

so cuoceva) di ascoltare questo discorso che lei faceva. La prima e l’ultima strofa si distinguono dalle altre perché sono in milanese, il linguaggio del narratore eterodiegetico, esterno. Nelle altre, invece, parla la donna, che tenta di elevare il proprio linguaggio nel “parlare finito” (un italiano approssimativo utilizzato dalle classi

più alte per distinguersi dal popolo), ma ricade spesso nel dialetto e in goffi errori. Il nome altisonante della protagonista, sottolineato dalle allitterazioni, fornisce la prima immagine di un personaggio pretenzioso e ridicolo.


Ora mai anche mì2 don Sigismond convengo appien nella di lei paura3 che sia prossima assai la fin del mond, 10 chè vedo cose di una tal natura, d’una natura tal, che non ponn dars4 che in un mondo assai prossim a disfars. Congiur, stupri, rapinn, gent contro gent, fellonii5, uccision de Princip Regg6, 15 violenz, avanii7, sovvertiment de troni e de moral, beffe, motegg8 contro il culto9, e perfin contro i natal del primm Cardin dell’ordine social10. Questi, don Sigismond, se non son segni 20 del complemento della profezia11, non lascian certament d’esser li indegni frutti dell’attual filosofia12; frutti di cui, pur tropp, ebbi a ingoiar tutto l’amaro, come or vò13 a narrar. Essendo ieri venerdì de marz fui tratta dalla mia divozion a Sant Cels14, e vi andiedi15 con quell sfarz che si adice alla nostra condizion; il mio copè con l’armi, e i lavorin 30 tanto al domestich quanto al vetturin16. 25

Tutte le porte e i corridoi davanti al tempio eren pien cepp d’una faragin17 de gent che va, che vien, de mendicanti,

2 anche mì: anch’io. 3 convengo… paura: concordo in pieno con la sua (di lei) paura. Il costrutto goffo e pretenzioso mette in evidenza la scarsa cultura della donna, e ci dà già un primo indizio del suo carattere. 4 non ponn dars: non possono accadere. 5 fellonii: tradimenti. 6 uccision de Princip Regg: uccisione di principi reali. Si riferisce probabilmente all’attentato di cui era stato vittima il duca di Berry, ucciso a Parigi nel gennaio 1820. 7 avanii: soprusi. 8 mottegg: scherni. 9 contro il culto: antireligiosi. 10 contro i natal... social: contro i discendenti del primo cardine dell’ordine sociale (la nobiltà). 11 del complemento della profezia: del compimento della profezia dell’Apocalis-

se. La donna assimila il tramonto dell’ordine sociale dell’ancien régime alla fine del mondo, profetizzata nell’Apocalisse. 12 non lascian... filosofia: sono certamente i frutti delle filosofie moderne. Donna Fabia ritiene colpevoli della perdita di rispetto del popolo verso i nobili l’Illuminismo e le ideologie democratiche e liberali, da lei condannate in blocco. 13 or vò: ora vado. 14 a Sant Cels: chiesa milanese, situata nell’attuale corso Italia. 15 vi andiedi: vi andai. Il parlare sussiegoso della donna risulta comico, perché infarcito di grossolani errori grammaticali. 16 con quello... al vetturin: con quello sfarzo che si addice alla nostra condizione di nobili; la mia carrozza ornata dello stemma nobiliare (copé dal francese coupé, carrozza chiusa con due sportel-

li e un solo sedile) e alamari di gala sia per il servitore sia per il conducente della vettura. È da notare il nostra, riferito alla nobiltà, di cui la donna fa parte, e non all’interlocutore, un povero ex frate ridotto a elemosinare il pranzo a causa della chiusura forzata dei conventi, avvenuta nel Settecento, per gli interventi dei sovrani illuminati austriaci (in particolare di Giuseppe II) e poi di Napoleone. La pompa della donna per recarsi in chiesa appare del tutto fuori luogo, particolarmente in una giornata penitenziale come il venerdì, e rende per contrasto ancora più ridicolo l’incidente della sua caduta. 17 pien... faragin: pieni zeppi di una folla confusa; faragin (“farragine”), con le sue connotazioni dispregiative, evidenzia il disprezzo della donna per la folla di popolani.

I poeti dialettali 2 775


de mercadanti de librett, de immagin, 35 in guisa che, con tanto furugozz18, agio non v’era a scender dai carrozz. L’imbarazz era tal che in quella appunt ch’ero già quasi con un piede abbass, me urtoron contro19 un pret sì sporch, sì unt20 40 ch’io, per schivarlo e ritirar el pass21, diedi nel legno22 un sculaccion sì grand che mi stramazzò in terra di rimand23. Come me rimaness in un frangent di questa fatta è facil da suppôr24: 45 e donna e damma25 in mezz a tanta gent nel decor compromessa e nel pudôr è più che cert che se non persi i sens fu don del ciel che mi guardò propens26. E tanto più che appena sòrta in piè27 50 sentii da tutt i band quej mascalzoni a ciuffolarmi dietro il va via vè28! Risa sconc29, improperi, atti buffoni, quasi foss donna a lor egual in rango, cittadina30... merciaja... o simil fango31. Ma, come dissi, quell ciel stess che in cura m’ebbe mai sempre fino dalla culla32, non lasciò pure in questa congiuntura de protegerm ad onta del mio nulla33. e nel cuor m’inspirò tanta costanza 60 quant c’en voleva in simil circostanza. 55

18 furugozz: calca, confusione. Il termine dialettale, che indica ancora quale sia la disposizione di donna Fabia verso la massa dei popolani, è in comico contrasto con la costruzione sintattica ricercata, introdotta da in guisa che. 19 me urtoron contro: mi spinsero contro. 20 un pret... unt: un prete, così sporco, così unto. Fra tanta folla, chi suscita un particolare ribrezzo nella donna è proprio un prete che, nella società della Restaurazione, impersona l’avvilimento degli ecclesiastici, immiseriti e privi di dignità, ridotti a difendere i privilegi di una nobiltà al tramonto. Negli ultimi testi di Porta sono ricorrenti figure di ex sacerdoti e frati in miseria per la chiusura dei conventi, di cui è un esempio lo stesso interlocutore

776 Ottocento 20 La poesia dialettale

della donna, fra Sigismondo.

21 ritirar... pass: tirarmi indietro. 22 nel legno: sottinteso “della carrozza”. 23 mi stramazzò... di rimand: per il contraccolpo mi fece cadere a terra. 24 Come me… da suppôr: come rimanessi in un frangente di tal fatta è facile da supporre. 25 damma: dama (nobile). 26 se non... propens: se non caddi svenuta fu per l’aiuto divino, che mi concesse il suo favore. 27 sòrta in piè: rialzatami. 28 da tutt... vè: da tutte le parti fischiarmi dietro frasi di scherno (il “vattene via!”, ritornello popolare). 29 Risa sconc: risate sconce, volgari. 30 cittadina: borghese. 31 simil fango: simile bassezza. Tocca

qui il suo culmine il disprezzo per i poveri e l’arroganza di donna Fabia, incapace di riconoscere l’uguaglianza di tutti gli uomini: un principio non soltanto illuministico, ma anche cristiano. È significativo che don Sigismondo rimanga in silenzio, senza controbattere nulla. 32 quell ciel... culla: quel cielo che fin dalla nascita mi concesse sempre il suo favore, anche in tale difficile circostanza non cessò di proteggermi. 33 non lasciò… mio nulla: non trascurò pure in questa circostanza di proteggermi, nonostante il mio essere nulla di fronte a Dio. La retorica professione di umiltà religiosa contrasta con la superbia della donna convinta, perché nobile, di avere diritto a un favore particolare dal Cielo.


Fatta maggior de mì34, subit impongo al mio Anselm ch’el tacess, e el me seguiss, rompo la calca, passo in chiesa, giongo a’ piedi dell’altar del Crocifiss, 65 me umilio35, me raccolgh, poi a memoria36 fò al mio Signor questa giaculatoria37: Mio caro buon Gesù, che per decreto dell’infallibil vostra volontà m’avete fatta nascere nel ceto 70 distinto38 della prima nobiltà, mentre poteva a un minim cenno vostro nascer plebea, un verme vile, un mostro39: io vi ringrazio che d’un sì gran bene abbiev40 ricolma l’umil mia persona, 75 tant più che essend le gerarchie terrene simbol di quelle che vi fan corona godo così di un grad ch’è riflession del grad di Troni e di Dominazion41. Questo favor lunge dall’esaltarm, 80 come accadrebbe in un cervell leggier42 non serve in cambi che a ramemorarm la gratitudin mia ed il dover di seguirvi e imitarvi, specialment nella clemenza con i delinquent. 85 Quindi in vantaggio di costor anch’io v’offro quei preghi, che avii faa voi stess43 per i vostri nimici al Padre Iddio:

34 Fatta maggior de mì: spinta (dall’ispirazione divina) a un comportamento eroico, superiore a quello consueto. 35 subit... me umilio: la successione di verbi d’azione ritrae efficacemente l’atteggiamento deciso e prepotente della donna, convinta di dover difendere la sua dignità ingiustamente calpestata; l’incedere altero e sussiegoso con cui giunge fino all’altare contrasta in modo ridicolo con l’espressione «me umilio». 36 a memoria: Porta insinua abilmente che le sciocchezze dette dalla donna non siano il frutto di un suo pensiero personale, ma che le abbia apprese “a memoria”, perché spesso ripetute nel suo ambiente. Le concezioni di donna Fabia, infatti, possono essere ricondotte all’ideologia della Restaurazione, di cui è evidente l’anacronismo, grottesco dopo l’Illuminismo,

la Rivoluzione francese e la parabola di Napoleone. 37 fò al mio… giaculatoria: l’espressione non è casuale, perché il Signore invocato dalla donna (la giaculatoria sta per “preghiera rivolta a Dio”) è davvero “il suo”, dato che lei ritiene di riceverne una speciale protezione personale. Lontano dal vero Dio cristiano, è frutto dei suoi pregiudizi di persona tanto sciocca quanto privilegiata. 38 ceto distinto: l’enjambement sottolinea il compiacimento della donna per la sua elevata appartenenza sociale. 39 plebea... mostro: il climax evidenzia il disprezzo della donna per i poveri. 40 abbiev: abbiate. Nel coniugare i verbi donna Fabia mostra tutto il suo impaccio linguistico, coniando più volte forme inesistenti.

41 godo... Dominazion: godo sulla terra di un grado pari a quello delle gerarchie angeliche dei Troni e delle Dominazioni. Secondo una visione medievale, l’ordine gerarchico terreno rispecchierebbe quello divino. 42 cervell leggier: persona superficiale. Donna Fabia non si ritiene soltanto un esempio di moralità, ma anche di profondità di pensiero. 43 v’offro... stess: vi offro quelle preghiere che avete rivolto Voi stesso. Convinta che aver riso di lei fosse stata una colpa di inaudita gravità, donna Fabia definisce delinquent (v. 84) quelli che l’hanno commessa, e arriva nella sua superbia a identificarsi con Cristo sulla croce; è perciò convinta di dare prova di grandezza d’animo perdonando i colpevoli e pregando per loro.

I poeti dialettali 2 777


Ah sì abbiate pietà dei lor eccess, imperciocché ritengh che mi offendesser 90 senza conoscer cosa si facesser44. Possa st’umile mia rassegnazion congiuntament45 ai merit infinitt della vostra accerbissima passion46 espiar le lor colpe, i lor delitt, 95 condurli al ben, salvar l’anima mia, glorificarmi in cielo, e così sia. Volendo poi accompagnar col fatt le parole, onde avesser maggior pes47, e combinare con un pò d’eclatt48 100 la mortificazion di chi m’ha offes e l’esempio alle damme da seguir ne’ contingenti prossimi avvenir, sòrto a un tratt49 dalla chiesa, e a quej pezzent, rivolgendem in ton de confidenza, 105 Quanti siete, domando, buona gent50?... Siamo ventun, rispondon, Eccellenza! Caspita! molti, replico... Ventun?... Non serve51: Anselm?... Degh on quattrin per un52. Chì tas la Damma, e chì Don Sigismond 110 pien come on oeuv de zel de religion, scoldaa dal son di forzellinn, di tond, l’eva lì per sfodragh on’orazion, che se Anselm no interromp con la suppera vattel a catta che borlanda l’era53!

44 imperciocché... facesser: la donna ripete le parole di Cristo sulla croce, “Perdona loro perché non sanno quello che fanno”, mettendo sullo stesso piano la sua goffa caduta, derisa dal popolo, e il martirio di Cristo. 45 congiuntament ai merit: insieme ai meriti. 46 accerbissima passion: dolorosissima Passione. 47 pes: peso. La donna vuole conferire maggior efficacia alla preghiera con un’opera di misericordia. 48 eclatt: francesismo (dal francese éclat, “splendore, magnificenza”). L’uso del francese non è casuale: era la lingua parlata dai nobili e il termine indica la volontà

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della donna di compiere un bel gesto aristocratico, per impressionare e mortificare la folla. Nella sua illimitata superbia, la nobildonna pensa di poter essere d’esempio addirittura per le donne delle future generazioni. 49 sòrto... tratt: esco a un tratto. 50 pezzent... buona gent: la rima evidenzia l’ipocrisia della donna, che con disprezzo giudica pezzent i poveri che la circondano ma si rivolge loro con falsa cortesia, chiamandoli buona gent. 51 Non serve: non importa. 52 Degh... per un: dai un quattrino (una moneta di scarso valore) per uno. Disprezzando la folla dei miserabili, la donna non consegna loro personalmente l’elemosi-

na, ma la fa distribuire dal suo servitore, Anselmo. 53 Chì tas... l’era: qui (a questo punto) tace la dama e a questo punto don Sigismondo, pieno come un uovo di zelo religioso, incitato dal suono delle forchette e dei piatti, era lì lì per sfoderare un’orazione che, se Anselmo non lo interrompeva con la zuppiera, chi sa che sbrodolata sarebbe stata! In dialetto milanese, la borlanda è una minestra brodosa e insipida. L’ultima ottava, come la prima affidata al narratore in milanese, rivela come l’esponente del clero, seduto al tavolo della nobildonna, sia più interessato al pasto che alla religione.


Analisi del testo La Preghiera come sguardo critico sulla Restaurazione Considerata uno dei capolavori di Porta, la poesia non si esaurisce nel suo aspetto caricaturale e satirico, ma propone una riflessione più profonda sul tentativo storico della Restaurazione europea di cancellare le idee illuministiche e di tornare a usare la religione come sostegno del potere e del privilegio sociale. Il tentativo di riportare indietro l’orologio della storia, ripristinando le prerogative aristocratiche dell’ancien régime, appariva grottesco in una città come Milano, che era stata uno dei maggiori centri dell’Illuminismo europeo. Contro tale pretesa, Porta utilizza l’arma del comico, da sempre una delle più efficaci per contestare il potere.

La cornice in dialetto e la parlata della nobildonna Il monologo di donna Fabia è incorniciato da un’introduzione e da una conclusione di un narratore eterodiegetico, in terza persona che, in dialetto milanese, ne illustra l’occasione: la donna rivolge il racconto della sua eroica “preghiera” a don Sigismondo, ex frate ridotto al rango di parassita, il quale però sembra più interessato al pranzo imminente che alle questioni morali e teologiche. La cornice dialettale permette di apprezzare meglio l’intarsio linguistico (quasi un pastiche, cioè un impasto di stili diversi) che caratterizza il discorso della nobildonna: era il cosiddetto “parlar finito”, un ibrido di italiano letterario e dialetto, parlato dai nobili milanesi per distinguersi dalle classi inferiori, che erano esclusivamente dialettofone.

Una preghiera empia e blasfema

Rembrandt Harmenszoon van Rijn, Anziana in preghiera, olio su tela, 1629 ca. (Salisburgo, Residenzgalerie).

Nell’ideologia della Restaurazione, la religione torna a essere un sostegno dell’ordine costituito. Le ottuse convinzioni di donna Fabia ne sono un riflesso: convinta che il potere derivi da un’investitura divina, la nobildonna considera le gerarchie sociali specchio di quelle celesti. Non si rende, però, conto che la sua preghiera, insieme ai valori illuministici, rinnega anche quelli cristiani: non è certo evangelico il suo disprezzo per le persone umili («poteva... nascer plebea, un verme vile, un mostro»), che la spinge a definire fango gente che ha il solo torto di essere povera. La sua superbia da aristocratica giunge addirittura al paragone, tanto empio quanto ridicolo, tra l’offesa da lei ricevuta e la Passione di Cristo.

La continuità Parini-Porta-Manzoni Per la sua critica alla nobiltà, Porta si riallaccia all’esempio del poeta milanese Parini, come già si avverte in questo testo, ma come è evidenziato in modo ancora più esplicito in un poemetto del 1819, La nomina del cappellan, in cui, con un richiamo all’episodio pariniano della Vergine cuccia, Porta immagina che la cagnetta di casa guidi una nobildonna nella scelta di un cappellano tra la folla dei miserabili pretendenti. Ma, come una linea di continuità lega Parini a Porta, così un altro filo conduce da Porta a Manzoni. Proprio il 1821, infatti (l’anno della morte di Porta), segna per Manzoni l’inizio della lunga elaborazione dei Promessi sposi, per cui, come ha mostrato Isella, l’opera portiana costituisce un importante modello narrativo. Manzoni riprende infatti la scelta portiana di protagonisti umili e popolari e il realismo critico della narrazione. Alcuni personaggi dei Promessi sposi, inoltre, ricordano quelli portiani: la nobile prepotente, stupida e bigotta della Preghiera somiglia alla manzoniana donna Prassede, che scambia il cielo per il suo cervello, mentre il disprezzo degli aristocratici per gli umili è pari a quello di don Rodrigo, che afferma di Renzo e Lucia: «Son come gente perduta sulla terra; non hanno né anche un padrone: gente di nessuno» (I promessi sposi, XI). Sia Porta sia Manzoni hanno aderito agli ideali illuministici e, sebbene lo spirito laico del primo differisca da quello religioso del secondo, entrambi condannano la sottomissione della Chiesa ai potenti.

I poeti dialettali 2 779


Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

COMPRENSIONE 1. Riassumi brevemente gli avvenimenti narrati nel testo. 2. Perché donna Fabia ritiene sia prossima la fine del mondo? 3. Qual è il rapporto fra il mondo celeste e quello terreno secondo donna Fabia? 4. Qual è il ruolo di don Sigismondo? Che comportamento tiene? ANALISI 5. In tutto il suo discorso la nobildonna manifesta il suo disprezzo per i poveri. Riporta i passi in cui si evidenzia tale atteggiamento. 6. Indica l’espressione con cui donna Fabia definisce la nobiltà e spiegane il senso. 7. Il discorso di donna Fabia si caratterizza per la varietà di registri linguistici (dialetto, italiano alto, commistione di dialetto e italiano). Riporta qualche espressione esemplificativa di tali diversi registri linguistici, spiegando le ragioni per cui Porta li ha usati.

Interpretare

ESPOSIZIONE ORALE 8. In un intervento orale di max 3 minuti, evidenzia in un testo i temi e le idee che accomunano Parini, Porta e Manzoni.

EDUCAZIONE CIVICA

9. Donna Fabia condanna le ideologie democratiche e liberali propugnate dall’Illuminismo e ritiene che la nobiltà sia il «primm Cardin dell’ordine social». La donna è l’espressione di una mentalità chiusa e classista che sfocia in un vero e proprio disprezzo verso i «pezzent». Ti è mai capitato di assistere a episodi di questo tipo, nei quali risultava evidente l’ostentazione di superiorità e di aperto disprezzo nei confronti di persone indigenti?

nucleo

Costituzione

competenza 1, 2

2 Giuseppe Gioachino Belli e la voce del popolo di Roma

Giuseppe Gioachino Belli (Roma, Museo del folklore e dei poeti romaneschi).

Una personalità enigmatica e contraddittoria La personalità di Belli – che, insieme a Porta, fu l’altro grande poeta dialettale dell’Ottocento – resta tuttora misteriosa. Il confronto tra la sua vita pubblica (impiegato dello Stato pontificio, conservatore in politica, addirittura reazionario negli ultimi anni) e i dissacranti sonetti in dialetto romanesco ci offre infatti l’immagine di un uomo dal doppio volto. Ma “doppia” è anche la sua figura di scrittore perché affianca la produzione in dialetto, sorprendentemente moderna, a una produzione in lingua di gusto classicistico. Una giovinezza difficile Giuseppe Gioachino Belli nasce nel 1791 a Roma, in uno Stato pontificio dove il potere temporale dei papi era ormai avviato verso un’irreversibile crisi, minato dalle idee illuministiche e dall’avanzare della modernità. Nel 1798 il più che millenario governo papale cade per la prima volta e i francesi occupano militarmente la città, proclamando la prima Repubblica romana. La famiglia di Belli, ancora bambino, ne è drammaticamente coinvolta, costretta alla fuga per aver ospitato un parente (un generale napoletano inviato a restaurare il potere papale, poi fucilato dai rivoluzionari). Seguono altri dolorosi eventi che rendono infelice la giovinezza di Belli, contribuendo a formare un carattere pessimista e malinconico: a dieci anni perde il padre e pochi anni dopo la madre, rimanendo in condizioni economiche assai difficili che lo costringono a interrompere gli studi. Trova lavoro come

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impiegato, ma non rinuncia all’attività intellettuale e diviene socio dell’Accademia Tiberina (in cui si coltivava una letteratura accademica e tradizionalistica), per cui scrive testi di impianto tradizionale. La cultura, i viaggi, l’influenza di Porta Nel 1816 il poeta sposa una ricca vedova, Maria Conti Pichi, da cui avrà il figlio Ciro. Raggiunta, grazie al matrimonio, una condizione di tranquillità e di agiatezza, può dedicarsi agli studi, impadronendosi di una cultura enciclopedica, che spazia dai testi illuministici alla filosofia, alla politica e alla letteratura. Compie anche viaggi a Firenze e a Milano che lo mettono a contatto con ambienti liberali e con realtà politiche e sociali ben più evolute dello Stato pontificio. A Milano, Belli legge le poesie di Porta, che rappresentano per lui una vera e propria «rivelazione folgorante» (Teodonio), aprendogli nuove e inaspettate prospettive. Tornato a Roma, Belli si dimette dall’Accademia Tiberina e dà inizio alla sua produzione in dialetto romanesco, che costituirà un grandioso, dissacrante affresco della Roma papalina. Belli autore europeo Per timore della censura (o per più complesse ragioni personali) Belli decide di non dare alle stampe durante la vita i suoi sonetti, che (salvo uno) vengono pubblicati postumi: per la prima edizione completa si è dovuto attendere addirittura il 1952, quando si è potuto veramente comprendere la portata eccezionale dell’opera. Tuttavia essi erano ben conosciuti a Roma perché il poeta, attore dilettante, era solito declamarli durante riunioni di amici e intellettuali, che ne diffusero la fama in Europa (in cui Belli apparve uno degli iniziatori di un realismo che avrebbe in seguito caratterizzato la letteratura del tardo Ottocento) La rinuncia alla poesia in dialetto Ma dopo la proclamazione della Repubblica romana (1849), Belli decide di rinunciare alla sua poesia di argomento popolare in romanesco, presumibilmente per il timore di fomentare i moti liberali. Da allora esibisce un atteggiamento reazionario al punto che, nel suo incarico di censore teatrale della curia papalina, arriva a condannare il Rigoletto di Verdi per l’enfasi posta sulla parola vendetta nel libretto di Francesco M. Piave. Intristito da sventure familiari e dalla rinuncia alla sua più autentica vocazione di poeta, muore nel dicembre del 1863. La raccolta dei Sonetti: la commedia della Roma papalina La raccolta dei testi in romanesco di Belli consta di più di duemila sonetti (precisamente 2279), per un insieme di versi più che doppio rispetto alla Divina Commedia: una “umana” commedia della Roma papalina, ricchissima di situazioni e personaggi, in cui sono i popolani a parlare, con molteplici voci che si sovrappongono in un insieme colorito e multiforme a cui fa da sfondo la Roma del tempo, dalle miserabili case alle piazze animate, dai mercati affollati di popolani ai tribunali, alle chiese e alle strade. Rivivono nella poesia di Belli i tipi umani caratteristici della città, i loro diversi mestieri e occupazioni, il modo di educare i figli, la loro approssimativa e immaginosa cultura di analfabeti, la loro visione di questa vita (e dell’altra), le opinioni sulla politica, sulla giustizia, sulla religione, sui rapporti tra le classi sociali e naturalmente sul “papa re”. Le idee dell’autore: un enigma Dato che nei sonetti parlano i popolani, resta un mistero il pensiero dell’autore, che si cela «nel suo parlante pigro e collerico, esibizionista e filosofo» (P. P. Pasolini). Nell’Introduzione alla raccolta (➜ T2 OL), Belli rivendica per sé soltanto il ruolo di storico oggettivo, guidato da un interesse che oggi definiremmo antropologico: ritrarre fedelmente l’indole, la mentalità del popolo di Roma nella sua inconfondibile tipicità, filtrata attraverso il suo peculiare linguaggio. I poeti dialettali 2 781


È però difficile non cogliere la formidabile carica eversiva dei sonetti in cui, attraverso la voce della gente del popolo, il poeta delinea un quadro di miseria, ingiustizia e sopraffazione tale da rendere la città dei papi più simile all’infernale città di Dite dantesca che alla città di Dio, ritraendola con uno spirito graffiante che lo ha fatto accostare al pittore spagnolo Francisco Goya (1746-1828). La prospettiva critica dei Sonetti Assumendo il punto di vista del popolo, Belli crea un effetto di straniamento, che smaschera le ingiustizie e l’ipocrisia dei potenti. Ammiratore di Porta e Manzoni (giudica I promessi sposi «il primo libro del mondo»), lettore degli illuministi, nonostante le esibite professioni reazionarie il poeta è sicuramente critico verso la Roma papalina. Non può, però, essere definito un “progressista”: a differenza di Porta e Manzoni non sembra infatti nutrire alcuna fiducia nella possibilità di cambiare in meglio la situazione politica e sociale né, tanto meno, appare convinto del ruolo “illuministico” della poesia, come dimostra la rinuncia a comporre sonetti (che, nel testamento, chiederà addirittura di distruggere) dopo la rivoluzione romana di Mazzini, per evitare di essere coinvolto nella propaganda antipapale. Probabilmente, il carattere pessimista e l’ambiente arretrato in cui viveva gli impedirono di coltivare la speranza in un positivo cambiamento.

Religiosi conversano nei pressi del Colosseo, seconda metà del XIX secolo.

online T2 Giuseppe Gioachino Belli

online T3 Giuseppe Gioachino Belli

online T4 La Roma dei papi: una città violenta

online T5 La miseria del popolo di Roma

T4a Giuseppe Gioachino Belli L’aducazzione Sonetti, 2

T5a Giuseppe Gioachino Belli La bbona famijja Sonetti, 47

T4b Giuseppe Gioachino Belli Chi ccerca trova Sonetti, 399

T5b Giuseppe Gioachino Belli La famijja poverella Sonetti, 413

Il programma di Belli: un ritratto fedele del popolo romano Introduzione ai Sonetti

782 Ottocento 20 La poesia dialettale

La vita da cane Sonetti, 515


T6

La filosofia e la teologia dei popolani Nell’Introduzione ai Sonetti, Belli accenna al proposito di dare spazio alla visione del mondo dei popolani, alle loro credenze, ai pregiudizi, alle superstizioni, ma anche alla loro cultura (i lumi): un coacervo immaginoso e colorito, unico nel suo genere, perché trae linfa da una città unica al mondo. Nascono così alcuni dei più affascinanti sonetti belliani, con il loro fantasioso e spesso comico insieme di teologia e di superstizione, e con riflessioni pessimistiche e disincantate sul destino umano che probabilmente accomunano l’autore ai suoi personaggi.

Giuseppe Gioachino Belli

T6a

LEGGERE LE EMOZIONI

Er caffettiere fisolofo* Sonetti, 180

G. G. Belli, Sonetti, a cura di P. Gibellini, Mondadori, Milano 1990

Il sonetto esprime la visione della vita di un popolano che, nel suo pessimismo, probabilmente rispecchia quella dell’autore. Un caffettiere (gestore di un caffè) sta tritando i chicchi tostati con un macinino a manovella e riflette sulla loro somiglianza con la sorte degli uomini, “girati in tondo” dal destino e quindi spinti a cadere nella gola della Morte.

L’ommini de sto Monno sò ll’istesso che vvaghi de caffè nner mascinino1: c’uno prima, uno doppo, e un antro appresso2, 4 tutti cuanti però vvanno a un distino3. Spesso muteno sito4, e ccaccia spesso er vago grosso er vago piccinino, e ss’incarzeno5 tutti in zu l’ingresso 8 der ferro che li sfraggne in porverino6. E ll’ommini accusí vviveno ar monno misticati7 pe mmano de la sorte 11 che sse li ggira tutti in tonno in tonno8; E mmovennose9 oggnuno, o ppiano, o fforte, senza capillo mai caleno a ffonno10 14 pe ccascà11 nne la gola de la morte.             Roma, 22 gennaio 1833 *fisolofo: filosofo. La metrica: Sonetto con lo schema ABAB ABAB CDC DCD

1 vvaghi... mascinino: chicchi di caffè nel macinino. 2 un antro appresso: un altro dopo. 3 tutti... distino: tutti quanti vanno verso

uno stesso destino, la morte.

4 muteno sito: cambiano di posto. 5 ss’incarzeno: s’incalzano. 6 li sfraggne... porverino: li riduce in polvere. La violenza espressiva del verbo onomatopeico sfraggne e il diminutivo porverino rendono efficacemente l’idea dell’annientamento finale.

7 E ll’ommini... misticati: e gli uomini così vivono nel mondo, mescolati.

8 in tonno in tonno: tutt’in tondo. 9 mmovennose: muovendosi. 10 senza... ffonno: senza capirlo mai affondano. 11 pe ccascà: per cascare.

I poeti dialettali 2 783


Analisi del testo L’allegoria del macinino Il sonetto richiama la lirica barocca, in cui l’osservazione di un oggetto – in genere una clessidra o un orologio a ruote o ad acqua – dava origine a una riflessione sulla vanità della vita e sull’incombere della morte. L’originalità della poesia di Belli sta nel fatto che il protagonista (in modo simile a colui che tiene in mano il destino degli uomini) sta egli stesso azionando il macinino, il meccanismo che frantuma e riduce in polvere i chicchi di caffè. Dall’analogia scaturisce una pessimistica riflessione sulla condizione umana, con ogni probabilità condivisa dallo stesso autore: gli uomini, dominati da un destino crudele e incomprensibile, si affannano vanamente, cercando di migliorare la propria condizione e di sopraffarsi gli uni con gli altri, cosicché i forti prevalgono sui più deboli; ma alla fine per tutti c’è la morte che incombe spaventosa, pronta a ingoiarli.

La struttura e lo stile del sonetto Il sonetto è perfettamente costruito: le quartine evocano il movimento dei chicchi di caffè, con una cadenza lenta e monotona che riproduce il ritmo cadenzato dei giri di manovella. Alcuni termini anticipano il secondo elemento della comparazione, la condizione umana: distino (il destino) e porverino (i chicchi ridotti in polvere), parola chiave che chiude le quartine, con un’evidente citazione della Bibbia («ricordati che sei polvere, e in polvere ritornerai»). Il movimento descritto, prima in tondo, poi di caduta a precipizio, è sottolineato dai «ritmi incalzanti in continuo crescendo che girano anch’essi come ruote, sino a conchiudersi nella clausola fortemente cadenzata e statica dell’ultimo verso. Verso fermo e pesante come una pietra tombale» (Vigolo). Il caffettiere, cioè il gestore di un caffè, descrive la condizione umana in un modo rassegnato, ma il sonetto (che per certi aspetti può ricordare la visione del mondo di un altro poeta suddito pontificio, Giacomo Leopardi) solleva una domanda a cui non è data risposta: nel ciclo di creazione e distruzione che caratterizza tutte le cose, esiste un senso ultimo della vita?

Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

COMPRENSIONE 1. Quali sono gli aspetti della condizione umana messi in luce dal sonetto? ANALISI 2. Analizza il lessico del sonetto, individuando i principali campi semantici e il rapporto con i temi. Individua in particolare i verbi di movimento, spiegando a quali aree semantiche appartengono. 3. Come si può interpretare il v. 10: «misticati pe mmano de la sorte»? 4. Quale visione della vita vuole esprimere il poeta nel sonetto? STILE 5. Illustra le modalità con cui il poeta sviluppa, nel corso del sonetto, la metafora iniziale.

Interpretare LEGGERE LE EMOZIONI

SCRITTURA 6. Belli utilizza la metafora del caffettiere per proporre una sconsolata meditazione sulla vita dell’uomo e sul suo destino finale. Proponi altre suggestive metafore, ispirate anche dalla tua vita quotidiana, che alludano allo stesso tema.

784 Ottocento 20 La poesia dialettale


Giuseppe Gioachino Belli

T6b

La creazzione der monno Sonetti, 20

G. G. Belli, Sonetti, a cura di P. Gibellini, Mondadori, Milano 1990

Una serie di sonetti del Belli è dedicata alla narrazione degli episodi biblici più atti a colpire la fantasia popolare. Questo sonetto sulla creazione del mondo fu composto nel 1831, come quello sulla fine del mondo (➜ T6c OL).

L’anno che Ggesucristo impastò er monno, ché pe impastallo ggià cc’era la pasta1, verde lo vorze fà, ggrosso e rritonno2 4 all’uso d’un cocommero de tasta3. Fesce un zole4, una luna, e un mappamonno5, ma de le stelle poi, di’ una catasta6: sù uscelli, bbestie immezzo, e ppessci in fonno7: 8 piantò le piante, e ddoppo disse: «Abbasta». Me scordavo de dí che ccreò ll’omo, e ccoll’omo la donna, Adamo e Eva; 11 e jje proibbí de nun toccajje un pomo8. Ma appena che a mmaggnà ll’ebbe viduti, strillò per Dio con cuanta vosce9 aveva: 14 «Ommini da viení10, sséte futtuti».                Terni, 4 ottobre 1831 La metrica: Sonetto con schema delle rime ABAB ABAB CDC EDE 1 L’anno... pasta: l’anno che Dio (confuso con Gesù Cristo a causa dell’ignoranza del popolano) impastò (creò) il mondo, perché per impastarlo c’era già la pasta. 2 lo vorze... rritonno: lo volle fare grosso e rotondo.

3 ll’uso... tasta: al modo di un cocomero da assaggio. La tasta è un pezzo, un tassello, ricavato dal cocomero per farne provare il grado di maturazione ai possibili acquirenti. 4 Fesce un zole: fece un sole. 5 un mappamonno: un mappamondo, un globo terrestre. 6 de le stelle... catasta: le stelle potresti

dire che fossero una catasta (un numero grandissimo). 7 sù uscelli… fonno: in cielo gli uccelli, in mezzo gli animali terrestri e i pesci in fondo (al mare). 8 jje proibbí... pomo: intimò loro di non toccargli una mela (un pomo). 9 cuanta vosce: quanta voce. 10 da viení: a venire, futuri.

Analisi del testo La creazione ridotta alla misura di un popolano Il sonetto ha un effetto comico per la riduzione della Genesi alla misura di un popolano, che immagina la creazione del mondo rappresentandola, a modo suo, con due metafore alimentari: un impasto, lavorato da un fornaio e un’anguria da assaggio, grossa, matura e polposa. Anche il Creatore divino subisce una metamorfosi grottesca: dapprima esaltato da un impeto creativo nel riempire il mondo di ogni sorta di animali e piante, d’improvviso sembra accasciarsi, quasi ne avesse abbastanza di quella fatica, pigro e indolente come un comune popolano; quindi assume le sembianze di un «tiranno allegramente feroce» (Muscetta) che impone decreti immotivati e incomprensibili, simili a quelli di un sovrano assoluto e del papa re. Tale Dio-sovrano assoluto appare grossolanamente volgare quando strilla a gran voce, proibendo agli uomini di toccare il frutto proibito, quasi fosse compiaciuto di avere ingannato in tal modo tutta la futura umanità, per capriccio o per insidia deliberata.

I poeti dialettali 2 785


Errori teologici del popolano o dubbi di Belli? Attraverso una serie di grossolani errori teologici, l’autore mette in evidenza l’inattendibilità del credo religioso del popolano, che confonde Dio con Gesù Cristo, immagina che la materia sia preesistente alla Creazione, come nel caso del Demiurgo platonico, e parla di un anno della Creazione, come se il tempo potesse precederla. Per un lettore colto, tuttavia, e per i religiosi (ricordiamo che fra i lettori dei sonetti non mancavano gli ecclesiastici), tali svarioni non appaiono del tutto “innocenti” in quanto alludono a questioni teologiche fondamentali e discusse fin dai tempi del primo Cristianesimo e fonte di eresie, quali il rapporto fra la materia e lo spirito, il tempo, l’essenza della Trinità. Dietro alla voce del popolano ignorante non si può, perciò, non avvertire quella dell’autore, con i suoi dubbi sulla centralità dell’uomo nell’universo, sul peccato originale, sulla provvidenza, nati da una visione pessimistica della realtà; per il popolano, ammaestrato dalla sua triste esperienza della vita, l’uomo appare come una presenza trascurabile nell’universo (si scorda di dire che Dio lo ha creato). Ma qual è realmente – il lettore è portato a chiedersi – il posto dell’uomo nella creazione divina? Ne è veramente il centro e lo scopo? Nell’immaginazione del popolano ignorante, la crudele battuta finale di Dio è davvero così infondata in un mondo in cui la condizione umana è così dolorosamente difficile e sono esistite (e ancora esistono) tante sofferenze, violenze e ingiustizie lungo il corso millenario della storia?

Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

SINTESI 1. Sintetizza il punto di vista del popolano. COMPRENSIONE 2. Individua gli errori teologici presenti nel sonetto. ANALISI 3. Quali sono i particolari più comici del racconto? STILE 4. Analizza il sonetto dal punto di vista stilistico-formale, ricercando in particolare le figure retoriche presenti.

Interpretare

ESPOSIZIONE ORALE 5. In un intervento orale di max 3 minuti illustra le azioni compiute da Dio e l’immagine del Creatore che ne emerge.

online

Interpretazioni critiche Giuseppe Petronio Roma e il mondo nello specchio deformante dell’ottica popolare

Fissare i concetti La poesia dialettale La poesia in dialetto, lingua del “vero” 1. Per quale motivo la letteratura dialettale assume particolare importanza in Italia nel secondo Ottocento? I poeti dialettali 2. Quali sono le opere più significative di Carlo Porta? 3. In che modo Porta rappresenta il mondo degli “umiliati e offesi”? 4. Perché Belli può essere definito “una personalità enigmatica e contraddittoria”? 5. Come vengono rappresentati i potenti nei Sonetti di Belli?

786 Ottocento 20 La poesia dialettale


La poesia dialettale di Porta e Belli a confronto LA POESIA DI PORTA

LA POESIA DI BELLI

CITTÀ RAPPRESENTATA

Milano, città dell’Illuminismo e delle tendenze romantiche, moderna e culturalmente avanzata

Roma, la città del “papa-re” arretrata e votata all’immobilismo

RAPPORTO CON LA STORIA

punto di vista critico sulla dominazione francese e sulla Restaurazione

il mondo rappresentato appare “immobile”, al di fuori della storia

NARRATORE

narratore omodiegetico nei monologhi di personaggi popolari; in altri testi invece narratore eterodiegetico, che esprime un punto di vista vicino a quello dell’autore

sempre narratore omodiegetico perché nei sonetti parlano personaggi popolari

PUNTO DI VISTA DELL’AUTORE

punto di vista critico sull’ordine sociale, alla luce della cultura illuministica dell’autore

non è esplicitato il punto di vista punto di vista critico sull’ordine dell’autore, che cede la parola sociale, alla luce della culturaai suoi personaggi illuministica dell’autore

FINE DELLA POESIA

impegno progressista dell’autore: con la poesia vuole mostrare i soprusi e le ingiustizie per contribuire al loro superamento

l’autore si propone di rappresentare la realtà, ma è pessimista sulla possibilità di modificarla

POETICA E USO DELLA LINGUA

OPERE

Porta si rifà a una tradizione di poesia in dialetto milanese già consolidata ed è vicino ai romantici, di cui condivide l’idea di una poesia che possa rappresentare il vero la lingua portiana tende al plurilinguismo: ogni classe sociale ha nella sua il proprio linguaggio, attraverso il quale esprime una visione del mondo

• Desgrazzi de Giovannin Bongee (poemetti) • La Ninetta del Verzee e El lament del Marchionn di gamb avert (monologhi) • La preghiera e La nomina del Cappellan (poemetti)

a Roma la poesia dialettale non ha una tradizione la lingua belliana tende al monolinguismo: il poeta riprende da Porta l’idea di una poesia in dialetto che dia voce al popolo, l’unica classe sociale che a Roma (in cui di fatto manca una borghesia) parli in dialetto; più che una lingua, si tratta di una parlata corrotta e sgrammaticata, a cui il poeta conferisce una forma scritta

Sonetti (più di 2000)

I poeti dialettali 2 787


Ottocento La poesia dialettale

Sintesi con audiolettura

1 La poesia in dialetto, lingua del “vero”

Nell’Ottocento il dialetto appare in linea con gli ideali di spontaneità e immediatezza della poesia romantica e viene anche incontro a esigenze di egualitarismo sociale, radicate fin dall’Illuminismo, e all’interesse romantico per il “popolo”, introducendo il punto di vista “dal basso” delle classi subalterne ed emarginate che in genere parlano il solo dialetto e quindi dando voce a una «folla di uomini rimasti sempre senza volto» (Dante Isella). Ma la produzione dialettale ha una ridotta circolazione presso il pubblico, che, essendo “del luogo”, è ristretto e non.

2 I poeti dialettali

Porta, un testimone della storia milanese Nato a Milano nel 1775, Porta, sin dalla giovinezza, coltiva interessi artistici e diviene attore teatrale dilettante. Proprio questa esperienza influirà sui suoi testi più riusciti, che – come sostiene il critico Dante Isella – appaiono come dei «grandi monologhi teatrali». Al tempo di Porta, Milano vive un momento storico caratterizzato da incessanti sovvertimenti politici, dalle repubbliche filo-francesi alla restaurazione austriaca. Lo scrittore rappresenta il succedersi altalenante delle speranze e delle delusioni del popolo milanese: ne denuncia le ingiustizie subite e, raccontando con realismo le dinamiche sociali, contribuisce con la poesia al rinnovamento della società, sulla scia delle istanze proprie dell’Illuminismo lombardo. Porta dà vita a una poesia innovativa, sia per lo schietto realismo con cui presenta le vicende di Milano, sia perché, per la prima volta – anticipando Manzoni – assume una prospettiva “dal basso” e dà voce a protagonisti umili e perdenti, che occupano il gradino più basso della società e, proprio per questo, sono più umani e più veri. Belli e la voce del popolo di Roma Giuseppe Gioacchino Belli (1791-1863) è stato l’altro grande poeta dialettale dell’Ottocento e ammiratore delle opere di Porta, che rappresentano per lui «una rivelazione folgorante». Belli, rivendicando per sé il ruolo di storico oggettivo e guidato da un interesse antropologico dà vita a una vasta produzione di sonetti in romanesco nei quali, con straordinaria vivacità, rappresenta il mondo popolare romano nella città ancora dominata dal potere temporale del papa, dipingendo un grandioso affresco della Roma papalina in cui rivivono i tipi umani caratteristici della città.. Forse per timore della censura, Belli decide di non dare alle stampe durante la sua vita i suoi sonetti, che verranno pubblicati postumi (la prima edizione completa è del 1952). Tuttavia essi erano ben conosciuti a Roma perché il poeta, attore dilettante, era solito declamarli durante riunioni di amici e intellettuali, che ne diffusero la fama in Europa.

788 Ottocento 20 La poesia dialettale


Zona Competenze Scrittura

1. Alla luce delle conoscenze acquisite sui due autori e dell’analisi dei loro testi, rifletti sul potenziale eversivo della satira e, in particolare, sulla carica demistificante del dialetto o di un linguaggio, comunque, non ufficiale e formale. Puoi fare riferimento ad altri esempi letterari che conosci e/o a esempi contemporanei. Sviluppa le tue riflessioni in un testo di 3-4 colonne di foglio protocollo.

Esposizione orale

4. Argomenta in un’esposizione orale di max 3 minuti i legami esistenti tra le opere di Porta e la tradizione illuministica lombarda settecentesca.

Verso l’esame di Stato Tipologia A Analisi e interpretazione di un testo letterario italiano

Giuseppe Gioachino Belli

Er giorno der giudizzio Sonetti, 37 G.G. Belli, Sonetti, a cura di P. Gibellini, Mondadori, Milano 1990

Cuattro angioloni co le tromme in bocca se metteranno uno pe ccantone a ssonà: poi co ttanto de voscione cominceranno a ddí: «Ffora a cchi ttocca1». Allora vierà ssú una filastrocca de schertri da la terra a ppecorone, pe rripijjà ffigura de perzone, 4

come purcini attorno de la bbiocca2. E sta bbiocca sarà Ddio bbenedetto, che ne farà du’ parte, bbianca, e nnera: 8

una pe annà3 in cantina, una sur tetto. All’urtimo usscirà ’na sonajjera d’angioli4, e, ccome si ss’annassi5 a lletto, 11

14

smorzeranno6 li lumi, e bbona sera.

La metrica Sonetto con schema delle rime ABBA ABBA 1 Cuattro... ttocca: quattro enormi angeli con le trombe in bocca si metteranno a sonare ai quattro angoli della terra, e poi, con un vocione, cominceranno a dire: “Fuori a chi tocca”. 2 vierà... bbiocca: verrà su una fila (filastrocca) di scheletri (scherti) usciti dalla terra, appoggiati sulle mani e sulle ginocchia, carponi, come fossero pecore, per riprendere l’aspetto di persone, come pulcini intorno alla chioccia (bbiocca). 3 pe annà: per andare. 4 ’na sonajjera... d’angioli: un’infilata di angeli musicanti. 5 si ss’annassi: se si andasse. 6 smorzeranno: spegneranno.

25 novembre 1831 Comprensione e analisi

Puoi rispondere punto per punto oppure costruire un unico discorso che comprenda le risposte a tutte le domande proposte. 1. Fai la sintesi del sonetto. 2. Quale realtà rappresenta il poeta nella poesia? 3. Quale punto di vista è adottato dal poeta nella descrizione? 4. Tutto nel sonetto è reso corposo e concreto: rintraccia nel testo gli elementi che confermano tale interpretazione.

Interpretazione

Quale ti sembra lo stato d’animo predominante nel sonetto? Ti sembra di cogliere timore, rassegnazione o altro? Rintraccia nel testo gli elementi testuali che suggeriscono lo stato d’animo del poeta.

Sintesi Ottocento

789


Verso l’esame di Stato Tipologia B Analisi e produzione di un testo argomentativo

Dante Isella

Porta autore europeo Testo tratto da D. Isella, La moralità del comico, in I Lombardi in rivolta, Einaudi, Torino, 1984.

Nel passo, tratto dal libro I Lombardi in rivolta, Dante Isella sostiene la necessità di non sottovalutare l’importanza, come spesso è avvenuto nelle storie letterarie, di un autore che merita di essere considerato tra i maggiori del suo tempo, non solo in ambito italiano, ma europeo.

Non è forse vero? Il capitolo dedicato a Carlo Porta dalle nostre storie letterarie, da quelle medesime che mostrano una più approfondita e partecipe coscienza della sua opera, aveva quasi sempre fino a ieri un po’ il taglio e il tono del capitolo «stravagante»1, rispetto al disegno storico generale. Come se si trattasse di 5 far luogo a un frutto d’eccezione, cresciuto, per generosa estrosità della natura, fuori di ogni «ambiente» determinato. Poco più di una sfumatura, o anche solo di un sospetto, s’intende. Ma dovrebbe essere ormai chiaro, invece, che Carlo Porta va considerato fianco a fianco con gli scrittori di maggiore statura che tra la fine del Settecento e i primi vent’anni dell’Ottocento, attuarono in Lombardia 10 il più profondo moto di rinnovamento della cultura, dell’arte e, prima ancora, della vita morale italiana: una storia illustre, di respiro, nonché nazionale, europeo, iscrivibile entro due esperienze che sono alla base della fondazione della società moderna: da un lato «Il Caffè», dall’altro «Il Conciliatore», in un arco di sviluppo che va dall’Illuminismo aristocratico di un ristretto gruppo di amici 15 al Romanticismo democratico di una più vasta e varia cerchia di uomini. Si dovrebbe insomma vederlo in compagnia del Parini e del Manzoni: di quest’ultimo in particolare, e non solo per la splendida felicità della sua poesia, dove ogni sapienza di letteratissimo mestiere si risolve in tale limpidezza di segno, in così nitido e intenso tratto, da indurre, parlando di un “dialettale», nella 20 illusione di una poesia aurorale, sgorgata naturalmente dalle fresche scaturigini dell’anima del popolo; ma proprio per la straordinaria attitudine a tradurre in quel nitore e in quella energia la partecipata storia del suo tempo. […] L’assurda qualifica di «minore» (che un tempo, sia pure con disagio, si riservava anche al Porta, come a ogni altro poeta «dialettale»), a non volerla ormai consi25 derare più di una semplice, vecchia etichetta di comodo, ha se non altro il merito di tradurre in termini elementari, di immediata evidenza, un particolare destino di disavventure critiche. Delle quali si potranno di volta in volta, o tutt’insieme, chiamare responsabili lo stesso poeta, che non provvide ad amministrare più oculatamente la sua fama fondandola su un’edizione autorevole dei propri versi 30 […]. Ma forse si dovrà invocare, con più fondamento, il riserbo, fatto insieme di diffidenza intellettualistica e di diseducazione retorica, della cosiddetta cultura ufficiale di fronte a una poesia così prepotentemente nuova, vera espressione delle 1 stravagante: periferico, estraneo. 2 palingenesi: completo rin-

790 Ottocento 20 La poesia dialettale

novamento.

3 bernesca: si riferisce alla poesia di Francesco Berni

(1497-1535) che rovescia comicamente il petrarchismo.


speranze e della fierezza morale di un’età cui era parso possibile di attuare una palingenesi2 della società umana attraverso una coraggiosa rimozione delle so35 vrastrutture del passato: tra le quali è pure da includere la tradizione letteraria di tanti secoli, aulica e compassata, incapace di un rapporto diretto con la realtà che non fosse quello della deformazione bernesca3: quanto di più remoto, dunque, da una poesia che trova il suo più alto valore di immagine in una partecipazione cordiale e aperta alla vita quotidiana di tutti, in una simpatia (in senso etimo40 logico) che nasce dalla consapevolezza di una comune condizione umana. […] [...] Come pure sarà evidente che l’impiego del dialetto non sta affatto a significare una posizione di angusto regionalismo o di chiusura provinciale, ma semmai una forza di rottura con gli schemi abusati dell’accademismo barocco. Posizione, questa, che verrà non solo continuata, ma approfondita e aggiornata 45 ai problemi della nuova cultura illuministica dalle generazioni successive. Non è forse sorprendente che il periodo più illustre della vita civile della Lombardia sia stato anche il periodo di più rigogliosa fioritura della poesia dialettale? Tra l’Accademia dei Trasformati e quella dei Pugni, tra l’opera del Parini e quella del «Caffè», si assiste infatti allo sviluppo di una floridissima tradizione letteraria in 50 dialetto che opera fianco a fianco con la tradizione in lingua, impegnata intorno ai medesimi problemi e, in molti casi, impersonata dai medesimi individui […]. Senza di questa produzione dialettale, a livello della più progredita letteratura in lingua, non sarebbe neppure pensabile la nascita della grande poesia portiana, che è il prodotto d’incontro di una coscienza morale educata ai valori più 55 profondi della Rivoluzione francese con una tradizione espressiva già aperta, con avvertita sensibilità, agli sviluppi della cultura. La mutata concezione dei rapporti tra lo scrittore e la sua società (misurabile nella storia compresa tra “Il Caffè» e “Il Conciliatore») troverà la generazione del Porta e del Manzoni impegnata ancora una volta nella secolare questione della lingua, non come problema 60 teorico, ma come esigenza di una soluzione stilistica in servizio di un radicale rinnovamento della funzione della poesia. Problema che per gli scrittori milanesi correrà agevolmente a configurarsi nella forma di un dilemma tra il ricorso alla lingua oppure al dialetto, così poco quest’ultimo era riguardato come strumento espressivo di limiti provinciali, e tanto forte era, invece, la diffidenza(già per altre 65 prospettive, degli stessi illuministi) in cui gli spiriti democratici del Romanticismo tenevano la prima: lingua di una tradizione altissima, elaborata in cristallizzate forme ideali, ma perciò stesso remota da qualsiasi diretta relazione con la realtà.

Comprensione e analisi

Puoi rispondere punto per punto oppure costruire un unico discorso che comprenda le risposte a tutte le domande proposte. 1. Qual è l’opinione di Dante Isella sulla poesia dialettale? 2. In qual ambito culturale il critico colloca Porta? 3. Quali motivi, secondo il critico, inducono Porta a scrivere in dialetto?

Produzione

Partendo dal passo critico di Dante Isella e facendo riferimento alle tue letture, esprimi una tua personale riflessione sul valore letterario della poesia dialettale.

Verso l’Esame di Stato 2 791


Ottocento Quattrocento e Cinquecento CAPITOLO

21 Alessandro Manzoni

LEZIONE IN POWERPOINT

L’uomo Manzoni visto da sé medesimo In un sonetto datato 1801, un Alessandro Manzoni poco più che quindicenne delinea un ritratto fisico e morale di sé stesso. Sono sicuramente versi immaturi, che risentono della sua giovanissima età e dell’inevitabile tributo ai modelli letterari dell’epoca (soprattutto Alfieri); eppure è possibile trarne qualche spunto prezioso per decifrare un animo che fin dagli anni della fanciullezza si manifesta complesso e tormentato. Capel bruno: alta fronte: occhio loquace: naso non grande e non soverchio umile1: tonda la gota e di color vivace: 4 stretto labbro e vermiglio: e bocca esile: lingua or spedita or tarda2, e non mai vile, che il ver favella3 apertamente, o tace. Giovin d’anni e di senno; non audace: 8 duro di modi, ma di cor gentile. La gloria amo e le selve e il biondo iddio4: spregio5, non odio mai: m’attristo spesso: 11 buono al buon, buono al tristo6, a me sol rio7. A l’ira presto8, e più presto al perdono: poco noto ad altrui, poco a me stesso: 14 gli uomini e gli anni mi diran chi sono. A. Manzoni, Autoritratto VI, in Poesie e tragedie, a c. di F. Ghisalberti, vol. I, Mondadori, Milano 1947

1 soverchio umile: troppo piccolo. 2 tarda: lenta. 3 favella: dice.

792

4 il biondo iddio: Febo Apollo. 5 spregio: disprezzo. 6 tristo: malvagio. 7 a me sol rio: cattivo solo nei

miei confronti.

8 presto: pronto.


Alessandro Manzoni eredita dall’Illuminismo milanese del «Caffè» l’idea che la letteratura debba contribuire al progresso civile della società. Ma all’utilità dello scrivere il cristiano Manzoni attribuisce un significato ancora più alto: testimoniare la fede, illuminare la presenza di Dio nelle coscienze e nella storia. Per questo, in particolare nel romanzo, bisogna impiegare una lingua nuova, non più retorica e letteraria, per raggiungere ed educare un pubblico più ampio possibile. La visione religiosa che anima tutta l’opera di Manzoni si coniuga con una concezione dolorosamente pessimistica della vita umana e della storia. La società è dominata dall’ingiustizia, dalla sopraffazione dei più deboli, dalla violenza e dalla cieca irrazionalità dei più. Contro questi disvalori Manzoni non ha soluzioni facili da proporre, se non il severo appello alla coscienza e alla responsabilità individuale. Un monito ancora attuale.

1 Ritratto d’autore poeta cristiano alla 2 Ilricerca di un proprio

linguaggio: gli Inni sacri e le odi civili

produzione tragica: 3 ilLaCarmagnola e l’Adelchi 4 I promessi sposi ricezione dei 5 LaPromessi sposi

793 793


1

Ritratto d’autore 1 Una vita schiva e riservata

VIDEOLEZIONE

Un ritratto di Alessandro Manzoni da giovane (Milano, Museo Manzoniano).

Un’infanzia povera di affetti: i tristi anni del collegio Alessandro Manzoni nasce a Milano nel 1785 dal conte Pietro Manzoni e da Giulia Beccaria, figlia di Cesare, il celebre autore del trattato Dei delitti e delle pene: un matrimonio di pura convenienza, combinato – come era frequente a quei tempi, tra un gentiluomo già anziano e una giovane bella e brillante – e destinato ad avere breve vita (a Milano si mormorava che il piccolo Alessandro, nato tre anni dopo il matrimonio, fosse in realtà figlio di Giovanni Verri, con cui la giovane donna aveva una relazione). Nel 1791 la madre decide di separarsi dal marito. Alessandro non ne saprà quasi più nulla fino all’età di circa vent’anni. A soli sei anni viene mandato in collegio presso i padri Somaschi a Merate, vicino a Milano: un’esperienza infelice, che lascia segni profondi sul futuro scrittore. Di certo Manzoni medita sui tristi ricordi di questo periodo mentre compone le pagine del romanzo dedicate all’educazione di Gertrude, come dimostra anche una nota da lui apposta in margine al manoscritto del Fermo e Lucia (la prima versione dei Promessi sposi), proprio nel punto in cui si narra dell’educazione della futura monaca: «Merate! Merate! in quante maniere tu guasti l’intelletto dei poveri tuoi ospiti per forza». Con l’arrivo dei francesi in Italia, nel 1796, il collegio dei padri Somaschi viene trasferito prima a Lugano e poi, nel 1798, a Milano, presso il Collegio Longone, detto “dei Nobili”. In questi anni, il giovane Manzoni allaccia alcune amicizie che lo accompagneranno per tutta la vita, divenendo punti di riferimento fondamentali nella sua futura attività letteraria: tra gli altri, Federico

CARTA INTERATTIVA DEI LUOGHI

Cronologia interattiva

1789

Scoppia la Rivoluzione francese.

1785

Nasce a Milano il 7 marzo.

1798

Entra nel Collegio Longone di Milano.

1804

Napoleone imperatore.

1805

Si reca dalla madre a Parigi, dove scrive il Carme in morte di Carlo Imbonati.

794 Ottocento 21 Alessandro Manzoni

1808

Sposa Enrichetta Blondel, di fede calvinista.

1810

È l’anno della conversione.

1812

Inizia a scrivere La Risurrezione, il primo degli Inni sacri.

1815

Si apre il congresso di Vienna; Murat diffonde il proclama di Rimini.

1814

Scrive la canzone Aprile 1814. Scrive la poesia Il proclama di Rimini, che sarà diffusa nell’aprile del 1848, assieme a Marzo 1821. Pubblica i primi quattro Inni sacri.

1816

Comincia la stesura del Carmagnola.

1819

Scrive le Osservazioni sulla morale cattolica.

1820

Legge l’edizione in francese di Ivanhoe di Scott; termina la Lettera a M. Chauvet; inizia l’Adelchi.

5 maggio 1821

Muore Napoleone a Sant’Elena.

1821

Inizia a lavorare al Fermo e Lucia (lo interrompe per terminare l’Adelchi); il 16 luglio, appena letta la notizia della morte di Napoleone, compone Il cinque maggio.


Confalonieri, Giovan Battista Pagani e soprattutto Ermes Visconti, che diventerà uno dei protagonisti della cultura romantica milanese. Un giovane ribelle Quasi in reazione ai rigori dell’educazione che gli viene impartita, l’adolescente Manzoni assume atteggiamenti giacobini: si appassiona a Voltaire, legge furiosamente classici, filosofi e pensatori, in cerca di un sostegno a quell’ateismo che considera allora come l’unico strumento di lettura della realtà e della storia; compone poi un poemetto in terzine dall’eloquente titolo Il trionfo della libertà (1801) in cui, tra l’altro, attacca in modi veementi l’oscurantismo religioso. È insomma, per molti versi, un giovane ribelle, figlio dei suoi tempi. Fin da questi anni, tuttavia, si delinea in lui una particolare propensione alla ricerca interiore e morale, un’inquietudine che forse è descritta nel modo migliore dagli ultimi due versi di quel suo primo autoritratto: «poco noto ad altrui, poco a me stesso / gli uomini e gli anni mi diran chi sono». Quasi una profezia. Il difficile rapporto con il padre Con il padre, con il quale si ricongiunge nel 1801 una volta terminati gli studi, Manzoni non ha facili rapporti: li possiamo definire di rispetto distante, mai animati da affetto autentico. Tra Pietro e Alessandro c’è un divario incolmabile, scavato sia da una differenza di indole sia da uno scarto generazionale che i sussulti della storia hanno approfondito: «Don Pietro Manzoni, triste e solitario, contemplava insieme la fine del suo matrimonio e la fine d’un’epoca: nella sua città regnava il disordine e la confusione; vi si affollavano quei soldati che gli erano odiosi [le truppe francesi, giunte a Milano nel 1796 sotto il comando di Napoleone]; era un uomo all’antica, e vedeva intorno a sé travolta da una bufera la stabilità civile e religiosa in cui aveva vissuto». Così Natalia Ginzburg tratteggia questa figura di nobile lombardo di fine Settecento, che vede svanire un mondo di cui suo figlio per primo non vorrà più fare parte. Soli e distanti, Pietro e Alessandro vivono senza quasi sfiorarsi, anche se non vivono il conflitto che caratterizza il difficile rapporto tra un altro figlio celebre e suo padre, Giacomo Leopardi e il conte Monaldo. È forse indicativo il fatto che nei Promessi sposi le figure paterne scarseggino (sono senza padre i protagonisti, Renzo e Lucia) o che, quando compaiono con un ruolo rilevante, si tratti di figure negative, come il padre di Gertrude.

1831

1827

Escono i tre tomi della prima versione dei Promessi sposi.

1822

Pubblica l’Adelchi; prima edizione della Pentecoste.

1833

Mazzini fonda la Giovane Italia.

Il giorno di Natale muore la moglie Enrichetta. Nel 1835 il Manzoni inizia a lavorare a un inno alla sua memoria, che resta incompiuto: è Il Natale del 1833.

1837

Sposa in seconde nozze Teresa Borri, vedova Stampa.

1838-39

Mette mano alla revisione dei Promessi sposi, “la quarantana”.

1848

Moti insurrezionali in Europa.

1842

1850

Scrive la Lettera a Giacinto Carena sulla lingua italiana.

Esce completa l’ultima versione dei Promessi sposi; pubblica anche il saggio Del romanzo storico.

1861

Muore la seconda moglie, Teresa.

1870

Roma è proclamata capitale.

1873

In gennaio cade nella chiesa di San Fedele e ne riporta un trauma che lo lascia in stato confusionale. Muore in maggio, nella sua casa di Milano.

Ritratto d’autore 1 795


Andrea Appiani, Ritratto di Giulia Beccaria col figlio Alessandro a sei anni, olio su tela, 1790 (Villa di Brusuglio). Lessico idéologues

PER APPROFONDIRE

Gli “ideologi”, un gruppo di intellettuali composto dagli ultimi eredi dell’Illuminismo settecentesco.

Fondamentale per Manzoni è invece il rapporto con la madre, Giulia Beccaria. Come si è visto, durante tutta l’infanzia Alessandro non ha alcun contatto con lei: dopo la separazione da Pietro Manzoni la donna vive a Parigi insieme a Carlo Imbonati. Per suggerimento di Vincenzo Monti, ospite dei due durante un soggiorno nella capitale francese, la coppia decide di chiamare presso di sé il figlio di Giulia, ormai quasi ventenne. Imbonati muore nel marzo del 1805 e nel giugno dello stesso anno Alessandro si mette in viaggio per Parigi, con la benedizione (e il denaro) del padre, per il quale quella partenza è forse un sollievo. A Parigi. L’incontro con la madre e l’ambiente degli idéologues Questo soggiorno parigino (che dal 1805 si protrae fino al 1810) è molto importante per Manzoni, innanzitutto perché conosce la madre. Natalia Ginzburg afferma che Alessandro «s’innamora» di Giulia e non è un’esagerazione; dal momento del loro primo incontro, madre e figlio saranno uniti da un sentimento fortissimo ed esclusivo. Giulia è una donna volitiva, intelligente e colta e a Parigi frequenta gli ambienti culturali più all’avanguardia: tutto questo non può che esercitare un fascino fortissimo su Alessandro, cresciuto tra l’apatica indifferenza del padre e gli antiquati precetti dei detestati padri Somaschi. Da allora madre e figlio divengono inseparabili, fino alla morte di Giulia (1841). A Parigi, Manzoni trova grandi stimoli intellettuali: in particolare frequenta il gruppo degli idéologues , eredi dell’Illuminismo, tra i quali il critico Claude Fauriel, che diventerà amico fraterno e con cui il futuro scrittore condividerà importanti riflessioni sulla letteratura. Sarà anche grazie alla loro influenza che Manzoni svilupperà una visione politica liberale, dando un’impronta democratica al suo stesso Cristianesimo, lontano dall’ideologia reazionaria della Restaurazione. Il matrimonio Contro ogni previsione, Alessandro si dimostra impaziente di mettere su una famiglia propria. La compagna perfetta per il figlio è individuata dall’occhio esperto di Giulia in Enrichetta Blondel, una sedicenne ginevrina di famiglia protestante, che Manzoni sposa nel febbraio del 1808. Nella sua breve vita (morirà a soli 41 anni il giorno di Natale del 1833 ➜ D3 OL), Enrichetta si dimostra in tutto corrispondente al modello di donna che lo scrittore auspica di avere accanto: dedita interamente alla numerosa famiglia, religiosissima, riservata e serenamente rassegnata al suo destino.

La ricerca di figure paterne sostitutive Vincenzo Monti Non è un caso che, durante gli anni della giovinezza, Manzoni sembri sempre alla ricerca di una figura di riferimento, qualcuno a cui guardare come un modello e una guida affettuosa: il primo è Vincenzo Monti, che Alessandro conosce durante gli anni al Collegio Longone e che diventa l’attento lettore delle sue prime prove poetiche. Carlo Imbonati e Claude Fauriel In seguito ci sarà Carlo Imbonati, il compagno della madre, che Alessandro non fa in tempo a conoscere. Nonostante ciò, il giovane ha per lui parole di tale ammirazione che possono essere spiegate solo pensando al desiderio di dispensare a un sostituto paterno

796 Ottocento 21 Alessandro Manzoni

quei sentimenti e quella devozione che il padre biologico (o presunto tale) non ha voluto, o potuto, accogliere. E poi, soprattutto, c’è lo storico e letterato Claude Fauriel: l’amico, il confidente, il maestro, che per il giovane scrittore diventa subito un punto di riferimento sia umano sia letterario. Dopo averlo conosciuto a Parigi nel circolo degli idéologues che si raduna alla Maisonette (il prestigioso salotto della vedova del filosofo Condorcet), Manzoni inizia con Fauriel una corrispondenza epistolare che è stata definita, per la sua centrale importanza, il vero e proprio «cuore pulsante» dell’intero epistolario manzoniano.


La “conversione”, tra leggenda e realtà Circa due anni dopo il matrimonio si colloca il momento chiave della biografia manzoniana: la “conversione”. Secondo l’aneddotica, questa sarebbe avvenuta quasi per un’improvvisa folgorazione il 2 aprile 1810, in una chiesa parigina. Durante i festeggiamenti per il matrimonio tra Napoleone Bonaparte e Maria Luisa d’Austria, Manzoni e la moglie si trovano in mezzo alla folla. Persa di vista Enrichetta, Manzoni, in preda all’angoscia, si rifugia nella chiesa di San Rocco. Lì lo avrebbe visitato la grazia divina, aprendogli la strada della fede: questa, almeno, è la versione “vulgata” che non tarda a diffondersi in vari ambienti, religiosi e non, ma sulla quale lo scrittore rimane sempre evasivo. Di fatto, importante potrebbe essere stata l’influenza della giovane sposa, che per prima, sotto la guida dell’abate Degola, si avvia al Cattolicesimo e che, poche settimane dopo l’episodio di san Rocco, abiura al Calvinismo. Sicuramente la cosiddetta “conversione” fu il frutto di un processo lungo e meditato, attivato da letture e riflessioni; rimane comunque innegabile che, intorno a quella data fatidica, si verifichi un avvicinamento di Manzoni alla chiesa di Roma, accompagnato in ogni passo, oltre che dalla sposa, anche dalla solerte presenza della madre, la quale va via via allontanandosi dalla vita mondana per abbracciare a sua volta la religione cattolica. Non è un caso che la famiglia Manzoni decida, nello stesso 1810, di lasciare Parigi e di ritornare in Italia, dove verrà affidata alla tutela spirituale (a volte anche troppo pressante) del canonico Tosi. Di fatto, la fede da quel momento diventa l’elemento fondante dell’opera letteraria manzoniana e ispira le principali scelte poetiche dello scrittore, come già dimostra l’abbandono di una letteratura di tipo classicista (come il poemetto Urania, pubblicato nel 1809) e il progetto degli Inni sacri, iniziati due anni dopo (1812). Dopo la conversione: una vita appartata e segnata dal dolore Dopo il ritorno in Italia, Manzoni vive una vita dedita allo studio e alla produzione letteraria, dividendosi tra la villa di campagna di Brusuglio ereditata da Carlo Imbonati – dove segue le coltivazioni personalmente, con passione e competenza, rivelandosi capace amministratore di una tenuta agricola – e la bella dimora nel centro di Milano. Anche in città lo scrittore ama vivere in modo schivo e appartato, respingendo E. Bisi, La famiglia Manzoni nel 1823, acquerello (Milano, Fondo Manzoniano, Biblioteca Braidense). Dall’alto a sinistra: Giulia Beccaria, Alessandro Manzoni e la moglie Enrichetta Blondel, in seconda fila i figli più grandi Giulia, Pietro e Cristina, nella terza fila in basso i figli più piccoli Sofia, Enrico, Vittoria e Filippo.

Medaglioni con i ritratti di Alessandro Manzoni e della moglie Enrichetta Blondel (Milano, Biblioteca Braidense, Fondo Manzoniano).

Ritratto d’autore 1 797


programmaticamente qualsiasi elemento possa turbare quella tranquillità che gli è necessaria per dedicarsi alle sue opere (e forse anche per arginare le inquietudini e le angosce che sempre lo accompagnarono). Non sarebbe eccessivo definire tragica la vita familiare di Manzoni: oltre a Enrichetta (1833), la madre Giulia (1841), egli vede morire sette dei suoi nove figli, da alcuni dei quali, i maschi in modo particolare, riceve non pochi motivi di preoccupazione. Ma è come se lo scrittore si fosse ritagliato una dimensione propria, dalla quale osservare le sventure che continueranno ad abbattersi inesorabili sui suoi cari, senza tuttavia lasciarsene travolgere. Di fronte alle tragedie familiari, Alessandro si rifugia nel suo studio rivestito di libri, dove medita sul senso della sofferenza nella storia e nella vita dell’uomo. Dal periodo della creatività ai lunghi anni del silenzio poetico Manzoni compone tutte le sue opere maggiori nell’arco di una decina di anni: dopo la stesura dei primi Inni sacri (1812-1815) è tra il 1817 (anno in cui inizia a scrivere la Pentecoste) e il 1827 (quando pubblica la prima edizione dei Promessi sposi) che si condensa la sua attività creativa e si collocano anche i più rilevanti interventi teorici (le Osservazioni sulla morale cattolica del 1819, la Lettre à M. Chauvet del 1820 e la lettera Sul Romanticismo a Cesare d’Azeglio del 1823). In seguito, l’autore si dedica alla attenta revisione linguistica del romanzo, sfociata nell’edizione del 1840. Si può però dire che il tempo dell’ispirazione creativa per lui si è ormai chiuso. Si dedicherà a scritti di natura storica, estetica e linguistica: l’ultimo suo scritto pubblicato è l’Appendice intorno all’unità della lingua e ai mezzi per diffonderla (1869), steso in rapporto al suo ruolo come presidente della Commissione per l’unificazione della lingua, problema chiave nel neonato stato unitario.

Vedute della villa Manzoni a Brusuglio: la casa, il viale dei platani, la biblioteca e la camera da letto, la “montagnola” con il panorama della Brianza, le due robinie con la croce incisa dal Manzoni alla morte della moglie. Da «L’Illustrazione Italiana», Milano, Treves.

798 Ottocento 21 Alessandro Manzoni

Monumento ad Alessandro Manzoni in piazza San Fedele a Milano.


La sua lunga, solitaria vecchiaia (morirà a 88 anni) viene funestata da nuovi lutti (nel 1861 muore anche la seconda moglie Teresa Borri Stampa) ma anche segnata dalla sua consacrazione a personaggio pubblico, nonostante la sua proverbiale riservatezza.

online

Gallery Iconografia manzoniana

La consacrazione di Manzoni a gloria nazionale In seguito alla risonanza nazionale del suo romanzo, Manzoni diventa un’icona della cultura italiana (già nel 1861 viene nominato senatore del Regno), venerata e quasi idolatrata. Del resto lo scrittore milanese, pur rimanendo lontano da una partecipazione diretta, era sempre stato un convinto sostenitore delle lotte risorgimentali per l’indipendenza e l’unità d’Italia, come dimostra anche solo l’ode Marzo 1821. All’autore dei Promessi sposi si guarda come a un modello, non solo dal punto di vista letterario: nella sua casa milanese, così come nella tenuta di Brusuglio, egli riceve spesso le visite di letterati che vedono in lui un punto di riferimento; e non mancano illustri uomini politici, come Garibaldi e Cavour. Quando muore, nel 1873, i suoi funerali avvengono in forma solenne. A un anno di distanza dalla morte, Giuseppe Verdi ne onora la memoria con la Messa da Requiem, che il grande musicista dirige personalmente nella chiesa di San Marco in Milano.

Sguardo sull’arte La “scena di conversazione” L’artista si cimenta nel genere della conversation piece, la “scena di conversazione” (non molto frequente nella pittura romantica italiana) che raffigura un gruppo di persone in atteggiamenti di vita familiare. La tela ritrae la committente, Teresa Borri (già vedova del conte Stampa e futura seconda moglie di Manzoni), con la ma-

dre, il fratello e il figlioletto Stefano, che con il patrigno Alessandro avrà un rapporto di stima e affetto. Steffanino è intento a disegnare (infatti rivelerà una precoce predisposizione artistica), mentre gli altri tre personaggi sono “in posa”, in un’attitudine di consapevole decoro borghese.

IMMAGINE INTERATTIVA

Francesco Hayez, Ritratto di gruppo della famiglia Borri, olio su tela, 1822-1823 (Milano, Pinacoteca di Brera).

Ritratto d’autore 1 799


2 La visione politica, storica e religiosa Manzoni e l’attualità politica Manzoni frequenta il gruppo del Conciliatore, ne condivide le posizioni, ma non aderisce formalmente ad esso. Allo stesso modo, pur appoggiando con convinzione i moti risorgimentali per la liberazione dallo straniero e per l’Unità d’Italia, si tiene sempre lontano da un’attiva partecipazione. Gli mancava, e la cosa non stupisce data la sua indole problematica, la capacità di tradurre le idee in azioni e di assumere una presa di posizione decisa. Nessuno può definire questa manchevolezza, se tale va considerata, meglio di lui stesso quando, nel 1848, declina l’offerta che gli era stata rivolta a diventare deputato, giustificandosi con queste parole: «Un utopista e un irresoluto sono due soggetti inutili, per lo meno in una riunione in cui si parli per concludere: io sarei l’uno e l’altro nel medesimo tempo» (➜ D1 OL). Politicamente Manzoni è un liberale moderato, che appartiene all’area cattolica; è nettamente contrario alle soluzioni rivoluzionarie che avevano portato agli esiti drammatici della Rivoluzione francese, come dimostra il saggio comparativo (steso negli anni Sessanta ma rimasto incompiuto) La Rivoluzione francese del 1789 e la Rivoluzione italiana del 1859; sogna una società tranquilla, operosa e pacificata, guidata dalla Chiesa, dove lo scontro tra classi è impensabile perché ciascuno, come in una famiglia amorevole, accetta il ruolo che gli è stato assegnato. Pur attribuendo alle gerarchie ecclesiastiche un ruolo primario nella società, Manzoni è però nettamente contrario a una Chiesa compromessa con la politica e rifiuta il potere temporale del papato, schierandosi apertamente per Roma capitale dello stato unitario: una presa di posizione non scontata – in tempi in cui il papa vietava ai cattolici ogni partecipazione al nascente stato unitario – e che costa a Manzoni non poche critiche. Una visione religiosa complessa e problematica Al di là dell’episodio che ne ha costruito la leggenda, l’avvicinamento di Manzoni alla fede cattolica è stato probabilmente graduale e meditato, sviluppato attraverso la lettura dei pensatori giansenisti francesi del Seicento (Pascal, Nicole e Bossuet) e, prima di loro, di sant’Agostino. Si tratta di autori che di certo non si muovono nell’ambito di un’accettazione superficiale di verità assodate, ma che cercano, attraverso un incessante interrogarsi, di gettar luce sulle zone più riposte dell’Io. Sensibili al messaggio giansenista sono anche l’abate Degola e monsignor Tosi, consiglieri spirituali dello scrittore e di Enrichetta Blondel. Anche per questo retroterra filosofico-teologico, quella di Manzoni è una religiosità online tutt’altro che pacificata, che va a inserirsi nel quadro della complessa D1 Alessandro Manzoni e tormentata interiorità dello scrittore. Una religiosità che trova la «Un utopista e un irresoluto»: propria dimensione autentica più nella riflessione sul senso del douna spietata autoanalisi Lettera a Giorgio Briano lore e della vita umana che nelle pratiche devote. L’adesione alla fede non modifica la visione della storia maturata ben presto dall’autore, online una visione profondamente pessimista, se non addirittura tragica: la D2 Alessandro Manzoni fede non può spiegare né risolvere la presenza del male nel mondo Una religiosità problematica e tormentata (che colpisce anche gli innocenti) ma soltanto dare speranza e fiduLettera a Diodata Saluzzo di Roero cia nel bene ultraterreno. Importante è dire, ancora, che l’adesione alla fede non comporta in online Manzoni l’abbandono di un abito mentale razionalista: di certo egli D3 Alessandro Manzoni Un Dio implacabile non indulge a atteggiamenti irrazionalistici e misticheggianti. InolIl Natale del 1833 tre non abbandona gli ideali di libertà e uguaglianza che derivano

800 Ottocento 21 Alessandro Manzoni


dall’Illuminismo, aderendo a atteggiamenti reazionari, ma al contrario questi ideali si rafforzano una volta ricondotti al Vangelo, in cui già sono presenti.

3 Il rapporto con il Romanticismo e la poetica del vero La posizione di Manzoni di fronte al Romanticismo Verso gli anni Venti, la cultura milanese è in fermento: è scoppiata la polemica classico-romantica e si pubblica il «Conciliatore» (1818-1819). Sono anni di schieramenti aperti e roventi polemiche: Manzoni aderisce al Romanticismo e appoggia le posizioni del «Conciliatore». ma rifiuta, come già detto, di collaborare in prima persona alla rivista. Con il Romanticismo, Manzoni condivide il rifiuto del Classicismo (e delle sue regole) e della mitologia, l’interesse per la storia e per i temi civili e patriottici, la ricerca di una lingua che infrangesse la dimensione elitaria della nostra tradizione letteraria. È invece lontanissimo dal gusto per il fantastico, il macabro, proprio di certo Romanticismo d’oltralpe e dalla tendenza a sollecitare le passioni del lettore. La funzione educativa della letteratura e il rifiuto del Classicismo Manzoni non cesserà mai di interrogarsi sul senso della letteratura e sul ruolo che il letterato deve rivestire nel mondo e nella società: una riflessione sofferta, che non arriverà mai a risposte definitive, ma che è sempre guidata dalla convinzione che l’arte abbia valore solo se è in grado di contribuire al progresso dell’umanità. Nel suo pensiero il concetto di “bello” è sempre indissolubilmente legato al concetto di “utile”, certo ereditato dalla cultura illuminista, ma a cui Manzoni, dopo aver fatto propria la visione cristiana della vita, conferisce un significato più profondo. Per lui una letteratura “utile” è una letteratura capace di educare i lettori a una visione del mondo ispirata ai valori morali, alla solidarietà, al senso della giustizia. Proprio la visione cristiana, più ancora che l’adesione al Romanticismo, induce Manzoni a rifiutare drasticamente, dopo la conversione, il repertorio mitologico (agli occhi del poeta cristiano la mitologia diventa vera e propria “idolatria”) e i vincoli della poetica classicistica. E questo non solo in ambito teorico (Lettera sul Romanticismo ➜ D4c ), ma nel vivo delle scelte tematiche e stilistiche che caratterizzano le sue opere, a partire dagli Inni sacri.

Frontespizio della Lettera sul Romanticismo nell’edizione del 1881 delle Opere varie.

Frontespizio di Del romanzo storico nell’edizione del 1881 delle Opere varie.

Ritratto d’autore 1 801


In particolare, nei Promessi sposi, Manzoni sceglie di dare dignità tragica alle vicissitudini di due popolani che, nella tradizione classica, avrebbero potuto trovare posto al massimo in una commedia, in rapporto al registro comico. La “poetica del vero” La riflessione teorica di Manzoni si sviluppa a partire dalla sua attività di drammaturgo. Proprio in questo ambito si colloca il documento più significativo della sua partecipazione al dibattito romantico e, più in generale, della sua stessa poetica: la Lettera al signor Chauvet sull’unità di tempo e di luogo nella tragedia (Lettre à Monsieur Chauvet sur l’unité de temps et de lieu dans la tragédie), scritta nel 1820. Il tema centrale di questo lungo scritto è uno dei motivi ricorrenti nella polemica tra classicisti e romantici, vale a dire la questione del rispetto, nel testo teatrale, delle cosiddette unità aristoteliche. Manzoni è disposto ad accettare l’unità d’azione, mentre trova del tutto inaccettabili le unità di tempo e di luogo, perché comprometterebbero il rispetto della veridicità storica. Tuttavia la Lettera allo Chauvet, al di là del testo teatrale, introduce importanti concetti, in particolare la necessità per la letteratura di riferirsi al “vero storico”. Questo è il principio chiave della poetica manzoniana, a cui lo scrittore milanese si atterrà sempre scrupolosamente. Il rapporto tra storia e poesia Rispetto allo storico, allo scrittore spetta un compito in più: nella Lettera, Manzoni affronta infatti anche il problema del rapporto fra storia e poesia (➜ D4b ). Se lo storico si ferma ai fatti puri e semplici, senza pretendere di scalfire la superficie delle cose, il poeta può e deve andare oltre, e dar voce al mondo complesso dei sentimenti e dei pensieri dell’uomo (quello che nei Promessi sposi verrà definito il guazzabuglio del cuore umano); tutto questo, naturalmente, rispettando i confini rigorosi del verosimile. Manzoni costruirà il suo romanzo proprio a partire dalla complessa dialettica tra vero storico e vero poetico, che troverà nella sua opera più famosa uno straordinario equilibrio. Ma, a livello teorico, Manzoni continuerà a interrogarsi sul problema (➜ D5 OL). Nel 1828, solo un anno dopo l’uscita della prima edizione dei Promessi sposi e prima di accingersi al lungo lavoro di revisione, lo scrittore compone il primo abbozzo del futuro saggio Del romanzo storico (sarà pubblicato, nel 1850, nelle Opere varie), dove mette in dubbio la legittimità di mescolare la realtà storica con l’invenzione narrativa. L’invenzione, infatti, introdurrebbe inevitabilmente un elemento di falsità, che andrebbe a ledere quella fiducia totale che il lettore deve accordare a un’opera per poterne trarre un beneficio morale. Nel pensiero di Manzoni, dunque, quello tra storia e poesia rimane un nodo irrisolto, che alla fine lo porterà ad allontanarsi dall’attività poetica e creativa: infatti dal 1827, anno di pubblicazione dei Promessi sposi, fino alla morte nel 1873 (fatta eccezione per l’opera di revisione del romanzo e per i due inni incompiuti Ognissanti e Il Natale del 1833) Manzoni si dedicherà esclusivamente a opere di carattere storico e filosofico.

La “poetica del vero” VERO STORICO

una rigorosa documentazione storica è alla base della composizione delle tragedie e del romanzo

VERO POETICO

il poeta va oltre l’aderenza alla realtà storica e può/deve rappresentare i pensieri e i sentimenti dell’uomo

802 Ottocento 21 Alessandro Manzoni


Testi In dialogo

La poetica del vero: una letteratura al servizio dell’etica Nel primo dei passi proposti (➜ D4a ) Manzoni esprime, tramite le dichiarazioni dello stimato Carlo Imbonati, i principi della propria visione morale. Nel secondo (➜ D4b ) l’autore spiega che lo storico accede alla verità dei fatti «nel loro esterno», mentre «è dominio della poesia» interrogarsi sui sentimenti più profondi che generano i fatti. Nel terzo (➜ D4c ) Manzoni indica i princìpi della poetica romantica.

Alessandro Manzoni

D4a

«Sentir e meditar» Carme in morte di Carlo Imbonati, vv. 202-215

A. Manzoni, Tutte le poesie 1797-1872, a cura di G. Lonardi, commento e note di P. Azzolini, Marsilio, Venezia 1992

Carlo Imbonati, compagno di Giulia Beccaria, madre di Manzoni, muore il 15 marzo 1805. Il poeta, che nutre per l’uomo una vera e propria venerazione pur non avendolo mai conosciuto, immagina che l’ombra dell’Imbonati gli appaia in sogno e gli rivolga paterni consigli (un topos della poesia classicheggiante). In questi celebri versi l’autore fa esprimere all’interlocutore quelli che in realtà sono il proprio credo morale e la propria poetica.

Gioia il suo dir mi porse1, e non ignota bile destommi 2, e replicai. «Deh! vogli la via segnarmi, onde toccar la cima3 205 io possa, o far che, s’io cadrò su l’erta, dicasi almen: su l’orma propria ei giace4». «Sentir – riprese – e meditar5: di poco esser contento6: da la meta mai non torcer7 gli occhi, conservar la mano 210 pura e la mente: de le umane cose tanto sperimentar, quanto ti basti per non curarle8: non ti far mai servo: non far tregua coi vili: il santo Vero mai non tradir: né proferir mai verbo9, 215 che plauda il vizio, o la virtù derida».

La metrica Endecasillabi sciolti 1 Gioia... porse: le sue parole (il suo dir) suscitarono in me una grande felicità. Si riferisce, naturalmente, a Carlo Imbonati che gli è apparso in sogno. 2 non ignota... destommi: mi suscitò un’indignazione (bile) non nuova (nel senso di tradizionale nel genere e anche già provata). 3 la cima: indica metaforicamen-

te la perfezione, sia artistica sia morale, visto che nel pensiero di Manzoni le due categorie vengono a coincidere. 4 s’io... giace: se non ce la faccio e cadrò durante la salita, si possa almeno dire che ho ceduto sui miei stessi passi, cioè che non mi sono limitato a calcare le orme altrui, senza trovare la mia strada originale. 5 Sentir... meditar: accostarsi alla realtà tanto attraverso il senti-

mento quanto con gli strumenti della ragione. 6 esser contento: accontentarsi. 7 torcer: distogliere. 8 de le umane... non curarle: delle cose del mondo ti basti conoscere quel tanto che ti consenta di non dar loro un’eccessiva importanza. 9 né proferir mai verbo: e non pronunciare parola alcuna, e non dire mai nulla.

Ritratto d’autore 1 803


Alessandro Manzoni

D4b

Il vero dello storico e il vero del poeta Lettre à Monsieur Chauvet

A. Manzoni, Scritti di teoria letteraria, a cura di A. Sozzi Casanova, Rizzoli, Milano 1990

La Lettera al signor Chauvet, scritta nel 1820 dopo la pubblicazione del Conte di Carmagnola, è uno dei principali scritti di poetica di Manzoni, dove lo scrittore enuncia alcune delle idee fondamentali del suo pensiero. Tra queste, la distinzione tra la visione dello storico, obbligata a fermarsi all’apparenza oggettiva delle cose, e quella del poeta, che è chiamata a interrogarsi sulle motivazioni profonde di quell’apparenza; e, se non potrà arrivare a conoscerle con sicurezza, costui dovrà almeno intuirle, «individuarle, capirle ed esprimerle».

Ma, si potrà dire, se al poeta si toglie ciò che lo distingue dallo storico, e cioè il diritto di inventare i fatti, che cosa gli resta? Che cosa gli resta? La poesia; sì, la poesia. Perché, alla fin fine, che cosa ci dà la storia? Ci dà avvenimenti che, per così dire, sono conosciuti soltanto nel loro esterno; ci dà ciò che gli uomini hanno 5 fatto. Ma quel che essi hanno pensato, i sentimenti che hanno accompagnato le loro decisioni e i loro progetti, i loro successi e i loro scacchi1; i discorsi coi quali hanno fatto prevalere, o hanno tentato di far prevalere, le loro passioni e le loro volontà su altre passioni o su altre volontà, coi quali hanno espresso la loro collera, han dato sfogo alla loro tristezza, coi quali, in una parola, hanno rivelato la loro 10 personalità: tutto questo, o quasi, la loro storia lo passa sotto silenzio, e tutto questo è invece dominio della poesia. Sarebbe assurdo temere che, in tale ambito, manchi mai alla poesia occasione di creare nel senso più serio, e forse nel solo serio, della parola. Ogni segreto dell’animo umano si svela, tutto ciò che determina i grandi avvenimenti, che caratterizza i grandi destini si palesa alle immaginazioni dotate di 2 15 sufficiente carica di simpatia . Tutto quello che la volontà umana ha di forte o di misterioso, che la sventura ha di sacro e di profondo, il poeta può intuirlo; o, per meglio dire, può individuarlo, capirlo ed esprimerlo. 1 scacchi: sconfitte esistenziali. 2 simpatia: qui nel senso di empatia, cioè capacità di capire, di mettersi in relazione con l’altro.

Frontespizio della Lettre à Monsieur Chauvet nell’edizione del 1881 delle Opere varie.

804 Ottocento 21 Alessandro Manzoni


Alessandro Manzoni

D4c

«L’utile per iscopo, il vero per soggetto e l’interessante per mezzo» Lettera sul Romanticismo

A. Manzoni, Tutte le opere di Alessandro Manzoni, a cura di A. ChiariF. Ghisalberti, Mondadori, Milano 1957-1990

La Lettera sul Romanticismo, diretta a Cesare d’Azeglio, viene scritta nel 1823. Stampata nel 1846 senza il consenso dell’autore (il testo era stato concepito da Manzoni per una lettura privata e non per la pubblicazione), è poi pesantemente rivista da Manzoni nel 1870 e viene inserita nella seconda edizione delle Opere varie. Qui si riporta un brano dalla prima redazione per il suo valore storico, che la lega in modo più diretto con il dibattito tra classicisti e romantici. Manzoni organizza la lettera in due parti: nella prima viene esposta la parte “negativa”, ossia le critiche che i romantici rivolgono alla letteratura classicista, riguardanti soprattutto il ricorso alla mitologia; nella seconda, da cui è tratto questo brano, egli espone invece la parte “positiva” (il «positivo romantico»), vale a dire i princìpi che i romantici propongono in alternativa a quelli classici. Lo scrittore definisce con chiarezza lapidaria ciò che per lui costituisce il valore e il senso dell’opera artistica. L’arte ha «l’utile per iscopo», vale a dire che il suo fine deve essere quello di educare l’uomo in senso civile e morale; deve poi avere «il vero per soggetto» e scegliere, quindi, come propria materia gli elementi che vanno a costituire la realtà in cui l’uomo si muove, a livello sia storico sia psicologico, rifuggendo dall’invenzione pura e dal fantastico fine a sé stesso. Il mezzo specifico per raggiungere i propri scopi è poi «l’interessante», ovvero ciò che può accendere «la disposizione di curiosità e di affezione» dei lettori, che nell’ottica romantica del Manzoni si identificano con l’ampio pubblico borghese, non certo l’élite colta e ristrettissima che ancora poteva appassionarsi agli astratti temi classicisti.

Mi limiterò ad esporle quello che a me sembra il principio generale a cui si possano ridurre tutti i sentimenti particolari sul positivo romantico1. Il principio, di necessità tanto più indeterminato quanto più esteso mi sembra poter esser questo: che la poesia e la letteratura in genere debba proporsi l’utile per iscopo, il vero per soggetto e l’inte5 ressante per mezzo. Debba per conseguenza scegliere gli argomenti pei quali la massa dei lettori ha o avrà, a misura che diverrà più colta, una disposizione di curiosità e di affezione, nata da rapporti reali2, a preferenza degli argomenti, pei quali una classe sola di lettori ha una affezione nata da abitudini scolastiche, e la moltitudine una riverenza non sentita né ragionata, ma ricevuta ciecamente3. E che in ogni argomento debba 10 cercare di scoprire e di esprimere il vero storico e il vero morale4, non solo come fine, ma come più ampia e perpetua sorgente del bello5: giacché e nell’uno e nell’altro ordine di cose, il falso può bensì dilettare, ma questo diletto, questo interesse è distrutto dalla cognizione del vero6; è quindi temporario7 e accidentale. Il diletto mentale non 1 positivo romantico: le proposte concrete avanzate dal Romanticismo. Fino ad ora, come si è accennato, Manzoni si è concentrato sulle critiche mosse dai romantici ai classicisti. 2 una disposizione… rapporti reali: Manzoni auspica un interesse per le opere che nasca e sappia rimanere legato alla vita e al pensiero reali dei lettori, e non sia invece una consuetudine imposta a pochi privilegiati da un

certo percorso accademico. 3 ricevuta ciecamente: senza spirito critico, senza un coinvolgimento vero e totale. Secondo Manzoni, questo è spesso l’atteggiamento nel quale rimane relegata la moltitudine nel suo rapporto con le grandi opere letterarie. 4 il vero… morale: la verità dei fatti avvenuti e la verità dell’animo umano, la cui rappresentazione secondo Manzoni compete

al poeta ( ➜ D4b dalla Lettre à Monsieur Chauvet). 5 non solo... del bello: non solo la rappresentazione del vero è il fine dell’arte, ma diventa anche l’elemento da cui scaturisce il più autentico piacere estetico. 6 questo diletto... del vero: l’interesse che può essere suscitato dall’invenzione che falsifica la realtà si dissolve non appena si impone la conoscenza del vero. 7 temporario: temporaneo.

Ritratto d’autore 1 805


è prodotto che dall’assentimento8 ad una idea; l’interesse, dalla speranza di trovare in 15 quella idea, contemplandola, altri punti di assentimento e di riposo: ora quando un nuovo e vivo lume ci fa scoprire in quella idea il falso e quindi l’impossibilità che la mente vi riposi e vi si compiaccia, vi faccia scoperte, il diletto e l’interesse spariscono. Ma il vero storico e il vero morale generano pure un diletto, e questo diletto è tanto più vivo e tanto più stabile, quanto più la mente che lo gusta è avanzata nella cognizione 20 del vero: questo diletto adunque debbe la poesia e la letteratura proporsi di far nascere. 8 assentimento: adesione.

Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

COMPRENSIONE 1. Indica brevemente quali sono, nella visione di Manzoni, le prerogative della storia e quali invece quelle della poesia (➜ D4b ). 2. «Creare nel senso più serio, o forse nel solo serio, della parola»: secondo te, a che cosa si riferisce Manzoni con questa espressione? (➜ D4b ) ANALISI 3. Quale visione morale emerge dal Carme in morte di Carlo Imbonati? (➜ D4a ) 4. Nella Lettera (➜ D4c ), Manzoni introduce l’idea di un nuovo rapporto che la letteratura deve intrattenere con la società in senso esteso, non più con un’élite ristretta. È un atteggiamento tipico del Romanticismo e che prepara in qualche modo quella che sarà la disposizione “pedagogica” della letteratura negli anni del Risorgimento. Rintraccia i passi del brano nei quali emerge questa idea.

Interpretare

SCRITTURA 5. Nel Carme in morte di Carlo Imbonati (➜ D4a ), Manzoni utilizza i due termini sentir e meditar. Cerca di spiegare in un breve testo in quale rapporto egli pone il sentir e il meditar nella sua poetica e nella sua opera di scrittore. 6. «L’utile per iscopo, il vero per soggetto e l’interessante per mezzo»: spiega in un breve testo questa che può essere considerata la sintesi della poetica manzoniana, seguendo la traccia delle domande (➜ D4c ). a. Per chi l’arte può cercare di essere utile? b. Che cosa si intende per soggetto vero? c. Quali sono i mezzi che potrebbero rendere interessante l’arte? TESTI A CONFRONTO 7. Commenta i tre brani proposti, concentrandoti sul tema della poetica del vero in Manzoni, espressione del valore etico che egli attribuisce alla letteratura. 8. In che modo il monito di Carlo Imbonati (➜ D4a ) potrebbe assumere un ruolo significativo nella tua vita di adolescente e guidarti verso scelte responsabili? LETTERATURA E NOI 9. Credi che una letteratura che abbia «l’utile per iscopo» (in senso manzoniano) sia praticabile oggi?

online D5 Alessandro Manzoni Contro lo «spirito romanzesco» Lettera a Claude Fauriel del 29 maggio 1822

806 Ottocento 21 Alessandro Manzoni


2

Il poeta cristiano alla ricerca di un proprio linguaggio: gli Inni sacri e le odi civili 1 Il progetto di una nuova epica cristiana: gli Inni sacri Un progetto letterario alternativo al Classicismo Il 1810, anno della conversione, rappresenta un punto di svolta non soltanto nel percorso esistenziale di Manzoni, ma anche nella sua carriera di letterato. Lo scrittore comincia infatti in quell’anno a cercare un’alternativa ai modelli classici della tradizione poetica italiana, a cui egli stesso ha aderito nel poemetto neoclassico Urania (1809): dopo la conversione, tali modelli vengono percepiti come inadeguati al ruolo di poeta cristiano che da quel momento assume con ferma decisione. Nasce così il progetto degli Inni sacri: dodici componimenti dedicati alle principali festività della liturgia cattolica. Tra il 1812 e il 1815 ne vengono composti quattro, pubblicati poi a Milano nel 1815: La Risurrezione (1812), Il Nome di Maria (1812-13), Il Natale (1813), La Passione (1814-15). Tra il 1817 e il 1822 viene poi composta La Pentecoste (➜ T1 ), destinata a rimanere l’ultimo inno completo del progetto, il quale non sarà mai portato a termine: un sesto inno, Ognissanti, rimarrà infatti incompiuto. Ma cosa si propone Manzoni nell’avvicinarsi a un genere così particolare come la poesia di ispirazione religiosa? Dal punto di vista letterario, l’autore intende prendere le distanze dagli stilemi neoclassici a cui hanno aderito Parini, Monti e lo stesso Foscolo: una tradizione illustre che Manzoni rifiuta nettamente, andando invece a cercare nel Vangelo e nella tradizione degli inni cristiani antichi e medievali le immagini e le forme per la sua nuova poesia. Proprio da questa scelta deriva il vigore espressivo di questi componimenti, la predilezione dei versi brevi (che, insieme alle rime semplici e immediate, favoriscono un andamento discorsivo e una tonalità in qualche modo “popolare”, quasi da litania), la ricchezza di metafore e immagini dal valore fortemente icastico. Sotto il profilo stilistico i risultati sono però discontinui e sfiorano talvolta effetti di pesante artificiosità: come osserva Ferroni, il linguaggio manzoniano appare quasi «partorito da un ostinato sforzo di volontà».

Giuseppe Diotti, Adorazione dei pastori, olio su tela, 1809 (Milano, Pinacoteca di Brera).

Il poeta cristiano alla ricerca di un proprio linguaggio: gli Inni sacri e le odi civili 2 807


L’obiettivo di una moderna poesia cristiana Non è, però, soltanto un intento di rinnovamento formale a spingere Manzoni: dopo la conversione, infatti, egli sente fortissima l’esigenza di dare voce con la sua poesia a valori collettivi, in cui tutta la cristianità possa riconoscersi. Prima protagonista degli Inni è la Chiesa, vista e rappresentata come soggetto storico e fatta più volte oggetto di personificazioni cariche di significato (l’esempio più significativo si trova nella Pentecoste); è una Chiesa attiva, militante, viva e vera, prima protagonista della storia umana. Negli Inni si avverte chiaramente che per Manzoni il messaggio cristiano ha un valore totalizzante, in grado di inglobare anche la razionalità e i valori democratici su cui si fondava la tradizione illuminista, inserendoli in un orizzonte più ampio e sublime. Il rifiuto del soggettivismo per una poesia aperta ai valori collettivi Visti in quest’ottica, gli Inni sacri costituiscono anche un rifiuto di quel soggettivismo introspettivo di stampo petrarchesco che informa tanta poesia di primo Ottocento. Come afferma lo stesso Manzoni, essi rappresentano una sorta di poesia «sliricata», concreta e oggettiva, che non si ferma all’orizzonte esistenziale di un singolo individuo ma vuole al contrario confrontarsi con un contesto storico più ampio e complesso, accogliendone le istanze e l’esigenza di impegno morale e civile. Con il progetto degli Inni Manzoni addirittura anticipa il clima ideologico e culturale dell’imminente Romanticismo lombardo e si trova sulla stessa linea che sarà propria del «Conciliatore»; fautore di una letteratura che, riprendendo gli ideali dell’Illuminismo, accorda la supremazia alle «cose» sulle «parole» e nella quale lo scrittore è chiamato ad assumere un ruolo non più puramente estetico ma anche etico, nel senso più profondo del termine. Un Cristianesimo calato nella realtà e nella storia Come I promessi sposi, anche gli Inni sacri incarnano la futura formula ideata da De Sanctis per descrivere la religiosità problematica dello scrittore: «l’ideale calato nel reale». Il Cristianesimo propugnato da Manzoni, infatti, non si chiude in un isolamento aristocratico né si nasconde dietro a dogmi e vuoti precetti, ma vuole calarsi nella storia, accettandone le contraddizioni e “sporcandosi le mani” con la sua materia viva e dolorosa. Non è un caso, allora, che la poesia religiosa degli Inni prenda le mosse dal riferimento alle feste della liturgia cattolica: ricorrenze vere, che possono richiamare immagini concrete alla mente del lettore, partecipe di quella stessa tradizione.

Inni sacri COMPONIMENTI DEDICATI ALLE PRINCIPALI FESTIVITÀ CATTOLICHE

12 previsti dal progetto originario

ne compone 5 (La Resurrezione, Il nome di Maria, Il Natale, La Passione e, più tardi, La Pentecoste); rimane incompiuto Ognissanti

MODELLI

Vangeli e inni cristiani antichi e medioevali

FINALITÀ

Manzoni vuole dare voce ai valori collettivi della cristianità, espressione di una Chiesa attiva

808 Ottocento 21 Alessandro Manzoni


Alessandro Manzoni

T1

EDUCAZIONE CIVICA

La Pentecoste

nucleo Costituzione competenza 1

Inni sacri A. Manzoni, Tutte le poesie 1797-1872, a cura di G. Lonardi, commento e note di P. Azzolini, Marsilio, Venezia 1992

Cominciato nel 1817, ripreso nel 1819 e portato a termine verso la fine del 1822, quando Manzoni ha ormai scritto le tragedie e messo mano alla prima stesura dei Promessi sposi, il quinto degli Inni sacri è espressione di una fase creativa più consapevole e matura rispetto agli altri componimenti. L’argomento è la festa della Pentecoste, quando, cinquanta giorni dopo la Resurrezione di Cristo (nel calendario liturgico la festa cade la settima domenica dopo la Pasqua), lo Spirito Santo discese sugli apostoli nascosti nel cenacolo insieme alla Vergine Maria, dando loro la forza e il coraggio per avviare la predicazione che sarebbe diventata l’atto di nascita della chiesa cristiana.

Madre de’ Santi1, immagine della città superna2, del Sangue incorruttibile3 conservatrice eterna; 5 tu che, da tanti secoli, soffri, combatti e preghi, che le tue tende spieghi dall’uno all’altro mar4;

E allor che dalle tenebre la diva spoglia uscita, mise il potente anelito 20 della seconda vita11; e quando, in man recandosi il prezzo del perdono12, da questa polve al trono del Genitor salì13;

campo di quei che sperano5; 10 Chiesa del Dio vivente, dov’eri mai? qual angolo ti raccogliea nascente6, quando il tuo Re7, dai perfidi tratto a morir sul colle8, 15 imporporò9 le zolle del suo sublime altar10?

25 compagna del suo gemito, conscia de’ suoi misteri, tu, della sua vittoria figlia immortal, dov’eri14? in tuo terror sol vigile15, 30 sol nell’obblio secura16, stavi in riposte mura17, fino a quel sacro dì18,

La metrica Strofe di otto settenari, di cui primo, terzo e quinto sono sdruccioli; piani il secondo, il quarto, il sesto e il settimo; tronco l’ultimo verso di ogni strofa, in rima con l’ultimo della strofa successiva.

1 Madre de’ Santi: Manzoni esordisce rivolgendosi direttamente alla Chiesa, identificata come madre dei santi in quanto generatrice di salvezza eterna. 2 città superna: la Gerusalemme celeste. 3 Sangue incorruttibile: il sangue di Cristo, che la Resurrezione ha sottratto alla corruzione materiale e di cui la Chiesa è custode (conservatrice). 4 che le tue tende… all’altro mar: che pianti le tue tende in ogni regione del mondo. 5 campo di quei che sperano: un altro appellativo riferito alla Chiesa, vista come il campo dove possono agire e impegnarsi coloro che hanno fede in una vita ultraterrena (quei che sperano). 6 qual angolo… nascente: quale luogo nascosto ti diede rifugio, proprio nel mo-

mento in cui stavi nascendo (nascente è predicativo dell’oggetto, riferito alla Chiesa). Il riferimento è al primissimo nucleo della comunità ecclesiastica, costituito dagli apostoli che, pieni di timore, dopo la crocifissione di Gesù rimasero nascosti per timore di rappresaglie. 7 il tuo Re: Cristo. 8 sul colle: il colle del Calvario, o Golgota, dove Gesù venne crocifisso. 9 imporporò: tinse con il rosso del proprio sangue. 10 sublime altar: ancora un riferimento al Golgota, sublime in quanto elevato, ma anche in senso morale, per l’alta sacralità racchiusa nel luogo del supplizio di Cristo. 11 allor che… seconda vita: quando il corpo divino di Cristo (la diva spoglia), dopo essere uscito dalle tenebre del sepolcro, emise il potente soffio della vita eterna scaturita dalla Resurrezione («il potente anelito / della seconda vita»). Il poeta riprende il discorso facendo sempre dipendere le frasi dalla domanda, qui sottintesa: “dov’eri tu, Chiesa?”

12 in man recandosi… perdono: portando in mano il prezzo del perdono per i peccati degli uomini. 13 da questa polve… salì: dalla polvere terrena salì fino al trono del Padre celeste. 14 compagna… dov’eri?: tutto il periodo è retto dal dov’eri conclusivo. Dov’eri tu, che sei stata partecipe del dolore di Cristo (compagna del suo gemito) e che eri consapevole del mistero della sua natura divina, tu che sei figlia della sua vittoria sulla morte e destinata a vivere per sempre (figlia immortal)? 15 in tuo terror sol vigile: attenta solo alla tua paura. 16 sol nell’obblio secura: sicura solo perché nascosta e dimenticata da tutti. 17 in riposte mura: in stanze chiuse e segrete (del cenacolo, dove per dieci giorni gli apostoli si raccolsero in isolamento). 18 quel sacro dì: è il giorno della Pentecoste, quando lo Spirito Santo discese sugli Apostoli infondendo loro il coraggio per dare inizio all’opera pastorale della Chiesa, come viene specificato nella strofa successiva.

Il poeta cristiano alla ricerca di un proprio linguaggio: gli Inni sacri e le odi civili 2 809


quando su te lo Spirito rinnovator discese 35 e l’inconsunta fiaccola19 nella tua destra accese; quando, segnal de’ popoli, ti collocò sul monte20, e ne’ tuoi labbri il fonte 40 della parola aprì21.

spose, che desta il subito balzar del pondo ascoso30; voi già vicine a sciogliere 60 il grembo doloroso31; alla bugiarda pronuba non sollevate il canto32; cresce serbato al Santo quel che nel sen vi sta33.

Come la luce rapida piove di cosa in cosa, e i color vari suscita dovunque si riposa; 45 tal risonò moltiplice la voce dello Spiro22: l’Arabo, il Parto, il Siro in suo sermon l’udì.

Perché, baciando i pargoli34, la schiava ancor sospira? e il sen che nutre i liberi invidiando mira35? non sa che al regno36 i miseri 70 seco37 il Signor solleva? Che a tutti i figli d’Eva Nel suo dolor pensò?

Adorator degl’idoli23, 50 sparso per ogni lido24, volgi lo sguardo a Solima25, odi quel santo grido26: stanca del vile ossequio27, la terra28 a Lui ritorni: 55 e voi29 che aprite i giorni di più felice età,

Nova franchigia38 annunziano i cieli, e genti nove39; 75 nove conquiste, e gloria vinta in più belle prove; nova, ai terrori immobile e alle lusinghe infide, pace, che il mondo irride, 80 ma che rapir non può40.

19 l’inconsunta fiaccola: la fiamma che non si consuma mai. 20 quando… sul monte: quando ti pose in cima a un monte perché tu, Chiesa, potessi diventare un faro guida per i popoli. Manzoni riprende qui l’immagine evangelica dei cristiani, sale della terra e luce del mondo: «Voi siete la luce del mondo; non può restare nascosta una città collocata sopra un monte, né si accende una lanterna per metterla sotto il moggio, ma sopra il lucerniere perché faccia luce a tutti quelli che sono nella casa» (Matteo 5, 14-15). 21 ne’ tuoi labbri… aprì: fece sgorgare dalle tue labbra la fonte della parola. Manzoni allude all’inizio della predicazione apostolica, ma il riferimento è anche al miracolo della Pentecoste, quando lo Spirito Santo fece parlare gli apostoli in modo tale che tutti, indipendentemente dalla nazionalità, compresero le loro parole (Atti 2, 1-13). È una duplicità di significato che si ripete anche nella strofa successiva

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(«l’Arabo, il Parto, il Siro / in suo sermon l’udì»). 22 Come la luce… dello Spiro: nello stesso modo in cui la luce si posa (si riposa) veloce su ogni cosa, facendone risaltare il colore, così anche lo Spirito fa risuonare la propria voce in molteplici forme. 23 Adorator degl’idoli: Manzoni si rivolge ai popoli pagani, rappresentati da un unico, simbolico Adorator. 24 sparso per ogni lido: disperso in ogni regione del mondo. 25 Solima: Gerusalemme. 26 quel santo grido: la predicazione degli apostoli. 27 vile ossequio: l’adorazione degli dèi pagani. 28 la terra: l’umanità. 29 e voi: si rivolge alle spose della strofa successiva. 30 spose… pondo ascoso: voi spose, che venite svegliate di soprassalto dall’improvviso sobbalzarvi in grembo del vostro fardello nascosto, il bambino che

portate dentro al vostro ventre (pondo ascoso). 31 vicine a… doloroso: prossime a partorire, a liberare con dolore il grembo. 32 alla bugiarda… il canto: non levate il vostro canto alla falsa divinità che protegge le unioni matrimoniali, cioè Giunone. 33 cresce… vi sta: quello che vi sta crescendo in seno è destinato alla santità di Dio. 34 i pargoli: i propri figli. 35 il sen… mira: guarda con invidia il seno che nutre fanciulli liberi. 36 regno: è il regno dei cieli. 37 seco: con sé. 38 Nova franchigia: una nuova libertà. 39 genti nove: uomini rinnovati (dallo spirito). È un’allusione a quell’«uomo nuovo» di cui parla san Paolo. 40 nova… non può: una nuova pace, che rimane impassibile di fronte alla paura e alle blandizie ingannevoli, una pace che il mondo deride ma non può togliere (a chi la possiede).


O Spirto! supplichevoli41 a’ tuoi solenni altari, soli per selve inospite42, vaghi43 in deserti mari, 85 dall’Ande algenti44 al Libano, d’Erina all’irta Haiti45, sparsi per tutti i liti, uni per Te di cor46, Noi T’imploriam! placabile47 90 spirto, discendi ancora, a’ tuoi cultor propizio48, propizio a chi T’ignora; scendi e ricrea49; rianima i cor nel dubbio estinti50; 95 e sia divina ai vinti mercede il vincitor51. Discendi Amor; negli animi l’ire superbe attuta52: dona i pensier che il memore 100 ultimo dì non muta53; i doni tuoi benefica54 nutra la tua virtude; siccome il sol che schiude dal pigro germe il fior55; che lento56 poi sull’umili erbe morrà non còlto, né sorgerà coi fulgidi 105

41 supplichevoli: comincia l’invocazione allo Spirito Santo; supplichevoli è da legare al Noi (v. 89) con cui si apre la strofa successiva. 42 inospite: inospitali. 43 vaghi: erranti, girovaganti. 44 algenti: ghiacciate. 45 d’Erina all’irta Haiti: dall’Irlanda alla montuosa Haiti. 46 uni per Te di cor: uniti (uni) nell’animo (di cor) grazie alla tua opera (per Te). 47 placabile: mite, che perdona facilmente. 48 a’ tuoi cultor propizio: benigno verso i tuoi fedeli. 49 ricrea: rinnova. 50 nel dubbio estinti: spossati dal dubbio. 51 sia… il vincitor: il vincitore (ossia Cristo) sia la ricompensa divina per coloro che si sono fatti vincere (da Lui). 52 attuta: attenua, smorza. 53 i pensier… non muta: i pensieri che non cambiano nel giorno della morte, quando ciascun uomo ricorda tutti i

color del lembo sciolto57, se fuso a lui nell’etere 110 non tornerà quel mite lume, dator di vite, e infaticato altor58. Noi T’imploriam! Ne’ languidi59 pensier dell’infelice 115 scendi piacevol alito, aura60 consolatrice: scendi bufera ai tumidi61 pensier del violento; vi spira uno sgomento 120 che insegni la pietà62. Per Te sollevi il povero al ciel, ch’è suo, le ciglia63; volga i lamenti in giubilo64, pensando a cui somiglia65; 125 cui fu donato in copia66, doni con volto amico, con quel tacer pudico67, che accetto68 il don ti fa. Spira de’ nostri bamboli 130 nell’ineffabil riso69; spargi la casta porpora70 alle donzelle in viso; manda alle ascose vergini le pure gioie ascose71;

momenti della propria vita (il memore / ultimo dì). 54 benefica: è riferita al virtude (“soffio animatore”) del verso successivo. 55 siccome… il fior: così come il sole fa schiudere il fiore dal germe che da solo, senza il suo calore, non riuscirebbe a crescere e svilupparsi (e per questo è definito pigro). 56 lento: debole. 57 del lembo sciolto: della corolla aperta. 58 se fuso a lui… infaticato altor: se quella dolce luce del sole, che dà la vita e dona instancabile il nutrimento (altor, “nutritore”, è un latinismo), non torna a unirsi a lui nell’aria. 59 languidi: tristi, senza speranza, stanchi. 60 aura: aria, brezza. 61 tumidi: gonfi (d’orgoglio). 62 vi spira… la pietà: ispira (imperativo esortativo, come il precedente scendi) su questo un turbamento che lo renda

pietoso, fraterno (pietà è la pietas latina: il rispetto degli dèi e della giustizia, ma anche il senso di umanità). 63 Per Te… le ciglia: grazie al tuo conforto, il povero sollevi lo sguardo a quel cielo che gli è stato promesso (suo). 64 giubilo: gioia piena. 65 pensando a cui somiglia: pensando a colui al quale lui, povero, somiglia, ossia a Cristo, che nacque e visse in povertà. 66 cui fu donato in copia: colui al quale sono stati fatti doni in abbondanza (vale a dire il ricco). 67 tacer pudico: silenziosa discrezione. 68 accetto: gradito. 69 Spira… riso: soffia (ancora imperativo) nel riso dei nostri bambini, che non si può descrivere a parole (ineffabil). 70 casta porpora: il rossore dettato dalla verecondia. 71 alle… ascose: alle monache, che vivono nascoste, ritirate (nei conventi), il raccoglimento con Dio, fonte di gioia.

Il poeta cristiano alla ricerca di un proprio linguaggio: gli Inni sacri e le odi civili 2 811


consacra delle spose il verecondo amor72. 135

Tempra de’ baldi giovani il confidente ingegno73; reggi il viril proposito

ad infallibil segno74; adorna le canizie di liete voglie sante75; brilla nel guardo errante di chi sperando muor76. 140

72 il verecondo amor: il pudico amore

74 reggi… segno: sostieni i propositi degli

coniugale. 73 Tempra… ingegno: rafforza, mettendolo alla prova, l’intelligenza dei giovani troppo fiduciosi (baldi) nelle proprie capacità.

uomini (viril proposito) affinché possano raggiungere un obiettivo sicuro (infallibil segno). 75 le canizie… sante: abbellisci l’età della vecchiaia con desideri improntati a san-

tità e letizia.

76 nel guardo... muor: nello sguardo errabondo (cioè che poco a poco vien meno) di chi muore nella speranza di una vita ultraterrena.

Analisi del testo La struttura Il testo può essere suddiviso essenzialmente in tre parti, varie e articolate al loro interno. vv. 1-48 Attraverso una serie di domande il poeta si rivolge alla Chiesa (v. 1, Madre de’ Santi) chiedendosi dove si trovava quando non era ancora vittoriosa nel mondo intero, ma era costituita dai soli apostoli che, timorosi delle persecuzioni dopo la morte di Cristo, stavano nascosti, riunendosi in segreto nel cenacolo. A partire dal v. 33 si rappresenta l’evento dal quale la festività della Pentecoste trae origine: la discesa dello Spirito Santo sugli apostoli riuniti nel Cenacolo. Questo episodio diede inizio alla predicazione del Vangelo, conferendo ai discepoli di Cristo la capacità di farsi capire da tutti i popoli. vv. 49-80 Sono descritti gli effetti che l’evento pentecostale ebbe sull’umanità: il messaggio cristiano produce una nuova civiltà, fondata sulla giustizia e sulla pace. Immaginando di parlare nel momento storico in cui inizia la diffusione della parola di Cristo, il poeta esorta i pagani a convertirsi, invita le donne che stanno per generare dei figli a non pregare più la dea pagana Giunone e infine rincuora la schiava che compiange i suoi figli (destinati a essere schiavi a loro volta) perché il Signore promette a ogni uomo, anche al più misero, il riscatto e la salvezza. Grazie alla diffusione del messaggio cristiano nascerà una nuova civiltà, in cui l’umanità può aspirare a una nuova pace, irrisa dal mondo (v. 79) ma che nessuno potrà mai più negare. vv. 81-144 Il componimento si conclude con una lunga invocazione allo Spirito Santo. Il poeta, la cui voce però ora si fonde con quella di tutti i cristiani del mondo, rivolge un’ardente preghiera allo Spirito Santo perché discenda ancora esercitando la sua azione benefica tra gli uomini, che ne hanno bisogno così come il fiore richiede al sole, che lo ha fatto schiudere, di continuare a riscaldarlo. Implora lo Spirito Santo di ridare la fede a chi è nel dubbio, di smorzare le passioni negative, di consolare chi è infelice e chi è povero, di ispirare tutte le età della vita, dai bambini ai vecchi, di infondere speranza nei moribondi.

Una religione che si fa storia Protagonista di questo componimento è la Chiesa, vista non come istituzione o custode di norme e precetti che regolano la vita dei credenti, bensì come forza viva e attiva nella storia. Una Chiesa militante, insomma, nell’ottica della nuova epica cristiana che Manzoni intende proporre negli Inni sacri, come si percepisce anche dalle scelte lessicali, più volte riferite all’area semantica militare (in particolare nelle prime due strofe). Alla Chiesa trionfante cui Manzoni si rivolge nei primi versi (una Chiesa dal carattere ancora vetero-testamentario, severa custode del Sangue incorruttibile di Cristo) viene a sovrapporsi una Chiesa più vera, viva e operante nella storia, in cui l’evento religioso non è più soltanto oggetto di celebrazioni liturgiche, ma fatto concreto che entra nella storia e con essa interagisce, apportando una nuova visione, nuovi princìpi e capace di cambiarla ben più delle ideologie politiche terrene (non può non colpire la ripetizione dell’aggettivo “nuovo” nella decima strofa). Nella Pentecoste si trova già formulato il nocciolo dell’ideologia politico-religiosa manzoniana, che nella Chiesa vede il fondamento di una società giusta, misericordiosa e umana, in cui ogni individuo potrà vivere in pace e armonia, al sicuro dalla logica della sopraffazione

812 Ottocento 21 Alessandro Manzoni


che domina la mentalità mondana: è questo il senso del riferimento che si legge ai vv. 79-80 alla «pace, che il mondo irride / ma che rapir non può». Si può anche intravedere nell’inno l’attenzione per gli umili e i dimenticati, lasciati ai margini della storia che sarà propria dei Promessi sposi: la proposta cristiana costituisce per loro una possibilità di riscatto («non sa che al regno i miseri / seco il Signor solleva?» [vv. 69-70]; «Per Te sollevi il povero / al ciel, ch’è suo, le ciglia, / volga i lamenti in giubilo, / pensando a cui somiglia» [vv. 121-124]), l’unica possibile in un mondo in cui la giustizia sembra appannaggio esclusivo dei potenti.

Una lirica corale La Pentecoste evidenzia con chiarezza la volontà di Manzoni di creare una lirica corale, lontana dalla centralità dell’Io propria di tanta tradizione letteraria. Anche quando la voce è quella del poeta (nelle prime due sezioni) non si tratta di una voce individuale, ma del credente che si fa portavoce dell’intera collettività cristiana. Nell’ultima parte, propriamente l’inno di preghiera, l’io trapassa poi nel “noi”: l’invocazione allo Spirito Santo si immagina pronunciata dalla voce del popolo cristiano.

Lo stile

Luigi Mussini, La Musica sacra olio su tela, 1841 (Firenze, Gallerie dell’Accademia).

Nonostante il livello alto dell’argomento affrontato, Manzoni non si rinchiude in un linguaggio alto e freddamente liturgico: fin dai primi versi si avverte lo sforzo di dare un piglio autentico e vitale al componimento. Immagini canoniche e formule rituali (Madre de’ Santi, città superna, Sangue incorruttibile, Chiesa del Dio vivente) si caricano di vivo sentimento religioso. Lo sforzo di Manzoni è di dar vita a un’epica religiosa, di forte impatto per il lettore. Da qui le scelte stilistiche e metriche, a cominciare da quella di versi brevi (settenari) fortemente ritmati. A potenziare l’effetto di questi versi come una “liturgia in atto” concorrono molteplici accorgimenti: la frequenza di interrogative, la forte presenza di forme conative, in particolare “imperativi” (ad esempio nella strofa 7: «volgi...odi...non sollevate...» e soprattutto nella terza sezione, posti per lo più a inizio di verso: v. 129 Spira, v. 133 manda, v. 135 consacra, v. 137 Tempra, v. 139 reggi, v. 141 adorna, v. 143 brilla. Intensificano il messaggio le anafore (in particolare vv. 13, 21, 33, 37), i parallelismi come nella prima strofa, dove è presente una successione di aggettivi sempre posposti al nome cui si riferiscono e in fine di verso (città superna, Sangue incorruttibile, conservatrice eterna). Una gamma di artifici retorici che conferiscono all’inno una grande compattezza stilistica e ne aumentano l’efficacia espressiva, richiamando ritmi e stilemi tipici di una certa versificazione liturgica ben nota a chi, come il lettore ideale della Pentecoste, aveva familiarità con il linguaggio sacro e i riti cattolici.

Una retorica della concretezza L’impegno di Manzoni a far convivere concetti astratti complessi con la viva concretezza dell’esperienza umana trova uno strumento particolarmente efficace nel ricorso alle similitudini, come si può notare ai vv. 41-48 e ai vv. 103-112. Nel primo caso, il poeta paragona il diffondersi dello Spirito Santo alla luce che si propaga veloce, suscitando le diverse sfumature di colore così come si presentano agli occhi di chi osserva (il motivo della luce è assai caro a sant’Agostino, che spesso vi ricorre nei suoi scritti). La seconda similitudine, invece, accosta l’amore divino al sole, senza il quale il fiore, sbocciato solo grazie al suo calore, è destinato a morire prima che qualcuno lo colga. Questi paragoni, pur mantenendo intatta l’ineffabile immaterialità dell’oggetto che si sta cercando di descrivere, richiamano alla mente l’esperienza quotidiana di ciascuno: è la stessa forza icastica delle immagini cui ricorre Dante per spiegare gli oscuri concetti affrontati nel Paradiso.

Il poeta cristiano alla ricerca di un proprio linguaggio: gli Inni sacri e le odi civili 2 813


Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

COMPRENSIONE 1. Quali sono gli effetti della discesa dello Spirito Santo? Quali importanti cambiamenti sociali essa opera, secondo Manzoni? 2. A chi si rivolge il poeta nei vv. 49-64? Si tratta di figure importanti nel messaggio complessivo del testo? ANALISI 3. Quali immagini della Chiesa nella sua storia secolare sono presenti nella prima parte del testo? LESSICO 4. Individua i termini e le espressioni di matrice militare che Manzoni utilizza per costruire l’immagine di una Chiesa militante. STILE 5. Nel testo sono presenti due efficaci similitudini: indicale e spiegale in rapporto al contesto. 6. Analizza l’inno dal punto di vista stilistico ed evidenzia gli elementi che lo allontanano dallo stile neoclassico e dal gusto letterario romantico, avvicinandolo invece alla poesia religiosa antica. 7. Motiva il frequente utilizzo da parte dell’autore di domande retoriche, apostrofi e iterazioni.

Interpretare EDUCAZIONE CIVICA

nucleo

Costituzione

competenza 1

SCRITTURA 8. Nei vv. 121-128, Manzoni enuclea una sorta di progetto di pacificazione sociale, in cui a poveri e ricchi è assegnato un ruolo ben preciso. Rileggi la strofa e cerca poi di spiegare in un testo di max 5 righe quale tipo di ideologia sociale si rifletta in essa.

2 La poesia civile Gli scritti di carattere patriottico Nonostante l’indole schiva e l’inclinazione moderata che lo tengono lontano dalla politica attiva, Manzoni è sempre un attento osservatore del mondo contemporaneo: se ne trova conferma grazie alla presenza, tra le sue opere, di non pochi testi poetici di carattere patriottico-civile. Si tratta di testi di livello molto vario, alcuni dei quali rimasti incompiuti e inediti, ma tutti accomunati dal carattere occasionale: sono tutti cioè composti a caldo, sull’onda di un evento politico, o comunque legato alla politica, che colpisce l’immaginazione dell’autore e stimola la sua riflessione o le sue speranze patriottiche. Accade così per Aprile 1814, canzone composta sulla scia della sconfitta di Napoleone e della ritirata dell’esercito francese dalla Lombardia; e anche per Il proclama di Rimini, dell’anno successivo, in cui l’autore appoggia l’iniziativa di Gioacchino Murat, che in un proclama pubblico aveva esortato gli italiani a insorgere contro gli austriaci. Ancora legati a modelli stilistici tradizionali di stampo petrarchesco, entrambi i componimenti rimangono incompiuti e inediti. Le due odi civili. L’intreccio fra tema politico e dimensione religiosa Nelle due prove successive di poesia civile, ben più riuscite poeticamente, il tema politico si online trova intrecciato alla dimensione religiosa, con un costante richiamo a T2 Alessandro Manzoni un Dio presente come forza attiva nella storia (Marzo 1821) e nell’intima Marzo 1821 interiorità degli uomini grandi che fanno la storia (Il cinque maggio). L’ode Marzo 1821 (➜ T2 OL) è scritta in seguito all’entusiasmo suscitato dai moti carbonari di quell’anno, quando sembrava che il reggente Carlo Alberto di Savoia potesse appoggiare i patrioti lombardi contro gli austriaci, varcando con le sue truppe il confine tra Regno di Sardegna e Lombardo-Veneto. Un evento che nella parte iniziale dell’ode si presenta come già avvenuto, ma che invece nella realtà non accadrà. La dura repressione austriaca seguita al fallimento dei moti indusse

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Manzoni a distruggere il manoscritto dell’ode, che fu pubblicata solo molti anni dopo, nel 1848. Concetto chiave del testo, ispirato a un fervente patriottismo, è la convinzione che una guerra come quella condotta dai patrioti italiani per l’indipendenza dagli usurpatori è una guerra giusta, voluta e sostenuta da Dio stesso. L’altra celebre ode civile, Il cinque maggio (➜ T3 ), è composta da Manzoni nel luglio del 1821 in pochi giorni, di getto, sulla scia dell’emozione suscitata dalla notizia della morte di Napoleone, avvenuta il 5 maggio di quell’anno sull’isola di Sant’Elena, dove si trovava in esilio da sei anni. La notizia circola in Europa in ritardo: Manzoni ne viene a conoscenza il 17 luglio dalla «Gazzetta di Milano» e ne rimane profondamente turbato. Scriverà in seguito all’amico Cesare Cantù: «...La sua morte mi scosse, come al mondo venisse a mancare qualche elemento essenziale; fui preso da smania di parlarne, e dovetti buttar giù quest’ode, l’unica che, si può dire, improvvisassi in meno di tre giorni...». Composta l’ode, il poeta la sottopone immediatamente al controllo della censura, che non ne autorizza la pubblicazione; ciononostante il componimento inizia a circolare manoscritto e viene poi pubblicato nel 1823 fuori dei confini del Lombardo-Veneto, guadagnandosi un’immediata celebrità. L’ode è conosciuta anche all’estero, soprattutto grazie alla prestigiosa traduzione che ne fa in tedesco Goethe. L’interpretazione manzoniana della figura di Napoleone (che può essere collocata a fianco di tanti testi letterari ispirati dal grande personaggio) risente della notizia secondo cui egli negli ultimi tempi della vita si sarebbe avvicinato alla fede: la sua vicenda terrena assume così il carattere di una parabola morale, mostrandoci l’illustre sconfitto che, dal mare dolorosamente burrascoso dei ricordi, grazie alla fede approda infine ai «floridi sentier della speranza». Tutta l’ode è in realtà pervasa da uno spirito religioso, che ha indotto la critica a considerare Il cinque maggio un “inno sacro” più che un’ode civile, come ancora, per convenzione, viene catalogata: attraverso la figura del grande condottiero il pessimismo cristiano di Manzoni ricorda ai lettori l’effimera sorte della gloria terrena, «silenzio e tenebre» di fronte alla vita eterna. I cori delle tragedie Al filone civile-patriottico possono essere ascritti anche alcuni cori delle due tragedie, in particolare il coro del secondo atto del Conte di Carmagnola (➜ T4 OL) e il coro del terzo atto dell’Adelchi (➜ T6 ). In entrambi i casi, momenti della passata storia d’Italia sono letti e interpretati con lo sguardo rivolto alla realtà presente, con la passione civile e patriottica di chi assiste ai primi, difficili passi che porteranno all’indipendenza e all’unità nazionale.

Poesia civile GENERE

TEMI

lirica civile • intreccio tra tema politico e dimensione umana e religiosa • ideali di patria e nazione • riflessione sulla gloria terrena

TESTI PIÙ RIUSCITI

Marzo 1821, scritta sull’onda dell’entusiasmo per i moti carbonari del 1821 e Il cinque maggio, dedicata alla figura di Napoleone, scomparso il 5 maggio 1821

STRUTTURA METRICA

Odi

Il poeta cristiano alla ricerca di un proprio linguaggio: gli Inni sacri e le odi civili 2 815


Alessandro Manzoni

T3 A. Manzoni, Tutte le opere, vol. I, a cura di A. Chiari e F. Ghisalberti, Mondadori, Milano 1957

AUDIOLETTURA

LEGGERE LE EMOZIONI

Il cinque maggio

Raggiunto dall’inaspettata notizia della morte di Napoleone esule a Sant’Elena, Manzoni scrive di getto la celebre ode dedicata alla figura del grande personaggio. Il poeta si astiene dal formulare su di lui un giudizio storico-politico per focalizzarne in particolare il dramma umano: scomparso dallo scenario della storia di cui era stato protagonista, Napoleone vive la definitiva sconfitta, la solitudine, la disperazione. Ma proprio allora, nella reinterpretazione cristiana della sua vicenda umana sviluppata da Manzoni, si verifica l’intervento salvifico della fede, alla lode della quale sono dedicati gli ultimi versi dell’ode.

Ei fu1. Siccome immobile, dato il mortal sospiro, stette la spoglia immemore orba di tanto spiro, 5 così percossa, attonita la terra al nunzio sta2, muta3 pensando all’ultima ora dell’uom fatale4; né sa quando una simile 10 orma di pie’ mortale la sua cruenta polvere a calpestar verrà5. Lui folgorante in solio vide il mio genio6 e tacque; 15 quando, con vece assidua7,

La metrica Sestine composte da settenari, di cui il primo, il terzo e il quinto sono sdruccioli; il secondo e il quarto piani; il sesto tronco e in rima con il sesto della strofa successiva 1 Ei fu: il celeberrimo esordio dell’ode manzoniana vuole rendere con immediatezza fulminea la drammatica realtà della morte dell’eroe, che era e adesso non è più. Ecco dunque l’uso del passato remoto, efficace anche per esprimere l’effetto di sgomento che la notizia ha avuto sull’autore e su tutto il mondo a lui contemporaneo. 2 Siccome… sta: come i resti mortali ormai privi di memoria (spoglia immemore), una volta esalato l’ultimo respiro, rimasero immobili, privati di un tale spirito (orba di tanto spiro). Il Siccome iniziale serve a introdurre il parallelo tra la salma di Napoleone e il mondo, la terra (collegata al così del v. 5) rimasta agghiacciata per lo stupore alla notizia (al nunzio) della sua morte. 3 muta: predicativo del soggetto riferito a terra.

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cadde, risorse e giacque8, di mille voci al sònito mista la sua non ha9: vergin di servo encomio 20 e di codardo oltraggio10, sorge or commosso al sùbito11 sparir di tanto raggio12; e scioglie all’urna un cantico che forse non morrà13. Dall’Alpi alle Piramidi, dal Manzanarre al Reno, di quel securo il fulmine tenea dietro al baleno; scoppiò da Scilla al Tanai14, 30 dall’uno all’altro mar. 25

4 uom fatale: uomo del destino, perché con le sue gesta ha segnato le sorti dell’Europa intera. 5 né… verrà: e non sa quando un’altra impronta d’uomo paragonabile alla sua verrà a calpestare la sua stessa polvere, intrisa del sangue delle battaglie combattute. 6 Lui… il mio genio: la mia facoltà poetica lo vide quando rifulgeva sul trono (in solio: metafora per indicare il momento di massima gloria di Napoleone, mai citato esplicitamente). 7 con vece assidua: in un continuo susseguirsi di alterne vicende. 8 cadde, risorse e giacque: il riferimento è all’esilio sull’isola d’Elba (aprile 1814 marzo 1815), seguito dal ritorno al potere, poi dalla sconfitta a Waterloo (18 giugno 1815) e infine dall’esilio definitivo a Sant’Elena (dal 16 ottobre dello stesso anno). 9 di mille… non ha: non ha mescolato la propria voce al suono (sònito) di mille altre. 10 vergin... oltraggio: senza essersi mai macchiato (vergin, riferito al genio della strofa precedente) di una lode servile, né di un attacco vigliacco (codardo perché giun-

to quando ormai l’eroe era al suo declino).

11 sùbito: improvviso. 12 di tanto raggio: di una luce così intensa e sublime; metafora per indicare Napoleone. 13 scioglie… non morrà: dedica all’urna funebre un componimento che forse sopravviverà al momento storico. 14 Dall’Alpi… al Tanai: vengono indicati in rapida successione nomi geografici che alludono agli straordinari successi riportati da Napoleone: le Alpi delle campagne d’Italia (1796 e 1800) e le piramidi della spedizione in Egitto; il Manzanarre è il fiume di Madrid (campagna di Spagna 1808-09), mentre il Reno rappresenta la Germania; Scilla, sullo stretto di Messina, indica la punta estrema d’Italia, mentre Tanai (forma classica per designare il fiume russo Don) rimanda alla campagna di Russia. L’espressione «di quel securo il fulmine / tenea dietro al baleno» significa “le azioni fulminee di quell’uomo sicuro di sé seguivano immediatamente il suo apparire (sottinteso: come il fulmine segue l’apparire del lampo)”.


Fu vera gloria? Ai posteri l’ardua sentenza: nui15 chiniam la fronte al Massimo Fattor16, che volle in lui 35 del creator suo spirito più vasta orma stampar17.

E sparve29, e i dì nell’ozio chiuse in sì breve sponda30, segno31 d’immensa invidia e di pietà profonda, d’inestinguibil odio 60 e d’indomato amor.

La procellosa e trepida gioia d’un gran disegno18, l’ansia d’un cor che indocile 40 serve, pensando al regno19; e il giunge20, e tiene21 un premio ch’era follia sperar;

Come sul capo al naufrago l’onda s’avvolve e pesa32, l’onda su cui del misero, alta pur dianzi e tesa, 65 scorrea la vista a scernere prode remote invan33;

tutto ei provò: la gloria maggior dopo il periglio22, 45 la fuga e la vittoria, la reggia e il tristo esiglio;si astiene due volte nella polvere, due volte sull’altar23.

tal su quell’alma il cumulo delle memorie scese34. Oh quante volte ai posteri 70 narrar se stesso imprese35, e sull’eterne pagine cadde la stanca man!

Ei si nomò24: due secoli25, 50 l’un contro l’altro armato, sommessi26 a lui si volsero, come aspettando il fato; ei fe’ silenzio27, ed arbitro s’assise28 in mezzo a lor.

Oh quante volte, al tacito morir d’un giorno inerte36, 75 chinati i rai fulminei37, le braccia al sen conserte, stette38, e dei dì che furono l’assalse il sovvenir39!

15 nui: noi. 16 al Massimo Fattor: al creatore supremo, a Dio. 17 che volle… stampar: che volle imprimere in lui un segno più evidente del suo spirito creatore. 18 La procellosa… disegno: la gioia tormentata e trepidante d’un grande progetto. 19 l’ansia… al regno: l’ansia di un cuore che obbedisce senza tuttavia venire domato, con la mente rivolta alla conquista del potere regale. 20 il giunge: l’ottiene. 21 tiene: coglie. 22 la gloria… periglio: la gloria ancora più grande dopo il pericolo. 23 due volte… sull’altar: due volte sconfitto (a Lipsia nel 1813 e a Waterloo nel 1815), due volte portato in trionfo (incoronato nel 1804 imperatore e dopo l’Elba il ritorno dei cento giorni); cfr. nota 8.

55

24 Ei si nomò: egli pronunciò il proprio nome (e lo impose all’attenzione del suo tempo, cioè raggiunse la fama). 25 due secoli: il Settecento e l’Ottocento, descritti in armi l’uno contro l’altro per indicare il passaggio epocale vissuto proprio negli anni segnati dall’astro di Napoleone. Sette e Ottocento sono, rispettivamente, il secolo della rivoluzione e quello della Restaurazione: Napoleone funge da arbitro tra i due. 26 sommessi: sottomessi e ridotti al silenzio (dall’autorità di Napoleone). 27 ei fe’ silenzio: egli impose il silenzio. 28 s’assise: si sedette, si impose. 29 E sparve: eppure scomparve. 30 i dì… sponda: concluse i propri giorni nell’inattività, prigioniero di un orizzonte così ristretto; il riferimento è all’esilio sulla minuscola isola di Sant’Elena (al largo dell’Angola, nell’oceano Atlantico). 31 segno: oggetto, bersaglio.

32 Come… pesa: come l’onda si avvolge richiudendosi con tutto il suo peso sul capo del naufrago. 33 l’onda… invan: quella stessa onda sulla quale solo un momento prima lo sguardo alto e proteso dell’infelice scorreva per cercare invano di scorgere in lontananza un approdo. 34 tal su quell’alma… scese: così (in correlazione con il Come del v. 61) su quell’anima (di Napoleone) si riversò il cumulo dei ricordi. 35 Oh quante volte… imprese: oh, quante volte si accinse (imprese) a narrare la propria vita ai posteri. 36 al tacito… inerte: al sopraggiungere silenzioso del tramonto di una giornata trascorsa nell’inattività (inerte). 37 i rai fulminei: gli occhi fulminanti. 38 stette: rimase immobile. 39 dei dì… il sovvenir: l’assalì il ricordo dei giorni passati.

Il poeta cristiano alla ricerca di un proprio linguaggio: gli Inni sacri e le odi civili 2 817


E ripensò le mobili 80 tende, e i percossi valli40, e il lampo de’ manipoli41, e l’onda dei cavalli42, e il concitato imperio e il celere ubbidir43. Ahi! forse a tanto strazio cadde lo spirto anelo44, e disperò45; ma valida venne una man dal cielo, e in più spirabil aere 90 pietosa il trasportò46; 85

e l’avvïò, pei floridi sentier della speranza, ai campi eterni, al premio 40 i percossi valli: le trincee battute dalla battaglia. 41 il lampo de’ manipoli: il veloce movimento delle schiere. 42 l’onda dei cavalli: l’ondata delle cariche di cavalleria. 43 il concitato… ubbidir: il concitato succedersi degli ordini, cui seguiva un rapido obbedire. 44 forse… anelo: forse l’anima affranta (letteralmente: ansante) cedette dinanzi a un dolore così grande. 45 disperò: perse ogni speranza. 46 ma valida… il trasportò: ma dal cielo

che i desideri avanza, 95 dov’è silenzio e tenebre la gloria che passò47. Bella Immortal48! Benefica Fede ai trïonfi avvezza49! Scrivi ancor questo, allegrati50; 100 ché più superba altezza al disonor del Gòlgota giammai non si chinò51. Tu52 dalle stanche ceneri sperdi ogni ria parola53: 105 il Dio che atterra e suscita54, che affanna e che consola, sulla deserta coltrice55 accanto a lui posò56.

venne una mano forte che pietosamente lo trasportò in un’atmosfera rarefatta, più respirabile. Manzoni sembra accogliere le voci che circolavano riguardo a una presunta conversione di Napoleone negli ultimi periodi della sua esistenza. 47 l’avvïò… che passò: lo guidò verso le vie piene di vita della speranza, verso quel premio che supera ogni desiderio, dove l’effimera gloria terrena non è altro che silenzio e tenebre. 48 Bella Immortal: epiteti riferiti alla Fede nominata nel verso successivo. 49 ai trïonfi avvezza: abituata a trionfare

(sottinteso: sull’animo dell’uomo).

50 Scrivi… allegrati: registra tra gli altri anche questo trionfo, e rallégrati. 51 ché… non si chinò: che nessuna fronte più superba di questa si è mai chinata dinanzi al segno della croce (disonor del Gòlgota). 52 Tu: si riferisce ancora alla Fede. 53 dalle stanche... parola: allontana dalle spoglie affaticate ogni parola di rancore. 54 atterra e suscita: abbatte e solleva. 55 sulla deserta coltrice: sul letto di morte, in cui era solo (abbandonato da tutti). 56 posò: si sedette, si fermò.

Analisi del testo La struttura Le quattro strofe iniziali hanno una funzione introduttiva. L’ode si apre descrivendo gli effetti che la notizia della morte di Napoleone (mai nominato apertamente) ha avuto prima sul mondo contemporaneo (vv. 1-12), poi sul poeta (vv. 13-24). Manzoni scioglie il riserbo sempre mantenuto su un personaggio tanto controverso e, dopo la morte, gli dedica un’ode il cui significato potrà forse trascendere la mera contingenza storica («che forse non morrà»). Segue una lunga sezione centrale, che a sua volta si può suddividere in due parti. La prima (vv. 25-60) ricostruisce, commentandola, l’eccezionalità delle imprese compiute da Napoleone; la seconda (vv. 61-84) sposta il punto di vista su Napoleone stesso dopo la sua sparizione dalla scena politica («E sparve», v. 55), rappresentandolo nello straziante momento in cui ricorda le glorie ormai passate. Infine, le ultime quattro sestine innalzano il discorso sul piano religioso con la celebrazione della potenza salvifica della fede, dalla quale pare che anche il grande condottiero francese sia stato toccato nell’ultimo periodo della sua vita.

Una parabola morale Rinunciando a esprimere un giudizio storico («Ai posteri / l’ardua sentenza», vv. 31-32), l’ode acquista invece il valore di una vera e propria parabola morale: l’avventura umana di Napoleone che, dopo essersi posto come arbitro tra «due secoli, / l’un contro l’altro armato» (vv.

818 Ottocento 21 Alessandro Manzoni


49-50), sparisce per sempre dal palcoscenico della storia («e i dì nell’ozio / chiuse in sì breve sponda», vv- 55-56), diventa l’occasione per una riflessione sulla condizione umana, che è soggetta alle alterne vicende del destino e solo nella stabilità della fede può trovare conforto. Se anche l’uomo più potente è destinato inesorabilmente a soccombere, esiste un Dio (terribile ma anche misericordioso, «che atterra e suscita, / che affanna e che consola», vv. 105106) che può scegliere di dispensare il proprio spirito salvifico sull’anima affranta dell’uomo sconfitto dalla vita. Come notò anche Stendhal, nell’ode si riconoscono i toni solenni dell’oratoria funebre del Seicento francese, in particolare di Bossuet.

Una lettura della biografia di Napoleone La sezione centrale dell’ode (vv. 25-84) è dedicata a una serrata rievocazione della straordinaria biografia di Napoleone. Nella prima parte (vv. 25-54) i versi si snodano in frasi veloci ed ellittiche, allineando le immagini l’una dopo l’altra, in una rapida successione mirata a rendere il successo fulmineo dell’uomo che segna il destino dell’Europa. La seconda parte (vv. 55-84) vede Napoleone a Sant’Elena, ormai fuori dall’azione e dalla storia. Il ritmo della versificazione si distende e al frenetico rincorrersi di immagini sempre nuove si sostituisce un’unica, ampia similitudine, che nel movimento avvolgente e incontrastabile dell’onda, dipinta nell’attimo in cui sta per richiudersi sul capo del naufrago, vuole rappresentare l’insostenibile carico delle memorie passate che si rovescia addosso all’eroe, sconfitto per sempre. Alla sintassi rapida e sincopata dei versi precedenti subentra qui un fraseggio più fluido e disteso. Ricorrendo a una moderna terminologia cinematografica, potremo quasi definirlo un ralenti, introdotto dalla repentina battuta d’arresto del v. 55: «E sparve», che in sole tre sillabe, con una rapidità fulminea che ancora una volta potremmo associare a certe tecniche del montaggio cinematografico, cancella il frenetico vortice di immagini con cui ci è stata presentata la vita di Napoleone nei versi precedenti.

Il trionfo della fede Il cinque maggio si inserisce nella tradizione del “trionfo” codificato da Petrarca; vale a dire un componimento inteso a celebrare un principio o un ideale in tutta la sua gloria, che in questo caso si identifica con la fede. Secondo i toni del trionfo, nelle ultime quattro sestine l’ode celebra la Fede, che scende valida dal cielo per sorreggere Napoleone nel momento dello sconforto e condurlo verso quel premio «che i desideri avanza», premio ben più alto e duraturo dell’altro, quello «ch’era follia sperar» e che il «cuore indocile» dell’uomo era riuscito a ottenere con le sue sole forze attraverso una vita di imprese eccezionali: successi da ascriversi al mondo incerto ed effimero della «gloria che passò». Come vedremo anche per la protagonista femminile dell’Adelchi, Ermengarda (per quanto i due personaggi si trovino a interpretare ruoli assai diversi sulla scena della storia), per Napoleone la sconfitta, la caduta, la dolorosa condizione di emarginato, coincide con la «provida sventura» grazie alla quale il condottiero può infine avvicinarsi alla salvezza, avviandosi per i «floridi / sentier della speranza».

Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

SINTESI 1. Sintetizza il tema dell’ode. PARAFRASI 2. Dopo aver fatto la parafrasi dei vv. 13-24, spiega in che modo il poeta definisce il proprio atteggiamento verso Napoleone. COMPRENSIONE 3. Perché Manzoni decide di scrivere l’ode? Rispondi sulla base della domanda precedente. ANALISI 4. Rintraccia i versi che ricostruiscono il progressivo ampliarsi del potere e del ruolo pubblico di Napoleone: ritrovi delle analogie sintattiche con la parte che precede, dedicata alle vittorie militari? 5. Cerca di rintracciare nell’ode i momenti di eccezionale tensione storica e collettiva.

Il poeta cristiano alla ricerca di un proprio linguaggio: gli Inni sacri e le odi civili 2 819


LESSICO 6. In più punti dell’ode la figura di Napoleone viene associata a fenomeni atmosferici. Individua nel testo queste espressioni e cerca di spiegare la ragione della scelta manzoniana, nell’ottica della costruzione del personaggio di Napoleone. 7. Al momento dell’azione si contrappone nell’ode il momento del ricordo, anche attraverso un sensibile mutamento del ritmo narrativo, che dalla rapidità frenetica dei versi dedicati alle imprese napoleoniche passa ai toni più lenti e distesi dei giorni della memoria. Ti sembra che un’analoga antitesi si possa individuare anche dal punto di vista lessicale? Individua i vocaboli utilizzati per descrivere i diversi momenti dell’esistenza di Napoleone: inseriscili in una tabella, in cui a ogni evento storico fai corrispondere l’espressione usata.

Interpretare

LEGGERE LE EMOZIONI

SCRITTURA 8. Al v. 31 Manzoni formula una domanda: «Fu vera gloria?» Ti sembra che alla fine dell’ode venga data implicitamente una risposta a questa domanda? Motiva la tua risposta in un testo di circa 10 righe. TESTI A CONFRONTO 9. L’ode, nell’ultima parte, mette in scena il trionfo della Fede. Quanto conta nella tua vita e in quella dei tuoi coetanei il sentimento religioso? Ritieni che le riflessioni di Manzoni siano lontane dalla tua sensibilità di ragazzo di oggi?

online

Verso il Novecento Marguerite Yourcenar Un imperatore di fronte alla morte: Adriano

Charles de Steuben, La morte di Napoleone, olio su tela, 1828 (Palazzo di Arenenberg, Museo napoleonico).

820 Ottocento 21 Alessandro Manzoni


3

La produzione tragica: il Carmagnola e l’Adelchi dibattito sul paradigma classico e i caratteri della tragedia 1 Ilmanzoniana

VIDEOLEZIONE

La questione delle unità aristoteliche Nel clima romantico dei primi decenni dell’Ottocento, in Italia è molto vivo il dibattito sulla forma che il teatro dovrebbe assumere nel contesto della modernità. In particolare, si discute sul valore delle cosiddette unità aristoteliche, riferite alle modalità di svolgimento dell’azione teatrale. La rigida normativa codificata nel Cinquecento stabilisce che i fatti rappresentati dalla tragedia debbano concludersi nell’arco delle ventiquattro ore di una giornata (unità di tempo), senza cambi di scena importanti (unità di luogo); inoltre, per non incrinare la chiarezza della narrazione, nessuna azione secondaria deve intrecciarsi con la principale (unità di azione). Al rispetto delle unità si erano adeguati Corneille e Racine, grandi autori del teatro francese del Seicento; in Italia, in anni più recenti, anche Alfieri aveva accolto questa consuetudine. Al contrario, in Inghilterra Shakespeare aveva sviluppato le proprie tragedie su un arco temporale ben più ampio di quello di una giornata, facendo muovere i personaggi in più di un luogo e mescolando all’azione principale svariate azioni secondarie. Inoltre Shakespeare accostava arditamente generi diversi in una medesima opera, inserendo, ad esempio, scene dal sapore comico in azioni drammatiche di stampo tragico. Proprio all’esempio di Shakespeare si ispirano, tra la fine del Settecento e l’inizio dell’Ottocento, i romantici tedeschi – Goethe e soprattutto Wilhelm Schlegel (nel Corso di letteratura drammatica, 1809) – per negare la validità assoluta delle unità di tempo e di luogo nella tragedia e per rivendicare la libertà del genio artistico su ogni imposizione. La posizione di Manzoni Anche Manzoni, con la stesura delle sue due tragedie, Il conte di Carmagnola (1816-1819) e Adelchi (1820-1822), prende parte a questo importante dibattito. Al pari dei colleghi tedeschi, egli rifiuta in particolare le unità aristoteliche di tempo e di luogo, mentre accetta sostanzialmente l’unità d’azione, intesa però come attenta concatenazione tra eventi; ma più che della libertà del genio inventivo, che tanto sta a cuore ai drammaturghi tedeschi, Manzoni mostra di preoccuparsi del rispetto del vero storico, fulcro della sua poetica, che non può conciliarsi con una griglia rigida come quella imposta dal modello di tragedia classico. Tale posizione viene espressa dallo scrittore nella Prefazione a Il conte di Carmagnola (1820) e poi, come già detto, nella Lettre à Monsieur Chauvet, stampata a Parigi nel 1823 ma scritta tre anni prima, contestualmente alla pubblicazione del Carmagnola, come risposta alla recensione della tragedia manzoniana pubblicata dal critico Jean-Jacques-Victor Chauvet sul «Lycée Français». In un passo importante della lettera, Manzoni chiama in causa proprio il “contromodello” di Shakespeare, analizzando la sua tragedia Riccardo II. Se il grande dramLa produzione tragica: il Carmagnola e l’Adelchi 3 821


maturgo inglese avesse voluto rispettare le unità aristoteliche, sostiene Manzoni, sarebbe stato costretto a trascurare alcuni tra i particolari più interessanti per lo sviluppo del dramma interiore messo in scena. Ma non è invece proprio questo il compito della poesia, che nel dramma storico si trova fianco a fianco con la storia, nella rappresentazione della Verità nel modo più fedele possibile? La tragedia manzoniana: verosimile rappresentazione storica… Manzoni distingue con molta chiarezza tra un’invenzione fine a sé stessa, concepita come puro piacere creativo, e un’invenzione che invece si muove entro i confini stabiliti dal vero storico, del quale essa vuole indagare i motivi più nascosti, le prospettive ambigue e impreviste, le zone d’ombra. Al poeta e alla sua facoltà creatrice, guidata dal senso del verosimile, spetta il compito di dare una forma artistica adeguata e credibile all’intimo sentimento dei protagonisti della Storia, la quale è invece pura cronaca dei fatti esteriori. Questo programma (che Manzoni attuerà poi anche nei Promessi sposi) è prima di tutto applicato nelle tragedie, entrambe di soggetto storico e fondate su una rigorosa documentazione sull’epoca a cui fanno riferimento i fatti narrati. ...e veicolo di riflessione morale Oltre che sul rispetto del vero storico, Manzoni imposta le tragedie anche su una precisa finalità morale. Egli non si propone di innescare nel pubblico un processo di identificazione, di stimolare una partecipazione emotiva: al contrario, vuole sollecitare e acuire le capacità critiche del lettore o dello spettatore, suscitando quella facoltà di riflessione che rende l’uomo capace di distinguere tra il bene e il male. In questo modo l’azione drammatica viene proiettata su un più ampio orizzonte morale e acquista carattere di universalità. I protagonisti del Carmagnola e di Adelchi, attraverso le vicende storiche che li riguardano, si fanno così paradigmi umani di una parabola esistenziale che invita il pubblico a meditare sui grandi temi posti all’uomo dalla storia: la lotta tra il bene e il male, le dinamiche del potere, il senso del dolore, la sopraffazione che domina la rete di rapporti su cui si fonda la società, la voce sempre negata ai vinti. I materiali storici subiscono insomma un processo che da puro documento li trasforma in specchio della condizione umana in senso più vasto, in modo analogo a ciò che accade al personaggio di Napoleone nell’ode Il cinque maggio (➜ T3 ). Il coro, «cantuccio» del poeta Nella tragedia classica il coro era utilizzato dal drammaturgo come spazio lirico che dava voce a una sorta di «spettatore ideale» (come lo definisce Schlegel, citato nella Prefazione al Carmagnola), chiamato a commentare i fatti che si svolgevano sulla scena, spesso dialogando con i personaggi e (sempre con le parole di Schlegel) utilizzato per temperare «l’impressioni violente e dolorose d’un’azione qualche volta troppo vicine al vero». Anche Manzoni nelle sue tragedie utilizza questa risorsa drammaturgica, ma ne cambia radicalmente la funzione e il significato. Permane l’idea di diluire momentaneamente la tensione drammatica in un tono più poetico (Manzoni parla per i cori di «squarci lirici»), ma il coro è soprattutto uno spazio che l’autore si riserva all’interno dell’opera per dare voce alla propria riflessione rispetto a temi morali che sono connessi alla vicenda rappresentata, sebbene non strettamente legati alla sua trama (Manzoni infatti propone addirittura che i cori delle sue tragedie siano destinati non alla recitazione ma a una lettura a parte). L’autore così può prendere la parola ed esprimere una posizione personale, senza intaccare pensieri e discorsi dei personaggi in scena: «riserbando al poeta un cantuccio dov’egli possa parlare in persona propria» dice Manzoni «gli diminuiranno

822 Ottocento 21 Alessandro Manzoni


la tentazione d’introdursi nell’azione, e di prestare ai personaggi i suoi propri sentimenti: difetto dei più notati negli autori drammatici». I cori delle due tragedie (➜ T4 OL, ➜ T6 e ➜ T7 ) rivelano con chiarezza questa funzione e risultano così di fondamentale importanza per delineare problematiche etico-politiche e religiose che stanno particolarmente a cuore all’autore.

2 Il conte di Carmagnola

Francesco Hayez, Studio per la testa del Carmagnola, olio su tela, 1821 (Milano, collezione privata).

La composizione e il contesto storico Manzoni lavora alla sua prima tragedia dal 1816 al 1819, interrompendosi più volte per dedicarsi alla composizione delle Osservazioni sulla morale cattolica e della Pentecoste; pubblicata a Milano nel gennaio 1820, l’opera Il conte di Carmagnola viene rappresentata a teatro nel 1828, ma senza gran successo di pubblico. Protagonista della tragedia è Francesco di Bartolomeo Bussone, conte di Carmagnola (1380-1432), un capitano di ventura realmente vissuto nella prima metà del Quattrocento, la cui vicenda viene esposta e spiegata da Manzoni in una notizia storica che precede il testo. Inizialmente al servizio di Filippo Visconti, duca di Milano, il Carmagnola passa dalla parte di Venezia e, alla testa dell’esercito di San Marco, nella battaglia di Maclodio (1427) sconfigge le forze del precedente signore. Adeguandosi a quella che è una consuetudine di cortesia militaresca, il condottiero mette in libertà tutti i prigionieri catturati sul campo di battaglia. Tanta clemenza muove a sospetto il Senato veneziano, che accusa il Carmagnola di essere in combutta con i Milanesi per tramare contro gli interessi della Serenissima. I poco soddisfacenti sviluppi della guerra non fanno che confermare questo dubbio: un amico del conte, Marco, membro del Consiglio dei Dieci, fa un tentativo per salvarlo ma alla fine è costretto a piegarsi dinanzi alla ragion di stato. Richiamato a Venezia con un pretesto, il Carmagnola, accusato di tradimento, viene condannato a morte e giustiziato. La trama La tragedia si sviluppa in cinque atti. La prima parte (atti I-II) è dedicata alla descrizione delle vicende politiche e belliche: Venezia decide di muovere guerra a Milano e affida il comando delle truppe al Carmagnola. L’atto II si chiude con il coro S’ode a destra uno squillo di tromba (➜ T4 OL), che proprio da questo momento trae spunto per una riflessione sulle guerre fratricide che insanguinano la terra italiana. Il terzo atto descrive gli eventi successivi alla battaglia e in particolare la decisione del conte di non lanciarsi all’inseguimento degli avversari sconfitti. Nell’atto IV si assiste allo scontro tra Marino e Marco, consoli veneziani membri del Consiglio dei Dieci, riguardo ai sospetti sulla fedeltà del Carmagnola. L’ultimo atto mette in scena l’audizione dinanzi al Senato del protagonista, con la sua condanna e l’ultimo colloquio con la moglie e la figlia. La vicenda si svolge in un lasso di tempo che va dal 1426, anno in cui viene affidata al Carmagnola la guida dell’esercito veneziano, al 1432, quando il conte viene giustiziato. Manzoni dunque mette in atto il suo dichiarato rifiuto La produzione tragica: il Carmagnola e l’Adelchi 3 823


dell’unità di tempo. Lo stesso anche per l’unità di luogo: sono numerosi e rilevanti i cambi di scena, passando dal campo di battaglia alla Sala del Consiglio dei Dieci.

La battaglia di Maclodio in un’incisione di Giuseppe Gatteri pubblicata nel 1867.

Il tema: l’impotenza del bene di fronte al potere Manzoni abbraccia senza riserve la tesi dell’innocenza del Carmagnola, attualmente respinta dalla maggior parte degli storici. Ma ciò che veramente gli interessa è mettere in scena il dramma dell’uomo giusto dinanzi alle manipolazioni spietate della politica, vista come un ingranaggio totalmente asservito alla logica del potere: Carmagnola è l’innocente che agisce seguendo sempre i princìpi di onore e di lealtà e che proprio per questo è destinato a soccombere. Accanto a lui si distingue la figura del senatore Marco, che in nome dell’amicizia che lo lega al Carmagnola cerca di opporsi alla risoluzione presa dal Consiglio dei Dieci, ma alla fine è costretto a rassegnarsi al loro volere: Marco rappresenta l’impotenza del bene dinanzi all’ineluttabile avanzare di una storia dominata dalla violenza e dall’ingiustizia; all’uomo non è offerta alcuna possibilità di sfuggire a questo destino: «Un nobile consiglio / per me non c’è; qualunque io scelga, / è colpa» (➜ T5 OL).

Il conte di Carmagnola DATAZIONE

GENERE

1816-1819

tragedia storica

STRUTTURA

cinque atti con un coro

ARGOMENTO

storia (1426-1432) – durante la guerra tra Milano e Venezia – del capitano di ventura Francesco di Bartolomeo Bussone, conte di Carmagnola, accusato di tradimento, condannato a morte e giustiziato

TEMI

online T4 Alessandro Manzoni

• impotenza del bene di fronte al potere • dramma di un uomo stritolato nell’ingranaggio delle lotte politiche

«S’ode a destra uno squillo di tromba» Il conte di Carmagnola, coro del II atto, vv. 1-32; 121128

824 Ottocento 21 Alessandro Manzoni

online T5 Alessandro Manzoni

Il monologo di Marco: il dramma dell’amicizia sconfitta Il conte di Carmagnola, atto IV, scena II, vv. 270-350


3 Adelchi La composizione della tragedia È nella seconda tragedia di Manzoni che trovano piena espressione i princìpi esposti nella Prefazione al Carmagnola e nella Lettre à Monsieur Chauvet. Manzoni compone l’Adelchi tra il novembre del 1820 e il maggio del 1822, dopo un breve, nuovo soggiorno a Parigi (1819-20) durante il quale approfondisce la propria riflessione sul genere tragico e comincia ad avvicinarsi alle problematiche legate al romanzo storico, discutendone con l’amico Fauriel. L’opera, rappresentata a Torino molti anni dopo, nel 1843, non riscuote molto successo di pubblico. La trama La vicenda si svolge tra il 772 e il 774, durante il periodo della dominazione dei Longobardi in Italia, nel momento in cui questi ultimi stanno per essere sopraffatti dai Franchi. Ermengarda, figlia del re longobardo Desiderio, torna a Pavia dopo essere stata ripudiata dal re franco Carlo Magno. Per quanto il figlio Adelchi, più cauto e riflessivo, cerchi di dissuaderlo, Desiderio, assetato di vendetta, muove guerra al papa, da sempre alleato dei Franchi. Ermengarda si rifugia a Brescia, nel convento della sorella Ansberga, dove vive nel ricordo del suo amore infelice, in uno struggimento che la accompagnerà fino alla morte. Nel frattempo Carlo, che con le sue truppe si trovava bloccato presso le fortificazioni della val di Susa, riesce a trovare un valico attraverso le Alpi grazie alle indicazioni del diacono Martino, legato papale che lo ha raggiunto da Ravenna. Può così cogliere di sorpresa l’esercito di Desiderio e, grazie anche all’aiuto di alcuni soldati longobardi traditori, riesce a sbaragliarlo. Mentre tenta la fuga, Adelchi viene ferito a morte. Condotto in fin di vita al cospetto di Carlo Magno e di Desiderio, il giovane principe longobardo pronuncia le sue ultime parole, supplicando il re franco di essere clemente nei confronti di Desiderio ed esortando il proprio padre a non rammaricarsi del trono perduto, perché ogni potere, inevitabilmente, comporta violenza e soprusi. Un’opera complessa, fondata su un’attenta ricerca storica Rispetto alla prima tragedia, Adelchi si presenta come un’opera di maggior spessore, dalla struttura più articolata. Mentre il Carmagnola procede linearmente, per giustapposizione di situazioni successive, qui assistiamo invece a un continuo intrecciarsi di piani e punti di vista diversi, con cambi di scena frequenti e sostanziali, come se Manzoni volesse dimostrare tutte le possibilità aperte dal rifiuto delle unità aristoteliche espresso nella Lettre à Monsieur Chauvet, che sta scrivendo proprio in questi stessi anni. Inoltre, a differenza del Carmagnola, Manzoni qui forza in qualche caso i confini del vero storico: in particolare, mentre nella tragedia manzoniana Adelchi muore sul campo di battaglia e pronuncia spirando una sorta di amara lezione sulla storia (➜ T8 ), nella realtà storica trovò scampo a Costantinopoli (Manzoni rende comunque conto di ogni modifica apportata alla realtà dei fatti in una Nota storica premessa al testo della tragedia). Preparatorio alla stesura della tragedia è il Discorso sopra alcuni punti della storia longobardica in Italia, pubblicato nel 1822, in cui Manzoni ricostruisce il periodo della dominazione longobarda attraverso una puntuale analisi delle fonti e facendo tesoro della lezione dello storico liberale francese Augustin Thierry (1795-1856), che lo scrittore aveva avuto modo di frequentare durante il soggiorno a Parigi nel circolo dell’amico Claude Fauriel. Un problema storiografico: dare voce alle masse nella ricostruzione storica Nelle sue Lettere sulla storia di Francia, Thierry aveva posto l’attenzione sul ruolo La produzione tragica: il Carmagnola e l’Adelchi 3 825


delle masse, auspicando l’avvento di una nuova storiografia che non si limitasse a riportare le vicende dei grandi uomini, ma cercasse invece di dare voce alla vita dei popoli, nelle loro diverse componenti etniche, e della gente comune che li compone. Questo cerca di fare a suo modo anche Manzoni nell’Adelchi: un’opera in cui vediamo, sullo sfondo della contrapposizione tra i Franchi e i Longobardi, la massa dei Latini, dominati e vessati da entrambi. Come già aveva fatto nelle Osservazioni sulla morale cattolica (1819), anche qui l’autore abbraccia una tesi volta a confutare la posizione dello storico svizzero Sismondi, che imputava alla Chiesa la colpa di aver interrotto, chiamando i Franchi in Italia, il processo di integrazione già avviato tra Longobardi e Latini, rallentando così il cammino del paese verso l’unificazione. In realtà – ribatte Manzoni con la sua tragedia – tale processo era ben lungi dal farsi: tra i due popoli sussistevano invece differenze insanabili e il loro rapporto si esauriva tutto nella dialettica fra dominato e dominatore. È questa l’idea che emerge dal coro del terzo atto, Dagli atrii muscosi… (➜ T6 ). «Il cor m’ange»: il tormento di un eroe romantico Nonostante lo spunto offerto dalla riflessione storica di Thierry, Adelchi rimane però una tragedia di nobili e potenti, lasciando il popolo sullo sfondo. Grandi personaggi che, però, vengono rappresentati nel momento della crisi, della sconfitta, della sventura. Questo è particolarmente vero per il protagonista: il principe Adelchi incarna già il modello dell’eroe romantico, perennemente combattuto fra un ideale sentito come imprescindibile (l’aspirazione alla gloria, derivata però da azioni nobili e generose) e una realtà, quella della storia, che di quell’ideale nega ogni possibile realizzazione. Adelchi vorrebbe agire secondo giustizia e rettitudine, ma si trova a dover assecondare la follia vendicatrice del padre Desiderio per filiale ubbidienza; si trova a capo di un popolo a cui si sente legato dal proprio ruolo di principe, ma nello stesso tempo ne conosce le meschinità e le interne divisioni («Pur mi parea che ad altro io fossi nato, / che ad esser capo di ladron»: atto III, scena prima). Come tanti altri eroi della tradizione romantica, in Adelchi la grandezza d’animo sembra legata indissolubilmente a uno stato perenne di sofferenza, apparentemente senza via d’uscita: «Soffri e sii grande...», così si esprime all’inizio dell’atto terzo lo scudiero Anfrido, rivolgendosi ad Adelchi. L’incarnazione del pessimismo storico manzoniano Il principe longobardo dà voce al pessimismo storico di Manzoni, tanto assoluto da arrivare a negare all’uomo qualsiasi possibilità di agire bene nella realtà storica: «loco a gentile / ad innocente opra non v’è: non resta / che far torto, o patirlo», affermerà Adelchi prima di morire (➜ T8 ). E quindi, a una gloria fondata sul sopruso è preferibile una sorte sventurata che si profila come “provvidenziale”: una provida sventura accomuna Adelchi alla infelice sorella Ermengarda; per entrambi la morte diventa l’unica possibile salvezza, in cui i due eroi tragici possono trovare finalmente un senso e una qualche pacificazione. Il dramma d’amore di Ermengarda Se il tormento esistenziale di Adelchi ha a che fare col piano storico e politico, quello vissuto da Ermengarda è invece un dramma intimo e privato che si consuma tra il dolore della principessa longobarda per l’abbandono subìto e la condanna a non poter ammettere davanti al padre, re dei Longobardi, l’amore ancora vivo per Carlo. Vittima delle leggi spietate della politica e della storia che negano la realtà dei sentimenti, condannata all’incomunicabilità, Ermengarda vive quello stesso isolamento senza speranza che segna anche Adelchi e che per la giovane donna trova espressione nella reclusione volontaria nel convento di Brescia.

826 Ottocento 21 Alessandro Manzoni


online

Audio e Video Brani video degli sceneggiati televisivi di Vittorio Gassman (1961) con lo stesso Gassman e di Orazio Costa (1974) con Gabriele Lavia

Ermengarda appartiene alla stirpe feroce degli “oppressori” ma, come il fratello, è destinata a soccombere. Le ingiustizie subìte la sottraggono provvidenzialmente al palcoscenico della storia e del potere, in cui era stata involontaria attrice, e fanno di lei un’“oppressa” («Te, dalla rea progenie /degli oppressor discesa...te collocò la provida/sventura in fra gli oppressi»), ma questa infelice condizione, nella visione manzoniana, è in realtà un privilegio: anche per Ermengarda vale infatti la dura legge secondo cui «non resta/che far torto o patirlo» in un mondo ingiusto e violento. Riscattate con le sue sofferenze le colpe della sua stirpe, Ermengarda può morire «compianta e placida», ritrovando nella morte la serenità che la vita le ha negato.

Adelchi DATAZIONE

GENERE

STRUTTURA

TEMI

VICENDA STORICA

PER APPROFONDIRE

FINALITÀ

novembre 1820 - maggio 1822

tragedia storica

cinque atti con due cori

• tormento di un eroe “romantico”, Adelchi, che incarna il pessimismo storico manzoniano • “provida sventura”, vista come un privilegio per potersi sottrarre alle logiche del potere

conflitto tra Franchi e Longobardi durante la dominazione longobarda in Italia (772-774)

dare voce alle masse nella ricostruzione storica

L’opposizione tra personaggi del “fare” e personaggi del “sentire” Accanto al conflitto tra Franchi e Longobardi, serpeggia in tutta la tragedia una seconda tensione, ben più forte e profonda: quella tra i personaggi del “fare” e i personaggi del “sentire”. Il “fare”: Carlo e Desiderio Sul primo versante si trovano uniti i due acerrimi nemici Carlo e Desiderio, qui accomunati da un analogo modo di considerare la storia: per entrambi, uomini di potere, tutti impegnati nel gioco esteriore delle trame politiche e militari, l’universo dei sentimenti esiste solo come strumento per raggiungere i propri scopi o per esprimere le pulsioni legate alla loro posizione nell’ambito dei regni che devono rispettivamente governare. Assistiamo così all’ira impaziente di Carlo da un lato o, dall’altro, alla furia vendicativa di Desiderio, tanto cieca da impedirgli di riconoscere e rispettare il dolore della figlia. Le ragioni dei due monarchi sono quelle di chi, come dice Carlo, «tenzona con le cose, e

deve ciò ch’egli agogna conseguir con l’opra», secondo un’ottica tutta pragmatica che non dà valore al punto di vista di chi, invece, «stassi fuor degli eventi e guata». Solo nel finale i due personaggi, di fronte alla morte del “giusto” Adelchi, sembrano trovare una nuova dimensione umana. Il “sentire”: Adelchi ed Ermengarda È la condizione, quest’ultima, di Adelchi ed Ermengarda, estranei in ciò al loro stesso padre. Si tratta di due personaggi del “sentire”, dotati di una dimensione interiore che agli altri manca e che, anche quando agiscono (è il caso di Adelchi), lo fanno pienamente consapevoli delle contraddizioni e ingiustizie della Storia, su cui non smettono di interrogarsi. Ed è proprio questo atteggiamento di continua ricerca, di instancabile interrogarsi su di sé e sul senso del proprio agire, a diventare la loro condanna in un mondo dove contano solo le ragioni dei forti e dei vincitori.

La produzione tragica: il Carmagnola e l’Adelchi 3 827


Alessandro Manzoni

T6

«Dagli atrii muscosi…»

EDUCAZIONE CIVICA

nucleo Costituzione competenza 2

Adelchi, coro del III atto A. Manzoni, Tragedie, a cura di F. Ghisalberti, Rizzoli, Milano 2002

ANALISI INTERATTIVA

I Longobardi, colti di sorpresa dai Franchi, si sono dati a una fuga disperata e scomposta. Anche Desiderio e Adelchi, insieme ai pochi principi rimasti loro fedeli, cercano scampo: il primo a Pavia e il secondo a Verona. Anfrido, il fido scudiero e amico di Adelchi, rimane ucciso negli scontri. Il terzo atto si chiude con il coro che fa entrare in scena la massa anonima delle popolazioni italiche, quei Latini che hanno subìto la dominazione longobarda e che assistono ora alla calata franca. Manzoni li esorta a non illudersi che questo evento possa significare per loro la conquista della libertà.

Dagli atrii muscosi1, dai fori cadenti2, dai boschi, dall’arse fucine stridenti3, dai solchi bagnati di servo sudor4, un volgo5 disperso repente6 si desta; 5 intende7 l’orecchio, solleva la testa percosso da novo crescente romor8. Dai guardi dubbiosi, dai pavidi volti, qual raggio di sole da nuvoli folti, traluce de’ padri la fiera virtù9: 10 ne’ guardi, ne’ volti, confuso ed incerto si mesce e discorda lo spregio sofferto col misero orgoglio d’un tempo che fu10. S’aduna voglioso11, si sperde tremante, per torti12 sentieri, con passo vagante13, 15 fra tema e desire, s’avanza e ristà14; e adocchia e rimira scorata e confusa de’ crudi signori la turba diffusa15, che fugge dai brandi, che sosta non ha16. Ansanti li vede17, quai trepide fere18, 20 irsuti per tema le fulve criniere19,

La metrica Strofe di sei versi dodecasilla-

8 percosso da… romor: colpito dall’in-

bi, di cui il terzo e il sesto sono tronchi, gli altri piani, con schema AABCCB

sorgere di un rumore, che si fa sempre più forte. 9 Dai guardi dubbiosi… la fiera virtù: dai loro sguardi dubbiosi (riferito al volgo del v. 4), dai volti pieni di timore, traspare il fiero valore degli antichi antenati, come un raggio di sole che si fa strada attraverso le fitte nubi. 10 ne’ guardi... tempo che fu: nei loro sguardi e nei volti, all’orgoglio umiliato (misero) del tempo passato si mescola in modo confuso e incerto l’oltraggio subìto, creando un effetto di contrasto (e discorda). 11 s’aduna voglioso: si raduna desideroso (di riscatto); il soggetto è sempre il volgo.

1 Dagli atrii muscosi: dagli antichi palazzi diroccati, ora ricoperti di muschio.

2 dai fori cadenti: dai resti di antiche piazze ormai in rovina. 3 dall’arse fucine stridenti: dalle fucine infuocate e dominate dal frastuono. 4 dai solchi… servo sudor: dai solchi dei campi bagnati dal sudore di un lavoro compiuto da servi (servo sudor). 5 un volgo: un popolo. 6 repente: all’improvviso. 7 intende: tende.

828 Ottocento 21 Alessandro Manzoni

12 torti: tortuosi. 13 vagante: incerto. 14 fra tema… e ristà: combattuto fra timore e desiderio, avanza e poi si ferma.

15 e adocchia… la turba diffusa: e scorge e contempla la torma in fuga dei crudeli dominatori (i Longobardi), scoraggiata e confusa. 16 fugge… non ha: cerca scampo dalle spade (dei Franchi) e non si dà tregua. 17 Ansanti li vede: li vede ansimanti (il soggetto è sempre il volgo degli Italici). 18 quai trepide fere: simili a fiere tremanti di paura. 19 irsuti… criniere: i capelli biondo-rossicci dritti per la paura.


le note latebre del covo cercar20; e quivi, deposta l’usata minaccia21, le donne superbe, con pallida faccia, i figli pensosi pensose guatar22. E sopra i fuggenti, con avido brando, quai cani disciolti, correndo, frugando, da ritta, da manca, guerrieri venir23: li vede, e rapito d’ignoto contento24, con l’agile speme precorre l’evento25, 30 e sogna la fine del duro servir26. 25

Udite! Quei forti che tengono il campo27, che ai vostri tiranni precludon lo scampo28, son giunti da lunge29, per aspri sentier30: sospeser le gioie dei prandi festosi31, 35 assursero in fretta dai blandi riposi32, chiamati repente da squillo guerrier33. Lasciâr34 nelle sale del tetto natio35 le donne accorate, tornanti all’addio, a preghi e consigli che il pianto troncò36: 40 han carca la fronte de’ pesti cimieri37, han poste le selle sui bruni corsieri38, volaron sul ponte che cupo sonò39. A torme, di terra40 passarono in terra, cantando giulive41 canzoni di guerra, 45 ma i dolci castelli42 pensando nel cor: per valli petrose, per balzi dirotti43, vegliaron nell’arme le gelide notti, membrando i fidati colloqui d’amor44.

20 le note… cercar: mentre cercano i nascondigli (latebre) conosciuti della tana (gli infiniti cercar, guatar e venir sono retti dal vede del v. 19). 21 deposta l’usata minaccia: smesso il solito atteggiamento minaccioso. 22 guatar: guardare. 23 sopra i fuggenti… guerrieri venir: simili a (quai) cani sciolti, che corrono annusando ovunque, sui Longobardi in fuga (il volgo) vede piombare guerrieri (i Franchi) da destra e sinistra, con le spade (al singolare: brando) avide (di preda, di sangue). 24 rapito d’ignoto contento: colto da una gioia mai provata prima. 25 con l’agile… l’evento: con la speranza che corre innanzi (veloce) anticipa ciò che sta per succedere.

26 servir: schiavitù, servaggio. 27 tengono il campo: dominano lo scontro (si sta riferendo ai Franchi).

28 ai vostri… lo scampo: impediscono la fuga ai vostri tiranni, cioè ai Longobardi. 29 da lunge: da lontano. 30 per aspri sentier: attraverso vie irte di ostacoli. 31 sospeser… festosi: interruppero i piaceri dei banchetti festosi. 32 assursero… riposi: si alzarono in fretta dai placidi sonni. 33 chiamati… guerrier: richiamati improvvisamente dallo squillo delle trombe di guerra. 34 Lasciâr: lasciarono. 35 nelle sale… natio: nelle case in cui nacquero. 36 le donne… troncò: le donne addo-

lorate che ripetono più volte il saluto, le preghiere e le raccomandazioni troncati infine dal pianto. 37 han carca… cimieri: sulla loro fronte poggiano con tutto il loro peso gli elmi ammaccati (pesti). 38 corsieri: cavalli. 39 volaron… sonò: sfrecciarono sul ponte levatoio che risuonò cupo al loro passaggio. 40 terra: città. 41 giulive: allegre, festose. 42 i dolci castelli: è sottinteso “della patria”. 43 balzi dirotti: dirupi scoscesi. 44 vegliaron… d’amor: vegliarono in armi nelle notti gelide, mentre nella loro memoria erano vivi i ricordi (membrando “rimembrando, ricordando”) dei confidenziali (fidati) incontri amorosi.

La produzione tragica: il Carmagnola e l’Adelchi 3 829


Gli oscuri perigli di stanze incresciose, 50 per greppi senz’orma, le corse affannose, il rigido impero, le fami durâr45; si vider le lance calate46 sui petti, a canto agli scudi, rasente47 agli elmetti, udiron le frecce fischiando volar. E il premio sperato, promesso a quei forti, sarebbe, o delusi, rivolger le sorti, d’un volgo straniero por fine al dolor48? Tornate alle vostre superbe ruine, all’opere imbelli49 dell’arse officine, 60 ai solchi bagnati di servo sudor. 55

Il forte si mesce col vinto nemico50, col novo signore rimane l’antico51; l’un popolo e l’altro sul collo vi sta. Dividono52 i servi, dividon gli armenti; 65 si posano insieme sui campi cruenti53 d’un volgo disperso che nome non ha. 45 Gli oscuri perigli… le fami durâr: sopportarono (durâr) i pericoli imprevisti di soste (stanze) sgradite (incresciose), le corse affannose per pendii su cui non è mai passato nessuno (per greppi senz’orma), la severa disciplina militare (il rigido impero), la fame. 46 calate: scagliate.

47 rasente: vicinissime. 48 il premio… al dolor?: la ricompensa sperata da quei valorosi, e loro promessa, sarebbe, o illusi (delusi), cambiare il destino di un popolo straniero, porre fine al suo dolore? 49 imbelli: inermi. 50 Il forte… nemico: il popolo vincitore si

mescola col nemico battuto. 51 col novo… l’antico: l’antico dominatore (i Longobardi) si unisce al nuovo (i Franchi). 52 Dividono: è sottinteso “tra di loro”. 53 si posano… cruenti: insieme si riposano sui campi di battaglia insanguinati.

Analisi del testo La struttura e i contenuti Il coro può essere diviso in due parti chiaramente distinguibili. vv. 1- 30 Il coro si apre con la descrizione delle reazioni del popolo dei Latini, negativamente identificato dall’icastica espressione “volgo disperso”, di fronte alla rotta affannosa dei Longobardi, incalzati dalle armate dei Franchi. Il punto di vista della descrizione è quello delle popolazioni latine, da anni sottomesse, che improvvisamente vedono la possibilità di cambiare le loro sorti. Dalla sorpresa iniziale di fronte a un evento inaspettato, i Latini passano a reazioni contrastanti: desiderio, timore, infine una felicità mai provata prima («ignoto contento») e speranza che, con la cacciata dei Longobardi, la loro schiavitù possa avere fine. Ai loro movimenti lenti e smarriti (s’aduna...si sperde...s’avanza e ristà), che traducono la loro incertezza interiore, si contrappone nella scena il movimento convulso e frenetico dei Longobardi in fuga e quello, aggressivo e violento, dei Franchi. vv. 31 - 66 Il coro, in cui si manifesta la voce stessa del poeta, prende la parola con un’apostrofe rivolta proprio a quegli stessi Latini (Udite!), esortandoli a non illudersi che i Franchi possano portare loro quella libertà che non hanno mai conosciuto; non per questo, infatti, costoro hanno abbandonato l’amata patria, ma per perseguire i propri sogni di vittoria, che nulla hanno a che fare con il bene delle popolazioni assoggettate. Il coro si chiude con una serie di frasi brevi, che hanno il sapore di una amara sentenza: vincitori e vinti (in questo caso Franchi e Longobardi) si uniscono, mentre chi non ha saputo ribellarsi rimane «un volgo disperso che nome non ha».

830 Ottocento 21 Alessandro Manzoni


La guerra e i suoi risvolti umani Nelle sestine 6-9, Manzoni dà spazio a una rappresentazione epico-cavalleresca di tono quasi romantico («A torme, di terra passarono in terra/cantando giulive canzoni di guerra») dei guerrieri franchi, per designare i quali ricorre ben tre volte l’aggettivo “forte”, in evidente contrapposizione al volgo imbelle, passivo dei Latini. Dei Franchi si mette in luce l’eroica sopportazione di pericoli, fatiche, sofferenze. Ma, conformemente all’ idea manzoniana del “vero poetico”, lo sguardo del poeta cristiano focalizza anche gli aspetti psicologici più intimi, il ricordo nostalgico dell’amore delle spose che i guerrieri hanno dovuto abbandonare, al dolore delle quali va la pietà partecipe dello scrittore. Alla retorica delle imprese eroiche, delle gesta degli uomini grandi, si contrappone il desiderio di dar voce al mondo di sentimenti, emozioni, pensieri che la storia nasconde dietro i nudi fatti oggettivi. In questa visione corale si avverte molto chiaramente anche l’influsso del pensiero di Thierry, che Manzoni aveva conosciuto e frequentato a Parigi e che nelle sue opere si era concentrato sul problema delle masse, i cui movimenti lo storico deve interpretare, senza limitarsi a leggere la storia come una trama intessuta solo dai grandi uomini.

Un severo giudizio politico Nella seconda parte del coro emerge nettamente la posizione di Manzoni rispetto alle condizioni dell’Italia, non solo ai tempi dello scontro tra Longobardi e Franchi, ma anche nell’attualità. Secondo il poeta, che esprime qui un giudizio politico netto, le speranze di riscatto di un popolo risiedono unicamente nella sua capacità di costruirsi una propria identità: nessun intervento esterno potrà mai portare quella libertà e quella pace stabile che derivano solo dalla consapevolezza di essere un’unica entità nazionale, accomunata da uno stesso destino. Quasi prefigurazione degli italiani contemporanei di Manzoni, i Latini sono ridotti a un «volgo disperso che nome non ha», privo di un sentimento unanime e di un immaginario collettivo in cui riconoscersi (a differenza dei Franchi, le cui memorie sono vive, potenti e legate a consuetudini di vita comuni che sono costretti ad abbandonare). Essi sono pertanto condannati a una condizione di servitù perpetua, senza via d’uscita, come si avverte dalla struttura circolare del componimento, che si chiude sulle stesse note sconsolate con cui si era aperto: «arse officine», «solchi bagnati di servo sudor», «volgo disperso».

Le scelte stilistiche Come poeta, Manzoni ha chiaro un obiettivo: distanziarsi dai moduli classicistici e tentare la strada di una poesia che sia “popolare” anche, e soprattutto, per i fini di educazione morale e religiosa che egli assegnava alla letteratura già prima di affrontare il romanzo. Questa scelta si configura nel celebre coro che abbiamo appena letto, nell’opzione per un verso, il dodecasillabo, che non a caso sarà amato dalla poesia risorgimentale. Qui risulta particolarmente funzionale, per il ritmo cadenzato che lo caratterizza, alla suggestiva rappresentazione epica dell’avventura guerresca dei Franchi a cui si è fatto riferimento. Alla scelta del dodecasillabo si accompagna omologamente una sintassi prevalentemente paratattica, in cui prevalgono proposizioni brevi, con sequenze di verbi in rapida successione (fino al v. 30 tutti al presente: si desta… intende l’orecchio... solleva... S’aduna... si sperde... ecc.) che fanno immaginare con facilità a un lettore comune una scena quasi cinematografica. Nel lessico, inevitabilmente, persiste qualche traccia aulica, ma anche qui il poeta si sforza di utilizzare termini comprensibili alla maggioranza dei lettori.

Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

COMPRENSIONE 1. Chi è il protagonista di questo coro? Qual è il giudizio storico-politico che si evince dal testo? Rintraccia le espressioni più significative in tal senso. 2. Quale messaggio intende esprimere l’autore attraverso la rievocazione del passato? ANALISI 3. Ricerca nel testo e trascrivi le espressioni che si riferiscono al passato glorioso e ormai perduto del popolo latino: quale immagine ti sembra che voglia darne Manzoni? 4. Rileggi le strofe dedicate ai Franchi (vv. 31-54): quali aspetti della loro spedizione militare sono messi in luce?

La produzione tragica: il Carmagnola e l’Adelchi 3 831


LESSICO 5. Esamina il piano lessicale, raccogliendo esempi di termini aulici e di termini più comuni e quotidiani. STILE 6. In questo testo ci sono alcune similitudini: rintracciale e commentane l’efficacia espressiva. 76. Manzoni sceglie per questo coro il dodecasillabo: un metro usato nell’epica francese, costituito da due senari con forte cesura tra l’uno e l’altro e ritmi fissi. Leggi ad alta voce i primi versi del coro: quali effetti ti sembra produca questa scelta a livello ritmico?

Interpretare

SCRITTURA 8. Nel celebre coro dell’atto III dell’Adelchi, Manzoni stigmatizza l’intervento di un esercito straniero per liberare un popolo dall’oppressione. Ti sembra che l’analisi dello scrittore sia condivisibile? Pensi che il passo proposto possa costituire uno spunto di riflessione per comprendere le dinamiche dei teatri di guerra che stanno sconvolgendo gli equilibri tra Stati nella nostra epoca?

EDUCAZIONE CIVICA

nucleo

Costituzione

competenza 2

Alessandro Manzoni

T7

EDUCAZIONE CIVICA

«Sparsa le trecce morbide…»

PARITÀ DI GENERE equilibri

nucleo Costituzione competenza 3

#PROGETTOPARITÀ

Adelchi, coro del IV atto A. Manzoni, Tragedie, a cura di F. Ghisalberti, Rizzoli, Milano 2002

Informata dalla sorella Ansberga del nuovo matrimonio di Carlo con Ildegarda, Ermengarda cade in una specie di delirio, nel quale prima le sembra di vedere l’amato marito al fianco della prescelta, poi implora la consolazione della suocera Bertrada, che l’aveva voluta come sposa del figlio. Da questo penoso vaneggiamento, Ermengarda ritorna lucida per pochi istanti soltanto, appena il tempo per rendersi conto che sta giungendo per lei il sollievo della morte. L’atto si chiude con questo celebre coro che accompagna l’infelice figlia di Desiderio.

Sparsa le trecce morbide sull’affannoso petto, lenta le palme, e rorida di morte il bianco aspetto, 5 giace la pia1, col tremolo2 sguardo cercando il ciel. Cessa il compianto3: unanime4 s’innalza una preghiera: calata in su la gelida

La metrica Strofe di sei settenari liberi (rimano il secondo e il quarto), alternativamente sdruccioli e piani, tranne l’ultimo, tronco, che rima con quello delle altre strofe a due a due 1 Sparsa… giace la pia: la pia Ermengarda giace con le morbide trecce sciolte sul petto ansimante, con le mani (le palme) abbandonate e il volto pallido (il bianco aspetto) bagnato del sudore (rorida) della

832 Ottocento 21 Alessandro Manzoni

fronte, una man leggiera sulla pupilla cerula5 stende l’estremo vel6. 10

Sgombra7, o gentil, dall’ansia8 mente i terrestri ardori9; 15 leva all’Eterno un candido pensier d’offerta10, e muori: fuor della vita è il termine del lungo tuo martir11.

morte. La prima strofa è costruita su tre accusativi di relazione (o “alla greca”), di matrice classicheggiante. 2 tremolo: tremante. 3 il compianto: il pianto funebre delle suore. 4 unanime: corale. 5 pupilla cerula: occhi azzurri (pupilla indica per metonimia gli occhi). 6 l’estremo vel: l’ultimo velo. Indica il gesto pietoso della mano che chiude gli occhi della defunta.

7 Sgombra: la voce soggettiva è quella forse delle suore, forse del poeta.

8 ansia: affannata, angosciata; è un aggettivo riferito a mente.

9 i terrestri ardori: le passioni terrene. 10 leva… d’offerta: eleva a Dio un puro pensiero di offerta (sottinteso: del tuo pentimento, di te stessa). 11 fuor della vita… tuo martir: la fine (nel senso cristiano di “meta”) delle tue lunghe sofferenze (martir) si trova oltre il confine dell’esistenza terrena.


Tal della mesta, immobile 20 era quaggiuso il fato12: sempre un obblio di chiedere che le saria negato13; e al Dio de’ santi ascendere santa del suo patir14.

e dietro a lui la furia de’ corridor fumanti25; 45 e lo sbandarsi, e il rapido redir de’ veltri ansanti26; e dai tentati triboli27 l’irto28 cinghiale uscir;

Ahi! nelle insonni tenebre15, pei claustri16 solitari, tra il canto delle vergini17, ai supplicati altari18, sempre al pensier tornavano 30 gl’irrevocati dì19;

e la battuta polvere 50 rigar di sangue, colto dal regio stral29: la tenera alle donzelle il volto volgea repente, pallida d’amabile terror30.

quando ancor cara, improvida d’un avvenir mal fido, ebbra spirò le vivide aure del Franco lido, 35 e tra le nuore Saliche invidiata uscì20:

Oh Mosa errante31! oh tepidi lavacri32 d’Aquisgrano! Ove, deposta l’orrida maglia33, il guerrier sovrano scendea del campo a tergere34 60 il nobile sudor!

Quando da un poggio aereo21, il biondo crin gemmata22, vedea nel pian discorrere 40 la caccia affaccendata23, e sulle sciolte redini chino il chiomato sir24;

Come rugiada al cespite dell’erba inaridita35, fresca negli arsi calami fa rifluir la vita36, 65 che verdi ancor risorgono nel temperato albor37;

25

55

12 Tal… il fato: questo era l’immutabi-

22 il biondo crin gemmata: con i biondi

le destino qui in terra (quaggiuso) di quell’infelice. 13 sempre un obblio… negato: (quello, riferito al fato) di chiedere sempre un oblio che le doveva esser negato (saria, “sarebbe”). 14 santa del suo patir: santificata dalle sue sofferenze. 15 tenebre: notti. 16 pei claustri: per i chiostri (del convento). 17 vergini: suore, donne consacrate. 18 ai supplicati altari: presso gli altari cui si rivolgevano le suppliche dei fedeli (e soprattutto sue, di Ermengarda). 19 sempre… dì: tornavano sempre alla memoria i ricordi dei giorni che non erano stati richiamati (volontariamente dalla memoria). 20 quando… uscì: quando, ancora amata (dal marito), ancora ignara (improvvida) di un avvenire insidioso (mal fido), respirò, ebbra di felicità, l’aria rivitalizzante della terra di Francia, e si mostrò invidiata tra le spose saliche (cioè le mogli dei nobili appartenenti alla tribù franca dei Salii). 21 poggio aereo: terrazzo elevato.

capelli adorni di gemme (altro accusativo alla greca). 23 vedea… affaccendata: giù, per la pianura, vedeva correre qua e là cani e cacciatori (caccia, con l’astratto per il concreto), tutti presi nella battuta. 24 sulle sciolte… il chiomato sir: il sovrano dalle lunghe chiome (Carlo: oggetto di vedea; il soggetto è Ermengarda) chino sul cavallo che cavalcava a briglia sciolta. 25 e dietro… corridor fumanti: e (vedea) dietro di lui i cavalli impetuosi (la furia de’ corridor) sudati per lo sforzo. 26 lo sbandarsi... ansanti: (vedea) lo sbandare, per poi velocemente ritornare in gruppo (redir), dei cani da caccia (veltri) ansimanti. 27 dai tentati triboli: dai roveti frugati (dai cani per stanare la preda). 28 irto: irsuto, con le setole ritte. 29 e la battuta… stral: e (vedea il cinghiale), colpito dalla freccia scagliata dal re (regio stral), rigare di sangue la polvere calpestata. 30 la tenera… d’amabile terror: (Ermengarda) sensibile (la tenera) volgeva in modo repentino alle fanciulle del suo seguito

il volto, il cui pallore, che ne rivelava la paura, la rendeva ancora più bella (amabile). 31 errante: dal corso tortuoso. La Mosa è il fiume che scorre vicino ad Aquisgrana, dove Carlo Magno aveva posto la sua reggia. 32 tepidi lavacri: acque tiepide, termali. Presso la reggia di Aquisgrana sgorgavano delle acque termali. 33 l’orrida maglia: la maglia di ferro dell’armatura, orrida perché usata in battaglia, e quindi spaventosa; ma il termine può anche significare “irta, pungente”, appunto perché di ferro. 34 tergere: lavare. 35 Come… inaridita: come la rugiada posandosi sul cespo dell’erba inaridita. Nella lunga similitudine, che inizia al v. 61 e si conclude al v. 72 (sviluppandosi nell’arco di due strofe), Come ha il correlativo in tale (v. 67). 36 fresca… la vita: (la rugiada) fresca fa rifluire la vita negli steli (calami) riarsi, rinsecchiti. 37 che verdi… albor: (calami) che si risollevano, nuovamente rinverditi, quando giunge l’alba con la sua temperatura mite.

La produzione tragica: il Carmagnola e l’Adelchi 3 833


tale al pensier, cui l’empia virtù d’amor fatica, discende il refrigerio 70 d’una parola amica38, e il cor diverte ai placidi gaudii d’un altro amor39. Ma come il sol che, reduce40, l’erta infocata ascende41, 75 e con la vampa assidua l’immobil aura incende42, risorti appena i gracili steli riarde al suol43; ratto così dal tenue 80 obblio torna immortale l’amor sopito44, e l’anima impaurita assale, e le sviate immagini richiama al noto duol45. 85 Sgombra, o gentil, dall’ansia mente i terrestri ardori46; leva all’Eterno un candido pensier d’offerta, e muori: nel suol che dee la tenera 90 tua spoglia ricoprir47,

altre infelici dormono, che il duol consunse48; orbate spose dal brando49, e vergini 38 tale al pensier… amica: così discende il conforto (refrigerio) di una parola amica nell’animo (al pensier di Ermengarda) che il crudele potere dell’amore mette in affanno (l’animo, cioè, è prostrato dalle sofferenze dell’amore). 39 il cor… amor: volge il cuore altrove (diverte, “distrae”), verso la gioia tranquilla d’un altro tipo di amore (quello per Dio). 40 reduce: dopo essere ritornato. 41 l’erta infuocata ascende: sale lungo il suo ripido percorso infuocato. 42 con la vampa… incende: con il suo calore che sempre ritorna (vampa assidua) incendia l’aria immobile. 43 risorti… al suol: gli steli sottili che si erano appena ripresi, ora, nuovamente bruciati e piegati (riarde) a terra, si afflosciano. 44 ratto così… sopito: così rapidamente (ratto) torna inestinguibile (immortale) l’amor sopito dal momentaneo (tenue) oblio. 45 le sviate… al noto duol: richiama, a risvegliare un dolore già conosciuto (noto), quelle immagini che si era cercato di tenere lontane (sviate).

834 Ottocento 21 Alessandro Manzoni

indarno fidanzate50; 95 madri che i nati videro trafitti impallidir51. Te, dalla rea progenie degli oppressor discesa52, cui fu prodezza il numero53, 100 cui fu ragion l’offesa54, e dritto il sangue, e gloria il non aver pietà55, te collocò la provida sventura in fra gli oppressi: 105 muori compianta e placida; scendi a dormir con essi56: alle incolpate ceneri nessuno insulterà57. Muori; e la faccia esanime 110 si ricomponga in pace; com’era allor che improvida d’un avvenir fallace58, lievi pensier virginei solo pingea59. Così60 dalle squarciate nuvole si svolge il sol cadente61, e, dietro il monte, imporpora il trepido occidente62; al pio colono63 augurio 120 di più sereno dì. 115

46 Sgombra... ardori: o anima nobile, libera la tua mente angosciata dalle passioni terrene. 47 nel suol… ricoprir: nella terra che è destinata a ricoprire i tuoi giovani resti. 48 altre infelici… duol consunse: dormono altre donne infelici che il dolore consumò. 49 orbate spose dal brando: spose private dei mariti, uccisi in guerra (orbate… dal brando: rese vedove dalla spada). 50 vergini indarno fidanzate: fanciulle fidanzate inutilmente (perché il promesso sposo è morto prima delle nozze). 51 madri… impallidir: madri che videro i propri figli scolorire dopo che erano stati trafitti. 52 Te, dalla rea… discesa: te, che discendi dalla stirpe colpevole (rea) degli oppressori. Il pronome Te, in anafora e in posizione eminente all’inizio delle due strofe, è oggetto di collocò (e il soggetto è la provida sventura). 53 cui fu prodezza il numero: il cui eroismo derivava dall’essere più numerosi.

54 cui fu ragion l’offesa: la cui ragione si fondava sull’aggressione violenta. 55 e dritto… pietà: e lo spargimento di sangue era considerato un diritto e la crudeltà un orgoglio. 56 con essi: con gli oppressi. 57 alle incolpate… insulterà: nessuno profanerà le tue ceneri senza colpa, innocenti. 58 improvida… fallace: incapace di prevedere un avvenire ingannevole; cfr. vv. 31-32. 59 lievi pensier… pingea: si dipingeva, si immaginava solo sereni pensieri di purezza (quando ancora non era andata sposa a Carlo). 60 Così: allo stesso modo. È l’attacco della similitudine del sole che squarcia le nubi, sviluppata nella strofa successiva. 61 si svolge… cadente: si libera il sole che tramonta. 62 imporpora... occidente: tinge di rosso il cielo a ovest, tremolante di luce. 63 al pio colono: al contadino devoto e insieme fiducioso.


Analisi del testo La struttura del coro Il testo presenta una struttura particolarmente mossa: si intersecano parti descrittive e narrative, interventi riflessivi ed esortazioni rivolte alla principessa morente. Altrettanto mossa è la struttura temporale, in cui si alternano passato e presente, mentre il futuro è rappresentato dalla vita eterna in cui Ermengarda si prepara a entrare. Il coro può essere suddiviso in quattro parti. vv. 1-24 Nelle prime due strofe viene descritta l’agonia e la morte di Ermengarda, circondata dalle suore in preghiera. La terza e la quarta strofa ospitano un intervento del coro (in cui si avverte la presenza dell’autore), che esorta la giovane a lasciarsi alle spalle le passioni e i tormenti terreni per offrirsi all’Eterno e avere finalmente pace. vv. 25-60 Attraverso un flashback si rievoca il continuo riemergere – nella pace del monastero e senza che la volontà di Ermengarda possa opporsi in alcun modo – dei ricordi legati alla sua passata vita di sposa e di regina. Ricordi che si concretizzano in particolare nella scena della caccia e nel ritorno dell’amato sposo dalla guerra. vv. 61-84 Una lunga similitudine, riportandoci al momento presente, descrive lo stato d’animo affranto e turbato di Ermengarda, combattuto fra l’amore di Dio, al quale la sua anima ormai sta per congiungersi, e l’amore terreno, il cui ricordo continuamente riaffiora. vv. 85-120 Nella parte finale del coro, il poeta riprende la parola per rinnovare l’esortazione iniziale all’infelice principessa longobarda, invocando per lei la consolazione e la pace che solo la morte saprà portarle.

Il tormento amoroso di un personaggio lacerato tra essere e dover essere Al pari del fratello Adelchi, anche Ermengarda è un personaggio in perenne conflitto con sé stessa e con il mondo di fredde macchinazioni politiche di cui, suo malgrado, anch’essa è parte. Questo aspetto emerge anche nel coro che celebra la sua morte, dove una lunga sequenza è dedicata al ricordo dei giorni felici del matrimonio con Carlo; ma sono memorie involontarie (irrevocati dì, sviate immagini), che si presentano con insistenza alla mente tormentata di Ermengarda, trasportate dalla forza di una passione che non accetta di morire, per quanto sia contraria ai codici d’onore e agli interessi politici del popolo longobardo. Solo nel vaneggiamento dell’agonia la giovane può rivivere fin nei dettagli l’amore per Carlo, quei terrestri ardori dei quali anche il poeta la esorta a liberarsi. Le strofe in cui prende vita il ricordo degli irrevocati dì rappresentano quasi un momento di libertà concesso all’inconscio di Ermengarda, che può così emergere dando voce a un sentimento fino a quel momento sopito e nascosto dietro le convenienze sociali e politiche.

La rimozione dell’eros Ma la passione di Ermengarda non viene negata soltanto per le implicazioni politiche inopportune. Nella scena che precede immediatamente il coro (IV, I), durante il suo delirio, la giovane parla del sentimento per Carlo, definendo il suo un amor tremendo (v. 148), e confessa di non aver mai rivelato al marito la pienezza del proprio amore per lui: «Tu nol conosci ancora; oh! tutto ancora / non tel mostrai: tu eri mio; secura / nel mio gaudio io tacea; né tutta mai / questo labbro pudico osato avria / dirti l’ebrezza del mio cor segreto». La forza di questa passione si ripresenta anche nel coro: nel ricordo della principessa morente, Carlo appare nella sua virile fisicità, vista attraverso gli occhi innamorati della moglie. Le scene che Ermengarda rivive (la caccia guidata da Carlo e la scena di Aquisgrana, dove il sovrano, reduce dalla guerra, si reca a «tergere il nobile sudor») sono pervase da una sottile ma evidente componente erotica. Subito dopo, quasi consapevole di aver dato troppo spazio a una dimensione “minacciosa” (quella dell’eros appunto), il poeta riconduce il ricordo tormentoso dell’amato da parte di Ermengarda entro la struttura di una preziosa similitudine, perfetta nell’elegante equilibrio delle immagini proposte e ormai lontana dal pericoloso territorio del ricordo vissuto, con tutte le sue implicazioni emotive. In questo modo viene domata la femminilità troppo impetuosa e accesa della sua sfortunata eroina, la cui mente, nel momento del trapasso, torna a essere abitata, non a caso, da «lievi pensier virginei».

La produzione tragica: il Carmagnola e l’Adelchi 3 835


Il tema della provida sventura Nell’ultima parte del coro il poeta sublima e purifica la passione di Ermengarda, proiettandola su un orizzonte ultraterreno, dove la giovane può abbandonare i terrestri ardori e ricongiungersi al destino di altre infelici che, come lei, sono state private in vita delle gioie dell’amore. È qui proposto il motivo della provida sventura, che pone Ermengarda dalla parte degli oppressi e fa di lei una vittima della cieca sopraffazione operata ai suoi danni sia dal marito Carlo (che l’ha ripudiata per calcolo politico) sia dal padre Desiderio (che prima l’ha destinata a un matrimonio di interesse e poi le ha negato persino di ammettere il suo amore per Carlo). In questo modo la redime dalle colpe di cui si è macchiata la sua stirpe di oppressori, i Longobardi «cui fu ragion l’offesa, / e dritto il sangue», consegnandola all’eternità di un ricordo libero dall’odio e dal risentimento («muori compianta e placida»; «alle incolpate ceneri / nessuno insulterà»). Con la breve similitudine dell’ultima strofa, il coro si chiude in un’atmosfera pervasa di pace, che sembra voler cancellare il segno della passione travolgente cui si era dato spazio nella parte centrale del testo. Lo svenimento di Ermengarda in un disegno a matita di Giuseppe Bezzuoli (1784-1856).

Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

PARAFRASI 1. Individua i versi (si tratta di due strofe consecutive) in cui emerge in modo più evidente il tema della provida sventura e fanne la parafrasi. COMPRENSIONE 2. Quale sventura ha colpito Ermengarda e perché l’autore la definisce provida? 3. Per quali ragioni Ermengarda può essere considerata un “doppio” del fratello Adelchi? ANALISI 4. Segnala le parti del testo in cui sono presenti interventi diretti dell’autore. 5. Individua gli aggettivi più significativi con cui Manzoni connota il personaggio di Ermengarda e per ognuno di essi cerca di spiegare il motivo per cui sono stati scelti.

Interpretare

SCRITTURA 6. Nei paragoni tracciati dal poeta, un posto centrale è occupato dall’immagine del sole: nella prima, lunga, similitudine l’astro compare a rappresentare l’ardore bruciante della passione amorosa, che toglie all’infelice Ermengarda la pace effimera donatale da una parola amica; ma nella seconda similitudine, quella con cui il coro si chiude, il sole viene ad assumere tutt’altro valore. Quale, a tuo parere? Ti sembra che questo slittamento di significato rispecchi in qualche modo il messaggio contenuto nel coro? Motiva la tua risposta in un testo di max 15 righe.

836 Ottocento 21 Alessandro Manzoni


TESTI A CONFRONTO 7. Ermengarda e Napoleone (➜ T3 ) sono due personaggi che hanno conosciuto il fulgore della gloria e che Manzoni sceglie di ritrarre nel momento del declino, quando su di loro grava il peso insostenibile del ricordo. Per entrambi la sventura che li emargina dalla storia è a suo modo provvidenziale. Prova a delineare un confronto tra le due figure. SCRITTURA EDUCAZIONE CIVICA

nucleo

PARITÀ DI GENERE equilibri #PROGETTOPARITÀ

Costituzione

competenza 3

8. Ermengarda è una donna ripudiata dal marito, sacrificata alle logiche del potere e della ragion di stato; una donna vittima di piani di guerra, che ama ma che è costretta a nascondere il suo segreto inconfessabile, il suo amor tremendo. Esprimi le tue riflessioni sul ruolo, troppo spesso subordinato, che continuano ancora oggi a ricoprire le donne anche nelle società più evolute come quella occidentale.

Alessandro Manzoni

T8

Il testamento spirituale di Adelchi

EDUCAZIONE CIVICA

nucleo Costituzione competenza 1, 3

Adelchi, atto V, scena VIII, vv. 336-362 A. Manzoni, Tragedie, a c. di F. Ghisalberti, Rizzoli, Milano 2002

Siamo all’epilogo della tragedia: la guerra con i Franchi è irrimediabilmente perduta. Ferito a morte, Adelchi viene condotto al cospetto di Carlo, dove incontra anche Desiderio, ormai prigioniero del re nemico. Le sue ultime parole sono per il padre, perché non si rammarichi del regno perduto.

ADELCHI Cessa i lamenti, cessa o padre, per Dio! Non era questo il tempo di morir1? Ma tu, che preso2 vivrai, vissuto nella reggia3, ascolta. 340 Gran segreto è la vita, e nol comprende che l’ora estrema4. Ti fu tolto un regno: deh! nol pianger; me ’l credi5. Allor che a questa

La metrica Endecasillabi sciolti 1 Non era… morir?: non è forse quello della battaglia il momento giusto per morire? È una domanda retorica. 2 preso: prigioniero. 3 vissuto nella reggia: dopo aver vissuto nelle condizioni di re. 4 e nol… estrema: e non lo capisce (il mistero della vita) che l’ultima ora, quella della morte. 5 me ’l credi: credimelo (credi a me riguardo a questo).

Adelchi sconfitto e ferito a morte davanti a Carlo Magno e al padre Desiderio in un’illustrazione del 1881 circa.

La produzione tragica: il Carmagnola e l’Adelchi 3 837


ora tu stesso appresserai6, giocondi si schiereranno al tuo pensier dinanzi 345 gli anni in cui re non sarai stato7, in cui né una lagrima pur notata in cielo fia contro te8, né il nome tuo saravvi con l’imprecar de’ tribolati asceso9. Godi che re non sei; godi che chiusa 350 all’oprar t’è ogni via10: loco a gentile, ad innocente opra non v’è11: non resta che far torto, o patirlo12. Una feroce forza il mondo possiede, e fa nomarsi dritto13: la man degli avi insanguinata 355 seminò l’ingiustizia; i padri l’hanno coltivata col sangue; e omai la terra altra messe non dà. Reggere iniqui dolce non è14; tu l’hai provato: e fosse15; non dee finir così16? Questo felice17, 360 cui la mia morte fa più fermo il soglio18, cui tutto arride, tutto plaude e serve19, questo è un uom che morrà.

6 appresserai: ti avvicinerai. 7 giocondi… stato: si schiereranno felici davanti alla tua memoria gli anni in cui non sarai stato re. 8 in cui… contro te: nei quali neppure una lacrima sarà (fia) annoverata in cielo come prova contro di te. 9 né… asceso: e il tuo nome non vi sarà (saravvi) salito (in cielo), accompagnato dalle maledizioni di genti vessate (tribolati). 10 godi che chiusa… ogni via: sii contento che ti sia preclusa ogni possibilità di azione.

11 loco… non v’è: non c’è alcuna possibilità di un’azione che sia onesta e priva di colpa. 12 non resta… patirlo: tutto ciò che si può fare è infliggere un torto, oppure subirlo. 13 fa nomarsi dritto: si fa chiamare diritto, legge. 14 Reggere… non è: non può dare gioia governare con la forza (iniqui come predicativo del soggetto); altri spiegano iniqui come “persone ingiuste” (in quanto abituate a leggi inique).

15 e fosse: e se anche fosse (sottinteso dolce). 16 non dee finir così?: non è forse destino che finisca in questo modo (cioè con la morte)? 17 Questo felice: quest’uomo felice (re Carlo). 18 cui… il soglio: a cui la mia morte rende più stabile il trono. 19 cui tutto… e serve: a cui tutto va per il verso giusto, cui tutti plaudono e si sottomettono.

Analisi del testo La profezia di Adelchi Adelchi è giunto al momento supremo della morte ed è qui che assistiamo a un ribaltamento dei ruoli tradizionali, fatto tanto più clamoroso in una società come quella dei Longobardi, profondamente legata a norme e tradizioni ancestrali. Infatti, è il figlio che indica al padre la via da percorrere, che gli fornisce gli strumenti per discernere il vero dal falso. Adelchi, lo sconfitto, esorta il padre a non lamentarsi per la sorte toccatagli: in primo luogo perché era inevitabile («Non era questo / il tempo di morir?») e poi perché quella che a occhi mondani può sembrare una sventura, nella visione chiarificatrice che si acquista in punto di morte si rivela invece come un dono prezioso. Infatti, l’esercizio del potere non può in alcun modo andare disgiunto dall’ingiustizia e dalla sopraffazione («non resta che far torto o patirlo»); meglio dunque rinunciare a ogni azione politica e accettare la sconfitta come una provida sventura.

838 Ottocento 21 Alessandro Manzoni


Adelchi propone, insomma, una visione in cui perdere diventa sinonimo di vittoria: è soltanto nella prospettiva della sconfitta che all’uomo è consentito di vivere e agire senza arrecare dolore al prossimo. Chi vince, e proprio in ragione di questa vittoria detiene il potere, ineluttabilmente diventa strumento di sopraffazione ai danni degli sconfitti e dei sottomessi. Per questo Adelchi ammonisce il padre, dicendogli che nel momento supremo i soli ricordi lieti per lui saranno quelli degli anni in cui non è stato re (vv. 342-348). Il principe sconfitto arriva addirittura ad auspicare la totale mancanza di qualsiasi azione: il padre non solo deve rallegrarsi di aver perduto il trono («Godi che re non sei»), ma anche e soprattutto del fatto di trovarsi nell’impossibilità di fare alcunché, di prendere qualsiasi decisione («godi che chiusa / all’oprar t’è ogni via»). Mettersi in disparte, rinunciare all’azione, è l’unica possibilità per l’uomo di poter aspirare all’innocenza: «loco a gentile, / ad innocente opra non v’è». Se si agisce, in qualsiasi modo lo si faccia e qualunque sia il ruolo assegnato dal destino, si arreca dolore a qualcuno e ineluttabilmente si diventa artefici di ingiustizia. Violenza e sopraffazione sono inevitabili per chi voglia prendere parte attiva al gioco della storia: questa è la triste norma insita nel destino di ogni popolo.

La visione manzoniana della storia Manzoni mette in bocca ad Adelchi (vv. 352-357) quella che in realtà è la sua visione della storia, la stessa che prenderà forma anche nel romanzo: una catena inesorabile di mali e ingiustizie dominati da una feroce forza, che gli uomini più scaltri hanno imparato a camuffare sotto le spoglie della legge («e fa nomarsi dritto»). Ecco allora che la sconfitta, la prigionia e la morte, così come è stato anche per Ermengarda, diventano provida sventura: Carlo il vittorioso, il «felice, [...] cui tutto arride, tutto plaude e serve», in realtà porta già in sé i segni della morte, anche se la gloria effimera del mondo gli impedisce di riconoscerli.

Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

SINTESI 1. Qual è la concezione del potere espressa da Adelchi? Sintetizzala in max 10 righe. COMPRENSIONE 2. Quale particolare condizione dà ad Adelchi il diritto di elargire a suo padre Desiderio consigli e moniti su come condurre la propria esistenza? 3. Perché gli anni che Desiderio avrà vissuto non da re saranno impressi nella sua memoria come giocondi? 4. Alla luce del discorso di Adelchi delinea le caratteristiche di Desiderio e del figlio. ANALISI 5. Quale idea della giustizia terrena ti sembra emerga dalle parole di Adelchi? Cerca elementi del testo a sostegno della tua risposta. Ti sembra che la posizione di Adelchi rispecchi anche quella di Manzoni? 6. In quale punto del testo è evidente il passaggio dal piano politico delle argomentazioni al piano religioso?

Interpretare EDUCAZIONE CIVICA

nucleo

Costituzione

competenza 1, 3

ESPOSIZIONE ORALE 7. Nei versi 349-352 Adelchi afferma che nel mondo degli uomini dominato dalla violenza non c’è spazio per un’azione generosa; non resta quindi alternativa che esercitare la violenza e l’ingiustizia o esserne vittime. Che cosa pensi di questa affermazione? Sei d’accordo sulla visione manzoniana della storia o ritieni che sia possibile esercitare giustizia?

La produzione tragica: il Carmagnola e l’Adelchi 3 839


4

I promessi sposi 1 La scelta del romanzo come “letteratura del vero”

VIDEOLEZIONE

Michele Fanoli, La partenza dei promessi sposi, olio su tela, 1831 (Padova, Museo Civico).

Scrivere un romanzo in Italia: una scelta coraggiosa Manzoni mette mano alla prima stesura del suo romanzo il 24 aprile 1821, ma il lavoro di ricerca e documentazione storica era cominciato assai prima. Grazie ai suoi scritti poetici, Manzoni in quegli anni è già un nome di spicco nel mondo letterario italiano: appare perciò di particolare rilevanza la sua scelta di accostarsi al genere del romanzo, oggetto di non pochi pregiudizi in un panorama arretrato come il nostro durante il primo Ottocento. Il romanzo era infatti considerato dalla cultura ufficiale un genere “basso”, popolare nel senso deteriore del termine. A questo pregiudizio si aggiungevano timori di carattere moralistico: le avventure e passioni narrate dai romanzi europei già nel Settecento avrebbero potuto avere effetti deleteri sugli animi dei lettori più sensibili, soprattutto sulle giovani lettrici. Perché dunque un letterato già affermato come Alessandro Manzoni decide di utilizzare una forma letteraria mal accetta nelle alte sfere della cultura nazionale? Le ragioni della scelta manzoniana sono molteplici: innanzitutto nel genere del romanzo Manzoni trova lo spazio più appropriato per tradurre in atto la sua poetica del «vero», da perseguirsi attraverso l’«interessante» e con il fine dell’«utile» (come scrive nella Lettera sul Romanticismo del 1823 ➜ D4c ); una definizione nella quale si riassume perfettamente quell’ideologia romantica nella quale Manzoni si era riconosciuto fin dal 1816, al primo divampare della polemica con i classicisti. Il genere del romanzo, inoltre, offriva maggiore libertà rispetto ai generi codificati dalla tradizione, sia nella scelta dei contenuti sia dal punto di vista strutturale e linguistico: con le loro rigide convenzioni formali, la lirica e il dramma non erano adeguati a rappresentare una realtà della quale Manzoni vuole rendere tutta la complessa orditura storica, sociale, economica e morale. Proprio perché sceglie il romanzo, Manzoni potrà dare dignità di protagonisti a due umili popolani lombardi, che appartengono a quel “volgo” che nelle tragedie di fatto rimaneva sullo sfondo. Una nuova idea di romanzo storico Manzoni sceglie di scrivere un romanzo storico; iniziatore del genere è Walter Scott: ma rispetto al modello, il romanzo manzoniano è ispirato rigorosamente al principio della verosimiglianza e ha l’obiettivo di fornire ai lettori occasioni conoscitive e di riflessione morale. A questo scopo va ricondotto l’uso della storia nell’opera: non semplice coloritura esotica né sollecitazione della fantasia e del gusto per l’avventura dei lettori, ma appunto strumento per fornire conoscenza e soprattutto per sviluppare una riflessione che possa essere

840 Ottocento 21 Alessandro Manzoni


valida anche per il presente. Da qui deriva il netto rifiuto del “romanzesco”, a cui Manzoni contrappone uno scrupolo rigoroso nel ricercare la verosimiglianza; al punto che, come scrive in una lettera a Fauriel del 1821, i personaggi, compresi quelli di invenzione, appaiano «così simili alla realtà che li si possa credere appartenenti ad una storia vera appena scoperta». Una storia vista “dall’interno” Nella Lettre à Monsieur Chauvet (➜ D4b ) Manzoni indica come compito precipuo della poesia la rappresentazione di una storia vera, ma vista “dall’interno”, in tutti quegli aspetti nascosti che sono patrimonio dell’intima esistenza del soggetto, ma che vengono inevitabilmente trascurati dal lavoro dello storiografo, attento esclusivamente ai fatti. Il poeta non deve dunque fermarsi alla superficie degli eventi, ma deve rappresentare quello che i personaggi «hanno pensato, i sentimenti che hanno accompagnato le loro decisioni e i loro progetti, i loro successi e i loro scacchi». Questo programma artistico si esplicita al massimo nel romanzo, nel quale i personaggi sono rappresentati nella complessità del loro mondo interiore: si pensi a figure come la monaca di Monza o l’Innominato, in cui Manzoni dà prova di una straordinaria capacità di analisi morale e psicologica, nella quale si avverte l’influenza dei moralisti francesi del Sei-Settecento, a lui ben noti.

2 Le fonti e i modelli letterari Le fonti storiche Manzoni fonda la sua opera su una rigorosa documentazione storica sull’epoca in cui è immaginata la vicenda dei Promessi Sposi: tra le fonti principali a cui lo scrittore attinge vanno segnalate la secentesca Storia patria del canonico Giuseppe Ripamonti (1573-1643) (da cui ricava anche la storia della monaca di Monza e dell’Innominato); il saggio “Sul commercio dei commestibili e caro prezzo del vitto” dell’economista Melchiorre Gioia (1767-1829), che riporta le gride contro i bravi; gli scritti giuridici degli illuministi lombardi; il Ragguaglio del medico Alessandro Tadino (1580-1661) sull’origine della peste. Ma innumerevoli furono i documenti e le cronache del tempo in cui il romanzo è ambientato consultate dall’autore. Il modello del romanzo storico Uno dei modelli letterari di maggior importanza per Manzoni sono i romanzi storici di Walter Scott: la lettura di Ivanhoe precede di poche settimane l’inizio della stesura del Fermo e Lucia. Mentre però Walter Scott (➜ C17) nei suoi romanzi non si preoccupa tanto dell’esattezza del dato documentario, quanto piuttosto di rendere genericamente una certa atmosfera – il “colore” dell’epoca storica chiamata a rivivere sulle pagine (in modo analogo a una certa pittura di genere assai in voga nell’Ottocento) – Manzoni, come si è detto, è estremamente attento a una rigorosa fedeltà al vero storico. Inoltre, ben diversa è la levatura artistica della sua opera, animata da una tensione di carattere etico quasi del tutto assente dal Medioevo oleografico dei romanzi dell’autore di Ivanhoe: nei Promessi sposi la storia particolare dei personaggi, inserita nel contesto della grande Storia, alimenta una riflessione più ampia sull’uomo e il suo destino, sul rapporto tra bene e male, sulla giustizia. Il modello del romanzo di formazione Il “romanzo di formazione” si fonda sull’idea di un personaggio che, da una situazione di partenza, vive una serie di avventure che lo portano a subire una trasformazione sostanziale, identificabile come un processo di crescita (di “formazione”, appunto). I promessi sposi 4 841


Uno schema del genere è sicuramente riconoscibile anche nei Promessi sposi. Renzo e Lucia, loro malgrado, vengono strappati dall’ambiente ristretto e sicuro in cui vivevano: il piccolo sogno di felicità che si stavano costruendo è spazzato via dalla sopraffazione di un potente e per essi inizia una trafila obbligata di peripezie che, alla fine, li vedrà profondamente cambiati. Essi dovranno affrontare una serie di prove (per Renzo saranno l’avventurarsi nella grande città con tutte le sue insidie, l’incontro con le ambiguità e i soprusi delle istituzioni, la fuga, la peste; per Lucia l’incontro con un personaggio ambiguo e misterioso come la monaca di Monza, il rapimento, l’orribile notte da prigioniera nel castello dell’Innominato), al termine delle quali ciascuno dei due raggiunge un proprio personale patrimonio di saggezza. Il modello del romanzo gotico e d’avventura Nel passaggio dalla prima versione del romanzo (il Fermo e Lucia) all’edizione dei Promessi sposi del 1827, Manzoni sceglie di attenuare i toni forti e “goticheggianti” di certe scene; tuttavia il modello del romanzo gotico (o “nero”) di provenienza inglese è ancora riconoscibile nella redazione finale dei Promessi sposi (1840), in particolare associato alle peripezie di Lucia una volta separatasi dal fidanzato. Lucia rimanda allo stereotipo romanzesco della fanciulla innocente perseguitata dal potente malvagio e corrotto, un modello assai in voga nella letteratura di gusto nordico del Sette-Ottocento; e un’atmosfera “gotica” si ritrova anche nel disegno di certi ambienti, quali ad esempio il monastero della monaca di Monza (del quale si fa intendere che sia stato teatro di un delitto cruento mai scoperto) o ancor più il castello dell’Innominato (avvolto com’è in una sinistra aura di mistero che allude a tutte le nefandezze che vi sono state perpetrate ➜ T10c ). Tuttavia nei Promessi sposi questi elementi non hanno uno scopo puramente “pittoresco”: Manzoni trasforma ambienti e situazioni canonici del romanzo gotico in quelli che il critico russo Michail Bachtin ha definito “cronotopi”. «Nel cronotopo – spiega Raimondi – la fusione dei connotati spaziali e temporali d’una determinata epoca si attua in un tutto dotato di senso e di concretezza». Ecco che allora il castello dell’Innominato non funge semplicemente da sfondo suggestivo alle disavventure della protagonista, come avveniva invece nei romanzi di Ann Radcliffe

Lucia e Renzo, illustrazioni di Francesco Gonin dall’edizione del 1840 dei Promessi sposi.

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e di Horace Walpole, celebri rappresentanti della moda “gotica” tardo-settecentesca: la descrizione di Manzoni rinvia a tutto un mondo, alle sue consuetudini, i suoi princìpi e la sua morale, diventando così per i lettori uno “spioncino” attraverso cui osservare e comprendere un’epoca intera.

3 Una storia redazionale lunga e tormentata Il romanzo di una vita I promessi sposi costituiscono per Manzoni il lavoro di un’intera vita artistica. L’elaborazione del romanzo è infatti lunga e complessa e si snoda attraverso tre diverse versioni (1821-23, 1827, 1840-42) delle quali l’autore non sembrava mai soddisfatto, tanto da intervenire perfino a modificare le bozze in corso di stampa. Particolarmente tormentata fu l’attività di correzione sul piano linguistico: un terreno, quest’ultimo, particolarmente spinoso in un paese come l’Italia, in cui mancava una lingua comune che fosse da un lato abbastanza popolare da essere compresa da tutti i lettori e, dall’altro lato, adeguata a un’opera di alto valore letterario. Il Fermo e Lucia La prima stesura del romanzo inizia nell’aprile 1821 e termina nel settembre 1823, con un’interruzione dovuta alla composizione dell’Adelchi. L’opera si presenta divisa in quattro tomi, composti da un numero variabile di capitoli tutti titolati; è priva di titolo generale, anche se da una lettera di Manzoni all’amico Ermes Visconti (1784-1841) si può desumere che lo scrittore avesse l’intenzione di designare il romanzo con il nome dei due protagonisti, Fermo e Lucia. Questa prima versione del romanzo rimarrà manoscritta; a lungo sconosciuta al vasto pubblico, sarà pubblicata soltanto agli inizi del Novecento. Dal Fermo e Lucia ai Promessi sposi: due romanzi diversi? Terminata la prima stesura del romanzo, praticamente subito (marzo 1824) Manzoni si accinge a un lavoro di revisione radicale, che si traduce in una vera e propria riscrittura dell’opera. Essa porta alla pubblicazione della prima edizione del romanzo, nel 1827, con titolo I promessi sposi e sottotitolo Storia milanese scoperta e rifatta da Alessandro Manzoni. Questa edizione è comunemente indicata come la “ventisettana”. Queste due versioni sono tanto differenti l’una dall’altra che c’è addirittura chi ha voluto vedervi due romanzi distinti, frutto di intenzioni autoriali del tutto diverse (Nigro). Le differenze riguardano sia la struttura, sia la lingua sia il tono complessivo dell’opera.

La struttura Mentre nel Fermo e Lucia le rispettive storie vissute dai due protagonisti vengono giustapposte in due blocchi successivi (Manzoni racconta prima le disavventure occorse a Lucia, per poi passare alle peripezie di Fermo) nei Promessi sposi le due serie di vicende sono intersecate l’una nell’altra, con un effetto di maggior verosimiglianza. Alcune parti vengono ridotte considerevolmente: in particolare la fosca storia della monaca di Monza nel Fermo e Lucia è molto più dettagliata (quasi un “romanzo nel romanzo”) così come la vita del Conte del Sagrato (poi ribattezzato l’Innominato). Vengono eliminati molti interventi e digressioni di tipo saggistico e la lunghissima parte dedicata al processo agli untori, che nell’edizione del 1840 Manzoni sceglierà di pubblicare in un’appendice separata.

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Per contro, nella ventisettana Manzoni aggiunge alcuni episodi nuovi: la celebre scena della notte di Renzo presso l’Adda (XVII ➜ T10b OL), quella della visita alla sua vigna devastata (XXXIII ➜ T10d2 ) e, in chiusura del romanzo, la pagina sulla pioggia purificatrice (XXXVII). Tutti passi piuttosto brevi, ma densi di importanti significati.

La lingua Nel Fermo e Lucia Manzoni non si è ancora affrancato dalla matrice lombarda, scegliendo una soluzione di compromesso che porta a esiti di “ibridazione linguistica”. L’autore per primo non ne è soddisfatto, visto che definisce la lingua del Fermo e Lucia un «composto indigesto di frasi un po’ lombarde, un po’ toscane, un po’ francesi, un po’ anche latine». Invece nella ventisettana Manzoni si orienta decisamente verso il toscano, anche se per ora è quello appreso esclusivamente dai libri e dai vocabolari.

Le tonalità narrative Nel Fermo e Lucia si avverte ancora un tono piuttosto assertorio e didascalico. L’impianto ideologico dell’opera tende a separare nettamente il bene dal male, senza sfumature e senza lasciare troppo spazio a ombre e complessità. Rispetto al Fermo e Lucia, nei Promessi sposi l’intento pedagogico che il narratore si assume diventa più sfumato, come una sorta di sottofondo implicito, che non emerge mai se non nei toni lievi e obliqui di una sottile ironia. Si avverte inoltre un allontanamento dai toni eccessivi e dalle semplificazioni tipiche del romanzo storico alla Scott e dal repertorio di immagini e situazioni di gusto gotico (➜ T15 OL). Nella ventisettana è anche dato un più ampio spazio alla dimensione narrativa a scapito dell’elemento documentaristico, che è ancora primario nel Fermo e Lucia. Se là si voleva tratteggiare un certo quadro di costume, fornendo ai lettori il maggior numero di dettagli possibile con un intento quasi saggistico, nei Promessi sposi ogni aspetto della Storia è presentato attraverso la vita e le azioni dei personaggi, che vengono maggiormente approfonditi sotto il profilo psicologico. Dalla “ventisettana” alla “quarantana” Nel 1840 Manzoni pubblica l’edizione definitiva dei Promessi sposi, quella che leggiamo oggi. Tra la ventisettana e la cosiddetta “quarantana” non vi sono le marcate differenze che separano il Fermo e Lucia dalle redazioni successive. Manzoni attua nella nuova edizione una revisione di carattere sostanzialmente linguistico, operata dopo un viaggio a Firenze fatto nel 1827, subito dopo la pubblicazione del romanzo. Un viaggio che è per lui una vera e propria rivelazione e che lo porta alla decisione di intraprendere quella che lui stesso definisce, con un’espressione ormai celeberrima, «la risciacquatura in Arno», vale a dire un capillare lavoro di vaglio linguistico volto ad avvicinare la lingua del romanzo al fiorentino parlato dalle classi colte. Inoltre, in appendice all’edizione quarantana, viene pubblicata anche la Storia della colonna infame (➜ PAG. 855). Da notare che la “quarantana” viene illustrata dall’incisore Francesco Gonin, seguendo le precise direttive dell’autore, che intendeva potenziare il messaggio del romanzo attraverso le immagini suggerendone persino la collocazione nella pagina.

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Le principali differenze tra le diverse redazioni del romanzo FERMO E LUCIA

I PROMESSI SPOSI EDIZIONE 1827

I PROMESSI SPOSI EDIZIONE 1840

SEQUENZE DELL’INTRECCIO

dopo la separazione, le storie vissute dai due protagonisti sono raccontate in due blocchi distinti

dopo l’allontanamento dal paese, le due serie di avventure si intrecciano l’una nell’altra (le peripezie di Renzo all’interno delle vicende di Lucia)

ASPETTI DELLA STRUTTURA E DEI CONTENUTI

• la storia della monaca di Monza è molto ampia e dettagliata • concessioni al “romanzo nero” o al gusto romantico (ad esempio la morte di don Rodrigo) • un’ampia parte è riservata al processo agli untori

• i particolari più scabrosi e gli aspetti crudi della storia di Gertrude sono taciuti • scompaiono episodi gotici o di “facile” romanticismo • sono aggiunte parti storico-documentarie secentesche (quelle relative alla peste confluiscono nell’Appendice storica, poi Storia della colonna infame)

NARRATORE

interviene con giudizi e commenti critici

interviene in modo circoscritto, con commenti più sfumati, segnati dall’ironia costante

LINGUA

forte “ibridazione linguistica” (sul toscano letterario si innestano elementi lombardi, apporti dialettali, espressioni toscane, francesi e latine)

orientamento deciso verso il toscano libresco e arricchito dalla consultazione dei vocabolari

profonda revisione linguistica, basata sul toscano vivo parlato dai fiorentini colti del suo tempo

vengono evitate le semplificazioni tipiche di genere e delle situazioni del repertorio romantico

• si attua un profondo lavoro di analisi psicologica e di costruzione dei singoli personaggi e delle relazioni reciproche • l’intento morale è implicito e sfumato nell’ironia

TONALITÀ NARRATIVE

prevalgono le contrapposizioni nette bene-male e un sostanziale tono didascalico

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4 L’espediente dell’anonimo e lo statuto del narratore Un espediente tradizionale utilizzato in modo nuovo Manzoni immagina di riscrivere la storia che un anonimo scrittore narra in modo «sguaiato» e «scorretto» in un manoscritto secentesco, da lui trovato per caso, a cui dà voce in un breve passo nell’Introduzione al romanzo. Si tratta di un espediente narrativo con illustri precedenti nella storia della letteratura, come l’Orlando furioso di Ariosto e il Don Chisciotte di Cervantes. Rispetto ai predecessori, però, Manzoni usa lo stratagemma del finto manoscritto con una consapevolezza e un’intenzionalità del tutto nuove. Nei Promessi sposi il «graffiato e dilavato autografo» non è soltanto un pretesto per avviare la narrazione, né serve unicamente come garanzia di veridicità delle vicende narrate (come era prassi per il romanzo storico): il manoscritto diventa piuttosto un mezzo per distanziarsi dalla materia narrata, per osservarla da un punto di vista diverso e critico. Con un incessante gioco prospettico in cui la voce narrante risulta sdoppiata (➜ T9c1 OL), Manzoni si può permettere di raccontare qualcosa prendendone nello stesso tempo le distanze e, in più, di esprimere il proprio giudizio. Gli interventi commentativi dell’autore Gli interventi del narratore di secondo grado a commento della storia narrata sono una costante dell’opera: invitano continuamente il lettore ad assumere un atteggiamento critico e riflessivo e a diffidare da un’identificazione troppo facile e immediata con ciò che viene raccontato. Prendiamo ad esempio l’episodio della «notte degli imbrogli e dei sotterfugi», nel capitolo VIII, quando Renzo e Lucia si introducono di nascosto in casa di don Abbondio per estorcergli le nozze negate. A un certo punto, proprio sul più bello, il racconto si interrompe per lasciare la parola a un commento della voce narrante. «In mezzo a questo serra serra, non possiam lasciar di fermarci un momento a fare una riflessione. Renzo, che strepitava di notte in casa altrui, che vi s’era introdotto di soppiatto, e teneva il padrone stesso assediato in una stanza, ha tutta l’apparenza d’un oppressore; eppure, alla fin de’ fatti, era l’oppresso. Don Abbondio, sorpreso, messo in fuga, spaventato, mentre attendeva tranquillamente a’ fatti suoi, parrebbe la vittima; eppure, in realtà, era lui che faceva un sopruso. Così va spesso il mondo... voglio dire, così andava nel secolo decimo settimo.» La voce del narratore commenta quanto l’anonimo si limitava a raccontare; e basta quella breve battuta pungente della chiusa («voglio dire, così andava nel secolo decimo settimo») a creare un’intesa con i lettori, che diventano così i suoi alleati, perfettamente in grado di comprendere il significato sottinteso. Se non mancano severi giudizi morali, tipico dei Promessi sposi è il commento ironico, che investe i grandi della storia ma, seppur in forma bonaria, non risparmia comunque i personaggi umili, mai idealizzati, ma visti anche nei loro difetti umani. Un’onniscienza problematica Seguendo le categorie comunemente utilizzate dalla narratologia, possiamo certo dire che quello dei Promessi sposi è un narratore onnisciente. Possiede infatti una conoscenza superiore dello spazio geografico in cui si svolge la storia, come si può vedere nel celebre incipit (➜ T9a ); dimostra di essere informato su tutti i fatti che vengono narrati, non solo i presenti ma anche i passati e i futuri (anche perché, prima che narratore, è stato lettore del manoscritto dell’anonimo); conosce pensieri e psicologia dei vari personaggi; talvolta assume perfino un ruolo di “demiurgo”, vale a dire che costruisce e manipola la storia a seconda delle sue esigenze narrative, manovrando i personaggi come fossero bu-

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rattini nelle sue mani “onnipotenti” (➜ T9b OL); interviene spesso con commenti e giudizi personali (come nel passo sopra citato) e talvolta arriva a rivolgersi direttamente ai lettori, allacciando con loro una sorta di dialogo privilegiato. Insomma, il narratore dei Promessi sposi pare davvero attribuirsi un potere enorme e ammantato di grande autorevolezza. D’altra parte, Manzoni è convinto che la realtà umana sia troppo complessa perché la si possa conoscere tutta, senza ombre e tentennamenti: anche uno sguardo “totale”, quale in teoria dovrebbe essere quello di un narratore onnisciente, non può pretendere di illuminarne i recessi più nascosti. È per questo che possiamo parlare di “onniscienza problematica”, perché essa non si impone nel romanzo come un punto di vista assoluto e indiscutibile.

trama, gli itinerari della narrazione, il rapporto 5 La tra macrostoria e microstoria

LA TRAMA

La struttura La vicenda avventurosa dei Promessi Sposi si svolge in Lombardia tra il 1628 e il 1630 durante la dominazione spagnola. Con le vicende dei protagonisti si intrecciano gli eventi storici: la carestia, la guerra per la successione al ducato di Mantova, la calata dei lanzichenecchi, la peste. Dal paesino sul lago di Como dove vivono Renzo e Lucia, l’azione si sviluppa a Monza, Milano e nel territorio bergamasco.

L’inizio della storia: i capitoli “paesani” (I-VIII) Il romanzo si apre in un piccolo paesino sul lago di Como, che non viene mai nominato, dove la mattina del 7 novembre 1628 due giovani, Renzo Tramaglino e Lucia Mondella, dovrebbero sposarsi. Ma il signorotto del luogo, don Rodrigo, ha messo gli occhi sulla ragazza e così la sera prima delle nozze manda i suoi bravi dal parroco che deve ufficiare il rito, il pavido don Abbondio, intimandogli di non celebrare le nozze (I). Renzo non si fa ingannare dalle mille scuse accampate dal prete e alla fine riesce a scoprire il vero

IMMAGINE INTERATTIVA

Giuseppe Molteni e Massimo d’Azeglio, Alessandro Manzoni, olio su tela, 1835 (Milano, Accademia di Brera). La tela è il frutto della collaborazione di due pittori: il ritratto di Manzoni è di Molteni, mentre lo sfondo di paesaggio (che rappresenta «Quel ramo del lago di Como» dell’incipit del romanzo) è opera dello scrittore e pittore Massimo Taparelli d’Azeglio, marito di Giulietta, una delle figlie di Manzoni.

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Mappa interattiva Vite a confronto delle figure femminili nei Promessi sposi

LA TRAMA

Le prime pagine di un’edizione dei Promessi sposi.

motivo della sua titubanza (II). Su consiglio di Agnese, la madre di Lucia, Renzo si reca dall’avvocato Azzeccagarbugli per chiedergli aiuto, ma costui prima lo scambia per un bravo e poi, quando scopre che c’è di mezzo il temuto don Rodrigo, si rifiuta di occuparsi del caso (III). I due fidanzati si rivolgono allora a padre Cristoforo, un frate cappuccino del vicino convento di Pescarenico, dalla gioventù burrascosa (IV). Questi decide di andare nel palazzotto di don Rodrigo ma, quando i due si affrontano, il nobilotto si rifiuta di intendere le ragioni del frate e lo scaccia in malo modo (V). Agnese consiglia ai due giovani di tendere un tranello a don Abbondio con un matrimonio a sorpresa (VI). Nel frattempo, don Rodrigo organizza il rapimento di Lucia, che deve avvenire nella notte tra il 10 e l’11 novembre, la stessa in cui i promessi intendono tentare il matrimonio a sorpresa (VII). Intanto padre Cristoforo, informato da un vecchio servitore di don Rodrigo dell’intenzione di rapire Lucia, fa avvertire i due giovani e li chiama al convento insieme ad Agnese. Di lì, i tre scapperanno verso un rifugio sicuro: Agnese e Lucia in un monastero di Monza, Renzo in un convento milanese. I fuggiaschi abbandonano il paese in una struggente scena notturna (VIII).

Lucia e la monaca di Monza (IX-X) Nel convento dove vengono accolte Agnese e Lucia vive una suora di nobili origini, che si trova in quel luogo in seguito a una monacazione forzata. Questa drammatica vicenda e il torbido passato della donna sono narrati dettagliatamente in una delle più celebri digressioni del romanzo.

Renzo a Milano: il montanaro ingenuo nella città in rivolta (XI-XVII) Don Rodrigo briga per scoprire dove sia finita Lucia dopo il fallito tentativo di rapimento. Intanto Renzo raggiunge Milano e trova la città sconvolta dai tumulti per il pane (XI). Il narratore spiega le ragioni della rivolta e Renzo assiste molto turbato alla violenza della folla (XII-XIII); nella sua ingenuità, comincia a fare discorsi incauti, che attirano l’attenzione di una spia degli sbirri. Arrestato, Renzo riesce a fuggire durante il tragitto verso la prigione (XIV-XV). Scappa così da Milano, dirigendosi verso l’Adda, confine tra il Ducato di Milano e la Repubblica di Venezia (XVI). Raggiunge poi un paesino nel Bergamasco, dove vive Bortolo, un suo cugino, che gli dà ospitalità (XVII).

Il “romanzo gotico” di Lucia (XVIII-XXVII) Intanto Lucia è rimasta sola al convento di Monza, dopo che Agnese è tornata al paese; padre Cristoforo è trasferito lontano da Pescarenico. Don Rodrigo ha scoperto il rifugio di Lucia e, attraverso l’Innominato, signore potente e crudele, con l’aiuto della monaca di Monza la fa rapire (XVIII-XX). Condotta al castello dell’Innominato, Lucia offre alla Madonna la propria castità in cambio della salvezza (XXI). Nel paese, però, è in visita l’arcivescovo Federigo Borromeo; turbato da un malessere interiore,

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LA TRAMA

l’Innominato decide di recarsi dal prelato; dopo un incontro sconvolgente e una notte tumultuosa, si converte e libera Lucia, che viene affidata a una nobildonna milanese, donna Prassede (XXII-XXV). Trascorre quasi un anno, durante il quale le notizie di Renzo sono sempre più confuse e incerte; attraverso un complicato carteggio con Agnese, il giovane ha saputo del voto di Lucia, ma non si rassegna a rinunciarvi (XXVI-XXVII).

La discesa agli inferi di Renzo (XXVIII-XXXV) Il narratore ricostruisce le ragioni della carestia, acuita dallo scoppio della guerra. Don Abbondio, Agnese e Perpetua trovano rifugio presso l’Innominato, che è diventato un benefattore (XXVIII-XXX). In conseguenza della carestia e della guerra, a Milano scoppia un’epidemia di peste (XXXI-XXXII). Anche don Rodrigo è contagiato ed è portato al lazzaretto. Renzo, venuto a cercare Lucia, è scambiato per untore e rischia il linciaggio. Trovato il lazzaretto, vi incontra padre Cristoforo, che lo conduce da don Rodrigo ormai agonizzante (XXXIII-XXXV).

Il ricongiungimento dei promessi sposi e l’epilogo (XXXVI-XXXVIII) Al lazzaretto, Renzo trova anche Lucia, che come lui ha contratto la peste ma ne è guarita. Padre Cristoforo scioglie il voto di castità (e muore vittima dell’epidemia); Renzo torna nel Bergamasco e poi si reca al paese natio, dove viene raggiunto da Lucia. Finalmente i due promessi riescono a sposarsi.

Niccolò Cianfanelli, Le nozze di Renzo e Lucia, olio su tela, 1845 circa (Collezione privata).

Renzo e Lucia: due diversi percorsi narrativi Nel passaggio dal Fermo e Lucia ai Promessi sposi, il rapporto fra le vicende che vedono coinvolti rispettivamente i due protagonisti viene a complicarsi: non più semplicemente giustapposte in due blocchi distinti, esse si intrecciano le une nelle altre in uno schema di interruzioni reciproche. Le strade dei due protagonisti, però, si separano non soltanto in senso spaziale (Lucia a Monza e poi nel castello dell’Innominato, Renzo a Milano e poi in fuga nel Bergamasco), ma anche per il carattere diverso che assumono agli occhi dei lettori. Renzo vive la sua avventura a diretto contatto con la Storia e con i suoi molteplici eventi (i tumulti del pane a Milano, l’aggressione al Vicario di Provvisione ➜ T13 OL) e vi partecipa in maniera attiva, rimanendo spesso vittima, per la sua ingenuità e per il carattere impulsivo, di equivoci e fraintendimenti (il primo dei quali si era avuto nello studio dell’Azzeccagarbugli, quando Renzo era stato scambiato per un bravo in cerca di scappatoie legali). Il suo è un percorso che si sviluppa tutto negli spazi aperti, dalla grande città alla campagna lombarda; che si tratti di viaggi o di vere e proprie fughe, la sua vicenda si snoda attraverso continui spostamenti, in prima persona. Al contrario, Lucia vive un’esperienza lontana dalla dimensione colletI promessi sposi 4 849


Eliseo Sala, Lucia Mondella, olio su tela, 1843 (Milano, collezione privata).

tiva della Storia, in linea con il suo carattere riservato, poco propenso all’azione diretta. Il suo percorso si configura come una serie di passaggi da dimora a dimora (passaggi sempre subìti, decisi per lei da altri): il convento della monaca di Monza, il castello dell’Innominato, la casa del sarto e poi quella di don Ferrante e donna Prassede; e persino il lazzaretto, dove la giovane è rappresentata chiusa nella baracca insieme alla mercante milanese. Lucia, insomma, si muove sempre in un ambito ristretto e limitato: la sua esperienza, più che sul piano storicosociale, si sviluppa su quello privato dei rapporti personali, della conoscenza intima e profonda di indoli e caratteri. Se quello di Renzo è un romanzo in continuo movimento, che vive nella dimensione del viaggio, il percorso narrativo di Lucia si consuma invece all’interno delle mura domestiche e il suo rapporto con la realtà è contrassegnato dalla parola più che dall’azione, una parola più spesso ascoltata che non pronunciata. “Storia” dei grandi... La trama dei Promessi sposi trae spunto da eventi storici realmente accaduti tra il 1628 e il 1630 che fanno da sfondo alla storia privata di Renzo e Lucia: essi però, a differenza di quanto avveniva nei romanzi alla Scott, non hanno soltanto la mera funzione di fornire un’ambientazione credibile alle vicende dei protagonisti. Spesso infatti la macrostoria diventa l’oggetto esclusivo del discorso di Manzoni, che si sviluppa in ampie e articolate digressioni nelle quali egli propone una propria visione critica della vicenda in esame; l’esempio più evidente nella compagine del romanzo è quello dei capitoli (ben cinque, dal XVIII al XXII) dedicati alla carestia e al successivo diffondersi della peste nel Milanese. Sul palcoscenico del romanzo compaiono grandi personaggi storici realmente vissuti, come ad esempio il cancelliere Ferrer o il cardinale Borromeo, che della grande Storia sono stati protagonisti.

PER APPROFONDIRE

... e “storie” dei piccoli Non è però sui personaggi illustri che Manzoni concentra la propria attenzione come narratore: l’ottica in cui si pone è quella delle «genti meccaniche», figure umili e oscure la cui vita semplice e modesta si scontra con le vicende della Storia decisa e manovrata dai potenti. La finalità che ispira questa scelta dello scrittore non è certo quella di impietosire i lettori alle vicissitudini

Tempo del narrato e tempo della narrazione La complessità del rapporto con la materia storica trattata nei Promessi sposi emerge anche dall’evidente squilibrio nella distribuzione dei fatti che si riscontra nell’economia interna del romanzo. Manzoni non segue in modo lineare la scansione temporale degli eventi (che, come abbiamo visto, si snodano lungo un periodo di circa due anni), adeguandosi alla loro durata effettiva, ma dedica più o meno i due terzi del romanzo (circa 25 capitoli) ai fatti avvenuti nel primo mese, dall’incontro di don Abbondio con i bravi fino alla liberazione di Lucia da parte dell’Innominato (ossia dal 7 novembre 1628 al dicembre dello stesso anno); poi la narrazione accelera vertiginosamente, concentrando i mesi rimanenti (inverno 1629 - autunno 1630) negli ultimi tredici capitoli, fino all’epilogo della vicenda. A questa sfasatura temporale vanno aggiunte le diverse frat-

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ture costituite dalle lunghe digressioni con cui Manzoni inframmezza la narrazione, siano esse flashback (come nel caso di padre Cristoforo e della monaca di Monza), oppure spaccati storici sull’epoca in cui si svolge la vicenda. Manzoni, insomma, quasi a ulteriore riprova delle idee già espresse nella Lettre à Monsieur Chauvet, si muove con estrema libertà nella dimensione temporale del romanzo: nella sua visione la storia è infatti una struttura complessa, tanto complessa che non le è possibile adeguarsi allo scorrere naturale del tempo. Troppe sono le prospettive, i vuoti, gli squilibri, le zone d’ombra e i punti di vista che concorrono alla sua esistenza. Ecco allora che una sola notte può occupare uno spazio narrativo più vasto di quello dedicato a molti mesi di vicende, se si tratta della “notte degli imbrogli e dei sotterfugi”, raccontata nell’ottica accorata dei suoi protagonisti.


dei due giovani protagonisti. In linea con il progetto già intrapreso nelle tragedie, anche nel romanzo Manzoni intende proporre un punto di vista nuovo sul corso storico, vale a dire il punto di vista di chi è costretto a subirlo, con tutto il suo carico di soprusi e sopraffazioni. Una prospettiva che si riallaccia alla visione cristiana dell’autore, secondo la quale ogni singola esistenza ha importanza e senso in sé ed è preziosa agli occhi di Dio. Da qui deriva anche la scelta di un realismo che implica costanti riferimenti al “basso” e al quotidiano, in linea con le tendenze europee più moderne. L’interazione tra macrostoria e microstoria Della “grande” Storia, Manzoni vuole rappresentare soprattutto la correlazione organica e profonda con la vita reale e concreta dei suoi umili personaggi: macrostoria e microstoria così si intrecciano, conformandosi reciprocamente. Ecco che allora le gride, cioè i decreti redatti nella lingua fredda e oscura del legislatore (e letti dal banditore nei luoghi pubblici), diventano il segno visibile che sancisce il peso della sopraffazione subìta da Renzo e Lucia; la carestia incombente è riflessa sulle povere tavole imbandite nel corso dei primi capitoli; la peste che devasta Milano e il suo contado diventa per Renzo una sorta di personale “discesa agli inferi”, così come i tumulti del pane (➜ T13 OL) erano stati l’occasione per prendere coscienza delle insidie e dei pericoli della vita pubblica.

sistema dei personaggi e la raffigurazione della società 6 Ilsecentesca online

I rapporti tra i personaggi e la prospettiva ideologica dei Promessi sposi I personaggi che animano le pagine del romanzo sono numerosissimi: non solo testimoniano la straordinaria ricchezza creativa dell’autore, ma assumono un’importante funzione strutturale, diventando veri e propri pilastri di forza su cui si fonda l’intera architettura narrativa e attraverso cui si definisce la prospettiva ideologica che sottende il romanzo. A questo proposito, si dimostra particolarmente utile la proposta del critico Franco Fido, che opera una sintesi del sistema dei personaggi illustrandolo in una sorta di grafico geometrico. Fido cerca di tradurre in immagine la natura organica del romanzo, concepito da Manzoni come un sistema unitario, in cui i reciproci rapporti tra i vari personaggi rimandano con evidenza ai campi di forza MEDIATORI sopruso storico-sociale attivi nel tempo della storia Protettori Strumenti OPPRESSORI narrata, ovvero nel Seicento.

Mappa interattiva I promessi sposi: i personaggi

Schema di Franco Fido del sistema di personaggi del romanzo.

giustizia? VITTIME

don Abbondio

ca

pit

capitoli

Renzo

olo

I

don Rodrigo

fra Cristoforo

ultimi

(capitoli XX-XXXVIII)

Lucia

la monaca di Monza l’Innominato

Il cardinale misericordia

grazia

Un ritratto realistico della società secentesca Nella sua instancabile attenzione al vero storico, Manzoni si preoccupa di rappresentare, attraverso i personaggi maggiori e minori del romanzo, i vari settori della società secentesca. Appartengono al ceto popolare i due protagonisti, Renzo e Lucia, e le figure che ruotano attorno ad essi: Agnese, innanzitutto, e diverse minori, come gli amici che aiutano Renzo nel tentato inganno ai danni di don Abbondio o il cugino bergamasco. L’ariI promessi sposi 4 851


stocrazia è rappresentata da don Rodrigo, sostenuto nelle sue malefatte dal conte Attilio e dal conte zio, da Gertrude insieme alla sua spietata famiglia e anche dall’Innominato: che però, pure quando è ancora prigioniero della propria malvagità, ha un’aura di nobile grandezza; e inoltre dal cardinale Federigo Borromeo. Non manca il ceto medio, che prende forma in personaggi quali Azzeccagarbugli ma anche fra Cristoforo, che prima di seguire la vocazione religiosa era un ricco mercante. I campi di forza del bene e del male Se si analizzano i vari gruppi sociali rappresentati nel romanzo, è possibile constatare come ciascuno di essi si divida in maniera quasi simmetrica tra bontà e malvagità, tra comportamenti dettati da generosità e amore cristiano e figure che si esauriscono invece in un egoismo gretto o che addirittura rappresentano la dimensione del male operante nella storia. Evidentemente, la visione di Manzoni secondo la quale il mondo si divide tra oppressi e oppressori non intende dare a questa spartizione una connotazione prettamente sociale: il male, così come il bene, non sta tutto da una parte sola. Nel popolo vi è certo la mite rassegnazione nutrita di fede religiosa di un personaggio per definizione virtuoso come Lucia; ma tale gruppo è anche rappresentato dalla cieca follia della marmaglia, che si riversa per le vie e le piazze milanesi durante i tumulti del pane, sintetizzata dalla celebre immagine del vecchio malvissuto (➜ T13 OL). Analogamente, tra la nobiltà, la meschina crudeltà del nobile di provincia don Rodrigo è bilanciata dalla cupa grandiosità dell’Innominato, che a sua volta trova il proprio contraltare nella luminosa magnanimità del cardinale Federigo Borromeo. I personaggi del mondo ecclesiastico Lontano da qualsiasi forma di bigottismo, Manzoni non esita a rappresentare vizi e debolezze anche pesanti di cui si macchiano alcuni rappresentanti della Chiesa, tanto più gravi perché si tratta proprio di coloro che dovrebbero prodigarsi per alleviare le pene e i dolori dei deboli. D’altra parte, se da un lato troviamo la grettezza e la pusillanimità di don Abbondio, dall’altro vi sono la fede coraggiosa e sollecita di fra Cristoforo e la grande statura morale del cardinale Borromeo. Opposizioni che Manzoni “drammatizza”, in qualche caso, sotto forma di memorabili confronti diretti, come nel celebre dialogo tra don Abbondio e il cardinale (➜ T12b ).

7 L’ideologia del romanzo Il Seicento di Manzoni: una diagnosi severa con l’occhio rivolto al presente I promessi sposi sono ambientati nel Seicento: una scelta che, in un periodo nel quale il romanzo storico tende a prediligere le atmosfere medievali, assume un particolare significato. Per Manzoni, il Seicento è il simbolo di un’epoca dominata dalla violenza e dall’arbitrio dei potenti, ancora impastoiata in strutture politiche di tipo feudale, dove dominano l’adulazione e il privilegio, e la mentalità corrente è intrisa di superstizione, pregiudizi e vuota erudizione: emblematica al proposito è la figura di don Ferrante, che muore di peste dopo aver dimostrato con una serie di acuti sillogismi che il contagio non esiste. È l’occhio critico dell’illuminista quello che Manzoni rivolge alla società che fa da sfondo alle vicende dei suoi personaggi, nella quale è possibile riconoscere molti caratteri propri anche del tempo a lui contemporaneo: non va dimenticato che proprio nel 1821, quando Manzoni comincia la prima stesura del romanzo, erano falliti i moti liberali che rappresentavano il primo tentativo della borghesia pro-

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gressista di far sentire la propria voce. Alla luce di questi eventi, che ebbero un forte impatto anche emotivo sullo scrittore (come testimonia l’ode Marzo 1821 ➜ T2 OL), la sua analisi critica del Seicento si configura come una ricerca delle radici passate di quei guasti che ancora, in pieno XIX secolo, continuavano ad affliggere la società italiana. Una visione politico-sociale moderata, illuminata dai princìpi cristiani Il romanzo assume così anche il valore di una proposta attuale, si anima di una progettualità in cui è possibile riconoscere l’ideale di società che Manzoni vuole offrire. A quale modello di società pensa lo scrittore? Posta come condizione essenziale e irrinunciabile la conquista dell’autonomia politica, per l’Italia egli auspica una società che possa contare su un saldo potere statale, in grado di limitare e controllare gli interessi privati e tutelare le parti sociali più deboli, spezzando così quel circolo vizioso oppressori-oppressi tanto ben descritto nel romanzo. La critica, anche feroce, mossa nel romanzo alla corruzione e alla prepotenza dei ceti aristocratici non deve però far pensare che Manzoni possa indulgere a una prospettiva di tipo rivoluzionario. Al contrario, l’orrore per lo scontro di classe traspare con evidenza nelle pagine dedicate ai tumulti milanesi, nelle quali la folla è rappresentata come una massa minacciosa che si lascia trasportare dalla rabbia e dall’irrazionalità (➜ T13 OL). Manzoni rifiuta ogni ipotesi di sovvertimento sociale e rimane sempre fedele alla prospettiva di un liberalismo moderato, arricchito e illuminato dai princìpi del Cristianesimo: i diversi ceti devono continuare a esistere, nella nuova consapevolezza della propria funzione e delle responsabilità a essa connesse. Questo comporta, per l’aristocrazia, un’oculata gestione del proprio patrimonio, messo a servizio della collettività, e nell’attenzione alle esigenze dei bisognosi secondo un principio cristiano di solidarietà. Dal canto suo, il popolo deve abbandonare ogni proposito di rivendicazione violenta e, fiducioso nella ricompensa ultraterrena, accettare con cristiana rassegnazione le inevitabili durezze legate alla propria condizione. Condizione cui, tuttavia, non è del tutto preclusa la possibilità di un miglioramento e addirittura di un avanzamento sociale: è quanto accade a Renzo il quale, da operaio che era, investendo il suo piccolo gruzzolo nell’acquisto di un filatoio, si trova a concludere il suo itinerario nel romanzo da artigiano-piccolo imprenditore. La provvidenza e il «sugo della storia» Uno dei luoghi comuni maggiormente radicati riguardo ai Promessi sposi è che si tratti del romanzo “della provvidenza”; l’opera, cioè, in cui Manzoni sancisce l’impossibilità da parte degli uomini di gestire il proprio destino, che deve pertanto essere affidato, con cristiana rassegnazione, alla volontà di Dio, nella fiducia che la provvidenza divina operi comunque il bene nella Storia e nella vita umana. Si tratta, però, di una semplificazione che rischia di banalizzare o interpretare in modo riduttivo il pensiero manzoniano. In realtà, se si legge con attenzione il lavoro, ci si accorge che tutte le affermazioni di fiducia incondizionata nella divina provvidenza non provengono mai dalla voce dell’autore, ma sono affidate a questo o quel personaggio e risultano dunque espressione di un determinato punto di vista. Una scelta che non può essere casuale: attraverso questa opzione narrativa, Manzoni sembra rinunciare a una posizione di fideistica certezza. Il fatto è che la riflessione sulla provvidenza non può essere considerata se non in relazione con la consapevolezza che il male è presente nella storia dell’uomo, vi opera in modo instancabile e spesso riesce ad avere il sopravvento sul bene e sulla ragione. I promessi sposi 4 853


Una visione pessimistica, che trova piena espressione nella prospettiva drammatica e sconsolata della Storia della colonna infame e che, nella conclusione del romanzo, è sintetizzata nel «sugo della storia» (➜ T14d ), compreso in parte da Renzo e, soprattutto, da Lucia: «conclusero che i guai vengono bensì spesso, perché ci si è dato cagione; ma che la condotta più cauta e più innocente non basta a tenerli lontani; e che quando vengono, o per colpa o senza colpa, la fiducia in Dio li raddolcisce, e li rende utili per una vita migliore» (XXXVIII). Parafrasando la semplice lezioncina che i due fidanzati hanno saputo trarre dalle proprie disavventure, possiamo dire questo: nella visione manzoniana non vi è alcuna corrispondenza tra virtù e felicità. Questa è un’ingenua convinzione che appartiene soltanto ai suoi personaggi e alla quale lo scrittore guarda spesso con un’ironia affettuosa che ne smaschera l’elementare limitatezza. Pensiamo all’espressione diventata famosa «La c’è la provvidenza», pronunciata da Renzo dopo la sua notte da fuggiasco (XVII). Il rapporto tra bene e male nella storia umana rimane regolato da meccanismi imperscrutabili, che solo in una prospettiva ultraterrena potranno trovare un senso, una giustificazione. Il nodo della giustizia Il pessimismo manzoniano, che deriva dalla sua particolare visione religiosa, trova espressione nei Promessi sposi in uno dei temi principali e fondanti del romanzo, cioè la giustizia. Si tratta di un tema centrale nella riflessione illuminista; non si deve al proposito dimenticare che Manzoni era nipote di Cesare Beccaria, l’autore del celebre trattato Dei delitti e delle pene. La stessa macchina narrativa è messa in moto, non a caso, da un palese atto di ingiustizia patito dai due protagonisti e, vista nel suo complesso, tutta la loro vicenda potrebbe essere letta come una lunga, faticosa ricerca di giustizia; un’impresa destinata a rimanere molte volte frustrata, a partire dall’avvilente episodio di Renzo nello studio dell’Azzeccagarbugli. La giustizia, dunque, rappresenta per l’uomo un orizzonte lontano e irraggiungibile: essa è il riflesso visibile della sua incapacità a costruire un mondo dove il bene comune si sposi con il benessere dei singoli individui, indipendentemente dallo stato sociale o dal grado di potere che essi incarnano. Ecco perché questo tema occupa uno spazio tanto importante nell’economia del romanzo, diventandone una fondamentale chiave di lettura.

Aspetti fondamentali dei Promessi sposi NARRATORE

MODELLI

• espediente dell’anonimo e sdoppiamento del narratore • onniscienza “problematica” • romanzo storico • romanzo di formazione • romanzo gotico e d’avventura

STORIA E PERSONAGGI

• rapporto fra macrostoria e microstoria • sistema dei personaggi, fondato sull’opposizione tra i campi di forza del bene e del male e tra campi di forza etico-sociale • ritratto realistico della società secentesca

IDEOLOGIA

• ottica politico-sociale moderata e princìpi cristiani • consapevolezza che il male è presente nella storia dell’uomo • il nodo “illuminista” della giustizia

854 Ottocento 21 Alessandro Manzoni


Storia della colonna infame: tra responsabilità individuali 8 La e silenzio della provvidenza Il processo agli untori Tra i maggiori interventi operati da Manzoni nella revisione del Fermo e Lucia c’è lo stralcio della lunghissima parte dedicata a uno dei più celebri processi ai cosiddetti “untori”, celebrati a Milano nel 1630. Non è una decisione dettata esclusivamente dall’ampiezza eccessiva: Manzoni, infatti, riconosce in questi capitoli anche un’autonomia stilistica e ideologica che lo porta alla decisione di pubblicarli in forma indipendente dal romanzo, ma come un suo necessario completamento, in appendice all’edizione del 1840. L’argomento Soggetto principale è il processo che si svolge a Milano contro alcuni presunti “untori”; la narrazione prende l’avvio da un episodio di cronaca cittadina: in una piovosa mattina del giugno 1630, in una città stremata dalla pestilenza, due popolane credono di riconoscere un comportamento sospetto in un passante ignaro, tale Guglielmo Piazza. Il malcapitato verrà arrestato dalle autorità e sottoposto a tortura; per cercare di sottrarsi ai tormenti, e dietro la mendace promessa di impunità, egli denuncia il suo presunto complice, il barbiere Giangiacomo Mora. Ne seguirà un processo assurdo, ingiusto e crudele, che vedrà coinvolti anche altri innocenti, dettato esclusivamente dal bisogno di trovare un colpevole da gettare in pasto a una folla feroce, incattivita dalla paura. Il processo si concluderà con la prevedibile condanna a morte degli imputati (tranne uno, perché abbastanza ricco e altolocato da poter allestire una difesa efficace). Il titolo La casa del Mora è rasa al suolo e al suo posto viene eretta una colonna con un’iscrizione che recita: «A perenne memoria dei fatti il Senato comandò che questa casa, officina del delitto, venisse rasa al suolo con divieto di mai ricostruirla e che si ergesse una colonna da chiamarsi infame». Da qui il titolo dell’opera di Manzoni,

La stampa rappresenta episodi del processo e della tortura degli untori durante la peste del 1630 a Milano. Sulla destra, la colonna infame eretta al posto della casa del presunto untore Giangiacomo Mora.

I promessi sposi 4 855


Il problema della giustizia La Storia della colonna infame ruota attorno a uno dei temi fondanti di tutto il pensiero manzoniano: il problema della giustizia. Nell’introduzione leggiamo che questa è la storia «d’un gran male fatto senza ragione da uomini a uomini»: un’espressione in cui è condensato il senso profondo di una vicenda cupa, che Manzoni riporta non per semplice gusto di cronaca, ma per elevarla a emblema del male che, in determinate circostanze, riesce ad avere il sopravvento sul bene. E queste circostanze non sono soltanto quelle determinate dal contesto storico e culturale: vale a dire, Manzoni non intende semplicemente scagliarsi contro l’ignoranza dominante nel Seicento, che abbracciava l’assurda idea di un contagio diffuso dagli untori, né contro la brutalità di un sistema giudiziario basato sull’uso della tortura. Questa, semmai, era la finalità perseguita da Cesare Beccaria nel suo Dei delitti e delle pene, riconosciuto da Manzoni come fonte importante, ma dal quale tiene a prendere le distanze. Il suo discorso, infatti, vuole inserirsi in una più ampia riflessione di carattere morale, che coinvolge l’uomo non solo come espressione di una certa cultura o di un certo contesto storico, bensì come individuo singolo, con le sue responsabilità: pur condannando senza riserve la tortura, Manzoni sostiene infatti che il male non stia nella cosa in sé, ma negli uomini che vi fanno ricorso lasciandosi trascinare da quelle pulsioni irrazionali e sempre negative che lui chiama «passioni». Questo accadeva nel Seicento, per una cultura oscurantista e dentro una società arretrata; ma lo stesso può accadere anche in qualsiasi altra epoca storica, magari anche quella che si illude di aver raggiunto il più alto livello di civiltà. Un monito valido per ogni epoca Come ha scritto uno dei più acuti lettori e interpreti della Storia della colonna infame, Leonardo Sciascia (1921-1989), «il passato, il suo errore, il suo male, non è mai passato: e dobbiamo continuamente viverlo e giudicarlo nel presente». A riprova dell’attualità e dell’immutato valore civile dell’opera manzoniana, Sciascia traccia un parallelo tra chi interpreta le nefandezze dei

Lapide della colonna infame (Milano, Castello Sforzesco).

856 Ottocento 21 Alessandro Manzoni


giudici del 1630 come un mero frutto dei tempi e chi, con argomentazioni analoghe, riesce in qualche modo a giustificare gli orrori dei campi di sterminio nazisti. Lo scrittore siciliano vede Manzoni come un lucido cronista che analizza con spietata precisione le responsabilità individuali di uomini a cui era stato concesso il potere di giudicare altri uomini, di decidere della loro vita e della loro morte: non mostri, ma uomini come tutti che, consapevolmente, hanno scelto di agire per il male. Ecco perché questa lettura diventa un campanello d’allarme anche per il mondo odierno; ecco perché, sempre secondo Sciascia, forse si potrebbe anche non leggere I promessi sposi, ma non si può assolutamente prescindere dalla Storia della colonna infame. Manzoni, insomma, non riconosce né nella tortura, né nell’ignoranza, le cause prime degli orrori consumatisi a Milano nel 1630. Infatti nell’Introduzione afferma: «L’ignoranza in fisica [cioè in medicina] può produrre degl’inconvenienti, ma non delle iniquità; e una cattiva istituzione non s’applica da sé»: come a dire, che per quanto limitate fossero le conoscenze scientifiche all’epoca dei processi agli untori, per quanto esecrabile la consuetudine della tortura, non è in questi fatti esteriori che ha origine il male, bensì nell’animo e nelle menti di coloro che li hanno messi in pratica. Infatti, la Storia della colonna infame è un’attenta e puntuale cronaca giudiziaria nella quale si dimostra come i giudici, pur rimanendo entro i parametri imposti dall’uso e dalla cultura del loro tempo, avrebbero avuto modo di giungere alla verità e, facendo un buon uso della ragione, accogliere l’innocenza degli imputati. Così non fecero perché scelsero di lasciarsi dominare da quelle passioni che, lasciate libere di agire nella storia, aprono la strada all’inesorabile prevalere del male sul bene. L’assenza della provvidenza In questa fosca prospettiva delineata da Manzoni non c’è spazio neppure per quella provvidenza che nei Promessi sposi pare, a volte, poter aprire uno spiraglio di luce. Invece, tutti gli eventi descritti nella Storia della colonna infame si sviluppano entro una dimensione esclusivamente umana: la vicenda non ha alcuna dimensione trascendentale, i meccanismi che la regolano sono tutti materiali e contingenti. La fede religiosa compare solo attraverso le vicende terribili dei condannati, come unica forma di consolazione ad essi accessibile, che però nulla cambia né del loro destino né del quadro generale tratteggiato dall’autore, che è quello di un mondo dominato dall’ingiustizia. Uno scandalo immane, questo, anche agli occhi di un credente, e che Manzoni non ha voluto nascondere in questa sua opera, che va letta insieme ai Promessi sposi per capire il senso relativo da attribuire alla proverbiale provvidenza manzoniana.

Storia della colonna infame DATAZIONE

1840, in appendice ai Promessi sposi

ARGOMENTO

processo contro “presunti” untori, avvenuto a Milano nel 1630

TEMI

• responsabilità etica individuale • sistema iniquo della giustizia • ignoranza e pregiudizio

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9 Le scelte linguistiche e stilistiche Il dilemma di un romanziere italiano A chi, nei primi anni dell’Ottocento, in Italia si accingesse alla stesura di un romanzo, si presentava come urgente e prioritario il problema della lingua nella quale scriverlo. Una scelta tutt’altro che ovvia in un paese dove, a differenza della Francia, esisteva un divario fortissimo tra lingua letteraria e lingua effettivamente parlata e quest’ultima era lontana anche solo da una parvenza di unità. Di tutte queste difficoltà si lamenta Manzoni fin dal 1821, in una lettera a Claude Fauriel in cui si sofferma in particolare sulla mancanza, nel nostro paese, di un codice comune tra chi scrive e chi legge. Da quel momento la riflessione sulla lingua lo accompagna per quasi vent’anni, lungo tutta la vicenda compositiva e editoriale dei Promessi sposi. L’obiettivo principale: avvicinare lo scritto al parlato Da subito il progetto manzoniano sulla lingua si fonda su questo principio basilare: superare la dicotomia fra lo scritto e il parlato, avvicinare la lingua della letteratura alla lingua d’uso. Pur consapevole che si tratta di un obiettivo pressoché irraggiungibile, già nell’Introduzione al Fermo e Lucia Manzoni scrive così: «A bene scrivere bisogna saper scegliere quelle parole e quelle frasi che, per convenzione generale di tutti gli scrittori, e di tutti i favellatori [coloro che utilizzano la lingua nel parlato quotidiano] [...] hanno quel tale significato: parole e frasi che, o nate nel popolo, o inventate dagli scrittori, o derivate da un’altra lingua, quando che sia, comunque, sono generalmente ricevute e usate. Parole e frasi che sono passate dal discorso negli scritti senza parervi [apparirvi] basse, dagli scritti nel discorso senza parervi affettate; e sono generalmente e indifferentemente adoperate all’uno e all’altro uso». Fin dai suoi primi passi nell’universo del romanzo, lo scrittore si pone dunque in una prospettiva che cerca nella lingua uno strumento non della retorica, ma della viva comunicazione, il legame con il mondo concreto dei parlanti. La soluzione di compromesso del Fermo e Lucia La base di partenza (cioè la lingua alla quale Manzoni pensa come “la sua” e che può usare con il maggior grado di naturalezza) è il dialetto milanese. Questo fondo lombardo è ben percepibile nell’impasto linguistico della prima stesura del romanzo, sia pur mediato dal toscano, riferimento fondamentale della lingua letteraria in Italia (anche se spesso usato in modo libresco); a comporre la mescolanza linguistica del Fermo e Lucia si aggiungono anche voci provenienti dal francese, che costituisce per lo scrittore, come per tutte le persone colte di quel tempo, una seconda lingua. Le scelte linguistiche realizzate nella prima stesura del romanzo non convincono affatto lo scrittore, se è vero che Manzoni stesso definisce severamente il Fermo e Lucia un «composto indigesto», un ibrido indefinito, assai lontano dal soddisfare le sue ambizioni, tanto da accingersi quasi immediatamente alla sua integrale riscrittura. Verso la scelta del toscano d’uso Il passaggio dalla dominante patina lombarda al fiorentino colto del tempo avviene gradualmente: prima attraverso la riscrittura del romanzo nella versione della ventisettana e poi, dopo la “risciacquatura in Arno”, con l’edizione definitiva del 1840. Nell’edizione del 1827 Manzoni procede a una revisione linguistica orientata verso il toscano, che si attua essenzialmente attraverso la lettura di testi della tradizione del luogo (specie quelli cinque-secenteschi comico-realistici) e di repertori lessico-

858 Ottocento 21 Alessandro Manzoni


grafici (con un raffronto puntuale tra il Vocabolario milanese-italiano di Francesco Cherubini e il Vocabolario della Crusca). Dopo l’edizione del 1827, un dilemma spinge Manzoni a operare una nuova revisione linguistica del romanzo. Egli si chiede se il toscano letterario della tradizione, quello di Dante e di Boccaccio, fosse ancora in grado di esprimere idee e concetti della modernità: in altre parole, “quel” toscano era ancora una lingua viva e pienamente comprensibile da un’ampia gamma di lettori italiani? Una questione che impegna Manzoni molto a lungo, portandolo alla conclusione che fosse necessaria un’opera di contaminazione fra il toscano letterario del passato e la lingua parlata in quegli anni nella terra di Dante. Da qui nasce l’esigenza della “risciacquatura in Arno”, iniziata di fatto proprio nel 1827, in occasione di un viaggio in Toscana che Manzoni compie per presentare al pubblico il romanzo appena uscito. Si tratta di un lavoro lungo, minuzioso ed estremamente articolato, per il quale lo scrittore si serve spesso della collaborazione di fiorentini di nascita, ai quali fa leggere le bozze del romanzo per verificare che la lingua corrisponda per lessico e costrutti all’idioma vivo e vero parlato dalle classi colte di Firenze. Con la scelta definitiva del toscano parlato dai fiorentini colti in quello che può giustamente considerarsi il primo romanzo moderno italiano, Manzoni diventa di fatto il punto di riferimento principale per la lingua della nuova nazione che va allora formandosi attraverso i primi moti risorgimentali. La parola come “personaggio” in un romanzo polifonico Quando si parla della lingua dei Promessi sposi non bisogna fare l’errore di attribuire all’aspetto linguistico un valore puramente formale. Al contrario, Manzoni considera la lingua in un’ottica culturale e antropologica come il primo e più importante veicolo dell’esperienza umana in tutta la sua complessità. Proprio questo è uno dei maggiori elementi di modernità del romanzo: parte integrante della storia, “personaggio” essa stessa, la parola si diversifica non solo in rapporto all’identità sociale dei parlanti, ma in infinite sfaccettature, come varia e multiforme è l’esperienza umana. Nella polifonia del romanzo ogni personaggio ha una propria “voce”, uno stile anche espressivo specifico, che interagisce con quello degli altri. In alcune pagine memorabili, Manzoni pone efficacemente in contrasto non solo due personaggi, ma anche due diversi registri espressivi, specchio non solo di differenti categorie sociali, ma di diverse (o addirittura opposte) visioni del mondo, concezioni morali, psicologie: è il caso di confronti come quello tra Don Abbondio e il cardinale Borromeo (➜ T12b ). La commistione dei registri stilistici Coerentemente con l’adesione al programma poetico del Romanticismo, Manzoni pensa a una scrittura narrativa che abbatta la rigida suddivisione fra stili ancora dominante nel panorama letterario italiano. Tra i vari modelli a cui lo scrittore guarda figurano opere come il Don Chisciotte di Cervantes e alcuni romanzi di Defoe, di Richardson e, soprattutto, di Henry Fielding, che con Tom Jones ha messo in atto una vera e propria decostruzione degli schemi narrativi tradizionali. Anche Manzoni si mette sulla stessa strada e compone un romanzo moderno, che sul piano delle scelte stilistiche (in rapporto a quelle narrative) si rivela ricchissimo e multiforme, quanto multiforme e ricca è la materia narrata: nei Promessi sposi egli accosta senza timori momenti comici a passi drammatici o tragici, squarci lirici I promessi sposi 4 859


PER APPROFONDIRE

a passaggi didascalici, il rigore scientifico dello storico e dell’economista alla partecipazione più accorata, sfruttando pienamente le possibilità offerte dalla natura polimorfa del romanzo. Esemplare in questo senso è il capitolo VIII dove, dai toni grotteschi e dal ritmo concitato con cui viene raccontata la «notte degl’imbrogli e de’ sotterfugi», si passa con naturalezza estrema all’intenso lirismo del celebre Addio, monti (➜ T10a ). O, ancora, si possono ricordare i celebri passi sulla peste a Milano, ritratta sia attraverso la lucida cronaca che Manzoni trae dalle pagine del Ripamonti e del Borromeo, sia attraverso la commovente scena della madre di Cecilia (cap. XXXIV). Questa vocazione alla mescolanza degli stili e dei registri linguistici attraverso il modello manzoniano sarà di esempio a vari autori della letteratura italiana del Novecento, da Luigi Pirandello a Carlo Emilio Gadda.

Una riflessione mai esaurita Gli scritti linguistici Quasi a coronare il lungo e faticoso lavoro sul romanzo, la ricerca linguistica con la quale Manzoni si cimenta nella palestra narrativa dei Promessi sposi trova infine una propria espressione specifica anche in una serie di scritti saggistici. È del 1847 la lettera-saggio scritta a Giuseppe Carena e pubblicata con il titolo Sulla lingua italiana; in collaborazione con Gino Capponi; in seguito, Manzoni intraprende nel 1856 la stesura del Saggio di vocabolario italiano secondo l’uso di Firenze. Ricordiamo anche un progetto molto ambizioso, un trattato Della lingua italiana cui Manzoni attende dal 1830 al 1859, producendo ben cinque redazioni diverse, ma che è destinato a rimanere solo manoscritto.

Il progetto per la diffusione nazionale del fiorentino Manzoni è anche coinvolto dal neonato Regno d’Italia nel progetto per la diffusione di un italiano nazionale e unitario; il ministro della Pubblica istruzione Emilio Broglio lo mette a capo della “Commissione per l’unificazione della lingua” appositamente creata allo scopo. Nella sua Relazione (Dell’unità della lingua e dei mezzi di diffonderla), lo scrittore propone di redigere un vocabolario e una grammatica della lingua fiorentina che costituiscano un punto di riferimento sicuro per tutti e di impiegare docenti toscani nelle scuole elementari.

Prima pagina del manoscritto autografo degli Sposi promessi, 1821 (Milano, Biblioteca nazionale braidense).

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T9

La voce narrante nei Promessi sposi I quattro passi che seguono esemplificano lo statuto della voce narrante nel romanzo manzoniano e il suo rapporto con l’anonimo, aspetti chiave per affrontare la lettura dei Promessi sposi.

Alessandro Manzoni

T9a

«Quel ramo del lago di Como»: lo sguardo onnisciente del narratore I promessi sposi, I

A. Manzoni, I promessi sposi, a cura di F. Gavino Olivieri, Principato, Milano 2009 (esemplato sull’edizione di Fausto Ghisalberti [Hoepli, Milano 1964])

Presentiamo qui il celeberrimo esordio del romanzo, in cui il narratore presenta al lettore i luoghi in cui si svolgeranno i primi eventi della storia con uno sguardo “a volo d’uccello”, rivelando così immediatamente la propria condizione onnisciente.

Quel ramo del lago di Como, che volge1 a mezzogiorno, tra due catene non interrotte di monti, tutto a seni2 e a golfi, a seconda dello sporgere e del rientrare di quelli, vien, quasi a un tratto, a ristringersi, e a prender corso e figura di fiume, AUDIOLETTURA tra un promontorio a destra, e un’ampia costiera3 dall’altra parte; e il ponte, che 5 ivi congiunge le due rive, par che renda ancor più sensibile all’occhio questa trasformazione, e segni il punto in cui il lago cessa, e l’Adda rincomincia, per ripigliar poi nome di lago dove le rive, allontanandosi di nuovo, lascian l’acqua distendersi e rallentarsi in nuovi golfi e in nuovi seni. La costiera, formata dal deposito di tre grossi torrenti, scende appoggiata a due monti contigui, l’uno detto di san Martino, 10 l’altro, con voce lombarda, il Resegone, dai molti suoi cocuzzoli in fila, che in vero lo fanno somigliare a una sega: talchè non è chi, al primo vederlo, purchè sia di fronte, come per esempio di su le mura di Milano che guardano a settentrione, non lo discerna tosto, a un tal contrassegno, in quella lunga e vasta giogaia4, dagli altri monti di nome più oscuro e di forma più comune. Per un buon pezzo, la costa 15 sale con un pendìo lento e continuo; poi si rompe in poggi e in valloncelli, in erte e in ispianate, secondo l’ossatura de’ due monti, e il lavoro dell’acque. Il lembo estremo, tagliato dalle foci de’ torrenti, è quasi tutto ghiaia e ciottoloni; il resto, campi e vigne, sparse di terre, di ville, di casali; in qualche parte boschi, che si prolungano su per la montagna. Lecco, la principale di quelle terre5, e che dà nome 20 al territorio, giace poco discosto dal ponte, alla riva del lago, anzi viene in parte a trovarsi nel lago stesso, quando questo ingrossa: un gran borgo al giorno d’oggi, e che s’incammina a diventar città. Ai tempi in cui accaddero i fatti che prendiamo a raccontare, quel borgo, già considerabile, era anche un castello, e aveva perciò l’onore d’alloggiare un comandante, e il vantaggio di possedere una stabile guarnigione 25 di soldati spagnoli, che insegnavan la modestia alle fanciulle e alle donne del paese, accarezzavan di tempo in tempo le spalle a qualche marito, a qualche padre6; e,

1 volge: è rivolto. 2 seni: anse, insenature. 3 costiera: pendio. 4 giogaia: catena montagnosa.

5 terre: arcaismo per “città, paese”. 6 accarezzavan… padre: si tratta, naturalmente, di “carezze” fatte col bastone, per mettere a tacere le proteste dei mariti e

dei padri contro i soldati che «insegnavan la modestia» alle loro donne. È il primo esempio dell’ironia manzoniana.

I promessi sposi 4 861


sul finir dell’estate, non mancavan mai di spandersi nelle vigne, per diradar l’uve, e alleggerire a’ contadini le fatiche della vendemmia7. Dall’una all’altra di quelle terre, dall’alture alla riva, da un poggio all’altro, correvano, e corrono tuttavia8, 30 strade e stradette, più o men ripide, o piane; ogni tanto affondate, sepolte tra due muri, donde, alzando lo sguardo, non iscoprite9 che un pezzo di cielo e qualche vetta di monte; ogni tanto elevate su terrapieni aperti: e da qui la vista spazia per prospetti più o meno estesi, ma ricchi sempre e sempre qualcosa10 nuovi, secondo che i diversi punti piglian più o meno della vasta scena circostante, e secondo che 35 questa o quella parte campeggia o si scorcia, spunta o sparisce a vicenda. Dove un pezzo, dove un altro, dove una lunga distesa di quel vasto e variato specchio dell’acqua; di qua lago, chiuso all’estremità o piuttosto smarrito in un gruppo, in un andirivieni di montagne, e di mano in mano più allargato tra altri monti che si spiegano, a uno a uno, allo sguardo, e che l’acqua riflette capovolti, co’ paesetti 40 posti sulle rive; di là braccio di fiume, poi lago, poi fiume ancora, che va a perdersi in lucido serpeggiamento pur tra’ monti che l’accompagnano, degradando via via, e perdendosi quasi anch’essi nell’orizzonte. Il luogo stesso da dove contemplate que’ vari spettacoli, vi fa spettacolo da ogni parte: il monte di cui passeggiate le falde, vi svolge, al di sopra, d’intorno, le sue cime e le balze, distinte, rilevate, mutabili quasi 45 a ogni passo, aprendosi e contornandosi in gioghi ciò che v’era sembrato prima un sol giogo, e comparendo in vetta ciò che poco innanzi vi si rappresentava sulla costa: e l’ameno, il domestico di quelle falde tempera gradevolmente il selvaggio11, e orna vie più12 il magnifico dell’altre vedute. 7 alleggerire... vendemmia: altro esempio dell’ironia di Manzoni. I soldati depredavano le vigne dei locali e in tal modo i contadini dovevano faticare di meno per la vendemmia.

8 tuttavia: ancora, tuttora. 9 iscoprite: scoprite con gli occhi, vedete. 10 qualcosa: in qualche modo. 11 l’ameno... il selvaggio: l’aspetto riden-

a quello più aspro e selvaggio, creando un equilibrio armonioso, gradevole agli occhi. 12 vie più: ancora di più.

te e familiare del paesaggio si mescola

Analisi del testo Un approccio da “geografo” Il romanzo si apre con un’ampia descrizione, che ci fornisce le precise coordinate geografiche dei luoghi dove si svolgerà molta parte dell’azione (e che in seguito sarà presentato come il “panorama sentimentale” dei protagonisti). Non è una scelta casuale: già dalle prime righe il lettore ha l’impressione di una scrittura tutta tesa a rappresentare con la massima verosimiglianza un ambiente che esiste davvero (come viene immediatamente messo in evidenza dall’uso del dimostrativo Quel) e dove ciascuno può recarsi e verificare in prima persona la precisione dello scrittore. Possiamo veramente dire, con le parole del critico ottocentesco Francesco De Sanctis, che la pagina «pare scritta da un geografo o da un naturalista che descrive dal vero quello che gli è innanzi»: fin dalle prime battute si manifesta l’attenzione documentaria del romanziere. Un atteggiamento che vuole richiamarsi alla poetica del “vero”, fondamentale per Manzoni a tal punto da dichiararla implicitamente proprio in apertura di romanzo.

La presentazione di un narratore onnisciente La pagina di apertura del romanzo è dunque dominata dall’elemento visivo: ma a chi appartiene quell’occhio che, scorrendo il paesaggio lacustre del lecchese, guida il lettore alla scoperta di ogni minimo dettaglio? Quell’occhio più volte citato nel testo stesso, quasi a volerne fare una sorta di vista interna alla narrazione? Possiamo considerare l’apertura del romanzo come la prima manifestazione del narratore onnisciente, che sceglie per sé un punto di vista

862 Ottocento 21 Alessandro Manzoni


sopraelevato, da cui domina tutto il paesaggio descrivendolo ai propri lettori in una veduta “a volo d’uccello”. In un certo senso, la pagina iniziale si configura così come un’allegoria della posizione che nel corso di tutto il romanzo sarà occupata dal narratore, che osserva e vede tutto. Un’onniscienza, quella di Manzoni, che non pretende di essere autoritaria e assoluta, ma al contrario è aperta ad accettare le ombre e i punti oscuri della storia, quelli che si nascondono e spariscono, a seconda del serpeggiare di qua o di là delle stradicciole.

Dimensione spaziale e dimensione temporale Al “qui” della dimensione geografica si aggiunge ben presto il “quando” della dimensione temporale. Con la locuzione «Ai tempi in cui accaddero i fatti», Manzoni introduce nel quadro appena tratteggiato l’elemento della Storia, che si presenta subito con i caratteri di una forza capace di sconvolgere la vita di una comunità: Lecco, il «gran borgo» di cui si è detto che «s’incammina a diventar città» (frase che già tende a storicizzare il territorio in cui è ambientata la vicenda narrata, a inserirlo nel flusso delle cose che cambiano e si evolvono), cessa di essere un mero scenario naturalistico e viene posta in contatto con il contesto storico degli eventi e delle forme di potere dominanti: un contatto, come si vedrà, tutt’altro che idilliaco. Poi la descrizione riprende, recuperando l’aspetto visivo e paesaggistico, ma ora è tutta dominata da un elemento umano: quelle «strade e stradette», percorrendo le quali l’occhio immaginario del lettore riesce ad afferrare ogni aspetto dell’ambiente rappresentato sulla pagina, quasi diventandone parte lui stesso e giungendo a coglierne i dettagli anche minimi in un movimento che ricorda quello di una zoomata cinematografica.

L’ironia A riprova della natura complessa e problematica che contraddistingue l’onniscienza del narratore, in questa pagina d’esordio abbiamo già un assaggio della famosa ironia manzoniana. È significativo che la storia faccia il proprio ingresso nel romanzo proprio attraverso la cifra ironica: quando introduce il riferimento a Lecco, Manzoni ci informa che all’epoca il grande borgo «era anche un castello», fatto che gli conferiva «l’onore [...] e il vantaggio» di dare alloggio a un comandante spagnolo con le relative truppe di soldati, i quali si premuravano di «insegnar la modestia» alle fanciulle, di «accarezzar le spalle» ai loro padri e mariti e di «diradar l’uve», alleggerendo così ai contadini le fatiche della vendemmia. Si tratta, evidentemente, di una costruzione di tipo antifrastico, in cui ogni asserzione va intesa come l’esatto contrario di quello che asserisce. Al di là del sipario paesaggistico apparentemente idilliaco finora descritto, è un mondo dominato dalla violenza e dalla sopraffazione quello in cui Manzoni ci fa entrare, dove i deboli sono destinati a soccombere: attraverso l’ironia, già si allude alla vicenda del sopruso attorno cui ruoterà l’intero romanzo.

Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

COMPRENSIONE 1. Che cos’è il Resegone e a che cosa deve il suo nome? ANALISI 2. Individua nel testo le espressioni che fanno riferimento all’occhio del narratore.

Interpretare

COMPETENZA DIGITALE 3. Cerca in Internet una mappa delle zone descritte da Manzoni in questo brano e, in una breve presentazione orale, indica i luoghi citati da Manzoni nel testo e ancora oggi riconoscibili.

online

Interpretazioni critiche Umberto Eco Manzoni, narratore che crea un mondo

online T9b Alessandro Manzoni

Il narratore esibisce il proprio ruolo registico I promessi sposi, XI

online T9c Alessandro Manzoni Il rapporto narratore-anonimo I promessi sposi, XXVII; XXXVIII

T9c1 La “scienza” di don Ferrante, erudito del Seicento I promessi sposi, XXVII

T9c2 Il sipario del romanzo si chiude I promessi sposi, XXXVIII

I promessi sposi 4 863


T10

I luoghi del romanzo e la rappresentazione dello spazio Questi brani focalizzano alcuni dei luoghi principali che fanno da sfondo alla vicenda: l’obiettivo è quello di far emergere i diversi significati assunti dalla rappresentazione dello spazio nell’economia del romanzo.

Alessandro Manzoni

T10a

L’occhio del cuore e della memoria: «Addio, monti...»

LEGGERE LE EMOZIONI

I promessi sposi, VIII A. Manzoni, I promessi sposi, a cura. di F. Gavino Olivieri, Principato, Milano 2009 (esemplato sull’edizione di Fausto Ghisalberti [Hoepli, Milano 1964])

È la notte degli imbrogli: Renzo, Lucia, Tonio e Gervaso lasciano la casa di don Abbondio (litografia da un’edizione popolare del XIX secolo).

Dopo la fallita spedizione a casa di don Abbondio nel tentativo di estorcergli la celebrazione del matrimonio, Renzo, Lucia e Agnese corrono al convento di Pescarenico per chiedere il consiglio e l’aiuto di padre Cristoforo. Con la consueta energia, il frate organizza la fuga e dà loro le indicazioni necessarie per muoversi: Renzo si recherà a Milano, presso il convento cappuccino di porta Orientale, mentre Lucia e Agnese troveranno rifugio in un altro convento dei dintorni. Ma ora è giunto per i nostri eroi il momento di partire, abbandonando il paese natale. Il brano che segue è il celebre Addio, monti, in cui Lucia, attraverso la voce del narratore, dà sfogo ai suoi sentimenti più intimi in un momento così drammatico della sua vita.

Senza aspettar risposta1, fra Cristoforo, andò verso la sagrestia; i viaggiatori usciron di chiesa; e fra Fazio chiuse la porta, dando loro un addio, con la voce alterata anche lui. Essi s’avviarono zitti zitti alla riva ch’era stata loro indicata; videro il battello pronto, e data e barattata la parola2, c’entrarono. Il barcaiolo, puntando un 5 remo alla proda3, se ne staccò; afferrato poi l’altro remo, e vogando a due braccia, prese il largo, verso la spiaggia opposta. Non tirava un alito di vento; il lago giaceva liscio e piano, e sarebbe parso immobile, se non fosse stato il tremolare e l’ondeggiar leggiero della luna, che vi si specchiava da mezzo il cielo. S’udiva soltanto il fiotto morto e lento frangersi sulle ghiaie del lido, il gorgoglìo più lontano dell’acqua 10 rotta tra le pile4 del ponte, e il tonfo misurato5 di que’ due remi, che tagliavano la superficie azzurra del lago, uscivano a un colpo grondanti, e si rituffavano. L’onda segata dalla barca, riunendosi dietro la poppa, segnava una striscia increspata, che s’andava allontanando dal lido. I passeggieri silenziosi, con la testa voltata 15 indietro, guardavano i monti, e il paese rischiarato dalla luna, e variato qua e là di grand’ombre. Si distinguevano i villaggi, le case, le capanne: il palazzotto di don Rodrigo, con la sua torre piatta, elevato sopra le casucce ammucchiate alla falda del promontorio, pareva un feroce6 che, ritto nelle tenebre, 1 Senza aspettar risposta: fra Cristoforo ha appena esortato i suoi protetti ad affrettarsi sulla via della fuga, rincuorandoli con l’assicurazione che molto presto si sarebbero incontrati tutti di nuovo. 2 data e barattata la parola: dopo

864 Ottocento 21 Alessandro Manzoni

aver chiamato ed aver ricevuta risposta in cambio. 3 proda: sponda. 4 le pile: i piloni in legno. 5 misurato: cadenzato. 6 un feroce: un malvagio.


in mezzo a una compagnia d’addormentati, vegliasse, meditando un delitto. Lucia lo vide, e rabbrividì; scese con l’occhio giù giù per la china, fino al suo paesello, guardò fisso all’estremità, scoprì la sua casetta, scoprì la chioma folta del fico che sopravanzava7 il muro del cortile, scoprì la finestra della sua camera; e, seduta, com’era, nel fondo della barca, posò il braccio sulla sponda, posò sul braccio la 25 fronte, come per dormire, e pianse segretamente. Addio, monti sorgenti dall’acque, ed elevati al cielo; cime inuguali, note a chi è cresciuto tra voi, e impresse nella sua mente, non meno che lo sia l’aspetto de’ suoi più familiari; torrenti, de’ quali distingue lo scroscio, come il suono delle voci domestiche; ville8 sparse e biancheggianti sul pendìo, come branchi di pecore pascenti9; 30 addio! Quanto è tristo10 il passo di chi, cresciuto tra voi, se ne allontana! Alla fantasia di quello stesso che se ne parte volontariamente, tratto dalla speranza di fare altrove fortuna, si disabbelliscono11, in quel momento, i sogni della ricchezza; egli si maraviglia d’essersi potuto risolvere12, e tornerebbe allora indietro, se non pensasse che, un giorno, tornerà dovizioso13. Quanto più si avanza nel piano14, il suo occhio 35 si ritira, disgustato e stanco, da quell’ampiezza uniforme; l’aria gli par gravosa15 e morta; s’inoltra mesto e disattento nelle città tumultuose; le case aggiunte a case, le strade che sboccano nelle strade, pare che gli levino il respiro; e davanti agli edifizi ammirati dallo straniero, pensa, con desiderio inquieto, al campicello del suo paese, alla casuccia a cui ha già messo gli occhi addosso, da gran tempo, e che comprerà, 40 tornando ricco a’ suoi monti. Ma chi non aveva mai spinto al di là di quelli neppure un desiderio fuggitivo16, chi aveva composti in essi tutti i disegni dell’avvenire17, e n’è sbalzato18 lontano, da una forza perversa! Chi, staccato a un tempo dalle più care abitudini, e disturbato nelle più care speranze, lascia que’ monti, per avviarsi in traccia di sconosciuti che 45 non ha mai desiderato di conoscere, e non può con l’immaginazione arrivare a un momento stabilito per il ritorno! Addio, casa natìa, dove, sedendo, con un pensiero occulto19, s’imparò a distinguere dal rumore de’ passi comuni il rumore d’un passo aspettato con un misterioso timore. Addio, casa ancora straniera20, casa sogguardata tante volte alla sfuggita, passando, e non senza rossore; nella quale la mente si 50 figurava un soggiorno tranquillo e perpetuo di sposa. Addio, chiesa, dove l’animo tornò tante volte sereno, cantando le lodi del Signore; dov’era promesso, preparato un rito21; dove il sospiro segreto del cuore doveva essere solennemente benedetto, e l’amore venir comandato, e chiamarsi santo; addio! Chi dava a voi tanta giocondità è per tutto22; e non turba mai la gioia de’ suoi figli, se non per prepararne loro una 55 più certa e più grande. Di tal genere, se non tali appunto23, erano i pensieri di Lucia, e poco diversi i pensieri degli altri due pellegrini, mentre la barca gli andava avvicinando alla riva destra dell’Adda. 20

7 sopravanzava: superava. 8 ville: villaggi. 9 pascenti: al pascolo. 10 tristo: triste. 11 si disabbelliscono: perdono ogni attrattiva. 12 si maraviglia… risolvere: si stupisce di aver deciso (di lasciare il paese). 13 dovizioso: ricco. 14 nel piano: nella pianura.

15 gravosa: pesante, irrespirabile. 16 fuggitivo: fugace, passeggero. 17 chi... avvenire: chi aveva immaginato tutti i progetti per il proprio avvenire entro i limiti di quei monti, senza mai pensare di allontanarsene. 18 sbalzato: scacciato, allontanato con forza. 19 occulto: nascosto, segreto. 20 casa ancora straniera: è la casa del

futuro sposo, dove Lucia sperava silenziosamente di andare a vivere. 21 un rito: il matrimonio con Renzo che doveva essere celebrato da don Abbondio. 22 Chi... per tutto: chi vi aveva concesso tutte quelle gioie (Dio) è dappertutto, lo troverete ovunque andrete. 23 se non tali appunto: se non proprio così, espressi con queste esatte parole.

I promessi sposi 4 865


Analisi del testo Una rappresentazione fortemente soggettiva del paesaggio Il brano può essere diviso in due momenti: la descrizione della cornice paesaggistica entro la quale avviene la fuga di Agnese e dei giovani fidanzati e il lungo squarcio lirico che dà voce al sentimento di Lucia. Il passaggio tra le due parti è segnato dall’Addio, monti del r. 26. Non si tratta però di una giustapposizione rigida e brusca: al contrario, la rappresentazione della scenografia naturale che fa da sfondo all’azione prepara la “messa in scena” del mondo interiore di Lucia, nel quale il lettore si sente trasportato in maniera graduale e quasi inavvertita. Il tema del notturno lunare costituisce, dall’Eneide di Virgilio in poi, un vero e proprio topos letterario; qui però la raffigurazione del paesaggio è ben lontana dal ridursi a puro e semplice disegno. La natura che esce dalla pagina è una natura vissuta e interpretata dall’animo accorato dei protagonisti e che viene via via prendendo forma attraverso le loro percezioni sensoriali: «Non tirava un alito di vento»; «S’udiva soltanto il fiotto morto e lento»; per arrivare, infine, all’immagine dell’«onda segata dalla barca» che, senza averlo ancora citato apertamente, ci fa risalire fino al loro sguardo mestamente rivolto all’indietro, oltre la poppa, verso gli amati monti che i protagonisti sono costretti ad abbandonare. Anche la rappresentazione dell’elemento umano risente di questa visuale soggettiva: ecco che allora l’abitazione di don Rodrigo è dipinta come una sagoma che incombe minacciosa sulle altre case del paese, simile a un feroce che veglia meditando delitti ai danni degli ignari addormentati, situazione resa linguisticamente dalla contrapposizione tra palazzotto e casucce.

La focalizzazione sul punto di vista di Lucia In questa visuale soggettiva, l’intenzione dell’autore è di portare poco a poco i lettori a identificarsi con il punto di vista di Lucia, in un movimento di graduale restringimento: prima si dà conto delle sensazioni generali del gruppo («Non tirava un alito di vento; il lago giaceva liscio e piano»), poi ci si sposta sullo sguardo dei personaggi («I passeggieri silenziosi, con la testa voltata indietro, guardavano i monti»), che è seguito fino alla comparsa dell’oggetto dell’attenzione della giovane (il palazzotto di don Rodrigo). Allora, con un sussulto che dal campo sensoriale ci fa slittare verso quello emotivo, arriviamo a concentrarci su Lucia: «Lucia lo vide, e rabbrividì». Da questo punto in avanti, sarà lo sguardo di Lucia che noi lettori seguiremo («scese con l’occhio giù giù per la china»): il suo scorrere triste sulle case del paesello fino a scorgerne i più piccoli dettagli, con quella minuzia attenta che solo un amore profondamente radicato può produrre, costituisce il movimento preparatorio all’ampio passo dell’Addio, monti.

Addio, monti: il narratore prende la parola Manzoni affida alla chiusa del capitolo un commento, espresso con la consueta velatura ironica («Di tal genere, se non tali appunto, erano i pensieri di Lucia»), il cui senso non poteva non essere già colto dal lettore attento. Le parole dell’Addio, monti non possono considerarsi la riproduzione esatta dei pensieri di Lucia; anzi, parrebbe quasi che il narratore abbia voluto adottare qui un registro linguistico aulico, per rendere ancora più lampante lo scarto tra la parola scritta e la dimensione espressiva di una povera operaia quale era Lucia. In realtà, dopo aver ricostruito materialmente lo sguardo di Lucia mentre scivola sul paesaggio tanto amato che sta per lasciare, con l’Addio, monti è il narratore stesso a prendere la parola, interpretando il sentimento della protagonista attraverso il proprio filtro ideologico e culturale: in un certo senso, possiamo leggere questo celebre passo come un “cantuccio” che l’autore ha voluto ritagliarsi per sé, simile in qualche modo ai cori delle tragedie (➜ T4 OL, ➜ T6 e ➜ T7 ). Oltre che nelle scelte linguistiche, la presenza della visuale d’autore si manifesta anche attraverso l’impostazione data al brano: lo sconforto di Lucia viene rappresentato contrapponendo la sua situazione a quella di un ipotetico personaggio che si allontana dal paese natale per propria decisione, perseguendo un progetto di miglioramento economico («tratto dalla speranza di fare altrove fortuna») ma che, ciononostante, non si salva dalla tortura di una persistente malinconia. Ben più gravosa, continua il narratore, sarà la condizione di chi, come Lucia, non ha mai desiderato allontanarsi dalla propria terra, ma ne è cacciato da

866 Ottocento 21 Alessandro Manzoni


una «forza perversa». Ogni desiderio di Lucia è invece racchiuso entro lo spazio conosciuto e sicuro del paese natio e in queste righe la visione dell’autore sembra trovare una perfetta identificazione con quella dell’eroina a cui sta prestando la voce. Il ragionamento di Manzoni tradisce la sua personale propensione per un ideale di vita semplice e raccolta (quello che in effetti coltiva egli stesso per tutta la sua esistenza).

Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

COMPRENSIONE 1. Quale storia immagina il narratore per l’uomo «che se ne parte volontariamente», l’ipotetico personaggio la cui partenza dal paese viene confrontata con quella di Lucia? 2. Qual è la forza perversa che costringe Lucia ad andarsene? 3. A chi appartiene il «passo aspettato con un misterioso timore» di cui si parla nel testo manzoniano alle rr. 47-48? ANALISI 4. Individua le sensazioni uditive presenti nel testo, a partire dal saluto «con la voce alterata» di fra Fazio, e spiega come il narratore passi progressivamente dalla dimensione uditiva a quella puramente visiva. 5. Nel testo è presente un rapido riferimento implicito alla figura di don Abbondio. Ricerca il punto dove se ne parla. STILE 6. In che modo emerge l’ironia del narratore?

Interpretare LEGGERE LE EMOZIONI

SCRITTURA 7. Ti è mai capitato di vivere, direttamente o attraverso l’esperienza di una persona che conosci, una situazione simile a quella descritta nel testo, cioè l’abbandono (forzato o per scelta) dei luoghi in cui si è nati e cresciuti? Quali sensazioni hai provato (o credi che potresti provare)? 8. La descrizione del paesaggio manzoniano rispecchia la concezione della natura tipica della letteratura romantica, che trasferisce nei dati oggettivi della realtà le emozioni, le sensazioni, le percezioni soggettive dei personaggi. Spiega e argomenta in un breve testo (max 15 righe) le tue considerazioni a proposito della rappresentazione della natura e del paesaggio manzoniano, che è espressione degli stati d’animo umani. 9. Il romanzo è costruito in modo da trasferire gli affetti e i discorsi dei personaggi sul piano intellettuale e morale dell’autore. Commenta questa affermazione alla luce dell’accorato Addio, monti di Lucia e dell’interpretazione di Giuseppe Petronio che ti presentiamo:

A differenza di quanto fecero poi i veristi, il Manzoni non si trasferisce lui sul piano dei suoi personaggi, ma trasporta quelli sul suo, e li fa pensare e parlare per interposta persona, attraverso il pensare e l’esprimersi di quell’Alessandro Manzoni che è il loro storiografo e interprete. Esempio tipico l’addio di Renzo e Lucia ai loro monti […] dove i sentimenti e i pensieri dei due umili eroi vengono resi con una elevatezza di affetti, una perspicuità di parole, una forza di lirismo, che non poteva essere loro. E Manzoni ne ha coscienza, tanto che alla fine del passo aggiunge due righe rivelatrici; «Di tal genere, se non tali appunto, erano i pensieri di Lucia». «Non tali appunto», perché Lucia non poteva pensare e sentire così, o, per lo meno, non poteva estrinsecare così i suoi sentimenti. G. Petronio, L’attività letteraria in Italia. Storia della letteratura italiana, Palumbo, Palermo 1991

online T10b Alessandro Manzoni

La natura “umanizzata” (o la natura specchio): la fuga di Renzo I promessi sposi, XVII

I promessi sposi 4 867


Alessandro Manzoni

La valle e il castello dell’Innominato: un esempio di cronotopo

T10c

I promessi sposi, XX Fallito il tentativo di rapire Lucia, don Rodrigo decide di chiedere l’aiuto di un truce personaggio, famoso per la crudeltà e la spregiudicatezza con cui è pronto a compiere i crimini più efferati: «Fare ciò ch’era vietato dalle leggi, o impedito da una forza qualunque; esser arbitro, padrone negli affari altrui, senz’altro interesse che il gusto di comandare; esser temuto da tutti, aver la mano da coloro ch’eran soliti averla dagli altri; tali erano state in ogni tempo le passioni principali di costui». Così Manzoni aveva descritto l’Innominato nel capitolo precedente; il capitolo XX si apre con una descrizione del suo castello, un luogo che sembra costruito proprio per riprodurre i tratti distintivi del personaggio.

A. Manzoni, I promessi sposi, a cura di F. Gavino Olivieri, Principato, Milano 2009 (esemplato sull’edizione di Fausto Ghisalberti [Hoepli, Milano 1964])

Il castello dell’innominato era a cavaliere a una valle angusta1 e uggiosa2, sulla cima d’un poggio che sporge in fuori da un’aspra giogaia di monti, ed è, non si saprebbe dir bene, se congiunto ad essa o separatone, da un mucchio di massi e di dirupi, e da un andirivieni di tane3 e di precipizi, che si prolungano anche dalle due parti. 5 Quella che guarda la valle è la sola praticabile; un pendìo piuttosto erto, ma uguale e continuato; a prati in alto; nelle falde4 a campi, sparsi qua e là di casucce. Il fondo è un letto di ciottoloni, dove scorre un rigagnolo o torrentaccio, secondo la stagione: allora serviva di confine ai due stati5. I gioghi opposti, che formano, per dir così, l’altra parete della valle, hanno anch’essi un po’ di falda coltivata; il resto è schegge e maci10 gni, erte ripide, senza strada e nude, meno qualche cespuglio ne’ fessi6 e sui ciglioni. Dall’alto del castellaccio, come l’aquila dal suo nido insanguinato, il selvaggio7 signore dominava all’intorno tutto lo spazio dove piede d’uomo potesse posarsi, e non vedeva mai nessuno al di sopra di sè, nè più in alto. Dando un’occhiata in giro, scorreva tutto quel recinto, i pendìi, il fondo, le strade praticate là dentro. 15 Quella che, a gomiti e a giravolte, saliva al terribile domicilio, si spiegava davanti a chi guardasse di lassù, come un nastro serpeggiante: dalle finestre, dalle feritoie, poteva il signore contare a suo bell’agio i passi di chi veniva, e spianargli l’arme contro, cento volte. E anche d’una grossa compagnia, avrebbe potuto, con quella guarnigione di bravi che teneva lassù, stenderne sul sentiero, o farne ruzzolare al 20 fondo parecchi, prima che uno arrivasse a toccar la cima. Del resto, non che lassù, ma neppure nella valle, e neppur di passaggio, non ardiva metter piede nessuno che non fosse ben visto dal padrone del castello. Il birro8 poi che vi si fosse lasciato vedere, sarebbe stato trattato come una spia nemica che venga colta in un accampamento. Si raccontavano le storie tragiche degli ultimi che avevano voluto tentar 25 l’impresa; ma eran già storie antiche; e nessuno de’ giovani si rammentava d’aver veduto nella valle uno di quella razza, nè vivo, nè morto. Tale è la descrizione che l’anonimo fa del luogo: del nome, nulla; anzi, per non

1 angusta: stretta. 2 uggiosa: cupa, dove la luce fatica ad

4 nelle falde: sui fianchi. 5 due stati: il Ducato di Milano e la Re-

7 selvaggio: crudele. 8 birro: ufficiale di giustizia, equivalente

entrare. 3 tane: grotte, anfratti.

pubblica di Venezia.

del moderno poliziotto.

6 fessi: crepacci.

868 Ottocento 21 Alessandro Manzoni


metterci sulla strada di scoprirlo, non dice niente del viaggio di don Rodrigo9, e lo porta addirittura nel mezzo della valle, appiè del poggio, all’imboccatura dell’erto 30 e tortuoso sentiero. Lì c’era una taverna, che si sarebbe anche potuta chiamare un corpo di guardia. Sur una vecchia insegna che pendeva sopra l’uscio, era dipinto da tutt’e due le parti un sole raggiante10; ma la voce pubblica, che talvolta ripete i nomi come le vengono insegnati, talvolta li rifà a modo suo, non chiamava quella taverna che col nome della Malanotte. 9 del viaggio di don Rodrigo: il capitolo precedente si era chiuso con la scena di

don Rodrigo che, in compagnia del Griso e di altri bravi, partiva dal suo palazzotto

alla volta del castello dell’Innominato.

10 raggiante: radioso.

Analisi del testo Il cronotopo del castellaccio Fin dalla sua prima apparizione, il castellaccio è connotato come un luogo che non si limita a svolgere la mera funzione di teatro degli avvenimenti, ma esprime di per sé il carattere dei personaggi e del tempo in cui essi vivono e agiscono. In altre parole è un cronotopo (dal greco crónos, “tempo” e tópos, “luogo”) in cui i connotati spaziali e temporali di una certa epoca si fondono organicamente in un’unica espressione artisticamente coerente. Come osserva il critico Michail Bachtin, il cronotopo è quel luogo letterario dove il tempo «si fa denso e compatto e diventa artisticamente visibile; lo spazio si intensifica e si immette nel movimento del tempo, dell’intreccio, della storia. I connotati del tempo si manifestano nello spazio, al quale il tempo dà senso e misura». Ed è proprio quanto accade con il castello dell’Innominato, che, insieme alla valle in cui sorge, diventa espressione del potere spietato e crudele del suo signore, ne reca la traccia in ogni elemento, tanto naturale quanto architettonico, rivive nel pensiero e nella memoria atterrita di quanti quel potere hanno avuto la disgrazia di conoscere, anche solo per sentito dire: vedi il «Si raccontavano le storie tragiche» che sembra solo l’eco lontana di una lunga sequela di orribili episodi. Il castello dell’Innominato diventa così viva allegoria di quel Seicento dominato dalla violenza e dai soprusi che Manzoni mette in scena nel romanzo.

La natura partecipe dei drammi della storia

Il castello dell’Innominato in una litografia del 1874.

La descrizione della valle sulla quale incombe il castello è costruita ricalcando lo schema della pagina iniziale del romanzo (➜ T9a ). Simili sono infatti gli elementi geografici portati sulla pagina, in un caso come nell’altro pertinenti a un paesaggio di tipo montano; viene ripresa anche la medesima modellizzazione spaziale, con il movimento “a carrellata”, così come il punto di vista dall’alto. Se però in «Quel ramo del lago di Como» questo era un modo per introdurre, riproducendola simbolicamente, la visione totale del narratore onnisciente, qui l’asse spaziale alto-basso serve invece a rendere fisicamente il dominio incontrastato che l’Innominato esercita sulla sua valle. Tutto il primo capoverso, denso di immagini atte a richiamare l’idea di un’altezza impervia e inattaccabile, serve a preparare la scena nella quale il lettore, che pure già lo aveva intuito, riconosce senz’ombra di dubbio a chi vada attribuita quella visuale sovrastante: «Dall’alto del castellaccio, come l’aquila nel suo nido insanguinato, il selvaggio signore dominava all’intorno tutto lo spazio». Quella rappresentata qui è, dunque, una natura che assorbe i drammi della storia umana, ne assume i caratteri con precisione mimetica e se ne fa portatrice agli occhi di chi la guarda. Non è più la natura innocente e astorica dell’idillio, bensì una natura, se così si può dire, storicizzata, percorsa e trasformata dal fitto sistema di rapporti e tensioni che costituiscono la storia, dove ogni minimo elemento viene ad assumere un valore semantico, diventando così un veicolo di senso e di valore.

I promessi sposi 4 869


Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

TECNICA NARRATIVA 1. Di chi è il punto di vista ravvisabile nella descrizione del luogo in cui sorge il castello? Ricorda in proposito che, secondo Umberto Eco (➜ INTERPRETAZIONI CRITICHE, Manzoni, narratore che crea un mondo OL), per l’apertura dei Promessi sposi è stato adottato «il punto di vista di Dio». ANALISI 2. In che modo il concetto di “cronotopo” trova applicazione nella descrizione del castellaccio dell’Innominato? Quali sono gli elementi che, nella descrizione del castellaccio, contribuiscono a connotarlo in senso spaziale, temporale e, aggiungiamo noi, anche morale?

Interpretare

TESTI A CONFRONTO 3. Rileggi la pagina d’apertura del romanzo (➜ T9a ) e traccia un parallelo tra quella descrizione paesaggistica e questa del castello dell’Innominato, che tenga conto di: a. come è costruita la dimensione spaziale (movimento dall’alto al basso, carrellate, zoomate ecc.); b. quale sia il punto di vista (dall’alto, frontale, ecc.) e se cambia nel corso del brano; c. come l’elemento umano si inserisce nella descrizione.

online T10d1 I segni della carestia I promessi sposi, IV

T10d Alessandro Manzoni La natura senza idillio I promessi sposi, IV; XXXIII

T10d2 La vigna di Renzo: una raffigurazione dichiaratamente simbolica I promessi sposi, XXXIII

online

Verso il Novecento La letteratura dell’ordine opposta al caos del mondo

Renzo entra nella sua vigna, illustrazione di Francesco Gonin per l’edizione del 1840 dei Promessi sposi.

870 Ottocento 21 Alessandro Manzoni


T11

Gli inganni della parola e il potere sociale della lingua I passi presentati evidenziano un tema assai caro a Manzoni, ovvero la subordinazione della comunicazione tra i personaggi alle dinamiche di potere che sottendono i rapporti sociali; importante elemento della trama, questo tema diventa fondamento del “pessimismo storico” manzoniano. Linguista finissimo e puntiglioso, oltre che grande romanziere, Manzoni infatti ebbe sempre la consapevolezza che la lingua non è uno strumento innocente attraverso cui la comunicazione avviene in modo lineare e trasparente. Assai più spesso, anzi, capita che l’uomo usi il mezzo linguistico per erigere una barriera tra sé e il mondo, per poterlo meglio dominare (soprattutto quando il mondo è quello degli umili e degli oppressi), per nascondere o camuffare la verità. La lingua può allora diventare il latinorum scaltro e vigliacco di don Abbondio o il garbuglio incomprensibile delle gride o i furbi giri di parole dell’Azzeccagarbugli.

Alessandro Manzoni

T11a

Renzo e don Abbondio: la subdola violenza del latinorum

EDUCAZIONE CIVICA

nucleo Costituzione competenza 1

I promessi sposi, II A. Manzoni, I promessi sposi, a cura di F. Gavino Olivieri, Principato, Milano 2009 (esemplato sull’edizione di Fausto Ghisalberti [Hoepli, Milano 1964])

Leggiamo ora una delle prime pagine del romanzo: quella in cui Renzo, ancora ignaro della bufera che sta per piombargli addosso, si reca da don Abbondio tutto contento per le nozze che (così crede) dovranno celebrarsi quel giorno. Reduce da una notte insonne per la paura dell’incontro con i bravi, il curato, per cavarsi d’impiccio e levarsi di torno l’insistente giovanotto, fa ricorso a tutti i mezzi e gli stratagemmi che la sua posizione di privilegio gli consente, compresi, non da ultimo, quelli linguistici.

Lorenzo o, come dicevan tutti, Renzo non si fece molto aspettare. Appena gli parve ora di poter, senza indiscrezione1, presentarsi al curato, v’andò, con la lieta furia2 d’un uomo di vent’anni, che deve in quel giorno sposare quella che ama. Era, fin dall’adolescenza, rimasto privo de’ parenti3, ed esercitava la professione di filatore 5 di seta, ereditaria, per dir così, nella sua famiglia; professione, negli anni indietro, assai lucrosa; allora già in decadenza, ma non però a segno che4 un abile operaio non potesse cavarne di che vivere onestamente. Il lavoro andava di giorno in giorno scemando; ma l’emigrazione continua de’ lavoranti, attirati negli stati vicini da promesse, da privilegi e da grosse paghe, faceva sì che non ne mancasse ancora 10 a quelli che rimanevano in paese. Oltre di questo, possedeva Renzo un poderetto che faceva lavorare e lavorava egli stesso, quando il filatoio stava fermo; di modo che, per la sua condizione, poteva dirsi agiato. E quantunque quell’annata fosse ancor più scarsa delle antecedenti, e già si cominciasse a provare una vera carestia, pure il nostro giovine, che, da quando aveva messi gli occhi addosso a Lucia, era 15 divenuto massaio5, si trovava provvisto bastantemente6, e non aveva a contrastar7 con la fame. Comparve davanti a don Abbondio, in gran gala, con penne di vario colore al cappello, col suo pugnale del manico bello, nel taschino de’ calzoni, con 1 senza indiscrezione: senza arrecare disturbo. Fin da subito Renzo si fa conoscere come un ragazzo educato e rispettoso dei ruoli sociali, che vedono in un

prete una persona degna di particolare riguardo. 2 furia: impazienza. 3 parenti: latinismo per “genitori”.

4 a segno che: al punto che. 5 massaio: un buon amministratore. 6 bastantemente: a sufficienza. 7 contrastar: lottare.

I promessi sposi 4 871


una cert’aria di festa e nello stesso tempo di braverìa8, comune allora anche agli uomini più quieti. L’accoglimento9 incerto e misterioso di don Abbondio fece un 20 contrapposto10 singolare ai modi gioviali e risoluti del giovinotto. – Che abbia qualche pensiero per la testa, – argomentò Renzo tra sè; poi disse: «son venuto, signor curato, per sapere a che ora le comoda che ci troviamo in chiesa.» «Di che giorno volete parlare?» «Come, di che giorno? non si ricorda che s’è fissato per oggi?» 25 «Oggi?» replicò don Abbondio, come se ne sentisse parlare per la prima volta. «Oggi, oggi... abbiate pazienza, ma oggi non posso.» «Oggi non può! Cos’è nato11?» «Prima di tutto, non mi sento bene, vedete.» «Mi dispiace; ma quello che ha da fare è cosa di così poco tempo, e di così poca 30 fatica...» «E poi, e poi, e poi...» «E poi che cosa?» «E poi c’è degli imbrogli.» «Degl’imbrogli? Che imbrogli ci può essere?» 35 «Bisognerebbe trovarsi nei nostri piedi12, per conoscer quanti impicci nascono in queste materie, quanti conti s’ha da rendere. Io son troppo dolce di cuore, non penso che a levar di mezzo gli ostacoli, a facilitar tutto, a far le cose secondo il piacere altrui, e trascuro il mio dovere; e poi mi toccan de’ rimproveri, e peggio.» «Ma, col nome del cielo, non mi tenga così sulla corda, e mi dica chiaro e netto 40 cosa c’è.» «Sapete voi quante e quante formalità ci vogliono per fare un matrimonio in regola?» «Bisogna ben ch’io ne sappia qualche cosa,» disse Renzo, cominciando ad alterarsi, «poichè me ne ha già rotta bastantemente la testa, questi giorni addietro. Ma ora non s’è sbrigato ogni cosa? non s’è fatto tutto ciò che s’aveva a fare?» 45 «Tutto, tutto, pare a voi: perchè, abbiate pazienza, la bestia son io, che trascuro il mio dovere, per non far penare la gente. Ma ora... basta, so quel che dico. Noi poveri curati siamo tra l’ancudine13 e il martello: voi impaziente; vi compatisco14, povero giovane; e i superiori... basta, non si può dir tutto. E noi siam quelli che ne andiam di mezzo.» 50 «Ma mi spieghi una volta cos’è quest’altra formalità che s’ha a fare, come dice; e sarà subito fatta.» «Sapete voi quanti siano gl’impedimenti dirimenti15?» «Che vuol ch’io sappia d’impedimenti?» «Error, conditio, votum, cognatio, crimen, 55 cultus disparitas, vis, ordo, ligamen, honestas, Si sis affinis16... » cominciava don Abbondio, contando sulla punta delle dita. 8 braverìa: spavalderia. 9 accoglimento: accoglienza. 10 contrapposto: contrasto. 11 Cos’è nato: che cosa è accaduto. 12 nei nostri piedi: nei nostri panni. 13 ancudine: incudine. 14 vi compatisco: vi capisco. 15 impedimenti dirimenti: i motivi che impediscono o rendono nullo un matrimonio.

872 Ottocento 21 Alessandro Manzoni

16 Error... affinis: gli impedimenti dirimenti appena citati, così come stabiliti nel 1563 dal concilio di Trento, furono raccolti dal rituale ambrosiano in sei esametri latini per facilitarne l’apprendimento a memoria da parte dei sacerdoti. Ecco perché don Abbondio li enumera contando sulle dita, come snocciolando una filastrocca: error, errore di persona; conditio, equivoco sul-

la condizione della persona; votum, l’aver pronunciato un voto; cognatio, la consanguineità; crimen, un delitto o un adulterio; cultus disparitas, differenza di religione; vis, coercizione violenta; ordo, gli ordini sacri; ligamen, vincolo matrimoniale precedente; honestas, mancata promessa di matrimonio; si sis affinis, l’affinità tra uno degli sposi e i parenti dell’altro.


«Si piglia gioco di me?» interruppe il giovine. «Che vuol ch’io faccia del suo latinorum17?» 60 «Dunque, se non sapete le cose, abbiate pazienza, e rimettetevi a chi le sa.» «Orsù!...» «Via, caro Renzo, non andate in collera, che son pronto a fare... tutto quello che dipende da me. Io, io vorrei vedervi contento; vi voglio bene io. Eh!... quando penso che stavate così bene; cosa vi mancava? V’è saltato il grillo di maritarvi...» 65 «Che discorsi son questi, signor mio?» proruppe Renzo, con un volto tra l’attonito e l’adirato. «Dico per dire, abbiate pazienza, dico per dire. Vorrei vedervi contento.» «In somma...» «In somma, figliuol caro, io non ci ho colpa; la legge non l’ho fatta io. E, prima di 70 conchiudere un matrimonio, noi siam proprio obbligati a far molte e molte ricerche, per assicurarci che non ci siano impedimenti.» «Ma via, mi dica una volta che impedimento è sopravvenuto?» «Abbiate pazienza, non son cose da potersi decifrare così su due piedi. Non ci sarà niente, così spero; ma, non ostante, queste ricerche noi le dobbiam fare. Il testo è 75 chiaro e lampante: antequam matrimonium denunciet18...» «Le ho detto che non voglio latino.» «Ma bisogna pur che vi spieghi...» «Ma non le ha già fatte queste ricerche?» «Non le ho fatte tutte, come avrei dovuto, vi dico.» 80 «Perchè non le ha fatte a tempo? perchè dirmi che tutto era finito? perchè aspettare...» «Ecco! mi rimproverate la mia troppa bontà. Ho facilitato ogni cosa per servirvi più presto: ma... ma ora mi son venute... basta, so io.» «E che vorrebbe ch’io facessi?» 85 «Che aveste pazienza per qualche giorno. Figliuol caro, qualche giorno non è poi l’eternità: abbiate pazienza.» «Per quanto?» – Siamo a buon porto, – pensò fra sè don Abbondio; e, con un fare più manieroso che mai, «via,» disse: «in quindici giorni cercherò,... procurerò...» 90 «Quindici giorni! oh questa sì ch’è nuova! S’è fatto tutto ciò che ha voluto lei; s’è fissato il giorno; il giorno arriva; e ora lei mi viene a dire che aspetti quindici giorni! Quindici...» riprese poi, con voce più alta e stizzosa, stendendo il braccio, e battendo il pugno nell’aria; e chi sa qual diavoleria avrebbe attaccata a quel numero, se don Abbondio non l’avesse interrotto, prendendogli l’altra mano, con un’amorevolezza 95 timida e premurosa: «via, via, non v’alterate, per amor del cielo. Vedrò, cercherò se, in una settimana...» «E a Lucia che devo dire?» «Ch’è stato un mio sbaglio.»

17 latinorum: Renzo avverte che don Abbondio sta usando cultura e conoscenze linguistiche per imbrogliarlo; questa con-

sapevolezza emerge dalla storpiatura (involontaria) che fa parlando del latinorum per intendere la lingua latina.

18 antequam... denunciet: prima delle pubblicazioni.

I promessi sposi 4 873


«E i discorsi del mondo19?» 100 «Dite pure a tutti, che ho sbagliato io, per troppa furia, per troppo buon cuore: gettate tutta la colpa addosso a me. Posso parlar meglio? via, per una settimana.» «E poi, non ci sarà più altri impedimenti?» «Quando vi dico...» «Ebbene: avrò pazienza per una settimana; ma ritenga bene che, passata questa, 105 non m’appagherò più di chiacchiere. Intanto la riverisco.» E così detto, se n’andò, facendo a don Abbondio un inchino men profondo del solito, e dandogli un’occhiata più espressiva che riverente. 19 i discorsi del mondo: le dicerie della gente, che si sarebbe stupita nello sco-

prire che il matrimonio non era stato celebrato.

Analisi del testo Il ritratto sociale di Renzo Fa il suo ingresso in questa pagina il protagonista maschile del romanzo. In un rapido ritratto sono tratteggiati i connotati di Renzo: giovane sveglio (capisce subito che nell’atteggiamento del prete c’è qualcosa di strano) e baldanzoso, animato da una lieta furia giovanile, alimentata dall’entusiasmo per la cerimonia nuziale che crede imminente. Come accade di consueto nel romanzo, la prima comparsa di un personaggio è anche il momento in cui l’autore ricostruisce a grandi linee la sua storia personale. Orfano fin dall’adolescenza, Renzo si mantiene esercitando la professione di filatore di seta, ereditata dalla famiglia, e grazie a un poderetto, che lavora quando il filatoio lo lascia libero. Nelle parole del narratore si delinea una figura dalla precisa fisionomia sociale e antropologica: un operaio, piccolo proprietario agricolo, rispettoso dei ruoli sociali, massaio avveduto sì da poter realizzare il progetto di metter su famiglia con la giovane sulla quale «aveva messi gli occhi». Tutto secondo i princìpi cari a quel liberalismo cattolico di cui Manzoni era convinto assertore.

Renzo e don Abbondio: latinorum contro un’ingenua braverìa L’incontro fra don Abbondio e Renzo si configura subito come una sorta di duello, nel quale al legittimo risentimento di Renzo si contrappongono gli argomenti pavidi e pretestuosi di don Abbondio, che riescono a imporsi soltanto ricorrendo al sostegno di una lingua sconosciuta all’interlocutore, il famigerato latinorum. Senza questo schermo, che stabilisce una distanza culturale e sociale tra lui e il giovane, don Abbondio si trova del tutto sprovveduto, impelagato in una situazione incresciosa che non riesce assolutamente a gestire: prima finge una poco credibile amnesia («Di che giorno volete parlare?»), poi accampa scuse senza fondamento («Prima di tutto, non mi sento bene, vedete»), e solo in terza battuta, quando vede che Renzo ancora non demorde, mette in campo il motivo degli imbrogli, dietro al quale riesce finalmente a trovare riparo dall’insistenza del giovane. L’uso del latino diventa così un’arma la cui forza risiede nell’ignoranza dell’interlocutore, rovesciando quella che dovrebbe essere la norma fondante di qualsiasi dialogo, vale a dire la ricerca di comunicazione. Non a caso la sequela di formule latine snocciolate da don Abbondio suscita l’irritata reazione di Renzo: «Si piglia gioco di me? [...] Che vuol ch’io faccia del suo latinorum?», e la risposta del prete non fa che sancire la sua indiscutibile posizione di immeritata superiorità, contro la quale nulla può lo sdegno del giovane: «Dunque, se non sapete le cose, abbiate pazienza, e rimettetevi a chi le sa». Al contrario, il comportamento di Renzo è franco e trasparente; si rivolge a don Abbondio con domande brevi e dirette, che accanto ai confusi giri di parole del prete appaiono ancora più fulminee. Quella di Renzo è la lingua semplice e autentica di chi reclama con ragione un diritto negato; essa nasce da un sentimento genuino e dalle esigenze concrete e reali della vita e non necessita di artifici. Quella di don Abbondio, invece, è la lingua dell’inganno e della dissimulazione, usata come arma di potere anche quando si tinge di toni affettuosi: per questo ha bisogno di ricorrere a tutti i mezzi retorici di cui dispone la preparazione ecclesiastica, quelli stessi che dovrebbero servire a sostegno e difesa di un povero cristiano come Renzo.

874 Ottocento 21 Alessandro Manzoni


Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

COMPRENSIONE 1. Ricostruisci lo schema secondo il quale è strutturato il ritratto di Renzo: dati fisici, familiari, economici, sociali ecc. ANALISI 2. Nel dialogo-scontro fra don Abbondio e Renzo, individua le battute che contribuiscono maggiormente a far emergere il carattere dei due uomini.

Interpretare EDUCAZIONE CIVICA

nucleo

Costituzione

competenza 1

LETTERATURA E NOI 3. Il latinorum di don Abbondio diventa un’arma per annientare la legittima richiesta di giustizia di Renzo. Anche con l’aiuto degli altri esempi proposti nel ➜ PER APPROFONDIRE Gli inganni della lingua e gli ostacoli della comunicazione tra i ceti sociali nei Promessi sposi, commenta come nel mondo secentesco descritto da Manzoni la lingua, nelle sue varie forme (dialogo diretto, lingua burocratica, scambio epistolare...), possa diventare un esercizio di potere e di sopraffazione. Ti sembra che questo “lato oscuro” sia ancora presente negli odierni canali di comunicazione e nella vita quotidiana? In che modo l’istruzione può contribuire a difenderci da soprusi? SCRITTURA ARGOMENTATIVA 4. Quale importante ruolo Manzoni attribuisce alla parola? Perché i grandi e i potenti dominano il mondo e lo “modificano” con la parola, mentre gli umili sono traditi dalla parola e intrappolati da essa, soprattutto se scritta? Argomenta opportunamente, facendo riferimento anche ad altre considerazioni analoghe che hai incontrato nelle tue letture oppure nella tua esperienza di studente.

online T11b Alessandro Manzoni

PER APPROFONDIRE

Renzo e l’Azzeccagarbugli I promessi sposi, III

Gli inganni della lingua e gli ostacoli della comunicazione tra i ceti sociali nei Promessi sposi Comunicazione e logica del potere Nel mondo secentesco dei Promessi sposi, anche una facoltà primaria come la comunicazione è soggetta alla logica del potere e della sopraffazione: per le genti meccaniche di Manzoni essa, dunque, può trasformarsi in un percorso estremamente accidentato, irto di trabocchetti e inganni e spesso fallimentare. Oltre al caso proposto in ➜ T11a , uno degli esempi più eclatanti di questa realtà è sicuramente l’incontro tra Renzo e Azzeccagarbugli (➜ T11b OL), che si sviluppa tutto sulla falsariga dell’equivoco e del fraintendimento. La diffidenza di Renzo per la parola scritta e la lingua della legge Le cose si fanno ancora più complesse quando si entra nella sfera insidiosa della parola scritta, dimensione completamente estranea ai poveri e agli umili, che sono pertanto condannati a subirne le regole ingannevoli senza alcuna possibilità di difendersi. È quanto accade a Renzo nel capitolo XIV, quando, alla fine della giornata che ha visto Milano in subbuglio per i tumulti del pane, viene condotto dal falso amico Ambrogio Fusella nell’osteria dove poi sarà arrestato. Quando l’oste chiede le sue generalità per scriverle sul registro, il giovane rifiuta con energia, respingendo la grida

che l’uomo gli mostra perché «se le gride che parlan bene, in favore de’ buoni cristiani, non contano; tanto meno devon contare quelle che parlan male». Il ragionamento di Renzo si fonda su una semplicità disarmante, sostenuto e alimentato da un’idea di giustizia cristallina: se le leggi non contano per difendermi, non devono contare nemmeno per opprimermi e limitarmi nei miei movimenti. La lingua con cui esse si esprimono è fallace e menzognera e Renzo vuole tenersene lontano: così, mentre si trova sotto i fumi dell’alcol, il giovane formula la sua teoria riguardo al subdolo potere della penna, al quale crede di potersi sottrarre rifiutandosi di compilare il registro dell’oste. Nelle parole di Renzo, la penna diventa una sorta di spada, una lama acuminata che infilza le parole di «un povero figliuolo» e le inchioda sulla carta, perché possano essere usate contro di lui. È il potere immenso della parola scritta, preclusa agli umili e ai poveri, strumento esclusivo delle classi privilegiate che lo usano per i propri scopi invece che per il bene comune. È il potere del latinorum di don Abbondio e di Azzeccagarbugli, della lingua vuota e involuta delle gride, ma anche della falsa cortesia dell’oste.

I promessi sposi 4 875


Le lettere: «bisogna che chi non sa si metta nelle mani di chi sa» Un altro esempio particolarmente significativo si trova nel capitolo XXVII, quando, allontanato suo malgrado dalle persone che ama, Renzo si vede costretto a fare ricorso a quella «diavoleria della penna» a lui tanto invisa, cercando di comunicare per lettera con Agnese. Non è, però, una cosa tanto semplice: muoversi nel mondo della scrittura diventa per lui una vera e propria avventura, una sorta di piccolo romanzo nel romanzo, che lo porta a cercarsi più di un aiutante (il segretario che scriva per lui la missiva e il corriere che la porti a destinazione), sperando che nessun ostacolo si frapponga tra lui e la destinataria. E proprio l’alto numero di passaggi e mediazioni è ciò che rende particolarmente difficoltosa la comunicazione tra Renzo e Agnese. È la situazione in cui si trova un analfabeta che abbia necessità di inviare una lettera: Manzoni spiega in dettaglio come avvenga questo complicato processo, aggiungendo che, in faccende di questo tipo, neppure ai suoi tempi è cambiato granché. Il contadino illetterato deve trovare qualcuno che conosca la scrittura, qualcuno di cui si fidi e con il quale abbia un rapporto paritario, in modo da potergli spiegare ciò che dovrà esprimere nella lettera; questi, «parte intende, parte fraintende» e, come è inevitabile, ci mette del suo, aggiunge, toglie e aggiusta i contenuti dello scritto secondo il suo punto di vista, lo stile e l’indole personale, che non è mai possibile far tacere del tutto. Lo stesso tipo di situazione si verificherà all’altro capo della comunicazione epistolare: chi riceverà la lettera dovrà farsela leggere da una quarta persona competente e si sa che ogni lettura costituisce inevitabilmente un’interpretazione. Quello che emerge da questo lungo e articolato discorso, condotto da Manzoni in modo estremamente puntuale e dettagliato, è che nell’ambito della comunicazione scritta

T12

tutto si riconduce a una conoscenza che finisce per diventare una forma di potere: «finalmente [alla fin fine] bisogna che chi non sa, si metta nelle mani di chi sa», in una posizione quindi di subalternità, in cui le proprie ragioni, anche quando sostenute da un ingente patrimonio di affetti, pensieri ed esperienze, devono per forza passare al vaglio di un’interpretazione esterna, che molto probabilmente ne traviserà il senso. Il narratore non tralascia di sottolineare la secentesca lentezza di questa farraginosa procedura, osservando che il tutto non avvenne «così presto come noi lo raccontiamo»: una frattura fra tempo narrato e tempo della scrittura narrativa che già di per sé allude alla distanza tra il mondo degli incolti e il mondo di chi, come Manzoni, a quegli incolti pretende di dare voce letteraria.

Renzo e l’Azzecca-garbugli in un’incisione di Francesco Gonin (1808-1889) per l’edizione del 1840.

La logica oppositiva dei personaggi La logica oppositiva dei personaggi entra in quella particolare geometria compositiva che regola i loro rapporti con un calcolatissimo sistema di contrapposizioni e opposti equilibri. Di quello che è stato definito un “romanzo dialogico” proponiamo due dialoghi memorabili, attraverso i quali emergono i rapporti complessi tra i diversi mondi etici, storici e sociali di cui i vari personaggi si fanno portavoce.

online T12a Alessandro Manzoni

Fra Cristoforo affronta don Rodrigo I promessi sposi, V-VI

876 Ottocento 21 Alessandro Manzoni


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T12b

Alessandro Manzoni

«Come un pulcino negli artigli del falco»: don Abbondio e il cardinale Federigo I promessi sposi, XXV

A. Manzoni, I promessi sposi, a cura di F. Gavino Olivieri, Principato, Milano 2009 (esemplato sull’edizione di Fausto Ghisalberti [Hoepli, Milano 1964])

Nel corso della sua visita pastorale, il cardinale Federigo tocca anche il paese di Lucia e Agnese: informato da quest’ultima della condotta di don Abbondio, lo convoca immediatamente per chiedergliene conto. È lo scontro tra due visioni dell’esistenza opposte, per le quali qualsiasi possibilità di dialogo sembra impossibile: quella del cardinale, eroica e pronta al sacrificio, e quella prosaica e pavida di don Abbondio. Eppure, nell’ottica di Manzoni, anche la meschinità del povero curato sembra avere una sua qualche ragione.

Terminate le funzioni, don Abbondio, ch’era corso a vedere se Perpetua aveva ben disposto ogni cosa per il desinare, fu chiamato dal cardinale. Andò subito dal grand’ospite, il quale, lasciatolo venir vicino, «signor curato,» cominciò; e quelle parole furon dette in maniera, da dover capire, ch’erano il principio d’un discorso 5 lungo e serio: «signor curato; perchè non avete voi unita in matrimonio quella povera Lucia col suo promesso sposo?» – Hanno votato il sacco stamattina coloro1, – pensò don Abbondio; e rispose borbottando: «monsignore illustrissimo avrà ben sentito parlare degli scompigli che son nati in quell’affare: è stata una confusione tale, da non poter, neppure al giorno 10 d’oggi, vederci chiaro: come anche vossignoria illustrissima può argomentare2 da questo, che la giovine è qui, dopo tanti accidenti3, come per miracolo; e il giovine, dopo altri accidenti, non si sa dove sia.» «Domando,» riprese il cardinale, «se è vero che, prima di tutti codesti casi, abbiate rifiutato di celebrare il matrimonio, quando n’eravate richiesto, nel giorno fissato; 15 e il perchè.» «Veramente... se vossignoria illustrissima sapesse... che intimazioni... che comandi terribili ho avuti di non parlare...» E restò lì senza concludere, in un cert’atto4, da far rispettosamente intendere che sarebbe indiscrezione il voler saperne di più. «Ma!» disse il cardinale, con voce e con aria grave5 fuor del consueto: «è il vostro 20 vescovo che, per suo dovere e per vostra giustificazione, vuol saper da voi il perchè non abbiate fatto ciò che, nella via regolare, era obbligo vostro di fare.» «Monsignore,» disse don Abbondio, facendosi piccino piccino, «non ho già voluto dire... Ma m’è parso che, essendo cose intralciate, cose vecchie e senza rimedio, fosse inutile di rimestare... Però, però, dico... so che vossignoria illustrissima non 25 vuol tradire un suo povero parroco. Perchè vede bene, monsignore; vossignoria illustrissima non può esser per tutto; e io resto qui esposto... Però, quando Lei me lo comanda, dirò, dirò tutto.» «Dite: io non vorrei altro che trovarvi senza colpa.» Allora don Abbondio si mise a raccontare la dolorosa storia; ma tacque il nome 30 principale, e vi sostituì: un gran signore; dando così alla prudenza tutto quel poco che si poteva, in una tale stretta. 1 Hanno votato... coloro: quella mattina il cardinale aveva incontrato Lucia e Agnese; è a loro che si riferisce don Abbondio.

2 argomentare: arguire, capire. 3 accidenti: avvenimenti imprevisti. 4 atto: atteggiamento.

5 grave: severa.

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«E non avete avuto altro motivo?» domandò il cardinale, quando don Abbondio ebbe finito. «Ma forse non mi sono spiegato abbastanza,» rispose questo: «sotto pena della vita, 35 m’hanno intimato di non far quel matrimonio.» «E vi par codesta una ragion bastante, per lasciar d’adempire un dovere preciso?» «Io ho sempre cercato di farlo, il mio dovere, anche con mio grave incomodo, ma quando si tratta della vita...» «E quando vi siete presentato alla Chiesa,» disse, con accento ancor più grave, Fe40 derigo, «per addossarvi codesto ministero, v’ha essa fatto sicurtà della vita6? V’ha detto che i doveri annessi al ministero fossero liberi da ogni ostacolo, immuni da ogni pericolo? O v’ha detto forse che dove cominciasse il pericolo, ivi cesserebbe il dovere? O non v’ha espressamente detto il contrario? Non v’ha avvertito che vi mandava come un agnello tra i lupi? Non sapevate voi che c’eran de’ violenti, a cui 45 potrebbe dispiacere ciò che a voi sarebbe comandato? Quello da Cui abbiam la dottrina e l’esempio, ad imitazione di Cui ci lasciam nominare e ci nominiamo pastori, venendo in terra a esercitarne l’ufizio, mise forse per condizione d’aver salva la vita? E per salvarla, per conservarla, dico, qualche giorno di più sulla terra, a spese della carità e del dovere, c’era bisogno dell’unzione santa, dell’imposizion delle mani, 50 della grazia del sacerdozio? Basta il mondo a dar questa virtù, a insegnar questa dottrina. Che dico? oh vergogna! il mondo stesso la rifiuta: il mondo fa anch’esso le sue leggi, che prescrivono il male come il bene; ha il suo vangelo anch’esso, un vangelo di superbia e d’odio; e non vuol che si dica che l’amore della vita sia una ragione per trasgredirne i comandamenti. Non lo vuole; ed è ubbidito. E noi! 55 noi figli e annunziatori della promessa! Che sarebbe la Chiesa, se codesto vostro linguaggio fosse quello di tutti i vostri confratelli? Dove sarebbe, se fosse comparsa nel mondo con codeste dottrine?» Don Abbondio stava a capo basso: il suo spirito si trovava tra quegli argomenti, come un pulcino negli artigli del falco, che lo tengono sollevato in una regione 60 sconosciuta, in un’aria che non ha mai respirata. Vedendo che qualcosa bisognava rispondere, disse, con una certa sommissione forzata: «monsignore illustrissimo, avrò torto. Quando la vita non si deve contare, non so cosa mi dire. Ma quando s’ha che fare con certa gente, con gente che ha la forza, e che non vuol sentir ragioni, anche a voler fare il bravo7, non saprei cosa ci si potesse guadagnare. È un signore 65 quello, con cui non si può nè vincerla nè impattarla8.» «E non sapete voi che il soffrire per la giustizia è il nostro vincere? E se non sapete questo, che cosa predicate? di che siete maestro? qual è la buona nuova che annunziate a’ poveri? Chi pretende da voi che vinciate la forza con la forza? Certo non vi sarà domandato, un giorno, se abbiate saputo fare stare a dovere i potenti; 70 che a questo non vi fu dato nè missione, nè modo. Ma vi sarà ben domandato se avrete adoprati i mezzi ch’erano in vostra mano per far ciò che v’era prescritto, anche quando avessero la temerità di proibirvelo.» – Anche questi santi son curiosi, – pensava intanto don Abbondio: – in sostanza, a spremerne il sugo, gli stanno più a cuore gli amori di due giovani, che la vita d’un

6 v’ha essa fatto sicurtà della vita: vi ha assicurato che avreste avuto salva la vita? 7 il bravo: qui nel senso spagnoleggiante

878 Ottocento 21 Alessandro Manzoni

di “coraggioso”, aggettivo che nella bocca di don Abbondio assume una connotazione velatamente negativa, ossia quello

di “temerario”, “azzardato”. 8 impattarla: arrivare alla pari.


75 povero sacerdote. – E, in quant’a lui, si sarebbe volentieri contentato che il discorso

finisse lì; ma vedeva il cardinale, a ogni pausa, restare in atto di chi aspetti una risposta: una confessione, o un’apologia, qualcosa in somma. «Torno a dire, monsignore,» rispose dunque, «che avrò torto io... Il coraggio, uno non se lo può dare.»

Collabora all’analisi Comprendere e analizzare

Il brano ci presenta il colloquio tra il cardinale Federigo e don Abbondio come un fatto che viene a sconvolgere la tranquilla routine del povero curato, tutto preso da quelle piccole preoccupazioni quotidiane che sono la sua vita: le funzioni, il desinare… Di fronte alla chiara richiesta dell’alto prelato, dapprima il parroco cerca di sviare l’attenzione, rimanendo sul vago; poi, messo alle strette, racconta l’accaduto senza però esporsi a fare il nome di don Rodrigo. A questo punto intuiamo che lui si aspetterebbe comprensione dal cardinale, il quale invece lo incalza con una ramanzina che lo lascia senza parola («Quando la vita non si deve contare, non so cosa mi dire»), senza però riuscire a scalfire in profondità la sua visione del mondo pavida e opportunista. 1. Che cosa sta facendo don Abbondio quando viene convocato dal cardinale Federigo? 2. Come si rivolge il cardinale al prete? Con quale tono? 3. Qual è la prima reazione di don Abbondio? Trovi che ci sia corrispondenza tra i suoi pensieri e le sue parole? 4. Come reagisce il cardinale all’affermazione del curato, che dichiara di non aver celebrato il matrimonio perché era a rischio della vita? 5. «Allora don Abbondio si mise a raccontare la dolorosa storia; ma tacque il nome principale, e vi sostituì: un gran signore; dando così alla prudenza tutto quel poco che si poteva [...]»: che cosa vuole dire il narratore con questa espressione? Il colloquio tra il cardinale e il curato rappresenta l’incontro – impossibile – tra due sistemi morali antitetici: quello tutto prosaico e materiale di don Abbondio, incentrato sulla difesa della propria vita e del proprio interesse, e quello generosamente eroico del cardinale, che la vita è pronto a donarla per il bene dei suoi fedeli. Tra i due non si instaura un dialogo reale: il cardinale Federigo parla più per domande retoriche che per affermazioni e ciò che don Abbondio pensa realmente lo si capisce più dalla trascrizione che dei suoi pensieri ci fa il narratore onnisciente che dalle sue parole esplicite. Alla fine, ciascuno dei due interlocutori lascerà il colloquio ancora convinto della propria posizione, senza aver minimamente cambiato punto di vista. 6. Con i profondi ragionamenti del prelato, davanti agli occhi attoniti e timorosi di don Abbondio si apre una dimensione mai presa in considerazione prima, quella della virtù e del ministero generoso che si spende senza limiti: che immagine usa Manzoni per rappresentare questa particolare situazione vissuta dal sacerdote? 7. Analizza il tono usato da don Abbondio nella sua risposta al cardinale: ti sembra convinto? Usa più frasi affermative o negative? 8. Prova a enucleare il sistema esistenziale di don Abbondio, così come emerge dal suo dialogo con il cardinale Federigo. Quindi commenta la frase: «Quando la vita non si deve contare, non so cosa mi dire». La prospettiva limitata di don Abbondio, subito messa in luce fin dal suo primo apparire, tutto preso dalla preoccupazione di controllare «se Perpetua aveva ben disposto ogni cosa per il desinare», emerge anche dalle sue parole (sia quelle pronunciate sia quelle del concitato discorso interiore che fa da contrappunto al dialogo con il cardinale).

I promessi sposi 4 879


A partire dal primo pensiero formulato («Hanno votato il sacco stamattina coloro»), la lingua di don Abbondio è tutta improntata a un’espressività bassa e popolare, messa ancora più in risalto dalla severa gravità dell’eloquio del cardinale. Anche quando cerca di elevarsi alla solennità della situazione, le frasi del curato conservano la sintassi e il lessico del suo ristretto orizzonte morale ed esistenziale, tutto teso a tenersi fuori dagli scompigli e a salvaguardare il proprio interesse; né cambiano i balbettii, le pause, le ripetizioni, le frasi alla ricerca di benevolenza nell’interlocutore («so che vossignoria illustrissima non vorrà tradire un povero parroco»). A questo stile espressivo si contrappone la parola ferma e adamantina del cardinale, vibrante dell’energia di una salda struttura retorica fondata su precisi stilemi: reiterazioni calibrate, efficaci opposizioni, antitesi, un lessico di ascendenza evangelica. È facile capire come due stili linguistici così distanti l’uno dall’altro siano destinati all’incomprensione reciproca e all’incomunicabilità. 9. Don Abbondio ascolta in silenzio la ramanzina del cardinale e Manzoni, con un’immagine che offre inaspettati spunti di riflessione, lo paragona a «un pulcino negli artigli del falco». a. Nella similitudine manzoniana, a chi spetta il ruolo della vittima e a chi quello del carnefice? b. L’immagine della similitudine implica un atto di violenza che il cardinale starebbe infliggendo a don Abbondio, suo sottoposto. Che significato possiamo dare a questa particolare espressione scelta dal narratore? In che senso don Abbondio sta subendo una violenza da parte del cardinale Federigo? 10. Nelle parole di don Abbondio, individua gli elementi del lessico e della sintassi che pongono il suo discorso a un livello popolare. 11. Analizza il lungo intervento del cardinale Federigo («E quando vi siete presentato alla Chiesa... con codeste dottrine», rr. 39-57) dal punto di vista retorico e lessicale: a quali strumenti retorici il prelato ricorre per esporre il proprio punto di vista a don Abbondio?

Interpretare

12. «Il coraggio, uno non se lo può dare»: spiega e commenta questa celeberrima battuta di don Abbondio, cercando di inserirla nel ritratto che il romanzo ci dà di questo personaggio (rileggi anche il capitolo I).

online

Analisi passo dopo passo

T13 Alessandro Manzoni Le “voci” della folla in rivolta e il giudizio del narratore I promessi sposi, XII-XIII

T14

Il volto problematico della provvidenza e il «sugo di tutta la storia» Attraverso alcuni esempi significativi, si vuole documentare uno dei temi chiave del romanzo, quello della provvidenza, cercando di mostrare, contro ogni semplificazione riduttiva, la complessità e problematicità con cui il cristiano Manzoni affronta tale tema.

online T14a Alessandro Manzoni

Il filo inaspettato (ma illusorio) della provvidenza: il vecchio servitore di don Rodrigo I promessi sposi, VI

T14b Alessandro Manzoni Una provvidenza dall’inaspettato volto turpe: Renzo e i monatti I promessi sposi, XXXIV

880 Ottocento 21 Alessandro Manzoni

online

Verso il Novecento La “lettura con la lente” di uno scrittore: Primo Levi


Alessandro Manzoni

La “peste-provvidenza” di don Abbondio

T14c

I promessi sposi, XXXVIII Siamo vicini all’epilogo del romanzo: i protagonisti sono tornati al luogo d’origine, la peste sembra proprio finita e poco a poco torna a ristabilirsi l’ordine perduto. Quelle che presentiamo sono le parole dirette e senza remore con cui don Abbondio, dimentico di qualsiasi pietà cristiana, accoglie la notizia certa della morte di don Rodrigo.

A. Manzoni, I promessi sposi, a cura di F. Gavino Olivieri, Principato, Milano 2009 (esemplato sull’edizione di Fausto Ghisalberti [Hoepli, Milano 1964])

«Ah! è morto dunque! è proprio andato!» esclamò don Abbondio. «Vedete, figliuoli, se la Provvidenza arriva1 alla fine certa gente. Sapete che l’è una gran cosa! un gran respiro per questo povero paese! che non ci si poteva vivere con colui. È stata un gran flagello questa peste; ma è anche stata una scopa; ha spazzato via certi 5 soggetti, che, figliuoli miei, non ce ne liberavamo più: verdi, freschi, prosperosi: bisognava dire che chi era destinato a far loro l’esequie, era ancora in seminario, a fare i latinucci2. E in un batter d’occhio, sono spariti, a cento per volta. Non lo vedremo più andare in giro con quegli sgherri dietro, con quell’albagìa3, con quell’aria, con quel palo in corpo4, con quel guardar la gente, che pareva che si stesse tutti al 10 mondo per sua degnazione. Intanto, lui non c’è più, e noi ci siamo. Non manderà più di quell’imbasciate5 ai galantuomini. Ci ha dato un gran fastidio a tutti, vedete: chè adesso lo possiamo dire.» «Io gli ho perdonato di cuore» disse Renzo. «E fai il tuo dovere» rispose don Abbondio: «ma si può anche ringraziare il cielo, 15 che ce n’abbia liberati.» 1 arriva: raggiunge. 2 chi era destinato... latinucci: se non ci fosse stata la peste, i sacerdoti che potevano essere destinati a celebrare il loro

funerale sarebbero stati ancora studentelli in seminario, alle prese con i primi esercizi di latino. 3 albagìa: boria, superbia.

4 con quel palo in corpo: con quell’aria impettita. 5 quell’imbasciate: quei messaggi.

Analisi del testo La visione di don Abbondio Nelle battute finali il romanzo stempera i toni cupi e drammatici degli ultimi capitoli dominati dalla peste in alcuni momenti dal sapore “comico” e familiare. Una delle scene più celebri è senz’altro quella in cui esplode la gioia incontrollata di don Abbondio allo scoprire che quello che per lui era il più grave motivo di paura, don Rodrigo, è caduto vittima del morbo letale. Il prete, che ci siamo abituati a vedere sempre incerto e balbettante, qui parla – e molto – con una foga che nemmeno le ragioni della carità cristiana riescono a contenere. Come sempre, la visione di don Abbondio rimane limitata al proprio strettissimo orizzonte personale: don Rodrigo è morto, una minaccia per la sua incolumità personale è sparita e tanto gli basta. Nemmeno la frase di Renzo vale a risvegliare in lui un barlume di pietà: anch’essa viene liquidata con una brusca battuta di circostanza («E fai il tuo dovere») che affida al giovane tutto il carico del perdono, mentre il prete torna a gioire della propria riconquistata sicurezza. In quest’ottica meschina ed egoistica, capiamo bene come la peste perda ogni valenza drammatica: essa non è più il segno visibile e cupo del male nella storia, ma agli occhi di don Abbondio assume le domestiche fattezze di una provvidenziale scopa, venuta a spazzar via quanto di fastidioso c’era nel mondo. Come ogni altro principio incontrato nel corso della sua vita di «vaso di terracotta in mezzo ai vasi di ferro», anche la provvidenza viene calata da don Abbondio nel suo sistema tutto terreno e materiale, volto prima di ogni altra cosa a preservare la vita e il proprio piccolo mondo di certezze.

I promessi sposi 4 881


Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

SINTESI 1. Riassumi la visione della peste espressa da don Abbondio nel brano. COMPRENSIONE 2. Qual è, rispettivamente, la reazione di don Abbondio e di Renzo alla notizia della morte di don Rodrigo? 3. A quale episodio si riferisce in particolare don Abbondio quando afferma che don Rodrigo «Non manderà più di quell’imbasciate ai galantuomini»? ANALISI 4. Come viene ritratto don Rodrigo nelle parole di don Abbondio?

INTERPRETAZIONI CRITICHE

Interpretare

SCRITTURA 5. Alla luce di quanto hai appreso sul personaggio di don Abbondio, commenta le conclusioni a cui giunge alla fine del romanzo.

Ezio Raimondi Sul concetto di provvidenza nei Promessi sposi E. Raimondi, La provvidenza e la speranza, da I promessi sposi, a cura di E. Raimondi e L. Bottoni, Principato, Milano 1988

Il critico Ezio Raimondi offre una diversa interpretazione del concetto di provvidenza, che tante letture dei Promessi sposi hanno voluto vedere come principio cardine dell’ideologia del romanzo.

Dei Promessi sposi si è parlato spesso come d’una «epopea della provvidenza», quasi il romanzo si contrapponesse al Candido (1759) d’un Voltaire per dimostrare – contro il violento pessimismo di quella “favola” filosofica – che tutti gli eventi sono concatenati «nel migliore dei mondi possibili». In realtà sembra piuttosto essere 5 l’intelligenza del caso a guidare l’intrico delle vicende narrate eludendo ironicamente tutti i propositi umani [...]. Nel romanzo la fiducia in un piano o in un’invenzione provvidenziale appartiene sempre alla sfera discorsiva dei personaggi, al loro punto di vista. Il Manzoni è convinto che ogni eventuale disegno della provvidenza trascenda l’umana cognizione. Come si legge nel dialogo Dell’invenzione (1850), «l’ordine 10 universalissimo, il quale abbraccia la serie intera e il nesso di tutti gli affetti che sono e che saranno prodotti da ogni azione e da ogni avvenimento, e comprende il tempo e l’eternità» trascende «la nostra cognizione» in un «complesso di futuri, che per noi è un caos di possibili». Non solo, ma persino l’«ordine particolare», relativo ad ogni individuo, appare «misterioso e oscuro, anche per lui, ne’ suoi nessi e ne’ 15 suoi modi», quantunque sia «chiaro per la parte che tocca a lui prenderci». Il segno di Dio quindi non è da cercare nella catena degli eventi (rendendo banale il concetto di provvidenza e riducendola ad un’arbitraria oggettività), ma solo nella vita interiore dell’uomo, nella forza ardente e inquieta delle coscienze.

Analisi e produzione di un testo argomentativo Comprensione e analisi Produzione

1. Che cosa significa l’espressione «epopea della provvidenza»? 2. Rintraccia e sottolinea nel testo la tesi di Raimondi. 3. In che senso «Nel romanzo la fiducia in un piano o in un’invenzione provvidenziale appartiene sempre alla sfera discorsiva dei personaggi, al loro punto di vista»? Argomenta questa affermazione motivandola con alcuni esempi pratici. Spiega poi, con parole tue, come il concetto di provvidenza viene utilizzato da Manzoni nel romanzo secondo Raimondi (max 10 righe).

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Alessandro Manzoni

T14d

Il «sugo» della storia I promessi sposi, XXXVIII

A. Manzoni, I promessi sposi, a cura di F. Gavino Olivieri, Principato, Milano 2009 (esemplato sull’edizione di Fausto Ghisalberti [Hoepli, Milano 1964]) AUDIOLETTURA

Siamo alle battute finali del romanzo, con l’apparente lieto fine e la morale, diventata celebre, che Renzo desume da tutte le sue peripezie, contrapposta alla ben più profonda meditazione di Lucia, disarmante nella sua semplicità. È il «sugo» della storia che il narratore-Manzoni vuole affidare ai suoi lettori come lascito più prezioso dell’opera che si sta concludendo.

Prima che finisse l’anno del matrimonio, venne alla luce una bella creatura; e, come se fosse fatto apposta per dar subito opportunità a Renzo d’adempire quella sua magnanima promessa, fu una bambina; e potete credere che le fu messo nome Maria. Ne vennero poi col tempo non so quant’altri, dell’uno e dell’altro sesso: e 5 Agnese affaccendata a portarli in qua e in là, l’uno dopo l’altro, chiamandoli cattivacci, e stampando loro in viso de’ bacioni, che ci lasciavano il bianco per qualche tempo. E furon tutti ben inclinati1; e Renzo volle che imparassero tutti a leggere e scrivere, dicendo che, giacchè la c’era questa birberia2, dovevano almeno profittarne anche loro. 10 Il bello era a sentirlo raccontare le sue avventure: e finiva sempre col dire le gran cose che ci aveva imparate, per governarsi meglio in avvenire. «Ho imparato,» diceva, «a non mettermi ne’ tumulti: ho imparato a non predicare in piazza: ho imparato a guardare con chi parlo: ho imparato a non alzar troppo il gomito: ho imparato a non tenere in mano il martello delle porte, quando c’è lì d’intorno gente che ha 15 la testa calda: ho imparato a non attaccarmi un campanello al piede, prima d’aver pensato quel che possa nascere». E cent’altre cose. Lucia però, non che trovasse la dottrina3 falsa in sè, ma non n’era soddisfatta; le pareva, così in confuso, che ci mancasse qualcosa. A forza di sentir ripetere la stessa canzone, e di pensarci sopra ogni volta, «e io,» disse un giorno al suo moralista4, 20 «cosa volete che abbia imparato? Io non sono andata a cercare i guai: son loro che sono venuti a cercar me. Quando non voleste dire,» aggiunse, soavemente sorridendo, «che il mio sproposito sia stato quello di volervi bene, e di promettermi a voi.» Renzo, alla prima, rimase impicciato5. Dopo un lungo dibattere e cercare insieme, conclusero che i guai vengono bensì spesso, perchè ci si è dato cagione6; ma che 25 la condotta più cauta e più innocente non basta a tenerli lontani; e che quando vengono, o per colpa o senza colpa, la fiducia in Dio li raddolcisce, e li rende utili per una vita migliore. Questa conclusione, benchè trovata da povera gente, c’è parsa così giusta, che abbiam pensato di metterla qui, come il sugo di tutta la storia. La quale, se non v’è dispiaciuta affatto, vogliatene bene a chi l’ha scritta, e anche 30 un pochino a chi l’ha raccomodata. Ma se in vece fossimo riusciti ad annoiarvi, credete che non s’è fatto apposta.

1 ben inclinati: di buona indole. 2 giacchè... birberia: dal momento che questa diavoleria, cioè la scrittura, esisteva.

3 dottrina: l’insegnamento che Renzo dice di aver tratto dalle proprie esperienze. 4 al suo moralista: riferito a Renzo, con affettuosa ironia da parte del narratore.

5 rimase impicciato: si trovò in difficoltà. 6 ci si è dato cagione: se n’è dato loro motivo.

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Analisi del testo La visione di Renzo Giunto alla fine delle sue peripezie, Renzo snocciola una serie di «ho imparato» che riassume in poche righe la saggezza spicciola raggiunta nel corso del suo Bildungsroman personale, perfettamente in linea con il carattere spavaldo e un po’ superficiale del personaggio. A dispetto di tutto quello che gli è accaduto, Renzo rimane sempre il “ragazzone” buono e semplice che Manzoni ci ha presentato nelle prime pagine del romanzo. La lezione che trae dalle proprie disavventure non va oltre la dimensione dei fatti nudi e crudi: ciò che ha imparato costituisce una sorta di prontuario immediato, da applicare a situazioni analoghe a quelle in cui si è trovato lui, e non riesce a innalzarsi al livello più alto dei princìpi e delle idee. Raggiunta la sua nuova stabilità di marito e di piccolo imprenditore, Renzo pare assestarsi su una morale conformista che si accontenta di quello che ha e bada soprattutto a tenersi lontano dai guai, un po’ come don Abbondio, che nel primo capitolo affermava che «a un galantuomo, il qual badi a sè, e stia ne’ suoi panni, non accadono mai brutti incontri». Ma questa morale ridotta e semplicistica sta per essere scalzata dalla disarmante riflessione di Lucia che, nella sua semplicità, riesce a cogliere il vero «sugo della storia».

La visione di Lucia e il «sugo della storia» È alla voce umile e pacata di Lucia che Manzoni vuole affidare il messaggio ultimo del suo romanzo, l’idea con cui si congeda dai suoi lettori. Non esiste una ricetta sicura per mettersi al sicuro da dolori e problemi: il meticoloso prontuario stilato da Renzo ha ben poco valore dinanzi al caso che colpisce la vita dell’uomo indipendentemente dalla sua condotta. «Io non sono andata a cercare i guai: son loro che son venuti a cercar me», afferma Lucia; essi infatti, è poi ribadito, «vengono bensì spesso, perché ci si è data cagione; ma che la condotta più cauta non basta a tenerli lontani». Una morale amara e pessimista, che elimina del tutto la prospettiva dell’idillio da quello che solo apparentemente è un lieto fine. Il male è connaturato alla storia stessa, l’uomo non può sfuggirvi, ma solo sperare di mitigarne gli effetti con il conforto della fede. Viene così ridimensionato notevolmente anche il ruolo della provvidenza: lungi dall’essere un arbitro decisivo nelle vicende umane dominate dal caso, essa viene proiettata su di un orizzonte tutto ultraterreno, coincidente con la visione perfetta e totale di Dio, dalla quale l’uomo è inesorabilmente escluso.

Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

COMPRENSIONE 1. A quali episodi specifici si riferisce Renzo nell’enumerare le lezioni che ha imparato? 2. Spiega qual è, nelle intenzioni comunicative del narratore, il «sugo di tutta la storia». 3. Spiega con parole tue l’espressione «sugo di tutta la storia».

Interpretare

TESTI A CONFRONTO 4. Rielaborando le informazioni raccolte nei testi proposti, illustra la visione della provvidenza che ne emerge e le sfaccettature che assume nel punto di vista dei vari personaggi e del narratore.

online T15 Alessandro Manzoni

Una scena “gotica”. La cavalcata infernale di don Rodrigo Fermo e Lucia, IV; IX

884 Ottocento 21 Alessandro Manzoni

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Per approfondire La ricezione dei Promessi sposi

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Interpretazioni critiche Lanfranco Caretti La portata innovativa del romanzo manzoniano


Fissare i concetti Alessandro Manzoni Ritratto d’autore 1. Illustra il contesto familiare di Manzoni, dall’infanzia alla vita adulta. 2. In che modo il soggiorno a Parigi influenza la visione politica di Manzoni? 3. Quando e in che modo, secondo l’aneddotica, avviene la conversione di Manzoni? 4. In quali anni si concentra la produzione di Manzoni? 5. In quali scritti è espressa più chiaramente la “poetica del vero”? 6. Qual è, secondo Manzoni, il rapporto tra storia e poesia? Il poeta cristiano alla ricerca di un proprio linguaggio: gli Inni sacri e le odi civili 7. Quali sono le caratteristiche degli Inni sacri? 8. Quali degli Inni sacri sono stati completati? 9. Quale immagine della Chiesa emerge dagli Inni sacri? 10. In che senso la poesia civile di Manzoni ha carattere occasionale? 11. In che modo il tema religioso si intreccia a quello politico nella poesia civile manzoniana? 12. Quali sono le poesie civili di Manzoni più note e da quali occasioni scaturiscono? La produzione tragica: il Carmagnola e l’Adelchi 13. Come si colloca l’opinione di Manzoni nel dibattito sulle unità aristoteliche? 14. In che modo è sviluppata nelle tragedie la poetica del vero? 15. Qual è la funzione del coro nelle tragedie manzoniane? 16. Quali sono l’argomento storico e i temi principali del Conte di Carmagnola? E dell’Adelchi? 17. Spiega in che modo il tema della «provida sventura» è presente nelle tragedie manzoniane. I promessi sposi 18. Quali sono i motivi che possono aver spinto Manzoni a cimentarsi con la forma letteraria del romanzo? 19. Quali differenze segnano il passaggio dal Fermo e Lucia alla “ventisettana”? E dalla “ventisettana” alla “quarantana”? 20. Quale valore assume nei Promessi sposi il ricorso allo stratagemma narrativo del manoscritto ritrovato? 21. Che cosa si intende per “narratore onnisciente” e in che modo il narratore dei Promessi sposi può dirsi tale? 22. Quali generi narrativi influenzano Manzoni nella stesura del romanzo? 23. Chiarisci in che modo si sviluppa nei Promessi sposi il rapporto fra “tempo del narrato” e “tempo della narrazione”. 24. In che modo si sviluppano gli eventi storici nel romanzo? 25. Come viene rappresentata la società secentesca? 26. Enuncia la visione politica manzoniana, così come la si può ricavare dalla lettura del suo romanzo. 27. I promessi sposi possono essere definiti un “romanzo della provvidenza”? Perché? 28. Che cos’è la Storia della colonna infame e perché Manzoni sente l’esigenza di narrare anche questa vicenda? 29. Che cosa induce Manzoni a compiere la «risciacquatura in Arno»?

La famiglia di Renzo e Lucia, è l’illustrazione finale di Francesco Gonin per l’edizione del 1840 dei Promessi sposi.

La ricezione dei Promessi sposi 4 885


Ottocento Alessandro Manzoni

Sintesi con audiolettura

1 Ritratto d’autore

Una vita schiva e riservata Alessandro Manzoni nasce nel 1785 da Giulia Beccaria (figlia di Cesare Beccaria) e Pietro Manzoni. I genitori si separano nel 1791 e Alessandro viene mandato in collegio, dove trascorrerà anni infelici. Con il padre il rapporto non è facile; la madre è a Parigi, dove il figlio la raggiunge solo nel 1805. Qui Alessandro si confronta con gli idéologues, eredi dell’Illuminismo e fonte per lui di grandi stimoli intellettuali. Nel 1808 egli sposa Enrichetta Blondel, donna religiosa e dedita alla famiglia, che tuttavia muore giovane; è solo uno dei molti lutti vissuti dall’autore, il quale vede morire anche molti dei suoi figli. Nel 1810 Manzoni vive una specie di folgorazione, a seguito della quale si avvicina alla fede. Dopo la “conversione”, torna in Italia e vive in modo schivo e appartato tra Brusuglio e Milano. In circa dieci anni – tra il 1817 e il 1827 – egli scrive tutte le sue opere maggiori e i suoi più importanti interventi teorici. Con il 1827 termina la sua stagione creativa; in seguito, Manzoni si dedica prevalentemente alla revisione linguistica dei Promessi sposi, conclusa nell’edizione del 1840. Ormai un’icona nazionale, muore nel 1873; Nel 1874 Giuseppe Verdi lo onora con la Messa da Requiem. La visione politica, storica e religiosa Pur avendo aderito al Romanticismo e nonostante il suo appoggio alle posizioni liberali del «Conciliatore», Manzoni si tiene sempre lontano da una partecipazione attiva ai moti risorgimentali, mancandogli la capacità di tradurre le idee in azione. Politicamente, egli è un liberale moderato: non rifiuta le idee nuove (ad esempio l’avversione per la compromissione della Chiesa nella politica italiana) ma al contempo guarda con orrore a qualsiasi ipotesi rivoluzionaria. La sua visione religiosa è tormentata, influenzata dalla lettura dei pensatori giansenisti francesi del Seicento e mai scevra da un atteggiamento di fondo razionalista; essa influenza la sua considerazione della storia, alquanto pessimista vista la riconosciuta impossibilità di spiegare l’esistenza del male nel mondo. Il rapporto con il Romanticismo e la poetica del vero Manzoni aderisce al Romanticismo in quanto ne condivide il rifiuto per la mitologia, per le regole del Classicismo e ne apprezza l’interesse per la storia e i temi civili e patriottici. Si sente lontano, invece, dal gusto d’oltralpe per il fantastico e per il macabro. Erede della tradizione illuminista lombarda, lo scrittore abbraccia un’idea di letteratura improntata al senso dell’utile e all’impegno civile, prezioso strumento di analisi dell’uomo in senso individuale, sociale e politico. A tale concezione egli conferisce un’impronta morale derivata dalla sua visione cristiana: per Manzoni, “utile” è la letteratura che educhi ai valori alla solidarietà e alla giustizia. La poetica si esprime nella sua forma più compiuta nella Lettera al signor Chauvet sull’unità di tempo e di luogo nella tragedia, dove lo scrittore partecipa al dibattito romantico ribadendo la propria adesione a una letteratura ancorata al “vero”, al di là dei dogmi tradizionali. Tale convinzione, che nella scrittura teatrale lo porta a superare le unità aristoteliche di tempo e di luogo, è la stessa che lo guida anche nella stesura del

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romanzo. Qui la sua riflessione si spinge anche a definire i compiti del poeta rispetto a quelli dello storico: mentre quest’ultimo deve limitarsi allo studio dei fatti oggettivi, spetta al primo interrogarsi sulle loro motivazioni più profonde, su ciò che ha contribuito a generarli partendo dalle parti più nascoste del cuore umano, sempre rispettando il criterio di verosimiglianza. Il rapporto tra storia e poesia rimane, tuttavia, un nodo irrisolto della vita artistica di Manzoni che addirittura lo spinge ad allontanarsi dall’attività creativa.

poeta cristiano alla ricerca di un proprio linguaggio: gli Inni sacri e le odi 2 Ilcivili Il progetto di una nuova epica cristiana: gli Inni sacri Manzoni inizia a concepire il progetto degli Inni sacri dopo il 1810, anno della conversione: dei dodici componimenti previsti, dedicati alle principali festività del Cattolicesimo, tra il 1812 e il 1817 ne compone solo quattro (La Risurrezione, Il nome di Maria, Il Natale, La Passione), oltre a un quinto, La Pentecoste, rimasto incompiuto. Molto più tarda e travagliata è la composizione di Ognissanti (anch’esso incompiuto). L’idea è quella di fondare una forma di epica cristiana, lontana dal modello neoclassico sia dal punto di vista formale, sia da quello del contenuto: Manzoni vuole dare voce a una Chiesa militante e battagliera, calata attivamente nella storia degli uomini, con i suoi conflitti e contraddizioni. La poesia civile Manzoni si cimenta anche nella poesia civile con risultati piuttosto discontinui e numerosi lavori rimasti incompiuti. Sono testi d’occasione, scritti sull’onda emotiva di un certo evento, dove il tema politico si trova sempre profondamente intrecciato con la dimensione religiosa. Le odi più riuscite e famose sono Marzo 1821 e Il cinque maggio. La prima è scritta in seguito all’entusiasmo suscitato dai moti carbonari del 1821; la seconda (di grande successo) è composta in occasione della morte di Napoleone e ne interpreta la vita come una parabola morale di conquista della speranza grazie all’avvicinamento alla fede.

3 La produzione tragica: il Carmagnola e l’Adelchi

Il dibattito sul paradigma classico e i caratteri della tragedia manzoniana Con le due tragedie Adelchi e Il conte di Carmagnola, Manzoni prende parte al dibattito tra classicisti e romantici, rifiutando le unità aristoteliche di tempo e di luogo e ridefinendo quella di spazio. Gli unici limiti che lo scrittore deve porsi sono quelli derivanti dall’indagine precisa del vero storico, presentato al pubblico per stimolare una riflessione profonda sui grandi temi morali. Luogo deputato alla riflessione nelle tragedie è il coro, che per Manzoni rappresenta un “cantuccio” nel quale dare a voce a temi morali connessi alla vicenda rappresentata. Il conte di Carmagnola Manzoni compone la tragedia tra il 1816 e il 1819 e la pubblica nel 1820. Al centro dell’opera si racconta la vicenda di Francesco Bartolomeo da Bussone, conte di Carmagnola, un capitano di ventura del XV secolo accusato di tradimento durante la guerra tra Venezia e Milano e condannato a morte. Il tema centrale della tragedia è l’impotenza del bene di fronte al potere.

Adelchi La tragedia è composta tra il 1820 e il 1822. La vicenda si svolge tra il 772 e il 774 durante la dominazione dei Longobardi in Italia, nel momento in cui questi ultimi stanno per essere sopraffatti dai Franchi. Figura centrale dell’opera, assai articolata, è quella del principe longobardo Adelchi (figlio di re Desiderio e fratello di Ermengarda, moglie ripudiata di Carlo Magno), eroe romantico combattuto tra ideale e reale, che rappresenta l’incarnazione del pessimismo storico manzoniano.

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4 I promessi sposi

La scelta del romanzo come “letteratura del vero” La “poetica del vero” abbracciata da Manzoni si realizza nel romanzo, genere che all’epoca era considerato “basso” dalla cultura ufficiale ma che l’autore ritiene adatto in quanto più libero rispetto ai generi tradizionali. Lo scrittore opta per il romanzo storico, genere di cui era stato iniziatore Walter Scott; ma, rispetto al modello, egli concepisce la storia non solo come sfondo delle vicende ma come strumento di riflessione valida anche per il presente. Con la sua elaborata gestazione (che dal Fermo e Lucia porta alla “ventisettana” e poi all’edizione definitiva del 1840), I promessi sposi, in linea con l’ideologia romantica, stabilisce infatti un rapporto nuovo con la realtà: vi sono rappresentati gli umili, con le loro storie e il loro universo morale; ma anche la storia, con le sue prospettive più ampie. Le fonti e i modelli letterari Nella stesura del suo romanzo, Manzoni ricorre a una rigorosa documentazione storica. Tra le fonti principali ricordiamo la Storia patria di Giuseppe Ripamonti; il Saggio sul commercio dei commestibili e caro prezzo del vitto di Melchiorre Gioia e il Ragguaglio di Alessandro Tadino, sull’origine della peste. I modelli letterari più significativi dei Promessi sposi sono: il romanzo storico di Walter Scott (rispetto al quale, tuttavia, in Manzoni è presente una profonda tensione etica e una precisa ricostruzione storica), il romanzo di formazione e, infine, il romanzo gotico d’avventura. Una storia redazionale lunga e tormentata L’elaborazione del romanzo si snoda attraverso tre diverse versioni. 1) 1821-23: nella prima stesura (rimasta manoscritta) l’opera è divisa in quattro tomi ed è priva di un titolo, anche se si presuppone che l’autore volesse designarla con il nome dei due protagonisti, Fermo e Lucia. 2) 1827: Manzoni attua una revisione radicale dell’opera, che viene pubblicata con il titolo di I promessi sposi. È l’edizione definita “ventisettana”. Rispetto alla prima, viene modificata la struttura, non più ripartita in blocchi giustapposti; la lingua viene affrancata dalla matrice lombarda e Manzoni si orienta verso il toscano; l’intento pedagogico diventa più sfumato. 3) Nel 1840 Manzoni pubblica l’edizione definitiva, definita “quarantana”, frutto di una revisione di carattere sostanzialmente linguistico, operata a seguito della cosiddetta “risciacquatura in Arno”, che avvicina la lingua del romanzo al fiorentino parlato delle classi colte. In appendice all’opera, inoltre, viene pubblicata la Storia della colonna infame. L’espediente dell’anonimo e lo statuto del narratore Manzoni finge di aver ritrovato un manoscritto secentesco e di aver costruito il romanzo sulla storia in esso narrata: lo stratagemma è utilizzato per distanziarsi dall’opera e favorire nel lettore un atteggiamento critico. Il narratore si presenta come onnisciente; ma tale onniscienza è problematica, poiché rispecchia la convinzione che l’interiorità umana sia troppo complessa per essere conosciuta davvero. La trama, gli itinerari della narrazione, il rapporto tra macrostoria e microstoria Il racconto dei Promessi Sposi si svolge in Lombardia tra il 1628 e il 1630, durante la dominazione spagnola. È la storia di una coppia di giovani fidanzati, Renzo e Lucia, le cui nozze vengono ostacolate da un signorotto locale; dopo varie vicissitudini, tuttavia, i due riescono comunque a sposarsi. Con le vicende dei protagonisti si intrecciano, infatti, gli eventi storici: la carestia, la guerra per la successione al ducato di Mantova, la calata dei lanzichenecchi, la peste. Dal paesino sul lago di Como dove vivono, l’azione si sviluppa a Monza, Milano e nel territorio bergamasco. Si realizza così un’interazione tra macrostoria e microstoria. Il sistema dei personaggi e la raffigurazione della società secentesca Il sistema dei personaggi, assai numerosi, si fonda su una contrapposizione tra i campi di forza del bene

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e del male e su una contrapposizione storico-sociale. Viene presentato un ritratto realistico della società secentesca, delineata in tutte le sue componenti. L’ideologia del romanzo Nei Promessi sposi, il Seicento diviene il simbolo di un’epoca di violenza e arbitrio dei potenti, nella quale Manzoni riconosce molti caratteri a lui contemporanei. Ma lo scrittore, nonostante la critica ai soprusi, è un liberale moderato sostenitore dei principi del Cristianesimo che rifiuta ogni ipotesi di rivoluzione. Il “sugo della storia”, è che non è possibile alcuna corrispondenza tra virtù e felicità: il male trova un senso solo in una inconoscibile prospettiva ultraterrena. La Storia della colonna infame: tra responsabilità individuali e silenzio della provvidenza Nella “quarantana” è collocata in appendice la Storia della colonna infame, opera cupa che racconta un terribile errore giudiziario: il processo contro “presunti untori” nel 1630 a Milano e che vede gli imputati condannati a morte. Al centro vi è, dunque, il problema di una giustizia ingiusta e la conseguente riflessione morale in merito alle responsabilità individuali nel compiere il male, che non possono trovare giustificazioni nell’influenza da parte del contesto in cui avvengono. Le scelte linguistiche e stilistiche Obiettivo principale di Manzoni nell’adozione della lingua con la quale scrivere il romanzo è quello di avvicinare la lingua della letteratura alla lingua d’uso. Nel Fermo e Lucia lo scrittore non riesce ancora a mettere in atto il proposito e opta per un compromesso: innesta il toscano e voci francesi su una base di dialetto milanese. Ne risulta un «composto indigesto». Nella “ventisettana” lo scrittore procede a una revisione, orientata verso il toscano letterario; ma è nella “quarantana” che il lavoro arriva a compimento: dopo un viaggio a Firenze e la “risciacquatura in Arno”, l’autore sceglie il toscano dei fiorentini colti, declinato in vari registri espressivi e stilistici. Con I promessi sposi, Manzoni diventa il punto di riferimento per la lingua della nuova nazione che si va formando a seguito dei moti risorgimentali.

Zona Competenze Scrittura

1. Costruisci un elenco delle affinità che la produzione manzoniana presenta con i temi e le poetiche del Romanticismo. 2. Relativamente ai generi romanzeschi che esercitano un’influenza sui Promessi sposi, distingui e sintetizza gli elementi assunti dal romanzo e quelli per cui invece se ne distanzia. 3. In un testo di max 20 righe, illustra la natura complessa e problematica della religiosità manzoniana. 4. In un testo di 3-4 colonne di foglio protocollo, considerando il percorso manzoniano dalle tragedie al romanzo, discuti come viene affrontato dall’autore il rapporto tra morale e storia e come esso investe il tema della natura e dei compiti dell’arte.

Esposizione orale

5. In un intervento orale di max 3 minuti presenta la particolarità che assume il narratore onnisciente nel romanzo manzoniano. 6. In un intervento orale di max 3 minuti spiega i motivi per cui, agli occhi di un lettore del XIX secolo, la Milano del Seicento poteva essere vista come una sorta di specchio del proprio tempo. 7. Attraverso la presentazione e l’interpretazione di un episodio a tua scelta, esponi alla classe, in max 8 minuti, come si sviluppa il tema della giustizia nel romanzo.

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Verso l’esame di Stato Tipologia A Analisi e interpretazione di un testo letterario italiano

Alessandro Manzoni

Una bellezza sbattuta, sfiorita e, direi quasi, scomposta I promessi sposi, IX Testo tratto da A. Manzoni, I promessi sposi, a cura di R. Luperini e D. Brogi, Einaudi Scuola, Milano 1998.

Il suo aspetto, che poteva dimostrar 25 anni, faceva prima vista un’impressione di bellezza, ma di una bellezza sbattuta, sfiorita e, direi quasi, scomposta. Un velo nero, sospeso e stirato orizzontalmente sulla testa, cadeva dalle due parti, discosto alquanto dal viso; sotto il velo, una bianchissima benda di lino cingeva, fino al mezzo, una 5 fronte di diversa, ma non di inferiore bianchezza; un’altra benda a pieghe circondava il viso, e terminava sotto il mento in un soggolo1, che si stendeva alquanto sul petto, a coprire lo scollo d’un nero saio. Ma quella fronte si raggrinzava spesso, come per una contrazione dolorosa; e, allora due sopraccigli neri si avvicinavano, con un rapido movimento. Due occhi, neri neri anch’essi, si fissavano talora in viso alle persone, con 10 un’investigazione superba; talora si chinavano in fretta, come per cercare un nascondiglio; in certi momenti, un attento osservatore avrebbe argomentato che chiedessero affetto, corrispondenza, pietà; altre volte avrebbe creduto coglierci la rivelazione istantanea d’un odio inveterato e compresso, un non so che di minaccioso e di feroce: quando restavano immobili e fissi senza attenzione, chi ci avrebbe immaginata una 15 svogliatezza orgogliosa, chi avrebbe potuto sospettarci il travaglio d’un pensiero nascosto, d’una preoccupazione familiare all’animo, e più forte su quello che gli oggetti circostanti. Le gote pallidissime scendevano con un contorno delicato e grazioso, ma alterato e reso mancante da una lenta estenuazione. Le labbra, quantunque appena tinte d’un roseo sbiadito, pure, spiccavano in quel pallore: i loro moti erano come 20 quelli degli occhi, subitanei, vidi, pieni d’espressione e di mistero. La grandezza ben formata della persona scompariva in un certo abbandono del portamento, o compariva sfigurata in certe mosse repentine, irregolari e troppo risolute per una donna, non che per una monaca. Nel vestire stesso c’era qua e là qualcosa di studiato o di negletto, che annunziava una monaca singolare: la vita era attillata con una certa cura 25 secolaresca2, e dalla benda usciva sur una tempia una ciocchettina di neri capelli; cosa che dimostrava o dimenticanza o disprezzo della regola che prescriveva di tenerli sempre corti, da quando erano stati tagliati, nella cerimonia solenne del vestimento. 1 soggolo: benda, indossata dalle suore, che fascia

2 secolaresca: mondana.

il collo.

Comprensione e analisi

Puoi rispondere punto per punto oppure costruire un unico discorso che comprenda le risposte a tutte le domande proposte. 1. Quali tratti della personalità di Gertrude emergono dalla descrizione che ne fa il narratore? 2. Quale figura retorica si può individuare nell’espressione «bellezza sbattuta, sfiorita e, direi, quasi scomposta» (r. 2)? 3. Nel passo, il narratore attribuisce grande rilevo ai contrasti cromatici. Perché? 4. Per quale motivo il narratore indugia nel descrivere gli occhi della monaca?

Interpretare

Metti a confronto la figura di Gertrude con quella di Ermengarda nell’Adelchi e di Lucia nei Promessi sposi ed elabora una tua riflessione sulle modalità con le quali Manzoni rappresenta l’universo femminile nelle sue opere.

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Verso l’esame di Stato Tipologia B  Analisi e produzione di un testo argomentativo Testo tratto da V. Spinazzola, Il libro per tutti. Saggio su “I promessi sposi”, Editori Riuniti, Roma 1983

Al suo romanzo, il Manzoni affida il compito di avviare un processo di ristrutturazione generale dell’attività letteraria, mutando i termini tradizionali del rapporto fra lo scrittore e i lettori. Premessa decisiva è la volontà di allargare la cerchia del pubblico assai oltre i confini dell’intellettualità umanistica: senza però effettuare 5 concessioni di sorta alla mentalità e al gusto più corrivi. D’altronde questo ampliamento dell’area di lettura deve coincidere con la sua riqualificazione: l’autore si atteggia a messaggero di una idea nuova di letteratura che, per essere vicina ai modi del discorso pratico, agli interessi mentali della gente comune, non cessa di ribadire il suo carattere di esperienza privilegiata di linguaggio; anzi, lo esal10 ta massimamente [...]. Per effettuare un’operazione così complessa, occorreva rivolgersi anzitutto al pubblico obbiettivamente disponibile, selezionando al suo interno la fascia da assumere come destinataria elettiva. [...] Ai lettori di formazione classicistica I promessi sposi voglion presentarsi come un libro di cui sia difficile misconoscere la qualità estetica e che tuttavia contraddice 15 clamorosamente i precetti della retorica più illustre, intesa come mezzo di separazione dal volgo profano. Tutt’altro era invece l’atteggiamento da assumere nei riguardi dei ceti colti d’impronta romantica, quali avevano cominciato a raccogliersi a Milano, negli anni del «Conciliatore». Le richieste che ne provenivano, o almeno le esigenze che bisognava raccogliere e interpretare, erano di due tipi: [...] 20 la capacità di sollecitare direttamente l’immaginazione collettiva, senza il filtraggio costrittivo delle regole classicistiche e senza il ricorso al dotto armamentario mitologico; assieme, l’accoglimento di una somma di preoccupazioni civili [...]. Ma il Manzoni intende allargare ancora l’orizzonte, rivolgendosi a interlocutori di acculturazione più incerta, [...] I promessi sposi non dovevano precludere l’ac25 cesso a strati di lettori puramente virtuali, tuttora sprovvisti di ogni competenza libraria, ma prima o poi destinati ad accender la loro sensibilità di fronte a un testo in cui la piacevolezza dei moduli narrativi si sostanziasse di un afflato religioso, nel nome di un cattolicesimo altamente partecipe dei destini di libertà di ogni anche più umile persona. 30 Tale era l’ampiezza dell’impresa [...] concepita dal Manzoni. In questa prospettiva, la forte impronta di milanesità della vicenda narrativa, col suo rimando a memorie, usi, costumi localmente caratteristici, adempiva una funzione essenziale: eccitare la curiosità e sollecitare il consenso del pubblico più immediatamente raggiungibile, quello appunto municipale, offerto da una città in fase di sviluppo 35 culturale. Nello stesso tempo, però, la tipicità milanese [...] doveva esser trascesa e fatta assurgere al grado più alto di esemplarità metastorica e metageografica. Nel microcosmo romanzesco dovevano potersi riconoscere senza distinzione i cittadini di tutte le città terrene. Se la vita è sempre una prova, le sue modalità potranno variare di paese in paese, ma inalterata resta la drammaticità perenne 40 del rapporto fra l’individuo e i suoi simili, quale viene codificato dalle istituzioni di un potere non mai ossequiente ai princìpi dell’amor fraterno, sì invece dell’odio e della vendetta. La generalità dell’appello ai lettori era poi destinata a tradursi in

Verso l’esame di Stato

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un privilegio di attenzione per le varie genti abitatrici della penisola: esperte da secoli di cosa siano i regimi di illibertà, negatori del vero spirito cristiano, quanto 45 a corruzione dei valori morali e civili, conformismo culturale, ristagno economico, arbitrio amministrativo. L’italianità dei Promessi sposi consiste nel proposito di riflettere e corroborare un’assunzione di consapevolezza da parte di un pubblico cattolico liberale, ancora non del tutto maturo, nelle nostre varie regioni.

Comprensione e analisi

Puoi rispondere punto per punto oppure costruire un unico discorso che comprenda le risposte a tutte le domande proposte. 1. Qual è l’obiettivo che, secondo Spinazzola, Manzoni persegue con l’ideazione del suo romanzo? 2. Presenta le tre categorie di pubblico che Manzoni intende raggiungere sul piano sociale e la risposta che, con il romanzo, offre alle aspettative di ciascuna di esse. 3. Milanesità, universalità e italianità: come si declinano, secondo il critico, queste caratteristiche del romanzo manzoniano?

Produzione

In un testo argomentativo, anche alla luce della tua esperienza di lettore, discuti in merito alla modernità dei Promessi sposi e alla capacità del romanzo di parlare ancora oggi a un vasto pubblico.

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Indice dei nomi A Abba, Giuseppe Cesare, 513, 755, 756, 761, 767 Abriani, Paolo, 47 Accetto, Torquato, 9, 10, 11, 27 Achillini, Claudio, 47, 51 Adam Elsheimer, 118 Addison, Joseph, 214, 227, 249, 251, 253 Agostino d’Ipponia, (sant’Agostino), 57 Alfieri, Vittorio, 213, 215, 227, 323, 367, 370, 430-474, 614-617, 624, 626, 629, 631, 633, 635, 638, 641, 646, 754 Algarotti, Francesco, 215 Alonge, Roberto, 422 Altieri Biagi, M. Luisa, 124, 128, 133 Anacreonte, 56 Antonielli, Sergio, 335 Appiani, Andrea, 316, 529 Apuleio, 153, 170 Archimede, 112 Arendt, Hannah, 31 Ariosto, Ludovico, 118, 157, 160, 161, 171, 444, 446 Aristofane, 366 Aristotele, 17, 20, 23, 24, 112, 113, 127, 130, 132-134, 141 Armin, Ludvig von, 655 Artale, Giuseppe, 47 Auerbach, Erich, 101 Austen, Jane, 500, 691, 701, 702, 707, 709, 710, 729

B Bachtin, Michail, 92 Bacone, Francesco, 173, 293 Balbo, Cesare, 483 Balzac, Honoré de, 512, 516, 517, 691, 700, 703, 705-707, 712, 714, 715, 729 Bandiera, Alessandro, 340 Barenghi, Mario, 214 Baretti, Giuseppe, 214, 227, 231, 250 Basile, Giovan Battista, 27, 28, 148, 149, 150, 154, 170 Baudelaire, Charles, 51 Bayard, Hippolyte, 520 Beaumarchais, Pierre-Augustin Caron de, 234 Beccaria, Cesare, 189, 190, 213, 216, 222, 238, 254-268, 503 Beccaria, Giulia, 796, 797, 803, 806, 886 Beethoven, Ludwig van, 671 Belli, Giuseppe Gioacchino, 511, 513, 523, 769, 780, 782, 783, 785, 786, 788, 789

Bembo, Pietro, 28, 218, 514 Benedetto Castelli, 121 Bentham, Jeremy, 507 Berchet, Giovanni, 504, 510, 522, 739-743, 760, 761, 766, 768 Bernini, Gian Lorenzo, 8, 9, 15, 33, 67, 116 Beyle, Henry, 703 Binni, Walter, 324 Blake, William, 183 Blondel, Enrichetta, 796, 797, 800, 886 Bloom, Harold, 85 Blumenberg, Hans, 127 Boccaccio, Giovanni, 28, 154, 218, 219, 293, 514, 515, 569 Boileau, Nicolas, 56 Bonaparte, Napoleone, 480-482 Borges, Jorge Luis, 26, 51 Borromini, Francesco, 33, 35 Borsieri, Pietro, 734, 736, 737, 739, 743 Botticelli, Sandro, 596, 643 Bradbury, Ray, 31 Branda, Onofrio, 340 Brandt, Reinhard, 55 Brecht, Bertolt, 31, 116, 136, 138 Brentano, Clemens Maria, 655 Brilli, Attilio, 196 Brönte, Charlotte, 500, 702, 729 Brönte, Emily, 500, 702, 729 Bruno, Giordano, 7, 12-14, 21, 23, 30, 32, 35, 116, 140 Buffon, Georges-Louis Leclerc de, 186, 187, 200, 201 Bulgakov, Michail, 552 Buonmattei, Benedetto, 207 Burke, Edmund, 216, 217, 535, 558 Byron, George Gordon, 486, 498, 505, 655, 679-682, 687, 689, 690

C Calabrese, Omar, 26 Calcaterra, Carlo, 38 Calderón de la Barca, Pedro, 27, 66, 79-82, 84, 107, 109 Calenda, Antonio, 136 Calvino, Italo, 26, 127, 129, 130, 294, 300, 307, 308 Campanella, Tommaso, 12-15, 21, 23, 30, 32, 35, 129, 173 Canal, Antonio (detto Canaletto), 224 Canova, Antonio, 435, 518, 529, 557, 601, 612, 626, 633, 637, 638, 640, 648 Cantù, Cesare, 744 Carcano, Giulio, 512 Carducci, Giosuè, 56, 320 Caretti, Lanfranco, 884

Carlo Alberto di Savoia, 483 Carlyle, Thomas, 486 Caro, Annibal, 338 Cartesio, 19, 21 Casanova, Giacomo, 215, 218, 370 Casati Confalonieri, Teresa, 504 Castelli, Bendetto, 122 Cattaneo, Carlo, 483, 738 Cavani, Liliana, 13, 116 Cavour, Camillo Benso Conte di, 481, 483, 799 Cervantes, Miguel de, 27, 147, 155157, 159-163, 165-167, 169, 170172, 658 Condillac, Etienne Bonnot, de 187 Cesari, Antonio, 514, 515 Cesarotti, Melchiorre, 448, 536, 538, 558 Chabod, Federico, 497 Chabrol, Claude, 727 Chapelain, Jean, 42 Chateaubriand, François-AugusteRené de, 485-487, 494, 495, 511 Che Guevara, Ernesto, 162 Chiabrera, Gabriello, 56, 64 Chiari, Pietro, 368, 374 Chopin, Fryderych, 671 Cimarosa, Domenico, 233 Clair, René, 552 Coleridge, Samuel Taylor, 664, 674, 675, 678, 681, 690 Comte, Auguste, 507 Condillac, Etienne Bonnot de, 350 Constant, Benjamin, 498, 511 Copernico, Niccolò, 6, 12, 21, 23, 29, 34, 132 Corneille, Pierre, 10, 27, 66, 68-71, 78, 821, 107 Cortona, Pietro, 33 Crescimbeni, Giovanni Mario, 230 Cristina di Svezia, 230 Croce, Benedetto, 11 Cuoco, Vincenzo, 734 Cusano, Niccolò, 7

D d’Alembert Jean Baptiste Le Rond, 189, 200, 201-203, 226, 254 d’Annunzio, Gabriele, 43, 320 d’Azeglio, Cesare, 798, 805, 847 d’Azeglio, Massimo, 512, 744, 754, 761, 767 d’Épinay, Louise, 205 Daguerre, Louis, 520 Dalí, Salvador, 54 Dante, 8, 13, 85, 118, 162, 219, 241, 223, 444, 485, 495, 515, 516, 575, 577, 621, 624, 625, 630633, 635, 646, 647, 650 Da Ponte, Lorenzo, 215, 234, 245

Indice dei nomi

893


Darwin, 115 Davico Bonino, Guido, 376, 382, 392, 394, 396-398, 404, 408, 411, 414, 416, 417, 423 David, Jacques-Louis, 183, 489, 490, 499, 505, 506, 529, 534, 538 De Filippo, Eduardo, 102 Defoe, Daniel, 196, 214, 218, 226, 277-279, 280-282, 284, 287, 289, 306-310 Della Casa, Giovanni, 219 Della Valle, Federico, 103, 108 De Luca, Erri, 615 de Molina, Tirso, 71 de Montaigne, Michel, 196, 434 de Montesquieu, Charles, 177, 181, 184, 189, 200, 201, 203-205, 211, 226, 254, 255, 442, 446, 450, 467 de Quevedo, Francisco, 26, 37, 57, 58, 60, 64 De Roberto, Federico, 765 de Saint-Pierre, Jacques-Henri Bernardin, 282, 291 de Sanctis, Bàrberi, 357, 363 De Sanctis, Francesco, 569, 577, 582, 639, 752, 755 Descartes, René, 19, 233 de Secondat, Charles-Louis, 204 Dèttore, Ugo, 422 de' Calzabigi, Ranieiri, 450, 457, 472 d’Holbach, Paul-Henry, 184-186, 189, 200, 201 Di Benedetto, Arnaldo, 606 Di Breme, Ludovico, 737 Dickens, Charles, 484, 702, 729 Diderot, Denis, 177, 181, 184, 189, 200-255, 350, 360, 369, 571, 573 Donne, John, 26, 37, 58, 64 d’Orléans, Luigi Filippo, 480, 482 Dostoevskij, Fëdor, 92 Dottori, Carlo de, 103, 108 Dumas, Alexandre, 500, 504, 512, 773

E Eco, Umberto, 863, 870 Einstein, Albert, 31 Eliot, George (pseudonimo di Mary Ann Evans), 500, 729 Epicuro, 7 Escher, Mauritis Cornelis, 55 Euclide, 112 Euripide, 69

F Fabre, François-Xavier, 434 Facchinei, Ferdinando, 256, 257, 266 Fagnani Arese, Antonietta, 566, 569, 593 Fauriel, Claude, 515, 770, 796, 806, 825, 841, 858

894

Indice dei nomi

Ferroni, Giulio, 42 Ferrucci, Franco, 92 Fichte, Johann Gottlieb, 496, 507, 508, 517, 522, 534, 557 Fielding, Henry, 273, 281-283 Filangieri, Gaetano, 198, 199, 222 Filolao, 146 Flaubert, Gustave, 162, 512, 691, 700, 714, 716-723, 726, 727, 729, 730 Foscolo, Ugo, 56, 214, 239, 246, 283, 302, 320, 322, 323, 355357, 360-362, 433, 439, 444446, 485, 489, 496, 498, 501503, 509-511, 513, 522, 528, 530, 531, 533, 534, 536, 537, 541, 556, 557, 562-652 Foucault, Michel, 55 Fox Talbot, Henri, 520 Frare, Pierantonio, 602 Freud, Sigmund, 31, 95, 460 Friedrich Caspar, David, 490, 492, 494, 499, 507, 524 Frisi, Paolo, 250 Frugoni, Carlo Innocenzo, 230 Fubini, Mario, 605, 636, 639, 648 Fusinato, Arnaldo, 760, 761

G Gadda, Carlo Emilio, 26, 644, 860 Galeno, 133 Galilei, Galileo, 6, 12, 13, 17, 19-22, 29, 31, 34-36, 41, 42, 46, 105, 110-146 Galilei, Vincenzo, 105 Garibaldi, Giuseppe, 483, 486, 799 Garin, Eugenio, 127 Gaudiosi, Tommaso, 47 Genovesi, Antonio, 218, 249 Getto, Giovanni, 46, 48, 49, 52, 53, 103 Geymonat, Ludovico, 129, 115 Giannone, Pietro, 184, 213, 214, 248 Giansenio, Cornelio, 70 Gioberti, Vincenzo, 483, 752, 761 Giordani, Pietro, 514, 515, 734, 736, 739 Gobetti, Pietro, 444 Goethe, Johann Wolfgang, 214216, 221, 227, 283, 438, 485, 489, 491, 494, 498, 505, 509, 511, 522, 535, 536, 539-544, 546-561, 573, 575, 577, 646, 648, 815, 819, 821 Goldoni, Carlo, 192, 212, 213, 215, 218, 227, 235, 246, 364-429 Góngora, Luis de, 26, 57-59, 62-64 Gonin, Francesco, 842, 844, 870, 876 Goodman, Dena, 191 Gori, Francesco, 472 Gozzano, Guido, 640 Gozzi, Carlo, 374, 377, 423 Gozzi, Gaspare, 214, 218, 227

Gramsci, Antonio, 754, 763 Grassi, Orazio, 126 Gravina, Roggiano, 230, 233 Gray, Thomas, 535-537, 552, 558 Greenaway, Peter, 102 Greuze, Jean-Baptiste, 220 Grimm, fratelli, 170 Grossi, Tommaso, 510, 512, 744, 772 Guardi, Francesco, 224, 230 Guccini, Francesco, 640, 727 Guerrazzi, Francesco Domenico, 512, 744 Guicciardini, Francesco, 753 Gumpp, Johannes, 55

H Hegel, Georg Wilhelm Friederich, 162, 672 Helvétius, Claude-Adrien, 437, 446 Hemingway, Ernest, 307 Herder, Johann Gottfried, 534, 535, 539, 558 Hobbes, Thomas, 572, 590, 591, 646 Hoffmann, Ernst Theodor Amadeus, 488, 731 Hölderlin, Friedrich, 526, 528, 664 665, 671-673, 680, 687, 689, 690 Hugo, Victor, 663, 664, 696, 700, 728 Hume, David, 205

I Imbonati, Carlo, 794, 796, 797, 803, 806 Isella, Dante, 335, 339 Italo Calvino, 118

J Jemolo, Arturo Carlo, 254 Jonard, Norbert, 324, 329, 331 Jonson, Ben, 85 Jori, Giacomo, 51 Joyce, James, 26 Jung, Carl Gustav, 606

K Kafka, Franz, 8 Kant, Immanuel, 181, 183, 276 Keats, John, 498, 505, 510, 526, 528, 655, 690, 665, 679, 681, 683-686 Keplero, Giovanni, 19, 21 Klinger, Friedrich Maximilian, 534 Kottm Jan, 102 Krakauer, Jon, 449


L La Bruyère, Jean de, 71 La Mettrie, Julien Offray de, 184 La Rochefoucauld, François de, 71 Laclos, F. Choderlos de, 282 Laclos, Pierre Ambroise-Francois Chordelos de, 413 Lavoisier, Antoine-Laurent de, 183, 188 Lambertenghi, Luigi, 249, 250, 255 La Mettrie, Julien Offray de, 571 Lavia, Gabriele, 136 Lavoisier, Antoine-Laurent de, 506 Leibniz, Gottfried Wilhelm, 292, 294, 298, 310 Leopardi, Giacomo, 56, 118, 124, 184, 239, 241, 246, 357, 362, 489, 490, 498, 501-505, 508510, 513, 517, 522, 583, 592, 642, 734, 737, 753, 760 Leopardi, Monaldo, 503 Leverkühn, Adrian, 552 Levi, Primo, 880 Lewis, Matthew, 283 Linneo, Carlo, 225 Locke, John, 254, 261, 302 Lomonaco, Francesco, 734 London, Jack, 31 Longhi, Pietro, 230 Longo, Alfonso, 249, 250 Lope de Vega, Felix, 27, 79 Losey, Joseph, 136 Lubrano, Giacomo, 47, 51, 53

M Machiavelli, Niccolò, 11, 88, 93, 445, 572, 591, 592, 602, 625, 632, 633, 646, 753 Macpherson, James, 535, 536, 538, 558 Maffei, Clara, 504 Magalotti, Lorenzo, 17 Maggi, Carlo Maria, 28 Malpighi, Marcello, 17 Mameli, Goffredo, 760-763, 768 Mann, Thomas, 31, 552 Manzoni, Alessandro, 10, 56, 214, 239, 246, 256, 257, 267, 305, 320, 355-357, 362, 439, 445, 494, 496, 501-503, 509, 512, 513, 515, 522, 523, 729, 744, 753, 760, 761, 768, 792-892 Maravall, José A., 22 Marini, Giovanni Ambrogio, 153 Marino, Giambattista, 12, 22-24, 26, 35, 37, 38, 40-44, 46-50, 52, 54, 62-64 Marlowe, Christopher, 21, 85, 91, 93 Marmontel, Jean-François, 181 Marx, Karl, 276, 481, 516

Mauri, Glauco, 552 Mazzini, Giuseppe, 480, 483, 496, 497, 753, 761 Mercantini, Luigi, 760, 761 Merisi, Michelangelo da Caravaggio, 32 Metastasio, Pietro, 212, 213, 227, 229, 233-237, 245, 246 Milton, John, 31, 438 Minnelli, Vincent, 727 Mittner, Ladislao, 136 Molière, (pseudonimo di JeanBaptiste Poquelin), 9, 27, 66, 68, 70-72, 77, 78, 105, 107, 109 Molteni, Giuseppe, 847 Momigliano, Attilio, 771 Monteverdi, Claudio, 105 Monti, Vincenzo, 501, 503, 514, 515, 530-534, 536, 556, 557, 565, 609, 619, 637, 651, 734, 736, 737, 756, 807 Morellet, André, 258 Moro, Tommaso, 173, 293 Mozart, Wolfgang Amadeus, 102, 233, 234, 245 Muratori, Ludovico Antonio, 184, 213, 235, 238, 239, 242, 243, 245, 254 Murtola, Gaspare, 40

N Narducci, Anton Maria, 47, 50, 51 Neppi, Enzo, 632, 635 Newton, Isaac, 6, 19, 21, 177, 182184, 197, 221, 227 Nievo, Ippolito, 733, 744-748, 750, 751, 755, 761, 765-768 Novalis, (pseudonimo di Georg Philipp Friedrich Freiherr von Hardenberg), 656, 658, 664668, 670, 671, 673, 690

O Omero, 241, 444 Orazio, 56, 320, 444 Ovidio, 8, 42, 86, 344, 460, 461

P Palladio, Andrea, 348 Paracelso, 21 Parini, Giuseppe, 193, 195, 196, 212, 216, 226, 249, 251, 312363, 587, 588, 593, 615, 617622, 630, 631, 633-636, 642645, 647, 648, 773, 790-807, 811 Pascal, Blaise, 7, 10 Pasolini, Pier Paolo, 781 Paulze, Pierrette, 183 Pecchio, Giuseppe, 562, 577 Pellico, Pietro, 736, 756-759, 765768

Pellico, Silvio, 502, 513, 756-759, 761, 765, 768 Penn, Sean, 449 Pergolesi, Giovan Battista, 233 Peri, Iacopo, 105 Perrault, Charles, 148, 170 Peterzano, Simone, 32 Petrarca, Francesco, 26, 28, 57, 218, 219, 231, 232, 234, 440, 496, 514, 515, 575, 577, 580, 593, 594, 624, 625, 632, 633, 635, 646, 647 Petronio, Giuseppe, 153, 170, 200, 318, 324, 337, 786 Piave, Francesco M., 781 Piermarini, Francesco, 316 Pindaro, 320 Pindemonte, Ippolito, 612-614, 618, 619, 623, 624, 627, 634, 647 Pirandello, Luigi, 161, 162, 172, 305, 763, 765, 860 Plauto, 77, 86, 104 Plutarco, 446, 447 Poe, Edgar Allan, 731 Pope, Alexander, 251 Poquelin, Jean-Baptiste, 70 Porro Lambertenghi, Luigi, 502 Porta, Carlo, 28, 511, 513, 523, 772774, 776, 777, 779-782, 786-791 Pozzetti, Pompilio, 337 Pozzi, Giovanni, 40, 41 Prati, Giovanni, 510, 511 Praz, Mario, 54, 92, 93, 600 Proust, Marcel, 31 Pucci, Francesco, 14

R Racine, Jean, 66, 68, 69, 821, 107 Radcliffe, Ann, 283 Raimondi, Ezio, 445, 465, 466, 842, 882 Rastignac, Eugène de, 706, 712 Redi, Francesco, 17, 29 Remarque, Erich Maria, 31 Renoir, Jean, 727 Ricci, Berto, 15, 27 Richardson, Samuel, 214, 221, 272, 273, 281 282, 306, 310 Rinuccini, Ottavio, 105 Riquer, Martin de, 156, 159, 160 Rodler, Lucia, 220 Rolli, Paolo, 230, 232 Ronsard, Pierre de, 56 Rousseau, Jean-Jacques, 181, 184, 188, 194-196, 198-201, 203-205, 209-211, 214, 215, 220, 221, 226, 227, 233, 254, 257, 266, 276, 282, 284, 287-290, 306, 307, 310, 321, 350, 369, 370, 446, 472, 473, 498, 511, 754 Rousset, Jean, 46 Russo, Luigi, 588

Indice dei nomi

895


S Sagredo, Giovanfrancesco, 130-133 Salgari, Emilio, 276 Salviati, Filippo, 130-134 Sand, George (pseudonimo di Aurore Lucile Dupin, 500 Sannazaro, Jacopo, 230 Sarpi, Paolo, 16, 17, 35 Savioli, Ludovico, 230 Schelling, Friedrich Wilhelm Joseph, 162, 488, 507, 508, 522, 534, 557, 656, 664, 672 Schiller, Friedrich, 438, 490, 524, 535, 538, 539, 557, 656, 659, 660, 661 Schlegel, fratelli, 162 Schlegel, Friedrich, 494, 507, 657, 658, 662-664 Schlegel, Wilhelm, 821, 822 Schubert, Gotthilf H. von, 488 Sciascia, Leonardo, 300, 856, 857 Scott, Walter, 694, 695-697, 699, 700, 728, 729, 840, 841, 844, 849, 850, 888 Sempronio, Giovan Leone, 47, 52, 54 Sénancour, Étienne Pivert de, 511 Seneca, 57, 69 Serpieri, Alessandro, 92 Settembrini, Luigi, 755, 761, 767 Shakespeare, William, 26, 27, 58, 61, 64, 66, 67, 85-96, 98-102, 108, 109 Shelley, Mary Godwin, 500, 505, 510, 512, 680, 731 Shelley, Percy, 679-681, 686-690 Sklowskij, Victor, 283 Smith, Adam, 179 Snow, Charles, 506 Sokurov, Aleksandr, 552, 727 Sonnet, Martine, 199 Spitzer, Leo, 160, 172 Squarotti, Bàrberi, 150 Staël, Madame de, 505, 733-737, 739, 740, 766 Stearns Eliot, Thomas, 606 Steele, Richard, 214, 227, 249, 251, 253 Stendhal, (pseudonimo di MarieHenrie Beyle), 307, 703, 704, 707, 710, 711, 729 Sterne, Laurence, 283, 284, 302305, 310, 311 Stevenson, Robert Louis, 8 Strehler, Giorgio, 136, 552, 102 Sturno, Roberto, 552 Sue, Eugène, 512 Swift, Jonathan, 251, 282, 284, 285, 310

T Tassoni, Alessandro, 26, 150-152, 154, 158, 170

896

Indice dei nomi

Tasso, Torquato, 26, 105, 234, 236, 444 Telesio, 13 Teotochi Albrizzi, Isabella, 577, 582, 612, 622, 645, 647 Terenzio, 104 Tesauro, Emanuele, 23-25, 27, 35, 44, 46, 54 Testi, Fulvio, 56 Tieck, Johann Ludwig, 664 Tolkien, John Ronald Reuel, 102 Tommaseo, Niccolò, 501, 512 Tortarolo, Edoardo, 222 Tournier, Michel, 276 Trapassi, Pietro, 233 Truffaut, François, 31 Turner, William, 519

U Unamuno, Miguel de, 162, 172 Ungaretti, Giuseppe, 51 Urbano 13, 114, 115, 125

V Valperga di Caluso, Tommaso, 434 Van Wittel, Gaspard, 224 Vecellio, Tiziano, 348 Velázquez, Diego, 55 Verdi, Giuseppe, 500, 513, 764, 773, 781 Verne, Jules, 276 Veronese, Angela, 562 Verri, Alessandro, 189, 190, 215, 218, 219, 228, 249, 254-256, 260, 267 Verri, Pietro, 189, 193, 213, 215-217, 220, 225, 227, 249-260, 267, 340, 350 Vesalio, Andrea, 132 Vico, Giambattista, 213, 214, 238246, 571, 573, 615, 616, 620, 622, 631, 645 Vieusseux, Giovan Pietro, 738 Virgilio, 230, 236, 444 Visconti, Ermes, 736, 737 Vivaldi, Antonio, 233 Volta, Alessandro, 182, 215, 506 Voltaire, (pseudonimo di FrançoisMarie Arouet), 184-187, 189, 190, 191, 194-197, 200, 201, 203208, 214, 220, 225, 227, 228, 233, 248, 261, 282-284, 292297, 299-301, 306-310, 334, 342, 350, 360, 369, 379, 383, 446

W Walpole, Horace, 283 Wilcox, Fred, 102 Winckelmann, Johann Joachim, 217, 227, 316, 505, 518, 526528, 531, 556, 557

Wölfflin, Heinrich, 26 Wollstonecraft, Mary, 199 Woolf, Virginia, 702, 729 Wordsworth, William, 664, 674, 676, 681, 690

Y Young, Edward, 216, 535, 536, 558

Z Zappi, Giovan Battista Felice, 230232 Zola, Emile, 31, 705


Glossario

Anacronia Sfasatura nella successione temporale dei fatti (➜ analessi, ➜ prolessi).

A

Anacrùsi Aggiunta di una o due sillabe fuori battuta, all’inizio di un verso o di una sua parte, eccedente la normale misura metrica.

Acefalo Detto di manoscritto mancante della prima o delle prime pagine.

Anadiplòsi Figura retorica che consiste

Adynaton (dal gr. “cosa impossibile”)

La formulazione di un’ipotesi o di una situazione impossibile il cui avverarsi è subordinato a un altro fatto ritenuto irrealizzabile. Ad es.: «S’i’ fosse foco, arderei ’l mondo» (Cecco Angiolieri).

Aferesi Caduta di una sillaba all’inizio di una parola. Ad es.: verno per “inverno”.

Agnizione Riconoscimento (special-

mente nel teatro classico) della vera identità di un personaggio. Il riconoscimento risolve così, alla fine, le complesse vicende dell’intreccio.

Alessandrino Verso della tradizione

poetica francese. È composto di dodici sillabe divise in due emistichi di sei sillabe. L’omologo italiano è il verso martelliano formato da due settenari (prende il nome dal poeta drammatico Pier Iacopo Martello che lo creò a imitazione dell’esempio francese).

Allegoria Figura retorica tramite la qua-

le il riferimento a immagini complesse o narrazioni richiama un significato più nascosto, allusivo e profondo (in genere un’entità astratta come un vizio, una virtù, un evento ecc.). A differenza della ➜ metafora, l’allegoria richiede un’interpretazione alla quale si può giungere solo conoscendo il contesto culturale del testo: il significato infatti non è deducibile da un immediato processo intuitivo. Per quanto complessa, l’allegoria è sempre costruita razionalmente e per tanto è decifrabile una volta compreso il criterio con cui è stata formata. Ad es.: nella Divina commedia le tre fiere che ricacciano Dante nella selva oscura sono un’allegoria; inoltre il senso allegorico può anche essere “trovato” dai lettori a dispetto delle intenzioni dell’autore: la IV egloga di Virgilio fu interpretata come un’allegoria della venuta di Cristo.

Allitterazione Figura retorica che consiste nella ripetizione di una lettera o di un gruppo di lettere in una o più parole successive. Ad es.: «Il pietoso pastor pianse al suo pianto» (Tasso, Gerusalemme liberata VII).

nella ripresa all’inizio di frase o di verso, della parola conclusiva della frase o del verso precedente al fine di dare maggior efficacia all’espressione. Ad es.: «Ma passavam la selva tuttavia, / la selva, dico, di spiriti spessi» (If IV 65-66).

Anàfora Ripetizione di una o più parole

proprio di una persona o di una cosa con un appellativo che ne indichi un elemento caratterizzante e lo identifichi in modo inequivocabile. Ad es. “il Ghibellin fuggiasco” per indicare Dante, “l’eroe dei due mondi” per Garibaldi. Può anche indicare il trasferimento del nome di un personaggio proverbiale a chi dimostra di avere le sue stesse qualità. Ad es.: un “Ercole” per indicare una persona di gran forza, un “Don Giovanni” per un conquistatore di donne.

Antropomorfismo Tendenza ad as-

segnare caratteristiche umane (dall’aspetto all’intelligenza ai sentimenti) ad animali, cose e figure immaginarie.

all’inizio di versi o frasi successive. Ad es.: «Per me si va ne la città dolente, / per me si va ne l’etterno dolore, / per me si va tra la perduta gente» (If III 1-3).

Apocope Caduta di una vocale o di una sillaba al termine d’una parola. Ad es.: fior per “fiore”, san per “santo”.

Analessi (anche ➜ flashback) In nar-

Apografo Manoscritto che è copia di-

ratologia, interruzione del normale corso cronologico di un racconto per narrare eventi passati. È l’opposto della ➜ prolessi.

Analogia Procedimento stilistico che istituisce un rapporto di somiglianza fra oggetti o idee semanticamente lontani. È diventato un procedimento tipico delle tendenze poetiche moderne in cui la soppressione degli espliciti legami comparativi (“come”, “così” ecc.) dà luogo a immagini molto ardite e sintetiche. Ad es.: «Le mani del pastore erano un vetro / levigato da fioca febbre» (Ungaretti). Anàstrofe (o inversione) Figura reto-

rica che consiste nel disporre parole contigue in un ordine inverso a quello abituale. È affine all’➜ iperbato. Ad es.: «O anime affannate, / venite a noi parlar» (If V 80-81); «Allor che all’opre femminili intenta / sedevi» (Leopardi, A Silvia vv. 10-11).

Anfibologìa Espressione che può pre-

starsi a una doppia interpretazione a causa della sua ambiguità a livello fonetico, semantico o sintattico. Ad es.: “Ho visto mangiare un gatto”. Può essere sfruttata per ottenere effetti comici come nei casi di frate Cipolla (Boccaccio, Decameron) o fra’ Timoteo (Machiavelli, la Mandragola).

Annominazione ➜ Paronomasia Antìfrasi Figura retorica che lascia in-

Allocuzione ➜ Apostrofe

tendere che chi parla afferma l’opposto di ciò che dice. Ad es.: «una bella giornata davvero!» (detto quando sta piovendo), «Dipinte in queste rive / son dell’umana gente / le magnifiche sorti e progressive» (Leopardi, La ginestra).

Anacoluto Costrutto in cui la seconda

Antonimìa Figura retorica che con-

parte di una frase non è connessa alla prima in modo sintatticamente corretto. Ad es.: «Quelli che muoiono, bisogna pregare Iddio per loro» (Manzoni, I promessi sposi XXXVI).

Antonomàsia Sostituzione del nome

siste nel contrapporre parole di senso contrario o in qualche modo opposte. Ad es.: «Pace non trovo e non ho da far guerra, E temo e spero, et ardo e son un ghiaccio» (Petrarca, Canzoniere 134).

retta di un testo originale.

Apologo Racconto allegorico di gusto favolistico e con fini didattico-morali. Apostrofe Consiste nel rivolgersi di-

rettamente a una persona (o cosa personificata) diversa dall’interlocutore cui il messaggio è indirizzato. Ad es.: «Ahi serva Italia, di dolore ostello» (Pg VI 76).

Asindeto Forma di coordinazione rea-

lizzata accostando parole o proposizioni senza l’uso di congiunzioni coordinanti. Ad es.: «Le donne, i cavallier, l’arme, gli amori, / le cortesie, l’audaci imprese io canto» (Ariosto, incipit dell’Orlando furioso).

Assimilazione Fenomeno per cui, nell’evoluzione storica di una parola, due fonemi vicini tendono a diventare simili o uguali: ad es. il passaggio da noctem a notte (dal nesso consonantico ct al raddoppiamento della dentale tt). Assonanza Rima imperfetta in cui si ripetono le vocali a cominciare da quella accentata, mentre differiscono le consonanti. All’opposto della ➜ consonanza. Ad es.: amòre : sòle; agòsto : conòsco.

Àtona (sillaba) sillaba che non è accentata (al contrario della sillaba ➜ tonica) Auctoritas Termine latino (“autorità”) con cui si è soliti indicare, soprattutto nella cultura medievale, un autore o un’opera il cui valore esemplare è riconosciuto in modo unanime. Autografo Manoscritto redatto di suo pugno dall’autore.

B Ballata Forma metrica, destinata in origine al canto e alla danza, usata per componimenti religiosi (laude). È formata da un numero vario di strofe (stanze), con schema identico, precedu-

Glossario

897


te da un ritornello (ripresa). Lo schema base è così costituito: le strofe sono divise in quattro parti, tre identiche (mutazioni) e la quarta (volta), legata per una rima alla ripresa. I versi usati sono gli endecasillabi e i settenari.

Bestiario Trattato medievale in cui ve-

zione e la purificazione dalle passioni che la tragedia, in quanto rappresentazione di fatti dolorosi, origina nell’animo dello spettatore. In senso lato è l’azione liberatrice della poesia e dell’arte che purificano dalle passioni.

nivano descritte caratteristiche fisiche e morali di diverse specie di animali reali e fantastici.

Cesura Pausa del ritmo, non sempre corrispondente a una pausa sintattica, fra due ➜ emistichi di un verso.

Bildungsroman ➜ Romanzo di for-

Chiasmo Figura retorica che consiste

mazione

Bisticcio ➜ Paronomasia Bozzetto Racconto breve che rappre-

senta con piglio realistico e vivezza impressionistica (ma anche con superficialità) una situazione, un luogo, un carattere, tratti per lo più dalla vita quotidiana.

Bucolica ➜ Egloga

C

nel contrapporre due espressioni concettualmente affini in modo però che i termini della seconda siano disposti nell’ordine inverso a quelli della prima così da interrompere il parallelismo sintattico (da ABAB a ABBA). Ad es.: «Ovidio è ’l terzo, e l’ultimo Lucano» (If IV 90), «Siena mi fé, disfecemi Maremma» (Pg V 134).

Chiave (o concatenatio) In una ➜ stanza di canzone, il verso che collega il primo gruppo di versi (➜ fronte) col secondo (➜ sirma) mediante una

Campo semantico Insieme delle parole i cui significati rimandano a uno stesso concetto-base.

rima identica all’ultima della fronte. Solitamente è connesso alla sirma dal punto di vista sintattico.

Canone L’insieme degli autori e delle

Chiosa ➜ Glossa

opere considerati indispensabili per definire l’identità culturale di una società o di un’epoca. Pertanto l’idea stessa di canone è mutevole e influenzata dal mutare della società e del pensiero: il classicismo ha un suo canone, il romanticismo un altro e così via.

Cantare Poema composto per lo più in ➜ ottave, di materia epico-cavalleresca e di origine popolare. Era destinato a essere recitato sulle piazze dai cantastorie. Fu in voga soprattutto nei secoli XIV e XV.

Canzone Forma metrica caratterizzata

dalla presenza di più strofe (da 5 a 7) e da una forte simmetria: le strofe (stanze) si ripetono infatti con lo stesso numero di versi (per lo più endecasillabi e settenari) e con lo stesso schema delle rime. Ogni stanza consta di due parti: la fronte (divisibile in due piedi) e la sirma (prima di Petrarca divisa in due volte). Sono usati diversi artifici per creare un legame tra le strofe e rafforzare così l’armonia e la simmetria della canzone (ad es.: l’ultima rima della fronte si ripete nel primo verso della sirma). La canzone si può chiudere con una strofa detta commiato con cui il poeta si rivolge a un destinatario o alla canzone stessa.

Canzone a ballo ➜ Ballata Capitolo Componimento poetico in ➜ terza rima, esemplato sui Trionfi di

Petrarca. Usato per trattare i temi più vari (argomenti politici, morali, amorosi), nel Cinquecento gode di particolare fortuna il capitolo burlesco (o bernesco) a imitazione di quelli di Francesco Berni e dai temi comico-satirici.

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Catarsi Secondo Aristotele, la libera-

Glossario

Circonlocuzione ➜ Perifrasi Clausola La chiusura di un verso o di un periodo.

Climax Enumerazione di termini dal significato via via sempre più intenso. Ad es.: «la terra ansante, livida, in sussulto; / il cielo ingombro, tragico, disfatto» (Pascoli, Il lampo). Se l’intensità è invece decrescente si parla di anticlimax. Ad es.: «E mi dicono, Dormi! / mi cantano, Dormi! sussurrano, / Dormi! bisbigliano, Dormi!» (Pascoli, La mia sera). Cobla Nella poesia provenzale l’equivalente della stanza o ➜ strofa italiane. Le

coblas si dicono capcaudadas quando la rima finale di una cobla è la prima rima della cobla successiva e capfinidas quando una parola dell’ultimo verso di una cobla appare anche nel primo verso della cobla successiva.

Codice In filologia, il libro manoscritto. Codice linguistico Il sistema di segni convenzionali e regole (cioè l’alfabeto e la grammatica) usato per stabilire una trasmissione di informazioni tra emittente e ricevente.

Collazione Confronto sistematico dei ➜ testimoni di un testo, allo scopo

di fornirne l’edizione critica oppure di individuarne le fasi di composizione.

Commiato ➜ Canzone Concordanze Repertori alfabetici di

tutte le parole usate da un autore in una o più opere, con indicazione dei passi in cui esse ricorrono.

Congedo (o commiato) ➜ Canzone Connotazione Indica il significato se-

condario, aggiuntivo, che una parola ha in aggiunta al suo significato base (➜ denotazione). Consiste quindi nelle sfumature di ordine soggettivo (valore affettivo, allusivo ecc.) che accompagnano l’uso di una parola e che si aggiungono ai suoi tratti significativi permanenti. Ad es.: le parole mamma e madre indicano lo stesso soggetto ma il primo termine ha una sfumatura affettiva maggiore rispetto al secondo.

Consonanza Sorta di rima in cui si ri-

petono le consonanti a cominciare dalla vocale accentata, mentre differiscono le vocali. All’opposto della ➜ assonanza. Ad es.: vènto : cànto; pàsso : fòssa.

Contaminazione Nella critica testua-

le l’utilizzo, da parte di un copista, di ➜ testimoni diversi di una stessa opera al fine di correggere errori o colmare lacune. In senso generale, il mescolare elementi di diversa provenienza nella stesura di un’opera letteraria.

Contrasto Componimento poetico che

rappresenta il dibattito o il dialogo tra due personaggi o due entità allegoriche. Ad es.: appartiene al primo caso Rosa fresca aulentissima di Cielo d’Alcamo, al secondo Disputa della rosa con la viola di Bonvesin de la Riva.

Coppia sinonimica (o dittologia sino-

nimica) Coppia di parole dal significato analogo in cui l’una va a rafforzare il significato dell’altra. Ad es.: «passi tardi e lenti» (Petrarca, Canzoniere 35); «soperba e altiera» (Boiardo, Orlando innamorato) ma anche in espressioni tipiche del parlato come pieno zeppo.

Corpus L’insieme delle opere di un sin-

golo autore; oppure un gruppo di opere letterarie omogeneo per stile, genere o tema.

Correlativo oggettivo Concetto poe-

tico formulato dal poeta T.S. Eliot all’inizio del Novecento. Consiste in un oggetto, un evento, una situazione che evocano immediatamente nel lettore un’emozione, un pensiero, uno stato d’animo senza necessitare di alcun commento da parte del poeta.

Cronòtopo Il termine, introdotto nella

critica letteraria dal critico russo Michail Bachtin, indica la sintesi delle categorie spazio-temporali entro cui è collocata una narrazione: le scelte di spazio e di tempo si influenzano in modo reciproco nella costruzione di un racconto.

Cursus Nella prosa antica e medievale, la ➜ clausola che chiude in modo

armonioso il periodo. A seconda della disposizione degli accenti nelle ultime due parole della frase, consentiva di accelerare o rallentare il discorso (era di tre tipi fondamentali: planus, tardus, velox).


D Dedicatoria Lettera o epigrafe ante-

posta a un’opera letteraria e indirizzata dall’autore a un personaggio cui l’opera stessa è dedicata.

Deittico Elemento linguistico che indi-

ca la collocazione spazio-temporale di un enunciato, decodificabile con esattezza solo grazie al contesto. Ad es.: i pronomi personali (io, tu ecc.) e dimostrativi (questo, quello); gli avverbi di luogo (qua, lì) e di tempo (ora, domani).

Denotazione Indica il significato pri-

mario, il valore informativo base, di una parola (per il significato secondario ➜ connotazione). Ad es.: mamma e madre hanno una medesima denotazione ma una diversa connotazione.

Elegia Nella letteratura classica com-

ponimento poetico di tema soprattutto amoroso e malinconico. Dal Medioevo in poi indica un componimento (anche in prosa) caratterizzato dal tono sentimentale, mesto e malinconico.

Ellissi Omissione di un elemento della frase che resta sottinteso. Ad es.: «A buon intenditor, poche parole» dove il verbo “bastano” è sottinteso; «Questo io a lui; ed elli a me» (Pd VIII 94) con ellissi del verbo “dire”. Elzeviro Articolo di fondo della pagina culturale di un giornale (la cosiddetta “terza pagina”). Di argomento letterario o artistico, è così chiamato per il carattere tipografico in cui un tempo veniva stampato (gli Elzevier erano una famiglia olandese di tipografi del XVII secolo).

Deverbale Sostantivo ricavato da un

Emistichio Ciascuna delle due parti in cui il verso viene diviso dalla ➜ cesura.

Diacronia Indica la valutazione dei

fatti linguistici secondo il loro divenire nel tempo e quindi l’evoluzione storica della lingua stessa (al contrario della ➜ sincronia).

Enclisi Fenomeno linguistico per cui una particella atona e monosillabica si appoggia, fondendosi, alla parola precedente. Ad es.: scrivimi, sentilo, guardami.

Dialèfe In metrica ➜ iato tra due vocali

Endecasillabo È il verso di undici silla-

verbo. Ad es.: lavoratore da “lavorare”.

consecutive, la prima alla fine di una parola, la seconda all’inizio della parola che segue. Le due vocali appartengono quindi a due sillabe diverse. È opposta alla ➜ sinalefe e solitamente si ha quando l’accento cade su una (o entrambe) le vocali contigue. Ad es.: «restato m’era, non mutò aspetto» (If X 74).

Diegesi Modalità di racconto narrativo indiretto in cui gli eventi, le situazioni, i dialoghi dei personaggi sono raccontati da un soggetto narrante (al contrario della ➜ mimesi).

Dieresi In metrica ➜ iato tra due vo-

cali consecutive appartenenti alla stessa parola. Le due vocali appartengono quindi a due sillabe diverse. È opposta alla ➜ sineresi. Ad es.: «Dolce color d’orïental zaffiro» (Pg I 13).

Digressione ➜ Excursus Distico Coppia di versi. Dittologia sinonimica ➜ Coppia sinonimica

E Edizione critica (lat. editio) Edizione

che si propone di presentare un testo nella forma più possibile conforme alla volontà ultima dell’autore, eliminando quindi tutte le alterazioni dovute alle diverse redazioni manoscritte o a stampa.

Egloga Nella letteratura classica componimento poetico di argomento bucolico-pastorale che, a partire dal Quattrocento, ebbe fortuna anche nella letteratura volgare e che portò alla nascita del dramma pastorale.

be, ampiamente utilizzato nella letteratura italiana. Si presenta in modo vario a seconda del ritmo degli accenti e delle cesure. Sono endecasillabi sciolti quando non vengono raggruppati in strofe e non sono rimati.

Endiadi Figura retorica che consiste nell’esprimere, mediante una coppia di sostantivi, un concetto che invece sarebbe solitamente espresso con un sostantivo e un aggettivo o con un sostantivo e un complemento di specificazione. In certi casi è simile alla ➜ coppia sinonimica. Ad es.: «O eletti di Dio, li cui soffriri / e giustizia e speranza fa men duri», dove ciò che solleva le anime dalle sofferenze è la “speranza di giustizia” (Pg XIX 76-77).

Enjambement (o inarcatura) Procedi-

gia e bee e dorme e veste panni» (If XXXIII 141).

Epanadiplòsi Figura retorica che con-

siste nell’iniziare e terminare un verso o una frase con la stessa parola. In alcuni casi, la presenza di un ➜ chiasmo determina una epanadiplosi. Ad es.: «dov’ero? Le campane / mi dissero dov’ero» (Pascoli, Patria).

Epanalèssi (o geminatio) Figura retori-

ca che consiste nel raddoppiamento di una parola o di un’espressione all’inizio, al centro o alla fine di una frase o di un verso. Ad es.: «Io dubitava e dicea “Dille, dille!”» (Pd VII 10).

Epifonema Sentenza o esclamazione

che conclude enfaticamente un discorso. Ad es.: «è funesto a che nasce il dì natale» (Leopardi, Canto notturno di un pastore errante v. 143).

Epìfora (o epìstrofe) Figura retorica che consiste nella ripetizione delle stesse parole alla fine di più versi o di più parti di un periodo. Ad es.: la ripetizione del nome di “Cristo”, che Dante non fa mai rimare con altre parole «sì come de l’agricola che Cristo / elesse a l’orto suo per aiutarlo. / Ben parve messo e famigliar di Cristo: / ché ’l primo amor che ’n lui fu manifesto, / fu al primo consiglio che diè Cristo» (Pd XII 71-75). Epigramma Breve componimento in

versi. In origine, presso i greci, aveva carattere funerario o votivo; dai latini in poi mantenne la brevità ma mutò il tono in satirico e mordace, talora caricaturale.

Epìtesi Aggiunta di uno o più fonemi alla fine di una parola. In poesia è usata con fini metrici o eufonici. Ad es.: «che la sembianza non si mutò piùe» (Pd XXVII 39); «Ellera abbarbicata mai non fue» (If XXV 58). Epiteto Sostantivo, aggettivo o locuzione che accompagna un nome proprio per qualificarlo o anche soltanto a scopo esornativo. Ad es.: Guglielmo il Conquistatore; Achille piè veloce.

mento stilistico che consiste nel porre due parole concettualmente unite tra la fine di un verso e l’inizio del verso successivo, così che il senso logico si prolunghi oltre la pausa ritmica. Ad es.: «interminati / spazi di là da quella, e sovrumani / silenzi» (Leopardi, L’infinito).

Epìtome Riassunto, compendio di un’ampia opera, realizzato soprattutto a scopo didattico.

Entrelacement È la tecnica di costru-

Etimologia Disciplina che studia l’ori-

zione tipica dei poemi cavallereschi consistente nell’intreccio di vari filoni narrativi riferiti ai diversi personaggi e che si realizza interrompendo un filone per passare a un altro, poi un altro ancora per poi riprendere il primo ecc. Si può trovare già nei romanzi di Chrétien de Troyes.

Enumerazione Figura retorica che

consiste in una rapida rassegna di sostantivi elencati sotto forma di ➜ asindeto o ➜ polisindeto. Ad es.: «e man-

Esegesi Interpretazione critica di un

testo.

gine e la storia delle parole.

Eufemismo Figura retorica che consi-

ste nel sostituire parole ed espressioni troppo crude o realistiche con altre di tono attenuato, di solito per scrupolo religioso, morale, riguardi sociali o altro. Ad es.: andarsene o passare a miglior vita per “morire”.

Excursus (o digressione) Divagazione dal tema principale di un discorso o di una narrazione, con l’inserimento di

Glossario

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temi secondari, più o meno marginali rispetto all’argomento generale.

Exemplum Breve racconto a scopo

didattico-religioso.

F

Geminatio (o Geminazione) ➜ Epanalessi

Glossa Annotazione esplicativa o inter-

Fabula La successione logico-tempora-

le degli avvenimenti che costituiscono i contenuti di un testo narrativo e che lo scrittore presenta al lettore in uno specifico ➜ intreccio.

Facezia Breve racconto incentrato su un motto di spirito o una frase arguta; fiorì in Italia nel Quattrocento. Figura etimologica Accostamento di due parole che hanno in comune lo stesso etimo. Ad es.: «in tutt’altre faccende affaccendato» (Giusti, Sant’Ambrogio). Filologia (dal greco “amore della pa-

pretativa che il copista inseriva a margine di un testo o fra le righe.

Gradazione ➜ Climax Grado zero In senso generale, indica il livello neutro della scrittura, anche di quella letteraria, privo di caratterizzazione stilistica e/o retorica e di forti connotazioni. La locuzione fu usata dal semiologo Roland Barthes nel suo saggio Le degré zéro de l’écriture [Il grado zero della scrittura, 1953] in riferimento allo stile francese della tradizione classica.

H

rola”) Disciplina che studia i testi per liberarli da errori e rimaneggiamenti al fine di riportarli alla forma originaria, di interpretarli, di precisarne l’autore, il periodo e l’ambiente culturale.

Hàpax legòmenon (dal greco “detto una sola volta”) Indica una parola che compare in un’unica attestazione in un’opera o in tutto il ➜ corpus di un autore.

Flashback ➜ Analessi

Hýsteron pròteron Figura retorica per

Flusso di coscienza Tecnica narrativa

caratteristica del romanzo del Novecento, dall’inglese stream of consciousness, indica una libera associazione di pensieri, riflessioni, elementi inconsci, associazioni d’idee, si traduce liberamente nella scrittura, senza la tradizionale mediazione logica, formale e sintattica che opera lo scrittore. È per molti aspetti simile al ➜ monologo interiore.

Fonema La più piccola unità di suono

che, da sola o con altre, ha la capacità di formare le parole di una lingua e al mutare della quale si genera una variazione del significato. Non sempre a una singola lettera corrisponde un fonema. Ad es.: il suono formato dalle due lettere gl nella parola “famiglia”.

Fonetica Indica sia la branca della lin-

guistica che si occupa dello studio dei fonemi dal punto di vista fisico e fisiologico sia l’insieme dei suoni di una particolare lingua.

Fonosimbolismo Espediente stilisticoretorico tramite il quale parte della comunicazione avviene in via evocativa tramite il suono delle parole. Una figura retorica che sfrutta il fonosimbolismo è l’ ➜ onomatopea. Fonte Ogni tipo di documento o testo

dal quale un autore ha tratto ispirazione per un tema o qualsiasi altro elemento della propria opera.

Fronte ➜ Canzone Frontespizio In un libro è la pagina in

cui sono riportati il nome dell’autore, il titolo dell’opera e l’editore.

900

G

Glossario

cui l’ordine delle parole è invertito rispetto alla logica temporale o ai nessi causa-effetto. Dal greco “ultimo come primo”. Ad es.: «Là ’ve ogne ben si termina e s’inizia» (Pd VIII 87); «Anche il pranzo venne consumato in fretta e servito alla mezza» (Palazzeschi, Le sorelle Materassi).

Intreccio La successione degli eventi

così come sono presentati dall’autore e non necessariamente seguendo l’ordine logico-temporale (come la ➜ fabula).

Inversione ➜ Anastrofe Ipàllage Figura retorica che consiste nell’attribuire un aggettivo a un sostantivo diverso da quello cui propriamente, nella stessa frase, dovrebbe unirsi. Ad es.: «sorgon così tue dive / membra dall’egro talamo» (Foscolo, All’amica risanata), dove egro è riferito al “talamo”, cioè al letto, anziché alle “membra”. Ipèrbato Figura retorica che consiste

nel collocare le parole in ordine inverso rispetto al consueto; diversamente dalla ➜ anastrofe, che riguarda la disposizione delle parole di un sintagma, l’iperbato consiste nell’inserire in un sintagma elementi della frase da esso logicamente dipendenti. Ad es.: «e ’l vago lume oltra misura ardea / di quei begli occhi» (Petrarca, Erano i capei d’oro).

Iperbole Figura retorica che consiste nell’esagerare un concetto, un’azione o una qualità oltre i limiti del verosimile, per eccesso o per difetto. Ad es.: «risplende più che sol vostra figura» (Cavalcanti, Avete in voi li fiori e la verdura); è anche molto usata nel parlato “è un secolo che aspetto!”. Ipèrmetro Verso con un numero ec-

cessivo di sillabe rispetto a quella che dovrebbe essere la sua misura regolare. Nel caso opposto si ha l’ipometro.

I

Ipòmetro ➜ Ipermetro

Iato Fenomeno per cui due voca-

Ipotassi Costruzione del periodo fon-

li contigue non formano dittongo e fanno parte di sillabe distinte. Ad es.: pa-ese. Sono casi di iato la ➜ dieresi e la ➜ dialefe.

data sulla subordinazione di una o più proposizioni alla principale. È il contrario della ➜ paratassi.

Ipotipòsi Figura retorica che consiste

Ictus ➜ Accento ritmico

nella descrizione viva e immediata di una persona, un oggetto o una situazione, sia attraverso similitudini concrete sia con viva immediatezza e forza rappresentativa. Ad es.: «Ella non ci dicëa alcuna cosa, / ma lasciavane gir, solo sguardando / a guisa di leon quando si posa» (Pg VI 64-66).

Idillio Presso i greci, breve componimento, di genere bucolico e agreste (corrisponde alla ➜ egloga latina). In seguito ha preso a indicare ogni componimento in cui si rifletta questo ideale di vita, anche senza riferimenti campestri.

Idioletto La lingua individuale, ovvero l’uso particolare e personale che un autore fa della lingua.

Inarcatura ➜ Enjambement In folio Il formato massimo di un libro, si ottiene piegando una sola volta il foglio di stampa. Se il foglio viene piegato due volte si parla di formato “in quarto”, se piegato tre volte “in ottavo” e così via. Più il foglio viene piegato, più è piccolo il formato del libro.

Inquadramento ➜ Epanadiplosi

Ipostasi ➜ Personificazione

Iterazione Ripetizione di una o

più parole all’interno di un discorso. A seconda della modalità con cui ciò avviene si hanno ➜ anafora, ➜ anadiplosi, ➜ epanalessi, ➜ epifora.

K Koiné Lingua comune con caratteri uniformi accettata e seguita da tutta una comunità su un territorio piuttosto esteso, si sovrappone ai dialetti e alle parlate locali.


L Lacuna In filologia, mancanza di una o più parole in un testo. Lassa Strofa caratteristica degli antichi poemi epici francesi, composta di un numero variabile di versi legati da assonanza o monorimi. Leitmotiv (dal tedesco “motivo guida”) Il tema, il motivo dominante e ricorrente di un’opera.

Lemma Ogni parola cui è dedicata una voce su un dizionario o un’enciclopedia.

Lessema Il minimo elemento lingui-

Metanarrativo Aggettivo riferito ai procedimenti con cui l’autore di un’opera narrativa interrompe la finzione per parlare dell’attività stessa del narrare o per spiegare le proprie scelte narrative; cioè, in altri termini, quando la narrativa rifletta su se stessa. Metapoetico Aggettivo che fa riferimento alla riflessione del poeta sull’attività poetica stessa.

Metaromanzo Romanzo che riflet-

te sull’operazione stessa dello scrivere romanzi. Se una notte d’inverno un viaggiatore di Italo Calvino (1970) è un esempio di metaromanzo.

Metateatro Testo in cui la finzione

parola o un passo di un testo sono stati letti da un copista o da un editore e, di conseguenza, il modo in cui sono stati tramandati nei diversi libri a stampa o manoscritti; la filologia attesta quale lezione sia più attendibile.

drammaturgica è interrotta per parlare dell’attività teatrale stessa o per spiegare i meccanismi di un’invenzione scenica. Esempi di procedimento metateatrale si trovano nell’Amleto di Shakespeare (in cui viene messo in atto l’artificio di inserire all’interno dell’opera, come parte integrante della vicenda, la messinscena di uno spettacolo); oppure in Sei personaggi in cerca d’autore di Luigi Pirandello (1921), per il “teatro nel teatro”.

Litote Figura retorica che consiste

Metàtesi Spostamento di fonemi all’in-

stico dotato di un significato. Il lessema si riferisce ai significati, così come il ➜ fonema ai suoni.

Lezione (lat. lectio) La forma in cui una

nell’affermare un concetto negando il suo contrario. Ad es.: «Don Abbondio (il lettore se n’è già avveduto) non era nato con un cuor di leone», per dire che era un vile (Manzoni, I promessi sposi). È comune anche nel linguaggio parlato: non è un’aquila per dire “è uno stupido”, non brilla per puntualità per dire “è spesso in ritardo”.

Locus amoenus ➜ Topos letterario che consiste nella descrizione di un ideale luogo naturale dove l’uomo vive in armonia con la natura e i propri simili.

M Manoscritto Qualsiasi tipo di testo non stampato, ma scritto a mano dall’autore o da un copista. Martelliano ➜ Alessandrino Memorialistica Genere letterario di carattere biografico, autobiografico e cronachistico in cui grande spazio è riservato alle osservazioni storiche e di costume. Metafora Figura retorica che consiste nella sostituzione di una parola con un’altra che abbia almeno una caratteristica in comune con la parola sostituita. È paragonabile a una similitudine abbreviata, cioè senza gli elementi che renderebbero esplicito il paragone. Ad es.: “quell’atleta è un fulmine” cioè “è simile a un fulmine per velocità”; «Tu fior de la mia pianta / percossa e inaridita» (Carducci, Pianto antico) dove fior e pianta sono metafore per “figlio” e “padre”.

terno di una parola. Ad es.: fisolofo per “filosofo”.

Metonìmia Figura retorica che consiste nella sostituzione di un termine con un altro che sia in un rapporto di contiguità con il primo. Questo rapporto può essere: 1) la causa per l’effetto (e viceversa); 2) la materia per l’oggetto; 3) il contenente per il contenuto; 4) il concreto per l’astratto (e viceversa) ecc. Ad es.: 1) “vivere del proprio lavoro” invece che “del denaro guadagnato con il proprio lavoro”; 2) «fende / con tanta fretta il suttil legno l’onde» (Ariosto, Orlando furioso) dove il “legno” indica la “barca”; 3) «dal ribollir de’ tini» (Carducci, San Martino) dove non sono i tini a ribollire ma il mosto in essi contenuto; 4) “sto studiando Dante” invece delle “opere scritte da Dante”. Mimesi Secondo la concezione estetica

classica, fondamento della creazione artistica in quanto imitazione della realtà e della natura. In senso moderno le forme stilistiche e letterarie, come il dialogo o la scrittura drammatica, volte a dare l’impressione e l’illusione della realtà. In questo senso si oppone a ➜ diegesi.

Monologo interiore Rappresentazio-

ne dei pensieri di un personaggio (riflessioni, frammenti di altri pensieri, elementi inconsci, associazioni d’idee) come un flusso continuo, incontrollato, privo di un ordine logico.

N Neologismo Parola introdotta di recente nella lingua, oppure nuova accezione di un vocabolo già esistente.

Nominale (stile nominale) Particolare

organizzazione del periodo in cui gli elementi nominali (sostantivi, aggettivi ecc.) prevalgono su quelli verbali. Ad es.: è spesso usato nei titoli dei giornali “Maltempo su tutta la penisola”.

O Omofonia Indica l’identità di suono tra parole differenti.

Onomatopea Figura d’imitazione vol-

ta a imitare un suono (chicchiricchì) o che evochi attraverso i propri suoni ciò che la parola stessa significa (gorgogliare o bisbigliare). Ad es.: «Nei campi / c’è un breve gre gre di ranelle» (Pascoli, La mia sera).

Ossimoro Figura retorica che consiste nell’accostamento di due parole che esprimono concetti contrari. Ad es.: «provida sventura» (Manzoni, Adelchi); «dolce affanno» (Petrarca, Benedetto sia ’l giorno) «Sentia nell’inno la dolcezza amara» (Giusti, Sant’Ambrogio). Ottava Strofa di otto endecasillabi, i primi sei a rima alternata, gli ultimi due a rima baciata. È il metro dei ➜ cantari e dei poemi cavallereschi italiani.

P Palinodia Componimento poetico che ritratta opinioni espresse in precedenza. Paraipotassi Costruzione sintattica in cui si combinano ➜ ipotassi e ➜ paratassi. Si ha quindi un periodo in cui la proposizione principale si coordina mediante congiunzione (“e”, “così”, “ma” ecc.) a una proposizione subordinata (retta da un participio, un gerundio, una congiunzione come “se”, “quando”, “poiché” ecc.). Ad es.: «S’io dissi falso, e tu falsasti il conio» (If XXX 116); «E finita la canzone, e ’l maestro disse» (Boccaccio, Decameron). Parallelismo Il disporre in modo simmetrico parole, concetti, strutture sintattico-grammaticali. Sono casi particolari di parallelismo il ➜ chiasmo, l’➜ anafora, il ➜ polisindeto, l’ ➜ epanalessi ecc.

Paratassi Costruzione del periodo fon-

data sull’accostamento di proposizioni principali, articolate per coordinazione. È il contrario dell’ ➜ ipotassi.

Parodia Imitazione di un autore, di un

testo, di uno stile fatta a scopo ironico o satirico.

Paronomàsia (o bisticcio o annomi-

nazione) Figura retorica che consiste nell’accostamento di due parole dal suono simile ma semanticamente diverse. Ad es.: «ch’i’ fui per ritornar più volte vòlto» (If I 36), «disserra / la porta, e porta inaspettata guerra» (Tasso, Gerusalemme liberata).

Glossario

901


Pastiche Tecnica compositiva che accosta parole di registri, stili e lingue diverse. Può avere anche scopo di parodia.

Perifrasi Figura retorica che consiste

nell’utilizzare un giro di parole in sostituzione di un singolo termine. Ad es.: «del bel paese là dove ’l sì suona» per indicare l’Italia (If XXX 80), «chiniam la fronte al Massimo / Fattor» (Manzoni, Il cinque maggio) per indicare Dio; « l’Ospite furtiva / che ci affranca dal Tempo e dallo Spazio» (Gozzano, La signorina Felicita) per indicare la morte.

Personificazione (o prosopopea) Fi-

gura retorica mediante la quale si dà voce a persone defunte o si fanno parlare animali o cose inanimate o astratte. Ad es.: «Pel campo errando va Morte crudele» (Ariosto, Orlando furioso), «Piangi, che ben hai donde, Italia mia» (Leopardi, All’Italia), «Da la torre di piazza roche per l’aere le ore / gemon» (Carducci, Nevicata).

Piede Nella metrica classica la più pic-

cola unità ritmica di un verso, formata di due o più sillabe, con una parte forte (arsi) e una debole (tesi). Nella metrica italiana, ognuna delle due parti in cui in genere si suddivide la fronte della strofa di una ➜ canzone.

Pleonasmo Elemento linguistico su-

perfluo, formato dall’aggiunta di una o più parole inutili dal punto di vista grammaticale o concettuale. È frequente nel linguaggio familiare e talvolta è un vero e proprio errore. Ad es.: “a me mi piace” o “entrare dentro” sono pleonasmi. «Io il mare l’ho sempre immaginato come un cielo sereno visto dietro dell’acqua» (Pavese, Feria d’agosto); «A me mi par di sì: potete domandare nel primo paese che troverete andando a diritta» (Manzoni, I promessi sposi).

Plurilinguismo L’uso in un testo let-

terario di diversi registri linguistici ed espressivi (tecnico, gergale, aulico, letterario ecc.) e di idiomi differenti. Ad es.: il plurilinguismo di Carlo Emilio Gadda.

Pluristilismo La compresenza in un

testo letterario di diversi livelli di stile.

Poliptòto Figura retorica che consiste nel riprendere una parola più volte in un periodo, mutando caso o genere o numero. Ad es.: «Cred’ïo ch’ei credette ch’io credesse» (If XIII 25).

Prolessi Anticipazione di un elemen-

to del discorso rispetto alla normale costruzione sintattica. In narratologia, interruzione del normale corso cronologico di un racconto per narrare eventi futuri. È l’opposto dell’➜ analessi. Ad es.: «guarda la mia virtù s’ell’è possente» (If II 11), «la morte è quello / che di cotanta speme oggi m’avanza» (Leopardi, Le ricordanze).

Prosopopea ➜ Personificazione Protasi Parte iniziale di un poema in

cui l’autore espone l’argomento dell’opera.

Q Quartina È la strofa composta di quat-

tro versi variamente rimati. Le prime due strofe del sonetto sono quartine.

R Rapportatio Tecnica compositiva arti-

ficiosa tipica della poesia manierista e barocca, consiste nel disporre le varie parti del discorso in modo tale da creare una trama di corrispondenze sia concettuali sia strutturali.

Refrain ➜ Ritornello Registro Il modo di parlare o scrivere,

il livello espressivo proprio di una particolare situazione comunicativa (registro formale, familiare, popolare, burocratico ecc.). Un autore sceglie e gestisce i vari tipi di registro in base al genere dell’opera o agli effetti che vuole ottenere.

Repraesentatio ➜ Ipotiposi Reticenza Figura retorica che consiste nel troncare un discorso lasciando però intendere ciò che non viene detto (talvolta più di quanto non si dica). Ad es.: «Ho de’ riscontri, – continuava, – ho de’ contrassegni...» (Manzoni, I promessi sposi). Rimario Repertorio alfabetico di tutte le rime presenti in un’opera poetica o utilizzate da un autore. Ripresa ➜ Ballata

Romanzo di formazione Romanzo nel quale si segue la formazione morale, sentimentale e intellettuale di un personaggio, dalla giovinezza alla maturità. Rubrica Nei codici medievali il breve

riassunto posto in testa a ogni capitolo e che ne indica l’argomento. Il termine deriva dal colore rosso che nei codici medievali caratterizzava titoli e capilettera. Ad es.: il breve riassunto prima di ogni novella del Decameron.

S Senhàl (alla lettera “segno”) Nome fit-

tizio con cui, nella poesia provenzale, il poeta alludeva alla donna amata o ad altri personaggi cui si rivolgeva. Ad es.: Guglielmo d’Aquitania cela il nome dell’amata con Bon Vezi (Buon vicino); Raimbaut designa una poetessa amica come Jocglar “Giullare”. Sono dei senhal anche gli pseudonimi usati da poeti italiani sul modello provenzale (ad es. il senhal Violetta in una ballata dantesca); e così anche il sintagma l’aura usato da Petrarca.

Sestina Componimento lirico con sei strofe di sei endecasillabi non rimati in cui la parola finale di ogni verso della prima strofa si ripete nelle altre in diverso ordine; è chiuso da tre versi che ripetono le sei parole. Inventata dal provenzale Arnaut Daniel, venne adottata da Dante e Petrarca. Settenario È il verso composto da sette sillabe, che può presentare vari schemi di rime. È utilizzato nella ➜ canzone e nella ➜ ballata. Significante / Significato Il signifi-

cante è l’elemento formale, fonico o grafico, che costituisce una data parola, il significato è il concetto al quale l’espressione fonica rimanda. Significante e significato insieme costituiscono il segno.

Sillogismo Tipo di ragionamento, co-

dificato da Aristotele, in cui tre proposizioni sono collegate fra di loro in modo che, poste due di esse come premesse (premessa maggiore e premessa minore), ne segue necessariamente una terza come conclusione. Ad es.: “tutti gli uomini sono mortali” (premessa maggiore), “Socrate è un uomo” (premessa minore) quindi “Socrate è mortale” (conclusione).

più significati all’interno di una parola, di una frase, di un testo intero. Ad es.: macchina per “automobile” oppure “congegno meccanico”, la Commedia di Dante che ha diversi livelli di lettura (allegorico, letterale ecc.).

Ritmo In un verso l’alternarsi, secondo determinati schemi, di sillabe atone e accentate (metrica accentuativa) o di sillabe lunghe e brevi (metrica quantitativa). Il termine indica anche componimenti poetici medievali in ➜ lasse monorime (Ritmo cassinese, Ritmo di Sant’Alessio).

Simbolo Oggetto o altra cosa concreta che sintetizza ed evoca una realtà più vasta o un’entità astratta. Ad es.: il sole come simbolo di Dio, la bilancia come simbolo della giustizia.

Polisindeto: forma di coordinazione

Ritornello o refrain Verso o gruppo

Similitudine Figura retorica che con-

Polisemia La compresenza di due o

realizzata mediante congiunzioni coordinanti. Ad es.: «E mangia e bee e dorme e veste panni» (If XXXIII 141), «o

902

selva o campo o stagno o rio / o valle o monte o piano o terra o mare» (Ariosto, Orlando furioso).

Glossario

di versi che, in alcuni generi poetici, vengono ripetuti regolarmente prima o dopo ciascuna strofa.

siste nel paragonare cose, persone o fatti in modo diretto ed esplicito utilizzando avverbi e vari connettivi (“come”,


“tale... quale”, “così”, “sembra” ecc.). Ad es.: «Tu sei come la rondine / che torna in primavera» (Saba, A mia moglie).

Sinalèfe In metrica, il computo come

una sola sillaba di due vocali consecutive, la prima alla fine di una parola, la seconda all’inizio della parola che segue. Le due vocali appartengono quindi alla stessa sillaba. È opposta alla ➜ dialefe e di norma è obbligatoria se entrambe le vocali sono atone. Ad es.: «Movesi il vecchierel canuto et biancho» (Petrarca).

Sincope Caduta di una vocale all’in-

terno di una parola. Ad es.: spirto per “spirito”.

Sincronia Indica lo stato di una lingua in un particolare momento a prescindere dall’evoluzione storica della lingua stessa (al contrario della ➜ diacronia).

Sinèddoche Figura retorica che con-

siste nella sostituzione di un termine con un altro che sia in un rapporto di contiguità con il primo. A differenza della ➜ metonimia (c’è chi la considera una variante di questa) si ha quando la relazione fra i termini implica un rapporto di quantità e di estensione. 1) La parte per il tutto (e viceversa); 2) il singolare per il plurale (e viceversa); 3) la specie per il genere (e viceversa). Ad es.: 1) “una vela solcava il mare” per indicare “una barca solcava il mare” oppure “ho imbiancato casa” per dire “ho imbiancato le pareti di casa”; 2) «l’inclito verso di colui che l’acque» (Foscolo, A Zacinto) dove verso indica i versi (dell’Odissea); 3) “il felino” per dire “il gatto” o “i mortali” per dire “gli uomini”.

Sinèresi In metrica, il computo come

suddivisi in quattro strofe, due quartine e due terzine. Lo schema delle rime prevede poche varianti per le quartine rispetto allo schema più antico: ABAB ABAB (rime alternate), oppure ABBA ABBA (rime incrociate) mentre le terzine presentano fin dalle origini molteplici combinazioni.

Spannung (ted. “tensione”) termine

che in narratologia indica il momento culminante di una narrazione.

Stanza ➜ Strofa Stilema Tratto stilistico caratteristico di un autore, di una scuola, di un genere letterario o di un periodo storico. Straniamento Procedimento con cui

lo scrittore, attraverso un uso inconsueto del linguaggio o la rappresentazione insolita di una realtà nota, produce nel lettore uno sconvolgimento della percezione abituale, rivelando così aspetti insoliti della realtà e inducendo a riflettere criticamente su di essa.

Strofa (o strofe o stanza) All’interno

di una poesia è l’insieme ricorrente di versi uguali per metro e schema di rime. A seconda del numero di versi prende il nome di ➜ distico, ➜ terzina, ➜ quartina, ➜ sestina, ➜ ottava. Ad es.: un sonetto è formato da quattro strofe: due quartine e due terzine.

Summa Termine con cui nel medio-

evo si indicavano le trattazioni sistematiche di una determinata disciplina (in origine di teologia, poi anche di filosofia, astronomia ecc.).

T

una sola sillaba di due vocali consecutive appartenenti alla stessa parola. È opposta alla ➜ dieresi. Ad es.: «Questi parea che contra me venisse» (If I 46).

Tenzone Termine derivante dal pro-

Sinestesìa Particolare forma di ➜ metafora che consiste nell’associare due

Terza rima ➜ Terzina a rime incate-

termini che fanno riferimento a sfere sensoriali diverse. Ad es.: «Io venni in loco d’ogne luce muto» (If V 28), «là, voci di tenebra azzurra» (Pascoli, La mia sera).

Sintagma Unità sintattica di varia complessità, di livello intermedio tra la parola e la frase, dotata di valore sintattico compiuto. Ad es.: a casa, di corsa, contare su ecc. Sirma ➜ Canzone Sirventese Componimento poetico di origine provenzale, di metro vario e di argomento didattico-morale o di ispirazione celebrativa. Sonetto Forma poetica (forse “inven-

tato” in Italia intorno alla metà del XIII secolo da Jacopo da Lentini). È costituito sempre da 14 versi endecasillabi,

venzale che indica un dibattito tra poeti di visioni opposte a tema letterario, filosofico o amoroso.

Tònica (sillaba) è la sillaba dotata di accento: la vocale di una parola su cui cade l’accento è quindi vocale tonica.

Tòpos (plur. tòpoi) in greco “luogo” ov-

vero “luogo comune”. Il termine indica un motivo stereotipato e ricorrente in un autore o in una tradizione (tuttavia i tòpoi più diffusi attraversano più epoche, culture e letterature).

Traslato Espressione o parola il cui si-

gnificato risulti “deviato”, “spostato” da quello letterale. Sono dunque traslati le figure retoriche come la ➜ metafora, la ➜ perifrasi, la ➜ metonimia ecc.

Tropo ➜ Traslato

V Variante In filologia, ciascuna delle ➜ lezioni che differiscono dal testo originale ricostruito dall’editore o dalla tradizione critica. In linguistica, ciascuna delle diverse forme in cui si presenta un vocabolo (quale che sia il motivo di questa differenza). Ad es.: “olivo” e “ulivo”, “cachi” e “kaki” ecc.

Variatio (o variazione) Artificio reto-

rico che consiste nel ripetere lo stesso concetto usando espressioni verbali, termini e costrutti sempre diversi.

Variazione ➜ Variatio

Z Zèugma Figura retorica che consiste nel far dipendere da un unico predicato due o più parole o enunciati dei quali uno solo è logicamente adatto. Ad es.: «parlare e lagrimar vedrai insieme» (If XXXIII 9) dove vedrai si adatta solo a lagrimar e non a parlare.

nate.

Terzina a rime incatenate È il me-

tro inventato da Dante per la stesura della Commedia, per questo motivo è anche detta “terzina dantesca”. Essa è composta da tre endecasillabi, di cui il primo e il terzo rimano tra loro, mentre il secondo rima con il primo e il terzo della terzina successiva: si parla perciò anche di “terzine incatenate”.

Testimone In filologia ogni libro an-

tico, o manoscritto o a stampa, grazie al quale è stato trasmesso un testo e in base al quale è possibile ricostruire l’originale.

Tmesi Divisione di una parola compo-

sta in due parti distinte di cui una alla fine di un verso e l’altra al principio del verso successivo. Ad es.: «Io mi ritrovo a piangere infinita- / mente con te» (Pascoli, Colloquio).

Glossario

903


PAROLA CHIAVE

LESSICO

Indice delle rubriche tema/rema 124 liberismo 179 razionalismo 181 pamphlet 189 filantropia 195 giusnaturalismo 203 poeta cesareo 233 recitativo 233 aria 234 libretto 234

riformismo 248 tiratura 271 cicisbeo 332 online antimetafisica pietismo 667 naturalismo 705 feuilleton 706 letteratura combinatoria 706 idéologues 796

onore 10 metateatro 67 polifonia 92 progresso 188 cosmopolitismo 190 opinione/opinione pubblica 222 garantismo 260 self-made man 273 fisiocrazia 318 ironia 334 titanismo 438 online dongiovannismo online sadismo genio 485 Sehnsucht 489 nazione 495 patria 496 pirateria 502 Romanticismo 655

PER APPROFONDIRE

Il tema delle metamorfosi e il gusto barocco

904

8

online Una frattura epocale nel sistema del sapere: dalla somiglianza alla differenza

Scienziati e maghi

21

online La crisi dell’antropocentrismo nelle testimonianze letterarie

Da Machiavelli a Shakespeare

93

Dal testo alle interpretazioni teatrali e cinematografiche

102

Il rapporto tra Galileo e la Chiesa: gli sviluppi recenti

115

online Il confronto tra Galileo e Giordano Bruno nel film Galileo di Liliana Cavani

Un’immagine chiave: il libro della natura

127


PER APPROFONDIRE

online Il sistema dei personaggi come chiave di lettura del Dialogo sopra i due massimi sistemi

Le metafore come micro-racconti

150

La metafora della luce e il termine “Illuminismo”

181

online La visione preevoluzionistica di Buffon

Il sensismo

187

online Il nettare nero che ha trasformato il costume

Il nuovo volto delle accademie

193

online La storia della massoneria

Il Grand Tour 196 online Una tormentata storia editoriale

Il mito di Robinson

276

online L’allestimento del libro delle Odi

Il neoclassicismo pariniano: un problema critico

324

I problemi igienico-sanitari (o ecologici) di Milano nel Settecento

330

All’incrocio di diversi generi

331

online Un mondo di automi

La composizione del Giorno: un’intricata questione filologica

335

Perché Il giorno non fu terminato? Alle radici di una crisi di ispirazione

337

Venezia nel Settecento: la capitale dell’editoria e dello spettacolo

371

online Il modello narrativo dei Mémoires: tra autobiografia, romanzo e teatro online Autobiografia in scena: Goldoni rappresenta Goldoni online Cronistoria della commedia goldoniana

La famiglia, i giovani, le donne: una visione progressista?

379

Gobetti e Alfieri

444

online Il registro ironico come espressione del distanziamento critico dal passato online Il Filippo: un re “tiranno” e il conflitto padre-figlio online Don Giovanni: dal personaggio al mito

Vivere da letterati nel primo Ottocento: quattro casi emblematici

503

online Il problema del diritto d’autore

Due poli culturali a confronto: Roma e Milano

505

online Saperi alternativi nella medicina del primo Ottocento: Mesmerismo e omeopatia

Un segno di protesta generazionale

542

online Massoneria e Bildungsroman

Le caratteristiche dei romanzi di formazione

548

L’attualità del Faust

552

Foscolo critico

569

online Alter ego ed eteronimi: da Foscolo a Pessoa

Il dibattito europeo sulle sepolture e l’editto di Saint-Cloud

618

Il fascino misterioso dell’«isola non trovata» da Foscolo a Guccini

640

online Gadda contro Foscolo

Chi sono i moderni per i romantici? Tutta l’arte moderna è romantica?

658

Dal mito illuminista della luce alla predilezione romantica per la notte

671

online Eugénie Grandet

Un realismo venato di simbolismo

722

online Le strategie della narrazione fantastica

Indice delle rubriche

905


PER APPROFONDIRE

online Il piacere di aver paura online La fortuna del mito di Prometeo

La «Biblioteca italiana» (1816-1840)

734

Altre due importanti riviste: «L’Antologia» e «Il Politecnico»

738

Il dibattito sul carattere dei popoli

753

Gli ideali in musica: il melodramma ottocentesco

764

online Il Risorgimento al cinema online I vecchi e i giovani di Luigi Pirandello

La “linea lombarda”: realismo, moralità, sperimentazione linguistica

773

La ricerca di figure paterne sostitutive

796

L’opposizione tra personaggi del “fare” e personaggi del “sentire”

827

Tempo del narrato e tempo della narrazione

850

Una riflessione mai esaurita

860

VERSO IL NOVECENTO

Gli inganni della lingua e gli ostacoli della comunicazione tra i ceti sociali nei Promessi sposi 875

Dalla condanna all’attualità del Barocco

26

online Emblemi barocchi nella poesia moderna: l’orologio, la clessidra, lo specchio Charles Baudelaire, L’orologio Giuseppe Ungaretti, Variazioni su nulla Jorge Luis Borges, Gli specchi

La Vita di Galileo di Bertolt Brecht Bertolt Brecht, «Siamo come intrappolati dentro»

136 136

online Attualità del Don Chisciotte: interpretazioni artistiche, cinematografiche, musicali online Dall’utopia alla distopia online Romanzi distopici del Novecento online Eugenio Scalfari, In viaggio con Diderot

Il Candido di Leonardo Sciascia

300

online L’eredità del romanzo settecentesco online Il dissoluto assolto di Saramago online Erri De Luca, Il tema dei valori nella poesia del Duemila

Valore online Il Risorgimento rivisitato di Luciano Bianciardi

Il Risorgimento fallito: l’amara visione di tre scrittori siciliani online La poesia dialettale nel Novecento online Marguerite Yourcenar, Un imperatore di fronte alla morte: Adriano online La letteratura dell'ordine opposta al caos del mondo online La "lettura con la lente" di uno scrittore: Primo Levi

906

765


EDUCAZIONE CIVICA

NUCLEO CONCETTUALE Costituzione I regimi che proibiscono i libri

T3a

Moliere Il miglior genero? Un medico! Il malato immaginario, atto I, scena V

31 PARITÀ DI GENERE equilibri

72

#PROGETTOPARITÀ

online Federico Della Valle

T9

Il coro dei soldati: la parola agli oppressi Judith, Coro

online

T3b

Lazarillo mette a profitto la lezione con il prete avaro Lazarillo de Tormes

online Tommaso Moro

T1 secondo le NUOVE Linee guida

I nobili svaghi della città di Utopia Utopia

PARITÀ DI GENERE equilibri #PROGETTOPARITÀ

online Tommaso Campanella

T2

L’educazione naturale dei «Solari» La Città del Sole «I lumi smorzati»: l’educazione femminile Dall’Encyclopédie all’IA

PARITÀ DI GENERE equilibri #PROGETTOPARITÀ

199 202

Voltaire

D11 Requisitoria contro l’intolleranza

206

Trattato sulla tolleranza, XXII

ZONA COMPETENZE 228

T5

Una riflessione giuridica di sorprendente attualità

257

Cesare Beccaria La tortura è una consuetudine barbara Dei delitti e delle pene, cap. XVI

259

Cesare Beccaria

T6 Le pene eccessivamente crudeli e la pena di morte sono disumane e inutili per prevenire i delitti Dei delitti e delle pene, capp. XXVII-XXVIII Il cammino verso l’abolizione della pena di morte in Italia

T1a

261 265

Daniel Defoe «Questa estrema necessità mi spronò al lavoro» Le avventure di Robinson Crusoe

277

online Samuel Richardson

T5

Una cameriera virtuosa (ma anche battagliera) Pamela o la virtù ricompensata, Lettera XVI

PARITÀ DI GENERE equilibri #PROGETTOPARITÀ

T7

Jonathan Swift Una guerra per stabilire da che parte si rompono le uova I viaggi di Gulliver, I, iv

285

T11

Voltaire Un eroico macello Candido, III

294

T3

Carlo Goldoni Lo studio del “carattere” entro una categoria sociale: due «rusteghi» I rusteghi, II, v

T4c T4d

Carlo Goldoni Il primo monologo di Mirandolina La locandiera I, ix Carlo Goldoni Il confronto tra Fabrizio e Mirandolina La locandiera I, x

PARITÀ DI GENERE equilibri

382

#PROGETTOPARITÀ

PARITÀ DI GENERE equilibri

396

#PROGETTOPARITÀ

PARITÀ DI GENERE equilibri

397

#PROGETTOPARITÀ

Indice delle rubriche

907


EDUCAZIONE CIVICA

T5c T3

Carlo Goldoni Lo svenimento di Mirandolina: un magistrale colpo di mano La locandiera II, xvii

PARITÀ DI GENERE equilibri

411

#PROGETTOPARITÀ

Vittorio Alfieri La definizione di tirannide Della tirannide I, II

443

online Lorenzo Da Ponte

T1

Il catalogo del seduttore PARITÀ DI GENERE Don Giovanni, I, v

equilibri #PROGETTOPARITÀ

online Pierre Choderlos de Laclos

T3 T3

secondo le NUOVE Linee guida

La formazione di una libertina Le relazioni pericolose

PARITÀ DI GENERE equilibri #PROGETTOPARITÀ

Ugo Foscolo Foscolo motiva la dolorosa scelta dell’esilio 570 Epistolario PARITÀ DI GENERE 577 L’Ortis come libro di educazione patriottica PARITÀ 577 Il successo tra il pubblico femminile DI GENERE L’apertura drammatica del romanzo 578 Ultime lettere di Jacopo Ortis Il colloquio fra Jacopo e Parini 584 Ultime lettere di Jacopo Ortis equilibri

#PROGETTOPARITÀ

T6 T11 T4 T3

equilibri

#PROGETTOPARITÀ

Samuel Coleridge La ballata del vecchio marinaio I, vv. 51-82; II, vv. 107-142 Jane Austen L'orizzonte esistenziale di un'anziana coppia di borghesi campagnoli Orgoglio e pregiudizio, I La condizione di impotenza della donna e il fenomeno del “bovarismo”

675

PARITÀ DI GENERE equilibri

707

#PROGETTOPARITÀ

PARITÀ DI GENERE equilibri

721

#PROGETTOPARITÀ

T9 T5

Gustave Flaubert Le delusioni di un matrimonio piccolo-borghese Madame Bovary, parte I, cap. VII Ippolito Nievo La Pisana, una figura femminile fuori dagli stereotipi Le confessioni di un italiano, cap. VIII

PARITÀ DI GENERE equilibri

723

#PROGETTOPARITÀ

PARITÀ DI GENERE equilibri

748

#PROGETTOPARITÀ

D2

Goffredo Mameli Il canto degli italiani

762

T1b

Carlo Porta La preghiera

774

online Giuseppe Gioachino Belli

T4a

L’aducazzione Sonetti, 2

online Alessandro Manzoni

D1

«Un utopista e un irresoluto»: una spietata autoanalisi Lettera a Giorgio Briano

Alessandro Manzoni Marzo 1821 La Pentecoste Inni sacri T6 «Dagli atrii muscosi…» Adelchi, coro del III atto PARITÀ T7 «Sparsa le trecce morbide…» DI GENERE Adelchi, coro del IV atto T8 Il testamento spirituale di Adelchi Adelchi, atto V, scena VIII, vv. 336-362 T11a Renzo e don Abbondio: la subdola violenza del latinorum I promessi sposi, II

800

T2 T1

908

432 809 828 equilibri

832

#PROGETTOPARITÀ

837 871


EDUCAZIONE CIVICA

NUCLEO CONCETTUALE Sviluppo economico e sostenibilità Jean-Jacques Rousseau

D12 Alle radici della diseguaglianza e del patto sociale

209

Discorso sull’origine e i fondamenti della diseguaglianza

T1

Giuseppe Parini La salubrità dell’aria Odi, II

325

online Carlo Goldoni

T2

T4a T6c secondo le NUOVE Linee guida

T18 T4

Oltre la commedia dell’arte: il nuovo volto di Pantalone La famiglia dell’antiquario I, xviii; II, xi Carlo Goldoni Il marchese di Forlipopoli e il conte d’Albafiorita a confronto La locandiera I, i Le carte si scoprono...e il cavaliere è sconfitto La locandiera III, xviii

392 417

Ugo Foscolo Dei Sepolcri

618

Samuel Coleridge La ballata del vecchio marinaio I, vv. 51-82; II, vv. 107-142

675

NUCLEO CONCETTUALE Cittadinanza digitale

LEGGERE LE EMOZIONI

Dall’Encyclopédie all’IA

Torquato Accetto

D1 Una “legittima difesa” da un potere dispotico: l’“onesta dissimulazione”

202

EDUCAZIONE ALLE RELAZIONI

Della dissimulazione onesta

T3a

Ciro di Pers Orologio da rote

10

52

online Giovan Leone Sempronio

T4

Quid est homo? La selva poetica

online Francisco de Quevedo

T7b Ehi, della vita! Nessuno risponde? Sonetti amorosi e morali online Jean Racine

T2 La confessione di Fedra e la potenza incoercibile della passione

EDUCAZIONE ALLE RELAZIONI

Fedra, atto I, scena III

T4

Pedro Calderón de la Barca Il “disinganno” e la scelta del bene La vita è sogno, atto II, scene XVIII e XIX

81

T6

William Shakespeare Un eroe moderno in un mondo machiavellico Amleto atto III, scena I

94

T1

Galileo Galilei Non esiste differenza tra terra e cielo Sidereus Nuncius

119

Paul-Henry d’Holbach

D3 La visione materialistico-meccanicistica dell’universo

184

Il buon senso o idee naturali contrapposte alle idee soprannaturali

online Daniel Defoe

D7a I bilanci razionali di Robinson

244

Le avventure di Robinson Crusoe, cap. 6

Indice delle rubriche

909


LEGGERE LE EMOZIONI

online Jean-Jacques Rousseau

D7b La voce della passione e del sentimento Le confessioni

online Lorenzo Da Ponte

T7 T8

EDUCAZIONE

L’aria di Cherubino ALLE RELAZIONI Le nozze di Figaro, atto II, scena III Jean-Jacques Rousseau Il pentimento di Giulia Giulia o la nuova Eloisa, Lettera XXXII, risposta

EDUCAZIONE ALLE RELAZIONI

290

online Voltaire

T10 Come Candide fu allevato in un bel castello e come ne fu cacciato Candido, I

T15

Laurence Sterne Un esempio di metanarrazione La vita e le opinioni di Tristram Shandy, gentiluomo, VI

304

online Giuseppe Parini

T2

La caduta Odi, XV

online Carlo Goldoni

D1 Il viaggio da Rimini a Chioggia. L’incontro con la mamma

T4d

EDUCAZIONE ALLE RELAZIONI

Memorie I, iv-v Carlo Goldoni Il confronto tra Fabrizio e Mirandolina La locandiera I, x EDUCAZIONE ALLE RELAZIONI

397

online Vittorio Alfieri

T1 T2

Sublime specchio di veraci detti Rime Vittorio Alfieri Tacito orror di solitaria selva Rime

440

online Vittorio Alfieri

T5

La lettura di Plutarco, «il libro dei libri» Vita, Epoca terza, cap. VII Vittorio Alfieri

T7 La libertà dello spirito nella natura selvaggia della Svezia invernale

447

Vita, Epoca terza, capp. VIII-IX

T10

Vittorio Alfieri EDUCAZIONE La fine di Saul ALLE RELAZIONI 455 Saul, atto V, scene III-V, vv. 117-225

online Giacomo Casanova

D1

«Coltivare il piacere dei sensi» Storia della mia vita

online Friedrich Schiller

T3 Il credo ribellistico degli Stürmer I masnadieri, II scena

Johann Wolfgang Goethe

T5 Werther e Albert a confronto: il tema del suicidio come parametro T8

di due opposte visioni del mondo I dolori del giovane Werther, lettera del 12 agosto Il patto tra Faust e Mefistofele Faust, Parte prima, Studio [II]

online Ugo Foscolo

T2

910

Il linguaggio della passione Lettera ad Antonietta Fagnani Arese

543 553


LEGGERE LE EMOZIONI

T9 T12 T14 T18

Ugo Foscolo Dopo quel bacio... il tema delle illusioni 582 Ultime lettere di Jacopo Ortis La natura “sublime” e la riflessione sulla storia: la lettera da Ventimiglia 588 Ultime lettere di Jacopo Ortis EDUCAZIONE All'amica risanata ALLE RELAZIONI 595 Odi EDUCAZIONE Dei Sepolcri ALLE RELAZIONI 618

online Ugo Foscolo

T19

Didimo, un Ortis «più disingannato che rinsavito» Notizia intorno a Didimo Chierico VII; XI-XIII

T1

Novalis Primo inno alla notte Inni alla notte, I

668

T1

Walter Scott L’agnizione dell’eroe: il misterioso «cavaliere Diseredato» si svela come Ivanhoe Ivanhoe, XII

697

Stendhal

T5 Le scelte opportunistiche di Julien Sorel, un giovane ambizioso cresciuto nel mito di Napoleone Il rosso e il nero, cap. VI

710

online Ernst Theodor Amadeus Hoffmann

T3

L’Orco Insabbia: tra incubo e realtà L’Orco Insabbia

online Mary Shelley

T5

EDUCAZIONE

La creazione dell’uomo artificiale ALLE RELAZIONI Frankenstein, o il Prometeo moderno, capp. III-IV Giovanni Berchet

D1d Il nuovo pubblico della letteratura romantica

739

Lettera semiseria di Grisostomo al suo figliuolo

online Ippolito Nievo

T4

La bufera della storia e la fine di un mondo Le confessioni di un italiano, cap. XVIII

T8

Silvio Pellico La comune umanità di carcerati e carcerieri Le mie prigioni, LXII

757

T6a

Giuseppe Gioachino Belli Er caffettiere fisolofo Sonetti, 180

783

online Alessandro Manzoni

D1

«Un utopista e un irresoluto»: una spietata autoanalisi Lettera a Giorgio Briano Alessandro Manzoni

T7 Il cinque maggio T10a L’occhio del cuore e della memoria: «Addio, monti...»

816 864

SGUARDO

I promessi sposi, VIII

Sull’arte Due esempi dell’immaginario manieristico e barocco L’orologio “barocco” di Dalí Immagini allo specchio online La miseria nell’arte del Seicento Ritratti di scienziati

39 54 55 183

Indice delle rubriche

911


SGUARDO

Il ritratto nel Settecento Il mito della romanità e gli usi politici del Neoclassicismo Le Grazie nel mito e nell’arte La “scena di conversazione”

434 529 640 799

Sulla filosofia Il giansenismo

70

Sul cinema Giordano Bruno, il film Il Galileo di Liliana Cavani online Immagini del Settecento online Un antieroe settecentesco: Barry Lyndon online Noi credevamo: il Risorgimento visto attraverso la lente della disillusione La Vita di Alfieri e il film Into the Wild di Sean Penn: un possibile confronto? online Giacomo Casanova secondo Fellini online Il Settecento: un secolo di libertini Madame Bovary, un “soggetto” di successo online Il mito di Frankenstein online Ottocento al nero: suggestioni gotiche e fantastiche online Noi credevamo: il Risorgimento visto attraverso la lente della disillusione

13 116

449

727

Sulla musica

ORIENTARE E ORIENTARSI

Il melodramma

912

235

Torquato Accetto

D1 Una “legittima difesa” da un potere dispotico: l’“onesta dissimulazione” Della dissimulazione onesta Ciro di Pers T3a Orologio da rote online Giovan Leone Sempronio T4 Quid est homo? La selva poetica online Francisco de Quevedo T7b Ehi, della vita! Nessuno risponde? Sonetti amorosi e morali online Jean Racine T2 La confessione di Fedra e la potenza incoercibile della passionea Fedra, atto I, scena III Moliere T3a Il miglior genero? Un medico! Il malato immaginario, atto I, scena V Pedro Calderón de la Barca T4 Il “disinganno” e la scelta del bene La vita è sogno, atto II, scene xviii e xix William Shakespeare T6 Un eroe moderno in un mondo machiavellico Amleto atto III, scena I Galileo Galilei T1 Non esiste differenza tra terra e cielo Sidereus Nuncius online Tommaso Campanella T2 L’educazione naturale dei «Solari» La Città del Sole

10

52

72

81

94

119


ORIENTARE E ORIENTARSI

online Cyrano de Bergerac

T3

I libri parlanti L’altro mondo o Stati e Imperi della Luna Paul-Henry d’Holbach

D3 La visione materialistico-meccanicistica dell’universo

184

Il buon senso o idee naturali contrapposte alle idee soprannaturali

online Daniel Defoe

D7a I bilanci razionali di Robinson

Le avventure di Robinson Crusoe, cap. 6

online Jean-Jacques Rousseau

D7b La voce della passione e del sentimento Le confessioni Voltaire

D11 Requisitoria contro l’intolleranza

206

Trattato sulla tolleranza, XXII

T1a

Daniel Defoe «Questa estrema necessità mi spronò al lavoro» Le avventure di Robinson Crusoe

277

T8

Jean-Jacques Rousseau Il pentimento di Giulia Giulia o la nuova Eloisa, Lettera XXXII, risposta

290

online Voltaire

T10 Come Candide fu allevato in un bel castello e come ne fu cacciato Candido, I

T15

Laurence Sterne Un esempio di metanarrazione La vita e le opinioni di Tristram Shandy, gentiluomo, VI

304

online Giuseppe Parini

T1 T2

La salubrità dell’aria Odi, II La caduta Odi, XV

325

online Carlo Goldoni

D1 Il viaggio da Rimini a Chioggia. L’incontro con la mamma Memorie I, iv-v

online Carlo Goldoni

T2

T6c

Oltre la commedia dell’arte: il nuovo volto di Pantalone La famiglia dell’antiquario I, xviii; II, xi Le carte si scoprono...e il cavaliere è sconfitto La locandiera III, xviii

417

online Vittorio Alfieri

T1

T2

Sublime specchio di veraci detti Rime Vittorio Alfieri Tacito orror di solitaria selva Rime

440

online Vittorio Alfieri

T4

Il potere e la cultura hanno fini opposti Del principe e delle lettere I, IV; III, X

online Giacomo Casanova

D1

«Coltivare il piacere dei sensi» Storia della mia vita

online Friedrich Schiller

T3

Il credo ribellistico degli Stürmer

Indice delle rubriche

913


ORIENTARE E ORIENTARSI 914

Johann Wolfgang Goethe

T5 Werther e Albert a confronto: il tema del suicidio come parametro

di due opposte visioni del mondo I dolori del giovane Werther, lettera del 12 agosto T8 Il patto tra Faust e Mefistofele Faust, Parte prima, Studio [II] Ugo Foscolo T9 Dopo quel bacio... il tema delle illusioni Ultime lettere di Jacopo Ortis T11 Il colloquio fra Jacopo e Parini Ultime lettere di Jacopo Ortis T12 La natura “sublime” e la riflessione sulla storia: la lettera da Ventimiglia Ultime lettere di Jacopo Ortis T14 All’amica risanata Odi Novalis T1 Primo inno alla notte Inni alla notte, I Walter Scott T1 L’agnizione dell’eroe: il misterioso «cavaliere Diseredato» si svela come Ivanhoe Ivanhoe, XII Stendhal T5 Le scelte opportunistiche di Julien Sorel, un giovane ambizioso cresciuto nel mito di Napoleone Il rosso e il nero, cap. V online Gustave Flaubert T8 Una distorta educazione sentimentale Madame Bovary, parte I, cap. VI online Ernst Theodor Amadeus Hoffmann T3 L’Orco Insabbia: tra incubo e realtà L’Orco Insabbia online Mary Shelley T5 La creazione dell’uomo artificiale Frankenstein, o il Prometeo moderno, capp. III-IV Giovanni Berchet D1d Il nuovo pubblico della letteratura romantica Lettera semiseria di Grisostomo al suo figliuolo online Ippolito Nievo T4 La bufera della storia e la fine di un mondo Le confessioni di un italiano, cap. XVIII Silvio Pellico T8 La comune umanità di carcerati e carcerieri Le mie prigioni, LXII online Giuseppe Gioachino Belli T4a L’aducazzione Sonetti, 2 Giuseppe Gioachino Belli T6a Er caffettiere fisolofo Sonetti, 180 Alessandro Manzoni T8 Il testamento spirituale di Adelchi Adelchi, atto V, scena VIII, vv. 336-362 T10a L’occhio del cuore e della memoria: «Addio, monti...» I promessi sposi, VIII online Alessandro Manzoni T14b Una provvidenza dall’inaspettato volto turpe: Renzo e i monatti I promessi sposi, XXXIV

543 553

582 584 588 595

668

697

710

280

739

757

783

837 864


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