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la visione tradizionale della cittadinanza come appartenenza a uno Stato; - il motivo per cui a molti questa visione appare insoddisfacente; - il tuo parere in proposito. Rifl etti sulla defi nizione di cittadinanza data dal sociologo Thomas H. Marshall (in Cittadinanza e classe sociale): «La cittadinanza è uno status
Per lungo tempo la donna è stata assurdamente considerata un essere inferiore, per sua natura meno forte e meno intelligente dell’uomo, incapace di scelte autonome e quindi bisognosa del costante appoggio maschile. Nella Bibbia si legge che Eva, la prima donna, si lasciò sedurre dal serpente, mangiando il frutto proibito e convincendo Adamo a fare altrettanto. Da questa disobbedienza al volere divino scaturì il peccato originale: ecco perché la donna, discendente di Eva, venne ritenuta un demonio tentatore, e perciò condannata all’espiazione, all’inferiorità e all’emarginazione. Questo antico pregiudizio culturale fu molto forte nel Medioevo, epoca in cui la donna veniva considerata il “principio di tutti i vizi”. In quella stessa epoca, però, essa venne dipinta anche come un angelo dalla poesia d’amore cortese e cavalleresca; lo stesso fece la letteratura romantica, che idealizzò la figura femminile, presentandola come la musa ispiratrice dell’uomo. L’ambivalenza tra angelo e diavolo ha contrassegnato la condizione della donna anche sul piano sociale, alimentando pregiudizi condivisi, veri e propri stereotipi culturali molto penalizzanti per l’immagine femminile. Per secoli, le donne sono state relegate al ruolo di “oggetti” passivi di una rappresentazione e di un’interpretazione fornita dagli uomini; un’interpretazione che esse stesse hanno fedelmente custodito e tramandato, benché ciò andasse a loro svantaggio. Hanno educato le loro figlie a essere obbedienti e sottomesse, a subire la volontà del maschio, a vivere nelle ristrette dimensioni del focolare domestico ( { p. 15), escludendole dalla sfera sociale.
I cambiamenti della prima società industriale
Questa era la situazione quando sorsero, sul finire del Settecento, i primi movimenti di emancipazione femminile. Essi si manifestaro
Manodopera femminile impiegata nella produzione di macchinari.
no nella Franciarivoluzionaria e nell’Inghilter‑ ra della rivoluzione industriale, all’epoca i due paesi più vivaci intellettualmente, i più sensibili a una critica delle posizioni tradizionali.
Fu posta allora, per la prima volta in modo esplicito, la questione dell’uguaglianza giuri‑ dica della donna e dei suoi diritti civili e politi‑ ci. Fu però un breve fuoco di paglia. All’inizio dell’Ottocento, infatti, l’età napoleonica e la Restaurazione (cioè il ritorno all’“Antico Regime” che la Rivoluzione francese si era illusa di spazzare via per sempre) soffocarono questi germi. Il Codice di leggi di Napoleone (1804), per esempio, diede corpo all’idea che la donna fosse una proprietà dell’uomo e che il suo compito primario fosse quello di restare relegata in casa.
Il fuoco, tuttavia, soffiava sotto la cenere: la questione dell’emancipazione femminile era destinata a riproporsi ben presto. La miccia di questa svolta fu accesa dalla diffusione in Europa della rivoluzione industriale, che mutò per sempre il ruolo economico e sociale delle donne. Il loro inserimento nel lavoro di fabbrica, infatti, produsse cambiamenti decisivi. Si fece improvvisamente chiara la realtà, e cioè che esse erano sfruttate in tutte le sfere della vita sociale: • nell’industria il lavoro femminile risultava peggio retribuito e più precario di quello maschile; • la famiglia rimaneva vincolata a valori culturali tradizionali e alle regole giuridiche che sancivano il primato del maschio, secondo il modello della famiglia patriarcale;