Gino Bartali anteprima

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ANGELO DE LORENZI

GINO BARTALI UN “SANTO” IN BICICLETTA anteprima

LA VITA, LA FEDE, LE IMPRESE



ANGELO DE LORENZI

GINO BARTALI UN “SANTO” IN BICICLETTA

LA VITA, LA FEDE, LE IMPRESE


Grafica: Marco Sala

L’editore è a disposizione degli aventi diritto con i quali non è stato possibile comunicare

© Mimep-Docete, 2019 ISBN 978-88-8424-567-0 Casa Editrice Mimep-Docete via Papa Giovanni XXIII, 2 20060 Pessano con Bornago (MI) tel. 02 95741935; 02 95744647 info@mimep.it; www.mimep.it


La strada della salvezza

“Se sei bravo nello sport le medaglie te le attaccano sulle maglie e poi splenderanno in qualche museo. Quelle guadagnate nel fare il bene si attaccano sull’anima e splenderanno altrove” Gino Bartali

LA STRADA DELLA SALVEZZA «Adriana, non aspettarmi che tardo un po’...» Gli anni del conflitto mondiale sono difficili per tutti, anche per la famiglia Bartali. Nella primavera del 1944 erano molti i pensieri di Gino e soprattutto quelli della sua sposa Adriana che scopre di essere incinta del secondo figlio. Andrea, due anni, ha ancora bisogno di tutte le attenzioni dei genitori e, intanto, in condizioni di penuria economica, con un razionamento di guerra che riduce i fiorentini alla malnutrizione, sta per affacciarsi al mondo una nuova vita. Gli scaffali dei negozi erano quasi vuoti, la carne era diventata una merce rara, pressoché introvabile. I tedeschi, alla fine del mese di luglio, sono nel pieno della ritirata e corre voce che i nazisti avessero intenzione di minare i ponti per rallentare l’avanzata degli Alleati. Agli abitanti dei quartieri lungo l’Arno viene ordinato di evacuare le case entro mezzogiorno del 30 luglio. La casa della famiglia Bartali si trova a circa un chilometro dal fiume. Molti fiorentini lasciano la propria abitazione per 61


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accamparsi nei centri di raccolta deputati, compreso Palazzo Pitti. Ai primi di agosto i tedeschi dichiara no l’emergenza della città: a tutti è fatto divieto di abbandonare la propria abitazione e di camminare per la città. Le pattuglie tedesche hanno l’ordine di sparare a chiunque venga trovato per le strade o affacciato alle finestre. Nella città ci sono tremende esplosioni, il cielo si tinge di porpora all’orizzonte. Gino decide di portare via la famiglia e sceglie come meta la casa dei genitori di Adriana, nella periferia nord della città. La gravidanza è agli sgoccioli, un motivo in più per cercare un ambiente tranquillo. Bartali, Adriana e il figlio si trasferiscono nella nuova casa. Pochi giorni dopo il loro arrivo per la donna inziano le contrazioni, in anticipo rispetto ai tempi previsti. Gino si spaventa, sale in bicicletta e si dirige in centro alla ricerca di un medico. Con qualche difficoltà in mezzo alle rovine di Firenze riesce a trovare un dottore con il quale corre al capezzale di Adriana. Purtroppo il figlio che doveva nascere non vedrà mai la luce. Avrebbero voluto chiamarlo Giorgio, come il fratello di Adriana morto in mare. Il figlio è perduto, ma Gino rischia di non vedere più nemmeno la moglie le cui condizioni sono gravi. Il medico riesce a salvarla e dopo una notte d’angoscia, l’indomani è fuori pericolo. In questo clima estremamente difficile, causato dalle privazioni di guerra, c’è chi sta peggio, come gli ebrei perseguitati che devono trovare una via di fuga per non essere catturati e inviati nei campi di concentramento. Ma di pari passo con la barbarie, con la guerra 62


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e l’odio, crescono anche la solidarietà fra gli uomini e la carità, spinta all’eroismo. Aiutare gli ebrei in pericolo non è una scelta episodica di qualche personalità o di singole persone. Esponenti della comunità ebraica e la Chiesa cattolica mettono in piedi una formidabile macchina antideportazione. È una vera e propria rete di salvataggio, organizzata e curata nei minimi particolari. Viene creata nel settembre 1943, fin dalle prime ore dell’occupazione tedesca, in Lombardia, Liguria, Piemonte, Toscana, Emilia Romagna, Lazio e Umbria. Alcune città, in particolare Genova, Firenze ed Assisi, assumono un ruolo predominante negli aiuti assicurati agli ebrei. Nel capoluogo ligure, per esempio, si trova una delle più importanti comunità ebraiche italiane e il porto assicura i contatti internazionali: è qui che si scambia il denaro e si cerca di far partire le persone verso lidi più sicuri. A Firenze svetta la personalità dell’arcivescovo Elia Dalla Costa, che il 9 maggio 1938 chiuse la porta al passaggio di Adolf Hitler in città. L’alto prelato è uno dei principali “registi” della rete caritatevole e di solidarietà orchestrata dal mondo cattolico italiano per mettere in salvo il maggior numero di ebrei residenti nel Paese. Altri personaggi di rilievo sono l’arcivescovo di Genova, Pietro Boetto e il vescovo di Assisi, Giuseppe Placido Nicolini. Questi prelati affidano l’attività di contatto e di gestione dei rapporti con la comunità ebraica ad alcuni collaboratori: frate Rufino Niccacci e Aldo Brunacci ad Assisi, don Leto Casini a Firenze e monsignor Francesco Repetto a Genova. A completare il quadro non si può non 63


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ricordare anche il contributo di alcuni personaggi provenienti dall’estero come il console svedese a Genova, Elow Kihlgren, che dopo essere stato arrestato dalla Gestapo a Genova nel 1944 venne espulso dall’Italia, dopo aver subìto le violenze dei nazisti. Un altro personaggio chiave di questa rete di solidarietà a favore degli ebrei perseguitati è il padre cappuccino francese Pierre-Marie Benoît - noto in Italia anche come padre Maria Benedetto - che già quando era a Marsiglia lavorava per realizzare e consegnare passaporti falsi agli ebrei in fuga. Nel luglio 1943, prima della caduta di Mussolini, il religioso arriva a Roma con l’obiettivo di discutere in Vaticano i suoi progetti per salvare gli ebrei nella zona di Marsiglia. Una volta nella Capitale ha difficoltà a tornare indietro e decide così di spendersi in Italia per la stessa causa arrivando persino a far parte del Delasem (Delegazione per l’assistenza degli emigranti), costituita nel 1939 da personaggi perseguitati in quanto ebrei. Attiva nella legalità sino al 1943, è poi costretta a muoversi in clandestinità con l’inizio dell’occupazione tedesca. L’obiettivo iniziale di questa organizzazione era salvare e assistere gli ebrei che arrivavano in Italia dalla Germania e dall’Europa dell’Est. Questo significava adoperarsi affinché partissero per luoghi più sicuri verso la Svizzera o l’Italia del Sud già liberata dagli Alleati. Ottobre 1943, cinque e trenta di un mattino molto freddo. Firenze è ancora avvolta nella bambagia, stranamente tranquilla, incurante del crepitare delle bombe che dilaniano l’Europa. Sono giorni difficili. 64


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Un uomo magro, imbacuccato in abiti di lana attillati, esce da un uscio di via del Bandino 23, Oltrarno. Da quell’abbigliamento poco o nulla lascia intuire che sia un corridore. Sotto braccio spinge una bicicletta verde ramarro, tutta cromata. In quell’inizio di giornata, l’uomo si muove con circospezione. A casa ha lasciato il figlio Andrea di due anni e la cara moglie Adriana. È giorno d’allenamento, in programma ha un giro molto lungo. Ci va da solo, però, senza l’amico Alfredo Martini, compagno abituale di pedalate. «Adriana, non aspettarmi che tardo un po’...» «Non torni per pranzo, Gino?...» «No, Adriana, anzi: quando l’è l’ora, dai da mangiare anche la cena al piccolo Andrea, che forse rincaso con il buio». La giovane moglie è preoccupata. Dove pensa di andare così lontano? Per un allenamento c’è bisogno di spostarsi così tanto? Gino prova a tranquillizzarla: «Vado a prendere la farina e lo zucchero per nostro figlio». Quando c’è da decidere qualcosa di importante, Gino prende l’iniziativa senza farsi condizionare da nessuno, nemmeno dalla moglie. «Se qualcuno dovesse venirmi a cercare di notte… tu dì che il tuo Gino è appena uscito per recarsi d’urgenza alla farmacia notturna per procurarsi le medicine per nostro figlio che si è sentito male». Adriana non è del tutto rassicurata dalla risposta del marito, ma lascia fare. L’uomo imbacuccato negli abiti di lana attillati parte con la sua bicicletta, sfila via sul 65


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Lungarno Torregiani e raggiunge il centro. Non sono ancora le 6, Bartali arriva sul Ponte Vecchio e lo supera, poi scende verso via Porta Santa Maria, piazza Vittorio Emanuele (oggi si chiama piazza della Repubblica) e via del Corso. Nelle vie della città ancora poca gente, a eccezione dei panettieri e dei netturbini per i quali la giornata è già iniziata. Alle 6 Gino ha un appuntamento con un sacerdote: è don Giacomo Meneghello, il segretario del cardinale di Firenze, monsignor Elia Dalla Costa. Si vedono prima della Messa nella piccola chiesa del Collegio Eugeniano, in via dello Studio, a due passi dal Duomo. Lasciata la bici dietro la porta della chiesa, Gino entra nell’edificio, raggiunge la sacrestia e lì trova ad attenderlo don Giacomo: un saluto, una breve benedizione, poi il sacerdote estrae dalla tasca della tunica un mazzo di foglietti arrotolati. Preso in consegna il materiale, Gino torna alla sua bicicletta, allenta la vite che serra il tubo della sella sul telaio, poi estrae completamente il tubo e infila i fogli all’interno del telaio. L’uomo è risoluto nei gesti e non si cura dei pericoli a quali sta andando incontro; ha un segreto che condivide solo con il cardinale Elia Dalla Costa. Che cosa è quella carta che il corridore nasconde dentro il tubo della sua fidata bicicletta? Forse nemmeno don Giacomo è al corrente della missione molto pericolosa di Bartali, ma il corridore che non teme di esporsi ai pericoli, poco dopo partecipa alla Messa. Alle 6.30 inizia il viaggio. La destinazione è Assisi: quasi 200 chilometri, solo l’andata, su strade disastrate, chilometri insidiosi perché il pericolo è a 66


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ogni curva, dietro a ogni albero, un viaggio alla mercé dei posti di blocco approntati da tedeschi e repubblichini. Appena il tempo per fermarsi a salutare un cugino, Armandino Sizzi, che di mestiere fa il meccanico ciclista nella sua piccola bottega in piazza dei Ciompi, lungo via Pietrapiana. Anche lui conserva un segreto che condivide con Gino: nel posto di lavoro nasconde un giovane zingaro braccato dai tedeschi. Prima di iniziare il viaggio verso Assisi, Bartali vuole passare dal cugino per sincerarsi che tutto proceda per il meglio, poi riprende a pedalare. Il fisico è allenato, misura lo sforzo, sa che deve fare molti chilometri, quindi non esagera. Prende il passo. Deve stare tranquillo, anche per non destare sospetti in chi, eventualmente, avesse intenzione di fermarlo. Il buio delle prime ore del giorno è ormai un ricordo, Gino pedala in scioltezza. Via via, aumenta il ritmo: scala dapprima il San Donato, poco sopra Firenze, e poi scende veloce nel Valdarno. Il corridore è preparato per affrontare il trasferimento: indossa pantaloni lunghi di flanella, con il cosciale infilato dentro i calzettoni di lana a quadri scozzesi, porta un maglione di lana a collo alto e guanti di pelle cuciti a mano. Gli indumenti indossati risultano utili allo scopo: in questo modo si difende dal freddo e dai possibili cambiamenti repentini di tempo: il vento, la pioggia... Il pericolo maggiore, però, non sono le condizioni climatiche. Gino sa che deve evitare i posti di blocco. Corre da isolato, cerca la solitudine. Sente solo il proprio fiato e il fruscio del mezzo. Ma è una solitudine particolare, 67


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simile a quella del pellegrino che non è mai veramente solo perché ha sempre Dio con sé. Quando è in cammino Lo cerca e la solitudine è il momento di raccoglimento durante il quale svuota se stesso per accogliere la presenza del Mistero. Gino si tiene il più possibile lontano dalle strade trafficate: prende la deviazione in salita verso Reggello, prosegue verso Arezzo sulla Setteponti. È un gran corridore – ha già vinto due Giri d’Italia, nel 1936 e nel 1937 e poi il Tour de France nel 1938 – ed è anche un tipo sveglio che sa come muoversi e ragionare. Conosce a menadito le vie dei suoi allenamenti mentre chiede informazioni prima di prendere le strade a lui meno note. Non vuole affrontare rischi inutili. Lungi da lui l’idea di fare l’eroe. Gli hanno chiesto di contribuire alla buona riuscita di una missione, un gesto di carità. E lui ha accettato. Ufficialmente si sta allenando e un corridore del suo livello – si sa – è chiamato a percorrere tratti piuttosto lunghi per temprare il fisico e allenarsi alla resistenza. C’è poi quel particolare del fascio di carte nascosto nel tubolare della bicicletta, e va beh, è un particolare. Il rischio è calcolato. A chi può venire in mente di smontare la bici di un campione in allenamento per cercarvi chissà che cosa? Gino pedala sicuro e sembra incurante dei pericoli. A Reggello abita un suo caro amico; Gennaro Cellai, è un calzolaio. L’artigiano, che non ha mai nascosto all’amico le sue simpatie antifasciste, ha inventato degli scarpini da corridore con dei piccoli forellini nella parte anteriore della suola che facilitano l’aerazione dei piedi. Per i ciclisti sono l’i68


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deale! Da Gennaro, Bartali ottiene anche informazioni sul posizionamento dei posti di blocco dei tedeschi sulle principali strade della zona. Dall’amico ci sta il giusto perché a metà mattino lo aspettano a Terontola, dove si trovano alcuni amici che gli hanno approntato un punto di ristoro alla buona: panino al prosciutto e acqua fresca. In questi posti Bartali ci era già stato e aveva incontrato delle persone che sarebbero diventati amici. Nei mesi precedenti, infatti, il corridore aveva fatto il portalettere in bicicletta al comando dell’aviosuperficie di Castiglione del Lago ed era stato anche utilizzato come guardia nella fabbrica di aeroplani militari di Passignano sul Trasimeno. Alle 9.30 Gino transita per Arezzo, supera la città e imbocca la statale 71. Deve proseguire per Perugia. Qualche minuto prima delle 10 arriva alle porte di Terontola ma, inaspettatamente, tira dritto verso Castiglione del Lago. Il ciclista raggiunge il ponte ferroviario che si trova a 500 metri dalla stazione ferroviaria. Si ferma, gonfia la ruota di una bicicletta. D’improvviso riprende a pedalare e raggiunge il bar della stazione dove, ad attenderlo, ci sono i suoi tifosi. È una gran festa per il paese che può così salutare e abbracciare il suo campione. Sono le 11, è tempo di ripartire. Ad Assisi bisogna arrivarci nel primo pomeriggio. Bartali torna a pedalare, lascia sulla destra il campo d’aviazione di Castiglione del Lago e si dirige verso la torre medioevale di Magione. Una volta raggiunta Perugia, mancheranno solo 15 chilometri per arrivare ad Assisi, 15 chilometri piatti piatti. Il corridore accelera; quest’ultimo tratto 69


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di strada si trasforma in un test di allenamento. Gino è ormai arrivato, prende la salita che passa per le fonti del Santo Raggio – una delle meno frequentate – che porta direttamente al convento di San Damiano, dove è atteso da alcuni amici. Ad Assisi la natura è protagonista, il silenzio fa parte del paesaggio. Le pietre parlano di una storia antica. Al convento c’è un frate ad attendere Bartali. Si chiama padre Rufino Niccacci, uomo energico, sulla quarantina. «Ciao Gino, come stai? Ben arrivato. Ti vedo in perfetta forma». Il corridore non dà molta importanza ai complimenti del religioso, abbassa la testa, come per schermirsi. Dà una carezza alla bicicletta e sistema un po’ il sellino, giusto per togliersi dall’imbarazzo di rispondere con una frase a tono. Però non è che lo intimidisca parlare con gli uomini di Chiesa. Ci è abituato. La sua semplicità e la sua fede cristallina sono il viatico migliore per rapportarsi con sacerdoti, vescovi e persino con il Papa. Il frate è accogliente: «Venga a prendere un caffè». Bartali e il religioso si dirigono verso il refettorio, una sala dal basso soffitto a volta. I due si siedono a uno dei tavoli in legno, sotto un crocifisso a grandezza quasi naturale. Niccacci serve a Gino il caffè del convento: orzo tostato. Mentre sorseggia la bevanda, riferisce al frate che il vescovo gli ha dato l’istruzione di proseguire ancora più a sud, dove avrebbe dovuto parlare con un prete in contatto con certi contrabbandieri che sarebbero stati disposti a trasportare profughi ebrei oltre la linea del fronte, nel territorio 70


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controllato dagli Alleati. Padre Rufino, dopo il saluto e il caffè, spiega a Gino che cosa deve fare. «Devi andare immediatamente al monastero di San Quirico dove abitano le clarisse. La superiora ti aspetta con alcune foto che porterai qui da me. Poi ci penserò io a portarle a Luigi Brizi e a suo figlio». Luigi Brizi è il tipografo che stampa documenti falsi per nascondere l’identità dei cittadini ebrei rifugiati ad Assisi. Inizialmente si era organizzata una rete di aiuti per far arrivare gli israeliti a Genova dove si sarebbero imbarcati sulle navi dirette in Sudamerica, ma alcuni lavoratori del porto, venuti a conoscenza delle operazioni, avevano fatto la spia in cambio di denaro. Assisi era sembrata subito una valida alternativa dove nascondere gli ebrei fuggiaschi per la presenza di tanti istituti religiosi che potevano accoglierli, protetti dal segreto della clausura e dai vincoli territoriali dello Stato Vaticano. «Gino, poi ci penseranno suor Alfonsina e suor Eleonora a darti da mangiare per bene prima del tuo ritorno a Firenze». Adesso il corridore deve aspettare che venga preparato il materiale, prima di rimetterlo nella canna della bici e poi prepararsi per tornare a casa. Per passare il tempo va a fare visita alla Basilica Superiore dove ammira i dipinti di Giotto ma non può attardarsi e presto arriva il momento di ripartire. Le giornate sono ancora corte e l’oscurità è fra le insidie che troverà sulla via del ritorno. Sono le 14.30, Bartali inserisce i passapor71


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ti falsi e le carte annonarie nella canna verticale della sua bicicletta. Riparte. Il percorso del pomeriggio è diverso da quello del mattino per evitare gli stessi posti di blocco: Sant’Egidio, Umbertide, Città di Castello. Gino risale la valle del Tevere, dopo aver percorso al mattino quella dell’Arno. Alle porte di Città di Castello si ferma a Nuvole, una piccola frazione. Lì c’è un amico che vuole salutare, ma rimane poco perché è già pomeriggio inoltrato. Gino deve far presto perché sta per arrivare il buio. Ma del tempo gliene fanno perdere al passo della Libbia, dopo san Sepolcro: «Alt! Dove andare?». Sono le guardie tedesche affiancate dalle milizie fasciste. «Dove volete che vada? Torno a Firenze, e in fretta, prima che venga buio». «Ma lei è Bartali, il ciclista! Mi può fare un autografo?». Pericolo scampato, Gino riparte. Questa volta la fatica comincia a farsi sentire. Verso le 18 supera Arezzo, il sole è già calato. Si inerpica sul San Donato dove mette in campo le doti del campione. Ci vuole forza ma anche testa, determinazione. Quando ti accorgi che potresti mollare, il cervello manda un impulso al corpo e non ti lasci sopraffare dalla fatica. Salita e poi discesa verso Firenze. Verso sera Bartali arriva a piazza del Bandino: fra andata e ritorno, in un sol giorno, ha percorso 370 chilometri. Torna a casa con la sua bici e il prezioso carico nascosto nella canna. Adesso deve solo riposare. L’indomani 72


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partecipa alla Messa delle 6.30 al Collegio Eugeniano. Qui deposita i documenti falsificati e le tessere annonarie per gli israeliti all’interno della cassetta delle offerte. Qualcuno verrà poi a prendere il materiale e lo farà arrivare a destinazione. Mentre Gino, a Firenze, si gode una giornata di meritato riposo, ad Assisi continua il lavoro segreto di tante persone di buona volontà che si impegnano nell’aiutare chi è colpito dalla guerra, compresi gli israeliti che rischiano la pelle. Uno dei personaggi chiave di questa storia è Luigi Brizi, il tipografo scoperto da padre Niccacci in una stradina di Assisi. Ha 71 anni, è piccolo di statura, gira spesso la città con una coppola in testa. È un bravo tipografo. Non è credente. Un suo antenato, Eugenio Brizi, era stato sindaco della città e sostenitore di Giuseppe Mazzini. Da giovane aveva aperto una cartoleria, scegliendo la piazza di fronte alla basilica di Santa Chiara. Con il tempo Brizi aveva aggiunto un piccolo assortimento di mercanzie: santini, medaglioni, sculture. Ma i proventi della vendita di questi oggetti non erano sufficienti a mantenere la famiglia composta da moglie e cinque figli. Luigi inizia quindi a offrire qualche servizio di stampa con una Felix di seconda mano rimessa a nuovo e collocata in un angolo della sua bottega. Da quella macchina escono i menu dei ristoranti, i prezzari degli alberghi, gli avvisi per le chiese. Anche se lontano dalla fede, Brizi non ha difficoltà a stringere una solida amicizia con padre Niccacci. Un legame che viene suggellato dal rito settimanale della partita 73


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a dama del mercoledì giocata in un piccolo caffè sulla piazza principale di Assisi. In una giornata d’autunno del 1943 avviene un fatto importante. Il vescovo Nicolini incarica monsignor Niccacci di aiutare un gruppo di israeliti appena giunto ad Assisi. Per poter girare liberamente in città hanno bisogno di carte d’identità contraffatte. Un giorno dopo la solita partita a dama giocata davanti a una caraffa di vino, Niccacci si rivolge a Brizi per ottenere aiuto. Prima di arrivare a formulare la proposta il sacerdote fa una lunga introduzione ricordando a Brizi il contributo che gli ebrei avevano fornito alla causa dell’indipendenza dell’Italia. Poi chiede: «Puoi aiutarli?». «Come?», domanda Brizi. «Puoi stampare loro le carte d’identità. Contribuirai alla causa che hai sempre predicato, quella della libertà e della democrazia». La risposta non si fa attendere. «Sì, d’accordo, ma a una condizione: non voglio che mio figlio Trento venga coinvolto. Se dovessero scoprirmi non vorrei che ci rimettesse anche lui». Il figlio, ventottenne, è appena tornato dal fronte jugoslavo dove ha rischiato la vita. Brizi non vuole mettere ancora a repentaglio la sua esistenza, ma alcuni giorni dopo viene da lui sorpreso in bottega a lavorare proprio sui documenti degli israeliti. Il figlio vuole sapere che cosa stia facendo l’anziano genitore. Brizi cerca di resistere, ma poi è obbligato a cedere di fronte alle insistenze del figlio. Gli spiega che ha ricevuto 74


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l’incarico da padre Niccacci e chiede di mantenere il segreto. Trento si propone per aiutarlo. Ha combattuto per tre anni sul fronte jugoslavo, schivando i proiettili. Non ha paura di morire. «Ti aiuterò», gli dice. E il padre, a malincuore, accetta. Cominciano a fabbricare i timbri di gomma contraffatti con il nome di comuni del sud, al di là del fronte alleato e che quindi non potevano essere contattati dai fascisti per operare un controllo. Al termine delle operazioni i Brizi fabbricano i primi documenti d’identità contraffatti per gli israeliti perseguitati dai fascisti. Enrico Maionica è stato uno dei protagonisti di questa attività. Si trovava nel monastero di clausura delle suore clarisse di S. Quirico in Assisi, durante l’occupazione tedesca della città. Il luogo, in quel periodo, accolse e protesse clandestinamente alcuni ebrei e altre vittime della persecuzione nazi-fascista. Ecco la sua testimonianza: «Il padre guardiano mi mise in contatto con un tipografo di Assisi, antifascista, antitedesco e liberale al massimo, il quale disse: le carte d’identità le stampo io. Per il resto dovevo arrangiarmi. Mi sono ingegnato a fabbricare i timbri. C’erano i timbri di vari comuni e ho scelto quelli già conquistati dagli alleati in modo che non fosse possibile verificare. Ho trovato un sistema piuttosto ingegnoso per fare il timbro in venti minuti, timbri che duravano per due o tre stampe, poi bisognava rifarli». Maionica ha spiegato come li faceva: «Mi sono fatto fornire due pezzi di tubo di ottone sottilissimo, uno del diametro di un normale 75


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timbro comune, l’altro del diametro di un centimetro inferiore: due pezzetti alti cinque centimetri. Li ho messi l’uno dentro l’altro e ho messo sul fondo del cotone pigiato affinché non si movessero. Poi ho ricoperto con dello stucco e in questo stucco ho messo dei cartelli di piombo rubati in una tipografia. Al centro dovevo metterci lo stemma italiano, lo stemma sabaudo. Quello ce l’avevano solamente alcune tipografie autorizzate ed era difficile procurarselo e allora ho dovuto rubarlo. Ce n’erano di grandi e di piccoli, ne ho preso uno adatto. Lo mettevo nel centro fissato con cotone pigiato e stucco e timbravo. Venivano fuori dei timbri perfetti. Io non mi accontentavo, però, di fare il documento: lo facevo con una data parecchio precedente, specialmente le patenti di guida. Assisi era piena di sfollati che provenivano dal Sud, gente poverissima che aveva avuto la casa sinistrata. Io mi recavo da questi sfollati e dicevo loro: ‘Scusi, lei ha la patente di guida?’. ‘Sì, ma non mi serve, tanto non ho la macchina...’ ‘Io vorrei acquistarle i bolli vecchi’. Mi facevo dare la patente di guida, bagnavo i bolli con un pezzetto di carta assorbente umida, li staccavo e li pagavo, poche lire, ma allora le lire erano molto preziose. Questa era gente senza un soldo in tasca, mi vendeva i loro bolli della patente e delle carte d’identità. Mi ero accorto che i bolli venivano annullati dai vari comuni dall’Automobile Club con dei bolli ad alcool. Mi sono accorto che mettendo questi bolli nella scolorina la stampa rimaneva ma cancellavo il bollo. 76


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Dunque i bolli risultavano come nuovi: li incollavo sulla patente e ci mettevo il timbro di un comune della Sicilia o della Calabria, che erano già occupati. Apponevo bolli vecchi di 3 o 4 anni per dare più autenticità. E, in questo modo, ho realizzato centinaia di documenti falsi. [...] Io non potevo più uscire dal convento perché era pericoloso. Brizzi mi forniva il cartoncino della patente, identico a quello delle patenti allora in vigore, ma in bianco. Io facevo il timbro, applicavo la fotografia della persona alla quale dovevo fornire il documento che mi veniva dato dal padre guardiano, poi c’era Giorgio Kropf, che aveva una macchina da scrivere portatile e lui batteva a macchina. Il colonnello Paolo Gay firmava per il prefetto e per il sindaco ma si limitava a scrivere a macchina quello che gli dicevo io. Io gli dicevo: ‘Devi mettere questa persona proveniente da questa località, attaccavo le fotografie, poi mettevo i timbri. Quando sono arrivati gli Alleati ho denunciato il fatto al Governo Alleato. Io non sapevo chi fossero le persone alle quali davo i documenti. Non li fornivo direttamente ma erano consegnati attraverso il vescovo o il padre guardiano. Molti documenti venivano richiesti dal vescovo di Firenze il quale so che li mandava anche a Genova. Da Assisi a Firenze – l’ho saputo dopo – li portava il corridore ciclista Bartali nascosti nel tubo della bicicletta, ma io non sapevo a chi venivano consegnati, questo l’ho saputo in seguito; specialmente il vescovo di Genova ha fornito moltissimi documenti a persone che sono partite per l’America. Molti documenti falsi li ho mandati anche a Roma, 77


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dove non so in che mani siano arrivati. So che sono stati venduti per 50 mila lire l’uno a Roma. Non so da chi ma ho conosciuto gente che ha preso i documenti fatti da me. Io non ho mai preso 5 lire, ci ho invece sempre rimesso di tasca mia per le spese dei bolli» 9 Tra il settembre 1943 e il giugno 1944 Bartali, con la scusa degli allenamenti va avanti e indietro da Firenze ad Assisi, dove fa visita soprattutto al convento di San Quirico, che appartiene all’ordine delle suore Clarisse. Una religiosa, suor Alfonsina Santucci, ha dichiarato di aver incontrato il corridore almeno una quarantina di volte nel periodo della Seconda Guerra Mondiale. Gino nascondeva i documenti nella bici e ripartiva per Firenze dove li consegnava alle persone indicate dal cardinale Dalla Costa. A frate Niccacci Bartali lasciava le foto formato tessera degli ebrei alloggiati nei monasteri della Toscana, necessarie per i documenti falsi che preparava per il successivo viaggio. In alcuni casi il campione aveva l’incarico di consegnare direttamente i documenti alle persone nascoste presso le famiglie. Una testimonianza in tal senso è stata fornita dalla signora Giulia Donati Baquis, nascosta a Lido di Camaiore, ai funzionari dello Yad Vashem: Bartali si era recato all’indirizzo della famiglia che le offriva rifugio. L’episodio ricorda che l’impegno del corridore a favore degli ebrei perseguitati non fu saltuario e circoscritto, ma si prolungò nel tempo e comprese un’a9 La testimonianza di Enrico Maionica è sul portale della USC Shoah Foundation, al seguente indirizzo: https://sfi.usc.edu/video/enrico-maionica-making-false-documents

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rea piuttosto ampia del centro Italia. Oltre che sulla direttrice Firenze-Assisi, di cui si sono avute conferme da parte di diversi testimoni, i ‘viaggi della speranza’ di Bartali erano programmati anche verso il nordovest d’Italia, in particolare in direzione di Lucca e Genova. Vista la distanza con il capoluogo ligure – 230 chilometri – il corridore faceva sosta nella città toscana dove si trovavano due conventi attivi nella rete di solidarietà messa in atto da cattolici ed ebrei. Bartali portava documenti falsi nel convento dove operava padre Arturo Paoli, un religioso molto coraggioso, impegnato sul fronte degli aiuti. Il frate collaborava con Giorgio Nissim, principale animatore della rete clandestina Delasem in Toscana. A Lucca Bartali si fermava anche alla Certosa di Farneta dove operava padre Antonio Costa, amico del corridore al quale aveva fatto visita nel 1943 per celebrare messa nella sua cappellina. A Genova il corridore oltre a portare documenti riceveva denaro per sostenere le operazioni della Delasem a vantaggio dei perseguitati. I soldi servivano per affittare un appartamento a una famiglia ebrea lontana dalla città di origine al fine di non essere identificata, oppure per pagare coloro che aiutavano materialmente i perseguitati a fuggire all’estero, in particolare in Svizzera. Bartali aveva un contatto personale anche con un monaco nel comune di Rivisondoli, in provincia dell’Aquila, che conosceva i contrabbandieri della zona disponibili, dietro compenso, ad accompagnare gli ebrei fuori dai confini italiani. 79


Gino Bartali, con la maglia tricolore di campione italiano, e il rivale Fausto Coppi circondati da tifosi e autoritĂ .

Il corridore alla vigilia della Milano-Sanremo vittoriosa del 1950. In quella stagione Bartali vinse anche il Giro di Toscana, una tappa al Giro e una al Tour de France.

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Bartali in divisa militare a 21 anni. A destra, con la maglia della Legnano con un giovanissimo Fausto Coppi.

Il corridore di Ponte a Ema con la casacca della Bartali Ursus che il corridore indossò negli ultimi anni della carriera. A fianco, l’eterno rivale, Fausto Coppi.

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Alcune pagine dello speciale giornalistico dedicato a Fausto Coppi e Gino Bartali della Gazzetta dello Sport (Dalla collezione di memorabilia di Angelo De Lorenzi). In un articolo l’eterna querelle dello scambio della borraccia fra i due campionissimi.

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Indice UN MESTIERE SPORTIVO

Ponte a Ema 3 «E come si campa?» 9 «Gli è tutto da rifare» 14 Il caro Giulio 20 «Ma non dovevi dirmi qualche cosa?» 23 Terziario carmelitano 26 La medaglia di Mussolini finisce nell’Arno 35 La Legnano ingaggia Fausto Coppi 45 Il matrimonio con Adriana 51

LA STRADA DELLA SALVEZZA

«Adriana, non aspettarmi che tardo un po’...» La famiglia Goldenberg 80 Interrogato a Villa Triste 81

LA GUERRA E’ FINITA ANDATE IN PACE,

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“Gino il Vecchio?” 86 “In attesa degli altri concorrenti trasmettiamo musica da ballo” 87 Il Giro della Rinascita e i fatti di Trieste 89 Piovono pietre sui corridori 99

TOGLIATTI, PALLANTE… E UNA VITTORIA PER L’ITALIA Si accende il duello 107 Il Giro degli scrittori 108 “Testa di vetro” 113 I fiori alla Madonna di Lourdes 198

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Una telefonata inaspettata 131 Ettore contro Achille 144 Gli italiani lasciano il Tour per protesta 150 Lo scambio della borraccia 160

L’INTRAMONTABILE

Amico del rivale 166 L’ultima veste di Gino è un saio bianco avorio 172 “Giusto tra le Nazioni” 173 La sua memoria e il suo insegnamento 175 Farà piacere un bel mazzo di rose… 179 Prove di santità 182 Bartali alla maturità 185

I RISULTATI

Le vittorie 190

Bibliografia 196 Opere teatrali 197 Fotografie 200

199


«Mia carissima Adriana, ieri passando da Pompei mi sono fermato al santuario della Madonna, ho pregato molto e per tutti, ma più per noi. Tu immagini certo anche la grazia che ho domandato alla nostra cara Madre Santissima. Ho pregato con tutta l’anima e col pensiero di far sempre meglio e diventare anche più buono, tanto da farmi giungere al più presto alla possibile perfezione che tanto il Signore desidera dalle anime che lo ricordano e vivono sotto la sua Santa protezione». Gino

Angelo De Lorenzi: (Milano, 1965), giornalista, appassionato di ciclismo, ha scritto: Il collezionismo nel mondo della bicicletta (Ediciclo Editore, 1999), E non chiamatemi (più) Cannibale. Vita e imprese di Eddy Merckx (Limina, 2003), Vigorelli e altre storie (Youcanprint, 2018). Con Mimep-Docete ha pubblicato nel 2017 Medjugorje ieri e oggi (2017) e nel 2018 Paolo VI il Santo della Vita.

ISBN 978-88-8424-567-0

€ 12,00


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