Magazine De Padova

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Dopo la Morgan Library Renzo Piano l’ha fatto di nuovo, ha voluto le sedie Silver per Il Sole 24 Ore. > 4 IL DEstINO DI UN INCONtrO. Nella foresteria Bodum in Danimarca lo stile danese è Made in Italy. > 6 mANtIs, tAvOLO gENtILE. Patricia Urquiola rivendica l’emozione: raccontare gli oggetti con gli stessi aggettivi con cui si parla delle persone. > 8 IL POstEr. è De Padova 2009. Ballano uomini e mobili, l’ordine futuro sarà inafferrabile. > 10 tEAtrO EssENzIALE. Nei nuovi uffici del Teatro Franco Parenti a Milano vanno in scena gli arredi disegnati da Vico Magistretti. > 13 IL PrANzO È sErvItO. Il buon gusto italo-francese della scuola di cucina MeMo chiama il buon architetto e il buon design. >14 vIAggIO NEL tEmPIO DELLE PArOLE. Lo stile De Padova si confronta con il rigore monumentale e solenne della sede del Corriere della Sera a Milano. > 15 PAUL KLEE zENtrUm. I mondi magici di Paul Klee affiorano a ridosso delle colline. FrAL ArCHItEttUrE. Uno studio d’architettura abita gli spazi di un palazzo dei primi del’900. > 16 INUtILE FUggIrE. Un racconto di Marco Ciriello. > 2 UN PIANO DI LUCE.

numero 0 | gennaio 2009 | È DepaDova | STraDa PaDana SuPeriore 280, 20090 VimoDrone (mi) iTaLia | TeL: +39 02 27439795 | FaX: +39 02 27439780 | inFo@DePaDoVa.iT | WWW.DePaDoVa.iT


Dove c’è progetto c’è De Padova. In mezzo alle nostre opere siamo colti da follia o stupidità, non sempre viviamo su piani che combaciano fra loro, il progetto prova a collegare questi piani, il vero progetto è dialogo fra le parti, dialettica, giusta misura, denominatore, soddisfazione delle necessità, superamento dell’impaccio, del vuoto e del problema. Fascino di una idea che trova forma.

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Silver

L a z o n a r i s t o r a z i o n e d e ll a n u o va s e d e d e i l S o l e 2 4 Or e

un piano di luce | foto Paolo Riolzi |

R

Quando si lavora nel centro storico di una città, non ci si dovrebbe preoccupare della mancanza di libertà, si dovrebbe essere grati delle restrizioni imposte. La creatività non ha bisogno di libertà, ha bisogno di regole: poi occasionalmente può essere piacevole violarle, queste regole.

enzo Piano l’ha fatto di nuovo. Ha rivoluto le Silver di Vico Magistretti. Questa volta per la zona ristorazione della nuova sede de Il Sole 24 Ore. Così come al Café Mezzanine del Centre George Pompidou, alla caffetteria della Morgan Library di New York e al Paul Klee Zentrum di Berna. Là nere, qui arancioni in omaggio al logo de Il Sole 24 Ore. Piano e Magistretti, due uomini che tutto sembra separare: l’età, la carriera, le origini. Eppure ci vuol poco a rintracciare nella loro idea del mondo e dell’architettura quel nocciolo duro che li unisce. Dice Piano: «Personalmente trovo che la mia voglia di esplorare sentieri non battuti vada perfettamente d’accordo con la mia riconoscenza nei confronti della tradizione. Forse questo è un tratto europeo, forse è specificatamente italiano. Certamente è l’eredità di una cultura umanista». Diceva Magistretti: «Il mio primo viaggio a New York nel ’54 mi ha dato molto, mi ha dato in anticipo la visione di un mondo di cui avevo solamente letto. Il viaggio è quello che ti apre la testa, come il latino, ti aiuta ad imparare che ci sono cose molto importanti, cose che gli altri fanno molto meglio, cose che si potrebbero fare meglio: insomma il viaggiare ti dà

trazione contro l’accumulo, per la produzione di serie invece del pezzo unico. Piano, a proposito del Beaubourg di Parigi, ha detto: «Ho cominciato a progettarlo quarant’anni fa con Richard Rogers: volevamo cancellare l’idea di un museo come luogo statico, sostanzialmente morto. Pensavamo ad un luogo per tutti, dove si discute delle opere, ma si cerca anche il dibattito». E le Silver? Che c’entrano le sedie di alluminio e plastica disegnate da Vico Magistretti per De Padova nel 1989, con questi fili di pensieri e parole? Ce lo spiega Magistretti raccontandoci di come sono nate, da pensieri e parole appunto: «Queste sono sedie con diverse varianti: con braccioli, senza braccioli. Sono fatte con materiali e tecnologie contemporanei. È un omaggio a Thonet, che ha fatto una sedia con una forma simile a questa, mi pare giusto averla riutilizzata, anche perchè mi sono sempre piaciute le Thonet, però non è più legno, è metallo; ed è plastica, non è più paglia. Allo stesso tempo è un omaggio ad altri oggetti che tu vedi nella realtà: è un ricordo dei cestini visti al mercato giapponese di Tokyo per tener dentro le uova, hanno questi buchi quadrati, che mi sono piaciuti moltissimo e li ho usati per il sedile e lo schienale di questa sedia».

Gianni Berengo Gardin

Renzo Piano

un’esperienza da liceo classico». Altra area di comune interesse per i due uomini è la cultura dell’informazione e della parola. Piano è diventato l’architetto di riferimento internazionale per i progetti che guardano all’informazione e alla cultura. Oltre alla sede de Il Sole 24 Ore, è suo il progetto del nuovo edificio del New York Times. Ma anche quello dell’ex area Falck di Sesto San Giovanni: una città-fabbrica che si trasforma in fabbrica di idee. Architetture aperte, trasparenti, leggere, “in ascolto” le ha definite Piano, pronte allo scambio. E Vico Magistretti? Qualcuno ha scritto di lui che trasformava le parole in design. Quando gli si chiedeva della sua collaborazione con De Padova rispondeva: «Da noi si lavora parlando, ricevendo persone, discutendo. Design vuol dire anche parlare assieme. Il mio lavoro è fatto di parole. È un dialogo tra competenze. Chiacchiero con quelli che producono, con l’operaio e con il tappezziere che conoscono tutti i segreti tecnici. Il segreto dell’Italian Design è tutto qui, nella stretta collaborazione tra produzione e progetto». Sono entrambi figli del Bauhaus, diversi ma simili. Vico era per il poco rispetto al troppo, per la sot-

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IL SOLE 24 ORE Milano, via Monte Rosa 91 Mensa e caffetteria Anno di realizzazione: 2004 Progetto architettonico e degli interni: Renzo Piano Building Workshop

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Dove c’è storia c’è De Padova. Puoi entrarci con le armi in pugno o in punta di piedi, da una finestra o in una pagina di quaderno, in bici o su una vecchia auto, non sai mai quando ci sei dentro e per davvero, lo scopri solo dopo, quando ormai è fatta, e a dirtelo sono gli altri, i volti di gente sconosciuta, le parole di una donna lontana, o solo una frase su un muro, lo stesso di quando eri bambino.

La foresteria Bodum in Danimarca

il destino di un incontro | foto Paolo Riolzi |

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l destino di un incontro parte sempre da lontano. A voler leggere i segni. La storia di casa Bodum, trenta chilometri fuori Copenhagen, affacciata sul Mar Baltico, è un esempio di come un incontro sia un insieme di fatalità, intelligenza ed energia, di volontà di cercare senso e connessione tra le cose. Tutto comincia un’estate del 1955 in piazza Duomo a Milano, quando Maddalena De Padova e suo marito Fernando cambiano programma di vacanze e, seguendo un pensiero sfuggente ma forte, partono per Copenhagen. C’è qualcosa che li spinge a conoscere i grandi spazi del nord Europa, il design scandinavo, le case arredate con mobili chiari e leggeri. A Copenhagen in quegli stessi anni il signor Peter Bodum, commerciante all’ingrosso di prodotti per cucina, ha un sogno: creare una propria linea

di prodotti. Avvicina giovani designer e grafici, li coinvolge, li invita a creare per lui. Nel 1958 lancia sul mercato la caffettiera Santos. Un successo non solo in Danimarca ma in tutta Europa: design e tecnologia. Perfetta e per tutti. E poi caffettiere, teiere, insalatiere, bicchieri, zuccheriere. Oggetti semplici, leggeri, trasparenti, nella tradizione del design scandinavo. Quello stile di design dei mobili che De Padova, nel 1958, aveva cominciato a importare e proporre in Italia, creando una piccola grande rivoluzione nelle case degli italiani. Intanto l’azienda Bodum cresce. Negli anni ’70 è Jörgen, il figlio di Peter, con la sorella a guidare la Bodum. Affidano a Carsten Jörgensen, insegnante alla Danish School of Art di Copenhagen, l’immagine e il disegno dei prodotti della Bodum. È il trionfo della filosofia dell’industrial design che

sognava Peter Bodum ed è il successo e l’espansione dell’azienda in tutto il mondo con 52 negozi monomarca. Jörgen Bodum apre uffici e negozi ma anche foresterie, eleganti spazi di ospitalità dove ricevere i propri collaboratori e organizzare incontri aziendali. L’ultima la vuole a Hornbæk, a pochi chilometri da uno dei musei di arte moderna più belli del mondo, il Louisiana. Ancora una volta deve arredare un luogo nuovo. Spazi spalancati sul mare, pieni di luce e di geometrie semplici, lineari. Ha un idea precisa in mente. Vuole che sia De Padova a dare vita a quegli spazi. È il destino, inevitabile, di un incontro, dove la curiosità di un viaggio di tanti anni fa dà vita oggi alla foresteria fotografata in queste pagine.

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BODUM Hornbæk, Danimarca foresteria Anno di realizzazione: 2007 Progetto architettonico e degli interni: Ronnie Yue con Jörgen Bodum Superficie del progetto: 300 m2

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Raffles

Incisa

Vidun

Basket

Sleeping car

Shine

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Dove c’è passione c’è De Padova. C’è quella dei profeti, delle donne o anche solo di quelli che sognano un mondo migliore, è una febbre che ammala e dona gioia, non è una utopia ma una verità che si intravede, qualche volta fa la voce grossa, ti fa sentire sicuro dove non lo sei, ti fa alzare da certi letti che nessuno mai, immaginare giorni migliori, è presente e futuro insieme, come un nodo, che ha una forma che ti pare di conoscere ma non riesci a darle nome.

Pat r i c i a Ur q u i o l a r a c c o n ta i l s u o u lt i m o pr o g e t t o p e r D e Pa d o va

mantis , tavolo gentile | foto Luciano S o ave |

«È un oggetto che vola su quattro gambe, un grande gesto che rimane gentile, ti viene voglia di ringraziarlo...»

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Patricia Urquiola nasce ad Oviedo, in Spagna. Studia alla Facultad de Arquitectura de Madrid e si laurea al Politecnico di Milano nel 1989, relatore della tesi Achille Castiglioni. Nel 1991 inizia a lavorare da De Padova nel settore ricerca e sviluppo. È qui che incontra Vico Magistretti. Altre tappe fondamentali della sua carriera sono nel 1994 la collaborazione con Piero Lissoni e, dal 1998, con Patrizia Moroso. Nel 2001 apre a Milano uno studio di progettazione.

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Patricia Urquiola rivendica l’emozione. È un tratto del carattere e un’impronta nel lavoro. Usa per raccontare gli oggetti gli stessi aggettivi con cui in genere si parla delle persone. Mantis, ad esempio, il programma di tavoli che ha disegnato per De Padova, è gentile. Gentile è il termine che ricorre continuamente nella nostra conversazione: «Il nuovo tavolo ha gambe in lamiera, materiale industriale gentile che è stato gentilmente piegato. Una trave centrale robusta, in alluminio fa da spina dorsale. Il piano è più sottile, con angoli smussati, un po’ come l’ala di un aereo». Patricia, come è nata l’idea di disegnare un tavolo da riunioni? «Ci siamo trovati con De Padova con la precisa volontà di ragionare su questo tipo di prodotto. Il mio rapporto con l’azienda è fatto di ricordi, memoria ed emozioni. Così, durante il briefing, ci è venuto in mente che avevo aiutato Vico Magistretti a realizzare Shine, un programma di tavoli ovali e rettangolari di varie dimensioni. Il gioco è stato quello di andare oltre». Shine punta sulla leggerezza, ed è un tavolo a metà tra l’uso domestico e l’ufficio. Qual è la chiave di Mantis? «Quella della struttura. Ho proposto un tavolo importante che potesse sostenere un piano lungo

fino a 7 metri perché è quello il limite entro il quale si riesce ad avere solo quattro punti di appoggio. Odio miniaturizzare i tavoli, a casa mia ne ho uno, all’ingresso, immenso. Maddalena De Padova mi diceva: “Se hai uno spazio piccolo mettici un tavolo grande”. È bello avere un piano dove appoggiare qualsiasi cosa, è una libreria orizzontale, fa da punto di riferimento. Mantis è nato grande e, solo in una seconda fase, lo abbiamo ridimensionato. Portato a dimensioni più naturali, entra davvero in qualsiasi ambiente. Si evolverà, in futuro, anche in una versione con tre punti d’appoggio. Le gambe sono allacciate alla trave centrale e, unite tra loro, creano un gioco interessante». Ci racconta i passaggi nella creazione del progetto? «È stato un lavoro leggero, scherzoso. Mentre lo realizzavamo un tecnico dell’azienda, mi diceva: “Ora ci saltiamo sopra e vedrai che tiene”. Il design implica sempre una ricerca tecnologica e anche Mantis è la storia di tante piccole rivincite. La tecnologia è sempre innovativa, ma ad una prima lettura l’oggetto non racconta la ricerca che c’è dietro. È un’altra cosa che ho imparato da De Padova: per loro la ricerca tecnologica è sempre combinata al tema della memoria. C’è il sapore artigianale e c’è l’innovazione». È forse questo il segreto della vera modernità? «Sì. È così che un prodotto diventa atemporale e quando è atemporale diventa un grande classico, anche se è nuovo.

Ieri passavo davanti alla vetrina di corso Venezia, e ho visto la mia Bergère come fosse lì da sempre. Anche per Mantis spero sia così. Mi sembra un vero De Padova: questa azienda mi ha dato un imprinting, mi piace che i miei oggetti siano perfettamente integrati in De Padova». Sei molto attiva, ma raramente ti dedichi a progetti per l’ufficio. Mantis forse significa una tua svolta nel mondo del contract? «Ho cercato di non fare un mobile da ufficio. Mi interessa il contrasto tra vari linguaggi e penso che il mondo dell’ufficio abbia bisogno di ingentilirsi, di mescolare gli elementi. Questa specie di magia a quattro piedi che è Mantis è nata per uno spazio riunioni, ma posso anche immaginarla in una casa di campagna dove vecchie architetture si confrontano con sapori industriali». Quando progetti a chi pensi? Hai sempre detto di essere la prima cliente di te stessa. «Non la prima, sono l’unica cliente che conosco. So quello che può piacere a me. Anche in questo Maddalena De Padova mi ha educata: ha sempre tenuto i suoi mobili in casa proprio per verificarli, si preoccupava di quello che offriva agli altri. Per me era una forma di onestà il fatto che si circondasse dei suoi oggetti». Questo vuol dire che tu useresti Mantis nel tuo studio? «Certo. Il grande tavolo ha la funzione di creare comunità».


patRIcIa uRquIol a La mia PRima voLta

il mio vero rapporto con il design è iniziato con De

Padova, con maddalena De Padova di cui sono stata assistente. era il mio primo lavoro. maddalena è una donna di grande personalità, molto intelligente, velocissima nel pensare e nell’agire. D’altra parte superare le barriere dei rapporti è la mia natura. Lei mi dava spazio, io mi esprimevo liberamente. ero abbastanza incosciente in queste cose. maddalena ha capito molto bene la mia indole e ha saputo usarmi, nel senso piacevole della parola, perché nel lavoro bisogna dare e ricevere. C’erano tensioni, preoccupazioni, ma anche divertimento. maddalena mi ha fatto capire che il lavoro, se ti accompagna tutta la vita come un amico, non come un obbligo, può diventare meraviglioso. Questo è stato il suo insegnamento ed anche quello di magistretti e di Castiglioni. un’altra cosa considero geniale nel nostro rapporto: lei era editrice ma io fin dall’inizio ho visto in lei l’industriale, il produttore, insomma l’interlocutore colto con cui dialogare, con cui poter discutere un progetto e crearlo. e infatti oggi il mio lavoro non è in ufficio. È nel rapporto con l’azienda, è lì che comincia il divertimento, un’ulteriore fase creativa.

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Ballano uomini e oggetti, l’ordine futuro sarà di gran lunga inafferrabile. Mostri tiepidi fra oggetti chiari, uomini disorganici mescolati a forme certe, un paesaggio di netti contrasti. Unici strumenti di lotta contro l’arrendevolezza alla banalità, che domina, metodica, e macina senza fermarsi. Inganno dispotico che t’invade, controlla. Per uscire dal vortice non ti resta che votarti a un oggetto d’ordine.

poster

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Dove c’è cultura c’è De Padova. Ha avuto servitori e capitani, abitato città future e posti dimenticati, è riuscita a rimanere se stessa nel pieno dei cambiamenti perpetui. Il suo difetto è stato non riconoscere i torti, involontari. Spesso è diventata ragione di vita, anche unica certezza nel caos per alcuni: una religione, per altri un nemico difficile da capire. Capace di mettere a nudo la verità e analizzare l’ordine, spesso scompare uguale alle nuvole. nel 197 3 nas ceva a Mil ano il Salone P ierlombard o, o ggi Fr anc o Parent i

un teatro essenziale | foto Luciano S o ave |

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Il progetto è sempre progetto della vita, perché gli oggetti parlano anche quando non li usiamo. Comunque dietro a ciascun progetto c’è un destino, un telos che va al di là della funzionalità pratica dell’oggetto stesso.

ess is more. Detto oggi sembra facile, ma provate ad immaginare nel 1973. In quegli anni la cultura a Milano era la Scala, il Piccolo Teatro, la Triennale, l’Umanitaria e il Circolo Turati. Cinque mostri sacri, con poca voglia di confrontarsi con il mondo e con il nuovo. Ma c’era qualcosa che stava per accadere, proprio nel 1973. La nascita di un teatro diverso. Lontano dalla retorica, dall’ampollosità e dai lampadari delle vignette di Giuseppe Novello. Lontano anche dal centro storico della città, in via Pier Lombardo, fuori Porta Romana. Nasceva pensato e voluto da un gruppo di teatranti, “I senza parrocchia, i randagi dello spirito e della cultura” come diceva Giovanni Testori, uno dei fondatori insieme a Franco Parenti, Dante Isella, Andrée Ruth Shammah e Gian Maurizio Fercioni. Less is more. Meno privilegi, meno pubblico, meno soldi. Un teatro essenziale. Intenso, raffinato e povero. Il Salone Pier Lombardo, dal nome della via che lo ospita, alza il sipario il 16 gennaio 1973 con l’Ambleto di Testori. Diventerà poi il Teatro Franco Parenti. Ma la storia è ancora lunga. Uno scrittore (Testori), un attore (Parenti), un

Michele De Lucchi

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TEATRO FRANCO PARENTI Milano, via Vasari 15

linguista (Isella), una regista (Shammah) e uno scenografo (Fercioni). Ognuno ha un proprio sogno, ma è insieme che decidono il programma, provano i testi, dipingono le scenografie. Vogliono un teatro per tutti, per Milano. Osano. Autori sconosciuti in Italia e classici rivisitati, Molière e Shaw, ma anche La Betia di Ruzante e le letture del Porta. Il Macbetto e l’Adalgisa di Testori. E così si scopre che in città c’è spazio per una milanesità colta ma non arrogante, politica ma non ideologica, aperta al nuovo ma non frivola. Il Teatro diventa possibilità, passione, vita. Luogo fisico e metafisico di spettacoli, letture, concerti, film, incontri. «Il Pier Lombardo» dice l’ex sindaco di Milano Carlo Tognoli «ha rappresentato da subito una nuova idea di teatro». Il teatro per la città e della città. E ancora ha scritto lo scrittore Giuseppe Pontiggia: «Il Pier Lombardo è stato uno spazio di libertà, sperimentazioni, rinnovamento, in anni in cui Il Piccolo esercitava sulla vita teatrale milanese un comprensibile ma anche pericoloso dominio dal punto di vista creativo». 1983. Va in scena il Processo alla cultura. Il pubblico è così numeroso che viene dirottato da via

Uffici, caffetteria, foyer Anno di realizzazione: 2007 Progetto architettonico: Michele De Lucchi Progetto degli interni: Teatro Franco Parenti Superficie di progetto: 530 m2

Pier Lombardo al Teatro Lirico per cinque incontri, coordinati dal filosofo Emanuele Severino. Si parla di religione, scienza e filosofia. Temi non facili né popolari. Milano risponde a questa e ad altre sollecitazioni. Come la “sei giorni” M.A.F.I.A., sempre nel 1983: testimonianze, film, poesie e documenti sul fenomeno mafioso. Al Salone Pier Lombardo si va per parlare e ascoltare di tutto. Lo conferma Philippe Daverio: «è il teatro della comunità dove la gente, incontrandosi, vive». 16 gennaio 1998. Si festeggiano i 25 anni del Franco Parenti. È il giorno della svolta. Milano partecipa, sono in tanti a testimoniare affetto per il Teatro e per Andrée Shammah, rimasta sola alla guida, dopo la morte di Parenti e Testori. Il Teatro esce da via Pier Lombardo e invade la città, portando Ondine a Villa Reale, programmando spettacoli presso i chiostri della Società Umanitaria e presso il Castello Sforzesco. Si ripensa, vuole andare oltre. Diventa Fondazione e comincia a progettare uno spazio per la cultura. «Libertà non è ciò che abbiamo, ma tutto ciò che dobbiamo ancora prendere» (aforisma tratto dalla rubrica Il dito nell’occhio, curata da Franco Parenti su l’Avanti, nel 1958).

In queste pagine alcune foto dell’ingresso e del foyer del Teatro Franco Parenti. Nei camerini e negli uffici i mobili De Padova colloquiano con arredi tradizionali e di recupero da mercatini antiquari.


Assuan

Tools

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Dove c’è gUstO c’è De Padova. Lo spirito di dissoluzione pervade ogni cosa, disarmandoci, quando crediamo di obbedire a Dio, stiamo eseguendo gli ordini d’altri uomini. Difficile districarsi fra fede, morale e autorità. Il gusto evita la schiavitù della confusione. La consolazione materiale dell’inutile, educa all’armonia, abitua lo sguardo alla ricerca dell’efficiente e del bello. Prende forme strane, spesso lo trovi dove non ti aspetteresti.

Lo spazio sembra non bastare più e nel 2007 si avvia la ristrutturazione del teatro. Il progetto di ampliamento, firmato da Michele De Lucchi con la direzione artistica di Andrée Ruth Shammah e la collaborazione di Gian Maurizio Fercioni per le scene, si sviluppa attraverso quattro corpi di fabbrica organizzati intorno alla Sala Grande. Scale e passerelle a vista portano alle sale. Una promenade architecturale che attraversa il foyer e mette in comunicazione, anche visiva, i diversi livelli. Ma ristrutturare la sede originaria di via Pier Lombardo significa anche “rifondare” il Teatro Franco Parenti. Identità, spazio architettonico e percorso artistico sono parte di un unico progetto che comprende i grandi classici Eschilo, Euripide e Shakespeare rivisitati in chiave moderna, il filone magico-epico-fantastico e infine la contemporaneità del Racconto Italiano. Dal 2007, come in un cantiere aperto, alcuni protagonisti della cultura di oggi danno vita alla nuova sede del Teatro Franco Parenti. Amos Oz, Guido Ceronetti e Carlo Cecchi posano mattoni invisibili come semi augurali alla rinascita del Teatro. «Una delle grandezze del Pier Lombardo» dice Rosellina Archinto «è aver aiutato i milanesi ad entrare nel teatro».

i n t e R v i s ta a d a n d R é e R u t h s h a m m a h

il senso della durata e la mia milano

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anDRée RUth ShaMMah regista teatrale e anima del Teatro Franco Parenti, andrée ruth Shammah è fra le personalità di spicco del panorama culturale italiano. nata a milano nel 1948, di origine siriana e di formazione cosmopolita, si è formata a Parigi e al Piccolo Teatro con giorgio Strehler e Paolo grassi. Con le sue settanta regie tra cui la memorabile trilogia di Ambleto, Macbetto e Edipus oltre a I promessi sposi alla prova - è riuscita ad imprimere al teatro contemporaneo e alla cultura italiana decisi segni innovativi, aprendo prospettive che hanno anticipato nuovi orientamenti, espressioni e letture spesso diverse da quelle consolidate.

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uando entri al Teatro Franco Parenti trovi, nella parte rinnovata degli uffici, le sedie e i divani disegnati da Vico Magistretti per De Padova. Abbiamo chiesto ad Andrée Ruth Shammah di raccontare il suo incontro con il mondo De Padova. «Io e Maddalena De Padova siamo donne che pensano al lavoro come passione in cui mettere tutto. Maddalena si è accanita per il gusto della bellezza di alcune forme. Questo è molto vicino al mio modo di fare teatro: la ricerca di una forma. De Padova è sempre stata capace di rinnovarsi, nell’essenzialità e nell’eleganza. Basti pensare a Magistretti, l’uomo che ha fatto il tavolo più “tavolo”, la sedia più “sedia”. Così il mio teatro è un teatro essenziale perché non ha scenografie, non ha ornamenti. Ho sempre cercato anch’io l’essenziale. Passo davanti al negozio di De Padova da trent’anni ogni giorno, ed è l’unica vetrina che guardo sempre con grande allegria. Quando si è trattato di mettere a posto il Teatro, e di rifare gli uffici, ho pensato subito di chiedere a De Padova. Nella struttura architettonica del nostro Teatro la par-

te che dà sulla strada sono uffici. La parte più interna e notturna sono i camerini, molto elaborati, romantici, quasi Liberty. Per me non c’era dubbio che il luogo dove concentrarsi, il luogo della razionalità che lasciava spazio alla fantasia, dovesse essere arredato da De Padova». La milanesità è un altro tratto comune? «Magari Milano fosse, e non lo è purtroppo, fatta di sinergie tra le persone. Questa dovrebbe essere la qualità principale di Milano: la milanesità. Invece oggi è tutto più casuale. Pochi hanno la continuità estetica di De Padova, così come pochi hanno la continuità che credo di avere avuto io. Stimavo e ammiravo molto Magistretti. Nella sua vita e nei suoi disegni c’è la qualità della Milano di cui parlo, ci sono i valori, le cose che non devono andare perse. Da De Padova c’è un’identità. E allora non è più soltanto un’azienda, diventa un centro, un luogo, un pensiero, un sistema di valori. Questo vale anche per un teatro. Milano dovrebbe essere la somma di questo sistema di valori. Definirli e riconoscerli nella propria storia e nella storia di quelli che ci circondano e che condividono questi valori, aiuta una città ad avere una memoria. È importante capire perché una persona può durare. Se c’è il senso della durata in quello che fai, alla fine raggiungi una classicità anche nelle cose che inventi. Vuol dire che ciò che andava bene allora, va bene adesso e andrà bene domani. Non che ti giri e dici: “Oddio, come ha stancato questa cosa”. È la grande difficoltà nella moda e nel design. De Padova ha raggiunto la classicità grazie alla durata negli anni e perché ha saputo lavorare con i più grandi del design internazionale».


Cirene

Dan

Pollack

Quadrato

N e ll o s pa z i o M e m ò , s c u o l a d i c u c i n a i ta l o - f r a n c e s e

il pranzo è servito | f o t o R o b e r t o To m a s i |

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l grande dandy della letteratura inglese Oscar Wilde e l’“adorata creatura” Virginia Woolf la pensavano allo stesso modo sul cibo: il primo non sopportava quelli che non lo prendevano seriamente, la seconda dichiarava che uno non può pensare bene, amare bene, dormire bene, se non ha mangiato bene. Non possono che condividere il pensiero quelli di des Mets & des Mots, luogo del cibo e delle parole, aperto a Milano nell’ex area industriale Richard Ginori. MeMo non è solo una scuola di cucina, ma luogo di passione e di cultura dove preparare ricette italiane e d’oltralpe conversando, a scelta, in italiano o in francese. L’immagine dello spazio che ospita MeMo si muove tra professionalità e tecnologia, alla ricerca di una identità forte. Ma se si parla di cucina l’atmosfera non può essere che quella di casa, dove c’è

DES METS & DES MOTS MeMo Milano, via Morimondo 26 Area scuola e uffici Anno di realizzazione: 2007 Progetto architettonico e degli interni: Alessandra Ubertazzi Superficie del progetto: 200 m2

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spazio per consigli e chiacchiere, lezioni e assaggi. MeMo ha scelto un arredamento elegante, funzionale, senza tempo. I mobili De Padova rispondono a queste caratteristiche: i tavoli Quadrato, le sedie Cirene, i tavolini Dan, le poltroncine Pollack. Come dice qualcuno, la buona cucina chiama il buon architetto e il buon design. Lo fa da tempo Ferran Adrià che disegna i suoi piatti componendo e riassemblando gli elementi. Lo fa Jean Nouvel che a Parigi firma il ristorante Les Ombres, finestra gastronomica sui cinque continenti a fianco del suo nuovo Musée du Quai Branly. Lo fanno a Milano Carlo Cracco e Moreno Cedroni, chef celebri e celebrati, che collaborano con la Triennale: l’uno nel Palazzo dell’Arte, l’altro alla Bovisa. Signori e signori, il buon pranzo è servito.

DES METS & DES MOTS Due grandi tradizioni culinarie per la scuola di cucina e associazione culturale con sede a Milano, in via Morimondo, lungo il Naviglio Grande. Il progetto di recupero dell’ex area industriale della Società Ceramica Richard Ginori è durato nove mesi ed è stato diretto dall’architetto Alessandra Ubertazzi. I fondatori di des Mets & des Mots sono Ferdinando Tanara, italiano appassionato di Francia, e Elisabeth Bertolino, parigina di nascita e milanese d’adozione. Ad insegnare non sono chef professionisti, ma appassionati. Ogni tre mesi viene rinnovato un calendario di iniziative che vanno dai corsi di cucina creativa a quello per dolci francesi.

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Dove c’è informazione c’è De Padova. Sbagliando rotta nutriamo il vero amore, si cresce per accumuli di errori e non per facili vittorie. Dalla logica è difficile uscire, perché l’improvvisazione è un’arte faticosa da imparare. Dall’eccesso nascono i crimini, dal poco germogliano gli schiavi, nel mezzo stanno gli uomini infallibili che quando cadono, poi, tutti ne parlano. La vera informazione ha lo stile di chi sa uscire da un labirinto senza sudare.

N e ll a s e d e d e l C o rr i e r e d e ll a S e r a r i s t r u t t u r ata d a Gr e g o t t i

viaggio nel tempio delle parole | foto Luciano S o ave |

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on è semplice affrontare un monumento o entrare in un tempio. Il Corriere della Sera è entrambe le cose: monumento civico di Milano e tempio del giornalismo italiano. “La fabbrica del Corriere della Sera” è il titolo che Vittorio Gregotti ha dato al libro con cui nel 2006 ha raccontato la sua ristrutturazione della sede del quotidiano di via Solferino, attribuendo così al monumento-tempio una terza valenza, quella industriale. Via Solferino, via Moscova, via San Marco e via Montebello. L’area, affidata nel 1989 ai lavori di restauro, è chiusa in queste quattro vie tra gli edifici dei primi del ‘900 di Luca Beltrami e le parti più recenti progettate alla fine degli anni ’50 da Alberto Rosselli. Ha scritto Gregotti che il suo ha voluto essere un intervento «senza alzare la voce» effettuato «con pazienza, facendo silenzio attorno per essere capaci di vedere piccolo». Ciò che richiede appunto un tempio-monumento-fabbrica. Allora via dal chiasso della moda e dall’idea di una comunicazione troppo tecnologica e globale. Sì alla riorganizzazione degli spazi nel rispetto di un lavoro, il giornalismo, che è cambiato radicalmente nell’ultimo decennio. La Milano che continua a comprare e a leggere il Corriere della Sera assomiglia ancora, in gran parte, al suo tempio-monumento: attenta alle tradizioni, sobria, perfino calvinista. Ma interessata al nuovo,

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RCS MEDIAGROUP Milano, via San Marco 21

Uffici direzionali e segreteria di direzione Anno di realizzazione: 2006 Progetto architettonico: Gregotti & Associati Progetto degli interni: Franco De Nigris Superficie del progetto: 1.786 m2

RCS CORRIERE DELLA SERA Milano, via Solferino 28

dove il nuovo è stimolo alla produzione e creatore di identità sociale. È una faccia della Milano moderna che nasce negli anni ’50. Negli stessi anni in cui De Padova contribuisce all’educazione del gusto dell’arredare dei milanesi. Ed è per questo che nei nuovi uffici dirigenziali del Corriere della Sera oggi è quasi scontato, naturale vedere i pezzi di De Padova. Prima tra tutti la 606, la storica libreria del designer tedesco Dieter Rams, nata in legno negli anni ’60, che De Padova, vent’anni dopo rivoluzionò, ripensandola in alluminio. E ancora, ad arredare altri spazi, la collezione Shine di Vico Magistretti: tavoli bianchi con la base in lega di alluminio, contenitori bassi con il piano in rovere. Oppure la serie Tools, disegnata da Pierluigi Cerri, un sistema di cassettiere semplici, ribalte e librerie componibili all’infinito. Quella semplicità, per dirla con le parole di Vanni Pasca, critico e storico del design, «che non significa riduzione e tanto meno ostentazione compiaciuta di sé, ma soluzione del complesso tema del vivere la casa e l’ufficio, espressione del gusto di vivere e abitare gli spazi con disinvolta naturalezza». In fondo quello tra il Corriere della Sera e De Padova era un incontro inevitabile. Non era stato George Nelson, icona del design americano, di passaggio a Milano, a definire De Padova il tempio del design italiano?

Uffici direzionali e segreteria di direzione Anno di realizzazione: 2007 Progetto degli interni: Franco De Nigris Superficie del progetto: 300 m2


Shine

aLcuni dei nostRi cLienti contRact Su richiesta è disponibile la lista completa

606 u.S.S.

tools

è De padova

dei nostri clienti contract e dei nostri punti vendita.

paul klee zentRum BeRna foto Luciano S o ave

industRia e commeRcio 1. Barilla [Parma] 2. Bodum [Lucerna, Hornbæk, New York, Shangai] 3. Disano illuminazione [Dorno-Pv] 4. Ferrero Spa [alba (Cn)] 5. Finmeccanica [Hong Kong, miami, mosca, New York, Roma] 6. mc Kinsey & Company [milano] 7. multiplex Pathé Lingotto [torino] 8. Rolex Sa [Ginevra]

moda e accessoRi 9. Best Company [Carpi (mo)] 10. Diego della valle [ascoli Piceno, milano] 11. Hugo Boss [Zug] 12. moschino [milano] 13. tod’s Spa [ascoli Piceno, milano]

Banche, finanziaRie e assicuRazioni 14. UBi Banche Popolari [italia] 15. Barclays Private Equity [milano]

RistoRante schöngRün anno di realizzazione: 2007 Progetto architettonico e degli interni: renzo Piano building Workshop superficie del progetto: 16.000 m2 Rivenditore: Teo Jacob, berna

16. Santander [madrid]

Periferia di Berna. Qui i mondi magici di Paul Klee affiorano a ridosso delle colline. Li rievocano le tre onde d’acciaio e vetro disegnate da Renzo Piano per il Paul Klee Zentrum. aperto dal 2005 il centro raccoglie i lasciti degli eredi e della fondazione omonima e oltre quattromila opere dell’artista, tra piccoli e grandi

disegni, acquerelli e dipinti a olio. Sedicimila metri quadrati di superficie, coperti da mille e cento tonnellate d’acciaio e luce naturale che ospitano non solo spazi espositivi, ma anche aree ristoro e uffici che Renzo Piano ha voluto arredati con le sedie Silver di De Padova, un classico da interno e da esterno.

17. Starfin [Lugano]

fRal aRchItettuRe meLegnano

comunicazione, editoRia 18. De agostini [Novara]

foto Luciano S o ave

19. Peppermint [monaco di Baviera] 20. RCS Corriere della Sera [milano]

Uno studio d’architettura occupa gli spazi a pian terreno e al primo piano di un palazzo dei primi del ‘900. i lavori di ristrutturazione dell’esterno e degli ambienti sono terminati da poco. Le stanze si affacciano su un grazioso cortiletto interno. L’architetto aldo Ruffini ha scelto il centro storico di melegnano (milano) per il suo studio che sviluppa progetti di edilizia civile e industriale. Ecco come spiega le sue scelte: “Ho cercato una simbiosi positiva. volevo far coesistere gli elementi antichi del palazzo e di una parte dell’arredamento, con un arredamento razionale e pulito di cui un ambiente di lavoro contemporaneo ha bisogno. in questo senso la

aLBeRghi , RistoRanti , caffetteRie, cLuB 21. Café Wien & Restaurant [Kassel] 22. Carlton Hotel [Norimberga] 23. Cipriani Club Residences [New York] 24. Hotel Chalet del Golf [Puigcerda (Girona)] 25. Hotel Reina Petronilla [Zaragoza] 26. Karnerhof SPa [Lake Faak – austria] 27. mandarin Hotel [Barcellona] 28. Ristorante Guastavino’s [New York] 29. Warmbader thermhotel [villach – austria]

e n t i P u B B L i c i e P R i v at i

razionalità e il disegno lineare tipici di De Padova mi hanno convinto a puntare su alcuni mobili della collezione”. “altre volte mi era capitato di trovarmi ad arredare spazi di natura diversa e spesso ho risolto i conflitti di stile utilizzando gli elementi di De Padova.” E infatti in quella che Ruffini chiama la Sala del Disegno (“anche se poi - spiega - chi disegna più a mano? ormai si lavora solo al computer”) ha composto una serie di tavoli tools bianchi in batterie in modo da sfruttare al meglio la luce. Le sedie Work con seduta arancio, il pavimento di doghe in legno chiaro, le pareti bianche: la scelta è quella di ambienti che catturano

30. aeroporto di Palma di maiorca [Palma di maiorca] 31. CDi [milano] 32. Fondazione Proa [Buenos aires] 33. Hummer team LtD [Pafos – Cipro] 34. iFaD agenzia oNU [Roma] 35. Porto turistico di Palau [Palau (Ss)] 36. teatro Franco Parenti [milano] 37. tenaris University Residence [Campana – argentina]

musei e BiBLioteche 38. Centre G. Pompidou [Parigi] 39. museo Prado [madrid] 40. the morgan Library & museum [New York]

Uffici, sala disegno, sala RiUnione anno di realizzazione: 2007 Progetto degli interni: aldo ruffini superficie del progetto: 2 90 m

e riflettono luce. Così come nella sala riunioni per la quale Ruffini ha scelto un grande tavolo ovale Shine e sedie Silver con la seduta bianca che convivono in armonia con un’antica cassettiera di noce. E alle pareti, dove gli uffici hanno necessità di librerie, la scelta è caduta sull’intramontabile libreria 606 di Dieter Rams, flessibile, elegante, leggera, perfettamente simbiotica.

ambienTi | 15 |


il magazine semestrale di

È De padova Strada Padana Super iore, 280. vimodrone (mi )

aRt DiRECtoR fRancesca cavazzuti , maRio Piazza | tESti 3d PRoduzioni | CooRDiNamENto EDitoRiaLE didi gnocchi | tESti iNCiPit E RaCCoNto maRco ciRieLLo | PRoGEt to GRaFiCo E imPaGiNaZioNE 46xy studio | FotoGRaFiE PaoLo RioLzi , RoBeRto tomasi , Luciano soave | EDitiNG E CooRDiNamENto tRaDUZioNi maRta monaco | tRaDUZioNi: iNGLESE-tRansiting.eu/stePhen PiccoLo, FRaNCESE-Régine cavaLL aRo, SPaGNoLo-nieves aRRiBas, tEDESCo- guntheR f. Roeschmann | iLLUStRaZioNi aLex+aLex | FotoLitoGRaFia aRticRom, usmate (Lc) | StamPa gRafiche miL ani , segRate (mi ) | Si RiNGRaZiaNo iL soLe 24 oRe , miL ano - Bodum, hoRnBÆK - teatRo fRanco PaRenti , miL ano des mets & des mots, miL ano - Rcs coRRieRe deLL a seRa , miL ano - RistoRante schÖngRÜn, BeRn - teo JacoB, BeRn - aLdo Ruffini , meLegnano

iNUtiLE FUGGiRE I’m Nobody! Who are you? Emily Dickinson | di marco Cir iello |

e

ro nei bagni della Penn Station di New York,

nelle orecchie avevo lo speaker che annunciava il

mio treno, quando ho

sentito un colpo di pistola alle mie spalle. Lentamente mi sono voltato e non c’era nulla.

Il colpo, forse, era stato

esploso in una delle latrine che stavano di fronte agli orinatoi murari. E se poco prima

avevo visto due persone davanti allo specchio alla mia destra: un negro con una giacca da netturbino e un ragazzo biondo e imbrillantinato, ora non c’era nessuno, e la mia unica certezza veniva dal basso: mi ero pisciato sui pantaloni e le scarpe. Sono stato immobile per qualche minuto, ho avuto tantissima paura, volevo correre lontano, senza riuscirci.

Poi, visto che non succedeva

niente, mi sono fatto coraggio ed ho aperto con lentezza tutte le porte delle latrine. E non so perché non mi

sono dato. Avevo una strana

sicurezza. Procedevo con cautela da

film: mi poggiavo al muro che divideva i bagni, aprivo la porta con forza e

poi tornavo di lato, togliendomi dalla

visuale. Precauzione inutile, se qualcuno avesse voluto eliminarmi, avrebbe

potuto farlo con molto comodo prima.

Mentre pensavo queste cose giuste e facevo quelle sbagliate, alla quinta

porta mi sono trovato di fronte a un

uomo che si era fatto saltare le cervella. Non so quanto tempo è passato fra

il colpo e quelle mie assurde azioni, so che quando sono uscito dai bagni a chiedere aiuto: la Pennsylvania Station era vuota, sì, vuota, da non credere. Deserta, completamente, come in un sogno. Ricordavo un film di Terry Gilliam dove tutti, qui, ballano all’improvviso un valzer, e quello ci sta: con Tom Waits a fare da clochard, anche, ma la Penn vuota no. O ero nel peggiore dei miei incubi oppure stava succedendo qualcosa di pazzesco. Sono tornato in bagno, e guardandomi allo

specchio non mi sono riconosciuto:

smunto, impaurito, perso. E intorno: il silenzio. Un vero lungo attimo di terrore

rotto dallo scroscio dell’acqua che ho

aperto per infilarci la testa. No, non chiedetemi quanto tempo è passato, non lo so,

non sentivo rumori, ma solo vuoto.

Quando sono riemerso, ho staccato della carta dal raccoglitore a muro e asciugandomi la testa sono tornato dall’uomo che si era sparato. Era ancora lì. Il suo sangue schizzato sulle piastrelle,

il volto contratto e un buco nella tempia. Sembra un quadro di Bacon, ho stupidamente osservato

ad alta voce, prima di guardare con

maggiore attenzione l’uomo. Scarpe, jeans, giacca, maglione. Non doveva passarsela male. Il viso

aveva qualcosa di familiare. Era forse

famoso? Quando ho distolto lo sguardo e mi sono allontanato ho anche socchiuso la porta, quasi

a voler coprire quella scena. Volevo

salvaguardare la scoperta o solo mettere in salvo ancora per poco da altri occhi l’intimità di

quell’uomo? L’ho fatto senza pensarci, e appannando la porta sono venuto via. Uno che

decide di spararsi alla Penn Station

non si stava preoccupando della propria privacy. Almeno, non credo. A quest’ora la

stazione dovrebbe essere zeppa di

gente, questo bagno ingoiare e vomitare uomini, invece c’è solo silenzio, la stazione

è ancora vuota. I treni fermi, lo

speaker muto, e io sono di nuovo immerso nel mio peggior incubo. Che sta succedendo a New York? Mi sono anche furtivamente affacciato di fronte: nella toilette delle donne, nulla. Incredibile. Quando ho visto muoversi in lontananza un uomo in divisa e infilarsi in un corridoio. Sono andato dritto da lui, e no, nemmeno in

quel momento ho pensato di scappare. Avrei potuto farlo: ero solo, in una delle più

grandi stazioni del mondo, il poliziotto era

di spalle, non mi aveva visto, ma io avevo davanti la faccia di quell’uomo immerso

in una pozza di sangue. «Anche se l’umanità è strana, ci appartiene»,

ripeteva mia madre guardandosi allo specchio la domenica mattina, prima di uscire per andare

in chiesa. Forse, proprio, per questa frase che

mi ronzava in testa, non ho tagliato la corda. Ho raggiunto il poliziotto e l’ho convinto a

seguirmi. E no, non ho ascoltato la sua voce, avevo negli occhi l’esplosione della testa di un uomo che mi apparteneva per il resto del tempo. Non sentivo le sue domande, ma pensavo al dopo. E quando siamo tornati nei bagni, ho capito che ero molto molto più vecchio dei miei giorni, dopo quel pomeriggio, e che quello era un irreversibile punto di caduta. Non

puoi saperlo quando sei sul lato sbagliato del fiume.

Mi ripetevo, prima di notare la scritta rossa sul muro: To enjoy good

health. Una frase assurda sulla buona salute, in un

cesso, senza firma, faceva da epitaffio a un suicidio. Ho guardato il

poliziotto e con un tono da annunciatore alla radio

gli ho detto: «non si preoccupi, siamo finiti in un racconto di Paul Auster». | 16 | iL raCConTo


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