un nuovo bestiario. Dal fenomeno dei character, un'analisi retroattiva del rapporto uomo/animale

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un nuovo bestiario Dal fenomeno dei character, un’analisi retroattiva del rapporto uomo/animale.

Elisa Calore 267249 a.a. 2009/10

Università IUAV, Venezia Facoltà di Design e Arti ClasVEM



un nuovo bestiario



un nuovo bestiario dal fenomeno dei character, un’analisi retroattiva del rapporto uomo/animale iuav - fda corso di laurea specialistica in comunicazioni visive e multimediali a.a. 2009/10 progetto di tesi di elisa calore relatore: giovanni anceschi correlatrice: valeria burgio



un nuovo bestiario. dal fenomeno dei character, un’analisi retroattiva del rapporto uomo/animale calore elisa 267249 2009/10



introduzione parte prima

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1. animale, da culturalizzato a industrializzato 1.1 culturalizzazione dell’animale e l’animale in noi 1.2 industrializzazione dell’animale

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2 il simulacro 2.1 il souvenir 2.2 liveness 2.3 natura disney e tutti gli ordini dei simulacri

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3. l’animale antropomorfo 3.1 dalla letteratura al cinema 3.2 l’antropomorfo al cinema 3.2.1 Mickey Mouse 3.2.1 Bugs Bunny

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parte seconda 1. Topolino e il merchandising

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2. la mascotte 2.1 percezione e composizione dell’immagine

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3. una parentesi tutta italiana

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4. tre storie di animali antropomorfi 4.1 Calimero 4.2 Tony the Tiger 4.3 Foxy

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5. il valore dei nomi

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6. il caso del Giappone. Cuties 6.1 Cuties. Sono dappertutto

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7. uomini con la pelliccia

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conclusioni bibliografia fonti iconografiche

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der panther (im jardin des plantes, paris) Sein Blick ist vom Vorübergehn der Stäbe 
 so müd geworden, dass er nichts mehr hält. 
 Ihm ist, als ob es tausend Stäbe gäbe 
 und hinter tausend Stäben keine Welt. 

 Der weiche Gang geschmeidig starker Schritte, 
 der sich im allerkleinsten Kreise dreht, 
 ist wie ein Tanz von Kraft um eine Mitte, 
 in der betäubt ein großer Wille steht. 

 Nur manchmal schiebt der Vorhang der Pupille 
 sich lautlos auf. - Dann geht ein Bild hinein, 
 geht durch der Glieder angespannte Stille - 
 und hört im Herzen auf zu sein.

reiner maria rilke, 1902



Durante il laboratorio dei processi culturali e comunicativi tenuto da Paul Elliman nell’inverno tra il 2009/2010, siamo stati invitati a ragionare sul fenomeno contemporaneo del supermercato a partire dal parallelo storico del commercio nella città lagunare descritto da Fernand Braudel, ne la mediterranée . Nel libro sono descritte le conquiste dell’uomo sulla natura, indispensabili per creare l’ambiente ideale adatto ai propri scopi commerciali. Conquistare, addomesticare, e, successivamente, reinventare la natura; il processo rivolto agli animali è l’oggetto di studio della mia tesi.



introduzione



Gli scaffali espositivi del supermercato appaiono oggi come un nuovo bestiario: gatti, tigri, orsi, scimmie, cani, elefanti, mucche, ippopotami, castori, marmotte, formiche, api, polipi... si affollano sul packaging dei prodotti, disegnati come cuccioli che sperano di essere scelti al canile, con gli occhi grandi e sbarrati. Nell’universo dei marchi, l’animale riveste un ruolo importante rappresentando, simbolicamente, certe specifiche qualità dell’azienda produttrice, ma sono le mascotte spesso a fare la differenza sulla vendita, mettendo il prodotto in relazione diretta con il consumatore. La mascotte precede il marchio, s’interpone tra la grande azienda e il singolo consumatore, creando quell’intimità che motiva l’acquisto. Il meccanismo è quello della sostituzione, la concretezza della merce viene nascosta dalla simpatia con cui questi personaggi attirano l’attenzione, e che allontana dai nostri occhi gli aspetti negativi del sistema. Sono edulcorati per far breccia direttamente sul cuore dei consumatori; strappati dal genere del cartone comico e brillante, teneri e infantili mirano a donne e a bambini, primi veri canalizzatori della spesa. In piedi su due zampe, allegri ed educati questi animali antropomorfi hanno perso l’origine selvatica, avvicinandosi sempre di più all’uomo, che, dal canto suo, può finalmente sentirsi vicino ad una “natura” ritrovata, perfettamente domata e civilizzata. Gli uomini hanno sempre ammirato le bestie selvagge e il bisogno di disegnarle si è manifestato sin dalla preistoria: i bisonti rupestri di Lascaux rappresentavano momenti di caccia, ma, allo stesso tempo, assumevano un valore simbolico totemico, erano una sorta di portafortuna. E’ probabile che il nuovo bestiario inventato voglia essere di buon auspicio all’azienda che gli dà vita o che lo prende in prestito dal mondo dei cartoni o del fumetto. In questo senso, il cliente diventa un bersaglio a cui dare la caccia, come il bisonte per gli uomini primitivi, e la benevolenza si ottiene con l’acquisto della merce, per intercessione del personaggio. Nella raccolta di saggi intitolata miti d’oggi, Roland Barthes parla della nostra società come mossa da una cultura dell’ornamento: da un lato si fugge dalla natura, dall’altro la si ricostruisce, se ne fornisce un surrogato, mansueto e gestibile. I personaggi che ci sorridono, stampati sulle confezioni in esposizione al supermercato, sono quindi animali, ma non

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bestie e sono esseri umani, ma non completamente. Questa tesi nasce quindi dall’esigenza di ricostruire il percorso attraverso cui gli animali sono arrivati dallo stato di natura al tempio di glorificazione della merce, il supermercato. Come gli animali sono stati addomesticati, resi umani fino al punto di diventare mediatori tra il mondo degli oggetti e il mondo degli uomini, come testimonial o mascotte. L’osservazione eseguita spazia tra diversi campi e, pur sapendo di non poter raggiungere conclusioni definitive e unilaterali, vuole provare a mettere in luce quali passaggi hanno condotto l’uomo all’uso di animali antropomorfi per vendere, partendo da momenti in cui la relazione uomo-animale non aveva ancora nulla a che fare con la cultura del consumo. Le forme più diffuse della rappresentazione animale oscillano ciclicamente tra l’animale in quanto referente simbolico alto, e l’animale inteso come bestia, bruto e basso. La relazione uomo/natura, tema classico della filosofia, ha attraversato tutte le scienze umane, determinando il rapporto che s’instaura tra gli uomini e gli animali. La teoria levistraussiana evidenzia come l’uomo costruisca l’immagine di se stesso e del mondo partendo dal passaggio che va dalla natura alla cultura e dalla cultura alla natura. La tesi è introdotta da una visione retrospettiva che mira ad evidenziare il simbolismo dei primi pensieri sugli animali e, quindi, alle prime loro rappresentazioni, attraverso il rimando ad elementi totemici e a riti sacrificali, ritenuti necessari per raggiungere il divino. Si passa, poi, all’analisi della personificazione di vizi e virtù umane, alle estremizzazioni satiriche e caricaturali, e si conclude, raggiungendo i tempi contemporanei, con l’osservazione dell’animale come feticcio, puramente asservito al commercio. Per l’avvaloramento della mia tesi, è stata necessaria un’osservazione in campo letterario: a partire dalle favole esopiane ha preso inizio, infatti, un lungo processo d’antropomorfizzazione e, conseguentemente, di tipizzazione. La stessa storia semantica della parola animale si scontra e si intreccia, poi, con la storia del cinema, nel momento in cui il cartone animato fa la sua prima apparizione. I primi protagonisti, guardacaso, sono degli animali antropomorfi. Sono gli stessi animali che verranno adottati dalle merci per sedurre ignari clienti, in primis Mickey Mouse. Dopo aver raccolto una cospicua collezione d’animali antropomorfi presenti sul packaging di diversi prodotti, lo spunto per la lettura personale del fenomeno qui teorizzata è nato in seguito ad una visita alle gallerie della Fondazione Querini Stampalia, in Venezia. Nella collezione custodita nel palazzo cinquecentesco è conservato il casotto del leone, opera dell’artista Pietro Longhi, del 1762. La tela rappresenta una scena tipica per l’epoca: in un casotto di legno, un domatore diverte il suo pubblico facendo camminare dei piccoli cani sulle due zampe posteriori, vestiti come uomini dell’epoca, mentre una scimmietta siede in disparte legata

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il casotto del leone Pietro Longhi, olio su tela, 1762

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ad una trave e un leone al centro della scena cerca l’osservatore lanciando il suo sguardo fuori dal quadro. Il leone e la scimmia non appartenendo alla fauna autoctona della città lagunare, ma rimandano ai viaggi in terre straniere condotti dai mercanti in cerca di nuove merci da importare. Si era soliti prendere dalle terre visitate prodotti diversi, pregiati ed originali, per poter guadagnare una volta rientrati a Venezia. Agli animali toccava spesso la sorte di souvenir. I piccoli cani al centro del quadro, vestiti e su due zampe, sono caricatura della vita sociale dell’epoca. Scimmia e leone sono rappresentazione di una natura lontana, geograficamente quando temporalmente, diventano ricordo di uno stato di natura perduto per il quale si prova nostalgia; i cani, invece, fanno parte di una natura addomesticata e antropomorfizzata, asservita ai desiderata dell’uomo, in questo caso, di entertainment. Sono due forme di culturalizzazione della natura che saranno analizzate in questa tesi: la natura selvaggia resa iper-reale per offrire al cittadino occidentale vie di fuga e la natura antropomorfizzata attraverso cui il cittadino occidentale vede se stesso. Entrambi i fenomeni, la nostalgia per uno stato di natura perduto e la proiezione delle proprie qualità sull’animale, sono all’origine del successo degli animali nel mondo del brand.

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parte prima hochigan Descartes ci dice che le scimmie saprebbero parlare se volessero, ma hanno deciso di mantenere il silenzio per non essere obbligate a lavorare. I boscimani dell’Africa del Sud credono che ci sia stato un tempo in cui tutti gli animali sapevano parlare. Hochigan detestava gli animali; un giorno scomparve portando via con sÊ tale dono.

jorge luis borges, Il libro degli esseri immaginari, 1967



1. animale, da culturalizzato a industrializzato

La definizione de il dizionario della lingua italiana, di Giacomo Devoto e Gian Franco Oli, esplica la parola animale in questi termini: “[…] spec. con riferimento ad una classificazione: a. domestici, selvatici, da cortile, ecc; animali da macello, destinati alla macellazione, per uso alimentare; animali da laboratorio, usati per esperimenti scientifici; animali ammaestrati, indotti a muoversi in modi a loro inconsueti e presentati al pubblico per divertimento.” A partire dalla fine del xviii secolo, ma soprattutto durante il xix secolo, assistiamo a massicce urbanizzazioni del territorio in seguito all’industrializzazione. Il paesaggio si adatta a nuove esigenze economiche: le città si espandono e vengono collegate tra loro attraverso reti stradali che si srotolano limitando gli ambienti naturali. Relegati in territori sempre più sparuti e fragili, gli animali con cui entriamo quotidianamente in contatto oggi, sono pets, tester di laboratorio, prodotto di consumo per gli allevamenti industriali e rappresentazione simbolica di loro stessi all’interno di parchi, zoo o attraverso i media. Ancora prima dell’invenzione della scrittura e del pittogramma, l’uomo si è espresso tramite immagini di animali. Davanti alla forma animale delle pitture rupestri, delle terrecotte, delle incisioni su pietra, osso o metallo, bisogna tenere a mente le difficoltà che la scelta di tale supporto comporta, e la possibilità che una visione diretta dell’animale, possa essere stata arricchita o sostituita con elementi immaginari, ricordi, stilizzazioni di copie, che implicano sempre forme nuove e diverse interpretazioni. L’animale, rappresentato in forma realistica, fantastica o mostruosa, è presente solo per offrire un’immagine dell’uomo, per illustrare un mito, rendere più efficace una morale, una regola o un’interpretazione.

(delort, 1987) Le prime rappresentazioni dell’animale sono state espressione di una relazione basata sullo scambio e sulla metafora che un tempo diedero vita alla mitologia. Nell’antico Egitto erano diffusi culti zoolatrici che consideravano gli animali come manifestazioni divine. Le divinità erano raffigurate con sembianze animali o come ibridi di figure umane dalle teste animali. Il bue Apis ne è un esempio; esso veniva venerato come forza fecondatrice e, quando moriva il

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bue considerato incarnazione della divinitĂ rurale,

minotauro Gustave Dorè, incisione per il xxii canto della Divina Commedia, 1857

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alcuni sacerdoti cercavano tra le campagne la nuova bestia sostitutiva, mentre per il defunto si procedeva con un rituale di mummificazione e sepoltura in specifiche necropoli. Nella mitologia greca le divinità vennero antropomorfizzate, ma la presenza dell’animale e di creature ibride fu ancora molto forte. Il Minotauro nacque dall’unione tra la moglie di Minosse, Pasifae, con un bellissimo toro bianco dallo sguardo ammaliante, il cavallo di legno utilizzato dai greci per assediare la città di Troia dimostra quanto i greci lo considerassero un animale ammirabile e divino, simbolo di libertà ed armonia. Ne il politico di Platone leggiamo che, in origine, uomini e divinità vivevano assieme in armonia: nel cosiddetto regno di Cronos gli uomini condividevano la terra con gli dei e gli animali, si nutrivano di frutti e non erano sottoposti ad alcuna pena o fatica. A questo periodo felice successe l’età di Zeus durante la quale gli dei abbandonarono gli uomini e se ne dipartirono, gli animali smisero di parlare e l’uomo si trovò costretto ad ucciderli con fatica e sofferenza, per mangiarli e sopravvivere, ma anche per sacrificarli. Allora il dio [Cronos] guidava innanzitutto la stessa rotazione, prendendosene totalmente cura, e - cosa che avviene allo stesso modo anche adesso in alcuni luoghi - tutte le parti del cosmo venivano ripartite dagli dèi che le governavano: e dei demoni divini come fossero pastori avevano ripartito anche gli animali viventi secondo i generi e i gruppi, e ciascuno bastava in tutto a ciascun gruppo essendo esso stesso pastore, sicché non vi era nessun essere selvatico e nessuno procurava cibo all’altro, e non esisteva affatto guerra né rivolta. Ma vi sarebbe molto altro da dire riguardo a quel che segue a tale assetto dell’universo. Quanto si dice degli uomini e della loro vita in cui tutto si generava spontaneamente, si è detto per questo motivo. Il dio li guidava ed era loro capo, come adesso gli uomini, che sono animali più vicini alla natura divina, portano al pascolo le altre specie a loro inferiori: quando il dio li portava al pascolo non vi erano forme di governo, né acquisti di donne e di figli. Tutti ritornavano in vita dalla terra, e non vi era alcun ricordo della situazione precedente: questi beni allora mancavano, però avevano abbondanza di frutti dagli alberi e da molta altra vegetazione, senza esser generati mediante l’agricoltura, ma offerti spontaneamente dalla terra. Nudi e senza coperte vivevano trascorrendo la maggior parte del tempo all’aria aperta: le stagioni erano temperate perché non provassero dolore, e avevano confortevoli letti costituiti dall’erba abbondante che cresceva di continuo dalla terra. La vita di cui stai ascoltando il racconto, Socrate, è quella di coloro che vissero al tempo di Cronos: questa di adesso, invece, che il discorso indica come del tempo di Zeus, tu stesso la stai sperimentando di persona [...].
Privati della cura di quel dio che ci possedeva e che ci guidava al pascolo, tutti gli altri numerosi animali che avevano natura feroce diventarono selvatici, mentre gli uomini stessi, deboli e senza protezione, venivano sbranati da quelli, e in quei tempi primitivi erano ancora senza mezzi né risorse, poiché era mancata l’alimentazione spontanea, e non sapevano procurarsela,

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per il fatto che in precedenza non erano stati costretti da necessità alcuna. Per tutti questi motivi erano venuti a trovarsi in difficoltà enormi. Di qui provengono i doni, come anticamente si narra, donati a noi dagli dèi insieme al necessario insegnamento ed educazione: il fuoco da Prometeo, e le arti da Efesto e dalla sua compagna d’arte, i semi e le piante da altri. E tutto quanto è servito a stabilire la vita umana è provenuto da questi doni, dal momento che, come si è appena finito di dire, gli dèi smisero di occuparsi degli uomini, e questi dovevano da soli guidare se stessi e aver cura di sé, come tutto il cosmo, a imitazione del quale e nella cui compagnia viviamo e siamo per tutto il tempo generati, ora in questo modo, un tempo in quell’altro. Abbia così termine il mito, e noi lo useremo per vedere quanto abbiamo sbagliato mostrando nel discorso precedente l’uomo regale e quello politico.

platone, 358 aC Nel sacrificio l’animale media tra l’uomo e dio: la sua sacralità assicura la benevolenza della divinità, con la quale ristabilisce il contatto tra sacro e profano. La sua vita è considerata degna di essere offerta agli dei. Durante la Tysìa, cerimonia sacrificale della religione greca, si uccideva cruentemente un animale, perlopiù domestico, che veniva offerto in dono. Il rituale era molto lungo e prevedeva la “vestizione” della bestia, che, incoronata d’alloro, veniva sgozzata, in parte mangiata ed in parte bruciata. Qualora si trattasse di un’offerta primiziale, che garantiva agli uomini la libertà di poter consumare cibo considerato altrimenti delle divinità, si producevano oggetti di forma animale, senza la necessità di ucciderne alcuno. L’etimo del termine auspicio, che deriva dalla parola avis, uccello in latino, ci dice che il popolo romano traduceva il volo degli uccelli in messaggi divini e ci suggerisce di prestare attenzione anche a come erano visti gli animali nella società romana. Sono le parole dell’imperatore Adriano, messe su carta da Marguerite Yourcenar, a così descrivere l’incontro con un leone durante una battuta di caccia. Improvvisamente tra un fruscio di canne calpestate, apparve la belva regale, volse verso di noi il suo terribile, magnifico muso, uno degli aspetti più divini che possa assumere il pericolo. […] Una volta colpito a morte, il grosso gatto color del deserto, del miele e del sole spirò con una maestà più che umana (yourcenair, 1951).

Per Jean Baudrillard il rapporto tra noi e gli animali sarebbe cambiato con l’umanasimo in cui si attuò la prima separazione tra la Ragione Umana e il Bestiale. John Berger addita come decisivo Descartes1 che ripropone la scissione prendendo coscienza della propria capacità di pensare e, quindi, di essere. Da quel momento in poi l’uomo si è posto sopra all’animale, distinguendo tra res cogitans, sé, e res extensas, il resto del mondo animale, vegetale ed animale. L’uomo ha distinto sé stesso dall’animale, relegato ad uno

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1. Cogito ergo sum è l’entimema dimostrativo su cui si basa la teoria di Descartes, esso sottointende l’esistenza di un agente: nel momento in cui si prende per vera l’azione del pensare, significa che c’è un soggetto che sta agendo. Siccome sto

pensando = azione verificata , allora io = soggetto esisto.


2. Libro che raccoglie storie di animali raccontate da De Balzac, L. Baude, E. de la Bedollierre, P. Bernard, P. J. Sthal. Il testo è arricchito dalle illustrazioni di Grandville, caricaturista francese di cui si riporta un incisione in questa pagina.

statuto di non umanità (baudrillard, 1980), per l’incapacità di quest’ultimo di usare il linguaggio umano. Ha quindi tratto vantaggio da questo declassamento trovando modi alternativi per farlo “parlare”. Con la favola si è fatto fornire una morale e interrogandone il corpo ha fatto luce su questioni biologiche e scientifiche. La scienza ha esorcizzato l’indecifrabilità del muso, che trionfa, oramai docile nelle pagine patinate di divulgazione ecologica. Si tenta di vincerne il mutismo: ne spia i segni e tenta di trapiantarvi la parola. Nella messa a morte sentimentale (la vivisezione) mette a distanza definitiva l’intimità del sacrificio, che ci legava alla bestia, pur conservandone l’alterità (fabbri, 1995). Gli animali stessi, riunitisi in assemblea generale nel libro vita privata e pubblica degli animali 2, sostengono che i naturalisti credono di avere fatto tutto una volta che hanno pesato il sangue […], che hanno contato le loro vertebre ed hanno chiesto alla loro struttura fisica la ragione delle loro più nobili inclinazioni.

le loup et le chien Grandville, incisione, 1847

Essi si sono convinti di essere coinvolti in un dialogo con un essere capace di sostenerlo, senza ammettere di essere gli unici a porre domande e a trovarne le risposte. L’uomo non sopporta l’imperscrutabilità dello sguardo animale, superbamente descritta dal poeta svizzero Rainer Maria Rilke.

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Tra i versi della poesia gatto nero leggiamo che i nostri occhi, incontrando quelli del suo gatto, finiscono come un povero insetto prigioniero nell’ambra. Lo sguardo del suo piccolo felino diventa ossessionante, quasi un buco nero che inghiotte qualsiasi altro sguardo provi ad incontrarlo.

3. rainer maria rilke, Neue Gedichte (“Nuove poesie”). 
Traduzione dal tedesco a cura di Adriana Silvestro

gatto nero 3 Un fantasma è ancora come un luogo
 dove il tuo sguardo urta contro un suono,
 ma contro questo pelo nero
 anche il tuo sguardo più duro si scioglie: come il grido di un demente che in pieno delirio
 cammini nell’oscurità,
 e d’improvviso, nell’imbottitura ovattata
 di una cellula, cessa e si dissolve. Tutti gli sguardi che poté incontrare
 sembra che lui ormai li celi,
 per rabbrividirne, ostile e pigro,
 e poi dormire con loro. Ma d’improvviso si risveglia, e ti proietta
 il suo muso in pieno volto,
 e tu ritrovi inaspettatamente, in quell’ambra gialla
 dei suoi occhi rotondi, il tuo stesso sguardo: 
 chiuso, come un insetto morto.

rainer maria rilke, 1908 La lettura dello zoo esposta da John Berger nel primo capitolo del libro sul guardare, racconta l’esperienza di contatto tra l’uomo e l’animale selvaggio rinchiuso. L’uomo si reca davanti alle gabbie per vedere l’animale e comprenderne i comportamenti, ma l’incontro risulta sempre deludente: gli esemplari catturati e allontanati dal loro habitat perdono ogni atteggiamento naturale. Diventano apatici, pigri e totalmente dipendenti dall’uomo. Visitando uno zoo non ci troviamo davanti ad un animale libero che si comporta come farebbe seguendo il suo stato di natura, ma siamo di fronte ad una nostra ricostruzione. Recandoci ad uno zoo o ad un museo notiamo una similitudine: l’oggetto della nostra visione è decontestualizzato. Che si tratti di un quadro o di una tigre, il concetto cambia poco, ambedue provengono da ambienti diversi da quello in cui si trovano ora; l’artificialità del nuovo, però, si palesa all’opposto: per le opere d’arte si prediligono ambienti silenti, bianchi, puri e privi di ombre, secondo l’ideologia dello spazio galleristico descritta da Brian O’Doherty, per gli animali viene invece ricreato un ambiente a loro familiare, attraverso lo studio di quello naturale e la conseguente costruzione di un set che ne imiti le caratteristiche. Non è un caso che i parchi zoologici nascano contempora-

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schwarze katze. 
 Ein Gespenst ist noch wie eine Stelle,/
dran dein Blick mit einem Klange stößt;
/ aber da, an diesem schwarzen Felle,
/ wird dein stärkstes Schauen aufgelöst: wie ein Tobender, wenn er in vollster
/ Raserei ins Schwarze stampft,
/ jählings am benehmenden Gepolster
/ einer Zelle auf hört und verdampft. Alle Blicke, die sie jemals trafen,
/ scheint sie also an sich zu verhehlen,
/um darüber drohend und verdrossen
/ zuzuschauern und damit zu schlafen.
 Doch auf einmal kehrt sie, wie geweckt,
/ ihr Gesicht und mitten in das deine
/ und da triffst du deinen Blick im gelben
/ Amber ihrer runden Augensterne unerwartet wieder: /
eingeschlossen wie ein ausgestorbenes Insekt.


tête-à-tête Disegno di A. B. Frost. incisione di E. Clement., 1885

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da sinistra in senso orario head of grizzly bear, incisione di S. P. Davis, 1885 Head of black tail buck, incisione di S. P. Davis, 1884 head of bighorn ram, incisione di S. P. Davis, 1884 head of buffalo bull, incisione di S. P. Davis, 1883

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neamente alle grandi esposizioni universali e che vengano abitati grazie a battute di caccia che proprio nel xix secolo trovano il momento di massima diffusione. Così scrive W.A. Baille-Grohman a proposito della caccia praticata da esploratori, avventurieri e ricchi europei nelle terre americane: Negli anni passati, è ben noto, i miliardari americani hanno depredato le gallerie d’arte d’Europa, dove hanno trovato molti dei capolavori che un tempo ornavano le pareti delle grandi residenze inglesi o le gallerie rivestite di marmo dei palazzi europei. L’Europa si è vendicata inviando i suoi cacciatori nei terreni di caccia dell’Occidente, dove sono riusciti a catturare una quantità equiparabile, e probabilmente altrettanto insostituibile di capolavori, non creati dall’uomo, ma dalla miglior opera della Natura.

I cacciatori acquistano visibilità esponendo palchi, corna, zanne e pelli in forma privata, nelle proprie residenze o durante esposizioni internazionali specializzate. Spesso i trofei vengono donati a musei di scienze naturali, mentre gli esemplari catturati, ma lasciati vivi, vengono ingabbiati negli zoo. Una volta marginalizzato fisicamente e culturalmente, l’animale diventa uno strumento utile e redditizio, è il caso dell’allevamento intensivo, largamente praticato in America nord-orientale, in Europa e in Asia, le aree più ricche e popolate del nostro pianeta, in cui, quindi, la richiesta di carne è molto alta. In seguito ad una crescente domanda di prodotti alimentari, infatti, dal xx secolo si è diffusa la pratica di questo tipo di allevamento, detto anche senza terra, che ricorre a tecniche industriali e scientifiche per la produzione di generi alimentari quali carne, uova e latte. L’argomento rientra in un dibattito acceso d’ordine etico, ambientalista e salutistico poiché, come all’interno di una qualsiasi industria, si deve raggiungere la massima produttività con la minima spesa. Gli animali sono tenuti negli stabilimenti secondo il metodo della stabulazione fissa, che prevede che ogni singolo animale sia legato ed obbligato ad uno spazio ridotto, i cuccioli vengono separati dalle madri e nutriti artificialmente, le luci sono accese tutto il giorno per far perdere al bestiame il naturale ciclo naturale di vita. Le condizioni di forte stress portano gli animali a reagire in maniera atipica, i conigli diventano coprofagi, i maiali si attaccano tra loro e tendono a strapparsi la coda – ecco perché viene tagliata preventivamente – mentre i polli perdono la pratica del pick order, sistema con cui gerarchicamente in condizioni normali avrebbero accesso al cibo. Come si legge già in un documento del 1973, apparso su sciente at avenir, e riportato da Baudrillard, i veterinari europei, riuniti in congresso a Lione, hanno manifestato preoccupazione per le malattie e i disturbi psichici che si sviluppano negli allevamenti industriali. Per ridurre questi disturbi, vengono somministrati psicofarmaci. Sebbene dagli anni novanta siano state introdotte delle norme che regolano i punti più infelici in questo

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tipo d’allevamento, le condizioni degli animali risultano ancora programmate in base alla produttività delle aziende. Gli animali hanno valore commerciale, alcuni, risultando utili da vivi, fornendo latte, uova e lana, gli altri, di cui utilizziamo solo la carne, vengono allevati per il macello. L’allevamento industriale è la traduzione capitalistica e distopica dei primi allevamenti che hanno assicurato all’uomo l’astensione da rischiosi scontri con grandi predatori, ma anche con animali erbivori, pericolosi perché di grossa taglia o velenosi. Come ben scrive Robert Delort, dalla caccia indiscriminata si è passati alla caccia selettiva, quindi alla scelta delle specie più utili e facilmente catturabili, le si è recintate, sorvegliate e allevate. Una volta uccise, l’uomo ha imparato a servirsi non solo della carne, ma anche di denti, artigli, ossa, budella, pellicce… Risalgono al xvi e xvii secolo le prime selezioni di conigli in base a frivole mode, il fenomeno avviene inizialmente in Inghilterra, ma si diffonde ben presto al resto del mondo. Coprirsi non è necessariamente lo scopo ricercato, più valore assume, in questo senso, lo status che determinati manti evocano e sottolineano, appartenendo ad animali esotici o giovani. La pratica induce ben presto l’uomo alla domesticazione di diverse specie, molte selvagge, allo scopo di utilizzarne la pelliccia. Il lusso che simboleggia la pelliccia ancora oggi porta con se il valore dello sfarzo, della ricchezza, ci restituisce l’immaginario dell’uomo che vince sulla natura, ancor più ammirata, quando posseduta, smontata e ricomposta sotto nostre sembianze, a nostro piacimento. 1.1 culturalizzazione dell’animale e l’animale in noi Tracciare una zoostoria è cosa complessa: i materiali antichi puramente didattici che illustrano conoscenze acquisite attraverso osservazioni dirette e condotte secondo rigore scientifico sono rari, mentre ben più diffuse sono le raffigurazioni dell’animale caricato di significati umani e religiosi, i quali hanno spesso, però, inciso sulla fedeltà della rappresentazione, consegnandoci, di volta in volta, ritratti realistici, fantastici o mostruosi. L’animale può essere descritto fedelmente o in modo da evocare, per traslato, l’uomo, oppure le qualità e i comportamenti umani. In alcuni casi l’intenzione è così mirata da divenire preponderante, ed eclissare parzialmente o totalmente, la descrizione realistica dell’animale, così rappresentato (robert delort, 1987).

L’animale diventa una chiave di lettura del mondo, della società, dell’uomo, acquisendo via via valori simbolici differenti. Da il dizionario della lingua italiana, leggiamo: animale: dal latino animalis -e, che dà vita, animato. […]

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Ogni essere animato, cioé dotato di moto e di sensi. Bestia: dal latino bestia -ae, animale feroce.

Qualsiasi animale, spesso in quanto simbolo della violenza, dell’ignoranza, della stupidità contrapposto all’uomo: le bestie sono mosse dall’istinto, l’uomo dalla ragione (devoto e oli, 1990). Attraverso il linguaggio verbale e visivo, gli uomini creano da sempre figure retoriche che raccontano e spiegano il mondo, attingendo abitualmente dall’universo animale i termini che ritengono più significativi. Non c’è pericolo di mala interpretazione quando si dice stupido come un asino, o fedele come un cane. La convivenza con l’animale ha permesso all’uomo di figurare con immediatezza concetti complessi con il rimando sicuro ad un concreto digerito nel corso dei secoli. Nella Biblioteca Ambrosiana di Milano si conserva una Bibbia ebraica del XIII secolo che contiene delle preziose miniature. […] La pagina 135v raffigura la visione di Ezechiele, senza la rappresentazione del carro: al centro stanno i sette cieli, la luna, il sole e le stelle e, negli angoli, campeggianti su un fondo azzurro i quattro animali escatoligici: il gallo, l’aquila, il bue e il leone. L’ultima pagina è divisa in due metà: quella superiore rappresenta i tre animali delle origini: l’uccello Ziz (in forma di grifone alato), il bue Behemot e il grande pesce Leviatano, immerso nel mare e attorcigliato si se stesso. La scena che ci interessa, qui in modo particolare è l’ultima in ogni senso, poiché conclude tanto il codice quanto la storia dell’umanità. Essa rappresenta il banchetto messicano dei giusti nell’ultimo giorno. All’ombra di alberi paradisiaci e allietati dalla musica di due suonatori, i giusti, con il capo incoronato, siedono a una tavola riccamente imbandita. […] Sorprendente è, però, un particolare che non abbiamo finora menzionato: sotto le corone, il miniaturista ha rappresentato i giusti non con sembianze umane, ma con una testa inconfondibilmente animale.

(agamben, 2002) Sebbene non si sia ancora trovata un’interpretazione univoca al motivo che ha portato il miniaturista a rappresentare i giusti con sembianze animali, si riporta in questa sede quella avanzata dallo stesso Agamben, autore del testo, che prevede, nell’ultimo giorno, un’ipotetica riconciliazione tra l’uomo e l’animale. L’uomo stesso si riconcilierà con la sua natura animale. Nelle religioni l’animale non solo rivela in quanto simbolo, ma funge anche da tramite per avvicinare il divino; esso discende dal creatore e non si è macchiato d’alcun peccato. I suoi atteggiamenti derivano da una natura conferitagli direttamente dall’alto. Quando, nel 1974, Joseph Beuys indossa un mantello di feltro e convive alcuni giorni con un coyote, l’artista tedesco sta mettendo in scena l’incanto sciamanico, secondo il quale i rituali devono essere eseguiti indossando capi che trasformano l’uomo in animale. L’uomo e la natura, assieme, possono

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creare un nuovo mondo, tornando alla sintonia originaria del tempo di Cronos descritta da Platone. Nel caso di questa performance, Beuys copre il suo corpo umano, lo annulla per avvicinarsi al coyote. E’ la figurazione di un processo di animalizzazione dell’uomo che, solo così, può staccarsi dal mondo reale, contemporaneo, economico, rappresentato dal wall street journal, unico possesso dell’artista durante l’esperienza. L’animale ha valore positivo. Permette il cambiamento. Nelle società animiste, dove sono diffuse le pratiche sciamaniche, gli animali sono visti come animati da proprietà spirituali, così come lo possono essere tutti gli elementi naturali. Gli i like america animali hanno un’anima. In Africa, in Oceania & america e in Asia sono diffusi complessi sistemi di idee, likes me. simboli e pratiche che rientrano nel totemismo Joseph Beuys, (il termine totem deriva da ototeman, che nella performance lingua di un gruppo di indiani della regione 1974 dei Grandi Laghi, in America settentrionale, gli Ojibwa, indica un rapporto di parentela). Claude Lévi-Strauss vede alla base del fenomeno una visione del mondo che individua una relazione specifica tra esseri umani e forze della natura, questa a sua volta viene impiegata dalle tribù come strumento concettuale per classificare la realtà e la società. Questo motiverebbe anche la nominazione delle stesse società, derivata da nomi di piante e animali totem, simboleggianti, una superiore unità sociale. Dai capitoli de il crudo e il cotto si comprende lo strettissimo legame che le popolazioni intrattengono con gli animali, per la credenza diffusa che, negli stessi, si incarnino di volta in volta anime diverse, salvifiche o avverse. Essi vengono investiti, quindi, da significati tra loro opposti, assicurandosi l’eventualità di essere protetti o uccisi, cacciati o sacrificati. Durante i riti, lo sciamano che si traveste da animale è l’animale ed è anche l’anima, lo spirito che questo rappresenta. I riti iniziatori permettono ai ragazzi primitivi di diventare uomini, il passaggio avviene attraverso il contatto con il proprio animale, che uccide il fanciullo e permette la rinascita adulta. Restiamo in ambito religioso, ma guardiamo ora all’aspetto simbolico dell’animale assunto in passato, in un contesto che dovrebbe risultarci più familiare; le immagini medievali, che rappresentano e diffondono la lezione cristiana, ricorrono spesso alla figura animale, sono d’immediata lettura per il popolo analfabeta e ignorante, che però ha contatto diretto con le bestie e ne conosce caratteristiche fisiche e comportamentali, acquisite tramite un’antica tradizione orale. La cultura cristiana delle origini non ha simboli, ma si appropria di quelli pagani, operando una precisa selezione volta alla semplificazione. Rimangono quelli che ancora oggi conosciamo: l’agnello, considerato puro e salvifico, il leone, simbolo

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del potere divino, la regalità dell’aquila (branzaglia, 2003). L’allegoria dei bestiari medievali trae origine da un libro anonimo, con ogni probabilità proveniente dalla città di Alessandria d’Egitto e risalente al ii, iii secolo dopo Cristo, il fisiologo. Il testo originale é composto da un lapidario, un erbario e un bestiario, ma nelle varie traduzioni, riveduto e rielaborato, é stato epurato dagli elementi che descrivevano piante e minerali. Sono rimasti protagonisti gli animali reali e fantastici, descritti prima nelle loro fattezze e abitudini, quindi interpretati secondo una precisa dottrina morale. L’osservazione diretta scientifica s’insinua gradualmente nei bestiari, andando ad incrociare ed ampliare le credenze religiose, ma le interpretazioni più singolari affiorano in seguito all’introduzione di argomenti estranei alla morale cristiana, l’animale va a rappresentare, così, anche questioni di carattere amoroso secondo un gusto tipicamente provenzale. Come emerge dalla simbologia provenzale, l’animale si carica di nuovi significati e, attraverso il corpo dell’amata, in sostituzione dell’alto, dell’irraggiungibile, e del divino, la figurazione scende ad un livello più terreno, raggiunge gli uomini. La metafora si fa introspettiva e permette all’uomo di guardarsi allo specchio, di rivolgere lo sguardo verso i suoi simili e verso il proprio io. I sentimenti, i moti dell’animo diventano il nuovo messaggio. Gli studi psicanalitici si soffermano sull’interpretazione della significazione delle figure animali che ci restituiscono l’inconscio. È con Freud che s’indaga sulla repressione degli istinti e sulla continua fuga dall’altro nascosto dentro di noi. L’uomo scopre l’inconscio, l’unica parte del sé che sfugge al controllo della volontà. La pulsione emerge da un radicamento animale e si palesa nella sessualità, che ci rimanda costantemente al nostro passato di animali. L’artista surrealista Max Ernst palesa l’inconscio attraverso la raffigurazione dell’animale, mettendo su tela uomini-uccello in cui trasferisce l’identificazione dell’eterna dualità, mentre Matthew Barney, l’artista statunitense di cremaster, ci restituisce un racconto delirato del processo di differenziazione sessuale del corpo umano (lea vergine e giorgio verzotti, 2004) attraverso un immaginario totalizzante che fagocita materiale sotto forma di qualsiasi modello visivo, dall’arte, alla fotografia, al cinema contemporaneo, recuperando contenuti di ordine mitologico, biologico e biografico per raccontare, anche attraverso forme ibride tra l’uomo e l’animale, la storia di quella che in fondo è la ghiandola pineale dell’intero universo. Considerando il continuo iato tra natura angelica e natura animale, all’uomo corretto, da intendersi secondo accezione cristiana quanto civile, non resta che sfuggire dalla propria bestialità. Viene attuata un’assoluta desacralizzazione dell’animale attraverso un rifiuto di qualsiasi carattere totemico, di tabù intrinseco: essa è diabolica (delort, 1987). Nella rappresentazione che figura la bestia, l’animale si fa mostruoso, orrido, spaventoso, bruto; dinnanzi a questa visio-

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in senso orario: elefante bestiario realizzato nell’abbazia benedettina di Rochester, inchiostro e pigmento su pergamena, 1230 come catturare un unicorno bestiario realizzato a Salisbury, inchiostro e pigmento su pergamena, 1235 capre bestiario realizzato a Salisbury, inchiostro e pigmento su pergamena, 1235

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ne, l’uomo prova un sentimento di paura. La bestia é deforManual de zoologia fan- me, un ibrido iperbolico in cui vengono enfatizzati i caratteri tastica pubblica, compila- negativi. L’ignoto, il pericoloso, il terrificante, l’insolito contrito da Borges con Margari- buiscono al tempo stesso a stimolare l’immaginario e a falsare la ta Guerrero e pubblicato visione, e a maggior ragione la rappresentazione. (Delort, 1987) nel 57 a Città del Messico. Fanno, allora, la loro comparsa, tutti quegli animali che mescolano La seconda versione, El li- elementi faunistici ad altri umani attraverso il racconto, la describro de los seres imaginarios zione fantastica e la sovrapposizione di particolari scaturiti da un è una ripresa del precefertile immaginario; esso può partire da un’osservazione deformadente e aggiunge agli 82 ta di una realtà insolita, notevole (mirabilia), perfino mostruosa animali già conosciuti, 34 (monstra), costantemente riscritta, interpretata da generazioni nuovi esseri fantastici successive di miniatori, dottori, chierici, che, attribuendole qualità fittizie, pervengono a renderla più verosimile e a porla in sintonia con la mentalità del tempo ( delort, 1987). Se leggiamo il manual de zoologia fantastica 4 o la versione più recente el libro de los seres imaginarios di Jorge Luis Borges, scopriamo una zoologia fantastica che attinge dal sogno degli uomini, raccontato nel corso dei secoli da letterature, mitologie, racconti di viaggi veri ed immaginari, dalla tradizione antica cinese o da racconti di origi ne mistico-religiosi, da bestiari più scientifici… La continua cupidigia letteraria dello scrittore, lo porta a scoprire esseri fantastici che saltano da una storia all’altra, trasformandosi, reinventandosi, ma di volta in volta, ripresentandosi in modo tale da poter essere sempre riconosciuti. La raccolta attraversa i secoli e mette in piedi uno zoo magico, fantastico, ma al contempo familiare, che stupisce ogni qual volta si rivela mutato, perché, come si legge nel prologo, ignoriamo il senso del drago, come ignoriamo il senso dell’universo, ma c’è qualcosa che si accorda con l’immaginazione degli uomini, e così il drago appare in epoche e a latitudini diverse (borges e guerrero, 1967). Convivono animali sognati da grandi scrittori, draghi che il tempo ha intaccato privandoli di credibilità, angeli, animali biblici, mitologici, elfi, fate, lemuri, gnomi, sirene, unicorni, una lepre lunare, ittiocentauri, monocoli, il pesce centoteste, incroci e molti altri esemplari, alcuni nati esclusivamente nella mente dello scrittore, come nel caso degli animali degli specchi. La passeggiata allo zoo letterario cui ci invita Luis Borges (assieme alla collega, e per un certo tempo compagna, Marguarita Guerrero), è in realtà una passeggiata tra i sogni dell’uomo, tra gli universi altri che nella testa collettiva prendono continuamente nuova forma, restituendoci altre nature, rivedute o inventate, sotto il sogno dell’infinito immaginario umano. Il testo, che non ha alcun intento didattico, trova linfa nel piacere della raccolta, della collezione che dà lo spunto a nuove tassonomie altrettanto immaginarie. Gli animali possono così essere simbolici, allegorici, privi di senso, inventati, spaventosi, ma anche reali, bestie terrene da cui l’uomo deve guardarsi bene. Secondo un diffuso senso comune, infatti, attribuire all’essere umano i tratti di un animale, con le parole o le immagini, equivale, di solito ad insultarlo, comunque ad abbassarlo alla pura 4.

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da sinistra the order, da cremaster3, Matthew Barney 1994 La Toilette de la mariĂŠe, Max Ernst, Olio su tela, 1940

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istintualità che l’animale ci rappresenta (lea vergine e giorgio verzotti, 2004). Si attua un declassamento. L’animale, secondo questa visione, è inteso come bestia, termine in grado di rimandare ad un’accezione legata agli istinti, al corpo, in poche parole, ad un livello più basso rispetto a quello in cui noi ci posizioniamo. L’antropologia, ci insegna Paolo Fabbri, è sempre stata segnata dalla necessità dell’uomo di differenziarsi dall’altro, inteso come uomo, ma inteso anche come animale. Per esempio con il termine primitivo indichiamo un popolo lontano dalla cultura così come noi oggi la intendiamo. Più vicino, se vogliamo, ad una vita condotta naturalmente. Tanto più ci si allontana dall’animale, infatti, tanto più si è degni del termine umano. Altrimenti si risulta primitivi. È interessante osservare come il primitivo, e la sua concezione animista che lo riporta costantemente alle sue origini animali, sia vicino, sotto questa ottica, al bambino e all’uomo delle origini: in questi tre casi l’uomo e l’animale non hanno necessità di essere disposti su piani differenti, al contrario, totemismo, miti, favole e giochi tessono un racconto diverso, senza macchia. Nel mezzo tra la visione dell’animale in quanto animale e quella dell’animale in quanto bestia, inserisco la motivazione che spinge gli uomini ad un certo tipo di caccia. La bestia è ingorda per antonomasia, si impelaga divorando con cupidigia, cibo e sesso. Agisce con disumanità ed avidità. Lotta con ardore e con grande spargimento di sangue. E’ forte, potente, senza paure. Ma l’animale feroce è anche imponente e grandioso perché porta l’uomo a confrontarsi con le sue angosce. È la bestia che, quando cacciata e vinta, viene esposta come trofeo. La forza e, quindi, la virilità del cacciatore di turno sono celebrate da teste mozzate, palchi o interi corpi inermi che devono evocare la ferocia dell’animale e la grandezza dell’impresa compiuta dall’uomo. Animali grandi, aggressivi e pericolosi richiedono uomini abili, intrepidi, capaci di sconfiggerli nella lotta: le specie animali rappresentate [nelle illustrazioni di caccia] sono avversari degni dello scontro per dimensioni, forza e agilità. Anche le condizioni disagevoli e selvagge dell’habitat dell’animale sono importanti, perché a esse corrispondono l’agilità, la perseveranza e la forza del cacciatore (lea vergine e giorgio verzotti, 2004). 1.2 industrializzazione dell’animale iperrealismo naturale Per far fronte al senso di perdita della natura, l’uomo, oggi, mette in scena una riproduzione iper-reale della stessa, alimentata da una costante smania di rappresentazione corretta. La waltdisneyzzazione della natura è parte di un processo più ampio che Franco La Cecla definisce con il termine pornoecologia, una sorta di playboyzzazione della natura. Pornoecologia significa riempire l’abisso con la fotografia del

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natura e animali dal sito di National Geographic

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national geographic in cui il tramonto diventa più rosso e la savana appare perfetta e ordinata, significa ridurre e bambolizzare gli animali per evitare che lascino aperto un abisso dentro al quale le cose potrebbero non essere tutte dette. Abbiamo bisogno di sapere che sappiamo, di non avere dubbi. L’iperrealismo elimina il sorgere del dubbio; limitando lo stupore e la fantasia ricadiamo nell’incapacità di costruirci sopra storie, favole e metafore. (…) Viene eliminata qualunque componente simbolica, ignorando che l’animale è il prototipo della maschera, che ha un cerimoniale di comportamento (la cecla, 1990). Se gli antichi traevano godimento dalla mimesis, giacché ritenevano la bellezza custodita in latenza nella natura, oggi le cose sono in larga parte mutate: ci siamo convinti che l’imitazione abbia raggiunto il culmine e che di qui in avanti la realtà sarà sempre inferiore (eco, 1977). Come scrive Paolo Fabbri, la natura fragile, indebolita davanti all’artificio che oramai la pervade fino in profondità, non può che reagire in un modo: essere salvata. Ecco l’ideologia del parco. Questa natura che ha bisogno di essere protetta, è una natura della nostalgia, della conservazione (fabbri, 1990). Parchi naturali, zoo ed acquari si fanno allora depositari di un mondo che non esiste se non come rappresentazione di qualcosa che sta scomparendo e noi ci sentiamo di doverlo mettere dietro ad una teca. In tutto il mondo sorgono, allora, marine e giungle artificiali dove è possibile vedere ogni specie di animale, che, ai nostri occhi, appare a proprio agio, sereno, protetto. Consideriamo, però, che ogni vasca e ogni recinto sono ricostruzioni in scala di un ambiente originale, probabilmente inquinato e mutato anche a causa delle nostre attività. La preservazione della specie in via d’estinzione è in parte credibile, ma solo dopo l’ammissione che gli animali in cattività, si trovano in una condizione di contratto, protetti per intrattenere i visitatori dei parchi, sono esimati da caccia e fatiche. animali ingabbiati. Il più famoso zoo del xix secolo, il London Zoo, nasce come collezione di animali, che, molto lontana dall’esprimere un carattere puramente scientifico, tende piuttosto a “interest and amuse the public”, come enumera tra i suoi personali propositi lo stesso Sir Thomas Stamfor Raffles, fondatore dello zoo. Uno spazio pubblico di intrattenimento per la borghesia, all’interno del quale si può passeggiare, ascoltare concerti, vedere scenette di saltimbanchi e anche animali. Lo zoo mette in scena un paesaggio naturale idillico, in cui fuggire dalla città industriale, come si legge in un guida del 1860: From the rustic lodge at the north. Or main entrance, runs a broad terrace walk, in a straight line onwards, bordered by flowers, shrubs and trees on each side, and continued at the same level for some distance, over the lower round, by a handsome viaduct [the Carnivo-

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chimp and cat fotografia amatoriale scattata al London Zoo, 1940s

ra Terrace], which covers a long range of roomy cages beneath, and in its forms one of the most striking objects in the Gardens. On this platform, which is balustrated at the sides, the visitor may pause for a moment, to contemplate the extensive view presented of Regent’s Park, and the mighty metropolis beyond. Save its some, however, and the mist, or dense air, perpetually hanging over it but little of the latter is visibile. Still it is not less present to the imagination’s eye, and the contrast is the stronger when compared with the tranquil scene around (rothfels, 2002).

Lo zoo è costruito per offrire piacere al borghese, per dargli un diversivo alla vita cittadina, per avvicinarlo alla natura in maniera idealizzata, non per proteggere gli animali; le gabbie prevedono sbarre d’acciaio e, all’interno, piccoli elementi evocativi dell’habitat naturale da cui provengono le varie bestie. Il modello sembra funzionare finché Carl Hagenbeck, un venditore di animali esotici, non sente l’esigenza di costruire qualcosa di nuovo, che restituisca un’esperienza totalizzante durante la visita; il Carl Hagenbeck’s Animal Park, ad Amburgo, dal 1907, mette in scena un’immersion exhibit. Il primo passo è l’eliminazione delle sbarre per far sentire al visitatore la sensazione di condivisione dello spazio con le bestie. Da qui l’esigenza di ricreare perfettamente l’habitat in scala, attraverso la piantumazione di specie arboricole provenienti dallo stesso contesto naturale, in modo da garantire l’illusione di libertà per gli animali. Nigel Rothfels sostiene che l’Hagenbeck’s Zoo ha permesso all’uomo di dimenticare il vecchio concetto di cattività, offrendo lo spettacolo di un luogo in cui gli animali possono condurre un’esistenza idealizzata, perfetta e sicura, anche più di quella che riuscirebbero a vivere se liberi. Le specie, infatti, sono disposte in modo che gli esemplari carnivori non incontrino mai quelli erbivori: non c’è alcun pericolo di spargimento di sangue, il ciclo vitale è interrotto e l’alimentazione è controllata artificialmente. Hagenbeck replaced the bars with narratives of freedom and peace amon the animals (rothfeld, 2002). Il concetto che sostiene il nuovo zoo è stato ben assimilato e oggi la maggior parte delle persone che si recano ad un parco costruito su modello dell’Hagenbeck, vede gli animali sereni e non sembra preoccuparsi per la loro deterritorializzazione, né del fatto che, per realizzare questa pace naturale occorrono molte fatiche: l’educazione degli animali, la costruzione di un ambiente artificiale che sembri naturale, [gli operatori] che educano il pubblico. Così che l’essenza finale di questo apologo sulla bontà della natura è l’Ammaestramento Universale (eco, 1977). Siamo di fronte all’industria del divertimento, della messa in scena, del falso, poiché seppure sembra non esserci segno, esso è sempre presente e qualora sembri non esserci, il segno è sempre lì, dietro l’angolo. La promessa della vera natura si perde nelle didascalie che accompagnano la nostra visita, dove via via apprendiamo che ci troviamo di fronte all’erbivoro avvicinabile perché mansueto,

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lion fotografia amatoriale scattata al London Zoo, 1940s

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Hagenbeck’s Animal Park fotografie amatoriali, 1940s

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piuttosto che trovarci di fronte al recinto dei temibili carnivori, che possiamo ammirare, prestando molta attenzione. animali mediatizzati. Attraverso l’analisi del medium televisivo possiamo, ora, aggiungere alcune questioni interessanti rispetto alla costruzione della natura come oggetto-valore1. Tra i modi possibili di parlarne, possiamo individuare il metodo pedagogico, in cui un esperto informa il pubblico ricevente, considerato impreparato in materia, il metodo oggettivo-referenziale, in cui l’enunciante cerca di scomparire attraverso una strategia della trasparenza e della mediazione veicolata, […], da metafore della visione (viene ripreso nell’atto di mostrarci, funziona da cono visivo, è un segno indicatore vivente) e, infine, il metodo complice, che lega enuncianti ed enunciatari in una condizione di condivisione empatica. In tutti e tre i casi, la natura diventa un oggetto da cui noi prendiamo le distanze, per poterlo meglio osservare. L’anacronismo che distingue il nostro tempo civilizzato, quindi progressivo e rapido, da quello della natura, ciclico e sempre rinnovabile, permette il distacco e in taluni casi, motiva sotto sguardo fatalista, l’inevitabile devastazione. La natura è sempre tenuta distante, in termini di tempo, ma anche di spazio, se si pensa che nella maggior parte dei casi, le trasmissioni televisive s’interessano di luoghi lontani, che, attraverso lo schermo, assumono un carattere immaginifico, diventano immaginari. Questo allontanamento geografico e temporale induce un effetto di spaesamento concettuale e culturale che investe la natura come ambiente, ma allo stesso tempo assorbe anche gli animali, come diretti soggetti di tale discorso (semprini, 1997). Quando guardiamo i documentari inseguiamo gli animali per studiarne le abitudini quotidiane, la vita del branco, la sessualità, l’aggressività - come ci ricorda l’etologo Giorgio Celli - cerchiamo di intravedere nei loro comportamenti curiosi qualcosa che li avvicini a noi. La rappresentazione dell’animale però, spesso, è spettacolarizzata. Quello selvaggio, raggiunto e braccato da telecamere in hd, diventa protagonista di documentari televisivi, presentati dalle guide tv in maniera simile a questa: protagonisti di questa serie di filmati monografici, saranno i predatori più feroci del mondo animale, come i leoni, gli squali, gli orsi polari, i serpenti, i caimani e gli orsi grigi: le telecamere del National Geographic con inquadrature mozzafiato, immagini esclusive, primi piani al centro dell’azione racconteranno le tecniche predatorie, la vita in gruppo e l’habitat dei predatori. (guida tv online)

Per molti documentari è bene che i carnivori appaiano feroci, anche più di quanto lo siano nella realtà, lo spettatore ne deve percepire la pericolosità e l’invincibilità, mentre s’immedesima con la preda e rimane incollato al video come lo

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1. per una lettura approfondita di quanto si sta per accennare, si legga di andrea semprini, Analizzare la comunicazione. Come analizzare la pubblicità, le immagini, i media. Nell’ultimo capitolo del libro si analizza dettagliatamente il fenomeno dell’enunciazione della natura attraverso la comunicazione televisiva.


sarebbe davanti ad un thriller. Molto spesso i processi di cambiamento dell’habitat in cui gli animali vivono, vengono ricostruiti in studio per ottenere in un tempo ridotto ciò che accadrebbe altrimenti in anni di riprese. La natura appare magica perché incredibile e artificiosa. È una natura iper-naturale, iper-reale, estrapolata dal suo contesto per esere normalizzata, condizionata e ricostruita ai fini del consumo culturale (semprini, 1997). Cosa accade, poi, se gli animali escono dal genere documentario per divenire degli operatori di intrattenimento? Esistono programmi come ciao darwin (presentato da Paolo Bonolis e trasmesso su Canale 5) che si servono della bestialità e della mostruosità di determinate specie, per mettere in scena delle prove di coraggio, in cui gli animali sono veri e propri ostacoli da superare; le prove includono incontri ravvicinati con animali spaventosi, spesso insetti, rettili e roditori resi innocui da pasti abbondanti o da sedativi. L’animale, in questo caso, rappresenta il pericolo, l’eventualità di perdita del gioco, e metaforicamente della vita, rimandando alla prova dell’eroe. Dietro a programmi di questo tipo si nasconde la consapevolezza dell’alterità dell’animale, la sua diversità, quindi, il nostro pericolo in latenza. Quando Marina Abramovic fa strisciare sopra di sé cinque pitoni affamati, l’artista mette in scena una lotta tra sé e l’altro, minaccioso, il programma televisivo ciao darwin si basa sulla traduzione in chiave pop della stessa narrazione che soggiace a questa performance artistica. La messa in scena dell’animalità attraverso la bidimensionalità del cartaceo e del video, piuttosto che mediante la tridimensionalità dei parchi zoologici esorcizzano il turbamento che proviamo dinnanzi a questo essere silente, di cui non siamo in grado di interpretare nemmeno lo sguardo. La rappresentazione dell’animale che passa attraverso l’illustrazione, avviene previo addomesticamento e, quindi, ricostruzione dell’espressione facciale proprio per rendere comprensibili i sentimenti provati dall’animale. Una particolare attenzione é prestata al disegno degli occhi, che devono esprimere sentimenti riconoscibili e ben distinti, siano essi di personaggi buoni, o cattivi. Esistono degli accorgimenti precisi e consolidati che permettono a cartonisti e vignettisti di palesare il carattere del personaggio tramite la rappresentazione dello sguardo. Siamo nel campo della fisiognomica, che si rifà ad un serbatoio visivo assorbito nei secoli e che ci ha insegnato a tradurre diversi patemi attraverso la mimica facciale.

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da sinistra dragon heads Marina Abramovic, performance, video still, 1993 show dei record uomo con scarafaggi, 2009

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2. il simulacro

2.1 il souvenir Siamo testimoni di un cambiamento nella relazione tradizionale tra la realtà e la rappresentazione. Già non evolviamo dal modello alla realtà, ma dal modello al modello, e allo stesso tempo riconosciamo che, in realtà, tutti i modelli sono reali. In conseguenza, possiamo lavorare in modo molto produttivo con la realtà sperimentata come conglomerato di modelli. Più che considerare il modello e la realtà come modalità polarizzate, oggi funzionano allo stesso livello. I modelli (i simulacri) sono diventati coproduttori della realtà.

olafur eliasson La nostra vita è scandita dal ritmo delle merci: ai tempi naturali sostituiamo quelli economici e ci circondiamo sempre più massivamente di oggetti che non sono né flora, né fauna, anche quando all’apparenza lo sembrano. Gli animali con cui quotidianamente entriamo in contatto oggi, all’interno delle nostre case, vengono chiamati pets. Perlopiù si tratta di cani e gatti – ma sono numerosi anche roditori, rettili, uccelli e altri esemplari più o meno esotici – spesso vestiti e ridicolizzati dai propri padroni, rimpinguati e toelettati per perdere ogni traccia di animalità. Questa pratica è un tratto distintivo delle società consumistiche, in cui si manifesta la tendenza a ritirarsi nel privato della piccola unità familiare, addobbata ed arredata di souvenir del mondo esterno. (berger, 2003) L’animale casalingo è souvenir di uno stato di natura originale, abbandonato, ma di cui proviamo nostalgia. Accudire un animale, renderlo domestico, significa, come scrive Geoffroy Saint-Hilaire, abituarlo a vivere e a riprodursi nelle dimore dell’uomo o nei suoi paraggi, a suggerirlo l’etimologia del termine domestico, che deriva dal latino domus, casa appunto. Il pet ci distoglie da possibili sensazioni di frustrazione e solitudine, ci fa sentire indispensabili e colma vuoti affettivi; su questo la psicanalisi ha calcato la mano sottolineando i transfert che la mente attua sull’animale, scorgendoci di volta in volta altre persone della famiglia con cui abbiamo questioni irrisolte a livello d’inconscio. Mancando dello spazio naturale e totalmente isolato, l’animale domestico perde, però, l’abitudine all’esercizio fisico, fatica a relazionarsi con i suoi simili e, impigrito, si nutre di cibi artificiali che noi compriamo al supermercato. Così trattato, esso diventa il

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succedaneo di una natura che sta scomparendo. Nel 2002 Silvana Annicchiarico, direttore del Triennale Design Museum di Milano, allestì una mostra dedicata agli oggetti di design zoomorfi e zoonomi. Nel catalogo si legge che nella loro evidenza morfologica e/o nominalistica, questi oggetti, assunti nella dimensione domestica dell’interieur, si offrono come surrogati di quell’animalità che non ha luogo nell’abitazione moderna. La Annicchiarico continua definendole protesi affettive che portano con sé il ricordo di una naturalità perduta e che segnano il ritorno del rimosso. Attraverso queste presenze metaforiche, la casa si anima come uno zoo virtuale e l’avatar dell’animalità riaffiora dentro la ratio tecnologica e moderna del progetto. In sostanza, quando per i motivi più disparati, non ci è possibile nemmeno avere un animale domestico, certi oggetti possono venire in aiuto e farne le veci. Baudrillard, a proposito del design, scrive: L’estetica industriale - il design - non ha altro scopo che dare agli oggetti industriali, duramente toccati dalla divisione del lavoro e marcati dalla loro funzione, [un’]omogeneità “estetica”, [un’]unità formale o [un] lato ludico che li relegherà tutti in una specie di funzione seconda della “situazione”, dell’ambiente.

La mostra animal house mise in scena gli oggetti basando l’esposizione sulla tassonomia con cui distinguiamo comunemente gli stessi animali: esemplari terrestri (500 Topolino, Lombrico, Tartaruga, Gatto, Grillo, Cobra, Boalum, Primate, Hebi, Canguro, Pecorelle, Piggy), acquatici (Delfino, 16 pesci, Pesciera, Medusa, Pito, Folpo, Moscardino, All-the-gator), volatili (Mosquito, vespa, Rondine, Galletto, Cicognino, Pipistrello, Papillon, Mariposa, Falena, The Fly) e ludico-fantastici (Meo Romeo, Zizì, Chimera, Snoopy, Moby Dick, Calimero, Fritz the Cat, Notturno Italiano e Juicy Salif). Quest’ultima categoria che raggruppava animali provenienti dal design, dalla mitologia, dal fumetto, dalla letteratura, dalla pubblicità e dal cartoon, dimostra l’assenza di un principio di pertinenza nella tassonomia che fino ad un certo punto distingue nominalisticamente nomi comuni di animali e poi aggiunge un raggruppamento fatto di nomi propri, inventati da noi e per noi. L’assenza di principio di pertinenza strizza l’occhio alla classificazione zoofila di Borges – ripresa a sua volta dall’emporio celeste di conoscimenti benevoli di una non ben definita enciclopedia cinese – secondo la quale gli animali si dividono in: a) appartenenti all’imperatore, b) imbalsamati, c) addomesticati, d) maialini da latte, e) sirene, f) favolosi, g) cani in libertà, h) inclusi nella presente classificazione, i) che si

ali-the-gator Khodi Feiz per Alessi, tagliacarte, 2001 piggy Anna Castelli Ferrieri per Matteograssi, pouff, 1991 heron Hisao Hosoe, Alessio Pozzoli per Luxo Italia, lampada, 1994

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agitano follemente, j) innumerevoli, k) disegnati con un pennello finissimo di peli di cammello, l) et caetera, m) che fanno l’amore, n) che da lontano sembrano mosche. Gli animali vivi e veri, quelli che lo sono stati, quelli che abbiamo imbalsamato o addomesticato, ma anche quelli che abbiamo creato (disegnando sulla carta o plasmando la materia) fanno parte di un continuum che va da maggiore o minore costruzione artificiale della natura, senza alcuna distinzione netta. La cosa, che può apparire anomala a prima lettura, può essere avvalorata se osserviamo come ci relazioniamo con gli animali e con i loro simulacri oggi. Il termine simulare, per il filosofo francese Baudrillard, si riferisce ad una assenza: si utilizza quando si finge di avere, mentre in realtà non si ha, con dissimulare ci si riferisce, invece, ad una presenza, in questo caso, al contrario, si finge di non avere. Il simulacro non è mai qualcosa che nasconde la verità - è la verità che nasconde che non ce n’è. Il simulacro è vero (baudrillard, 1980). L’inganno ha luogo nel momento in cui si vuol far passare un simulacro per una verità, quando si dice che esiste ciò che esiste è la verità, e non il simulacro. Quando pensiamo agli animali domestici, la nostra convinzione il più delle volte è alimentata dal fatto che non li consideriamo propriamente degli animali, ma, più nello specifico, essi diventano i nostri animali, quelli che la psicanalisi junghiana definisce animali edipici, familiari, sotto ai quali si cela sempre la figura di una persona umana, padre, madre, compagno/a o chi per esso. Nel caso si pensi agli animali protetti all’interno di zoo, acquari e parchi faunistici, siamo sicuri che si trovino a loro agio in un qualsiasi luogo riproduca, a nostro avviso, l’habitat naturale da cui provengono. Il barone Jacob von Uexkull, considerato fondatore dell’ecologia, ha messo in luce, a tale proposito, la visione antropomorfa con cui noi uomini siamo soliti guardare il mondo. In generale noi crediamo che gli animali si relazionino con ambienti e oggetti come noi ci relazioniamo con essi in quanto tali. È come se considerassimo il mondo (Umgebund, quello oggettivo) da un unico punto di vista; ma per comprendere come un uomo o un qualsiasi animale lo viva, è necessario considerare l’ambiente soggettivo, quello che il dato soggetto vede e interpreta, l’Umwelt, il mondo ambiente in cui si trovano i bedeutungstrager, gli oggetti portatori di significato, che di volta in volta cambiano in base a chi si trova nello stesso ambiente. La ricostruzione che noi eseguiamo dell’habitat di un qualsiasi animale che si trova all’interno di un giardino zoologico, spesso non è in grado di tenere conto della differenza fondamentale insita nell’interpretazione soggettiva del luogo, che significa, in altre parole, che dovremmo tenere in mente che non esistono ambienti oggettivamente determinati. Per molto tempo la ricostruzione dell’habitat per gli animali in cattività, si basava sul recupero di qualche oggetto

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che, posizionato all’interno delle gabbie, fungeva da scenografia, e aiutava la bestia a sentirsi a casa, come se gli animali si rapportassero agli oggetti come noi facciamo con loro. Il discorso economico, invece, ha assorbito la nostra idea di animale e questa, per proprietà transitiva, ne ha ereditato la caratteristica principale, l’estraneità al concetto di territorio. Convincendoci del nomadismo come una peculiarità connaturata degli animali veri, li consideriamo non radicati, in continua trasformazione e movimento, simili alla struttura del sistema capitalistico su cui abbiamo basato la nostra società. La nostalgia con cui li guardiamo, oggi, è prova del nostro senso di colpa per averli deterritorializzati a scopi di reddito1, il processo ha coinvolto tutti gli animali, quelli veri dell’industria alimentare, della ricerca scientifica, dell’industria del divertimento e quelli incaricati a farci compagnia, ma abbraccia, allo stesso modo, anche quelli inventati, disegnati. Ci serviamo, infatti, di animali provenienti dal mondo del fumetto e del cartoon, per promuovere prodotti, per procacciarci nuovi consumatori mirando al cuore dei più giovani ricettori di pubblicità, sfruttando la loro rappresentazione antropomorfizzata, in posa plastica e sempre felice. I bambini, considerati nel loro primo periodo d’infanzia, sono incapaci di esprimersi attraverso un linguaggio comprensibile a noi adulti e per questo godono di una condizione d’innocenza che ci permette di avvicinarli all’idea che abbiamo dell’animale, altro oggetto del nostro sentimentalismo. E’ in questa loro somiglianza che bisogna cercare il motivo per il quale, spesso, le aziende promuovono i loro prodotti attraverso il ricorso ad animali antropomorfi dai tratti inequivocabilmente infantili. Walt Disney è il pioniere della cultura del merchandising e dell’advertising attraverso l’impiego di animali antropomorfi, che nasce in America ma che, ben presto, conosce una diffusione globale. Nei primi suoi anni di vita, Topolino appare nel packaging di diversi prodotti industriali grazie al fiuto per gli affari dei due fratelli Disney, Walt e Roy, che amministra le casse dell’azienda. All’argomento è dedicato il capitolo topolino e il merchandising. 2.2 liveness I will refuse to alter or falsify trophy characteristics.

taxidermists code Jane Desmond scrive: I hope to reveal more fully the roles animals and their bodies play as our defining interlocutors even when they are dead or created solely by human hands. (rothfels, 2002)

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1. da baudrillard, Territorio e metamorfosi in Simulacri e impostura, pg 15 "La marginalizzazione culturale degli animali è, senza dubbio, un processo più complesso di quello della loro marginalizzazione fisica. Gli animali della mente non si lasciano disperdere così facilmente. Detti, sogni, giochi, storie, superstizioni, lo stesso linguaggio, li richiamano alla vita. Invece di essere dispersi, gli animali della mente sono stati cooptati in altre categorie, così che la categoria animale ha perso la sua centrale importanza. Per lo più sono stati cooptati nella famiglia e nello spettacolo".


Il saggio racconta la pratica della tassidermia e la realizzazione di pupazzi meccanici animatronici, impiegati nel cinema o a scopi didattici nei parchi zoologici e nei musei di storia naturale, che assecondano una passione tutta umana di produrre liveness, creando, ricreando e animando corpi di animali tridimensionali. In un caso si uccidono animali per manipolarne il corpo esanime, nell’altro si realizzano, e si comandano dal loro interno, modelli totalmente artificiali. Bring them to life. La tassidermia è un processo alquanto ironico perché per raggiungere l’effetto di liveness, è necessaria la morte dell’animale - nei manuali di settore è consigliato il soffocamento, che non arreca alcun danno visibile al corpo. Il corpo viene totalmente smontato e riassemblato, svuotato dalle sue parti molli interne e ristrutturato con uno scheletro di schiuma poliuretanica. Le tecniche si sono evolute con il tempo grazie a ricerche tecnico-scientifiche adeguate che hanno permesso l’abbandono dell’impagliatura per l’attuale tassidermia, realizzata mediante un processo che unisce liofilizzazione, supporti metallici e scheletri artificiali. Solo in seguito possono essere riattaccate le appendici, vale a dire, in base ai casi, artigli, ali, zoccoli, code… Le cosiddette parti molli visibili, occhi, narici e lingua, vengono ricostruite rispettivamente in vetro, cera, plastica o plastilina. Il risultato finale deve apparire perfettamente autentico. La posa dell’animale deve mostrarlo mentre vive indisturbato, lontano dagli uomini, perfettamente coinvolto dalla natura – anch’essa fake – circostante. In altri casi, l’animale esprime il momento di massimo patema, quando si accorge della presenza dell’uomo, in questo caso l’espressione ci restituisce il terrore nei nostri confronti, le narici sembrano tremare, è messo in scena l’arrested motion, la consapevolezza del pericolo, della morte. Occorre sia catturata quella che la Desmond definisce stasis: attraverso la ricostruzione, si monta un teatrino scenico, sul quale le differenti specie animali vengono bloccate in pose classiche, diverse, in base all’animale che si sta trattando e al luogo in cui verrà esposto. Skinning, tanning and mounting the skin of a mammal makes you think you’re creating a live animal. Add leaves or a snow base and it is like putting the animal back in nature.

Riporta un’inserzione pubblicitaria di una scuola di tassidermia del Wisconsis. In Italia il massimo esperto in materia è Agostino Navone, tassidermista in un laboratorio a conduzione familiare, sito in Piemonte, a cui si rivolgono curatori di musei di scienze naturali, cacciatori e artisti. Dal suo sito, si legge: Molti non sanno o si chiedono il significato del termine “ Tassidermia”: letteralmente prende origine dal latino e significa “posizionamento del derma”. Quello che prima era conosciuto come l’imbalsama-

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tore di animali, oggi è il Tassidermista (l’iniziale maiuscola è del testo originale) e questa variazione è dovuta all’evoluzione che c’è stata negli anni nei metodi di lavorazione necessari a naturalizzare un animale. Prima l’animale imbalsamato subiva trattamenti di mantenimento supportati anche da sostanze nocive come l’arsenico, e veniva impagliato e trattato con balsami. Oggi dell’animale naturalizzato viene trattata solamente più la pelle con una concia completamente naturale a base di sale; successivamente questa riveste un manichino in resina prestampato nella posizione richiesta. Il procedimento è simile per tutti gli animali: mammiferi, pesci, anfibi, rettili e uccelli. La passione che guida il mio lavoro e l’esperienza di anni di lavoro mi assicurano un buon livello qualitativo manuale, grazie anche ai materiali di ottima scelta che impiego. Tutte le lavorazioni vengono svolte nel mio laboratorio, qui a pochi chilometri da Torino, e questo mi permette di eseguire un trattamento delle pelli adeguato al loro stato di conservazione e mirato ad ottenere la massima qualità. Il rinverdimento, la concia, le finizioni, la creazione del modello e le rifiniture dell’esemplare mi danno la possibilità di conseguire i risultati che vedete in queste pagine e che potrete verificare di persona.

Le gallerie fotografiche del sito propongono diverse specie animali, mammiferi, uccelli, rettili, anfibi e pesci, quindi presentano i lavori in cui Navone eccelle, si tratta soprattutto di allestimenti museali, per i quali vengono realizzati restauri naturalistici, allestimenti di ambientazioni, scenografie e preparazione di scheletri, costruzioni di modelli in resina, ma non mancano sculture e oggettistica per privati. Tra le collaborazioni con artisti spicca il nome di Maurizio Cattelan, che nel corso del suo percorso artistico ha introdotto diversi animali tassidermizzati all’interno di mostre e gallerie. L’opera Untitle del 2007, consta di un cavallo tassidermizzato nel laboratorio di Navone; animale che adesso è sospeso da terra, con il muso conficcato all’interno del muro di mattoni di una delle sale espositive di Punta della Dogana, a Venezia. Questo cavallo, di cui si vede solo il corpo, richiama la pratica diffusa nell’alta società di collezionare animali esotici, ma, contrariamente al classico trofeo di caccia, il cavallo di Cattelan manca proprio del muso, e ci offre esclusivamente il suo posteriore. In un articolo della giornalista Mariangela Maritato, che presenta le opere esposte a Punta della Dogana, l’animale di Cattelan viene messo in relazione alle cronache dal vero del pittore Pietro Longhi, che nella metà del settecento ritrasse, assieme a il rinoceronte e l’elefante, anche il casotto del leone, opera citata nell’introduzione a questa tesi, in cui si vede la consuetudine a collezionare animali, non come tali, bensì come forma di intrattenimento o come dimostrazione di potere e ricchezza. L’opera bidibibodibiboo è un tenero scoiattolo tassidermizzato nell’istante successivo al suicidio, avvenuto all’interno della ricostruzione miniaturizzata della cucina in cui Cattelan, negli anni cinquanta, ha trascorso la sua infanzia. Le antine giallo chiaro del mobilio ricordano alcune am-

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da sinistra untitle Maurizio Cattelan, cavallo tassidermizzato da Navone, 2007 zebra zebra tassidermizzata da Navone per museo di scienze naturali.

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bientazioni domestiche targate Disney, ma il suicidio messo in atto incupisce e spiazza come, del resto, fa il titolo stesso dell’opera: bidibibodibibu è la formula magica con cui la fatina di Cenerentola mette in atto le sue magie, ma su quest’opera aleggia un’atmosfera di morte e la magia appare oramai inutile. La resa è impeccabile: le sculture retoriche di Cattelan riescono a beffare l’osservatore perchè gli animali tassidermizzati si presentano esattamente come fossero vivi e questo ha permesso a Navone, come ad altri professionisti di settore, di esercitare su animali domestici, dei quali non si sopporta la morte; il ricorso a questa pratica si offre l’alternativa alla separazione materiale. Qualora i padroni più nostalgici non accettino lo scempio oltraggioso del corpo del proprio pet, è possibile ricorrere a processi d’imbalsamazione o mummificazione. Ci sono aziende in America che si occupano di quest’attività, peraltro molto lucrosa, offrendo la possibilità di tenere ancora in casa l’animale, mummificato a regola d’arte e protetto per sempre dentro ad un sarcofago. Si è riscontrata anche la presenza di compagnie in grado di criogenizzare il dna animale, dal quale in futuro è possibile ricavarne un clone. Il principio è la ri-creazione: non si tratta di preservare, ma di dar vita ad esemplari animali artificiali, costruiti, ma che simulano il vero. Sono tecniche che si offrono per ri-animare corpi esanimi, eliminando dal racconto la triste presenza della morte. La tecnologia animatronica si occupa della costruzione di modelli tridimensionali viventi per i quali si vuole raggiungere un elevato effetto di realtà, in modo da ottenere il simulacro di un essere vivente. I ricercatori soppesano e ricercano ogni elemento possa rendere un modello credibile, in modo da affinare la performance di qualsiasi comportamento emotivo non realistico; i corpi dei modelli devono muoversi e reagire come se si trattasse di un vero animale. Buona parte di questi modelli animatronici sono utilizzati nei parchi di divertimento; a Disney, per esempio, le inserzioni davanti al Jurassic Park River Adventure sottolinano costantemente la promessa di un T-Rex pet, che si comporta, vive, respira come un dinosauro, ma prova emozioni come un gattino. 2.3 natura disney e tutti gli ordini dei simulacri Per milioni di visitatori, Disneyland è esattamente come il mondo, soltanto meglio.

sorkin, 1992 Nel 1948 esce nelle sale cinematografiche Seal Island, conosciuto in Italia come L’isola delle foche. Il documentario mette in luce l’interesse che Walt Disney dimostra, alla fine della seconda guerra mondiale, nei confronti della natura,

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da sinistra bidibibodibiboo Maurizio Cattelan, scoiattolo tassidermizzato, ceramica, formica, legno, pittura, acciao 1996 birra “the end of history� bottiglie di birra scozzese da 55 gradi avvolte in pelle di scoiattoli, 2010

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secondo lui non trattata a dovere dal cinema. In quegli anni vengono girati dalla Disney diversi documentari naturalistici che escono raccolti in una serie intitolata true life adventure (la natura e le sue meraviglie), la quale vale alla casa di produzione molti apprezzamenti da parte del pubblico e un oscar come miglior documentario. Nonostante, accentuati con precise scelte tecniche di ripresa e di montaggio, di sottofondo musicale e di voiceover, l’antropomorfismo e il sentimentalismo disneyano siano stati criticati, il pubblico apprezza di potersi identificare con gli animali, provandone gioie e paure. L’idea che è da sempre alla base dell’impero Disney, risulta vincente perché non si è mai proposto di offrire un’interpretazione della realtà, ma se ne è piuttosto inventata una parallela. Nell’episodio del lungometraggio fantasia, uscito nel 1940, intitolato l’apprendista stregone, Topolino incarna la spontaneità dei bambini contro le imposizioni che provengono quotidianamente dai grandi, rappresentati dal padre-stregone. L’adulto, avendo perso ogni senso del gioco, inibisce ogni forma di espressione fisica. È vittima della civiltà, che ha eretto a suoi idoli insopportabili uomini dal volto impassibile e donne attraenti e impeccabili. Anche i gesti devono essere misurati. Questo atteggiamento viene detto “composto”. I bimbi, quando sono ancora piuttosto piccoli, hanno la stessa spontaneità degli animali, ma la perdono ben presto a causa dell’educazione che viene loro imposta.1 Le biografie di Walt Disney motivano questa visione concordando sulla figura del padre, descritto come un violento, frustrato e autoritario. Solo quando Elias Disney doveva allontanarsi dalla famiglia, le giornate trascorrevano felici e spensierate. La madre raccontava favole e Walt era libero di camminare per i boschi con uno zio che sapeva avvicinare gli animali. I film Disney rispecchiano questi elementi presentando un mondo infantile, avvolgente, protettivo e pieno di animali parlanti, mentre i protagonisti sono spesso legati da parentele di tipo zii-nipoti. Il ricordo sofferto per un’infanzia e per uno stato di natura perduti, è perfettamente messo in scena e celebrato nei parchi di divertimento inventati dallo stesso Walt Disney. E’ lui, infatti, con la sua passione per le miniature, la fiducia nel progresso scientifico-tecnologico e il suo punto di vista da uomo bianco e conservatore a dar vita ai parchi a tema come noi oggi li conosciamo. Il primo parco sorge nella periferia di Los Angeles, nel 1955, ma viene seguito dalla costruzione, negli anni successivi, di altre strutture, che ne copiano e ampliano il modello. Walt Disney World Resort, Florida, inaugurato nel 1971 Tokyo Disney Resort, Giappone, inaugurato nel 1982 Disneyland Paris, Francia, inaugurato nel 1992 Hong Kong Disneyland Resort, Cina, inaugurato nel 2005

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1. Da raffaelli luca , Le anime disegnate. Il pensiero nei cartoon da Disney ai giapponesi e oltre. Viene riportato un discorso di Walt Disney che descrive alcuni elementi dell’episodio L’apprendista stregone, realizzato sulle musiche del poema sinfonico omonimo di Paul Dukas, ispirato ad una ballata di Goethe, ispirato a sua volta da una favola tradizionale.


mascotte personaggi disney Magic Kingdom Park 2007 casa di topolino, Magic Kingdom Park 2008

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elefanti veri e albero della vita, (dal film il re leone) Magic Kingdom Park Walt Disney World Resort 2007 elefante finto e cascate Magic Kingdom Park Walt Disney World Resort 2007

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Dalla Florida, alla Cina, al loro interno possiamo vivere l’esperienza di un’Arcadia ritrovata, un luogo ricoperto da una melassa che elimina ogni riferimento ai problemi del presente. Qui l’inconscio senso di colpa verso la natura lascia lo spazio ad animali parlanti, edificanti, esilaranti, terrificanti, poco o molto umanizzati, dove la gerarchia tra specie viventi vacilla e ci viene sempre ricordata l’umanità dell’animale e l’animalità dell’uomo (de fornari, 1995). Pace fatta. Gli animali Disney portano sentimenti positivi. Negli anni trenta, quando il primo di questi personaggi, Topolino, fa il suo debutto, è subito successo poiché esso offre l’evasione alla crisi economica e ad un diffuso senso d’insicurezza. Sono gli animali antropomorfi Disney ad ospitarci in una realtà più che rassicurante, dove assistiamo ad una costante mescolanza di adulto e infantile; questo perché, anche se i diretti fruitori sono i più piccoli, Disney in realtà abbisogna del continuo consenso dei grandi perché l’intera macchina si riveli redditizia. Entrare nel mondo Disney significa entrare in una città giocattolo, un ambiente recintato molto grande (Disneyland, in California) o smisurato (Disneyworld, in Florida) che sia, dopo aver pagato un biglietto. Varcata la soglia, l’illusione del reale è ovunque. Gli edifici sono costruiti in una scala ritoccata: il piano inferiore, infatti, è accessibile, in scala uno ad uno, mentre quelli superiori risultano abitabili, ma di fatto non lo sono, perché costruiti in scala leggermente ridotta; l’effetto ottenuto simula il punto di vista di un bambino. Disneyland integra la realtà del commercio nel gioco della finzione (eco, 1976), perché qui i negozi sono tutti costantemente aperti e siti negli unici locali praticabili dell’intera ricostruzione. I parchi a tema sono dunque la concretizzazione dell’ideologia del consumo di massa. (…) Al loro interno il consumo è presentato come una componente del divertimento e della fantasia. Per stupire il visitatore e renderlo felice è indispensabile la spettacolarizzazione, è necessario dar vita ad una realtà più reale della realtà stessa, perché è quella che esiste all’interno dell’immaginario collettivo (codeluppi, 2000). Ecco che, dopo aver riso e scherzato con degli animali antropomorfi (vivi, grazie a dipendenti dei parchi che ne indossano i costumi), a Disneyworld è possibile passeggiare nella perfetta ricostruzione della giungla, in cui vivono veri animali, avendo la sensazione di una giungla più reale di quella che potremmo vedere se ne visitassimo un reale. Gli spettacoli naturali si offrono al turista nella loro espressione migliore e, nel loro essere divertissement, sono perfettamente capaci di entusiasmare e scuotere, offrendo pseudo-avventure, con la giusta miscela di avventura e tranquillità. Qui si realizza la condizione più piacevole per il turista, il quale, pur non essendo obbligato a partecipare attivamente, non rischia mai di annoiarsi per un’atmosfera eccessivamente familiare. Quando c’è un falso […] questo non tanto avviene perché non sarebbe possibile avere l’equivalente vero, ma perché si desidera che

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walt disney and mickey mouse

il pubblico ammiri la perfezione del falso […]. Disneyland non solo produce illusione, ma – nel confessarla – ne stimola il desiderio: un coccodrillo vero lo si trova anche al giardino zoologico, e di solito sonnecchia e si nasconde, mentre Disneyland ci dice che la natura falsificata risponde molto di più alle nostre esigenze di sogno ad occhi aperti (eco, 1976). Questa natura si concede nel luogo e nel momento in cui noi ci troviamo, ci accontenta. Disneyland è la sublimazione della passività assoluta: noi non dobbiamo fare altro che muoverci tra percorsi definiti da transenne, assumendo il ritmo della coda, quindi vivendo delle emozioni già previste e per un tempo determinato. Il Magic Kingdom mette in scena tutti gli ordini dei simulacri in un luogo in cui si respirano sentimenti di tenerezza e di calore umano. La felicità diffusa da lavoratori disponibili e sorridenti permette al visitatore di abbandonarsi ad una sensazione piacevole, avvolgente e credibile che dissuade costantemente e rigenera in controcampo la finzione del reale (baudrillard, 1980). I valori vengono esaltati attraverso la miniatura e la caricatura, tutto appare imbalsamato e pacificato. L’ossessione per il realismo, tipico della cultura americana ma oggi diffusosi a livello mondiale, richiede una continua rievocazione credibile, che deve essere assolutamente iconica, copia rassomigliante, illusionisticamente vera, della realtà rappresentata (eco, 1976). Il mondo Disney è un modello in scala uno a uno di un

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altro mondo, perfettamente inserito nel nostro, al quale dobbiamo credere, possiamo infatti entrarne a far parte, visitarlo, viverlo. Questo luogo non si limita a sembrare vero, esso è vero, nella misura in cui il tutto vero s’identifica con il tutto falso. Come Eco scrive per il modello dell’ufficio della Casa Bianca fatto ereggere ad Austin, nel Texas, dal presidente Johnson, anche qui l’irrealtà assoluta si offre come presenza reale. I Magic Kingdom hanno l’ambizione di fornire un segno che si faccia dimenticare come tale: il segno aspira ad essere la cosa, e ad abolire la differenza del rimando, la meccanica della sostituzione (eco, 1976). Si tratta di una simulazione di terzo ordine, come la definisce Baudrillard, nella misura in cui Disneyland fa credere che il resto sia reale. Disneyland non è né vero, né falso, è una macchina di dissuasione per rigenerare in controcampo la finzione del reale. Il parco riesce a far credere che gli adulti siano altrove, nel reale, illudendo gli adulti stessi che lo visitano, sulla loro infantilità, facendola passare come reale. Siamo nel regno dell’iperrealtà, tipico dell’America, ma, mi ripeto, il fenomeno si è diffuso in lungo e in largo anche negli altri continenti capitalistici. L’iperrealtà elimina ogni minima distinzione tra mondo reale e mondo altro, inventato, possibile; qui tutto il confuso, mescolato e rimescolato, viene consumato come horror vacui. Per Baudrillard, nelle società soggette alla logica del consumo realtà e verità, sono termini che tendono a degradarsi, lo spettacolo è consumo. Questo è il destino e la condizione dell’attuale società del simulacro, in cui domina una mera apparenza che nasconde il suo essere apparenza e distoglie l’attenzione dall’unica realtà o verità possibile, che è precisamente il simulacro. Nelle società burocraticamente organizzate, dove la massa è prodotta e riprodotta, al pari di quanto lo è il pensiero popolare, non è possibile immaginare un mondo diverso da quello in cui si vive, poiché la pressione sociale produce conformità. Ecco, allora, che noi crediamo a Disney e alla natura che ci propone nei suoi mondi.

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3. l’animale antropomorfo

3.1 dalla letteratura al cinema Nella tradizione favolistica gli animali ricoprono il ruolo di protagonisti fin dall’antica Grecia. Uno dei primi esempi in questo senso è il corpus di 358 favole scritte da Esopo, scrittore greco vissuto nel v secolo a.C.. I suoi racconti possono essere considerati semplificazioni di situazioni quotidiane in cui gli animali si comportano in modo esemplificativo: a scopo didascalico incarnano vizi e virtù umane fornendo una morale. Le favole sono state tramandate fino ai giorni nostri e ritroviamo l’utilizzo dei topoi della favola esopiana nel corso dei secoli, riveduti e corretti secondo tradizioni e necessità. Il caso più conosciuto in cui si può percepire un legame con la tradizione esopiana, mescolata a narrazioni moraleggianti di origine orientale e risalenti all’alto medioevo, è rintracciabile nel roman de renart, fortunata parodia delle chansons de geste. Si tratta di una raccolta di poco meno di una trentina di poemi più o meno slegati tra loro che raccontano le gesta della volpe Renart e del suo perenne nemico lupo Ysengrin. Nella società animale, costruita ad immagine e somiglianza di quella umana, trova il giusto spazio la satira sociale che schernisce la società feudale e le sue usanze. Renart è una volpe furba e priva di scrupoli che trova nella tradizione dei bestiari medievali e nei racconti zoomorfi cristiani l’origine della sua immagine. Contraddistinta dal pelo rossiccio che ricorda i capelli di Giuda e dal suo zampettare a zig zag, malizioso e mai diretto, la volpe agisce facendo del male solo per il piacere provato nel farlo. La narrazione lascia spazio a curiose situazioni inverosimili in cui è possibile trovare cinghiali a cavallo di lumache e galli che ammazzano tori; questo perché seppure i personaggi conservano prerogative animali, essi si comportano e parlano come esseri umani. E’ Jean de La Fontaine, dalla seconda metà del 1600, a recuperare e rimescolare elementi delle favole di Esopo con punte fortemente satiriche della tradizione medievale. Alle critiche avverse sulle novità introdotte dalla sua scrittura, La Fontaine controbatte evidenziandone l’assoluta valenza poetica e, contenutisticamente, la continua ricerca della verità sulla natura, ma soprattutto sull’uomo, che lui traveste da animale. Ha fatto parlare gli animali e le piante nella lingua degli Dei – la poesia -; ha dipinto i vizi umani, suscitando l’inesauribile

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roman de renart pagine del manoscritto, 1290-1300

commedia, con incontro per scena l’universo. Un’opera d’incanto… C’è una segreta virtù nella favola, per cui gli animali rivelano la loro anima fraterna alla nostra, e La Fontaine ha sentito quella magia, l’ha rinnovata, le ha dato il respiro del verso, scrive Vittorio Lugli, nella prefazione all’edizione delle favole, di La Fontaine. I protagonisti sono, ancora una volta, animali che assumono comportamenti umani, o, meglio sarebbe ammettere, uomini che si presentano animali nelle loro sembianze fisiche. Senza azzardare ad animali particolari, La Fontaine si rifà ad un bestiario più letterario che naturale: il lettore ritrova così animali familiari provenienti dalla tradizione più antica, da Esopo, da Fedro, dai favolisti rinascimentali, nonché dalla tradizione orale popolare, che conservano atteggiamenti e caratteristiche consolidate. Ogni animale è introdotto attraverso l’uso dell’articolo determinativo, elemento grammaticale che sottolinea con forza il carattere araldico delle figure animali, ricorrenti da una favola all’altra e trasforma ogni animale nell’archetipo della propria specie. I tratti distintivi – fisici, sociali, morali o psicologici – che lo caratterizzano non sono particolarità individuali, ma generalità della specie che rappresenta in rapporto alle tradizioni culturali e non in relazione alla storia naturale (pastoureau, 2010). Gli animali lafontainiani sono specchio degli uomini, della società, della politica che arreca continue sofferenze e opprime. I brevi componimenti prendono dalle precedenti opere somme i temi e i protagonisti più adatti a muovere una lucida e sottile critica sociale.

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roman de renart pagine del manoscritto, 1290-1300

iv. la virtù delle favole E può dunque alle mie povere fiabe abbassarsi d’un alto ambasciatore lo sguardo e il favor? e tanto ardito sarò di dedicar queste sottili e care inezie a un Uom affacendato in tutt’altre faccende, a cui non piace Il perder tempo alle buffe contese di cani e gatti e donnole e leoni, che invan talvolta assumono l’aspetto di grandi eroi?...[…] Tutti siamo anche noi popol d’Atene, ed io stesso, che predico, pel primo. Se tu mi vieni a raccontar l’istoria Dell’Augellin bel verde, oh ch’io divento Matto dal gusto. Il mondo forse è vecchio, ma si diverte ancora e bamboleggia alle belle storielle d’una volta.

(la fontaine, libro ottavo, in Favole ) Spostandoci verso l’Inghilterra, incontriamo gli animali di Kenneth Grahame. Il suo romanzo wind in the willows fa parte di quella letteratura pastorale in cui è percepibile la passione per la campagna e per lo stile di vita che in essa si conduceva prima dell’industrializzazione. I protagonisti - una talpa, un topo d’acqua, un rospo e un tasso - vivono assieme

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mr jack illustrazione, James Swinnerton, 1902

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1. Biagini Enza e Nozzoli Anna, a cura di, La maschera di Esopo. Animali in favola da Pirandello a Sciascia, in Bestiari del Novecento.

in amicizia, pur mantenendo ognuno inalterate le caratteristiche della propria specie che lo stesso Grahame ebbe modo di osservare in prima persona. Questo romanzo s’inserisce nella letteratura specifica per ragazzi che prende vita proprio nell’ottocento e all’interno della quale si inizia a caratterizzare il genere fantasy, popolato da animali con comportamenti e vite tra l’umano e l’animale. Nel corso della storia l’animale è stato rappresentato in diversi modi, anche opposti: da simbolo di una natura forte e temibile, è passato ad essere protagonista di favole con fini moralistici e, impersonando vizi e virtù umani, ha intrapreso un percorso d’inarrestabile antropomorfizzazione, divenendo un alter-ego umano. Analizzando il contesto letterario contemporaneo, il libro bestiari del novecento 1 mette in luce che l’invadenza delle bestie nella letteratura novecentesca è riscontrabile soprattutto nella ripresa della tradizionale figurazione dell’animale parlante, vuoi nella sintetica e fulminea invenzione favolistica dell’apologo di matrice esopiana, vuoi nella più distesa narrazione della fiaba o del romanzo allegorico. Gli animali antropomorfi continuano a presenziare nella letteratura più tradizionale e, con lo sviluppo di nuovi generi e l’avvento di nuovi media comunicativi, il fenomeno si espande esponenzialmente, incontrando nuovi target e diverse modalità di impiego. Sebbene si tenda a far iniziare la storia del fumetto, così come noi lo conosciamo, nel 1895, con the yellow kid, apparso sulle pagine di the new york world, in realtà già nel 1982 James Swinnerton anima il san francisco examiner, guardacaso, con degli animali antropomorfi. Protagonisti del fumetto sono, infatti, degli animali umanizzati, orsi prima, poi anche tigri, che parlano, si atteggiano e si vestono come uomini dell’epoca. Nei primi del novecento è lo stesso Swinnerton a creare delle nuove strisce nella sezione per ragazzi dello stesso quotidiano. Il personaggio di Mr Jack, una tigre antropomorfa e sciupafemmine, è uno dei primi esempi di funny animal, animale umanizzato protagonista di un omonimo filone di fumetti di cui Mickey Mouse è da quasi un secolo il più famoso e amato. Gli animali che conosciamo e a cui ci siamo affezionati negli ultimi anni provengono dal mondo del fumetto e del cinema, che spesso nasce proprio dal precedente cartaceo, salvo il caso inverso di Mickey Mouse, che appare dapprima al cinema e, dopo una quindicina di cortometraggi, esordisce anche sulle daily strips. Walt Disney motiva il massiccio ricorso ad animali con l’espressività: attraverso la loro rappresentazione, le emozioni appaiono più significative e, di conseguenza, il fumetto più efficace. Una volta liberati dal compito di rappresentare simbolicamente valori morali, gli animali antropomorfi, attraverso un processo di elevata identificazione, vanno a riflettere caratteri tipicamente umani, di natura sia individuale e psicologica, che relazionale e sociale (codeluppi, 2000).

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Ogni personaggio diventa così un carattere peculiare che lo rende indipendente dalla tradizione e lo configura come tipologia di senso totalmente nuova (brancato, 1994). 3.2 l’antropomorfo al cinema 3.2.1 mickey mouse I hope that we never lose site of one thing: that it was all started by a Mouse.

walt disney Mickey Mouse, in Italia conosciuto come Topolino grazie a Lorenzo Gigli, direttore del primo omonimo periodico sul personaggio, fa la sua comparsa nel 1928 nel cortometraggio steamboat willie (in realtà il primo cortometraggio in cui appare è planet crazy, ma viene sonorizzato e diffuso solo qualche settimana dopo). Nel corto si vede un topolino impertinente che s’improvvisa comandante della barca del capitano Gambadilegno, il quale, da buon cattivo, ostacola i piani del topo. La presenza di Minnie, fidanzata storica di Topolino fin dalla prima apparizione, lo porta ad inventarsi simpatiche gag per attirarne l’attenzione e farla divertire. Alcuni animali non antropomorfi incontrati durante la discesa del fiume vengono caricati sulla barca e usati come strumenti musicali dal fantasioso Mickey. Il cortometraggio viene proiettato nell’inverno del 1928 al Colony Theater di Manhattan, a New York assieme al lungometraggio gang war e grazie alla novità del sonoro incontra subito il consenso del pubblico, tanto che, nel giro di pochi giorni, steamboat willie viene proiettato al prestigioso Roxy Theater, dal quale Disney guadagna un accordo di distribuzione con Pat Powers, un ricco imprenditore americano. La nascita di Topolino è circondata da un alone di mistero; la versione diffusa dice che l’idea sia scattata durante un viaggio in treno verso la California, mentre Walt pensa ad alcuni topi che realmente scorrazzavano sulla sua scrivania negli anni precedenti. Walt Disney sta tornando con la moglie Lillian Bounds da uno sfortunato incontro con Charles Mintz, della Universal Pictures, con cui aveva firmato precedentemente un contratto annuale e dal quale ne usciva, per così dire, sconfitto. Mintz proponeva un abbassamento dei compensi e dimostrava di avere tutti i diritti sul personaggio a cui Walt aveva lavorato, tale Oswald il coniglio. Molti dei suoi colleghi avevano accettato di firmare nonostante la proposta apparisse sfavorevole e Walt è costretto a tornare a casa deluso e a mani vuote. Testardo, però, e convinto delle sue capacità, Disney pensa ad un nuovo personaggio su cui puntare, deve piacere al pubblico e superare la fama del coniglio. Il nome Mickey viene scelto dalla moglie Lillian, poco convinta di Mortimer, proposto dal marito. Assieme all’amico e collega Ub Iwerks, Disney dà vita ad un topo che, somigliando ai suoi

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steamboat willie screenshoot, 1928

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precedenti Felix e Oswald, sembra inizialmente avere poche pretese di originalità. Iwerks si preoccupa di disegnarlo e muoverlo, mentre è lo stesso Disney a doppiarlo per oltre un ventennio e a determinarne la personalità. All’epoca di Steamboat Willie i personaggi dell’animazione seriale sono l’assemblaggio di tubi di gomma disegnati: due per le gambe, due per le braccia, un tubo per il tronco (raffaelli, 1988). La testa viene rappresentata con tanti cerchi e, nel caso di Topolino, i cerchi delle orecchie sono visibili da ogni angolazione, in modo che la sagoma resti sempre riconoscibile, anche a scapito di una corretta rappresentazione prospettica. I personaggi sono neri per spiccare su uno sfondo bianco, spoglio, ma ben caratterizzato mediante la presenza di pochi elementi essenziali al riconoscimento della scena. Christopher Finch, a proposito degli esordi, scrive: Nei primi cortometraggi Mickey e Minnie [debuttano] come due creature investite di poteri speciali – non [sono] topi comuni – in ruoli che [parodiano] le manie di uomini e donne, richiamando una tradizione che risale ad Esopo e Aristofane (finch, 2001).

Il primo Mickey è un topo vivace e allegro, quanto impertinente e dispettoso che indossa pantaloncini corti e chiari, come il suo predecessore Oswald. Abbigliamento e atteggiamento lo avvicinano ad un bambino: come tale, infatti, gioca e si diverte nel farlo, mentre i suoi antagonisti rappresentano l’adulto; in steamboat willie Gambadilegno, disegnato più grosso del piccolo topo, è cattivo, costantemente arrabbiato e pronto a punirlo proprio come farebbe un qualsiasi genitore severo. Sebbene antropomorfo, Topolino nelle prime apparizioni non parla, ma mugugna, fischietta, ride e borbotta. Dobbiamo aspettare la serialità, e quindi la diffusione attraverso la televisione, perché la parola sostituisca i suoni e acquisti più peso delle immagini. Inversamente a quanto avviene agli uomini e nonostante la sua età cronologica rimanga immutata, con il passare del tempo Topolino assume sembianze sempre più infantili: la testa cresce di dimensioni mentre il muso si accorcia, gli arti si ingrossano e gli occhi occupano uno spazio sempre maggiore della superficie facciale. Tutto ciò lo avvicina all’aspetto di un bambino e gli permette di far breccia nel cuore di tutti: nel 1929 negli Stati Uniti Topolino è già un fenomeno, tanto che Sorkin arriva a dire che sono più numerose le persone che conoscono Topolino di quelle che conoscono Gesù o Mao Tse Tung e, perchè il successo rimanga tale, Disney lo tramuta in un perfetto cittadino americano. Con when the cat’s away, nel 1929 (sua sesta apparizione), il personaggio inizia ad indossare i guanti, segno di un percorso d’imborghesimento che lo condurrà ad apprezzare tutte le comodità della vita. Abbandonata, infatti, la campagna per la città, come leggiamo in un’attenta analisi di Luca Raffaelli, Topolino si fa portare il giornale dal suo fedele cane Pluto, mentre indossa

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vestaglia e pantofole, seduto su una soffice poltrona. Mickey Mouse è una star e diventa simbolo nazionale; il suo successo è sottolineato da numerosi riconoscimenti internazionali di cui i primi, già nel 1930, sono l’omaggio in cera nel museo di Madame Tussaud e l’articolo che la rivista time gli dedica, come accade per le celebrità in carne ed ossa. Siamo nel campo dell’iperrealtà di Topolino, che é riconosciuto come reale, nonostante la sua realtà sia di fantasia. La cera è là rappresentazione di una rappresentazione, quindi una rappresentazione di secondo livello, doppiamente mediata. Questo passaggio è interessante perché allontana totalmente la natura dalla nostra percezione: Mickey Mouse nasce come rappresentazione rielaborata della natura, un animale riveduto e corretto, bidimensionale. Ora, il nuovo modello, custodito al museo di Madame Tussaud riproduce in cera, a tre dimensioni, e a grandezza naturale il personaggio. Perché prenda forma, è necessario un calco, dietro all’idea del modello in cera, c’è, quindi, l’idea che Mickey abbia già una forma, che sia materico, fisico, quindi esistente. Cito, a questo punto, un’interessante Eco, che parla del Palace of Living Arts di Buena Park, in Los Angeles: La filosofia del Palace non è noi vi diamo la riproduzione affinché vi venga voglia dell’originale, bensì noi vi diamo la riproduzione affinché non sentiate più il bisogno dell’originale. Ma perché la riproduzione sia desiderata, occorre che l’originale sia idoleggiato (eco, 2003).

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mickey mouse, evoluzione dal 1929 ai giorni nostri


l’apprendista stregone screenshoot, 1940

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Successivamente Charlie Chaplin chiede che siano proprio i corti di Topolino ad accompagnare le proiezioni del suo film luci della città e l’onu lo nomina simbolo internazionale di buona volontà. Quando, con gli anni, alcuni amici di Mickey cominciano ad accattivarsi le simpatie del pubblico e gli spin-off di Pippo e Paperino si dimostrano più redditizi, Walt decide di rilanciare Mickey con il lungometraggio fantasia, siamo nel 1940. Il film consta di vari episodi musicati su brani eseguiti dalla Philadelphia Orchestra diretta da Leopold Stokowski, al quale Topolino è l’unico a potersi rivolgere strattonandolo per il frac. L’episodio the sorcerer’s apprentice (tradotto l’apprendista stregone in Italia) vede Topolino destreggiarsi tra scope impazzite in un crescendo di guai cui solo il mago Yen Sid, l’adulto, riuscirà a mettere fine. Come avvenuto nella sua prima apparizione, Mickey viene avvicinato al comportamento di un bambino: ruba il cappello magico per imitare il grande mago e tenta di dar vita a delle scope perché siano loro a portare dei pesanti secchi d’acqua al posto suo. Il trucco sembra riuscire e Topolino nella parte centrale del corto si addormenta sereno e sogna di salire su un’altura da cui può comandare il cielo. Per qualche secondo lo vediamo stagliarsi su uno sfondo blu notte e, al centro dell’inquadratura, è star tra stelle, flutti d’acqua e fuochi d’artificio. Basta poco però perché l’incantesimo si trasformiin un incubo: al risveglio Topolino rischia di annegare per l’enorme quantità d’acqua che le scope continuano a versare nella stanza. Yen Syd torna e, con una gestualità che ricorda la scena biblica di Mosè, alza le braccia al cielo, fa sparire l’acqua e risolve la situazione. Percepiamo l’amarezza di Topolino da diverse espressioni che lo colgono nei pochi secondi a seguire: guarda in basso facendo dondolare un piede, poi cerca lo sguardo dello stregone avanzando un timido sorriso e porgendogli il magico cappello ma, come avviene nella vita reale quando un bambino combina un grosso guaio, Mickey non riceve il perdono sperato e viene letteralmente scopato fuori dalla stanza dall’arrabbiatissimo mago. Topolino ha provato a fare il grande, ma si è dimostrato ancora bambino e, secondo la formula della semplicità disneyana che prevede che il buono sia spesso timido ed impacciato (raffaelli, 1988) ci fa provare tenerezza, tornando a piacerci. L’escamotage per risollevare il personaggio sembra talmente riuscito che si è realizzato uno spettacolo simile a Disneyland, a Los Angeles, con Mickey Mouse in carne e ossa; in realtà il pupazzo è animato da un poveretto che, con il gran caldo estivo, ci deve stare dentro (raffaelli, 1988). fantasmic! Prevede un Topolino in preda a brutti sogni: sugli schermi allestiti attorno a lui, appaiono Ursula, la strega-piovra della sirenetta, la Regina cattiva di Biancaneve, il diavolo Chernobog di Fantasia, Capitan Uncino… Tra spruzzi d’acqua e giochi di luci il pubblico vive l’ansia con Mickey finché lui stesso riesce a domare la situazione e,

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frame iniziale mickey mouse

trionfante, accoglie una nave gremita di personaggi buoni della produzione Disney. Lo spettacolo commuove, rallegra, dà speranza: Mickey è maturo, riesce a domare i problemi e il pubblico vive attraverso questo animale antropomorfo la filosofia Disney. Topolino esiste, vive in questo mondo. Non è solo un topo parlante intrappolato nel cinema e nei fumetti: tutti sanno che la sua casa sta a Magic Kingdom, ci possiamo entrare e lui stesso ci accoglie trecentosessantacinque giorni l’anno. Walt Disney non si è limitato a creare un eroe cartaceo, ma attraverso i cartoni animati – si presti attenzione all’etimo della parola animati – ha dato vita ad un essere vivente, gli ha fornito uno spirito, un anima e, successivamente, gli ha costruito un mondo, all’interno del nostro, in cui il topo può vivere come noi, da uomo. Il cinema disneyano è così, animista ed egocentrico, come un bambino. E infatti punta tutto sui personaggi principali, che tutto il mondo è pronto a festeggiare al termine delle loro disavventure e nell’inequivocabile felice finale (raffaelli, 1988). Il mondo Disney è un mondo bambino, che si emoziona facilmente e non se ne vergogna, come leggiamo ne il mondo incantato, di Bruno Bettelheim: per la volontà animistica del bambino, il sasso è vivo perché può muo versi, quando rotola giù dal pendio di un colle. […] Egli crede che il sole, il sasso e l’acqua siano abitati da spiriti assai simili alle persone, e che quindi sentano ed agiscano come persone. […] Per il bambino che cerca di capire il mondo sembra ragionevole attendersi delle risposte da quegli oggetti che suscitano in lui curiosità. E, dato che il bambino è egocentrico, si aspetta che l’animale parli

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delle cose che sono realmente importanti per lui, come gli animali fanno nelle fiabe, e come il bambino stesso fa con i suoi animali veri o animali giocattolo.

3.2.1 bugs bunny Forse è un caso, ma l’antagonista del topo nato in casa Disney in seguito alla perdita di Oswald il coniglio, può essere considerato proprio un coniglio, Bugs Bunny della Warner Bross. La prima apparizione del personaggio avviene con il corto porky’s hare hunt, per mano di Ben “Bugs” Hardaway nel 1938. I successivi lavori di perfezionamento della personalità e dell’aspetto grafico per raggiungere il risultato definitivo, li dobbiamo a Bob Clampett, Tex Avery, Robert McKimson, Chuck Jones e Friz Freleng. Le differenze con Mickey sono palesi già alla prima osservazione: Bugs è un coniglio dagli arti allungati, umanizzato nei comportamenti e nei pensieri, che gironzola svestito. Inseparabile e unico elemento che lo accompagna in ogni episodio, una semplicissima carota. Bugs, infatti, come tutti i conigli, è vegetariano e questo ne determina il carattere. Sembra che l’ispirazione per il personaggio provenga dal comico Groucho Marx, fratello di Karl. Simili, infatti, nella camminata, entrambi si presentano al pubblico nullatenenti, ma nonostante questo sereni; Groucho è solito sorridere sulla sua povertà con frasi del tipo «Non eravamo poveri. È solo che non avevamo un soldo», Bugs, masticando il suo unico avere, passeggia incurante di qualsiasi problema e chiede costantemente “che succede, amico?”, perché sembra proprio che siano

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frame iniziale bugs bunny


solo gli altri ad averne. Se uno dei punti su cui Disney non transige è la credibilità dei personaggi, che devono dimostrare di possedere un corpo che risponde alle leggi fisiche proprio come il nostro, Bugs Bunny, e tutti gli altri personaggi sfornati dalla Warner Bross, sembrano non preoccuparsene. È tipico infatti di questi corti portare i protagonisti a superare i limiti di credibilità, sfidando la forza gravitazionale e la morte, facendoli così entrare nel campo della metafisica. Il furbo e il fesso sostituiscono il buono e il cattivo disneyano, i toni sono più leggeri e il pubblico non è invitato a sentire le emozioni dei personaggi, bensì è avvisato, attraverso interventi metalinguistici, a prendere coscienza che ciò che si sta guardando è un cartone, un episodio inventato e divertente, uno scherzo. La costruzione di Bugs Bunny & C. fa sempre pensare alla doppiezza dei loro comportamenti: un po’ sono e un po’ ci fanno (raffaelli, 1988), sono divi nei limiti, conoscono la loro natura di disegni animati. Possiamo comprendere il personaggio di Bugs dai suoi comportamenti, perché i corti ne offrono un ritratto psicologico preciso. Bugs è un coniglio molto furbo, anzi si può affermare senza il rischio di incorrere in un’esagerazione che lui è il furbo per eccellenza, dal momento che qualunque altro personaggio si scontri con lui, passa per fesso. Bugs fa e noi capiamo chi è. La sincerità con cui il regista ricorda al pubblico di essere davanti ad un cartone, si riflette anche nella sincerità con cui i personaggi si mostrano per quello che sono, palesando ogni emozione, positiva o negativa che sia, anzi, il più delle volte la stessa viene esagerata proprio al fine di dimostrare l’irrealtà di tutto ciò che si sta guardando. Le gag e le situazioni in cui gli animali vengono coinvolti son un numero limitato, si ripetono continuamente in un meccanismo narrativo che fa della semplicità il suo punto di forza e si realizza al meglio nella formula del cortometraggio. Umberto Eco definisce questo schema iterativo poiché, proprio come in campo matematico, la sequenza necessita di iterazioni, rispondendo a una continua condizione di ripetizione. Si inizia con una situazione tranquilla, interrotta dall’emergere di un ostacolo contro il quale il protagonista riesce sempre ad avere la meglio. La semplicità della struttura narrativa concede spunti d’originalità durante lo svolgimento del corto, in modo che il pubblico trovi sempre piacere nel guardare l’episodio. Bugs è furbo già in partenza; questa sua condizione lo fa apparire sereno, gli dà fiducia e lo porta a ridere dei suoi avversari con chi si trova di fronte allo schermo: una volta attaccato, Bugs, che non agisce mai per primo, trova il modo di farli passare per sucker, babbei, per l’appunto, cretini che di volta in volta cadono nella beffa del coniglio. I personaggi Warner sono bambini a tutti gli effetti, non bambini visti con tenerezza attraverso l’occhio di un osservatore adulto. Come i bambini, essi sono sinceri, selvaggi e

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bugs bunny con porky pig, illustrazione digitale 2009

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rispondono esclusivamente ai loro impulsi. Se Topolino agisce costantemente dovendo fare i conti con il bene, agendo da esempio e distinguendo le azioni corrette da quelle che non lo sono, il coniglio di Casa Warner semplicemente non se ne cura: per lui non esiste alcun castigo. L’unica sicurezza è lo scontro da cui deve uscirne vincitore. I cartoni Disney son intrisi di sapore cristiano, mentre i cortometraggi Warner possono essere considerati atei; come ben fa notare Luca Raffaelli, in essi non esiste alcun paradiso da conquistare e i personaggi, così liberi, possono agire secondo istinto per la propria sopravvivenza, ignorando qualsiasi felicità che non sia quella più immediata. Per questo motivo ai personaggi della Warner non serve nulla, non possiedono alcun oggetto al di fuori di piccoli elementi che aiutano a definirne il ruolo. Bugs vive in un buco sotto terra che appare là dove necessario, in base ai cambi di set dei vari episodi. La carota che lo accompagna è unica e onnipresente, con lei il coniglio si mostra sereno in ogni situazione, non gli occorre altro. Il personaggio è quello che fa, senza avere nulla, secondo la visione escatologica disneyana invece i personaggi si realizzano anche attraverso quello che hanno o che ottengono, mostrandoci quali siano i comportamenti da condurre o evitare per il raggiungimento dei propri desideri.

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Lepus Animatus, Hyungkoo Lee, Resina, bastoncini di alluminio, reticolato d’acciaio, pittura ad olio. 2005–2006 bozzetto per lepus animatus, Hyungkoo Lee, inchiostro acquarello su carta 2005

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parte seconda



1. topolino e il merchandising

Topolino è una divinità panteistica che si incarna in tutti gli oggetti di consumo possibili e immaginabili.

rita cirio prima osservazione Il cinema ci ha dato, nei visi bianchi dei divi, il solo mito contemporaneo di un’intensa seduzione. All’incrocio dei giochi delle masse e dell’immagine riproducibile troviamo questi artifici freddi che sono però grandi effigi seduttrici e iniziatiche e che pratichiamo come riti. (fabbri, 1995) seconda osservazione Seguela scrive che la star nacque attorno al 1910 come arma della guerra tra le case cinematografiche. Queste le sue caratteristiche, potremmo dire ontologiche. 1) La star convince. La sua funzione naturale risiede nel far comprare. E’ la sua ragione di essere. La star è la sola merce vendibile. Tutto di lei è calcolato in denaro. E’ vendibile, nonostante essa venda sogni, materia impagabile. 2) La star dura. Durare significa essere padroni del tempo. 3) La star seduce. Seduzione significa comunicazione. Piacere. terza osservazione Mickey Mouse è nato con le star. Mickey Mouse è una star. Topolino ha raggiunto il successo perchè è entrato in scena al momento giusto: la crisi economica del ‘29 attanaglia gli americani, che chiedono di sopravvivere, di distrarsi e di tornare a sorridere. Gli americani hanno bisogno di Mickey Mouse, di un topo simpatico, che riesce sempre a cavarsela al meglio, nonostante qualche piccolo, ma risolvibile, incidente di percorso. È agile, capace e balza con facilità dallo schermo ai fumetti, quindi al packaging per i prodotti in commercio. La mancanza di definizioni precise […] ha consentito al bestiario disneyano di raggiungere un elevato livello di “intermedialità”, cioé di passare facilmente tra media e firme di consumo differenti senza dover subire radicali trasformazioni. (fossati, 1986) Faeti sottolinea che la caratteristica principale che contraddistingue il topo è la flessibilità: nonostante il suo carattere di saggio “uomo roosveltiano”, [Topolino] è capace di rimanere se stesso e di rimandare costantemente ad altro, adattandosi a qual-

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siasi situazione. […] È un personaggio, una maschera, un aggregato di motivi mitici e fiabeschi, più che un mito in sé definito, una metafora a cui affidare messaggi controversi, un’etichetta valida per prodotti che si oppongono nettamente tra loro (faeti, 1986). Fossati aggiunge che lo si può considerare una sorta di significante puro che può significare qualsiasi cosa, una forma espressiva cui ognuno può attribuire un differente significato. Walt Disney fiuta l’affare, grazie a diverse richieste di prestito per finanziare i suoi primi progetti nei quali lui, a ragione, crede, ma soprattutto grazie alla lucidità con cui gestisce le produzioni e i proventi che se ne possono ricavare. Marc Davis, capo animatore della Walt Disney Picture, scrive: [Walt Disney] non temeva di rischiare tutto, di indebitarsi, assumere 150 persone e chiedersi come avrebbe fatto a pagarle. Si comportò in questo modo durante tutta la vita intera. Credeva che il denaro avesse valore solo per quanto ci si poteva realizzare. Senza di lui non riesco ad immaginare come l’animazione avrebbe potuto diventare un business (finch, 2001).

Walt Disney rispetta perfettamente tutti i sette punti con cui Seguela descrive il perfetto regista delle star, incarnazione stessa del perfetto pubblicitario; ecco allora brevemente elencate le sue caratteristiche, a sottolineare, ancora una volta, di riflesso la celebrità di Topolino e ciò che ne consegue. - (W.D) è abile a mixare marketing e creatività - è responsabile (multiresponsabilità, nonsi deve essere padroni, ma catalizzatori / multiproprietà) - è impegnato (si impara facendo) - è rigoroso (metodo, volontà, sforzo). Insistere troppo su un problema produce oscurantismo, ma è un passaggio obbligato. Ogni uomo crea a sua immagine e somiglianza. Un produttore di beni può dunque inventare soltanto un prodotto che lo rifletta. All’estremo opposto della catena dei consumi, ogni acquirente è attratto solo dai prodotti in cui si rispecchia. In poche parole, il consumatore non compra affatto un prodotto, ma un produttore. - è ingenuo. La creatività è una continua ricaduta nell’infanzia. (...) Si perdona tutto ad un bambino, a condizione che ci stupisca e ci diverta. - è appassionato - è innamorato Fin dalla sua collaborazione con Charles Mintz, nel 1926, Disney stipula un contratto che gli garantisce la metà dei proventi fruttati da alice comedies, una serie che vedeva la giovanissima attrice Virginia Davis recitare al fianco di alcuni personaggi animati, ma è solo con Mickey Mouse che riesce ad avere un controllo totale e fruttuoso dalla concessione dei suoi personaggi. Con il fratello Roy assume un pubblicitario di Kansas City, Herman “Kay” Kamen, che controllerà la qualità dei prodotti cui vendere l’immagine di Topolino fino al 1949, anno della sua morte. Questo perché il merchandising garantisce utili derivanti dalla cessione dei diritti, ma genera anche pubblicità di rimando verso la stessa Walt Disney Picture ed è bene, quindi, che ogni prodotto accompagnato da Mickey non leda l’immagine dell’azienda.

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walt disney and mickey mouse’s products, 1940s mickey mouse adidas shoes 2010

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Già dalle prime collaborazioni, il lavoro di Kamen si rivela un successo non solo per la Disney, ma anche per tutte le aziende che si pubblicizzano dietro l’immagine del topo; la Lionel Corporation, produttrice di trenini elettrici, e la Ingersol-Waterbury Company, produttrice di orologi, sono le prime società a firmare un contratto e a riceverne ingenti ed immediati benefici. Il ricorso all’impiego dell’immagine di Topolino riguarda in un primo momento l’America, ma si espande velocemente raggiungendo un’espansione globale. Dopo il primo passo del topo, tutti i personaggi Disney sono usciti dalle pellicole per andare a addobbare elettrodomestici, oggetti di cancelleria, abbigliamento, biancheria intima e per la casa, giocattoli, bigiotteria, prodotti alimentari… aumentando le vendite e arricchendo la casa madre, pare infatti che durante una conferenza stampa tenuta da Roy Disney a Milano il 24 gennaio del 1985 fu distribuito ai giornalisti un rapporto sulle attività della Walt Disney Productions dal quale risultava che il settore merchandising aveva un fatturato superiore ai cento milioni di dollari l’anno (fossati, 1986). Mickey Mouse è il perfetto animale economico, e come primo esempio di questa nuova categoria, modifica l’immagine e il ruolo che gli animali ricoprono nella società dei consumi.

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2. la mascotte

Perduta la forza passionale e l’allegoria etica, il mostro può frequentare, senza ossessionarla, la cultura di massa.

paolo fabbri, 1995 La pubblicità è immortale. […] Qui il simbolo attinge al sacro. Il mito è una star salita al cielo, canonizzata dalle nostre memorie, indistruttibile, eterna.

jacques seguela, 1985 Come sostiene Jacques Seguela, la pubblicità non deve dare dati-di-fatto poiché non importano a nessuno, non garantiscono alcuna certezza di riuscita; il prodotto, in una condizione d’ovvietà, rischia di non attrarre e, di conseguenza, di non essere acquistato. L’approccio che deve essere ricercato nel promuovere un qualsiasi articolo è, quindi, qualitativo: si basa su un rapporto affettivo che deve instaurarsi tra il cliente e il brand che marchia quello stesso prodotto. Ottenuto il sentimento, riuscita e durata del successo sono assicurati. Sequela parla di una religione del piacere, in cui si attua la realizzazione del Sé. “Tocca alla comunicazione, (...), attribuire ai prodotti quel valore onirico senza il quale la nostra pasta, il nostro olio, il nostro detersivo sarebbero solo pasta, olio, detersivo...[...] Dubitare del potere del sogno è stupido come dubitare del potere dell’atomo” (seguela, 1985). È importante capire il pubblico, toccarne il cuore, per mettere in moto un piacere simultaneo, misto, complice. Ma qual è il modo migliore per procedere? Consideriamo che ovunque [oggi] si assiste alla disgregazione storica di certe strutture che festeggiano in qualche modo sotto il segno del consumo, sia la loro reale scomparsa che la loro scomparsa caricaturale. Detto in altri termini, la famiglia si dissolve? La si esalta. I bambini non sono più bambini? Si sacralizza l’infanzia. I vecchi son soli? Ci si commuove sulla vecchiaia. E ancora più chiaramente si magnifica il corpo nella misura stessa in cui le sue reali possibilità si artrofizzano e in cui è sempre più braccato dal sistema di controllo e dalle costrizioni urbane, professionali e burocratiche. (baudrillard, 1992). Ecco che, nella promozione di un prodotto, vanno esaltati proprio quei determinati segni che risentono di un processo di negazione delle cose e del reale. L’allontanamento dalla natura e il conseguente rappor-

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to disequilibrato tra uomo e natura è palese, fare perno su questo dato di fatto permette di coinvolgere in modo emotivo e sicuro il pubblico, vuoi perché si stimola la nostalgia, vuoi perché, dall’altro lato, si offre la redenzione a colui che si sente colpevole di questa attuale negativa situazione. Come messo in luce nel catalogo della mostra il bello e le bestie del Mart, esiste un forte parallelismo tra i comportamenti degli animali nei confronti dell’ambiente naturale in cui vivono e i comportamenti umani nei confronti delle divinità: in modo simile entrambi ricercano la propria sopravvivenza. Sciamani e streghe sono usi ad indossare pellicce e piume durante i loro riti: la vestizione fa da tramite con il divino, attraverso la mimesi si garantiscono l’ascolto. Nel sistema capitalistico, perduta la valenza magico-religiosa, la forma animale offre un avvicinamento al consumatore, e induce quest’ultimo all’acquisto. L’utilizzo dell’animale antropomorfo rende efficace il messaggio pubblicitario, facendo leva sull’esperienza maturata nel corso della nostra vita. Nel cliente viene attivato l’effetto del ricordo; fin dall’infanzia, infatti, siamo stati circondati da peluche con sembianze animali, abbiamo ascoltato storie di animali parlanti, li abbiamo visti in televisione e illustrati nei libri. Crescendo abbiamo imparato a conoscere il mondo attraverso analogie e metafore di animali, parabole e favole sono state strumenti indispensabili per formulare opinioni e per raggiungere capacità decisionali. Inoltre, come sostenuto da Walt Disney, l’animale antropomorfo, capace di maggiore espressività, crea empatia. Diversi brand, allora, procedono con il trasferimento della propria rappresentazione su un personaggio esterno, un testimonial in grado di avanzare la propria offerta merceologica. Essendo il personaggio animale un’incarnazione di valori costruiti attraverso una narrazione precedente, questi valori vengono trasferiti dal personaggio al brand e dal brand al prodotto. Per umanizzare la merce la si animalizza. Viene messa in atto una circolazione di valori: le caratteristiche del personaggio si trasformano in marca o prodotto. Abbiamo detto che Mickey Mouse riesce a risollevare le casse della Lionel Corporation, produttrice di trenini elettrici; la fama del topo si è rivelata una mossa vincente perché i valori del personaggio si sono trasferiti sul prodotto. Topolino sembra non temere alcun rischio di sovrautilizzo, né di conseguente minore efficacia in termini di comunicazione. Mickey, come già sottolineato, è intermediale, riesce cioè a saltare tra vari media rimanendo sé stesso e adattandosi costantemente ad ogni situazione. La sua natura di cartoon, sempre credibile, ma mai reale, gli assicura la possibilità di essere identificato positivamente in ognuna delle tre categorie principali avanzate dalla letteratura di settore: riesce a passare per professionista, per consumatore tipo e per celebrità1. Familiarità con il pubblico, fascino, empatia e natura del

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1. Per approfondire si veda baietti e soscia , L’utilizzo del testimonial in comunicazione: relazioni bi-direzionali tra celebrità e categorie di prodotto. Nel testo vengono presentate le categorie di testimonial a cui si fa ricorso nella campagna promozionale di un prodotto. In questo senso si definiscono il professionista (o esperto), il consumatore tipo e la celebrità. La prima tipologia comprende persone che hanno specifiche conoscenze e competenze sulla categoria di prodotto a cui appartiene il bene pubblicizzato; la seconda fa riferimento a normali utilizzatori presentati nello spot; con il termine celebrità (o personaggio famoso) ci si riferisce infine ad una persona [conosciuta al pubblico]. Topolino, a mio avviso, riesce a ricoprire i tre ruoli non perdendo mai di credibilità perché è nelle sue caratteristiche principali quello di rimanere sempre sé stesso in ogni avventura si trovi coinvolto. Nessuno si stupisce vedendolo divertirsi mentre suona una mucca per Minnie, o mentre si improvvisa stregone, mentre è vestito da alpinista o da tennista. Per noi Topolino è sempre Topolino.


mascotte prodotti alimentari, fotografie scattate al supermercato, 2010

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panda party gadget Kinder Sorpresa 1994

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personaggio esercitano un appeal talmente forte e vincente, che non sembrano esistere casi in cui il prodotto sia stato offuscato dalla sua immagine. Riportando ancora una volta Fossati, Topolino è un significante puro in grado di significare qualsiasi cosa. Baietti e Soscia, a proposito dell’utilizzo di testimonial nella comunicazione commerciale, scrivono: Un interessante spunto, ai fini delle riflessioni riguardanti lo scambio bidirezionale di caratteristiche e valori tra personaggio e categorie di prodotti, e quindi per il presente studio, proviene da Rossiter e Percy (1987) che indicano tra i fattori in grado di migliorare la familiarità del personaggio all’interno di un messaggio pubblicitario quello che viene definito “visibility hook”. Gli autori ipotizzano che il messaggio sia particolarmente efficace, in termini cognitivi del consumatore, quando il personaggio incorpora dei tratti fisici in grado di suscitare un legame logico con la categoria di prodotto (Kovet, 1981), vale a dire quando esiste una somiglianza anche fisica tra celebrità e categoria di prodotto pubblicizzato o marca (baietti e soscia, 2000).

Nei prodotti che riportano l’immagine di Topolino, indirizzati soprattutto ad un pubblico infantile, il meccanismo si attua perfettamente ed immediatamente. L’ipotesi avanzata dagli stessi Soscia e Baietti, mette in luce un rapporto bidirezionale tra le categorie logiche evocate dalla classe merceologica e le categorie logiche evocate dalla celebrità in questione. La vendita di merce per bambini riesce laddove vengono evocati il loro mondo, il loro immaginario, le loro passioni e i loro amici animati; allo stesso modo il bambino che va ad acquistare, partecipa al mondo raccontato dai cartoni perché questi vengono ideati e realizzati proprio per coinvolgerli. I personaggi sono disegnati come caricature dello stesso giovane pubblico, la struttura corporea è volutamente puerile: testone sproporzionato rispetto al corpo, corpo tozzo, arti paffutelli e corti servono a mettere in moto il processo d’immedesimazione. Ancora Soscia e Baietti sintetizzano che quanto maggiore risulta essere l’assonanza tra il vissuto del consumatore con riferimento ad una particolare categoria di prodotti e il vissuto associato al testimonial celebre che presenta il prodotto, tanto maggiore è l’efficacia della campagna in termini d’incremento della likeability e della propensione all’acquisto. Quando si sceglie di promuovere un articolo utilizzando l’immagine di Micky Mouse, il duplice rimando riesce non solo per le doti d’intermedialità dello stesso topo, ma anche perché i bambini si lasciano andare all’immaginazione. A tale proposito, pensiamo, per esempio, al momento del gioco; dobbiamo ammettere subito che per noi adulti una sedia – apparentemente – è una sedia: ma per il bambino è anche molte altre cose […]. L’adulto si sforza di rimuovere e nascondere il simbolismo, ma il bambino vede immediatamente i simboli. (groddeck, 2005)

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L’infanzia – ha scritto Giorgio Agamben – è il luogo per eccellenza del possibile e del potenziale. Ciò che caratterizza il bambino è che egli stesso è la sua potenza e vive la sua possibilità. Vi è qualcosa nell’infanzia che non distingue più tra possibilità e realtà ma fa del possibile la vita stessa. I bambini dispongono di una vita irreale e misteriosa, fatta di fantasia e di giochi, estranea ai comandamenti degli adulti. È in questa vita che la pubblicità cerca di entrare. Anzi, entra. E il bambino si adegua, conformandosi sempre di più verso la perfezione della sua immagine così come schermi e pagine di riviste patinate gliela restituiscono. Il possibile – categoria così evocativa – e il reale si uniscono nel principio uniformante della pubblicità, nella sua essenza ultima, che è quella di strumento con cui è possibile esercitare un’opera di persuasione sugli individui. Il bambino si dispone con innocenza a essere persuaso, predisponendosi anche a diventare lui stesso persuasore (landi, 2006). Riflettiamo ora sull’attaccamento che i neonati manifestano nei confronti di un oggetto, poniamo il caso sia una coperta, in maniera del tutto incomprensibile agli occhi degli adulti. L’oggetto transizionale (winnicott, 1951) è il primo possesso extrapersonale sentito dall’infante e riveste una funzione rassicurante ed emotiva. Non si tratta di quella semplice coperta che noi adulti vediamo, bensì rappresenta un senso d’esistenza e di prima consapevolezza di sé, è il primo interesse verso un oggetto esterno. Essa accompagna il bambino a superare quella fase di curiosità riflessiva nei confronti del proprio corpo e lo spinge verso l’esterno, verso la conoscenza e l’interazione con il mondo. Fa nascere il gioco e questo trova fondamento nella continua risemantizzazione degli oggetti con cui il bambino si trova a giocare. I bambini vedono Mickey Mouse impresso su una confezione e pensano a lui, non al prodotto contenuto, il packaging propone una dimensione di gioco. Anche nel caso in cui la promozione non fa ricorso ad un personaggio celebre esistente, ma preferisce un personaggio inventato ad hoc, è bene esista un legame visivo con la marca o il packaging (ad es. il Gigante Verde, Mastro Lindo, Tony la tigre per i cereali Kellog’s) (baietti e soscia, 2000). Se la mascotte creata per affiancare il marchio appare vincente, il potere comunicativo della stessa supera il ricorso al testimonial celebre reale, perché la sua vita è esclusivamente dedicata alla promozione del marchio, essa nasce e vive per promuoverlo. Infatti, nonostante i messaggi presentati da personaggi famosi siano più efficaci degli altri nel sostenere il ricordo dell’annuncio e della marca, indipendentemente dalla tipologia specifica di prodotto (baietti e soscia, 2000), il personaggio, durante il corso della sua vita, può cadere in atteggiamenti o comportamenti che macchiano l’immagine del brand a cui sono legati, possono essere sovrautilizzati da più aziende o essere percepiti negativamente dai clienti. A questo proposito è interessante accennare al recente caso dell’azienda di telefonia mobile italiana tim. Gli spot della serie mettono in scena una coppia formata da due personaggi molto cono-

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sciuti, l’attore comico Christian De Sica e la soubrette Belen Rodriguez. La figura maschile sembra funzionale, ma non è possibile affermare lo stesso per quella femminile: “Scegliere Belen Rodriguez è stato un errore” dichiarano fonti interne alla tim. […] “Molti dei clienti storici di Telecom, in particolare le famiglie, non hanno gradito la scelta della showgirl in qualità di testimonial. E ciò si è tradotto in fuoriuscite di clienti verso operatori concorrenti”. (http://it.tv.yahoo.com/blog/article/56915/ italiani-stanchi-delle-nudit-di-belen-la-tim-perde-clienti.html, consultato il 09/02/11). La pubblicità punta sulle doti fisiche della ragazza, senza contare che solo una parte dei clienti apprezza, molti, invece, all’opposto, si dimostrano contrariati dai gossip che costantemente minano l’immagine della Rodriguez, altri non apprezzano la mercificazione del corpo femminile, fenomeno inflazionato in ambito televisivo e, nello specifico, pubblicitario. Il piano di marketing per la campagna pubblicitaria di un qualsiasi prodotto deve riuscire a mettere in comunicazione il testimonial, il prodotto e il consumatore in un triplice rapporto di rimandi in modo da garantire il trasferimento dei valori circoscritti ai relativi contesti in tutte le direzioni possibili. La creazione di una mascotte, quindi, può essere la migliore soluzione. Essendo un personaggio costruito ad hoc difficilmente può ricorrere in comportamenti deviati che provochino disaffezione o scandalo. Usare una mascotte come testimonial è una mossa sicura, anche se potenzialmente non efficace quanto un personaggio umano, nel quale il pubblico adulto si identifica con maggiore facilità. Il personaggio, suscitando affezione, incoraggia la lealtà, vuoi dal cliente verso il marchio, vuoi dal marchio verso il cliente. Sorrisi e aspetto amorevole si fanno desiderare, attivano sentimenti esclusivamente positivi. Una mascotte di successo genera pubblicità e interesse verso l’azienda produttrice, conquista la benevolenza dei clienti e ispira sentimenti duraturi, fa parlare il marchio attraverso la sua voce e si mostra costantemente nel medesimo modo, dando quindi sicurezza. Una mascotte permette più interazione, coinvolge e offre la possibilità di confezionare costumi che la raffigurano, partecipando attivamente alla vita sociale reale (schneider, 2009). Gli eroi dei bambini escono dalle favole, entrano nella televisione e vengono trasformati in prodotto. Da un personaggio illustrato si possono ricavare giocattoli tridimensionali che vengono regalati come gadget all’interno delle confezioni, i bambini si divertono e li collezionano. Con l’immagine di un character si personalizzano moltissimi articoli e ci si addentra nella vita quotidiana dei clienti, adulti e bambini, si diventa parte della famiglia. Per Abram Moles il gadget rientra nella tradizione del kitsch. Ne parla nel suo il kitsch e l’arte della felicità, dove, partendo dalla derivazione etimologica del vocabolo (gachette in francese significa grilletto), il gadget è presentato

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come un articolo ingegnoso, che significa dotato d’ingegno, artificioso. L’alienazione consumistica, cui siamo soggetti, distrae, appassiona, rappresenta il gioco sottile fra l’uomo, la sua ragione e la natura tecnica. Il gadget è un oggetto accessorio che provoca soddisfazione immediata, è una sorpresa decorativa, con funzione secondaria. Appaga,senza necessariamente essere utile ad altro; nella sua natura di oggetto artificioso e seducente, provoca coinvolgimento emotivo e psicologico, come i suoi precedenti bidimensionali. Gli animali antropomorfi in plastica, nelle loro modeste fattezze, aprono le porte all’immaginario ludico e giocoso, perché si caricano di evocazioni che toccano la coscienza, la memoria, il pensiero e l’affettività. Come sostiene Baudrillard, infatti, ne il sogno della merce, nell’universo ludico tutto è soggetto all’effetto della simulazione possibile, tutto può giocare. Ne deriva che il desiderio di appagamento scaturito dal ritrovamento del gadget, vince sull’eventuale funzionalità dello stesso. Il principio di piacere è tutto racchiuso ontologicamente in sè. E se si considera, poi, la funzione vitale e pedagogica del gioco, si capisce quanto valore – e potere - possa assorbire il gadget-gocattolo e di riflesso, il prodotto che esso rappresenta. Le mascotte non hanno necessariamente fattezze animali, possono essere diverse e prendere spunto dalla realtà, ma possono essere anche totalmente inventate: il volto di Harland David Sanders, per esempio, fondatore della Kentucky Fried Chicken Company parla per la sua azienda, Aunt Bettie, rappresentante dell’omonimo marchio inglese di prodotti alimentari, è invece un personaggio inventato appositamente per incarnare la perfetta donna dei fornelli: porta i capelli raccolti, è paffutella, e il sorriso le dona un aria materna. Aldilà dei casi umanoidi, sembra che il trend più diffuso sia il ricorso all’animale antropomorfo, perché in grado di entrare in maggiore sintonia con i bambini. Accade, infatti, che, nonostante non siano loro a compiere l’acquisto, sono loro ad avere il controllo sullo stesso: lamentandosi di volere un determinato prodotto, il più delle volte riescono a incidere sulla scelta del genitore. Come sostiene Schneider, Win the hearts and minds of children and the adult consumer is yours. Ecco allora che tigri parlanti, conigli batteristi e api facinorose conquistano un numero sempre maggiore di clienti. Se è vero che gli animali ammaestrati piacciono a tutti (guarda, 1962), questo avviene perché non suscitano alcun timore, né risvegliano irrisolvibili incapacità di comunicazione uomo/animale; bene, considerato che la carica metafisica del teleschermo tende a non fare troppa distinzione tra bestiola e pupazzo, si capisce il motivo per cui i personaggi più conosciuti sembrano essere tutti animali antropomorfi (guarda, 1962). Il tipico bambino italiano è immerso nel mondo del consumo, esattamente come tutti i bambini delle società occidentali avanzate. Juliet B. Schor, autrice del recente nati per comprare (2005),

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dice che già a un anno i bambini guardano i Teletubbies in TV, già a 18 mesi riconoscono i marchi dei diversi prodotti e, prima del secondo compleanno, chiedono le cose chiamandole con il loro nome commerciale (non una bambola ma una “Bratz”, non un panino ma un “Burger King”). Varie ricerche condotte in Italia hanno stabilito che su 100 spot pubblicitari, 30 in media finiscono per avere come protagonisti i bambini. La loro presenza nel mondo del consumo non è più marginale: il loro potere d’acquisto limitato risulta compensato dalla competenza e preparazione sui prodotti da acquistare, tanto da diventare indicatore importante per l’orientamento all’acquisto degli adulti che li circondano (genitori, nonni) (landi, 2006). I bambini che guardano la televisione provano gratificazione poiché i contenuti dei programmi televisivi si mescolano a quelli della pubblicità, viene meno il confine tra finzione e vita vera, tra storie di fantasia e brevi storie commerciali, tra personaggi che nutrono l’immaginario e merendine che nutrono il corpo. Lo spot diventa spettacolo e viceversa. Le pubblicità ripropongono gadget, scenari e eroi delle fiction, si riduce al minimo la percezione, nello spettatore bambino, dell’interruzione pubblicitaria. In fondo la prima funzione di questa forma di comunicazione risiede nel veicolare un sapere concretizzabile subito in un “avere”, o in un “essere”, o in un “fare”. Il bambino introietta senza fatica le tre componenti che ossessionano gli esperti di marketing: cognitiva (come fare per fornire informazioni indelebili su un prodotto o un servizio), affettiva (come far reagire emotivamente il consumatore), comportamentale (come farlo muovere verso l’acquisto). Da questo punto di vista il bambino è l’utente ideale, il consumatore cui si può vendere qualunque cosa (landi, 2006). 2.1 percezione e composizione dell’immagine Pensiamo ai primi cortometraggi in bianco e nero, in cui i personaggi animati erano delle macchie ben distinte nere su sfondo chiaro, leggermente sfumato. L’effetto era voluto, il personaggio doveva staccarsi dallo sfondo, essere sempre perfettamente visibile al pubblico perchè potesse goderne. La teoria della gestalt dice che ogni configurazione della stimolazione luminosa che colpisce la retina dell’occhio produce uno specifico processo nel cervello, questi processi variano col variare dello stimolo. Quando percepiamo, noi segmentiamo automaticamente l’insieme degli stimoli in unità complesse e uno dei primi processi che entra in gioco nell’organizzazione del flusso degli stimoli, consiste nell’articolazione figura-sfondo. Ogni forma ed oggetto percepiti si distinguono rispetto ad uno sfondo, grazie ad un margine. La forma diventa figura e assume un carattere oggettuale, viene riconosciuta di fronte allo sfondo che rimane, invece, percepito come indistinto. Le immagini informano e scatenano emozioni, rispondendo alla loro naturale funzione espressiva, ma, soprattutto, seguendo

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oswald il coniglio Sky Skrappers, 1928 screenshot

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regole e convenzioni d’uso tradizionali (branzaglia, 2003). La composizione di un’immagine pubblicitaria può far ricorso a diversi immaginari, in base alle chiavi d’affezione e conseguenti acquisti - che vuole far scattare; nel calderone troviamo rimandi all’iconologia classica, per esempio legata alla tradizione pittorica, ma anche alle più recenti forme comunicative, quali il cinema, la fotografia, il cartoon. Le illustrazioni che compaiono sul packaging vedono molto spesso il nostro personaggio cartoon fluttuare su uno sfondo indistinto, dove il colore è spesso sfumato. Questo perché tutta la vita conscia dell’uomo è data dall’emergere di figure (percettive, emotive, cognitive) rispetto ad un territorio indistinto di sfondo. (branzaglia, 2003). Il che significa che noi percepiamo perché riconosciamo tutti questi elementi e comprendiamo la relazione che li lega. E soprattutto, per quanto sia importantissimo il ruolo della memoria nel riconoscimento degli elementi provenienti dal mondo circostante, è pur vero che senza adeguate basi ottiche il riconoscimento stesso non si attua (branzaglia, 2003). Ora, sapendo che il nostro occhio registra tutto allo stesso modo, va ricordato che non esistono differenze tra il modo di percepire il reale e il modo di percepire il virtuale, sicché le azioni intraprese nelle campagne promozionali che mirano a far scattare la molla affettiva e dell’acquisto, devono essere condotte tenendo bene a mente l’attività percettiva dell’occhio. Fatto emergere il protagonista della comunicazione sullo sfondo che lo accoglie, colorato, ma indistinto, vanno tenute a mente anche altre questioni legate all’aspetto dello stesso personaggio. L’animale si presenta allungato e bipede, il che significa che, contro natura, esso si alza e cammina come noi. Volendo indicare una linea immaginaria principale rispetto ad altre nella costruzione dell’immagine del personaggio, tracceremo quella verticale, l’asse della gravità. Su di [essa] si scaricano i pesi, dotati in alto di un valore potenziale elevato, e in basso di uno nullo.[…] Ciò che sta in alto dunque ha maggiore energia potenziale e viene individuato prima dall’occhio.(branzaglia, 2003) Ecco il testone; l’aspetto puerile di questi personaggi è esaltato dalla testa sproporzionatamente grande rispetto al resto del corpo, su di essa, poi, gli occhi si spalancano per chiamarci senza proferire parola, muti, come ci appaiono muti gli animali reali, con cui non condividiamo alcun linguaggio verbale, ma, lungi dall’apparire come imperscrutabili sguardi, essi sono banalizzati e congelati in una espressione artificiale, immediatamente e univocamente interpretabile. Rispettando le più elementari leggi fisiche, il personaggio si forma per rispondere a delle necessità commerciali, giocando sulla sua natura verisimile e quindi sempre credibile. Detto più volte che questi animali antropomorfi risultano fortemente espressivi, analizziamo ora proprio la questione dell’espressione, vera miccia che accende l’empatia. Gli animali antropomorfi contemporanei ritrovano i loro antenati nelle caricature satiriche molto popolari tra il 700 e l’800;

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usi e costumi politici e sociali vengono canzonati attraverso la realizzazione di illustrazioni che mettono in luce l’aspetto animalesco nascosto dietro ad ogni atteggiamento umano. Sapendo che la caricatura si concretizza in un’esagerazione dei tratti somatici ed espressivi, risulta ovvio che, per esprimere gioia e suscitare sentimenti amorevoli, nei nuovi animali i sorrisi devono essere esasperati. Ad una condizione: che il risultato, perfettamente inserito in un contesto economico, si dimostri utile. La semplificazione con cui vengono ripuliti allora gli antichi animali, si traduce in una funzionalità economica per i nuovi esemplari. La tradizione del teatro greco ci insegna che la maschera della tragedia si distingue dalla maschera della commedia per un solo importantissimo dettaglio: la bocca. Se la linea curva labiale è concava, infatti, tutti riconosciamo un’espressione di gioia (per la vittoria sulla forza di gravità, ci dice ancora Branzaglia), al contrario, la curva convessa si traduce in una sensazione di dolore e tristezza. Tolta ogni complessità e, di conseguenza, ogni ambiguità, i nuovi animali vengono rappresentati con musi umanizzati e obbligati ad un sorriso imperituro, perché un volto sorridente segnala una caratteristica psicologica stabile in colui che lo porta (branzaglia, 2003) e, di conseguenza, nel prodotto che presenta.

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3. una parentesi tutta italiana

il carosello La pubblicità è spettacolo. Noi siamo i saltimbanchi dei consumi.

jacques seguela, 1985 Dal 1957 la televisione italiana trasmette un nuovo programma televisivo in cui si succedono una serie di consigli per gli acquisti. Il palinsesto, trasmesso 10 minuti prima delle 21.00, è sicuro di ricevere il maggior numero di sguardi possibili: la famiglia ha finito di cenare ed è riunita con molta probabilità attorno al tavolo della cucina. Carosello si apre con un siparietto, come una sorta di teatro, una mise en abyme dello spettacolo televisivo. Per circa un ventennio dalla prima trasmissione televisiva, le aziende promuovono i loro prodotti attraverso l’animazione. Il format funziona perché il bambino vede un cartone, una storia divertente, che si chiude, al momento del codino, con un “innocuo” consiglio publicitario. “E dopo il Carosello, tutti a nanna” recita un motivetto che invita i bambini ad andare a dormire, con l’immagine del personaggio appena apparso in televisione in testa e, di conseguenza, il prodotto da acquistare ben impresso nella memoria. Le brevi storielle hanno una funzione evasiva, dilettano prima della conclusione della giornata, quindi le si aspetta per potersi coricare senza cattivi pensieri, felici. Soprattutto per il pubblico di più giovane età il cartone animato offre, nella sua struttura e nella dinamica delle forze, la doppia possibilità di un continuo gioco di identificazione e proiezione di sfogo di aggressività su oggetti “transizionali” (i pupazzi) e quindi meno colpevolizzanti (sigurtà, 1968). La storia, segue, come deve essere, una formula ben precisa, basata sulla ripetizione. L’iterazione è indispensabile in ogni messaggio pubblicitario perché permette di raggiungere anche coloro che non cercherebbero spontaneamente l’informazione in essa contenuta, o ritengono di conoscerla già (volli, 2003), offre la rassicurazione del già conoscito e rientra esattamente nella formula delle serie dei cartoni animati, che a loro volta si rifanno a quella letteraria, teorizzata un secolo prima da Vladimir Propp. Il piacere sta nel già noto, in quello che vogliamo e ci aspettiamo accada, fin dal primo momento in cui

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immagine apertura di carosello, anni ‘60. screenshoot

cominciamo a guardare queste brevi storie sponsorizzate. La rivoluzione sociale parte in questo preciso momento, quando per la prima volta il pubblico [viene] sollecitato massicciamente – e con il peso e l’autorità della televisione – una televisione unica, monopolistica, monocanale – ad abbandonare la filosofia della rinuncia e del sacrificio per abbracciare quella del benessere materiale, del consumo, del piacere, della comodità (ballio e zanacchi, 2008).

Va ricordato che siamo in un periodo storico molto particolare, tra la ricostruzione post-bellica e il boom economico. Gli italiani hanno voglia di sognare, perché non farlo con dei cartoni? È indicativo che l’evasione proposta dal Carosello miri ad un target particolare, le donne e i bambini, coloro che riescono ad abbandonarsi con più slancio all’immaginazione, senza alcuna remora o vergogna. La donna vive nella dimensione domestica dove sono consumati e utilizzati i prodotti consigliati, mentre i bambini che guardano la televisione riescono a convincere i genitori a comprare loro ciò che si presenta sotto le spoglie di un pupazzo. Il parallelo con i motivi che stanno dietro al successo di Topolino è lapalissiano: nel 1929 gli americani necessitano di poter evadere dai problemi che li attanagliano; i cartoni del simpatico topo sono epurati da qualsiasi grave difficoltà e per i protagonisti tutto scorre verso un lieto fine garantito. Il format stimola un attaccamento emotivo al protagonista della storia e i pubblicitari ne sono perfettamente a conoscenza; la formula vincente viene presa e applicata all’ambito economico per indurre al consumo.

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4. tre storie di 4.1 calimero animali antropomorfi Il 14 luglio 1963 nasce Calimero. La serata è una di quelle calde ed estive, tipicamente italiane, in cui la gente si riunisce e si attarda davanti alla televisione. D’improvviso entra in scena un nuovo personaggio: con uno stacchetto musicale, una voce maschile introduce Calimero, il pulcino tutto nero. gallina cesira: co-co-co… Son proprio contenta! Uno, due tre, quattro… Quattro? E el quinto dove xeo? Mah… par mi sto ovo el xe un fià indrio de covatura… Ehiiiii!!! Dove and’è così de corsa? Speteme! calimero: Eh... mamma mia, che buio! Mamma, mamma… Dove sei? Mammaaaa, mamminaaaa… Il pulcino si mette in cerca della mamma, ma con mezzo guscio ancora in testa che gli occlude la vista, cade in una pozzanghera e, da bianco candido, esce completamente nero, sporco. calimero: Eh ma che roba!?! Mammaaaa, mamminaaaa… Ehi, ciao, sei tu la mia mammina? cane: Mmmm. Come? calimero: Oh… Cara la mia mamma! cane: Mmmm. Ma piccolo, io non sono la tua mamma. calimero: Oh… Scusa! Mamma, mamminaaaa… Oh… Sei tu la mia mamma? Ehi, dico… Com’è difficile farsi una mamma per noi piccoli! Tu, sei la mia mamma? gallina cesira: No! Guarda che ti sbagli, sa! Mi no go pulcini neri!

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frame spot detersivo ava screenshoot 1963

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calimero: Ma se io fossi bianco, mi vorresti? gallina cesira: Certamente piccolo! olandesina: Cosa c’è? calimero: Non trovo la mia mamma perché sono nero… olandesina: Tu non sei nero, sei solo sporco! calimero: Uh!!! Ava, come lava! Dai dialoghi si evinge che i fratelli Pagot, creatori del fortunato personaggio, mirano ad intenerire le mamme di tutta Italia, le richiamano al loro istinto materno perchè Ava, il detersivo, le aiuta a ritrovare i propri cuccioli smarriti. Ovviamente Calimero funziona e per i detersivi prodotti dall’azienda veneta Miralanza il successo arriva subito. Nino Pagot spiega come si è arrivati all’invenzione del pulcino tra le pagine de domenica del corriere, nel 1965. Tempo fa ci dissero: “che fareste per questo detersivo?” Ragionammo così. Per vendere bisogna interessare le donne: che cosa attira l’attenzione di una donna? I bambini e gli animali. Bene, il prototipo del bambino indifeso è il pulcino. Se lo facciamo triste e disgraziato, suscita maggiori simpatie. Se lo facciamo nero, cominciamo subito a introdurre l’idea che bisogna pulirlo. Se lo facciamo protestare, assecondiamo uno dei più antichi vezzi degli italiani. Se gli facciamo combinare un sacco di guai, gli togliamo il carattere troppo patetico e dolciastro che finirebbe per urtare. C’è, caso mai, il lieto fine pubblicitario che accomoda tutto.

Analizziamo, ora, lo spot secondo lo schema della favola avanzato da Propp. Dei sette personaggi che Propp individua, troviamo: l’eroe: Calimero l’antagonista: lo sporco l’oggetto del desiderio: la mamma e il suo riconoscimento l’aiutante: Olandesina il mezzo magico: il detersivo Schema strutturale generale: equilibrio iniziale: la gallina cova felice rottura equilibrio iniziale: uovo di Calimero si schiude dopo gli altri, lui resta solo. Il piccolo parte, ma scivola nella pozzanghera. peripezie dell’eroe: Calimero vaga con il guscio in testa e tutto sporco

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ristabilimento dell’equilibrio: Olandesina lava Calimero. L’uovo si schiude tardi, così il pulcino, rimasto solo, è indotto al cammino per cercare la mamma, siamo nella fase di manipolazione del personaggio protagonista. L’Olandesina che ristabilisce l’equilibrio della storia, incarica Calimero di competenza, necessaria all’attuazione della performance. L’happy-end risiede nella sanzione positiva, che riconosce al pulcino la buona riuscita della performance: Cesira riconosce Calimero. Il pubblico vede ciò che si attende di vedere, senza delusioni, è appagato dal lieto fine e dalla soddisfazione di non essersi illuso, né sbagliato. Calimero sembra essere sfortunato, ma nella sua triste avventura incontra chi lo aiuta a sistemare la situazione e a raggiungere la persona amata. Il personaggio rientra nel gruppo dei deboli, tra coloro che ricevono le ingiustizie senza meritarle, ruolo in cui chiunque, almeno una volta nella vita, si è immedesimato. Una tesi condotta dalla laureanda Ofelia Ragazzini nel 1965, all’interno di una scuola elementare a Rho, mette in luce che il termine Calimero è passato ad indicare, non solo il pulcino, ma trasfigurato, tutti i deboli. Si può dire che Calimero è un calimero. Umberto Eco vede in questo fenomeno linguistico l’ingresso di Calimero nel campo delle celebrità: quando un personaggio genera un nome comune ha infranto la barriera dell’immortalità ed è entrato nel mito: si è un calimero, come si è un dongiovanni, un casanova, un donchisciotte, una cenerentola, un giuda. Il marketing definisce la modalità più opportuna da seguire per far conoscere una marca e quali sono i procedimenti più redditizi da intraprendere per emergere sul mercato. Le strategie attuate per la valorizzazione pubblicitaria stabiliscono come deve essere realizzato il discorso pubblicitario prima che lo stesso abbia luogo, valutando l’ambiente in cui il prodotto o la marca va ad inserirsi, il target di clientela cui è rivolto/a, i prodotti/marchi concorrenti. Esaminando la pubblicità, si può dire che attraversi tutti i quattro tipi di valorizzazione ideati da Floch: la valorizzazione pratica, perché illustra come il prodotto sia utile per il pulcino, che da nero torna bianco, la valorizzazione utopica, per il riconoscimento finale del legame madre-figlio, la valorizzazione ludica, il suo appeal, inteso come capacità attrattiva, simpatia che diverte il destinatario, e la valorizzazione critica, la voice-over chiude lo spot assicurando un bucato garantito. L’oggetto ambito e fondamentale nella narrazione dello spot è identificabile con la mamma, che Calimero cerca disperatamente. Per raggiungere tale obiettivo, è necessario uno strumento, l’oggetto utile, che s’identifica con il valore d’uso, in questo caso lo strumento è il detersivo Ava. I valori d’uso danno luogo alla pubblicità pratica, cioé quella che si incentra razionalmente su ciò che il prodotto sa fare; i valori di base, invece, si orientano verso la pubblicità utopica o mitica, cioè verso i desideri fondamentali condizionati dagli stili di vita

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1. la retorica classica distingue due possibili modalità di persuasione, una avviene attraverso la commozione, attivando un coivolgimento passionale, l’altra mira a raggiungere il convincimento valorizzando più gli aspetti reali dell’oggetto in sé. Si veda barthes, La retorica antica, Bompiani, Milano,1972.

dell’acquirente (volli, 2003). Nel caso del detersivo Ava, facendo leva sul valore di base, lo spot mira a commuovere1 il target specifico cui mira il prodotto; le mamme entrano in empatia con la storia, vengono richiamate al loro istinto materno, al ritrovamento del cucciolo. Il detersivo permette il riconoscimento del pulcino e, come oggetto magico, si rivela utile, affidabile. Le proprietà immateriali evocate dal discorso pubblicitario riguardo alla valorizzazione utopica si traducono, agli occhi dello spettatore, in proprietà reali del prodotto stesso. 4.2 tony the tiger “They’re grrrrreat!”

tony the tiger Negli anni cinquanta è di moda, anche tra le aziende oltreoceano, promuovere i propri prodotti attraverso l’uso di animali parlanti, che riescono ad interagire con un pubblico eterogeneo attraverso diversi media. In fin dei conti proprio qui qualche anno prima Topolino, ha spianato la strada e ora il character design diventa un fenomeno importante in ambito pubblicitario. La Kellogg’s deve introdurre nel mercato un nuovo prodotto per i palati dei più piccoli: i Kellogg’s Sugar Frosted Flakes, poi rinominati Frosted Flakes. Leo Burnett ingaggia un’agenzia d’advertising perché trovino un personaggio adatto, che porti con sé l’idea di energia positiva, indispensabile per cominciare bene la giornata.

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calimero nella sua tipica espressione in cui dice “è un’ ingiustizia!


Vengono proposti Katy the Kangaroo, Newt the Gnu, Elmo the Elephant, e Tony the Tiger. Tony la spunta sugli altri e riesce ad accaparrarsi tutte le simpatie del pubblico. Dal 1952 Tony diventa l’indiscussa mascotte della Kellogg’s, forse una delle mascotte più conosciute a livello mondiale. L’affabile felino arancione che esce dalle mani dell’illustratore Martin Provensen, inizia la sua carriera con muso che ricorda una palla da football, porta legata al collo una bandana dal sapore tipicamente americano e con la lingua fuori cerca di leccarsi i baffi arruffati. Come spesso accade nelle storie di questi personaggi, nel corso degli anni anche Tony subisce diverse correzioni: abbandonato l’aspetto dell’energico capriccioso, la tigre cresce e il suo viso appare più maturo, ammansito, affidabile ed elegante. Dagli anni ottanta, il mento presenta delle rughe alla Reagan. “W hen America started heading for the health clubs, Tony also got a slimmer, more muscular physique. He’s also risen in stature from a scrawny, cereal-box size pussycat who ambled on all fours to a 6-foot figure with a towering, upright stance”

Si legge in un articolo (http://adage.com/century/ad_icons. html, consultato il 10/01/2011) che presenta le dieci icone dell’advertising. Tony per parlare all’America deve sentirla, somatizzarla. Come accadde a Mickey Mouse, l’animale antropomorfo deve trasformarsi con la società con cui si relaziona, senza però mai perdere le sue peculiarità, cui il pubblico si è abituato ed affezionato. Il percorso di antropomorfizzazione che Tony subisce, coinvolge negli anni settanta anche la sua vita personale. Identificata la sua nazionalità come italoamericana, negli anni 70 viene affiancato anche dai componenti della sua famiglia, due cuccioli, un maschietto, Tony Jr, che avrà fortuna, e Antoinette, la figlia, che invece scomparirà rapidamente come la madre, Mama Tony. Nella timeline della vita di Tony, tra gli episodi che hanno contribuito al raggiungimento dello status di celebrità, troviamo nel 1958, l’incontro con altri famosi animali antropomorfi della casa di produzione Hanna-Barbera, tra cui Huckleberry Hound e Snaggleuss e nel 1974, in occasione dell’anno della tigre per il calendario cinese, Tony viene eletto tigre tra le tigri. Degna di attenzione particolare è la comparsa di Tony su un’intera pagina a colori di life magazine, nel 1953. Nel suo libro the image: a guid to pseudo-events in america, Daniel Boorstin descrive i meccanismi della società mediatizzata attraverso cinque proprietà che un evento deve rispettare per essere considerato come uno pseudo-evento: - Dietro allo pseudo-evento c’è sempre un interesse commerciale - Lo pseudo-evento è sintetico, il che significa che mette

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tony the tiger and ronald reagan

tony the tiger prima e ultima versione grafica della tigre

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adv kellog’s in senso orario 1958 1961 1997 1998

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in scena avvenimenti che vengono considerati reali. Lo pseudo-evento è un fatto. - Gli pseudo eventi non sono né falsi né veri, né giusti né sbagliati. Semplicemente sono. Esistono. Sono realtà più attraenti e meglio costruite. - Gli pseudo eventi sono auto generativi, perché generano, ritualizzandosi, altri pseudo-eventi. - La tautologia è sempre presente in ogni pseudo evento. La comparsa di Tony risponde allo schema: - é mossa da interesse commerciale: Tony è un prodotto commerciale. - é sintetica: è metafora di un fatto, è vista come il fatto. - é attraente (e deve esserlo visto che deve portare all’aquisto) e perfettamente costruita - è autogenerativa e nasce da un precedente pseudoevento. È uno dei dispositivi tipici della comunicazione pubblicitaria. - è ovvia, senza alcun valore informativo Si tratta della rappresentazione di una rappresentazione, quindi di una rappresentazione di secondo livello, che viene recepita come fatto esistente, a sé stante, senza alcun sentore di doppio passaggio attraverso i media. In semiotica si parla di débrayage, o distacco: i testi si manifestano sempre in seguito a procedure di oggettivazione che li allontanano dall’enunciatore e allo stesso tempo anche dall’enunciatario (volli, 2003). Ritorna il concetto di simulacro di cui si era discusso nel capitolo precedente, a proposito di una certa falsa natura, passata per reale. In questo contesto sono i testi pubblicitari a creare simulacri di enunciatore e di enunciatario al loro interno, segni che vi designano gli interlocutori (Volli, 2003). I testi producono realtà e queste nuove realtà vengono ricevute come indipendenti dal motivo per cui sono state prodotte, si allontanano da esso, acquisendo vita propria. Il pubblico presta attenzione a Tony e alla sua vita, semplicemente. Verso la fine degli anni cinquanta il cucciolo, Tony Jr, appare sulle confezioni di Frosted Rice, mentre il tigrone ruggisce dalle pagine delle riviste italiane gq e panorama. La sua fama attualmente è mondiale, se si pensa che sono circa 156 i paesi che mangiano Frosted Flakes. Analizziamo ora un vecchio spot americano in bianco e nero degli anni sessanta. Tony presenta i Frosted Flakes assieme al figlio Tony Jr, che è intento a suonare con difficoltà una curiosa batteria meccanica. Quando i piatti mal comandati dal piccolo lo colpiscono alle orecchie, Tony ammette che l’uomo è più indicato per pubblicizzare il prodotto. La scena cambia: dal set animato ci troviamo dentro ad una vera cucina, in cui un bambino si accinge a fare merenda con i cereali della tigre; la voice-over assicura che basta aggiungere solo un po’ di latte, perché, con il segreto di Mr Kellogg’s, questi

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spot frostred flakes screenshot 1960s

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fiocchi dorati sono ready to eat. Una zoomata sulla scodella ci mostra i cereali luccicare grazie a delle stelline cartoon. Il reale si mescola con l’immaginario. Rientra in scena Tony che chiede se si è pronti a mostrare le energie accumulate con la merenda. La voice-over risponde positivamente, mentre vediamo il ragazzo giocare fuori con un amico; ovviamente sta vincendo il nostro amico, che poco prima ha mangiato una scodella di energia. Il bianco e nero spinge i pubblicitari a trovare un escamotage per far percepire l’energia ruggente che dalla tigre, che in qualche modo la impersona, si trasferisca all’ipotetico consumatore: il bambino scelto per lo spot è alto, biondo e slanciato, ma, soprattutto, indossa una maglia a righe che richiama visivamente il pattern del manto di Tony. Questa strategia metonimica sottolinea ulteriormente il legame che viene a crearsi tra il ragazzo e Tony, infatti, accade frequentemente […] che, il segno connotativo del prodotto non abbia in comune con esso solo un certo significato attribuito (ad esempio alla potenza della tigre e quella [dei cereali, il testo originario del Volli parla di un diverso prodotto merceologico, la benzina, ma l’analisi calza perfettamente con lo spot che qui si sta analizzando] – secondo una modalità basata sulla somiglianza che si può considerare metaforica), ma anche elementi tratti dal piano dell’espressione (colori, forme, abiti, motivi iconologici, rime ecc.) che si basano su una strategia metonimica della contiguità o della parte per il tutto. Questa ridondanza serve a ribadire il legame segnino che si intende stabilire. Lo schema, volendone tracciare uno, mostra una situazione di questo tipo: tigre

bambino

energico ruggente agile atletico capace sicuro forte

energico ruggente agile atletico capace sicuro forte

dove la freccia indica un vero e proprio transfert di significati. Attraverso il consumo del prodotto, come sottolinea la voice-over, maschile e convincente, il bambino acquisisce l’energia necessaria e, in metafora, le qualità che contraddistinguono la tigre. 4.3 foxy un animale sognato da kafka “È un animale con una gran coda, lunga molti metri, simile a quella d’una volpe. A volte mi piacerebbe tenerla in mano, ma è impossibile:

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l’animale è sempre in movimento, la coda va sempre di qua e di là. La bestiola ha qualcosa del canguro, ma la testa piccola e ovale non è caratteristica e ha qualcosa di umano; solo i denti hanno forza espressiva, che li nasconda o che li mostri. Ho l’impressione che l’animale voglia ammaestrarmi; altrimenti, quale scopo può avere ritirare la coda quando cerco di afferrarla e poi aspettare tranquillamente che torni ad attrarmi per balzare di nuovo via?” franz kafka, Hochzeitsvorbereitungen auf dem Lande, 1953

(borges, 2006) Sono innumerevoli gli animali antropomorfi creati per promuovere un determinato prodotto, Foxy è un altro esempio, più recente. La volpina dell’omonima carta assorbente nel logo dell’azienda dorme accoccolata sulla sua coda, che si presenta estremamente lunga, vaporosa, soffice ed avvolgente, come una carezza e, metaforicamente, come la carta. Nel primo spot televisivo della carta igienica, trasmesso dalla televisione nel 1986, una navicella spaziale si reca in un fantomatico pianeta-bagno, da cui chiama a gran voce Foxy. Improvvisamente dal blu scende una scia languida e luminosa come le stelle, che si immobilizza disegnando la sagoma della famosa volpina. La pubblicità a questo punto recita: La carta igienica del duemila è Foxy. Chi può arrivare così in alto? Foxy, la volpe la sa lunga… e morbida.

Dal sito della itc, Industrie Cartaie Tronchetti, l’azienda produttrice, si legge che la volpe, presente in tutti gli spot, […] ha caratterizzato e reso unica l’immagine della marca, dimostrando di possedere, tra i consumatori, un elevatissimo grado di riconoscibilità, comunicando familiarità, simpatia e naturalità. E, ovviamente, morbidezza. Foxy è in grado di rappresentare il prodotto in ogni media, dalla televisione al grande schermo, dalla carta stampata periodica e quotidiana ad internet. E’ riconoscibile, ma versatile. Il blog italiano furrymania.it ospita una serie di post che hanno come tema Foxy, riporto quanto scrive Gringo, utente del blog, il 18 marzo 2010, in merito al difficile reperimento online di vecchie versioni televisive degli spot con la volpe come protagonista. […]Guarda io ci ho già provato e devo dire che tu sei stato quello più fortunato perchè, a parte gli spot più recenti, dei vecchi non ce n’è traccia sul tubo. Uno di cui andavo particolarmente pazzo era quello di ambientazione spaghetti-western (ovviamente) dove un cowboy stile Eastwood entra in un saloon e chiede una birra. Il barista gliela tira, ma il bancone è talmente umido e bagnato che il boccale scivola fuori rompendosi. Allora il nostro pistolero estrae (con la tipica manovra) una confezione da 2 di rotoloni Foxy e con essi asciuga il bancone. Nel finale compa-

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spot foxy screenshot 1986

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re la bellissima volpina, disegnata bene come non mai, con cosce e fianchi da pin-up, mentre abbraccia la sua foltissima coda ornata da una stella d’argento da sceriffa che la rende ancora più sexy di quanto è già. Questa ad esempio non si trova.

L’utente Hypercat risponde: L’ultima versione di Foxy, quella da te citata, prende il meglio delle precedenti versioni, il design più arrotondato della prima e la colorazione più rossiccia della seconda.

[qui viene inserito dallo stesso utente il link all’ultimo spot online sul canale di Youtube. Foxy appare qui solo verso la fine dello spot, è muta e non sembra essere coinvolta in quello che accade al protagonista, un piccolo Mozart intento a scrivere su un rotolo la sua composizione musicale]. A dirla tutta c’è anche una versione 0 che è stata utilizzata una volta sola, nella pubblicità dei Voilà, la prima in assoluto di una lunga serie e in cui aveva un altro design ancora. Oltre a ciò ha anche avuto due doppiatrici differenti. Forse è stata la difficoltà a trovarne ancora a spingere la Foxy a restringere la sua volpina a ruoli non parlati, il che mi suggerisce di dedicarle una fan art in cui solleva un cartello con su scritto: “Cercasi doppiatrice!”, indossando una museruola con aria mesta.

La volpina piace ai bambini, ricordando, se me lo si concede, Lady Marian del celebre lungometraggio robin hood, prodotto dalla Disney, ma seduce anche gli adulti. Inoltre, nonostante risulti essere sensuale e maliziosa, femminile e disponibile, non crea con le acquirenti alcuna sensazione di competizione, anzi, al contrario, ispira complicità. Analizziamo allora anche questa pubblicità attraverso lo schema della favola di Propp. Personaggi: Dei sette personaggi che Propp individua, troviamo: protagonista: la navicella spaziale l’antagonista: lo sporco cosa ricercata: la carta igienica l’aiutante: Foxy Schema strutturale generale: equilibrio iniziale: la navicella fluttua nello spazio rottura equilibrio iniziale: emergenza toilette, manca la carta igienica per pulirsi ristabilimento dell’equilibrio: Foxy scende dal cielo e risolve il problema Come si vede anche in questo spot, la storia si apre con

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una situazione di equilibrio che deve essere ripristinata. Il prodotto da pubblicizzare, però, in questo caso, è rappresentato dall’oggetto cercato, mentre Foxy, la volpina che incarna il brand, è chiamata a risolvere il caso. Ne ricaviamo l’immagine di un’aiutante formidabile, che viene dall’alto, l’unica all’altezza della situazione e al passo con tempi. Discende dal cielo e sotto luce stellare, illuminata da un bagliore bianco e magico -idea di perfetta pulizia-, e lo scenario futuribile della navicella fa da eco visivo a quanto detto dalla voice-over -la carta igienica del futuro-. E’ impeccabile e i prodotti che si presentano marchiati dalla sagoma della volpe sono tra i più venduti in Italia. Dal sito dell’azienda si legge che: Oggi Industrie Cartarie Tronchetti (ICT) è una realtà giovane e dinamica, divenuta uno dei produttori di riferimento per il mercato Italiano come per quello Europeo. L’azienda ha incentrato la sua politica su 3 principi cardine: qualità da leader dei prodotti, efficienza e servizio. La produzione e la trasformazione si avvalgono in Europa di 6 stabilimenti, di cui 4 in Italia, 1 in Polonia (ICT Poland) e 1 in Spagna (ICT Iberica). […] La capacità produttiva globale del Gruppo ICT ammonta al momento a circa 400.000 tonnellate annue, ripartite su 8 macchine di cartiera. La più recente di queste è stata avviata nello stabilimento di Kostrzyn (Polonia) nel Febbraio 2008 ed ha apportato una capacità addizionale di circa 70.000 tonnellate annue. Del Gruppo ICT fa parte anche la Pozzani Disposables, azienda specializzata nella produzione di pannolini per bambini e prodotti per l’assorbenza femminile in puro cotone.

Inoltre andando a vedere come viene presentata la stessa marca, si scopre che: È stata lanciata nel 1982 ed ha acquisito progressivamente un’elevatissima notorietà (oltre il 90%) e una notevole familiarità con i consumatori. Da diversi anni Foxy è stabilmente una delle marche più vendute del mercato italiano con una quota a valore prossima al 9,0%. La strategia che ha consentito questi risultati, poggia su 3 pilastri:

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foxy versione recente della volpina


- alta qualità dei prodotti, che nell’ambito dei loro segmenti risultano sempre ai più elevati livelli di gradimento dei consumatori; - costante innovazione, che ha portato alla creazione di una serie di prodotti unici e riconoscibili; - regolare e solido sostegno pubblicitario, che ha consentito alla marca di svilupparsi anno dopo anno. Un elemento-chiave della strategia è stata anche l’associazione con marchi importanti per specifiche operazioni promo-pubblicitarie. Nella fattispecie è utile ricordare la partnership con UNICEF, che prosegue ininterrottamente da oltre 10 anni. Negli ultimi anni la marca Foxy è stata lanciata anche in Spagna e Polonia, dove sta ripercorrendo lo stesso cammino già sperimentato nel Pese d’origine.

Il sostegno pubblicitario, ottenuto grazie alla creazione di una volpina antropomorfa che piace agli uomini, che suscita l’affetto dei più piccoli e che ben si relaziona con le donne, ha portato l’azienda a ricoprire un ruolo di leader nel settore. Tra l’altro, la scelta della volpe trova sostegno in una lunga tradizione letteraria, che vede questo animale sempre capace ed intelligente. Non possiamo esimerci dal pensare, infatti, ad altre volpi che nel corso dei secoli hanno impresso nel nostro immaginario l’idea che abbiamo in testa del fulvo mammifero. Branzaglia propone una possibile interessante lettura della diffusa associazione volpe-furbizia: guardiamo come vengono rappresentati i tratti aguzzi e spigolosi del suo muso: la figura geometrica più utilizzata, anche nel caso della nostra Foxy, è il triangolo. I vertici acuti ed appuntiti rappresentano l’acume, che riferito agli esseri umani è sinonimo di intelligenza (branzaglia, 2003).

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5. il valore dei nomi

“We are many and will take a moment. Our wisdom will appear to you before we do.”

pensiero sugli animali diffuso tra gli sciamani Osservando gli animali antropomorfi fin qui presentati salta agli occhi la costante determinazione del tipo di animale attraverso il nome proprio del personaggio stesso. In sostanza abbiamo parlato di Mickey Mouse, Bugs Bunny, Foxy, Tony the Tiger, ma pensiamo anche a Donald Duck, Duffy Duck, o il nostrano Topo Gigio… Tutti questi animali antropomorfi hanno per cognome o addirittura in alcuni casi per nome, il termine che specifica il loro essere topo, coniglio, volpe, tigre… Nell’identificazione attraverso il nome dell’animale, andiamo immediatamente a recuperare nella memoria tutta una serie di caratteristiche che, nel corso dei secoli, hanno definito l’idea che abbiamo dello stesso animale. I pubblicitari, rifacendosi ad un bestiario letterario, offrono al pubblico l’immagine di un animale familiare, proveniente dalla tradizione più antica, che conserva, quindi, atteggiamenti e caratteristiche ben consolidate. Anche qui, come accade nelle favole esopiane, l’animale è introdotto attraverso l’uso dell’articolo determinativo, che richiama un’immagine dal forte carattere araldico, tramandato da una favola all’altra. Tony the Tiger è l’archetipo della propria specie e porta con sé, attraverso il nome, tutti i tratti distintivi che lo caratterizzano nella generalità fisiche, morali e psicologiche della sua specie. Mickey Mouse è scaltro, vispo e riesce ad ambientarsi rapidamente in ogni situazione, schivando i problemi come un topo vero farebbe abilmente davanti a degli ostacoli fisici; il suo personaggio risulta così convincente in ogni contesto. Nel cercare un fondamento di base del rapporto uomoanimale, Robert Delort fa riferimento proprio al nome con cui vengono designati i vari animali; tali nomi, scrive l’autore, sono un commento antropocentrico necessario all’individuazione e alla distinzione dell’animale. Le origini possono essere varie, si possono trovare caratteri onomatopeici, vedi il termine francese minou per il gatto, o i nostrani cuculo e upupa derivati dal suono dei loro versi, o il termine spagnolo perro, che deriva dal brrr brrr con cui il pastore chiama il

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proprio cane, giudizi provenienti dai nostri sensi, vedi il caso della puzzola, si trovano poi nomi che esprimono un apparenza, una funzione alla quale l’uomo assoggetta l’animale, è il caso del termine latino musilegus (gatto), indicante colui che prende il mus (topo), o lo spagnolo ternero (vitello), che evoca la sensazione della sua carne al nostro palato. Per gli occidentali cattolici, questo fenomeno nasce tra le pagine della Bibbia, all’interno della quale la creazione degli animali è avvenuta in due tempi; prima in massa ad opera di Dio, nel quarto e quinto giorno della Genesi, poi, singolarmente, ad opera di Adamo, in virtù del nome che questi ha attribuito loro; nome conforme alla natura dell’animale, in quanto determina le sue qualità e i suoi difetti, nel mondo unitario ed antropocentrico tipico della concezione giudaico-cristiana (delort, 1987). Nelle società animiste, sia primitive che contemporanee, agli animali vengono riconosciute un’anima e precise qualità che permettono allo sciamano o all’officiante del rito di interpretare i messaggi naturali. Questi significati nascono dall’osservazione diretta degli stessi, si diffondono tra le comunità più antiche e con il tempo s’imprimono nella memoria collettiva umana, poi, attraverso miti e racconti ci raggiungono oggi, come eco di un retaggio culturale risalente all’originario stato di natura in cui l’uomo viveva, lontano dalla consapevolezza di essere altro, assieme agli animali. Il topo, per esempio, secondo lo sciamano, rappresenta delle caratteristiche ben precise: - sa imparare dalla vita la lezione - è timido - è calmo - è attento ai dettagli - agisce con cautela, ma furtivo - sa guidare bene gli altri nelle scelte - rappresenta la scoperta - è abile nel passare inosservato Lo stesso vale per il coniglio. - astuzia - paradosso e contraddizione - vive del proprio ingegno - è ricettivo agli insegnamenti più nascosti - pensa rapidamente - è umile - è capace di forti intuizioni Il personaggio di Mickey Mouse è perfettamente riconoscibile con lo spirito che viene riconosciuto al topo e lo stesso vale per Bugs Bunny con lo spirito del coniglio. Il personaggio coincide con l’idea dell’animale, che la precede e ne determina la definizione. L’animale che noi prendiamo in consi-

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derazione, può essere pensato e capito solo attraverso la sua rappresentazione, che media tra noi e il vero animale. L’universo in cui viviamo oggi si presenta caratterizzato più di altri da un’integrazione che collega insieme molti aspetti della nostra vita e della nostra cultura, inviando a un’analisi condotta secondo una prospettiva antropologica globale meglio che a una serie di ricerche che tengano separati aspetti, settori e livelli culturali (ferraro, 2001).

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6. il caso del giappone cuties L’immaginario cuties focalizzato dai teen agers giapponesi invade l’Occidente in lungo e in largo.

carlo branzaglia, 2003 It could be a regression that everybody – adult, children, male and female, intellectuals and non intellectuals, Westerners and Easterners – is acting like a child. However, this could be a necessary step to create a new culture for our future.

amaeno kouzou, 1974 Miki Kato, in un articolo comparso sulla rivista eye nell’estate del 2002, presenta l’ossessione tutta giapponese per quelle che lei definisce cute icons, icone che hanno largamente sedotto anche l’occidente e sembrano essere un corposo leitmotif della cultura contemporanea. Nonostante lei non faccia alcun cenno al fenomeno avvenuto in occidente, di cui si è discusso in questa tesi, mi sento di riportare alcuni importanti passaggi che motivano e raccontano l’esperienza orientale e che, ad un certo punto, grazie alla globalizzazione mediatica, hanno dato vita a nuove creature ibride che vivono trasversalmente in tutti i continenti. Secondo la Kato, l’aspetto delle mascotte, tanto amate nel suo paese, nasce dalla più tradizionale cultura estetica giapponese; seppure, di primo acchito, l’affermazione possa apparire alquanto anomala, si tenterà, adesso, di riassumere le motivazioni che l’hanno condotta a formulare questa teoria. L’estetica giapponese è basata su tre imprescindibili capisaldi: la semplicità, l’irregolarità e la temporaneità; peculiarità, queste, tipiche della natura alla quale il Giappone è strettamente legato. Il termine kirei, significa bello, ma implica al contempo l’idea di semplice e di perfezionato, rimanda, quindi, ad un minimalismo di gusto tutto giapponese, ampiamente conosciuto a livello mondiale, ne fa da esempio l’arte dell’ikebana. Le mascotte sono il risultato di una semplificazione simile: le facce vengono ridotte a pochi, semplici elementi, punti e linee per occhi e labbra, e i corpi sono ridotti, attraverso un processo d’infantilizzazione, a poche elementari forme.

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afro ken gadgets 2009/2010

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L’incompletezza suggerisce la possibilità di una crescita nel futuro e permette agli oggetti di rientrare nel naturale, con la loro imperfezione, tipica delle forme organiche. Le mascotte, allora, nella loro ingenua irregolarità, si oppongono alla fredda tecnologia imperante e ai restrittivi obblighi sociali giapponesi, in primis all’utilizzo della divisa. Personaggi come Hello Kitty, Afro Ken e Kyoro-Chan sono prodotti da consumare continuamente ma temporalmente: prikura e gadget di ogni tipo vengono prodotti stagionalmente, secondo stili sempre nuovi ed accattivanti poiché il loro valore ricade proprio nell’essere effimeri. Un determinato animaletto deve necessariamente essere acquistato nello stesso momento in cui esso fa capolino nel mercato, tutti sanno che la sua durata è limitata e presto verrà sostituito da un nuovo stile. Carpe diem, si potrebbe aggiungere. La semplicità è perfettamente rappresentata dagli ideogrammi dell’alfabeto giapponese, i kanji. L’origine antica è sicuramente pittogrammatica, ma l’alfabeto come noi oggi lo vediamo, è risultato di un processo di astrazione e stilizzazione. Il termine ideogramma racchiude in sé il concetto di idea. I giapponesi sanno come trasmettere informazioni attraverso l’impiego di forme visuali, le mascotte rientrano perfettamente in questo modo di comunicare ed è per questo che sono così ampiamente diffuse. Il fenomeno, infatti, non investe solo bambini ed adolescenti, ma abbraccia l’intera popolazione. In Giappone i cosiddetti character sono ovunque, dai poster, alle insegne tridimensionali, ma soprattutto non sono legate alle attività rivolte ai giovani, ma si possono incontrare per farmacie, negozi, stazioni di polizia, cantieri stradali, alimentari… È buona abitudine, per qualsiasi giapponese, essere autoironico, lo scherzo e la simpatia sciolgono il ghiaccio e permettono di relazionarsi in maniera più intima anche con chi si conosce appena. È importante essere sorridenti, disponibili. Indossare un abito con impresso il faccione di Afro Ken o averne un pupazzetto appeso allo zaino significa essere amichevole, divertente, non pretenzioso. La Kato continua, introducendo il termine amae con il quale indica una prerogativa tutta infantile di comportarsi, apprezzata dall’intera società; quando si vuole dimostrare rispetto e considerazione nei confronti di qualcuno, l’amae lascia che sia questo a scegliere per lui, a condurlo. “not having an individual voice is considered a traditional virtue in Japan and this attitude is based on the idea of amae” (kato, 2002). Questo comportamento infantile si traduce nell’abbigliarsi, ma anche nel comportarsi come farebbe un bimbo; moltissime donne giapponesi allora si accingono a tradurre questa idea vestendo come fossero bambine. L’uomo sa e apprezza questa sorta di subordinazione consapevole. Ecco che, adesso, possiamo fare riferimento all’essere kawaii, che significa, a grandi linee, essere innocente e privo di tratti negativi, e evitare al prossimo inutili quanto gratuite emozioni provocate dalla vista di espressioni tristi.

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idle idols: masamu kun insegne ristoranti carne maiale satolo chan

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kawaii maruneko portachiavi kawaii cute bamboline in gomma

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Le mascotte con le loro forme arrotondate, danno idea di mitezza e tenerezza. Le ragazze giapponesi si ricoprono di gadget che raffigurano le loro mascotte per essere kawaii, ma soprattutto per rispondere ad una crescente alienazione che la società di massa impone loro. Scegliendo il loro animaletto preferito, esse possono, in un certo modo, uscire dall’anonimato cui la produzione di massa le obbliga, entrando a far parte di un gruppo, dando alla propria voce una forza corale. Lo streetstyle diffusosi ad Harajuku1, ma conosciuto in tutto il mondo, fa parte di questo tentativo di realizzazione ed identificazione personale mediante la partecipazione ad un gruppo. I rapporti umani sono tenuti assieme attraverso una fitta rete di contenuti virtuali, che però si presentano come già portatori di significati e quindi immediatamente recepibili. Le mascotte risultano quindi comode, rapide ed efficaci. Ecco perché tutta la società giapponese comunica attraverso questi personaggi tridimensionali, come dimostra il libro idle idol, una raccolta realizzata da Edward e John Harrison. Il titolo fa riferimento alla loro staticità, because the statues are generally motionless, sitting or standing still as people go about their lives. Lo shintoismo, la religione tradizionale giapponese, riconosce la presenza di un’anima in tutto l’universo, esseri inanimati e viventi, animali e uomini. Nei templi, lungo le strade, nei cimiteri è diffusa la presenza di statue che rappresentano la divinità, le jizo, che hanno una funzione protettrice; gli Harrison vedono in questo fenomeno, la storica propensione dei giapponesi alla figurazione tridimensionale di un concetto, che in tempi contemporanei assume anche una valorizzazione atea, ma, non per questo, di minore rilevanza. 6.1 cuties. sono dappertutto E’ palese, Hello kitty, la gattina nata originariamente in Giappone, imperversa, in realtà, oggi, nell’intero pianeta. I prodotti che la ritraggono ricoprono qualsiasi campo merceologico: dalla cartoleria alla gioielleria, dall’abbigliamento agli elettrodomestici, dai mezzi di trasporto privati ai prodotti riservati ai pets. Seppure moda peculiarmente femminile, essa è riuscita a trovare i favori tra diverse fasce d’età: molte donne adulte occidentali, infatti, si addobbano con oggetti che presentano la gattina dal fiocchetto rosa, senza prestare attenzione all’aspetto infantile che questo atteggiamento evidenzia. Il personaggio nasce dall’antica tradizione dell’estetica giapponese, basata, come abbiamo visto, sul principio del kirei, ma presenta novità interessanti rispetto all’animale antropomorfo conosciuto in occidente fino ad oggi. Innanzitutto gli elementi geometrici che la definiscono, in realtà, non la definiscono.

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1. cito da Wikipedia: Harajuku (alloggio nel prato) è il nome comune della zona circostante la stazione di Harajuku, sulla linea Yamanote, a Shibuya, uno dei 23 quartieri speciali di Tokyo. L’area è universalmente nota per essere una fucina di stili di strada e le tendenze giovanili estremamente innovative.


harajuku ragazze kawaii in harajuku

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Gli occhi sono due semplici punti, secondo un estremizzato processo di semplificazione. Il naso è figurato con una circonferenza, un piccolo naso “a patata”, tondeggiante, come quello dei bambini. La bocca manca. Hello Kitty non sente, non prova alcuna emozione, quindi non esprime nulla. La sua faccia, ridotta ai minimi termini, è in grado di assorbire lo stato d’animo con cui noi la guardiamo, proiettandoci di riflesso noi stessi. Il paradigma fisionomico e la decifrazione patognomica sono tenuti lontani attraverso l’eliminazione dei segni restituenti qualsiasi eventuale passione stereotipata. Ogni volta che ne sentiamo il bisogno, possiamo scappare dalla realtà con lei. Lei non ci obbliga ad essere felici, né ci abbandona qualora ci sentiamo tristi. È una compagna silente, ma sempre presente. L’amica perfetta che non ha pregiudizi e non giudica – non può farlo – ma che semplicemente, nel suo aspetto, suscita sentimenti di tenerezza e, immediatamente, ci fa sentire sicuri e cullati, riportandoci metaforicamente direttamente al grembo materno. Parafrasando Fabbri1 possiamo dire che Hello Kitty si presenta esclusivamente con una faccia, ma è totalmente priva di viso e ancor più di volto, non è orientata. Su di lei non trovano spazio le espressioni che con la tradizione mimica si sono immobilizzate in segni iconici ben precisi. La mancanza di tratti significanti nella rappresentazione del muso di questa gattina, asseconda l’inesistenza di narrazione che contraddistingue i nuovi personaggi animati: gli stati d’animo, espressi attraverso smorfie di piacere o dispiacere sono da sempre strettamente connessi all’esistenza, alla partecipazione individuale alla vita terrena, il character design odierno propone, invece, personaggi bidimensionali e tridimensionali che, pur derivando dai loro antenati protagonisti di cartoni, fumetti e videogiochi, essi sono trasportati attraverso la rete del virtuale, […] hanno assunto il ruolo di un linguaggio transculturale privo di sintassi o alfabeto [anche faccialeespressivo]. [Come] logotipi, i personaggi operano attraverso l’astrazione e raggiungono indistintamente giovani e adulti. […] I personaggi sono in qualche modo slegati dalla narrazione: possono avere un ruolo in una storia, ma esistono di per sé, immersi o meno in un mondo-scenario graficamente coerente (fornari, 2006). L’invenzione dei nuovi personaggi è un’esteriorizzazione dell’ornamento cui faceva riferimento Barthes. Rifuggita la natura, ne abbiamo creato un fake che esiste di per sé, non necessita d’altro se non di una proiezione. L’altra faccia dell’iper-reale consiste nell’astrazione della natura, nella perdita della figurazione. Siamo entrati nel mondo dell’inorganico. Ecco che, a poco a poco, i tratti fisici di questi personaggi si allontanano dall’aspetto animale, come da quello umano e si presentano come quasi-forme, seppure ancora antropomorfe. Forme prime, tra l’organico, e il geometrico.

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1. cito da Fabbri, Difformità del viso, 1995. Da AAVV, identità-Alterità figure del corpo, Biennale di Venezia, Esposizione Internazionale d’arte, Marsilio, Venezia, 1995 “Faccia, volto, viso non sono sinonimi. Variano in modo non riducibile alle categorie stilistiche che le dispongono sulla scala di un valore: più popolare è la faccia, poi il viso e, più elevato, il volto. [...] Sono parole con diverse fisionomie. Il viso è un’animazione della faccia e il volto il suo orientamento di relazione. La faccia, più prossima al portamento, è una superficie d’oscrizione dei tratti offerti allo sguardo altrui. Anche la faccia vede e di dispone [...], ma il viso - e ancora di più il volto - sono maggiormente orientati: guardano all’altro nell’intensificazione della sinergia o dell’allergia.”


Il passaggio avanza di pari passo col futuro di androidi e di realtĂ virtuale verso cui ci stiamo muovendo: liberati dalle incombenze del reale naturale, ci piace credere di poterci risolvere in una nuova realtĂ totalmente artificiale.

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hello kitty pupazzetto in gomma



7. uomini con la pelliccia

furry Nel 1973, con l’uscita del cartone d’animazione Disney robin hood si tende a far risalire l’inizio del fenomeno furry, ma è solo dopo la comparsa di Albedo, un personaggio del fumetto disegnato dall’artista Steve Gallacci intitolato albedo anthropomorphics che si definisce meglio il fenomeno. Da qualche decina d’anni, inizialmente in Nord America e Canada, ma ora anche in Giappone e in Europa, ha preso vita un movimento underground che si interessa di tutto ciò che concerne il mondo dell’animale antropomorfo, definito come furry. Il termine furry deriva da fur, con cui in inglese si indica la pelliccia e rimanda immediatamente agli animali pelosi, ma per estensione, si è soliti indicare anche quelli ricoperti da squame o piume. Il furry è un animale che proviene da una lunga tradizione letteraria e che, con il tempo, ha raggiunto un elevato grado di antropomorfizzazione. Esso vive in società perfettamente organizzate che rispecchiano quelle umane, parla e ragiona come un uomo. Internet è stato indispensabile per la diffusione del mondo furry, il furry fandom, cioè la comunità di fans che ruota attorno ai furry. Da avatar per giochi di ruolo e chat ora questi animali antropomorfi sono fonte di ispirazione e vengono organizzate convention in cui si parla di furries, si scambiano esperienze sul tema e ci si traveste. La convention più famosa si tiene ogni anno in California ed è chiamata ConFurence. Colui che riveste i panni di un furry, sentendosi vicino a un determinato animale, viene definito anch’esso furry e, seppure non sempre, capitano casi in cui si perda il contatto con la realtà e si preferisca vivere liberando la propria animalità attraverso il travestimento anche nella vita di tutti i giorni. In internet si trova diverso materiale a riguardo e non mancano testimonianze e interviste come quella tenuta da Amy Coombs a Adam Riggs su www.theregister.co.uk. Riggs è un programmatore di computer che lavora a Silicon Valley, dove risiede la più numerosa comunità di furries. Dopo essere stato ratto e panda, ora veste i panni di un vaporoso procione blu. Secondo Nicodemus – questo il nome con cui è conosciuto tra i suoi amici furry – ci sono tantissime persone che non si sentono a proprio agio con il loro corpo, a volte è questione di genere, altre di corporatura… Essere

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furry significa risolvere la discrepanza tra l’animale che ci si sente imprigionato dentro e il corpo con cui siamo venuti al mondo. Significa trovare un modo semplice per entrare in relazione con altre persone, se normalmente si trovano delle difficoltà nel farlo. Quando si parla di queste persone, le si dipinge spesso come affette da problemi di natura sessuale, è diffusa l’idea che le convention abbiano ragione d’esistere nella liberazione di istinti sessuali altrimenti repressi; non tutti, effettivamente, negano. Ma i costumi, si legge ancora nell’intervista, sono molto costosi e delicati, sporcarli di sudore o di sperma può rovinarli; ecco perché solo alcuni sono disposti a farlo. Durante questi incontri vengono allestite delle sale apposite in cui chi sta soffrendo di caldo può per un attimo liberare la propria testa, togliere la maschera e bere qualcosa con altri amici. Costruirsi una fursuit richiede molto tempo, ma comprarne una ben realizzata può superare anche i 2.000 €. In alcuni casi si parte riassemblando travestimenti di mascotte sportive, mentre in altri casi vengono aggiunte sofisticate parti elettroniche che permettono il movimento di palpebre e mandibole. Chiude l’intervista un certo Howling che sostiene che i furries siano persone che normalmente passano molte ore da soli a giocare online a Word of Worldcraft, secondo la sua esperienza essere furries è un modo come un altro per uscire di casa e farsi qualche nuovo amico. Una volta indossati i panni di un animale, ci si sente liberi si potersi esprimere con meno remore e non manca chi palesa le proprie inclinazioni sessuali. Per accontentare i furries eterosessuali, omosessuali e bisessuali si è sviluppata una pornografia ad hoc con degenerazioni che toccano anche la pedofilia: sotto l’acronimo yff, per esempio, su youtube si riescono a trovare video che nascondono nel mezzo della loro durata alcuni frame in cui appare una Young Fuckable Furry, spesso sottomessa e sofferente. Il termine non va confuso con il più innoquo yiff, con cui invece si indica, più in generale, il sesso in ambiente furry e che deriva dal verso emesso dalle volpi quando si accoppiano.

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conclusioni



Questa tesi è nata dall’esigenza di ricostruire il percorso attraverso cui gli animali sono stati portati da uno stato di natura al tempio di glorificazione della merce, il supermercato. L’antropomorfizzazione dell’animale e la sua tipizzazione in tratti riconoscibili sono modi attraverso cui l’uomo semplifica l’altro e sé stesso, in un processo di proiezione per cui trasferisce le sue qualità nell’altro da sé, per guardarsi meglio. Come si è raccontato nelle prime pagine di questa tesi, Pasifae, moglie del re di Creta Minosse, incapace di resistere al fascino di un toro, si fa possedere dallo stesso nascosta dentro una scultura di legno dalla forma di giumenta; una delle figure più celebri della mitologia classica, il Minotauro, nasce dall’unione tra uomo e animale e nelle sue fattezze ne incarna l’aspetto ibrido. L’animale più celebre comparso nella Bibbia, il serpente, tenta Eva, e induce il primo uomo e la prima donna a peccare, esso è l’incarnazione stessa del demonio e di tutte le forze del male. Racconti mitologici o biblici, letteratura favolistica e tradizione orale fanno oscillare il rapporto uomo/animale e quest’ultimo, di volta in volta, viene visto come dotato di anima, o come bestia, metafora di un’istintualità da cui l’uomo vuole rifuggire. Secondo Bronislaw Malinowski, il mito conferma, giustifica e dà valore agli usi, alle istituzioni e alle credenze della comunità sociale, in altre parole, il mito racconta agli uomini i perché della realtà e nella sua narrazione lascia ampio spazio all’animale, con cui l’uomo vive e si racconta da sempre. Nelle teorie di Levi-Strauss sul totemismo, gli animali hanno dato sostegno al discorso strutturale. La natura della conoscenza umana si basa su una griglia formale all’interno della quale è possibile introdurre nuovi contenuti, che vengono ordinati in modo del tutto convenzionale. La nostra natura è simbolica. L’attribuzione di poteri sovrumani all’animale nelle religioni pagane, si trasferisce, nella contemporaneità, nella figura del supereroe, forma d’avvicinamento dell’uomo alla divinità infusa all’animale attraverso l’attribuzione di valore totemico. È ancora mito, è il nuovo mito. Nel presente, miti e favole coesistono fianco a fianco, scrive Levi-Strauss in un intervento tra le pagine di morfologia della fiaba, di Vladimir Ja. Propp, […] mito e favola sfruttano una sostanza comune, ma ognuno alla sua maniera. La loro relazione non è di anteriore e po-

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steriore, da primitivo a derivato, ma è piuttosto una relazione di complementarietà. Le fiabe sono miti in miniatura. […] E ancora, nelle nostre società contemporanee, la fiaba non è un mito residuo, ma certo soffre di essere rimasta sola. La scomparsa dei miti ha rotto l’equilibrio e, come un satellite senza pianeta, la favola tende ad uscire dall’orbita e a lasciarsi captare da altri poli d’attrazione. Nel sistema economico capitalistico la fiaba è stata ridotta a gravare attorno alla comunicazione pubblicitaria, che inventa nuove realtà autonome, rispetto ai contenuti originali. I vecchi animali dei miti rinascono come animali economici, ibridi antropomorfi che perdono ogni connotazione mitologica antica e seducono col sapore di nuovo, alimentando in noi il desiderio perenne e inappagabile di merce. I nuovi animali “totemici” hanno in sé l’anima stessa del commercio; ci attirano e ci inducono a comprare, mostrandoci a specchio, coi loro sorrisi, uno stato di perenne, gioiosa soddisfazione. L’uomo prova piacere quando davanti a sé vede un animale umanizzato, risultato culturale finale di un lungo processo iniziato con l’addomesticamento. La deterritorializzazione degli animali veri, avvenuta con le prime esperienze di allevamento e affermatasi in seguito al fenomeno industriale, ha trasformato l’animale in un prodotto e ha reso mobile lo stesso termine animale, che, oggi, è entrato nel sistema di comunicazione risemantizzato, come avviene ad ogni oggetto proveniente dal sistema di produzione di massa. L’animale vero è stato catturato e introdotto in nuovi ambienti artificiali per rispondere ai desiderata dell’uomo: lo troviamo nell’industria alimentare, addomesticato all’interno delle nostre abitazioni, esposto nei parchi zoologici (da vivo), nei musei naturali e appeso alle pareti (tassidermizzato). Quest’ultima pratica è molto interessante, perché si fa metafora di uno svuotamento di contenuti, per una risemantizzazione artificiale. Le mascotte animali che compaiono per promuovere i prodotti del supermercato, colmano il vuoto che ci separa dalla natura e ne simulano una nuova realtà; esse sfruttano la loro capacità di alimentare il desiderio d’acquisto nei bambini e negli adulti - nostalgici della propria infanzia. Il termine simulacrum, introdotto dal francese Baudrillard, si riferisce ad una assenza, ma la nasconde, dando per vero il contrario: [il simulacro] è la verità che nasconde che non ce n’è. Il simulacro è vero (baudrillard, 1980). Secondo un principio di spettacolarizzazione, a questo punto, gli animali antropomorfi impiegati come mascotte, devono esprimere emozioni immediatamente comprensibili ed empatiche, inducendo l’uomo all’acquisto. Nell’animale antropomorfo le emozioni sono, quindi, facilmente interpretabili: gli occhi di Mickey Mouse, come abbiamo visto, non danno alcuna vertigine; la sensazione è esattamente opposta a quella provata dal poeta Rilke davanti allo sguardo imperscrutabile di un animale vero. Come si è descritto analizzando la costruzione del volto del character,

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la realizzazione dell’espressione patemica, si concretizza in un’esagerazione dei tratti somatici, che, nel caso degli animali che compaiono nel packaging dei prodotti da promuovereval supermercato, vanno ad esprimere una gioia esasperata. L’animale antropomorfo è una generazione artificiale che porta con sé la storia archetipica dei termini contrari uomo/ animale e, più in generale, cultura/natura. La tesi ha cercato di raccontare questo percorso di culturalizzazione e industrializzazione dell’animale, cercando conferma nella mitologia, nella letteratura, nel cinema e nel fumetto.

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pigs Big man, pig man, ha ha, charade you are You well heeled big wheel, ha ha, charade you are And when your hand is on your heart You’re nearly a good laugh Almost a joker With your head down in the pig bin Saying ’keep on digging’ Pig stain on your fat chin W hat do you hope to find? W hen you’re down in the pig mine You’re nearly a laugh You’re nearly a laugh But you’re really a cry. Bus stop rat bag, ha ha, charade you are You fucked up old hag, ha ha, charade you are You radiate cold shafts of broken glass You’re nearly a good laugh Almost worth a quick grin You like the feel of steel You’re hot stuff with a hat pin And good fun with a hand gun You’re nearly a laugh You’re nearly a laugh But you’re really a cry. Hey you whitehouse, ha ha, charade you are You house proud town mouse, ha ha, charade you are You’re trying to keep your feelings off the street You’re nearly a real treat All tight lips and cold feet And do you feel abused? ...!...!...! You gotta stem the evil tide And keep it all on the inside Mary you’re nearly a treat Mary you’re nearly a treat But you’re really a cry.

roger waters, david gilmour, 1977



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fonti iconografiche


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pg 78 http://spazioinwind.libero.it/emanueleagrimi/Collezione/Immagini%20thumbs/Kinder%20sorpresa%202.JPG

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la pantera (nel jardin des plantes, parigi) Davanti allo scorrere delle sbarre, il suo sguardo
 è diventato così stanco, che non trattiene più nulla.
 Per lei, è come se ci fossero migliaia di sbarre,
 e, dietro a migliaia di sbarre, nessun mondo. Il morbido procedere dei suoi passi, agili e forti,
 che si riavvolgono su cerchi sempre minori,
 è come una danza di forze intorno ad un centro,
 in cui, assopita, sta una grande Volontà. Solo a volte si solleva, senza rumore, 
 il sipario delle pupille. - E allora un’immagine vi entra,
 e attraversa il silenzio teso delle membra –
 e, nel cuore, muore.

reiner maria rilke, 1902



il carattere usato per il testo è lo swift, disegnato da Gerard Unger, 1987 La SwiftŽ Font Family fa parte della Linotype Originals. Le didascalie e le titolazioni sono state composte con il carattere gill sans disegnato da Eric Gill, 1931 Prodotto dalla Monotype Finito di stampare in marzo 2011, presso Papermedia, Treviso.


Alessia, Enrico, Federica, Francesca C., Francesca S., Giacomo, Martina, Matteo, Paul, Silvio, Sergio, Valeria B., Valeria M., grazie.



Questa tesi è nata dall’esigenza di ricostruire il percorso attraverso cui gli animali sono stati deterritorializzati fisicamente e concettualmente da uno stato di natura, al tempio di glorificazione della merce, il supermercato. L’impiego degli animali nella promozione dei prodotti è una nuova forma di relazione tra la natura e la cultura che spinge la natura alla sua forma più culturalizzata. L’antropomorfizzazione dell’animale e la sua tipizzazione in tratti riconoscibili sono modi di semplificazione e avvicinamento agli schemi culturali umani. L’animale, nel corso della nostra storia, è stato sottoposto ad un processo di culturalizzazione, di industializzazione, quindi di risemantizzazione. La tesi ha percorso a ritroso le tappe necessarie alla contemporanea rappresentazione dell’animale antropomorfo impiegato come mascotte sul packaging dei prodotti in vendita al supermercato, partendo da quei momenti in cui la relazione uomo-animale non aveva ancora nulla a che fare con la cultura del consumo. Dall’addomesticamento all’allevamento, l’animale è divenuto mediatore tra il mondo degli oggetti e il mondo degli uomini, e il processo ha coinvolto anche la sua rappresentazione, trasformandolo in testimonial o mascotte. Essendo il personaggio animale un’incarnazione di valori costruiti attraverso una narrazione precedente, questi valori vengono trasferiti dal personaggio al brand e dal brand al prodotto. Per “umanizzare” la merce la si “animalizza”. L’osservazione eseguita spazia attraverso diversi campi, dalla rappresentazione fornitaci dalla tradizione letteraria in cui emerge quella favolistica di matrice esopiana, passando per le forme caricaturali dell’illustrazione e del fumetto, che hanno fortemente contribuito alla tipizzazione dell’animale.


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