Una normale giornata in ufficio Ugo aprì il volume distrattamente, incuriosito dalla sua copertina colorata e morbida, lasciò scorrere le pagine a ritroso rallentandole con il pollice della mano sinistra, lentamente. Un gesto comune per chi come lui passava ore nelle librerie attratto da tutto e niente, alla ricerca di qualcosa che nemmeno poteva descrivere, quel tormento strambo che spinge alla ricerca di conoscenza, quella curiosità malcelata nei discorsi confusi e spesso troppo lunghi che trova sfogo nelle attività più disparate. Quanti ne aveva già letti di libri e quanti avrebbe desiderato leggerne alla velocità della luce, senza però appesantirsi. Si fermò su una pagina a caso colpito soprattutto dal titolo del racconto un po’ più lungo degli altri che aveva visto scorrere davanti ai suoi occhi: “Introspezione semiseria nell’universo lavorativo postmoderno”. Che significa? si chiese un po’ perplesso, cosa vorrà mai dire? Iniziò a ragionare come se stesse parlando con qualcuno e ci scommetterei che qualche frase gli sfuggì ad alta voce, attirando l’ilarità e gli sguardi incuriositi di altri sfogliatori inguaribili di libri. Povero Ugo, a volte era ridicolo e ispirava tenerezza e compassione, a volte era anche troppo serio e suscitava antipatia. Strano essere, quasi sempre impacciato e mai veramente a suo agio, sempre fuori posto e fuori dal tempo sembrava vivere la vita di altri. Cerchiamo di andare avanti un po’ per volta si disse: “introspezione” mi sembra chiaro però introspezione in ‘un’altra cosa’ mi sembra ben poco chiaro, un vero gioco di parole, veramente strano. “Semiseria” penso si possa comprendere, sempre che non sia un altro trabocchetto, del resto è molto particolare anche la copertina di questo libro con tutti questi giochi geometrici di mattoncini colorati. “Universo lavorativo” direi non lascia dubbi, credo proprio parli del lavoro in genere, dei vari tipi di occupazione, certo che introspendere in un universo lavorativo… mah! “Postmoderno”. Postmoderno collegato al mondo del lavoro non lo capisco, mi sento quasi
preso in giro, suona strano. Come avere a che fare con qualcosa di non stabile, poco chiaro, come un bosone, particella inafferrabile alla quale nessuno ormai più crede, o forse si? C’è qualcuno li fuori che ci crede? Perché, se ci sono, dove sono tutti quanti? Mi sento osservato, qualche bosone deve esserci. Ho deciso, lo prendo. Mi sono sempre piaciuti i libri con la copertina morbida, si possono sfogliare più facilmente, sono più leggeri, non disturbano nelle borse e soprattutto quando ti addormenti ed il volume inesorabile precipita sul viso provoca meno danni avendo gli spigoli che si piegano. Vado verso la cassa ché ormai si sta facendo tardi, e non mi dispiace nemmeno il titolo anche se è tutto strano anche lui: “Storicamente”. C’è freddo fuori, quasi buio e riflessi bagnati sulle vecchie pietre, luci colorate vi si riflettono come una giostra immobile. Anche un po’ di vento, però almeno non piove più. Quando era entrato in libreria c’era ancora il sole mentre adesso sentì sul viso l'ultimo soffio di vita del giorno che va, tra poco la sera e il buio. Ugo non era il tipo che si faceva intimidire da un po’ di aria fresca e umida, di solito non vi badava affatto immerso com’era nei suoi pensieri intrecciati in mille modi, come un cestino di vimini. Si avviò in fretta attraversando la piazza semideserta con il suo bel libro nuovo sottobraccio e già si immaginava quali bizzarri racconti avrebbe letto una volta giunto a casa. Il titolo del libro e soprattutto quello del racconto che aveva visto sfogliando il volumetto lasciavano ampio spazio all’immaginazione. Arrivò a casa ancora fantasticando tra sé e sé dei mille possibili risvolti di una serie di racconti immaginari, lasciati liberi di scorazzare sui prati della fantasia senza inutili barriere, cancelli e diavolerie simili. Tanto, si diceva spesso, è inutile un cancello. E’ vero che nessuno può uscire ed il tuo gregge è salvo ma è anche vero che nessuno può entrare, per fare entrare qualcosa è inevitabile che prima o poi qualcos’ altro scappi all’apertura del cancello. Sempre immerso nelle sue assurdità si versò una birra e si mise sul divano pronto ad affrontare la nuova lettura. Pensava
alle sfumature del titolo. Storicamente. E sembra di avere detto niente. Ma non è così, con un simile inizio si spalanca un’abisso, tutto un mondo ritorna a nuova vita anche se sempre la stessa. Quante frasi si possono iniziare in questo modo, quasi una minaccia, come per dire “preparati a sentire un’altra favola”. Ed eccovi serviti. Allora, guardiamo l’indice, voglio iniziare con quel racconto dal titolo così strampalato, ormai mi hai incuriosito. Vediamo un po’… pagina 64 eccoti trovato! Leggiamo. Introspezione semiseria nell’universo lavorativo postmoderno E’ come una nuvola, tutto avvolge nella nebbia biancastra, le menti si confondono ipnotizzate da quel suono continuo e monotòno. Parole si rincorrono beandosi soavemente del loro suono riflesso dalle pareti, lodandosi della loro eco profonda. L’oratore continua imperterrito incurante della noia generale e dei gesti d’ilarità provocati dal suo monologo. Qualcuno guarda il telefono distratto sperando squilli presto, un altro attraverso le veneziane con lo sguardo atterrito segue il rincorrersi delle nubi, chi ancora gioca con i capelli continuando a ripetere gli stessi gesti, disegnando cerchi con l’indice destro guardando il nulla e sognando il mare, le vacanze, le gite in bici... Tutti davanti al monitor del PC con non so quale programma in esecuzione, forse non è nemmeno acceso, forse già in stand-by ma nessuno sembra accorgersene. Che sta dicendo? Qualcuno dal corridoio domanda distratto sottovoce. Boh! Risponde debole una voce seminascosta dietro la porta spalancata. Io non lo capisco a volte, sta parlando da un pezzo di quanto si salta, di salti di quanto o qualcosa di simile, non ne sono sicura. Ieri ha attaccato una storia ancora più incomprensibile: delle piccole particelle che cadono in un buco e poverine non riescono più ad uscirne, e deve esserci davvero buio in quel buco, mi sembra di capire che è tutto nero li
dentro, chissà che freddo! E succedono cose strane che non so spiegarti adesso e nemmeno ricordo le parole esatte ma non mi piacerebbe trovarmi vicino ad un buco così. Spero di non imbattermi mai in qualcosa di simile per strada quando sono in auto, mi è parso di sentire che se ne trova uno grande in Svizzera, ma tanto io vado al mare e credo proprio di evitarlo! Ma cosa succede con queste buche? Possibile che non riescano mai a riparare le strade? Sempre così quando si avvicinano le ferie iniziano i cantieri, le code, i rallentamenti e gli incidenti dei curiosi della carreggiata opposta! Non so bene cosa succede, ti ho detto che non so spiegarmi bene in queste cose, però se non ricordo male c’è il rischio di rimanere schiacciati da qualcosa di grave, molto grave, e dev’essere qualcosa di veramente pesante visto che mi diceva si sarebbe fermato anche il mio orologio! Davvero? Me c’è il rischio di rompersi le ossa! Io mi informerei bene prima di mettermi in viaggio. Non ti preoccupare, non passo per la Svizzera andando al mare e qui in Italia sembra non ci siano ancora buche cosi grosse e scure. Intanto l’oratore imperturbabile, inarrestabile, insensibile verso la noia altrui, continua la sua esposizione delle verità fondamentali dell’esistenza. Almeno della sua. E sarebbe andato avanti così per chissà quanto tempo se non fosse stato che, come un angelo salvatore, il suo telefono iniziò a vibrare. Buongiorno, in cosa posso servirla? Silenzio. Pronto, buongiorno, posso esserle utile? Di nuovo silenzio. Un po’ perplesso, un po’ preoccupato e un po’ seccato l’oratore fissa il display del telefono per alcuni interminabili istanti. E dire che sono sicuro di aver risposto, non ho sbagliato tasto, ho premuto il verde, dev’essere caduta la linea. Dunque, dov’ero rimasto?
Le speranze crollano, nessuno è pronto ad affrontare il secondo tempo, il secondo atto, il colpo di grazia di un discorso che può riempirti tutta la mattina, e non solo… Gli sguardi si incrociano cercando complicità, un sistema per creare un diversivo, la finta telefonata non ha dato l’effetto sperato, occorre qualcosa di più energico per interrompere il fiume di parole. All’improvviso il miracolo! Quando ormai la strage sembra inevitabile ci pensano la natura e l’imperizia dell’uomo a creare il diversivo. Dapprima lentamente, poi sempre più insistente un rumore attira l’attenzione dell’esausta platea, un rumore ritmico, il ticchettìo inconfondibile di una goccia d’acqua che cade. Il rumore diventa sempre più pressante, altre gocce si uniscono al coro, scatta la ricerca che interrompe il monologo con disappunto dell’oratore che deve cercare un altro argomento per monopolizzare l’attenzione. La ricerca dura pochissimo, il colpevole viene subito individuato, dal soffitto della saletta accanto agli uffici un’infiltrazione sta facendosi strada. Ecco un secchio, uno straccio, il mocio, spostiamo il tavolo si, anche le sedie. No, non accendere la luce, e se prendi la scossa? Anzi spegniamo tutto, salviamo i file e stacchiamo anche il fax, non vorrei si interrompesse la linea del telefono! Perché non ci prendiamo mezza giornata di ferie? Serve un estintore? Ma non dire assurdità, è acqua! Poi gli estintori dove sono? Non ne vedo da mesi, sono proprio estinti, adesso capisco perché li chiamano così. Si è vero, è solo acqua, però l’omino del tetto la settimana scorsa ha detto che la pioggia e la neve si infiltrano sotto le tegole quando c’è vento da ovest. Cosa? Si, si, l’ha detto l’omino del tetto, il tetto non è bucato, è colpa del vento che infila l’umido sotto le tegole… Ma non abbiamo le tegole!
E’ vero, però c’è sempre l’ondulina, quella cosa grigia che copre tutto il tetto. Ha detto che è ecologico, amianto non tossico fatto di cemento verde, tutto grigio. Ma che dici? Sei sicuro? Si, l’ha detto l’omino, ha detto anche che le gocce si fanno strada attraverso la lana di vetro, per quello fanno tanta puzza e macchiano il soffitto, però ha detto anche che non è cancherogeno. Canche-che? Ma chi è quest’omino conoscerlo, sembra divertente.
del
tetto?
Vorrei
Il suono insistente del campanello interrompe l’interruzione. Chi sarà mai? E chi se ne frega, io apro poi di sicuro lo scopro, in fondo è lui che ha bisogno, dirà pure qualcosa per spiegarsi. Una serie di energici scatti azionano il pulsante di apertura del cancello posto sul citofono, il suono metallico e ronzante della chiusura elettrica giunge fino al primo piano, poi il rumore del cancelletto metallico, poi il rumore della porta d’ingresso, poi il silenzio… Passa un po’ di tempo e il silenzio rimane. Quindi, chi era? Acc.. mi sono dimenticato di andare a vedere, ho aperto ma poi non ho sentito niente e mi sono dimenticato. Vado a vedere. Chi è? Siamo qui, al piano di sopra, in cima alle scale. Silenzio. Hei, siamo qui, ha bisogno? Di nuovo silenzio. Boh! Non lo so, non risponde nessuno, dev’essere qualcuno che non aveva bisogno altrimenti si sarebbe fatto vivo. Dov’eravamo rimasti? Non serve l’estintore quindi? Di nuovo il telefono. Di nuovo il silenzio. Buongiorno, in cosa posso esserle utile? Ma non mi riconosci? Sono io! Qui in magazzino ho trovato un signore che vaga sperduto, dice di aver suonato ma
nessuno si è fatto vivo e quindi si è infilato nella prima porta aperta ed è finito in magazzino. Secondo me è un pakistano che vuole fare domanda di lavoro però non parla molto bene, abbiamo i moduli da compilare? Si sono qui di sopra in ufficio, sono quelli vecchi però dobbiamo finire le fotocopie, la settimana scorsa per sbaglio mi sono appoggiato sulla fotocopiatrice e ne ho fatte 200 copie anziché 2, non voglio buttare tutta questa carta, tanto non assumiamo nessuno… ma non dirglielo che non sta bene. Ok, lo mando di sopra allora, un’altra cosa: qui in magazzino inizia a piovere dentro, cosa facciamo? Chiamiamo qualcuno? Ancora? D’accordo richiamo l’omino del tetto, stavolta non c’è vento, voglio vedere cosa si inventa! Permesso? Il pakistano timidamente si affaccia negli uffici. La scena che vede è circa questa: tutti indaffarati con stracci, tavoli, sedie, plichi di fogli che non ne vogliono sapere di rimanere in bilico, chi passeggia per l’ufficio telefonando ad alta voce, chi mescola distrattamente il caffè utilizzando una matita, il fax che continua a lanciare sul pavimento fogli completamente bianchi, un telefono che squilla senza che nessuno vi badi e finalmente una signorina gentile che gli porge un foglio da compilare. Il foglio è scritto in piccolo e solo in italiano, ci sono tante caselle da riempire e non gli hanno dato nemmeno una penna. Approfittando di un attimo di distrazione il pakistano lesto butta il foglio sul pavimento in mezzo a quelli del fax, si infila nella porta semiaperta, scende di corsa le scale, apre il portone, scavalca il cancelletto, recupera il suo scooter e fendendo l’aria ancora umida di pioggia fugge verso casa in attesa delle campagne estive di pomodori. Nel frattempo è ormai giunta l’ora del pranzo, non un orario preciso, proprio l’ora del pranzo, quella che arriva quando hai fame. “C’è l’orario flessibile” si sentiva ogni tanto dire da qualcuno, ci scommetterei che l’orario flessibile richiede un orologio di gomma anche se non ne sono sicuro, l’unica cosa sicura è che
ognuno aveva il suo orologio di gomma personalizzato, e a volte anche lo stomaco a giudicare dagli orari del pranzo, nel complesso non si poteva capire qual’era l’ora del pranzo e questo aggiungeva un alone di mistero e di segretezza intorno ad una cosa semplicissima che in passato era gestita in modo altrettanto semplice. Ma si sa, il progresso a volte è incomprensibile, ci vuole una mente aperta per sondare l’imperscrutabile. Ugo perplesso chiuse il libro. Forse non era stato un buon acquisto quel libro, forse era solo perché la birra nel frattempo era sparita dal bicchiere, forse. Poco male, la birra in frigo non manca, faccio una piccola pausa e poi cerco di capire cosa potrà mai succedere dopo l’ora del pranzo. Certo che come ufficio è parecchio strano! Non riesco bene a capire cosa combinano al giorno d’oggi in questi uffici, sembra sempre che tutti siano indaffarati e concentrati eppure non si riesce a vedere un accidenti. Tutto il lavoro finisce dentro un computer e sembra che alla fine della giornata non si sia concluso un granchè, non c’è gusto secondo me. Una volta si vedeva quanto avevi lavorato, un plico di fogli, una scatola piena di lettere da spedire, un registro compilato a mano con tutte quelle sue caselline strette a alte. Adesso se si rompe il computer che fanno? Vanno al lago? …però, mica male come idea! E se sabotassi a pagamento i sistemi informatici delle aziende? Potrei mettermi d’accordo con i dipendenti e magari guadagnare qualche soldo. Bisogna lavorare su quest’idea. Mah, tempi moderni! Riprendiamo la lettura… L’ora finisce, pranzo proprio
del pranzo finisce, come tutte le ore anche questa anche se non tutte le ore durano un’ora, quella del dura sempre meno. Avete notato questa cosa? E’ vero che è tutto relativo.
Come tutte le cose non sempre finisce bene la pausa pranzo. A volte alla fine dell’ora del pranzo, proprio in fondo come in
un tunnel puoi intravedere dei guai. Guai in vista anche oggi a quanto pare, quella macchina di lusso parcheggiata vicino al cancelletto di ingresso non è un buon auspicio per il pomeriggio. Il grande capo è arrivato durante l’assenza per il pranzo, incurante dei bosoni, delle perdite d’acqua e dei pakistani si è fiondato sul primo tavolo libero con il suo portatile ed ha iniziato una frenetica attività di pubblic relescion. Frattanto dall’altra parte degli uffici dietro un paravento un ticchettio rapido e costante lascia intendere la sofferenza di una tastiera la cui sopportazione è ormai al limite. Cosa ci fa un paravento in un ufficio? Non ci sono le porte? Una geisha del bit, le mani completamente scollegate dal corpo, la concentrazione al massimo livello, gli occhi fissi sui monitor in quello stanzino piccolo e buio, l’informatico di turno digita imperterrito senza lasciarsi sfiorare da pensieri terreni, imperturbabile, insensibile, quasi un automa. La porta d’ingresso si apre e la compagnia della mensa rientra con ritmo accelerato dopo la visione della macchina del capo, senza buco nella gomma e senza un filo di polvere. Alcuni salgono le scale in fretta e man mano si sente sempre più distinto un rumore provenire dallo stanzino del caffè. Un frullato di voci mescolato a rumori diversi, bottiglie di plastica accartocciate, filmati in esecuzione sul telefonino, calci e pugni contro la povera macchina del caffè, strane canzoni cantate ad alta voce in un originale inglese con qualche vocale al posto giusto. Manca solo il maxischermo con gli omini in boxer che rincorrono la palla di Archimede per sentirsi proprio come al bar. Però ci fosse, una barista! Iniziare il lavoro con una pausa è un ottimo sistema ma la realtà fa la sua timida comparsa anche nello stanzino del caffè. Un telefono che suona, una testa che fa capolino, voci negli uffici e la combricola si disperde scendendo le scale come una mandria di gnu che vuole passare in fretta il guado per paura del coccodrillo. In lontananza si spegne l’eco dell’ennesima canzone storpiata e di colpo è di nuovo il silenzio.