Oxygen n. 19 - Governance, futuro plurale

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19 04.2013 La scienza per tutti



comitato scientifico Enrico Alleva (presidente) Giulio Ballio Roberto Cingolani Paolo Andrea Colombo Fulvio Conti Derrick De Kerckhove Niles Eldredge Paola Girdinio Helga Nowotny Telmo Pievani Francesco Profumo Carlo Rizzuto Robert Stavins Umberto Veronesi

art direction e progetto grafico undesign ricerca iconografica e photoediting white distribuzione esclusiva per l’Italia Messaggerie Libri spa t 800 804 900 promozione Istituto Geografico DeAgostini spa

direttore responsabile Gianluca Comin direttore editoriale Vittorio Bo coordinamento editoriale Pino Buongiorno Luca Di Nardo Giorgio Gianotto Paolo Iammatteo Dina Zanieri

rivista trimestrale edita da Codice Edizioni

managing editor Stefano Milano redazione Cecilia Toso collaboratori Simone Arcagni Davide Coero Borga Anna Franchin Francesca Pellas traduzioni Susanna Bourlot Laura Culver Gail McDowell

via Giuseppe Pomba 17 10123 Torino t +39 011 19700579 oxygen@codiceedizioni.it www.codiceedizioni.it/ oxygen www.enel.com/oxygen

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Oxygen nasce da un’idea di Enel, per promuovere la diffusione del pensiero e del dialogo scientifico


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sommario

Governance, futuro plurale La crisi economico-finanziaria e la rivoluzione nel modello sociale contemporaneo hanno imposto l’avvento di una nuova era che vede avanzare protagonisti “inaspettati”, sempre più influenti negli equilibri geopolitici globali. Mentre il potere di governi nazionali e organizzazioni sovranazionali sembra diluirsi, emergono nuovi attori a guidare il “soft power” delle relazioni e nelle evoluzioni internazionali: sono le corporation, le organizzazioni non governative e i social media che danno voce a milioni di cittadini. Ecco le nuove forze politiche, economiche e sociali che riusciranno a imporre la propria visione sul Pianeta.

10˜ editoriale Alla ricerca di un nuovo governo del mondo di Vittorio Emanuele Parsi

12˜ opinioni I cittadini governeranno loro stessi di Shimon Peres Dal World Economic Forum di Davos, Shimon Peres racconta con ottimismo un futuro in cui le persone governeranno loro stesse, supportate dallo Stato, dalle global company e dalla scienza. Perseguire ugualmente la diversità e soddisfare i desideri comuni a tutti gli individui aiuterà ad allontanarsi dalla crisi economica.

16˜ anteprima L’antifragile: un nuovo trend per salvare la modernità di Nassim Nicholas Taleb «Afferrando il meccanismo dell’antifragilità possiamo costruire una guida, sistematica e di ampio respiro, ai processi decisionali non-predittivi in condizioni di incertezza nei più diversi campi: economia, politica, medicina e la vita in generale, in tutti quei casi, in definitiva, in cui prepondera l’ignoto, qualsiasi situazione in cui sussistono casualità, imprevedibilità, opacità o una comprensione incompleta delle cose».

20˜ intervista a parag khanna Le frontiere del “regionalismo aperto” di Stefano Milano

× Chi governerà il mondo? ×

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Dalla crisi economica al “regionalismo aperto”, passando per la politica estera e la corsa all’indipendenza energetica degli Stati Uniti, la difficile fase dell’Unione Europea, i Paesi in forte ascesa e il loro rapporto con la democrazia, fino ai nuovi attori della governance di un mondo «multi-stakeholder» e al ruolo sempre maggiore che assumono le città.


26˜ passepartout

40˜ contesti

Economie (poco democratiche) crescono

Italia, interlocutore “speciale” dell’Europa di Franco Bruni

28˜ contesti Obama II: un’agenda più interventista di Paolo Magri «Cosa è legittimo attendersi dopo due decenni di (pie) illusioni, dal secondo mandato di Obama? Cautela e realismo sono d’obbligo. Nonostante i pronunciamenti pubblici e l’agenda, non è però da escludere un significativo cambio di passo nella proiezione internazionale di Obama II». Le priorità? Medio Oriente, Cina, istituzioni della governance mondiale.

«Una nuova fase di “interventismo diplomatico” in grado di dimostrare che essere cauti e pragmatici non significa necessariamente essere passivi o “disengaged”» 34˜ contesti L’Eurozona tra l’incudine e il martello di Karel Lannoo Il rigore ha contraddistinto il rinnovato Patto di stabilità e crescita (PSC), il nocciolo della struttura di governance economica dell’Unione Europea. Ma, secondo le ultime previsioni, nel 2013 l’Europa avrà una crescita a zero e una disoccupazione record all’11%. Una situazione che sta mettendo sotto pressione i governi europei, affinché spieghino cosa stanno facendo e perché. Intanto cresce il malcontento: secondo Eurobarometro, il 29% della popolazione ha una visione negativa o molto negativa dell’UE, una percentuale mai toccata prima.

Il rapporto tra l’Europa e l’Italia, il ruolo ricoperto da un Paese membro con un peso speciale all’interno degli equilibri economici e il suo contributo al Meccanismo europeo di stabilità e al Patto per la crescita e l’occupazione, ai loro vantaggi e alle loro criticità. L’Europa è un luogo di dibattito e l’Italia ne è uno degli interlocutori imprescindibili.

44˜ scenari Energia cambia tutto! di Fatih Birol Gas, petrolio, energia nucleare, energie rinnovabili: a seconda delle disponibilità e delle strategie di esportazione di ogni Paese, la mappa mondiale si sta ridisegnando. Le nazioni con un futuro più roseo possiedono risorse e, allo stesso tempo, si danno standard rigorosi di efficienza energetica.

50˜ contesti Cina e India fra competizione e collaborazione di Kishore Mahbubani «Le sfide comuni e gli interessi condivisi della Cina e dell’India inducono a credere che le relazioni tra i due Paesi oscilleranno tra competizione e collaborazione. Ora che l’Occidente sta lentamente arretrando dalla scena globale, le due future superpotenze mondiali devono assumersi maggiormente la responsabilità del benessere del nostro mondo».

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oxygen | 19 — 04.2013

55˜ intervista a francesco sisci

68˜ opinioni Tweet & Quotes

Cina: è l’ora delle riforme. Politiche di Cecilia Toso Con l’elezione del nuovo Presidente della Repubblica Popolare Cinese, Xi Jimping, si apre una stagione di riforme politiche che succederà a quella di riforme economiche. Una trasformazione inevitabile e controllata della potenza mondiale cinese.

«Una nazione che non ha il controllo sulle proprie risorse energetiche non ha il controllo sul proprio futuro» (@BarackObama)

56˜ contesti

70˜ approfondimento

La società civile guida la democrazia in America Latina di Leonardo Morlino

Una nuova misura del benessere oltre il PIL di Donato Speroni

L’America Latina punta, con le sue contraddizioni e difficili condizioni politiche ed economiche, alla democrazia. Le diverse situazioni dei Paesi latinoamericani non creano altrettanti tipi di democrazia, ma solo democrazie buone o cattive, che è importante imparare a valutare e misurare. Per capire come migliorarle.

61˜ focus le due americhe e la ripresa possibile

62˜ reportage La guerra di Aleppo e la Siria che verrà di Gabriele Del Grande fotografie Alessio Genovese Dopo la Prima guerra mondiale si è ribellata all’Impero ottomano. Dopo la seconda ha conquistato l’indipendenza. Dopo la guerra che infuria oggi, invece, la Siria potrebbe smettere di esistere. Mentre il mondo guarda altrove, il Paese si sta disintegrando e rischia di trascinare con sé gli Stati circostanti e di alimentare il jihad. Per Oxygen, un reportage esclusivo da Aleppo.

67˜ focus Giordania: il cuore pacifico del Medio Oriente

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Perché i Paesi raggiungano tutti uno stesso livello di progresso, è necessario trovare un’idea comune di sviluppo e quindi obiettivi comuni. Mentre l’ONU stabilisce i traguardi da raggiungere nei prossimi 15 anni, il mondo cerca nuovi indicatori che stabiliscano quale sia il vero benessere di una nazione.

74˜ approfondimento Un Paese emergente alla guida del WTO di Maurizio Molinari L’Organizzazione mondiale del commercio (WTO) rinnova i vertici e sarà la prima grande istituzione economica internazionale guidata dal rappresentante di un’economia emergente. Questo evento spartiacque è però segnato da una sfida senza esclusione di colpi fra i due Paesi con i candidati più accreditati: Indonesia e Brasile.

80˜ opinioni Occupy… What? di Tom Kington Gli Indignados in Spagna, i movimenti di Occupy negli Stati Uniti e in Gran Bretagna e il gruppo Yo Soy 132 in Messico. Le migliaia di persone accampate a Madrid, Londra e a Wall Street nel 2011 sono state solo una breve, rumorosa protesta portata avanti da studenti che twittavano sui loro iPhone? O sono state qualcosa di più profondo, che ha lasciato un segno sul governo democratico?


sommario |

86˜ focus LiquidFeedback, democrazia liquida di Marco Ciurcina «Secondo molti l’innovazione delle tecnologie della comunicazione che si sta realizzando in questi decenni abiliterà un reale cambiamento nelle forme di partecipazione democratica. Da alcuni anni diversi Partiti Pirata utilizzano LiquidFeedback: una piattaforma software che permette di deliberare e votare online». Ecco cos’è e come funziona.

88˜ opinioni Il nuovo ’68 è nella rete di Jacopo Tondelli «La rete è luogo di passioni furoreggianti, di grandi battaglie, di identità personale dentro a gruppi, di naturali, fisiologiche avanguardie, di nevrosi e di tante solitudini», ma soprattutto, negli ultimi anni, di fervore politico. Referendum, elezioni regionali e politiche: il rapporto tra internet ed espressione democratica in Italia.

92˜ approfondimento I giornalisti servono ancora di Antonio Preziosi Il giornalista oggi svolge la sua professione in un contesto globalizzato, raggiungendo velocemente chiunque in qualunque Paese. Ancora più delicato è quindi il ruolo di chi deve offrire – sempre più in fretta come impone la rete – chiarezza, trasparenza, credibilità, completezza. Perché genera consapevolezze e scelte in un mondo i cui equilibri sono in continuo assestamento.

96˜ future tech Science fiction, l’utopia diventa distopia di Simone Arcagni

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98˜ scenari Guerre e paci di Marco Valsania «Il mondo del 2030 sarà radicalmente trasformato rispetto a oggi. Entro il 2030 nessun Paese, né gli Stati Uniti, né la Cina, né nessun’altra grande nazione, sarà un potere egemonico». Quali sfide e quali pericoli si pongono per un mondo frammentato? Quale ruolo avranno in futuro le attuali superpotenze? Crisi delle risorse, nuovi Paesi emergenti, Pianeta in crescita, urbanizzazione: un quadro degli scenari e dei protagonisti possibili.

«Le sfide che questo mondo frammentato porrà sono particolarmente rilevanti per la potenza che rimarrà, a detta di tutti gli analisti, il Paese di riferimento più che un primo tra eguali: gli Stati Uniti» 104˜ passepartout Global Peace Index 2012

106˜ la scienza dal giocattolaio Non RisiKo! Scelgo la pace di Davide Coero Borga

109˜ english version

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IL NOSTRO VIAGGIO NELL’ENERGIA CONTINUA.

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SIAMO PRONTI A CONDIVIDERE ANCORA MILIONI DI ATTIMI INSIEME. enel.com

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contributors

Hanno contribuito a questo numero 01˜ Fatih

02˜ Franco

03˜ Marco

04˜ Gabriele

05˜ Parag

Birol

Bruni

Ciurcina

Del Grande

Khanna

Capo economista e direttore del Global Energy Economics all’IEA di Parigi, è responsabile del World Energy Outlook, la pubblicazione più autorevole sul mercato globale dell’energia. Nominato da Forbes come una delle persone più influenti nel mondo dell’energia, è presidente dell’advisory board del World Economic Forum Energy.

Ordinario di Economia monetaria internazionale alla Bocconi, è stato visiting professor in numerose università. È vicepresidente dell’ISPI, membro dell’European Shadow Financial Regulatory Committee e membro del CdA di Pirelli&C.e di Pioneer Investment Management SGRpA. È editorialista della Stampa.

Avvocato, opera nel campo del diritto commerciale e contrattuale, del diritto dell’Information Technology, d’autore, dei brevetti e marchi. Docente in Diritto ed etica della comunicazione al Politecnico di Torino, è attivista per il software libero e per le libertà digitali.

Scrittore e giornalista, collabora con Rai, RTSI, Taz, Famiglia Cristiana, Peace Reporter, Lettera 27. Ha pubblicato Mamadou va a morire (2007), Il mare di mezzo (2010) e Roma senza fissa dimora (2009). Nel 2006 ha fondato l’osservatorio sulle migrazioni Fortress Europe.

È il direttore dell’Hybrid Reality Institute e professore alla Lee Kuan Yew School of Public Policy all’Università Nazionale di Singapore. È autore del recente Hybrid Reality. Thriving in the Emerging Human-Technology Civilization e collabora regolarmente con testate e canali televisivi internazionali.

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Magri

Mahbubani

Giornalista britannico, ha lavorato a Londra, in Libano e in Italia. È corrispondente da Roma per il Los Angeles Times, The Observer, The Guardian, occupandosi di politica e società italiana.

Direttore generale del Centre for European Policy Studies (CEPS) dal 2000, è membro dell’European Shadow Financial Regulatory Committee (ESFRC). Ha all’attivo diverse pubblicazioni sulle regolamentazioni finanziarie europee e collabora con OCSE, Banca Mondiale e altre istituzioni europee.

Vicepresidente esecutivo e direttore dell’ISPI, è docente di Organizzazioni internazionali all’Università degli Studi di Pavia. È stato consulente di relazioni internazionali per diversi organismi e imprese e funzionario presso il Segretariato delle Nazioni Unite a New York.

Professore e diplomatico singaporiano, collabora con diverse istituzioni ed è stato rappresentante di Singapore presso le Nazioni Unite. È il preside della Lee Kuan Yew School of Public Policy della National University di Singapore e autore di The Great Convergence: Asia, the West, and the Logic of One World.

10˜ Maurizio

11˜ Leonardo

12˜ Vittorio Emanuele

13˜ Shimon

Molinari

Morlino

Parsi

Peres

Corrispondente della Stampa da New York, si è occupato di politica estera e sicurezza per Il Tempo, Il Foglio, Panorama, L’indipendente. Collabora con Rai SkyNews, Mediaset e La7, ha intervistato i più importanti politici del mondo ed è stato inviato in Medio Oriente, Balcani, Iraq, Iran, Nord Africa.

È professore di Scienza della Politica alla LUISS, Roma; è autore, co-autore o curatore di oltre 30 volumi, di più di 200 capitoli di libri e articoli, pubblicati in numerose lingue. Il suo volume più recente è Changes for democracy. Ha appena terminato una ricerca su “La qualità della democrazia in 15 paesi latino americani”.

È professore ordinario di Relazioni internazionali all’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano e ha collaborato con numerose università nel mondo. Fa parte del Gruppo di riflessione strategica del Ministero degli affari esteri, è direttore di Idem ed editorialista di Il Sole 24 Ore e Avvenire.

Presidente dello Stato di Israele dal 2007, è stato primo ministro nel 1984-86 e nel 1995-96 e ministro degli esteri tra il 2000 e il 2001. Fra i fondatori del partito laburista israeliano, ha poi aderito alla Kadima. È stato insignito del premio Nobel per la Pace insieme a Rabin e Arafat nel 1994.

14˜ Antonio

15˜ Nassim

16˜ Jacopo

17˜ Marco

Preziosi

Taleb

Tondelli

Valsania

Giornalista e direttore di Rai Radio Uno. È stato inviato alla Presidenza del Consiglio dei Ministri e ha seguito i governi D’Alema, Amato e Berlusconi, raccontato tutti i G8 e i Consigli europei. Collabora con vari master e facoltà universitarie, tra cui l’Università Pontificia Salesiana, dove insegna Comunicazione politica.

Filosofo, saggista e matematico libanese, insegna ingegneria del rischio al Polytechnic Institute of New York, concentrandosi sulla scienza dell’incertezza. È autore de Il cigno nero, nominato dal Sunday Times tra i libri che hanno cambiato il mondo, e di Antifragile.

Giornalista, ha lavorato per Il Riformista e nella redazione economica del Corriere della Sera; è stato direttore di Linkiesta fino a febbraio 2013. Ha pubblicato Mitra e kippà. Viaggio nelle viscere d’Israele (2007) e Sceriffi democratici. La metamorfosi della sinistra (2009).

Giornalista professionista, è corrispondente da New York del Sole 24 Ore, per il quale ha seguito cinque elezioni presidenziali, l’evoluzione della politica estera americana, i dibattiti nelle istituzioni multilaterali quali l’ONU, il FMI e la Banca Mondiale, e ripetute crisi economiche e finanziarie.

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editoriale

Alla ricerca di un nuovo governo del mondo di Vittorio Emanuele Parsi

Un futuro di estremo pluralismo, in cui le certezze del passato saranno di ben poco aiuto, se non di danno


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Di fronte alle prospettive di cambiamento evocate in questo numero di Oxygen, la vera domanda cui dovremmo cercare di rispondere non è “Chi governerà il mondo?”, ma se qualcuno sarà in grado di farlo. L’idea che il sistema internazionale resti comunque sottoposto a una governance, pur mentre va articolandosi in una presenza di attori sempre più affollata, e semplicemente non si ritrovi in una situazione anarchica (intesa come pura assenza di un governo, come la vecchia teoria realista delle relazioni internazionali ha sempre sostenuto), nasconde forse un eccesso di fiducia sul ruolo che la razionalità o semplicemente la coerenza rivestono negli eventi umani. È proprio la pluralità qualitativa della natura degli attori a rendere estremamente arduo ipotizzare la continuità di forme consistenti di governance del sistema internazionale. In passato, quando gli Stati erano gli attori pressoché esclusivi dell’arena internazionale, era la differenza tra loro in termini di capacità (espressa in potenza e determinata da rapporti militari, economici e culturali) a sancire il governo di fatto del mondo. Era la logica del concerto delle grandi potenze, il cui ultimo pallido erede è rappresentato dai summit internazionali del G8 e dei suoi multipli. Negli anni più vicini a noi, infatti, il principio che “chi più conta” nel sistema internazionale ha maggiore voce in capitolo nel suo governo – e soprattutto ha maggiori probabilità che la sua voce venga ascoltata – è stato declinato in forme anche inedite e magari contestate, ma mai realmente accantonato. Nel corso del dopo Guerra fredda soprattutto, le dimensioni non militari della potenza hanno acquisito una rilevanza crescente, senza mai arrivare a soppiantare o a rendere irrilevanti le prime. A quasi un quarto di secolo dalla fine della Guerra fredda, accantonata l’illusione di un’apparente vittoria assoluta, per assenza di sfidanti, gli stessi valori incarnati dal liberalismo occidentale riassunti nella diade “democrazia e mercato” hanno riacquisito la loro dimensione “agonistica” o “ideologica”, ovvero di rappresentare contemporaneamente una proposta di organizzazione sociale e uno strumento anche operativo attraverso il quale modificare la realtà e non il contenitore esaustivo del reale. Soggetti di natura diversa, che incarnano o s’ispirano a ideali differenti e che però continuamente interagiscono gli uni rispetto agli altri. Quello che rende la situazione e la prospettiva di una governance oggi così complicata, più complicata che in passato, non è tanto l’inedita articolazione qualitativa degli attori (Stati, compagnie multinazionali, istituzioni internazionali, media, ONG, gruppi criminali e terroristici, individui…) o il fatto che gli interessi rappresentati siano aumentati e si siano sensibilmente diversificati. Il problema maggiore, quello davvero più intricato, è costituito dalla non convergenza verso un quadro di riferimento condiviso, intorno a una tavola di valori che sia in grado di attrarre un consenso generalizzato da parte di attori tanto diversi, e quindi capace di “gerarchizzare” gli interessi in base a delle priorità minimamente accettate da tutti o dai più (forti).

Siamo ormai fuoriusciti dalla fase in cui si riteneva che i “valori liberali” potessero rappresentare questa piattaforma. Il loro trionfo, l’assenza di alternative sufficientemente robuste e contemporaneamente in grado di intercettare adesione in diversi ambiti e in differenti regioni del mondo ne aveva consentito la de-ideologizzazione, ovvero la trasformazione da “bandiere partigiane” a insegne sotto le quali chiamare a raccolta l’umanità nel suo complesso. Per chi li contestava, questo slittamento assumeva la forma della “dittatura del pensiero unico”, di un conformismo totalizzante se non totalitario. Che piacesse o meno, questa era la condizione che ha consentito – dopo l’89 – di formulare l’ipotesi di una governance globale, la quale altro non era, in effetti, che l’estensione, con minimi adattamenti, delle regole e dei principi di funzionamento intra-occidentali all’intero sistema globale. Le condizioni attuali sono del tutto diverse. Anche per i limiti mostrati attraverso la crisi economica che dal 2007 ha iniziato ad aggredire il sistema e per lo scatenarsi delle tensioni tra democrazia e mercato che essa ha esacerbato – dimostrando come la prassi si era sempre più allontanata dal suo modello liberale autentico – è tornato a essere evidente il carattere particolare e non universale dell’organizzazione occidentale dei rapporti politici ed economici. Non solo. Proprio l’attacco al paradigma dell’uguaglianza – intesa come rifiuto del privilegio – implicito in talune delle soluzioni proposte per la fuoriuscita dalla crisi, induce a credere che, conclusa l’epoca transitoria del post Guerra fredda, lo scontro tra visioni ideologiche venga ad avere nuovamente piena cittadinanza già all’interno dell’Occidente. E ancora più importante è considerare come, mentre questa contrapposizione tra le due anime dell’Occidente positivamente apparecchia una nuova stagione di pluralismo delle idee e delle proposte politiche, altrove si rafforzano visioni ed esperienze che sono del tutto alternative se non addirittura espressamente ostili a quelle che ci eravamo illusi avessero egemonizzato il sistema internazionale contemporaneamente alla crisi e alla caduta dell’Unione Sovietica. Rappresentare questa serie di difficoltà legate al rinnovato moltiplicarsi delle piattaforme di valori e interessi che, come sempre, cercano la propria strada per raggiungere una dimensione universale (si pensi al concetto di “armonia” contrapposto a quello di “bilanciamento”) non significa immaginare un futuro a tinte fosche, nel quale la competizione tra ideali si trasformerà necessariamente in uno scontro tra gli attori che li incarnano o che vi si riconoscono. E men che meno avrebbe senso prospettare scenari di vero e proprio conflitto bellico, tanto più oggi che la crescente inefficacia della capacità ordinatrice della forza è sotto gli occhi di tutti. Ciò che conta invece sottolineare, e per cui è fondamentale attrezzarsi, è piuttosto un futuro caratterizzato da un estremo pluralismo, in cui le certezze del passato, anche recente, saranno di ben poco aiuto, se non di danno.

È possibile che lo scontro tra visioni ideologiche abbia nuovamente piena cittadinanza in Occidente


Op

opinioni

I cittadini governeranno loro stessi di Shimon Peres

Dal World Economic Forum di Davos, Shimon Peres racconta con ottimismo un futuro in cui le persone governeranno loro stesse, supportate dallo Stato, dalle global company e dalla scienza. Perseguire ugualmente la diversità e soddisfare i desideri comuni a tutti gli individui aiuterà ad allontanarsi dalla crisi economica. Penso che il mondo si muova più in fretta della nostra mente: viviamo in un’epoca nuova, ma abbiamo una mentalità vecchia. Un tempo avevamo bisogno di nazioni, recinzioni, eserciti che difendessero o espandessero i nostri confini. Ma la scienza non è controllabile né dalle distanze, né dalle recinzioni, né dalla polizia o dall’esercito. Un esercito può conquistare un territorio, ma non il sapere. Quando uno scienziato si presenta alla dogana potete controllargli la valigia, ma non il cervello. In un incontro con il presidente Obama gli ho detto: «Pensi, un ragazzo di ventisette anni, Zuckerberg, ha scatenato, senza uccidere nessuno, una rivoluzione più grande di quella di Lenin e Stalin. E questa rivoluzione è ancora viva e va avanti». E così i governi che abbiamo costruito perché difendessero i Paesi si ritrovano disoccupati, perché l’economia è diventata globale e i governi sono rimasti nazionali. Sono tutti influenzati dall’economia globale senza però poterla influenzare. E la sicurezza non riguarda più gli scontri tra eserciti nemici, ma la diffusione del terrore. Un manipolo di persone, una quindicina magari, può arrivare a Manhattan, distruggere le Torri Gemelle, fare 3000 morti e scappare. Noi non sappiamo da dove vengono, non conosciamo le loro motivazioni e non sappiamo come fermarle.

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Oggi, quando un politico tradizionale vi dice «Io sono saggio, forte, grande», voi chiedetegli: «Ah, davvero? Può fermare la crisi economica?». Vi risponderà che no, non può. «Può fermare il terrorismo? O la guerra?», vi dirà di nuovo di no. Quindi potreste obiettare: «Perché vuole governarci? Noi non cerchiamo governanti». La gente ha bisogno di qualcuno che sia in grado di salvarla. Per questo è sorto un altro sistema di governo, più potente: quello delle global company. All’inizio non era né vero, né chiaro che le grandi aziende potessero avere più soldi e mezzi di tutti gli eserciti del mondo. Perché in realtà i governi hanno il budget ma non il denaro. Le aziende invece hanno molti soldi e non dipendono dalla politica. Le aziende hanno dato potere all’individuo. Non governano come i governi, con le leggi, l’esercito o la polizia, ma con le loro orecchie, ascoltando i desideri e le aspettative delle singole persone. È una cosa che va assolutamente fatta, perché le giovani generazioni non stanno a sentire il governo, né i loro genitori. I giovani dicono ai loro genitori: «Grazie per averci fatto nascere, ma smettetela di parlarci della vostra grande esperienza e della vostra profonda saggezza. Non siete stati poi così grandi: che mondo ci avete lasciato? È pieno di


INGOVERNABILE «Il mondo sta diventando ingovernabile: la debolezza dei governi è quella della nostra società».

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guerre, di odio, di sospetto. Noi non lo vogliamo e non vogliamo proseguire su questa strada. Vogliamo essere diversi». La loro idea di democrazia è diversa. Per loro la democrazia non è il tentativo di essere uguali, ma il contrario: è l’uguale tentativo di essere diversi. «Voglio conservare la mia individualità, voglio sviluppare il mio potenziale, la mia inclinazione. Noi non vogliamo un gruppo collettivo di persone uguali, ma un circolo aperto di persone diverse che convivono in pace». Dobbiamo dare una risposta a questi ragazzi. Le global company stanno cercando non solo di adeguarsi a questa nuova globalità, ma anche di soddisfare le nuove aspettative dell’individuo. Quali che siano i vostri desideri, qualunque sia la vostra nazionalità, loro non vi odiano, non sospettano di voi, non vi dicono se state andando bene e non si arrenderanno. Oggi essere giovani è molto costoso: devi essere più istruito, più competitivo. I tuoi genitori non possono soddisfare tutte le tue esigenze; e il deficit non riguarda solo il denaro, ma anche le aspettative. Le global company stanno introducendo sempre più individualità. Oggi stiamo sostituendo la produzione di massa con quella individuale. È un cambiamento molto importante. Se una signora s’incontra con delle amiche e scopre che quattro di loro portano il suo stesso vestito (orrore!), non ha motivo di preoccuparsi; basta che, grazie alle stampanti 3D, si “stampi” un abito del tutto originale. In questo modo potrà salvaguardare la sua personalità; è un cambiamento enorme. Allo stesso modo, nonostante ci siano sempre più computer e ogni anno aumenti esponenzialmente la loro diffusione e quella dei robot (la gente ha paura: «Cosa ne sarà di noi? Lavoreranno al posto nostro?») non penso che ci si debba preoccupare, perché ci saranno nuove industrie. Invece di costruire strumenti che sono d’aiuto agli esseri umani, come gli occhiali o i bastoni da passeggio, si produrranno direttamente “pezzi di ricambio” umani: non dovrete più affidarvi a un aiuto esterno, vi basterà sostituire o migliorare una parte del vostro corpo. Credo anche che avremo di più da imparare e meno da lavorare. Non sono sicuro che si debba lavorare otto ore al giorno; secondo me ne bastano tre o quattro, e le altre quattro possono essere destinate all’apprendimento, ogni giorno. Gli alunni a volte sono più informati dell’insegnante che ha smesso di studiare anni prima, e nel frattempo il mondo è cambiato. Se l’insegnante è bravo, si tiene aggiornato. Mi piace sempre scherzare dicendo che se si mangia tre volte al giorno si ingrassa; ecco: se

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leggiamo tre volte al giorno, diventeremo saggi. Meglio esser saggi che grassi. E sempre di più concedete libertà al vostro spirito. I fatti invecchiano, mentre i valori, lo spirito e la saggezza non invecchiano mai. Dobbiamo impararli e adottarli. Penso sia la strada del futuro. Il mondo sta diventando ingovernabile: la debolezza dei governi è quella della nostra società. Penso che soprattutto tre elementi ci permetteranno di andare avanti e di impedire al mondo di imbarbarirsi e perdere il suo equilibro. Il primo è la comprensione del fatto che i governi nazionali hanno dei limiti. Non possono controllare le aziende e l’economia, però qualcuno si deve occupare del cambiamento clima-

tico: in questo senso abbiamo bisogno di un governo. Quindi ci saranno dei governi che faranno ciò che va fatto e gestiranno l’amministrazione dello Stato. Il secondo sono le global company, che avranno sempre più potere, si occuperanno dello sviluppo e del finanziamento della scienza (il terzo elemento) e consentiranno ad altre aziende pubbliche di goderne. È proprio strano: sul collo abbiamo uno strumento talmente straordinario che ci ha permesso di creare un’intelligenza artificiale, però siamo incapaci di capire il nostro vero io. Siamo estranei a noi stessi. Non sappiamo cosa ci porti a decidere di fare una cosa o un’altra. Oggi stiamo cercando di penetrare nel cervel-


i cittadini governeranno loro stessi |

oxygen

Quand’è comparsa la civiltà? Secondo me con la scoperta dello specchio

[Estratto dall’intervento al World Economic Forum di Davos, 24 gennaio 2013] lo e anche se procediamo spediti siamo ancora lontani dalla soluzione. Ma se sapessimo come funziona la nostra testa, come prendiamo le decisioni, credo che ognuno di noi, se dovesse scegliere se essere felice o infelice, direbbe che vuole essere felice. E tra essere estremista o moderato, vorrebbe essere moderato. Quand’è comparsa la civiltà? Secondo me con la scoperta dello specchio. Prima del suo avvento nessuno si pettinava i capelli o si tagliava le unghie. Ogni mattina ognuno era se stesso. Noiosi governi e dittatori. Quando avremo lo specchio delle nostre funzioni, credo che la gente sarà il governo di se stessa. Sta già succedendo: oggi sappiamo che siamo in grado si

sconfiggere molte malattie e debolezze. Quand’ero ragazzo mi piacevano i telescopi. Volevo guardare le stelle e il sole e dire alla mia ragazza delle cose carine sulla luce della luna. Oggi preferisco un microscopio per entrare nelle nostre cellule: il segreto delle nostre cellule cerebrali forse è più grande di tutti quelli della luna. Vogliamo entrare dentro di noi e miliardi di dollari e milioni di scienziati sono dedicati a quest’impresa. Credo che in futuro il mondo sarà totalmente diverso. Ci saranno più equilibro e più possibilità. Ho novant’anni e non ci ho mai rimesso a credere o sperare; se mai ci ho rimesso, è stato quando mi sono sentito deluso. È meglio avere

grandi speranze che suggerire la disperazione. Meglio incoraggiare l’amicizia che pensare ai nemici e all’ostilità. Dunque sono questi i concetti su cui voglio concentrarmi per il futuro e ci stiamo muovendo in quella direzione. Credo che tutti voi raggiungerete quell’epoca, grazie ai governi o all’amministrazione dello Stato e alle global company che offrono innovazione per produrre nuove idee nella scienza. Le scienze umane e le altre scienze tendono a favorire il controllo dell’essere umano su se stesso. I pessimisti e gli ottimisti muoiono nello stesso modo, ma vivono in modo diverso. Il consiglio che vi do è di vivere da ottimisti. Io l’ho fatto e non è per niente male.

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anteprima

L’antifragile: un nuovo trend per salvare la modernità di Nassim Nicholas Taleb

«Afferrando il meccanismo dell’antifragilità possiamo costruire una guida, sistematica e di ampio respiro, ai processi decisionali non-predittivi in condizioni di incertezza nei più diversi campi: economia, politica, medicina e la vita in generale, in tutti quei casi, in definitiva, in cui prepondera l’ignoto, qualsiasi situazione in cui sussistono casualità, imprevedibilità, opacità o una comprensione incompleta delle cose».


L’ANTIFRAGILE Alcune cose traggono beneficio dagli shock, prosperano e crescono quando sono esposte a mutevolezza, casualità, disordine e fattori di stress e amano l’avventura, il rischio e l’incertezza. Ciò nonostante, a dispetto dell’onnipresenza del fenomeno, non disponiamo di un termine che indichi l’esatto opposto della fragilità. Per questo parleremo di antifragilità. L’antifragilità va oltre il concetto di “resilienza elastica” e di robustezza. Una cosa resiliente resiste agli shock ma rimane la stessa di prima: l’antifragile dà luogo a una cosa migliore. Questa proprietà sottende tutto quanto cambia nel tempo: l’evoluzione, la cultura, le idee, le rivoluzioni, i sistemi politici, l’innovazione tecnologica, il successo culturale ed economico, la sopravvivenza delle organizzazioni, le ricette migliori (come ad esempio il brodo di pollo o la tartara con una goccia di cognac), l’affermazione di città, culture e ordinamenti giuridici, le foreste equatoriali, la resistenza ai batteri e via dicendo, fino a includere l’esistenza stessa della nostra specie su questo pianeta. L’antifragilità stabilisce il confine tra ciò che è vivente e organico (o complesso), come il corpo umano e ciò che è inerte, come ad esempio un oggetto fisico come la spillatrice sulla vostra scrivania. […] Afferrando il meccanismo dell’antifragilità possiamo costruire una guida, sistematica e di ampio respiro, ai processi decisionali non-predittivi in condizioni di incertezza nei più diversi campi: economia, politica, medicina e la vita in generale, in tutti quei casi, in definitiva, in cui prepondera l’ignoto, qualsiasi situazione in cui sussistono casualità, imprevedibilità, opacità o una comprensione incompleta delle cose.

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Secondo la mia definizione, la modernità è il predominio su larga scala dell’uomo sull’ambiente, il sistematico appianamento delle scabrosità del mondo e la repressione della volatilità e dei fattori di stress. La modernità corrisponde allo sradicamento sistematico degli esseri umani dalla loro ecologia gravata dalla casualità, fisica e sociale, persino epistemologica. La modernità non è solamente il periodo storico post medievale, post agricolo e post feudale, come viene definito nei testi di sociologia. È piuttosto lo spirito di un’epoca segnata dalla razionalizzazione (razionalismo ingenuo), dall’idea che la società sia comprensibile e dunque debba essere modellata dagli uomini. Contemporaneamente a quest’idea è nata anche la teoria statistica, e quindi l’orribile curva a campana. E la scienza lineare. E il concetto di “efficienza” o “ottimizzazione”.

La violenza viene trasferita dagli individui agli Stati, così come l’insubordinazione finanziaria. Al centro di tutto questo vi è la negazione dell’antifragilità La modernità è un letto di Procuste, buono o cattivo, una riduzione dell’essere umano a ciò che appare efficiente e utile. Per alcuni aspetti, funziona: i letti di Procuste non sono tutti delle riduzioni negative. Alcuni possono anche portare dei benefici, sebbene rari. Pensate alla vita di un leone con le comodità e la prevedibilità dello zoo del Bronx (e i visitatori della domenica che si accalcano per guardarlo con un misto di curiosità, paura e pietà) e paragonatela a quella condotta dai suoi cugini allo stato brado. Anche noi in qualche momento della storia abbiamo avuto uomini, donne e bambini ruspanti, prima dell’avvento dell’era dorata delle super-mamme di figli super-impegnati. Stiamo entrando in una fase della modernità segnata dai lobbisti, da una limitatissima responsabilità aziendale, dai master in business administration, dai problemi da creduloni, dalla laicizzazione (o meglio, dall’invenzione di nuovi valori sacri, come le bandiere, che vanno a sostituire gli altari), dagli esattori delle imposte, dal terrore del capo, dal passare i fine settimana in posti interessanti e la settimana lavorativa in altri posti considerati molto meno interessanti, dalla separazione tra “lavoro” e “piacere” (anche se i due potrebbero sembrare la stessa cosa a una persona proveniente da un’epoca più saggia), dai piani pensione, da intellettuali polemici che dissentirebbero da questa definizione di modernità, da un pensiero privo d’immaginazione, da inferenze induttive, dalla filosofia della scienza, dall’invenzione delle scienze sociali, dalle superfici lisce e dagli architetti egocentrici. La violenza viene trasferita dagli individui agli Stati, così come l’insubordinazione finanziaria. Al centro

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di tutto questo vi è la negazione dell’antifragilità. Ci si affida alle narrazioni, a un’intellettualizzazione delle azioni e delle imprese rischiose. Le imprese pubbliche e i loro funzionari, persino gli impiegati delle grandi aziende, possono fare soltanto ciò che pare inserirsi in una narrazione, al contrario delle attività commerciali che possono limitarsi a seguire i profitti, che siano sorretti o meno da una bella storia. Ricordate che quando costruite una storia avete bisogno di dare un nome al colore azzurro, ma che ciò non accade quando agite: il pensatore che non ha una parola per definire l’azzurro risulta svantaggiato; non così chi agisce (ho fatto una fatica immane a far capire agli intellettuali la superiorità intellettuale della pratica). La modernità ha ampliato la differenza tra ciò che è sensazionale e ciò che è rilevante: in un ambiente naturale, il sensazionale è, beh, sensazionale per un motivo; oggi dipendiamo dalla stampa per ciò che riguarda cose essenzialmente umane come il pettegolezzo e gli aneddoti, e siamo interessati alla vita privata di persone che vivono in angoli remoti della terra. Di fatto, in passato, quando non eravamo pienamente coscienti dell’antifragilità, dell’autorganizzazione e della guarigione spontanea, riuscivamo a rispettare queste proprietà grazie a convinzioni che servivano a gestire l’incertezza e a sopravviverle. Abbiamo apportato miglioramenti all’opera di Dio (o degli dei). Forse negavamo che le cose potessero prendersi cura di se stesse senza un intervento esterno, ma erano gli dei ad agire, non i capitani di lungo corso laureati a Harvard. Perciò la nascita dello stato-nazione ricade a pieno diritto in questa progressione, cioè nel trasferimento della capacità di intervento a puri e semplici esseri umani. La storia dello stato-nazione coincide con quella della concentrazione e dell’ingigantimento degli errori umani. La modernità inizia con il monopolio di Stato sulla violenza e termina con il monopolio di Stato sull’incoscienza finanziaria. [Estratto in anteprima da Antifragile, in uscita a settembre per Il Saggiatore]

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intervista

Le frontiere del “regionalismo aperto” intervista a Parag Khanna di Stefano Milano

Dalla crisi economica al “regionalismo aperto”, passando per la politica estera e la corsa all’indipendenza energetica degli USA, la difficile fase dell’Unione Europea, i Paesi in forte ascesa e il loro rapporto con la democrazia, fino ai nuovi attori della governance di un mondo “multi-stakeholder” e al ruolo sempre maggiore che assumono le città. Lo sguardo globale, in un’intervista a 360 gradi, di Parag Khanna, tra i più stimati esperti mondiali di geopolitica e autore del recente Hybrid Reality.

Come sta il mondo all’inizio del 2013? Mi sembra più ottimista di cinque anni fa. C’è chi dice che sarà il primo anno dopo la crisi finanziaria. In effetti i segnali sembrano incoraggianti, specialmente per quanto riguarda alcuni Paesi. Ma per altri i problemi sembrano persistere… Ormai le soluzioni sono note, ma ogni Paese è più o meno rapido nell’adottare delle politiche coraggiose. Pensate all’Irlanda, che è riuscita a mettere in atto delle riforme strutturali radicali e adesso è in ripresa. La Spagna e la Grecia hanno problemi più seri e forse hanno esagerato con l’austerità, comunque devono ancora concentrarsi sulla produttività, i servizi, l’export e altri cambiamenti per riequilibrare le loro economie. Come ha influito la crisi economica sulla governance globale? È chiaro che il coordinamento monetario resta debole, come si evince per esempio dalle svalutazioni competitive volute dagli Stati Uniti e dal Giappone. Anche lo

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stimolo fiscale è estremamente variabile e non coordinato. L’America si è limitata a ridurre i tassi di interesse, invece la Cina sta realmente investendo in nuove infrastrutture. Quindi la governance economica globale è molto scarsa. Eppure per quasi tutte le nazioni è di cruciale importanza che i mercati continuino a restare aperti.

È in atto una maggiore regionalizzazione del mondo. Nello stesso tempo, c’è anche un’interdipendenza delle risorse naturali e di altre catene di fornitura. Insomma, abbiamo un mondo di “regionalismo aperto”


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In mezzo alla crisi economica, sui mercati si stanno affacciando molte breakout nations, Paesi in forte crescita che stanno acquisendo sempre più potere. Quali di loro diventeranno (o stanno già diventando) i protagonisti della scena mondiale? Nel mio libro I tre imperi parlo di molti di loro. Ce ne sono di importanti in ogni regione: Colombia e Messico, Angola e Mozambico, Arabia Saudita e Turchia, Malesia e Indonesia. Stanno andando tutti bene, sono stabili e sono diventati degli snodi economici. Io sono spesso un paladino di questi mercati. Gli outsider tendono a percepirli come più rischiosi di quanto siano in realtà. Molti Paesi emergenti stanno però crescendo e acquisendo forza economica a spese della democrazia: ad esempio Zambia, Mozambico, Liberia e Niger sono tra le economie cresciute più rapidamente nel 2012, ma occupano una bassa posizione nel Democracy Index dell’Economist Intelligence Unit. “Economia in crescita = Scarsa democrazia” sembra essere un paradigma diffuso. È davvero così? Il miracolo della crescita asiatica ha già indebolito il legame tra il progresso economico e la democrazia. È bene ricordare che Singapore, Cina, Vietnam e Malesia negli ultimi decenni sono cresciuti senza essere delle democrazie compiute, quindi non si tratta di un fenomeno inedito. Si può raggiungere una buona governance investendo nelle infrastrutture e incoraggiando l’imprenditoria. E questo non sempre esige un sistema democratico. Il mondo è sempre più multipolare: quali conseguenze avrà sulla diplomazia e sulla governance internazionali? Che tipo di politica plurilaterale e di accordi economici ci aspettano in futuro? Nord America, Sud America, Europa e Asia sono sistemi forti, dove il commercio interno è oggi maggiore di quello tra i quattro continenti. Quindi possiamo dire che è in atto una maggiore regionalizzazione del mondo. Allo stesso tempo, c’è anche un’interdipendenza delle risorse naturali e di altre catene di fornitura. Insomma, abbiamo un mondo di “regionalismo aperto”. Il commercio all’interno dell’Asia è maggiore che nel Nord America e in Europa, il che spiega perché l’ASEAN (Association of South-East Asian Nations) per esempio si stia gradualmente sganciando dall’Unione Europea, anche se si sta ancora tentando di creare più aree di libero scambio tra l’UE e l’ASEAN, o gli Stati Uniti e alleati asiatici fondamentali come la Tailandia.

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Veniamo agli Stati Uniti. Durante il secondo mandato di Obama, cosa cambierà e cosa verrà privilegiato nella politica estera americana? Obama vuole avere un secondo mandato privo di sorprese, completare il ritiro delle truppe dall’Iraq e dall’Afghanistan e instaurare dei legami economici e strategici con l’Asia. Sono dei buoni obiettivi. Da Richard Nixon in poi, tutti i presidenti americani hanno inseguito il sogno dell’indipendenza energetica, per affrancare gli Stati Uniti dal petrolio straniero. Oggi questo sogno sembrerebbe realizzabile: nel 2012 gli Stati Uniti hanno prodotto l’83% dell’energia che hanno consumato, le importazioni dall’OPEC sono diminuite di un quarto negli ultimi quattro anni, nuove tecniche d’estrazione hanno reso accessibili grandi giacimenti e la produzione di petrolio e gas naturale sta crescendo a un ritmo mai visto negli ultimi cinquant’anni. Gli Stati Uniti riusciranno a diventare totalmente indipendenti? È chiaro che questo obiettivo cambierebbe molte cose, e non solo nella politica estera. Non si tratta solo della produzione americana di per sé, ma della creazione di una zona di indipendenza energetica in tutto l’emisfero occidentale. Questo significa includere nei nostri calcoli le sabbie bituminose del Canada e le riserve di gas e petrolio del Brasile, oltre al gas di scisto statunitense. E l’abbondanza di risorse di quest’emisfero non comprende solo gli idrocarburi, ma anche l’acqua e il cibo, che sono altrettanto importanti. Più in generale, esempi come l’indipendenza energetica degli Stati Uniti fanno venire in mente una sorta di nuova forma di protezionismo, o qualcosa di simile… La crisi economica sta portando alcuni Paesi ad adottare delle misure para-protezionistiche? Non si tratta di protezionismo vero e proprio, però gli Stati esportatori dovranno rivalutare in fretta il mutamento – cioè la contrazione – della domanda nell’emisfero occidentale. Dal Canada all’Argentina, i Paesi americani non avranno più bisogno di importare risorse naturali, che si tratti di petrolio, gas, cibo o altri beni. Questo renderà il Nord e il Sud America più forti in termini di autarchia delle risorse, ma non necessariamente più protezionisti. In ogni caso, a lungo andare le nazioni esportartici di risorse dovranno cercare nuovi mercati. Il ruolo dell’Unione Europea si è attenuato negli ultimi anni. Cosa deve fare l’Europa per ritrovare stabilità e guadagnarsi una nuova centralità nello scenario globale? L’Unione Europea deve restare unita

come mercato e come zona economica se vuole mantenere la sua importanza mondiale, e in questo senso i forti segnali della Banca Centrale Europea sono molto positivi. Il prossimo passo consiste nel mantenere il suo ruolo di più grande importatore, e anche di esportatore, in termini di investimenti stranieri, perché è una fondamentale leva finanziaria globale. In termini di governance, se da un lato il potere dei governi e soprattutto delle organizzazioni sovranazionali si sta indebolendo sempre di più, dall’altro stanno emergendo dei nuovi attori e la forza di alcuni di loro sta aumentando. Chi sono e perché sono diventati così importanti? Il mondo è diventato davvero multi-stakeholder in termini di governance. Gran parte dell’erogazione dei servizi avviene tramite catene di fornitura o partnership che coinvolgono una combinazione di governi, aziende e ONG. Questi nuovi attori rivendicano autorità sulla base della loro capacità di garantire beni e servizi fondamentali che i governi non sono riusciti a fornire. Credo sia una tendenza molto sana; è quel che chiamo “tutti all’opera”. Abbiamo una capacità molto più grande di affrontare i problemi globali di quella offerta dai governi da soli. Per esempio, la Fondazione Gates non solo ha preso il comando nella lotta alle malattie infettive in Africa, ma fornisce anche il 40% del budget operativo annuo dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS). Quindi è una ONG che finanzia un’organizzazione internazionale. Per anni le foreste indonesiane sono state saccheggiate dal governo e dalle corporation, ma oggi la Asia Pulp & Paper, una delle più grandi aziende del settore della carta, ha deciso di non ricorrere più a fornitori che abbattono alberi di foreste vergini. E passando a WalMart, dato che la sua catena di fornitura emette più gas serra di tutta l’Irlanda, deve senz’altro sedere al tavolo delle trattative sul cambiamento climatico. Questi sono solo alcuni esempi del fatto che dobbiamo coinvolgere gli attori le cui azioni hanno un impatto decisivo.


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USA Nella pagina precedente: Space Needle, Seattle. In questa pagina: Pentagono, Washington; Arizona State University, Tempe.

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TURKMENISTAN – UK Sopra: Rukhiyet Palace, Ashgabat, Turkmenistan. A destra: Radcliffe Camera, Oxford, UK.

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L’idea dell’“assemblaggio” è la nuova realtà della governance e del suo funzionamento in gran parte del mondo: l’autorità dev’essere guadagnata fornendo beni, non può più essere assunta sulla base della sovranità

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La crescente diffusione dei social network e della tecnologia (e dei milioni di cittadini che usano i social media, anche per organizzarsi) sta portando a nuove forme di “governance digitale”… È un fenomeno con un duplice aspetto: la tecnologia consente a nuovi attori di partecipare con più forza alla governance e nello stesso tempo è uno strumento che permette loro di collaborare gli uni con gli altri. Oggi, nelle situazioni di crisi e nelle zone di guerra le ONG usano i social media per coordinarsi tra loro, o con le aziende e altre organizzazioni internazionali. In Hybrid Reality – il tuo ultimo libro scritto con Ayesha Khanna – sostieni che «gruppi di cittadini, consumatori, movimenti sociali, possono tutti alterare sempre di più i parametri della politica. Il risultato è che persino i governi stanno diventando “generativi”, con assemblaggi inediti di attori diversi che si associano liberamente». Questo come cambia la governance? La conseguenza politica della globalizzazione e la rivoluzione dell’informazione oggi dispiegano una più ampia varietà di attori (inclusi governi, aziende, ONG e così via) e ambizioni concorrenti (territorio, monopolio del mercato, fidelizzazione). Ciascuno di loro ha oggi accesso alla fonte reale del potere – l’autorità – per costruire l’elettorato che ne legittimi l’influenza. L’idea dell’“assemblaggio” è la nuova realtà della governance e del suo funzionamento in gran parte del mondo: l’autorità dev’essere guadagnata fornendo beni, non può più essere assunta sulla base della sovranità. Un centro nevralgico di quest’assemblaggio sono senza dubbio le metropoli. Le città intelligenti stanno diventando i poli della governance del futuro? Perché e in che modo? Il XXI secolo non sarà dominato dagli Stati Uniti o dalla Cina, dal Brasile o dall’India, ma dalle città. Le città sono il fondamento dell’economia e dei dati demografici globali: è lì che vive la maggioranza della popolazione del Pianeta. Appena 200 città fanno la parte del leone nell’economia mondiale; alcune stanno diventando così grandi e così estese da fondersi tra loro, creando dei corridoi urbani. È quello che sta succedendo tra San Francisco e San Jose, o Dubai e Abu Dhabi (o “Abu Dubai”), Pechino e Tiajin, e tutto il delta del sistema fluviale del Guangdong, in Cina. Inoltre le città imparano di più l’una dall’altra che dalle direttive del governo federale, e i flussi commerciali e finanziari tra le città sono decisivi per la crescita economica. Per questo oggi mi concentro sulle “relazioni inter-cittadine” quanto su quelle internazionali.

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passepartout

+15,4%

+10,5%

ANGOLA

PIL - 1,32 miliardi $

a cura di Oxygen

Nel 2012, nonostante la crisi, alcuni Paesi hanno visto le loro economie crescere; fra i primi, due BRICS e nazioni come Niger, Iraq, Liberia, Afghanistan, Etiopia. Sono Paesi ricchi di risorse minerarie o di petrolio, che il più delle volte basano la loro economia su esportazioni o contatti privilegiati con potenze occidentali. L’Economy Watch ha stilato una classifica delle prime dodici con il tasso di crescita più elevato, Oxygen l’ha messa a confronto con il livello di democrazia presente in questi Paesi stabilito dal Democracy Index dell’Economist Intelligence Unit (una valutazione di 167 Paesi basata su criteri come il processo elettorale, le libertà civili, il funzionamento del governo e la cultura politica). E il quadro finale – tre democrazie imperfette, cinque semi-regimi e quattro regimi autoritari – parla di crescita economica ma non democratica. 026

+10,57%

IRAQ

PIL - 120,094 miliardi $

+10,32%

LIBERIA

PIL - 1,32 miliardi $

+9,52%

CINa

PIL - 7.209,42 miliardi $

haiti

PIL - 9,21 miliardi $

+8,8%

timor est

PIL - 0,807 miliardi $

+8,63%

etiopia

+8,02%

india

+7,82%

PIL - 32,3 miliardi $

PIL - 1.858,9 miliardi $

mozambico

+7,8%

afghanistan

+7,47%

PIL - 12,9 miliardi $

PIL - 19,1 miliardi $

zambia

PIL - 21,8 miliardi $

+7,38%

crescita 2012

Niger

PIL - 7,38 miliardi $

Economie (poco democratiche) crescono

Pp


indice di democrazia

110° 112° 133°

Fonti: Economy Watch; Economist Intelligence Unit. I dati di PIL e percentuale di crescita del 2012 si basano su delle previsioni

Niger

semi-regime

Iraq

semi-regime

angola

regime autoritario

98° Liberia semi-regime

141°

Cina

regime autoritario

114°

haiti

semi-regime

42° 121°

timor est

democrazia imperfetta

etiopia

regime autoritario

39° 100° 152°

india

democrazia imperfetta

mozambico

semi-regime

afghanistan

regime autoritario

71°

zambia

democrazia imperfetta

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contesti

Obama II: un’agenda più interventista articolo di Paolo Magri

«Cosa è legittimo attendersi, dopo due decenni di (pie) illusioni, dal secondo mandato di Obama? Cautela e realismo sono d’obbligo. Nonostante i pronunciamenti pubblici e l’agenda, non è però da escludere un significativo cambio di passo nella proiezione internazionale di Obama II». Le priorità? Medio Oriente, Cina, istituzioni della governance mondiale.

Negli ultimi vent’anni la speranza di ottenere risposte efficaci alla crescente domanda di governance mondiale si è nutrita di due illusioni. La prima ci ha portato a credere che il crollo dell’Unione Sovietica avrebbe posto le basi per un nuovo ordine, meno costoso e imperfetto di quello garantito dal sistema bipolare della Guerra fredda. Un ordine gerarchico, con al centro gli Stati Uniti, potenza egemone ma “benigna” e la cui solitudine al comando poteva essere bilanciata dalle organizzazioni multilaterali e regionali (ONU e UE in primis), finalmente uscite dal letargo degli anni Ottanta. Un ordine al quale, proprio perché “benigno” e “multilaterale”, poteva addirittura essere concesso di violare la sovranità di singoli Stati ai fini di garantire l’ordine globale: per esportare il libero mercato, la sicurezza e la pace (per motivi umanitari), persino la giustizia (con la nascita del Tribunale penale internazionale). Pia illusione. G.W. Bush, con i suoi errori e la “guerra al terrore”, ci ha ricordato che la potenza egemone non era necessariamente benigna; la rinascita delle organizzazioni internazionali ha mostrato subito segni di cedimento; con la crisi finanziaria del 2008, il modello economico capitalista – uscito trionfante dalla Guerra fredda ed esportato con solerzia – è poi entrato in crisi proprio nel Paese che lo aveva eletto a credo. La seconda illusione si è avuta con l’elezione di Barack Obama, in un’America ancora impegnata nei conflitti in Iraq e Afghanistan e duramente colpita dalla crisi finanziaria. L’illusione era che la discontinuità che il nuovo presidente rappresentava (generazionale, politica, razziale) avrebbe garantito un recupero dell’immagine e del prestigio della “potenza benigna” e reso possibile un suo

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contributo rilevante alla governance mondiale. Gli accordi sulla regolamentazione finanziaria, sulle misure per affrontare la crisi economica delle economie avanzate, sul commercio e sull’ambiente avrebbero in sostanza tratto beneficio dal nuovo “engagement” americano (radicalmente diverso per strumenti e stili) nelle vicende del mondo. A Obama non mancavano certo retorica e narrativa (“la mano tesa”, il “reset”, l’enfasi sul “dialogo fra pari”) né gli strumenti, a partire dal neocostituito G20, più inclusivo e attento ai nuovi equilibri emersi nell’ultimo decennio. Su queste premesse il Presidente dello “Yes, we can” è stato addirittura insignito del Nobel per la pace, il primo Nobel “preventivo” nella storia del premio norvegese. Nonostante il Nobel, nonostante il milione di miglia viaggiate da Hillary Clinton, la cattura di Bin Laden, l’uscita dall’Iraq e quella (annunciata) dall’Afghanistan, l’eredità in politica estera del primo mandato di Obama è risultata però essere una lunga serie di “missioni incompiute” (il dialogo con Cina e Russia; i negoziati israelo-palestinesi, il nucleare iraniano), “continenti dimenticati” (Africa, Europa, America Latina), negoziati globali bloccati (commercio, ambiente, regolamentazione finanziaria). Non è certo stata una responsabilità esclusiva del presidente USA, ma è innegabile che l’enfasi di Obama sulle priorità domestiche (crisi, lavoro, debito, deficit) abbia ispirato un approccio in politica estera estremamente pragmatico e cauto che, pur espressione di una positiva consapevolezza della necessità di rivedere il ruolo americano in un nuovo contesto multipolare, non è parso in grado di assicurare un mondo più “governato”,


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è una priorità Mettere mano all’architettura della governance mondiale. Le istituzioni attuali (ONU, WTO, FMI) fotografano un mondo che non esiste più e non appaiono né inclusive né efficaci

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obama ii: un’agenda piÚ interventista

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ordinato e stabile. La traduzione più esplicita di questo cauto pragmatismo – il “lead from behind” libico, evolutosi poi in “wait from behind” in Mali – presuppone infatti volontà e capacità di guida da parte di altri; condizione verificatasi grazie a Francia e Gran Bretagna in queste due crisi, ma lungi dal concretizzarsi, ad esempio, in Siria, dove le debolezze e le divisioni di ONU, Europa ed emergenti sono emerse con chiarezza. Cosa è legittimo attendersi dopo due decenni di (pie) illusioni, dal secondo mandato di Obama? Cautela e realismo sono d’obbligo; con ogni probabilità le scelte del presidente appena rieletto continueranno a ispirarsi a Kennedy. Non John, non Bob, ma Paul, lo storico angloamericano che già nel 1987 sosteneva l’ineludibile declino delle superpotenze, i cui interessi globali e gli impegni militari eccedessero la forza economica. Da qui – nella piena consapevolezza della crescita debole, dei 17 trilioni di dollari di debito pubblico e di un deficit che sfiora il 10% del PIL – l’enfasi tutta “domestica” della campagna presidenziale e dei primi pronunciamenti post rielezione.

I quattro punti programmatici indicati nello Stato dell’Unione dello scorso 13 febbraio (lavoro, educazione, salario minimo, controllo delle armi) ne sono la dimostrazione più esplicita, soprattutto se posti a confronto con un altro Stato dell’Unione, quello di Truman nel 1949, che a un’America reduce da una guerra “in Europa” e “per l’Europa” indicava nel confermato impegno nell’ONU e nella NATO, nella prosecuzione del Piano Marshall e nell’avvio della decolonizzazione, i quattro punti del suo programma presidenziale. Non è solo la retorica pre e post elettorale a lasciare poche illusioni a chi spera in una nuova “visione” sul ruolo USA nel mondo o quantomeno in un approccio meno passivo da parte dell’“indispensable superpower”. L’agenda politica 2013 appare totalmente dominata da un percorso a ostacoli su temi interni, reso ancor più complesso dal sempre più difficile dialogo con i Repubblicani: la gestione del sequester, adottato il 1° marzo; la scadenza, il 23 marzo, della “Continuing Appropriations Resolution” per gestire il Bilancio Provvisorio; l’ennesimo innalzamento del tetto del debito, a metà maggio. Nonostante i pronunciamenti pubblici e l’agenda non è però da escludere un significativo cambio di

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passo nella proiezione internazionale di Obama II. Non certo per la “teoria del secondo mandato”, che vede i presidenti USA, liberati dall’assillo della rielezione, più propensi a utilizzare gli ultimi quattro anni alla Casa Bianca per aperture in politica estera in grado di assicurare loro una significativa eredità politica. La teoria ha retto con Reagan (distensione con la Russia, nonostante la macchia dello scandalo Iran-Contra) e Clinton (processo di pace in Medio Oriente, nonostante lo scandalo Lewinsky); molto meno con Nixon e Bush, il cui secondo mandato fu caratterizzato rispettivamente dal Watergate e dalle polemiche per i mancati soccorsi dopo l’uragano Katrina, più che da nuove visioni di politica estera e dall’impegno per la governance mondiale. Più significative, per comprendere la direzione che potrà assumere la presidenza Obama nei prossimi mesi e anni, appaiono le nomine effettuate per le posizioni chiave (ai fini della politica estera) dell’amministrazione: Kerry (esteri), Hagel (difesa) e McDonough (capo dello staff della Casa Bianca) sono tre riconosciuti e rispettati esperti di politica internazionale, lontani da posizioni isolazionistiche e con una visione saldamente multilateralistica. “Colombe”, ma colombe tenaci e determinate che possono prefigurare significativi cambi di rotta. L’attenzione principale è ovviamente rivola al nuovo Segretario di Stato; una scelta di ripiego per Obama (dopo il “sacrificio” di Susan Rice nella trattativa con i Repubblicani post Bengasi) che porta però nell’amministrazione un rilevante bagaglio di competenze e relazioni e un’attenzione alla diplomazia economica e ai temi ambientali che potrebbero tradursi in una nuova fase di “interventismo diplomatico” (alternativo a quello militare, sempre meno compatibile con i vincoli al bilancio) in grado di dimostrare che essere cauti e pragmatici non significa necessariamente essere passivi o disengaged. Non mancano certo ambiti dove mettere alla prova un maggior coinvolgimento; su tutti, s’impongono tre priorità ineludibili. La prima, e più pressante, è il Medio Oriente. Obama non può permettersi di accompagnare la lenta morte della soluzione dei due Stati fra Israele e Palestina, di consegnare i Paesi del “risveglio arabo” al caos politico ed economico, di assistere al completamento del piano nucleare iraniano. In nessuna di queste crisi gli americani appaiono in grado di determinare il corso degli eventi; possono però influenzarlo significativamente con un impegno diplomatico, economico e (eccezionalmente) militare che è certamente mancato nei primi quattro anni di Obama. Ci sono poi da limitare i danni inflitti dalla retorica elettorale (repubblicana, ma anche democratica) alle relazioni con la Cina, Paese col quale si impone la ricerca di un modus vivendi stabile, stante la sua importanza economica (soprattutto per gli USA) e le crescenti minacce

Una nuova fase di “interventismo diplomatico” in grado di dimostrare che essere cauti e pragmatici non significa necessariamente essere passivi o “disengaged”


obama ii: un’agenda più interventista

alla stabilità regionale suscitate dalle dispute territoriali con Giappone, Vietnam e Filippine. La terza priorità – certamente la più ambiziosa – è mettere mano all’architettura della governance mondiale. Le istituzioni attuali (ONU, WTO, FMI) fotografano un mondo che non esiste più e, nonostante le caute riforme degli ultimi anni, non appaiono né inclusive (rispetto ai nuovi attori) né efficaci, come dimostrano lo stallo siriano e il fallimento dei negoziati su commercio, ambiente e regolamentazione finanziaria. Missioni apparentemente impossibili – anche per il presidente del “Yes we can” – e che dipendono ovviamente dalla postura che assumeranno i principali interlocutori nei prossimi mesi. Oba-

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ma e la sua nuova squadra potrebbero però stupirci lasciandosi alle spalle “precipizi” e “tetti” per rimettere in scena un’America che contribuisce a plasmare un nuovo ordine per un mondo profondamente trasformato. Anche F.D. Roosevelt, d’altra parte, venne eletto come Obama per risolvere le ansie e i problemi economici degli elettori americani dopo la Grande depressione, ma finì con l’essere il presidente della guerra in Europa, della nascita dell’ONU e dell’stituzione di Bretton Woods. Un’altra guerra mondiale ce la risparmieremmo volentieri. Un’America più “engaged” e che si assume maggiori responsabilità (con il necessario supporto dell’Europa e di altre potenze regionali) non ci dispiacerebbe affatto.

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contesti

L’Eurozona tra l’incudine e il martello articolo di Karel Lannoo progetto fotografico di White tramite Google Street View

Il rigore ha contraddistinto il rinnovato Patto di stabilità e crescita (PSC), il nocciolo della struttura di governance economica dell’Unione Europea. Ma, secondo le ultime previsioni, nel 2013 l’Europa avrà una crescita a zero e una disoccupazione record all’11%. Una situazione che sta mettendo sotto pressione i governi europei, affinché spieghino cosa stanno facendo e perché. Intanto cresce il malcontento: secondo Eurobarometro, il 29% della popolazione ha una visione negativa o molto negativa dell’UE, una percentuale mai toccata prima.


La crisi del debito sovrano europeo può essere finita per i mercati, ma non lo è per le economie della maggioranza degli Stati membri, perlomeno a giudicare dalle previsioni per il 2013, dai tassi di disoccupazione o dai deficit di bilancio. Questo mentre gli Stati Uniti stanno uscendo gradualmente dalla crisi, anche se la ripresa e il calo della disoccupazione sono accompagnati da un importante deficit di bilancio. Quest’ultimo elemento esemplifica meglio di qualunque altra cosa la differenza di approccio sulle due sponde dell’Atlantico: austerità prima di tutto nell’Eurozona, crescita prima di tutto negli Stati Uniti. I recenti sviluppi sembrano indicare che gli Stati Uniti sono sulla strada giusta, oppure l’Eurozona non aveva alternative? Il rigore è stato il tema dominante nell’Eurozona e nelle misure anticrisi dell’UE. Dopo una risposta troppo generosa alla crisi del settore bancario, dove il 13,5% del PIL dell’UE è andato a soccorrere gli istituti di credito, gli Stati membri hanno reagito con eccessiva severità alla crisi del debito sovrano e oggi ne stanno pagando il conto: aumento della disoccupazione, prospettive di crescita in peggioramento, ulteriori pressioni sulle finanze pubbliche e forte calo nel sostegno dei cittadini all’Unione. Secondo le ultime previsioni, nel 2013 l’Europa avrà una crescita a zero e una disoccupazione record all’11%. Questo sta mettendo sotto pressione i governi europei, affinché spieghino cosa stanno facendo e perché: l’Europa infatti viene vista come la cattiva. Negli Stati Uniti, invece, si stima per quest’anno una crescita intorno al 2% e un tasso di disoccupazione del 7,7%. Il rigore è stato il tema del rinnovato Patto di stabilità e crescita (PSC), il nocciolo della struttura di governance economica dell’Unione Europea. Con le misure six-pack (composte cioè da sei regolamenti) e duo-pack (due regolamenti) adottate rispettivamente nel novembre del 2011 e nel febbraio del 2013, l’UE ha deciso di controllare le finanze pubbliche sulla base di un maggior numero di criteri, e di conferire più poteri

Secondo Eurobarometro, il 29% della popolazione ha una visione negativa o molto negativa dell’UE, una percentuale mai toccata prima, e raddoppiata rispetto al periodo antecedente la crisi. Solo il 30% ha ancora un’idea positiva dell’UE, mentre prima era il 50%

alla Commissione Europea perché ne controlli l’applicazione. Quindi, oltre al debito pubblico e i deficit di bilancio, vengono monitorati anche il conto corrente della bilancia dei pagamenti e i progetti di piani di bilancio degli Stati membri. Con il Patto di bilancio europeo, o Fiscal compact, approvato nel marzo del 2012, i leader di 25 dei 27 Stati membri della UE (sono rimasti fuori il Regno Unito e la Repubblica Ceca) hanno sottoscritto un Patto intergovernativo volto a perseguire il pareggio di bilancio, la “regola d’oro”, e inserire questo obiettivo nelle costituzioni nazionali. Sarebbe sbagliato dire che il rigore riguarda solo l’Eurozona. Anche il Regno Unito sta perseguendo delle condizioni di bilancio severe, dato l’alto deficit e una crescita bassa o assente. Ha svalutato la sua moneta, la sterlina, di circa il 20% nel 2008, ma finora i risultati non sono stati molto confortanti per la vita fuori dall’Eurozona. Di certo non è portato a esempio da quegli economisti per cui i Paesi dovrebbero mantenere il controllo della propria politica monetaria, in quanto strumento essenziale per monitorare la concorrenza. Per consentire il rigore e prepararsi a eventuali imprevisti, l’Eurozona ha concordato un meccanismo di stabilizzazione permanente, il Meccanismo europeo di stabilità (ESM), inaugurato nell’ottobre del 2012. Insieme all’Outright Monetary Transactions (OMT) della BCE, oggi questo strumento permette di rispondere ai problemi di finanziamento del debito negli Stati membri. L’ESM può acquistare il debito primario dei membri dell’Eurozona e la BCE può, tramite l’OMT, comprare sul mercato secondario il debito dei membri in difficoltà. L’OMT è comunque subordinato all’accettazione, da parte del Paese che ne fa richiesta, di un programma fiscale per risanare i conti pubblici. Negli ultimi sei mesi i mercati hanno reagito positivamente al rigore: gli spread dei Paesi dell’Eurozona hanno ricominciato lentamente a convergere, dopo i picchi della seconda metà del 2011 e della prima metà del 2012. Ma la reazione dei cittadini è piuttosto diversa.


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Eurozona e Stati Uniti cifre principali

Previsioni (o dati piĂš recenti) sul 2013

Eurozona

USA

Debito pubblico (% PIL) Deficit di bilancio (% PIL) Inflazione (%) Rendim. obbligaz. a lungo termine (% media) Crescita (% PIL) Conto corrente (% PIL) Disoccupazione (%) Rating

95,1 -1,3 1,8 3,25 0,1 2,2 11,1 ( ) da AAA a BBB-

111,1 -6,6 1,9 1,8 1,9 -3,0 7,7( ) AA+( )

Fonti: European Commission (2013), JP Morgan

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Per mettere l’UE su una strada sostenibile per il futuro è urgente elaborare dei piani che favoriscano la crescita economica e l’unione politica

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STREET VIEW Città e capitali europee fotografate con Google Street View.

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Secondo l’Eurobarometro, basato su sondaggi d’opinione sull’UE negli Stati membri, il 29% della popolazione ha una visione negativa o molto negativa dell’UE, una percentuale mai toccata prima e raddoppiata rispetto al periodo antecedente la crisi. Nello stesso tempo, solo il 30% ha ancora un’idea positiva dell’UE, mentre prima era il 50%. Dopo quasi tre anni di crisi del debito sovrano, i mercati considerano queste misure sufficienti per riportare la calma. Il problema è quanto durerà. I mercati vorranno vedere altre misure che rafforzino la loro integrazione nell’UE e stimolino la crescita economica, mentre la popolazione vorrà avere più voce in capitolo su quel che succede. Tutto questo ci rimanda agli altri due grandi traguardi dell’UE: l’unione politica ed economica. L’argomento è stato dibattuto per decenni a livello europeo, senza che si giungesse mai a un accordo sul suo contenuto effettivo. L’unione economica richiederebbe, in certi settori, una maggiore integrazione a livello europeo. Questo riguarderebbe ad esempio le politiche energetiche, con reti di distribuzione gestite a livello comunitario e una politica comune di offerta; le politiche sulla ricerca e lo sviluppo, con un maggior grado di coordinamento dei finanziamenti; un’agenda digitale comune, con leggi per la tutela dei contenuti e dei dati e politiche comuni sull’e-network, una maggiore armonizzazione nella tassazione delle aziende, settore pressoché mai toccato dagli sforzi di armonizzazione compiuti finora dall’UE, e un intervento nelle politiche per l’occupazione che porti a un mercato europeo del lavoro, tramite diritti del lavoro e piani pensionistici trasferibili. Nel contesto dei recenti problemi economici, non sono mancate le proposte in questi ambiti – per esem-

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pio il rapporto del maggio 2010 di Mario Monti sul mercato unico – ma da allora non si sono fatti molti progressi. L’unione politica esigerebbe che le istituzioni dell’UE diventassero davvero responsabili e non il miscuglio di istituzioni intergovernative e federali che abbiamo oggi. Nella reazione a questa crisi del debito sovrano, il potere centrale è stato rafforzato, ma non lo è stato necessariamente anche il controllo democratico su quel potere. Il potere dei parlamenti nazionali sulla Commissione Europea, per quanto riguarda le questioni di governance economica, continua a essere limitato e la BCE insiste nel mantenere la sua caratteristica autonomia. A differenza dei parlamenti nazionali, il Parlamento Europeo non ha un reale diritto d’iniziativa, che è nelle mani della Commissione Europea. Ma i commissari sono designati dagli Stati membri dell’UE e i presidenti non vengono eletti per le loro posizioni. Dunque per mettere l’UE su una strada sostenibile per il futuro è urgente elaborare dei piani che favoriscano la crescita economica e l’unione politica. C’è bisogno di un grande piano industriale europeo per stimolare la crescita, per liberarsi delle politiche antiquate e non coordinate del passato e per dimostrare che l’UE ha un ruolo importante. Serve un’unione politica che faccia sentire ai cittadini che le loro idee contano non solo nella propria capitale, ma anche a Bruxelles. I recenti risultati dell’Eurobarometro dovrebbero suonare come un campanello d’allarme per tutti gli Stati membri. Se non si affronta subito l’atteggiamento negativo verso l’UE, le prossime elezioni per il Parlamento Europeo potrebbero dare dei risultati disastrosi, con tutte le conseguenze che ciò implicherebbe per il policy making dell’Unione.

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contesti

Italia, interlocutore “speciale” dell’Europa

articolo di Franco Bruni

Il rapporto tra l’Europa e l’Italia, il ruolo ricoperto da un Paese membro con un peso speciale all’interno degli equilibri economici e il suo contributo al Meccanismo europeo di stabilità e al Patto per la crescita e l’occupazione, ai loro vantaggi e alle loro criticità. L’Europa è un luogo di dibattito e l’Italia ne è uno degli interlocutori imprescindibili.

Nel 2011 la finanza pubblica italiana si è trovata fuori linea nel coordinamento europeo delle politiche di bilancio, divenuto più attento con la crisi finanziaria internazionale. Dapprima non è stata in questione la misura del programma di rientro dal deficit ma la credibilità delle decisioni per realizzarlo. Dopo ulteriori esitazioni italiane sul da farsi, l’Europa ha chiesto di rivedere anche la dimensione dei saldi programmati, anticipando al 2013 l’obiettivo di pareggio. I rapporti con Bruxelles si sono tesi al punto da divenire concausa del cambio di governo. Si è alimentato il dibattito sulla sovranità nazionale, sul grado di invasività dell’UE, sull’efficacia di imporre l’austerità dall’esterno, senza adeguata condivisione nel Paese. Lo stesso Monti, tre mesi prima di assumere, come premier, la responsabilità di adeguarsi a quell’imposizione, metteva in guardia circa gli aspetti critici di un “podestà forestiero” (“Corriere della Sera”, 7 agosto 2011). In tutta

l’UE la crisi dei debiti sovrani ha accelerato il ripensamento del coordinamento economico, per rendendolo più forte e condiviso. In questo il 2012 ha segnato grandi passi avanti. È diventato più chiaro che stabilità e crescita dei Paesi membri sono sia condizione sia effetto di buone politiche comunitarie. Nell’irrobustire l’integrazione dell’UE, l’Italia ha avuto un ruolo cruciale: avviando al suo interno gli aggiustamenti e le riforme ha dato stabilità all’eurozona. Ha approfittato del controllo dell’UE ma si è guadagnata la credibilità per influenzarne il miglioramento. Il ruolo speciale dell’Italia è dovuto alle sue dimensioni. Se cade in un baratro finanziario, vi trascina l’Europa, che non può “salvarla” perché troppo grande. Perciò, quando una crisi italiana si aggrava, scatta una reciproca responsabilizzazione fra Roma e Bruxelles. L’attenzione comunitaria aiuta e, insieme, “lega le mani” alle autorità ita-

liane trattenendole dal precipizio. E ogni progresso italiano accresce il peso della voce del Paese nel concerto europeo. L’azione diplomatica del nostro Paese, se questo è disciplinato da politiche sostenibili, ha il peso per fare interventi multilaterali che ricompongono gli allineamenti fra gli Stati membri alla ricerca del consenso per l’avanzamento dell’UE. Nel 2012 l’Italia è stata determinante – anche per l’attenzione che ha riservato a Paesi come Spagna, Regno Unito e Polonia – nell’interrompere l’arbitrarietà di un’autoproclamata leadership franco-tedesca che era stata inefficace e controversa. L’Italia ha contribuito, con azioni e idee, su tre fronti: rigore, solidarietà e stimolo alla crescita. Circa il rigore, oltre a “mettere ordine in casa sua”, ha insistito sul fatto che la disciplina macroeconomica comunitaria era già stata rafforzata e ampliata. Nel 2011 il Patto di stabilità, adottato contemporaneamente all’euro e inceppatosi poco dopo,


L’Italia ha avuto un ruolo cruciale nell’irrobustire l’integrazione dell’UE: avviando al suo interno gli aggiustamenti e le riforme ha dato stabilità all’eurozona

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era stato riformato. Era stato arricchito del monitoraggio degli squilibri del settore privato, compresa la sua competitività e il saldo del commercio con l’estero; era stato avviato “semestre europeo”, cioè l’elaborazione comunitaria preventiva dei piani di aggiustamento e di riforma strutturale da varare in ciascun Paese nella seconda metà di ogni anno; era stata prescritta la velocità minima di riduzione dello stock di debito pubblico quando in eccesso del 60% del PIL; era stato rafforzato il potere della Commissione nel sanzionare il mancato rispetto degli impegni dei governi nazionali. Nel 2012 si è voluto aggiungere a questo quadro disciplinare il cosiddetto Fiscal compact, che chiede di mettere l’obbligo di pareggio di bilancio in norme di rango costituzionale. Era importante che l’aggiunta non compromettesse l’attuazione delle riforme appena fatte con rigidezze controproducenti, con “troppi vincoli e cavilli” (espressione di Monti nell’informativa al Senato del 25 gennaio). Si è riusciti a evitarlo: la formulazione del Fiscal compact è risultata sufficientemente flessibile. Sul fronte della solidarietà l’Italia ha insistito sulla natura “sistemica” dell’instabilità dell’eurozona: la difficoltà di rifinanziare il debito pubblico di un Paese, evitando rialzi eccessivi del suo spread, non dipende sempre dall’indisciplina del suo bilancio. Anche lo spread di chi rispetta gli indirizzi comunitari può salire troppo, contagiato dai problemi altrui: l’Italia può soffrire per problemi greci, spagnoli o addirittura extraeuropei. Perciò, se si organizzano meccanismi di solidarietà, cioè interventi di supporto con fondi comunitari, l’aiuto ai governi “disciplinati” ma “contagiati” non deve richiedere dosi di rigore che vadano oltre la disciplina già sotto il controllo della Commissione. Era una posizione che rifletteva la situazione dell’Italia che pagava spread sproporzionati rispetto agli squilibri che stava aggiustando. Ma era anche corretta dal punto di vista dell’efficacia e della tempestività della solidarietà comunitaria. Il nostro governo ha insistito con forza e con un certo successo, nel Consiglio europeo di giugno 2012, quando si è trattato di decidere le norme del neonato Meccanismo europeo di stabilità (MES), cioè il fondo intergovernativo di solidarietà creato per aiutare il rifinanziamento dei Paesi in difficoltà. Il risultato è stato importante perché il sostegno del MES è stato poi considerato dalla BCE un prerequisito per gli interventi con i quali Draghi, fra luglio e agosto,

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ha promesso di adoperarsi per limare la parte degli spread dovuta all’errata percezione di un rischio di rottura dell’euro. È bastata la promessa: i mercati hanno ridimensionato gli spread e l’Italia ne ha molto beneficiato. L’insistenza italiana su una solidarietà “flessibile” per i Paesi disciplinati è stata tale da minacciare – durante i vertici europei di giugno 2012 e qualora non si escludessero rigidità inutili nella condizionalità degli aiuti del MES – di mettere il veto al varo del Patto per la Crescita e l’Occupazione, nonostante il Patto fosse gradito all’Italia, la cui diplomazia si era prodigata per ottenerlo. Il Patto è stata forse la maggiore novità della politica economica europea del 2012. Spingere verso modalità di risanamento

dell’eurozona più favorevoli alla crescita e all’occupazione è stato, l’anno scorso, un obiettivo costante del governo italiano. Il Patto è articolato su diversi fronti di azione; ma il leitmotiv è quello del completamento più rapido e intenso del mercato unico, soprattutto nel campo dei servizi. Lo sfruttamento delle opportunità del grande mercato interno all’UE è lo strumento principale per rilanciarne la crescita, ma urta contro le resistenze di interessi speciali e i protezionismi nazionalistici, compresi quelli tedeschi. La credibilità dell’impegno italiano su questo fronte è accresciuta dal fatto che già nel 2010 il professor Monti aveva redatto per incarico della Commissione un documento, divenuto poi il Single Market Act, la

cui difficile implementazione ha visto una nuova spinta nel Patto di giugno 2012. Sul fronte delle decisioni formali, il 2012 – costruendo sulla base di quanto si era andato maturando nel 2011 – è stato dunque un anno eccezionale per la costruzione di una vera politica economica europea. L’Italia ha contribuito in modo essenziale, sia perché altrimenti avrebbe rischiato di saltare insieme all’intera eurozona, sia perché la sua congiuntura politica interna l’ha messa in grado di influenzare l’Europa. La questione è se l’Italia e l’UE proseguiranno sulla retta via, mettendo effettivamente in opera quanto hanno deciso. Più che cercare di indovinare il grado giusto di ottimismo, è qui il caso di ribadire tre punti di fondo dei progressi fatti, almeno concettualmente e sulla carta, dalla cooperazione europea per la stabilità e la crescita. Primo: la disciplina macroeconomica è rigorosa, ma flessibile e anticiclica: non chiede – non lo chiede nemmeno il Fiscal compact – di inseguire flessioni del PIL con maggiori strette fiscali, in un circolo vizioso. Secondo: la solidarietà comunitaria nei confronti dei Paesi in difficoltà è ormai un fatto, incorporato nell’apparato istituzionale europeo e giustificato dall’interdipendenza sistemica sempre più avvertita nell’eurozona. Si può ritenere la solidarietà ancora insufficiente, ma non ha più senso far finta che non ci sia o credere di poterne fare a meno: il non possumus e la retorica rigorista di una parte dei tedeschi è stata smentita dai fatti. Terzo: il cuore delle politiche per riconquistare stabilità e crescita, il fondamento degli impegni annuali dei Paesi con la Commissione, non sono più i tagli comunque fatti ai deficit di Paesi considerati “spendaccioni”, ma i programmi di riforma strutturale, sia delle pubbliche amministrazioni sia dei mercati e dei settori privati, in grado di aumentare la competitività e la resistenza agli shock dei singoli Paesi membri e dell’insieme interconnesso dell’eurozona e dell’UE. L’Italia deve dunque disegnare le sue future politiche guardando all’Europa non come a un carabiniere tutto dedito a multare gli eccessi di spesa, quanto come a un ambito, solidale e interdipendente, in cui concordare i modi migliori per modernizzare la propria economia, pubblica e privata, trovando nei partner comunitari l’attenzione e l’aiuto di chi, oltre a dover coordinare con gli altri la propria agenda di riforme, è consapevole dei benefici che trarrà dalle riforme nazionali altrui.


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Il Patto per la crescita e l’occupazione è stato forse la maggiore novità della politica economica europea del 2012

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scenari

Energia cambia tutto! articolo di Fatih Birol

Gas, petrolio, energia nucleare, energie rinnovabili: a seconda delle disponibilitĂ e delle strategie di esportazione di ogni Paese, la mappa mondiale si sta ridisegnando. Le nazioni con un futuro piĂš roseo possiedono risorse e, allo stesso tempo, si danno standard rigorosi di efficienza energetica.

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La mappa mondiale dell’energia sta cambiando, con conseguenze potenzialmente importanti per i mercati energetici e per le prospettive economiche. A ridisegnarla sono la ripresa della produzione gas-petrolifera negli Stati Uniti, in Canada e in Iraq, e l’abbandono dell’energia nucleare in alcuni Paesi dopo l’incidente di Fukushima Dai-ichi in Giappone; un ulteriore motivo di trasformazione potrebbe risiedere in una rinnovata attenzione all’efficienza energetica da parte dei Paesi che consumano più energia. In mezzo a questi cambiamenti, gli ultimi dodici mesi hanno anche mostrato il persistere di molti sintomi propri di un sistema energetico non sostenibile. Le emissioni di CO 2 hanno segnato un nuovo record – con le energie rinnovabili che hanno sperimentato tensioni crescenti – mentre il cambiamento climatico ha perso posizioni nell’agenda politica. I prezzi del greggio continuano a restare ben sopra i 100 dollari al barile, frenando la fragile ripresa dell’economia globale. La riforma dei sussidi ai combustibili fossili sembra aver perso slancio, soprattutto in Medio Oriente e Nord Africa, tanto che il valore di quei sussidi ha raggiunto i 532 milioni di dollari nel 2011 – il 30% in più rispetto al 2010 – incoraggiando gli sprechi e una crescita artificiale della domanda. Contemporaneamente, malgrado i nuovi sforzi internazionali, 1,3 miliardi di persone non hanno ancora accesso all’elettricità. La rinascita della produzione gas-petrolifera negli Stati Uniti è uno degli elementi più rilevanti del panorama energetico in mutamento. L’innovativa applicazione di tecnologie, come la perforazione orizzontale e la fratturazione idraulica, ha consentito l’accesso a risorse non convenzionali, il cui sfruttamento era considerato ancora pochi anni fa troppo difficile o costoso. Di conseguenza la maggiore produzione di “petrolio leggero” (light tight oil) e di gas di scisto (shale gas) ha invertito la lunga tendenza al declino della produzione gas-petrolifera americana, mettendo gli Stati Uniti sulla strada per spodestare, tra la fine di questo decennio e la metà del prossimo, l’Arabia Saudita dal suo ruolo di maggior produttore petrolifero e la Russia da quello di maggior fornitore di gas. zSommando questi trend americani al più ampio (e radicato) fenomeno dello spostamento della domanda di greggio verso le economie emergenti, soprattutto quelle asiatiche, si ottengono gli ingredienti di un fondamentale riorientamento nei pattern del commercio petrolifero. Prevediamo che il cuore del commercio petrolifero si sposterà ancora verso l’Asia, ponendo sempre più l’accento sulla sicurezza strategica delle rotte navali che collegano il Medio Oriente ai mercati asiatici e sulle relazioni tra partner commerciali emergenti. Alcune delle dinamiche tipiche del mercato petrolifero riguardano anche il gas naturale; diversamente dal petrolio, però, per il gas non esiste un unico mercato internazionale, ma tre principali mercati regionali, ciascuno con le sue dina-

miche, il suo metodo di definizione dei prezzi del gas e – per il momento – grandi disparità nei livelli dei prezzi. Al suo livello minimo del 2012, il gas naturale degli Stati Uniti era venduto a un quinto del prezzo d’importazione in Europa e a un ottavo di quello in Giappone. Col passare del tempo, i rapporti tra i prezzi dei mercati regionali del gas sono destinati a rafforzarsi via via che il commercio di gas naturale liquefatto diventa più flessibile e i termini dei contratti evolvono: in questo modo, i cambiamenti che avvengono in una parte del mondo si sentono più rapidamente anche altrove. La produzione di gas non convenzionale contribuirà ad accelerare questo processo di globalizzazione dei mercati del gas, mettendo sotto pressione i principali esportatori di gas convenzionale e i tradizionali meccanismi di definizione del prezzo del gas ancorati al petrolio. E all’interno dei singoli Paesi e delle singole regioni, mercati energetici competitivi stanno creando dei legami più forti tra i mercati del gas e del carbone. Se consideriamo il petrolio e il gas insieme, diventa ancora più evidente che gli Stati Uniti sono in controtendenza rispetto agli altri principali importatori. Pur tenendo conto della probabile diffusione della produzione di petrolio e gas non convenzionali in alcune regioni ricche di quelle risorse, nei prossimi vent’anni tutti i principali importatori sono destinati a diventare più dipendenti dalle importazioni gas-petrolifere; tutti tranne gli Stati Uniti, che vedranno un declino significativo delle importazioni di greggio e diventeranno invece un piccolo ma importante esportatore di gas. Il settore elettrico è un altro punto focale di un panorama energetico in mutamento. A quasi due anni dall’incidente di Fukushima Dai-ichi, il futuro dell’energia nucleare – perlomeno tra i Paesi dell’Ocse – continua a incupirsi. Il Giappone e la Francia si sono uniti ad altri Paesi nell’annunciare la loro intenzione di ridurre l’uso di energia nucleare. Nel contempo, la sua competitività nel Nord America è messa in discussione dalla prospettiva di poter contare su un gas relativamente economico. Queste azioni e condizioni avranno conseguenze variabili, legate alla spesa per le importazioni dei combustibili fossili, ai prezzi dell’elettricità e al livello di sforzo necessario a realizzare gli obiettivi di salvaguardia del clima. Tuttavia non si è assistito ad alcun cambiamento nella politica dei Paesi che dovrebbero essere i principali motori dell’industria, e cioè la Cina, l’India, la Russia e la Corea. Il modo in cui i governi e l’industria risponderanno a questo mutato panorama determinerà in maniera cruciale il nostro futuro energetico negli anni a venire. Secondo le previsioni del World

Diversamente dal petrolio, per il gas non esiste un unico mercato internazionale, ma tre principali mercati regionali, ciascuno con le sue dinamiche e il suo metodo di definizione dei prezzi


totale per l'elettricitĂ

3,6$ biocarburanti

1,2$

trilioni

altri sussidi all'energia elettrica

1,0$

trilioni

trilioni assegnati a progetti esistenti

1,2$

trilioni

necessari a realizzare gli obiettivi 2012-2020

1,6$

milioni nel grafico Sussidi per le energie rinnovabili globali fino al 2035 (Fonte: IEA, World Energy Outlook 2012, New Policies Scenario)

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Mentre il cambiamento climatico ha perso posizioni nell’agenda politica, i prezzi del greggio continuano a restare ben sopra i 100 dollari al barile, frenando la fragile ripresa dell’economia globale

nel grafico Tendenze della dipendenza dalle importazioni gas-petrolifere (Fonte: IEA, World Energy Outlook 2012, New Policies Scenario) 2010 2035

100%

importazioni di gas

giappone

80%

unione europea 60%

40%

cina

india

20%

stati uniti

0% esportazioni di gas

20%

esportazioni di petrolio

40%

60%

80%

100%


Energy Outlook 2012 dell’IEA, ci vorranno 37.000 miliardi di dollari (una media di circa 1600 miliardi l’anno) di investimento nelle infrastrutture per la fornitura energetica fino al 2035; quasi la metà del totale verrà assorbito dal settore elettrico. Infatti una percentuale significativa servirà a sostituire le centrali esistenti, dato che entro il 2035 ne verranno dismesse più di un terzo. Grazie ai consistenti investimenti e ai miglioramenti nella capacità produttiva, la produzione basata sulle rinnovabili dovrebbe diventare già nel 2015 la seconda fonte energetica dopo il carbone. Le rinnovabili stanno acquistando competitività rispetto alle fonti energetiche tradizionali, ma dopo un periodo di fortissima crescita si trovano a un bivio, perché alcuni governi, pur ammettendo gli innegabili benefici, stanno riconsiderando criticamente il tipo di sostegno dato e il costo di quei sussidi. Gli incentivi per l’energia rinnovabile, che nel 2011 ammontavano a 88 miliardi di dollari, dovrebbero aumentare a 240 milioni l’anno per realizzare gli obiettivi esistenti. Ma le condizioni economiche deboli e la riduzione dei budget dei governi, in particolare nei paesi dell’Ocse, fanno sì che parte del sostegno governativo all’energia rinnovabile, compresi gli investimenti per la ricerca, sia oggi a rischio. Gli schemi di finanziamento delle rinnovabili devono essere pianificati attentamente così da assicurare la realizzazione di obiettivi ambiziosi ma credibili, e il finanziamento va diversificato secondo la maturità di ciascuna tecnologia. E via via che i costi delle tecnologie rinnovabili si riducono, il livello degli incentivi concessi per le nuove installazioni deve diminuire, così da evitare aumenti eccessivi e non necessari del costo dei servizi energetici. Una maggiore capacità produttiva delle rinnovabili implica che la flessibilità del sistema sia essenziale, e dev’essere sostenuta da robuste reti di trasmissione e distribuzione. La maggior parte dell’investimento necessario dovrà provenire dal settore privato, ma i policymaker hanno la responsabilità di garantire le priorità e le strutture che mandino i giusti segnali. Un altro potenziale fattore di cambiamento per i mercati globali dell’energia è l’efficienza energetica. Nell’ultimo anno alcuni grandi consumatori di energia hanno annunciato nuove misure volte a migliorare l’efficienza energetica: la Cina si è posta l’obiettivo di ridurre del 16% l’intensità energetica entro il 2015; l’Unione Europea si è impegnata a tagliare del 20% la sua domanda di energia entro il 2020; e il Giappone sta progettando di ridurre il consumo di elettricità del 10% entro il 2030. Queste politiche aiuteranno ad accelerare il lento progresso dell’efficienza energetica cui abbiamo assistito nell’ultimo decennio, ma pur mettendo in atto queste e altre misure, i due terzi del potenziale economico mondiale di migliorare l’efficienza energetica resterebbero irrealizzati. L’azione globale volta a eliminare gli ostacoli all’efficienza energetica potrebbe rappresentare un’altra “rivoluzione non convenzionale” per le


energia cambia tutto! |

PER MOLTI PAESI, L’EFFICIENZA ENERGETICA RAPPRESENTA LA MIGLIORE OPPORTUNITÀ DI GODERSI IL PROPRIO BOOM ENERGETICO. MA QUESTO SARÀ POSSIBILE SOLO SE I GOVERNI PRENDERANNO L’INIZIATIVA

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tendenze globali dell’energia e del clima. In base al World Energy Outlook 2012, l’adozione di misure per l’efficienza energetica economicamente fattibili potrebbe dimezzare la crescita della domanda energetica globale, con una quantità di petrolio risparmiato pari all’attuale produzione di Russia e Norvegia insieme, e analoghi risparmi di carbone e di gas. Questo frutterebbe anche degli importanti benefici per l’ambiente, dando più tempo ai governi di prendere determinati provvedimenti per mitigare il cambiamento climatico. E, fatto importante, l’inevitabile investimento supplementare nell’efficienza energetica sarebbe più che compensato dai risparmi di spesa per i combustibili per le abitazioni e le industrie. Per molti paesi, l’efficienza energetica rappresenta la migliore opportunità di godersi il proprio boom energetico. Ma questo sarà possibile se – e solo se – i governi prenderanno l’iniziativa, assicurandosi che queste opportunità siano sfruttate appieno e in fretta. In conclusione, le tendenze dell’ultimo anno lasciano presagire grandi cambiamenti nel panorama energetico globale, ma la dura verità è che la necessità di consentire una transizione verso un’economia energetica più sicura e più pulita continua a essere chiara e impellente. Questo imperativo esige che i decision-maker riescano a conciliare obiettivi economici, ambientali e di sicurezza che a volte sono in conflitto tra loro, e che adottino delle politiche e delle misure molto più forti di quelle attualmente previste. Le economie indebolite e lo spettro di una “epoca di austerità” forniscono delle scuse allettanti per rimandare i necessari investimenti in un futuro energetico più sostenibile. Su questo sfondo complesso, spicca un approccio politico che consentirebbe ai policy-maker di realizzare molteplici obiettivi, e cioè l’efficienza energetica. Non possiamo permettere che questo potenziale vada sprecato.

World Energy Outlook 2013 Il World Energy Outlook, la fonte più autorevole di analisi strategica dei mercati energetici globali, nel 2013 azzererà le vecchie aspettative sul futuro energetico e aggiornerà le sue proiezioni fino al 2035, confrontandosi con l’attualità. Fra i temi emergenti: il rapporto tra cambiamento climatico e settore energetico; le prospettive future del petrolio – domanda, offerta e commercio –; la diffusione e gli impatti ambientali e sociali dell’offerta di gas non convenzionale; la situazione di alcune aree specifiche e quindi le prospettive energetiche in Brasile e i sussidi ai combustibili fossili in Medio Oriente. (worldenergyoutlook.org)

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contesti

Cina e India fra competizione e collaborazione articolo di Kishore Mahbubani

«Le sfide comuni e gli interessi condivisi della Cina e dell’India inducono a credere che le relazioni tra i due Paesi oscilleranno tra competizione e collaborazione. Ora che l’Occidente sta lentamente arretrando dalla scena globale, le due future superpotenze mondiali devono assumersi maggiormente la responsabilità del benessere del nostro mondo».


Oggi le relazioni geopolitiche più importanti del Pianeta riguardano la più grande potenza mondiale e la più grande potenza emergente, cioè gli Stati Uniti e la Cina. Subito dopo vengono i rapporti tra le due principali superpotenze emergenti, la Cina e l’India. Secondo Goldman Sachs entro il 2050 le prime due economie del mondo saranno rispettivamente quella cinese e quella indiana. Quindi, anche se oggi le relazioni sino-americane sono in primo piano, domani toccherà a quelle sinoindiane. Attualmente sia la Cina sia l’India si stanno confrontando con una nuova realtà politica, in cui i ricchi Paesi occidentali non si sentono più sicuri del futuro. Un elettorato ansioso trattiene i politici occidentali dall’imporre sacrifici immediati per un bene globale futuro in questioni come il commercio e il cambiamento climatico. Questo significa che un peso maggiore passerà sulle spalle della Cina, dell’India e di altri Paesi in via di sviluppo. Per le due nazioni è venuto il momento di pensare a quali vantaggi potrebbero trarre da una mutua collaborazione in molti ambiti di interesse comune. La Cina e l’India possono sostenere la loro rapida crescita economica solo mantenendo e anzi rafforzando l’ordine relativamente aperto e fondato sulle regole stabilito nel 1945. I due Paesi stanno legando sempre di più la loro economia al sistema economico globale; così facendo, dimostrano una grande fiducia nella sopravvivenza di quel sistema. E se invece dovesse crollare? Chi lo ricostruirà? Sia la Cina sia l’India sono state sostanzialmente dei free rider, cioè hanno sfruttato i vantaggi di questo bene economico globale senza sostenerlo. È vero che entrambe stanno giocando secondo le regole dell’ordine politico del 1945, ma chi sono stati i custodi di quest’ordine fondato sulle regole? Ovviamente l’America e l’Europa. Ma perché mai queste ultime dovrebbero continuare a essere i custodi di quest’ordine multilaterale, i cui principali beneficiari sono diventati la Cina e l’India? Il semplice buon senso ci dice che i due Paesi dovrebbero impegnarsi in uno sforzo comune e cercare di mantenere in funzione il sistema economico globale. Purtroppo, i policy maker cinesi e indiani non hanno ancora accettato il fatto che devono fare di più se vogliono che le attuali istituzioni della governance globale continuino a funzionare.

Una seconda sfida per la Cina e l’India è la necessità di poter accedere alle risorse naturali. Entrambi i Paesi stanno girando il mondo alla ricerca di giacimenti di materie prime come il petrolio e il gas, il ferro e il carbone, la bauxite e l’alluminio. Secondo un rapporto del Baker Institute della Rice University, «il consumo petrolifero cinese è quasi raddoppiato negli ultimi dieci anni e rappresenta oggi più del 10% della domanda mondiale». Lo stesso vale per l’India: ogni anno il consumo indiano di carbone aumenta del 9-10% e si prevede che, rispetto ai livelli del 2005, nel 2020 le importazioni di greggio saranno più che triplicate. Anche se in certi casi è inevitabile una competizione a somma zero, Cina e India hanno tutto l’interesse ad assicurarsi che le regole incoraggino un accesso aperto e continuo alle risorse essenziali. Sotto questo profilo la collaborazione sta migliorando, soprattutto tra le imprese cinesi e indiane presenti in Africa. Nel gennaio del 2006 Pechino e Nuova Delhi hanno promesso di scambiarsi informazioni quando sono interessate a giacimenti petroliferi esteri. «Una rivalità sfrenata tra le aziende indiane e cinesi giova solo al venditore», ha scritto l’agenzia di stampa cinese Xinhua citando Mani Shankar Aiyar, il ministro indiano per il petrolio e il gas naturale. Anche nel caso di altre sfide geopolitiche i due Paesi potrebbero trarre vantaggio da soluzioni comuni. Per continuare a sfamare la popolazione in aumento, Cina e India devono importare sempre più cibo. Il cibo però è un bene politicamente spinoso. Quando si alzano i prezzi dei generi alimentari, i politici, soprattutto nei Paesi in via di sviluppo, sono presi dal panico e vietano subito le esportazioni. Questo comportamento è terribilmente distruttivo nel lungo periodo, perché fa aumentare i prezzi degli alimenti e nega ai produttori nazionali un profitto maggiore, creando così un disincentivo a produrre di più. Malgrado sia nel loro interesse sviluppare un regime equo e giusto nelle forniture alimentari, né la Cina né l’India hanno mai iniziato un dialogo su questo argomento. I due Paesi dovrebbero anche elaborare una valutazione globale comune sulla relativa prevedibilità della domanda e la relativa imprevedibilità dell’offerta dei beni alimentari nei decenni futuri. Una terza sfida comune è la sicurezza delle rotte navali. Negli ultimi vent’anni, in sostanza è stata la Marina americana a tenere aperte le rotte più importanti, e anche se l’ha fatto in risposta a


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Se le previsioni delle conseguenze del riscaldamento globale si dimostreranno corrette, la Cina e l’India avranno molto da perdere

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un’esigenza del suo Paese, di fatto ha offerto un bene pubblico globale di cui hanno beneficiato sia la Cina sia l’India. Ma, dati gli enormi deficit di bilancio, gli Stati Uniti avranno difficoltà a giustificare l’entità delle loro spese militari. Di fatto i prossimi decenni vedranno una contrazione significativa, in termini relativi, della Marina, e sia la Cina sia l’India risentiranno di questa contrazione. Quindi dovrebbero instaurare un dialogo sulla sicurezza delle rotte navali. Restando in ambito marittimo, è nell’interesse di Cina e India sviluppare un regime che sia globale, a lungo termine e praticabile per la salvaguardia delle risorse ittiche. Sembra esserci un crescente consenso internazionale rispetto al fatto che i mari non possano più essere impoveriti dalla pesca. Nel 2012 “Newsweek” ha scritto che «gli oceani sono cambiati di più negli ultimi trent’anni che in tutta la loro storia. Un po’ dappertutto i mari hanno perso più del 75% della loro megafauna. Alla fine del XX secolo, praticamente tutte le acque profonde meno di 1000 metri erano state toccate dalla pesca commerciale». Inoltre, secondo un rapporto del 2009 della Banca Mondiale intitolato The Sunken Billions (“I miliardi sommersi”), le principali risorse ittiche del mondo produrrebbero il 40% in più se venissero sfruttate di meno. Siccome nel prossimo futuro avranno la classe media più numerosa del mondo, la Cina e l’India risentirebbero più di ogni altra nazione di un’eventuale diminuzione delle risorse ittiche. L’attuale classe media cinese e indiana beneficia della situazione a spese delle sue generazioni future. Cosa stanno facendo i due Paesi per proteggere questo interesse comune? Una quarta sfida, più ovvia, che hanno davanti a sé Cina e India è il cambiamento climatico. Se le previsioni delle conseguenze del riscaldamento globale si dimostreranno corrette, la Cina e l’India avranno molto da perdere. Un rapporto sulle conseguenze economiche del riscaldamento globale commissionato dal governo inglese, la Stern Review, prevede che lo scioglimento dei ghiacciai finirà per minacciare un sesto della

popolazione mondiale, soprattutto gli abitanti dell’India e della Cina. Ma se nel lungo periodo è nel loro interesse fermare il riscaldamento climatico, nel breve periodo è nel loro interesse non pagare un prezzo troppo salato per ridurre le attuali emissioni di gas serra. Sarebbe opportuno che attribuissero una percentuale maggiore dello sforzo economico ai Paesi sviluppati, che sono più ricchi e che hanno emesso gas serra per secoli senza pagarne il prezzo in termini economici. Infine, un quinto interesse comune riguarda la vicinanza geografica: la Cina e l’India vorranno preservare la stabilità dei loro confini comuni. Per citare due esempi ovvi, se l’Afghanistan e il Pakistan dovessero disintegrarsi e diventare il rifugio di gruppi terroristici, sarebbe un grosso problema per la Cina e l’India, dove gruppi islamici scontenti sarebbero ben disposti a collaborare con organizzazioni terroristiche esterne. Anzi, se il Pakistan collassasse e le sue armi nucleari non fossero messe al sicuro, potrebbero esserci conseguenze disastrose per la regione. Malgrado questa sfida comune, Cina e India hanno due posizioni molto distanti sul Pakistan: la Cina lo considera un vecchio alleato affidabile che l’ha aiutata ripetutamente, mentre per l’India è la principale spina nel fianco. Anche se Nuova Delhi ha smesso di vedere ossessivamente nel Pakistan il suo avversario e concorrente naturale, è comunque convinta che i regimi pakistani abbiano perseguito costantemente una politica volta a minare nel lungo periodo l’ordine politico indiano – convinzione in parte giustificata dai frequenti attacchi terroristici avvenuti in India, supportati e finanziati dal Pakistan. Le sfide comuni e gli interessi condivisi della Cina e dell’India inducono a credere che le relazioni tra i due Paesi oscilleranno avanti e indietro tra competizione e collaborazione. La cooperazione tra i due giganti non è solo nell’interesse di entrambi, ma alla lunga anche del resto del mondo. Ora che l’Occidente sta lentamente arretrando dalla scena globale, le due future superpotenze mondiali devono assumersi maggiormente la responsabilità del benessere del nostro mondo.

La Cina e l’India stanno legando sempre di più la loro economia al sistema economico globale, dimostrando una grande fiducia nella sopravvivenza di quel sistema. E se invece dovesse crollare?

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Cina: è l’ora delle riforme. Politiche

intervista a Francesco Sisci di Cecilia Toso Con l’elezione del nuovo Presidente della Repubblica Popolare Cinese, Xi Jimping, si apre una stagione di riforme politiche che succederà a quella di riforme economiche. Una trasformazione inevitabile e controllata della potenza mondiale cinese.

Nel discorso di chiusura del diciottesimo congresso del Partito Comunista, il futuro Presidente della Repubblica Popolare Cinese Xi Jimping ha ricordato che se la Cina ha bisogno di sapere di più sul mondo, il mondo ha bisogno di sapere di più sulla Cina. Francesco Sisci, giornalista e sinologo, lo conferma a Oxygen: «I cinesi sono molto più informati sull’estero di quanto gli stranieri lo siano sulla Cina. Pochissimi in occidente sanno cos’è la Cina adesso». E infatti, mentre tutto il mondo osservava il destino delle elezioni statunitensi, in pochi hanno percepito che in Cina – con la fine del congresso e la nomina di Xi Jimping a presidente e di Li Keqiang a premier – si stava contemporaneamente verificando una tappa molto significativa perché diversa da tutti i cambiamenti precedenti. «Gli ultimi 30 anni sono stati di riforme economiche, mentre i prossimi 30 saranno di riforma politica», prosegue Sisci. «Lo ha affermato Xi Jimping e, con un forte segnale non ufficiale, il primo gennaio la televisione centrale cinese ha annunciato che la Cina dovrà attuare riforme politiche tali da portare il sistema politico a essere come quello di altri Paesi. Certo con tempi e modi graduali e con grande prudenza». Si tratterà quindi di una

transizione democratica lenta: «La strategia è chiara, la tattica meno. Ma è così che si vincono tutte le guerre ed è questo che rende la Cina la nazione che è. Falliscono invece le politiche di quelle nazioni che vivono di tattiche ma sono ignare delle strategie da applicare». Difficile dire con sicurezza quando si comincerà a percepire l’effetto di queste riforme: «L’impatto e la portata di quelle economiche sono stati inizialmente minimi. Lanciate nel ’78, hanno cominciato a fare sentire i loro effetti solo nei primi anni Novanta. Ed è probabile che questo accada anche con le riforme politiche, di cui si sentirà l’impatto solo tra qualche anno». Ma alcuni cambiamenti sono già visibili: «Negli ultimi 10 anni abbiamo assistito a una graduale libertà di informazione su internet ed è stata concessa dal governo proprio per annunciare un futuro di libertà in senso più assoluto». È più azzardato, invece, fare dei pronostici su che cosa cambierà in termini di governance, di politica estera e interna. Per ora «sappiamo solo che ci sarà una profonda riorganizzazione dello Stato, che per esempio ridurrà drasticamente il numero dei ministeri, passando dagli attuali 40-44 a circa 23-27».

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Co

contesti

La società civile guida la democrazia in America Latina articolo di Leonardo Morlino

L’America Latina punta, con le sue contraddizioni e difficili condizioni politiche ed economiche, alla democrazia. Le diverse situazioni dei Paesi latinoamericani non creano altrettanti tipi di democrazia, ma solo democrazie buone o cattive, che è importante imparare a valutare e misurare. Per capire come migliorarle.

Negli ultimi decenni l’America Latina ha intrapreso una strada difficile ma risoluta verso la democrazia. Quale bilancio si può fare oggi? Per rispondere a questa domanda è, innanzi tutto, necessario specificare come si analizza una democrazia per rilevarne la sua qualità e, poi, vedere in concreto come la governance democratica si sia realizzata in quest’area del mondo. Questo è quello che faremo, chiedendoci anche se la “sirena populista”, che ha avuto tanto ascolto negli anni passati, sia tuttora presente. Senza soffermarci sul dibattito tra gli studiosi, si può ricordare che una democrazia di qualità è quell’assetto istituzionale stabile che attraverso istituzioni e meccanismi correttamente funzionanti realizza libertà e uguaglianza dei cittadini. Dunque, una democrazia di qualità è, innanzi tutto, un regime ampiamente legittimato e stabile, di cui i cittadini sono pienamente soddisfatti (qualità rispetto al risultato). Inoltre, i cittadini e le associazioni e comunità che ne fanno parte godono di libertà ed eguaglianza in misura un po’ superiore ai livelli minimi (qualità rispetto al contenuto). Terzo, per le caratteristiche che le sono proprie, i cittadini di una buona democrazia devono potere con-

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trollare e valutare se e come quei due valori sono realizzati attraverso il pieno rispetto delle norme vigenti (la cosiddetta rule of law), la loro efficiente applicazione, l’efficacia nell’assunzione delle decisioni insieme alla responsabilità politica per le scelte fatte dal personale eletto in relazione alle domande espresse dalla società civile (qualità rispetto alla procedura). Sulla base di queste premesse, una democrazia di qualità ha almeno otto dimensioni che devono essere analizzate e valutate. Le prime cinque sono procedurali, in quanto attengono prevalentemente alle regole e solo indirettamente ai contenuti. Sono: la rule of law, ovvero il rispetto della legge; le due accountability, ovvero la responsabilità elettorale e quella interistituzionale; la partecipazione; la competizione. Le altre due sono sostantive: il rispetto pieno dei diritti che possono essere ampliati nel realizzare le diverse libertà; la progressiva realizzazione di una maggiore eguaglianza sociale ed economica. L’ultima dimensione da analizzare attiene al risultato e riguarda la responsiveness, la rispondenza, cioè la capacità di risposta dei governanti alle domande e necessità dei cittadini, che incontra la loro soddisfazione.


una democrazia di qualità è, innanzi tutto, un regime ampiamente legittimato e stabile, di cui i cittadini sono pienamente soddisfatti

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La nuova America Latina democratica non ha più bisogno dei Chávez, Morales, Uribe, ovvero di un altro Simón Bolívar o simili “salvatori della patria”. L’esistenza di una società civile attiva è un percorso assai più sicuro in chiave di qualità democratica

Uruguay Costa Rica Cile Argentina Brasile Bolivia Ecuador Messico Colombia Paraguay Peru Venezuela Nicaragua El Salvador Guatemala

. . . . . . . . . . . . . . .

3,84 3,78 3,85 2,90 2,83 2,49 2,31 2,04 2,19 2,42 2,12 1,96 1,97 2,09 1,88

. . . . . . . . . . . . . . .

4,62 4,65 4,62 4,30 4,23 3,82 3,86 4,08 2,69 3,53 3,85 3,49 3,41 3,70 3,57

. . . . . . . . . . . . . . .

3,40 3,84 3,66 3,54 3,90 2,76 3,20 3,28 3,42 2,95 2,35 2,50 2,68 2,64 2,51

. . . . . . . . . . . . . . .

3,53 3,29 3,48 3,40 3,43 3,38 2,67 2,82 3,23 2,83 2,78 2,75 2,96 2,11 2,34

. . . . . . . . . . . . . . .

4,50 4,00 4,00 3,83 4,33 3,75 3,50 2,50 2,81 2,75 3,67 2,50 3,17 2,50 3,17

. . . . . . . . . . . . . . .

4,50 4,50 3,25 4,00 3,88 3,75 3,10 2,75 3,30 2,25 2,75 2,88 2,50 2,88 2,63

. . . . . . . . . . . . . . .

4,33 4,25 4,00 3,83 3,50 3,00 2,83 3,00 2,90 3,13 2,58 2,25 2,08 2,17 2,08

Totale

E

L

Res

PC

I-I.Acc. PP

EAcc.

RL

Paese

. . . . . . . . . . . . . . .

3,83 3,47 3,30 3,05 2,50 1,67 2,17 2,33 2,28 2,55 2,25 3,00 2,00 2,17 1,42

. . . . . . . . . . . . . . .

4,07 3,97 3,77 3,61 3,58 3,08 2,96 2,85 2,85 2,80 2,79 2,67 2,60 2,53 2,45

RL = rule of law, EAcc. = accountability elettorale, I-IAcc. = accountability interistituzionale, PP = partecipazione, PC = competizione, Res = responsiveness, L = libertà; E = eguaglianza sociale ed economica. Fonte: G. Katz e L. Morlino, What Qualities of Democracy in Latin America?, Stockholm, IDEA, 2013.

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la societĂ civile guida la democrazia in america latina

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Senza scendere nell’analisi specifica degli indicatori, sulla base di una scala da zero (assenza della qualità) a cinque (massima presenza) si può vedere immediatamente, nella tabella allegata, lo stato della democrazia in quasi tutti i Paesi latinoamericani. Come ci si poteva aspettare, Uruguay, Costa Rica e Cile sono i Paesi relativamente a più alta qualità democratica, ma troviamo anche l’Argentina in una buona posizione – grazie anche al funzionamento dei meccanismi di responsabilità elettorale – seguita dal Brasile, che realizza meglio i meccanismi di controllo istituzionale tra i diversi poteri (colonna 3). Riflettendo su questi dati, la prima domanda che possiamo farci è se nella realtà latinoamericana di oggi emergano due modelli di democrazia, una liberale e una neopopulista, caratterizzata da alti livelli di partecipazione e, al tempo stesso, da un ridotto controllo tra i diversi poteri costituzionali e una bassa competizione politica. La risposta è negativa. Ad esempio, in Bolivia e Nicaragua, vi è grande partecipazione e un ridotto controllo tra i diversi poteri, ma la competizione è alta. In altri termini, i dati mostrano la predominanza di un solo modello democratico, che è coerentemente caratterizzato da livelli alti o bassi delle diverse dimensioni, ma non da quell’opposizione e distanza tra valori diversi sulle dimensioni sopra indicate che dovrebbe caratterizzare il modello neopopulista. Ci si può chiedere, però, se esistano democrazie di bassa qualità in cui il cittadino è chiamato a votare, ma in cui le sue domande, i suoi bisogni saranno ignorati fino alle successive elezioni; in cui i politici di turno promettono provvedimenti e leggi che non faranno una volta eletti o rieletti; in cui i cittadini non hanno modo né diretto né indiretto di controllare la corruzione e il malgoverno e non ci sono istituzioni in grado di controllare gli altri poteri forti. In effetti, democrazie così – dette “democrazie delegate”, i cui meccanismi rappresentativi e di controllo sono molto deboli – esistono e sono principalmente quelle di Paraguay, Perù, Venezuela, Nicaragua, El Salvador e Guatemala. A questo proposito bassa vedere i punteggi di rule of law, libertà ed eguaglianza per avere un’indicazione forte di quali siano in quest’area le democrazie senza qualità.

Uruguay, Costa Rica e Cile sono i Paesi relativamente a più alta qualità democratica, ma troviamo anche l’Argentina in una buona posizione, seguita dal Brasile

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Proseguendo nel nostro ragionamento ci possiamo concentrare sulle due qualità che presentano una situazione peggiore rispetto alle altre: partecipazione e uguaglianza. È ben noto che in America Latina ci sono sempre state bassa partecipazione politica e forti disuguaglianze. Ma i nostri dati sottolineano la connessione evidente tra queste due dimensioni e, più precisamente, come una maggiore partecipazione comporti una maggiore eguaglianza. Per di più, in contesti in cui la partecipazione violenta e radicalizzata è nettamente diminuita, anche la partecipazione non convenzionale, caratterizzata da dimostrazioni di vario genere, che testimonia la vivacità della società civile, spinge verso una diminuzione della disuguaglianza. In questa prospettiva la nuova America Latina democratica non ha più bisogno dei Chávez, Morales, Uribe, ovvero di un altro Simón Bolívar o simili “salvatori della patria”. L’esistenza di una società civile attiva anche solo a livello locale è un percorso assai più sicuro in chiave di qualità democratica. Queste osservazioni ci portano a focalizzarci maggiormente sul tema dell’eguaglianza. Se ci chiediamo quali siano i Paesi più fortemente diseguali, vediamo subito che sono quelli che vanno male anche sulle altre dimensioni. Questo, innanzi tutto, conferma il legame tra le diverse dimensioni e suggerisce come sia riduttivo sottolineare solamente la connessione tra eguaglianza e partecipazione: una partecipazione non violenta aiuta a ridurre la disuguaglianza, ma per raggiungere completamente questo risultato occorre anche il rispetto della legge, di fatto più limitata proprio in quei Paesi che risultano maggiormente disuguali. Dunque, solo in un contesto di effettività della legge e dopo aver lasciato trascorrere un certo lasso di tempo per poter vedere gli effetti, la nostra analisi mostra che l’azione collettiva che si esprime in diverse forme di partecipazione è necessaria per migliorare le disuguaglianze. Si possono fare diversi esempi a sostegno di questa conclusione. Ma forse il caso più significativo è la Bolivia, in cui si verificano contemporaneamente una forte disuguaglianza economica e sociale, specie rispetto alla popolazione andina, e un’aumentata partecipazione in ambiti diversi, con buoni risultati nella direzione della diminuzione delle disparità anche di razza. Dunque, per concludere non vi sono oggi in America Latina democrazie liberali e democrazie neo-populiste, ma ci sono buone e cattive democrazie. E l’unica strada possibile per migliorarle, soprattutto per quanto riguarda il loro problema più grande ovvero disuguaglianza e povertà, sembra essere la partecipazione più o meno organizzata, ma sempre non violenta.


I rapporti che l’Europa e gli Stati Uniti intrattengono e devono intrattenere con l’America Latina potrebbero essere la soluzione alla crisi. Aspenia Institute ed Enel hanno organizzato una conferenza sui possibili nuovi rapporti economici internazionali.

Un’integrazione economica e dunque politica, senza la quale l’Europa rischia di essere schiacciata tra gli Stati Uniti e la forza crescente delle economia in via di sviluppo dell’America del Sud

Dinamiche politiche, rigore dei conti pubblici, crescita economica. Quali sono gli scenari possibili nel futuro dell’America e dell’Unione Europea? Gli Stati Uniti di Barack Obama, dopo un 2012 segnato da un debito pubblico al 109% del PIL e da un deficit pubblico doppio rispetto a quello dell’eurozona, mostrano i primi segnali di ripresa. Puntando anche sulla rilocalizzazione, nel 2013 la produzione industriale dovrebbe tornare ai livelli precedenti alla recessione. Nell’Unione Europea, invece, la tendenza sembra opposta. «Ci sono dei progressi ma senza un rilancio dell’economia». E c’è un problema di governance: le decisioni vengono prese a livello nazionale, quando invece quello che serve è «un’integrazione economica e dunque politica, senza la quale l’Europa rischia di essere schiacciata tra gli Stati Uniti e la forza crescente delle economia in via di sviluppo dell’America del Sud». Con queste riflessioni il presidente dell’Enel, Paolo Andrea Colombo, ha aperto l’incontro Le due Americhe e la ripresa possibile, moderato da Maurizio Caprara del “Corriere della Sera” e organizzato il 5 febbraio scorso da Aspen Institute Italia in collaborazione con Enel per l’uscita del numero 59 della rivista “Aspenia”. Al dibattito hanno partecipato Marta Dassù (sottosegretario agli Esteri e direttrice di “Aspenia”), Ian Lesser (direttore del

German Marshall Fund) e Charles Kupchan (direttore degli European Studies al Council on Foreign Relations). Kupchan ha spiegato che «la priorità per gli Stati Uniti adesso è tornare ad avere un’economia forte». Ciò non significa una maggiore chiusura ma un approccio «più selettivo» nei rapporti con gli altri Paesi, favorito da un atteggiamento nei confronti dell’euro oggi meno «ansioso». Preoccupa invece per le sorti internazionali un’eventuale uscita del Regno Unito dall’UE, suggerita di recente da David Cameron. Ma per Robin Niblett, direttore di Chatman House, si tratta di un’ipotesi remota. «Una strategia simile sarebbe dannosa sia per il Regno Unito, sia per l’Europa». La questione essenziale, piuttosto, è la crisi della crescita, bisogna creare opportunità di lavoro, commerciali e di sviluppo all’estero. E l’America Latina, in tal senso, è una risorsa essenziale, come hanno evidenziato l’Amministratore delegato di Enel Fulvio Conti e il presidente di Techint Group Gianfelice Rocca. Ha risorse demografiche, materie prime, energia. E aree interessantissime come il Messico o il Brasile. «Deve fare un colossale sforzo di produttività», ha ricordato Rocca, che comporta «un grande problema di sostenibilità sociale». È un’area vastissima in cui bisogna «creare una politica industriale e su questo l’Europa può avere un ruolo fondamentale».

focus

Le due Americhe e la ripresa possibile di Anna Franchin

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Re

reportage

La guerra di Aleppo e la Siria che verrà articolo di Gabriele Del Grande fotografie di Alessio Genovese

Dopo la Prima guerra mondiale si è ribellata all’Impero ottomano. Dopo la seconda ha conquistato l’indipendenza. Dopo la guerra che infuria oggi, invece, la Siria potrebbe smettere di esistere. Mentre il mondo guarda altrove, il Paese si sta disintegrando e rischia di trascinare con sé gli Stati circostanti e di alimentare il jihad. Già 70.000 morti, in gran parte civili. E cresce il potere dei Fratelli musulmani e degli islamisti radicali. Che ne sarà della Siria? Per Oxygen, un reportage esclusivo da Aleppo.

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«Che dio ci protegga! Non sto né con il regime né con l’opposizione. Bashar ci bombarda e quelli dell’esercito libero ci derubano. Aleppo era un gioiello. Oggi non ci sono elettricità, gas, acqua, telefono. Niente. Io ho cinque figli, mio marito è morto sotto una bomba e devo venire a elemosinare il pane. Come siamo arrivati a questo punto? Chi ha seminato nei cuori dei nostri ragazzi tutto quest’odio? Anche i soldati del regime sono i nostri figli. Chi ci guadagna da tutto questo sangue?». Le donne intorno ad Amal approvano. Saranno duecento. Molte hanno in braccio i bambini. Sono in fila da tre ore davanti a una palazzina di Masakin Hananu, ad Aleppo, per ritirare un pacco di viveri. Alcune sono vedove di combattenti dell’esercito libero. Altre di soldati del regime. Ma ai loro occhi non fa molta differenza: chiamano martiri gli uni e gli altri. Di là dalla cancellata si fa avanti un signore di mezza età. Si chiama Yusef ‘Abbud. Brizzolato, la barba curata. Scambia due parole con alcune signore, con un tono rassicurante. Poi ordina ai ragazzi di iniziare la distribuzione. Nelle buste nere ci sono olio, zucchero, riso, sale e farina. ‘Abbud è un comandante dell’Esercito libero siriano, ma oggi non indossa la mimetica. È venuto in veste di presidente del Comitato per la diffusione del bene (Hayat Amr bil Ma’ruf), il braccio civile del Fronte islamico per la liberazione della Siria (Jabhat Tahrir Suriya al Islamiya), la nuova coalizione islamista dell’esercito libero. La più importante per numero di combattenti e per peso politico. «Ci siamo appena costituiti – mi spiega ‘Abbud – e contiamo già più di 125 battaglioni tra i più importanti: Liwa al Tawhid, Liwa al Fateh, Kataib al Faruq, Liwa al Nasr. Più di 30.000 combattenti, praticamente tutta la corrente islamica moderata dell’Esercito libero. La nostra unione è il primo passo verso la costruzione di uno Stato islamico moderato». I finanziamenti di questa nuova formazione arrivano sia da uomini d’affari siriani vicini ai Fratelli Musulmani, sia dai governi di Qatar e Turchia. E da un’organizzazione caritatevole islamica turca arrivano gli aiuti alimentari che ‘Abbud sta distribuendo alle donne. «Lavoriamo su tre fronti. Il primo è il jihad, la guerra contro le forze del regime. Il secondo è la sicurezza delle zone liberate: abbiamo formato una Polizia rivoluzionaria islamica e dei Tribunali islamici. Il terzo sono gli aiuti. Il popolo vive in condizioni di estrema povertà. Assistiamo migliaia di sfollati ad Aleppo che hanno perso la casa sotto le bombe. Stiamo ripulendo le piazze dalle montagne di spazzatura, presto ripareremo la rete elettrica, stiamo riaprendo le scuole e rifornendo gli ospedali di medicine». Resistenza armata, sicurezza e servizi sociali. Così gli islamisti provano a costruire il consenso nelle aree di Aleppo liberate dal regime. Prima però hanno dovuto riportare un po’ di calma in città, cambiando strategia militare. Meno guerriglia urbana e più attacchi mirati a posti di blocco, convogli, basi e aeroporti militari del regime. Così negli ultimi tre mesi sono cadute le principali basi da cui il regime bombardava Aleppo. Basi da cui i combattenti dell’Esercito libero hanno saccheggiato armi e munizioni in gran quantità. Comprese quelle che gli Stati Uniti avevano vietato di inviare all’opposizione siriana. Carri armati, lanciamissili, mortai, antia-

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la guerra di aleppo e la siria che verrà |

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Tra le macerie di Aleppo si è aperto un nuovo fronte: non si combatte con le armi, ma con aiuti e servizi. In palio c’è il consenso per il governo di domani, per la Siria del dopo Assad. La partita è tra il blocco degli islamisti moderati e gli islamisti radicali del Fronte della Vittoria, che hanno riportato ordine in città mettendo fine ai saccheggi dell’Esercito libero

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erea. L’aviazione del regime continua a bombardare la città, Difficile però fare previsioni quando a decidere sono le armi e ma con meno intensità. Da un lato perché gli aerei devono denon il pensiero. L’eco degli spari e delle esplosioni ricorda agli collare da Homs e Hama, visto che il regime non ha più aeroabitanti di Aleppo che la guerra è solo all’inizio. Dal fronte conporti né a Aleppo né a Idlib. Dall’altro perché ormai il grosso tinuano a fare avanti e indietro i furgoncini scassati dei comdei combattimenti si è spostato a Damasco. battenti volontari dell’esercito libero. Sono ragazzi qualunque: Così tra le macerie di Aleppo si è aperto un nuovo fronte. Stavolta Mostafa faceva il commerciante, Yusef il falegname, Ahmed però non si combatte con le armi, ma con aiuti e servizi. In palio l’informatico. Le armi le hanno comprate di tasca propria e alla c’è il consenso per il governo di domani, per la Siria del dopo Asrivoluzione ci credono davvero. Te ne accorgi dalle loro storie. sad. La partita è tra il blocco degli islamisti moderati e gli islamiMolti di loro due anni fa erano a manifestare, quando nella sti radicali del Fronte della Vittoria (Jabhat al Nusra) i quali, dopo primavera del 2011 le piazze siriane si sollevarono, sull’onda aver guadagnato consensi sul fronte, hanno riportato ordine in dei movimenti popolari che avevano portato alla caduta delle città mettendo fine ai saccheggi praticati dall’Esercito libero. dittature in Tunisia ed Egitto. Per sei mesi la protesta rimase Nel vuoto creato dalla guerra, infatti, nelle file dell’esercito linon violenta, nonostante la brutalità della repressione, e nobero di Aleppo si sono infiltrate vere e proprie bande di ladri. nostante le centinaia di morti ogni settimana: nelle manifestaChe pur essendo una sparuta minoranza hanno fatto molto zioni sotto gli spari della polizia o nelle galere sotto i ferri della parlare di sé per le rapine, i sequestri di persona e le estorsioni tortura. Fino a quando, sconfortati dall’immobilismo della sul prezzo della farina comunità internazionaper il pane. Fino a quanle e corteggiati dai pedo nella città sono stati troldollari dei Paesi del aperti i primi due tribuGolfo nemici di Assad, nali: due corti islamiche un gruppo di ufficiali che applicano le leggi disertori diede vita all’Ereligiose della shari’a e sercito libero siriano. che sono sotto il controlEra l’agosto del 2011. lo degli islamisti radicali All’inizio si limitarono del Jabhat Al Nusra. a proteggere le manifeGli americani li accusastazioni dagli attacchi no di essere vicini ad Al delle forze di sicurezza. Qa’ida. L’esercito libero Quindi, sostenuti dal ha aperto loro le porte Qatar, dalla Turchia, come a dei buoni alleati. dall’Arabia Saudita e In Siria gli estremisti del dagli Stati Uniti, scelseNusra sarebbero almeno ro la soluzione militare, 4000. Indossano abiti iniziando ad attaccare tradizionali, non fumale forze del regime nelle no, non bevono alcolici, campagne e in città. non ascoltano musica e I ragazzi dell’esercito sono i migliori in battalibero continuano a creKAHLIL glia per quel culto del martirio che gli fa quasi desideradere che quella fosse l’unica scelta possibile. E l’unica «La Siria deve continuare re la morte. Il 15% sarebbero stranieri, giovani religiosi scelta giusta. Ma non tutti la pensano così in Siria. Soa essere un esempio di accorsi in Siria da tutto il mondo per difendere con le prattutto gli attivisti del movimento pacifista. La guerconvivenza tra religioni armi la comunità musulmana sunnita oppressa. Gli alra li ha tagliati fuori. La voce delle armi copre la voce di per il mondo intero. È la tri sono ragazzi siriani affascinati dal discorso religioso qualsiasi corteo e di qualsiasi sciopero o iniziativa civinostra storia. È la nostra del Nusra e desiderosi di liberare il Paese dal regime. le. Così, spesso dall’esilio, vedono il Paese trascinato in civiltà. E ne siamo fieri» I sentimenti della gente verso il Nusra sono un misto un bagno di sangue dal regime e dai suoi alleati. Ormai di timore e rispetto. Timore perché l’islam radicale e l’idea di i morti sono almeno 70.000, in gran parte civili. E in quel bagno un califfato islamico sono lontani dal comune sentire. Rispetdi sangue vedono avanzare il consenso dei fratelli musulmani to, perché proprio per la loro devozione religiosa, gli uomini e degli islamisti radicali, gli unici ad avere un sostegno da parte del Nusra si stanno rivelando non soltanto i migliori in battadei Paesi del Golfo, che in Siria giocano una partita contro l’Iran. glia, ma anche i più onesti in città nei rapporti con i cittadini. Per gli attivisti siriani del movimento pacifista la rivoluzione Tuttavia, nonostante il potere e il consenso che si è guadaè finita con l’inizio della guerra. Farzand ne è convinto. È un gnato il Nusra ad Aleppo in pochi mesi, gli islamisti moderamedico curdo di Aleppo sulla quarantina, padre di due bamti non sembrano essere preoccupati. Il generale Khalil, capo bini. Un anno fa era sceso in piazza contro il regime. Oggi del consiglio militare curdo dell’esercito libero e membro ha lasciato la Siria per mettere in salvo la famiglia. Parla con del Fronte islamico per la liberazione della Siria, è sicuro le lacrime agli occhi, soppesando ogni parola, come se amche la Siria prenderà un’altra strada. E non soltanto perché mettesse per la prima volta una sconfitta. «Un anno fa avei radicali del Nusra sono una sparuta minoranza dell’esercivamo un sogno. E non era solo la fine del regime. Il nostro to libero. «La società siriana è plurale. Siamo fatti per il 40% sogno era la costruzione della Siria del futuro. Dopo 40 anni da minoranze. Non possiamo fare uno stato islamico. Dove di dittatura e di terrore, il popolo siriano aveva sconfitto la mettiamo i cristiani, gli sciiti, gli alawiti? L’unica soluzione paura, avevamo ritrovato la dignità e ripreso a sognare. La è uno stato democratico con un grande partito islamico poguerra ha ucciso tutto questo. Non voglio che cada il regipolare. Sarà il voto a decidere. Ma la Siria deve continuare a me del Ba’ath se poi arriva un altro regime, magari islamiessere un esempio di convivenza tra religioni per il mondo sta. E non voglio che cada il regime se il prezzo da pagare intero. È la nostra storia. È la nostra civiltà. E ne siamo fieri». è il sangue di decine e decine di migliaia di innocenti».

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Giordania: il cuore pacifico del Medio Oriente

Siria, Iraq, Territori Palestinesi, Israele, Arabia Saudita. A un passo, Libano ed Egitto. Confini ad alta tensione, ma, nonostante tutto, la Giordania è da tempo il cuore mite del Medio Oriente, che ha fatto dell’apertura la ricetta per la pace: ha accolto i profughi palestinesi nel ’48 e ’67 (sono il 40% dell’attuale popolazione), gli iracheni nel ’91 e oggi i siriani, già più di 300.000. La tolleranza religiosa è una realtà e nel centro di Amman le chiese cristiane svettano al fianco delle moschee. Ma lo Stato giordano guarda soprattutto al futuro: la popolazione è giovanissima (il 60% sotto i trent’anni) e con alte percentuali di accesso universitario. La capitale è una metropoli con grandi piani di sviluppo (GAM City Projects, Abdali e l’ampliamento dell’aeroporto) per renderla il principale crocevia tra Oriente e Occidente: progetti destinati a rendere ancora più cosmopolita una città già oggi molto

moderna e viva dal punto di vista culturale. Due anni fa la Giordania è stata uno dei primi Paesi a essere toccati dalla Primavera araba, che qui ha trovato sfogo in un cammino di graduali riforme e aperture, invece che di violenza e rivoluzioni. Il re Abd Allah II ha reagito alle proteste sciogliendo il governo e – a giugno 2012 – anche il parlamento, introducendo una nuova legge elettorale (che però non ha accresciuto il potere parlamentare a scapito del peso dei vincoli tribali fedeli alla corona). Dopo l’aumento del 10% del prezzo del gas e le proteste di piazza che ne sono seguite nel novembre scorso, a gennaio si sono tenute le elezioni (di nuovo precedute da manifestazioni dell’opposizione, il Fronte di Azione Islamica, in grande crescita nel Paese), in cui i cittadini hanno potuto eleggere i propri rappresentanti della camera bassa del Parlamento. Riforme progressive, anche se non ancora

politicamente risolutive, che sono frutto della lungimiranza di un sovrano che sta investendo in vari modi sulla “nuova Giordania” per rispondere con solidità alla crisi economica, che si sta facendo sentire. Lo scopo di re Abd Allah II è rilanciare i principali due settori trainanti per il Paese: il terziario (il piano di sviluppo e modernizzazione di Amman è strategico anche in questo senso) e il turismo. Proprio il settore turistico è il fiore all’occhiello giordano, con un patrimonio ricco e tutelato, anche dal punto di vista dell’estrema sicurezza dei turisti che visitano il Paese. Le potenzialità sono notevoli: dalla stratificazione secolare di Amman (l’antica Philadelphia) alle rosse meraviglie di Petra (patrimonio dell’UNESCO), dai paesaggi senza tempo di Wadi Rum al benessere del Mar Morto. Tanti ulteriori motivi per spingere sul rilancio giordano e custodire la pace nel Paese. (Stefano Milano)

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tweet tweet & & quotes quotes

A cura di Oxygen

«Una nazione che non ha il controllo sulle proprie risorse energetiche non ha il controllo sul proprio futuro» (@BarackObama)

«I social network sono un importante strumento per la politica estera» (@Twiplomacy)

«Le nazioni devono uniformare le loro politiche energetiche e i loro obiettivi ambientali e finanziari» (@OECD)

«L’uguaglianza di genere è più di un semplice obiettivo. È una condizione essenziale per promuovere lo sviluppo sostenibile e la costruzione di un buon governo» (@KofiAnnan)

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«Il mondo è cambiato e anche le politiche energetiche del Pianeta dovranno adeguarsi a questo cambiamento» (@ClimateNews)

«Rendere i governi più giusti è uno sforzo continuo, ma può portare a una crescita globale di cui beneficeremo tutti» (@David_Cameron)

«La ripresa globale è fragile e lenta. I politici non devono pensare di poter abbassare la guardia» (@Lagarde – Christine Lagarde)


«È impossibile creare autorità globali riconosciute perché non esiste una democrazia globale, né nessun senso di comune cittadinanza o fiducia» (@nytdavidbrooks – David Brooks)

«Fino a non molto tempo fa, le imprese guidavano i mercati e i governi guidavano la politica. Oggi politica ed economia convergono» (Hillary Clinton)

«I ragazzi della generazione Y sono più connessi e più determinati a far funzionare il governo di quanto non fossero le generazioni precedenti» (@JeffDSachs – Jeffrey Sachs)

«Governance globale significa portare avanti, senza un’autorità sovrana, rapporti che trascendano i confini nazionali. Governance globale significa fare a livello internazionale quello che i singoli governi fanno a casa propria» (Lawrence Finkelstein – Northern Illinois University)

«Il nostro lavoro per promuovere i diritti umani e aiutare la popolazione mira a un più ampio obiettivo: rafforzare la capacità dei cittadini di partecipare alle decisioni che li riguardano» (Ban Ki-moon)

«La geopolitica è in pieno svolgimento. Le nazioni si stanno disancorando dai rapporti che avevano in precedenza» (@ianbremmer)

Twitter Trending Topics All time: Global governance: 37.429 tweet Governance + energy: 2.673 tweet Governance + EU: 7.406 tweet Governance + Obama: 4.503 tweet

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Ap

approfondimento

Una nuova misura del benessere oltre il PIL articolo di Donato Speroni

Perché i Paesi raggiungano tutti uno stesso livello di progresso, è necessario trovare un’idea comune di sviluppo e quindi obiettivi comuni. Mentre l’ONU stabilisce i traguardi da raggiungere nei prossimi 15 anni, il mondo cerca nuovi indicatori che stabiliscano quale sia il vero benessere di una nazione.

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C’è ormai un accordo generalizzato sul fatto che sia necessario dare alle politiche nazionali e internazionali nuovi obiettivi che vadano al di là della produzione di ricchezza

Entro il 2014 il Pianeta avrà nuovi obiettivi globali, approvati da quasi tutti i Paesi, con l’ambizione di orientare le politiche degli Stati e la governance internazionale. Questo è uno dei principali impegni del segretario dell’ONU Ban Ki-Moon, confermato nella grande assise Rio+20 a giugno 2012. Una scommessa utopistica? Per rispondere è necessario analizzare l’esito dei precedenti obiettivi, i Millennium Development Goals (MDG), approvati dall’assemblea della Nazioni Unite nel 2000 per essere raggiunti entro il 2015. 2015: We can end poverty, proclama l’intestazione del sito dell’ONU dedicato agli Obiettivi del Millennio; e già lo slogan ci fa capire che la meta non è stata raggiunta. Gli obiettivi erano otto, dalla cancellazione della povertà estrema e della fame all’uguaglianza di genere e all’empowerment delle donne, dall’istruzione primaria per tutti i bambini alla lotta contro AIDS, malaria e altre malattie che devastano soprattutto i Paesi più arretrati. Ogni obiettivo era composto da una serie di indicatori, in totale più di 60, la cui costante verifica doveva chiarire se il mondo era sul binario giusto rispetto alle mete prefissate. Per esempio, gli obiettivi di lotta alla povertà estrema e alla fame prevedevano nove indicatori: dalla percentuale di popolazione mondiale che vive con massimo un dollaro al giorno all’incidenza dei bambini sottopeso con meno di cinque anni. Gli Obiettivi del Millennio non sono stati pienamente raggiunti, ma hanno dato un forte impulso alla qualità delle statistiche globali: oggi infatti è più facile controllare lo stato di salute del mondo, anche se la diagnosi che ne deriva non è confortante. Va però detto che il quadro non è del tutto negativo, grazie soprattutto ai formidabili progressi registrati in Asia, mentre l’Africa, soprattutto quella Subsahariana, è rimasta decisamente indietro. Il difetto principale degli MDG era però quello di essere stati calati dall’alto, approvati sull’onda delle speranze per l’inizio del nuovo millennio, ma quasi mai diventati obiettivo consapevole dei governi nazionali. In politica, i numeri che non si trasformano in strumenti di analisi, mobilitazione e consenso finiscono con l’avere poco significato, ed è proprio questo l’errore che Ban Ki-Moon vorrebbe evitare con i nuovi obiettivi per gli anni successivi al 2015. Si vorrebbe che fossero stabiliti attraverso un vasto processo di discussione e condivisione, e al tempo stesso tenendo conto delle mutate sensibilità maturate in questi anni e legate soprattutto al cambiamento del clima. I nuovi obiettivi si chiameranno infatti Sustainable Development Goals (SDG), Obiettivi di sviluppo sostenibile. Trovato il nome e tracciato il percorso, bisogna ammettere che riempire gli SDG di contenuti è tutt’altro che facile. Come dice il nome stesso, i nuovi obiettivi globali daranno più importanza alla sostenibilità e quindi anche all’ambiente. La conferenza di Doha, che si è conclusa a dicembre 2012, ha confermato però le grandi difficoltà a realizzare un accordo tra Paesi su traguardi che possano servire a contenere il cambiamento del clima. Non sarà facile inserire parametri condivisi in materia di emissioni di anidride carbonica o di altri fattori climalteranti. Sia i vecchi MDG sia i nuovi SDG non prendono in considerazione le dinamiche del prodotto interno lordo delle diverse nazioni. I grandi obiettivi dell’ONU sono infatti parte di un processo, che ha preso forza in questi anni, tendente a offrire ai decisori politici nuovi strumenti di valutazione del progresso delle società che sono chiamati a dirigere. La crisi economica ha rafforzato la consapevolezza che la misura del PIL non è più sufficiente, che occorrono parametri in grado di rilevare la distribuzione della ricchezza tra le famiglie, l’effettivo benessere dei cittadini se non addirittura la loro felicità, e di valutare se questo benessere è sostenibile nel tempo o non va a scapito delle nuove generazioni.

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Il lavoro più noto in questo campo è il rapporto messo a punto nel 2009 dalla Commissione Stiglitz voluta dall’allora presidente francese Nicolas Sarkozy e guidata dai premi Nobel Joseph Stiglitz e Amartya Sen e dall’economista francese Jean Paul Fitoussi. Altrettanto importante è il processo avviato dall’OCSE attraverso l’iniziativa Measuring Progress promossa da Enrico Giovannini, l’attuale presidente dell’Istat, quando era chief statistician nell’organizzazione di Parigi. L’ultimo Forum mondiale su questo tema si è svolto a ottobre a Nuova Delhi e ha fotografato una situazione in cui moltissimi Paesi stanno elaborando misure del benessere. Non c’è più solo il mitico Bhutan con il suo indice di Felicità interna lorda: dalla Cina alla Tailandia, dal Canada alla Gran Bretagna si lavora per definire nuovi parametri che possano anche diventare obiettivi di una diversa azione politica. Compresa l’Italia, che nel 2013 presenta i parametri del benessere equo e sostenibile (BES) elaborati da Istat e CNEL. Esiste anche un sito dell’OCSE, wikiprogress.org, che raccoglie tutti i lavori in corso su questa materia; l’OCSE offre anche un indicatore, il Better life index, che mette a confronto, secondo parametri soggettivi, il benessere nei principali Paesi del mondo. L’utente può cambiare il peso attribuito a ciascuna componente, perché ovviamente la qualità della vita dipende da diverse propensioni culturali e individuali: c’è per esempio chi attribuisce più importanza alle relazioni sociali e chi invece privilegia la fiducia nelle istituzioni. All’origine si sperava che i nuovi indicatori del progresso potessero sostituire il PIL. In questi anni di intenso lavoro, soprattutto dopo l’uscita dei risultati della Commissione Stiglitz, ci si è resi conto che il PIL non deve essere cancellato ma affiancato da altri indicatori. È difficile, innanzitutto, costruire un indicatore che abbia un valore di confrontabilità globale paragonabile all’attuale “contabilità nazionale” di cui il PIL fa parte, la cui metodologia è elaborata con standard internazionali condivisi. È ancora più difficile riportare a un unico indice l’insieme di tutti i fattori che contribuiscono al benessere. Il solo modo di giungere a un parametro di benessere universale sarebbe quello di puntare alla misura della felicità, obiettivo comune a tutta l’umanità. Lo fa già la Gallup, chiedendo periodicamente a un campione di cittadini di oltre 160 Paesi: «Su una scala da zero a dieci quanto sei soddisfatto della tua vita?». Secondo l’economista Richard Layard, ispiratore di molti studi sulla felicità alla London School of Economics, solo un indice di questo genere potrebbe avere una forza politica e mediatica tale da sostituirsi al PIL nell’arco di una generazione. Ma i problemi sono molti, perché le risposte soggettive variano da un Paese all’altro (gli asiatici per esempio raramente si attribuiscono un voto superiore a sette, gli anglosassoni usano l’intera scala) e possono essere anche influenzate da fattori contingenti, come la giornata nella quale si risponde, di bel tempo oppure di pioggia. Inoltre alcuni studi negli Stati Uniti hanno dimostrato che quando le domande sul proprio benessere seguono altre domande sulla situazione politica, l’indice di felicità tende ad abbassarsi. Insomma, la percezione soggettiva della felicità non è molto attendibile. In conclusione, c’è ormai un accordo generalizzato sul fatto che sia necessario dare alle politiche nazionali e internazionali nuovi obiettivi che vadano al di là della produzione di ricchezza. Per ora tuttavia è meglio misurare questi obiettivi con un “cruscotto”, una batteria di numerosi indicatori di benessere da tenere sotto controllo, anziché sognare un “nuovo PIL” che scandisca il progresso nel ventunesimo secolo come il Prodotto interno lordo ha segnato quello del ventesimo. Del resto, anche la salute del corpo umano si valuta con centinaia di analisi, senza pretendere di misurarla con un unico super-indice.


FELICITÀ INTERNA LORDA

La felicità umana è molto soggettiva e, per questo, difficile da perseguire in maniera universale. Ma imparare a misurala potrebbe facilitare il compito e, persino, aiutare ad anteporre il suo raggiungimento a quello dell’innalzamento del PIL. Con questo intento il regno buddhista del Bhutan dal 1972 richiama la popolazione a orientare le proprie politiche alla promozione della felicità interna lorda (GNH, Gross National Happiness), per fare crescere le persone insieme al loro Paese. Una commissione apposita misura la GNH attraverso nove dimensioni: benessere psicologico, uso del tempo, vita della comunità, cultura, salute, istruzione, biodiversità, standard di vita, attività di governo. E proprio gli ultimi risultati del Bhutan sono molto significativi: il 52% delle persone ha dichiarato di essere felice, il 45% molto felice e solo il 3% non molto felice. Felicità che le differenze culturali non intaccano: «Qualcuno ci chiede come si comportano questi valori rispetto alle diversità culturali e religiose. Ma stiamo parlando di valori universali, che tutti condividono» ha raccontato il premier Jigmi Y. Thinley, al Festival delle Scienze di Roma.

In politica, i numeri che non si trasformano in strumenti di analisi, mobilitazione e consenso finiscono con l’avere poco significato, ed è proprio questo l’errore che Ban Ki-Moon vorrebbe evitare con i nuovi obiettivi


Ap

approfondimenti

Un Paese emergente alla guida del WTO articolo di Maurizio Molinari

L’Organizzazione mondiale del commercio (WTO) rinnova i vertici e sarà la prima grande istituzione economica internazionale guidata dal rappresentante di un’economia emergente. Questo evento spartiacque è però segnato da una sfida senza esclusione di colpi fra i due Paesi con i candidati più accreditati: Indonesia e Brasile.

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Il direttore uscente della WTO, il francese Pascal Lamy, terminerà il mandato a fine anno ed entro agosto i 157 Paesi membri dovranno aver raggiunto l’intesa sul nome del successore. Poiché il Fondo monetario internazionale è guidato dalla francese Christine Lagarde e la Banca Mondiale dall’americano Jim Yong Kim, le economie emergenti rivendicano il posto con una determinazione evidenziata da ben nove candidati formalmente in campo. L’Indonesia è stata la prima a muoversi, puntando su Mari Pangestu, ministro del turismo e dell’economia creativa, convinta sostenitrice della necessità di far cadere le barriere commerciali fra le nazioni emergenti al fine di rafforzarne il ruolo di motore del Pianeta. La candidatura di Pangestu è solida perché l’Indonesia è una delle nazioni emergenti dimostratesi più floride negli ultimi 18 mesi, rappresenta la più popolosa democrazia musulmana del Pianeta e può contare su due alleati di prima grandezza: gli Stati Uniti, che la considerano un alleato strategico, e la Cina, a cui Pangestu è legata appartenendo alla minoranza etnica cinese, considerata da Pechino come una sorta di emanazione della propria influenza in Estremo Oriente. Se a ciò aggiungiamo che il presidente degli Stati Uniti Barack Obama è personalmente legato all’Indonesia, avendo vissuto a Jackarta da ragazzo, e Pangestu rappresenta la promozione del libero commercio nell’area del Pacifico cara anche a Giappone, India e Corea del Sud, non è difficile immaginare perché si tratti della candidata in pole position. Ma poiché stiamo assistendo alla prima vera sfida fra i nuovi leader dell’economia globale, la partita è per definizione aperta. Da qui l’attenzione per il maggiore rivale di Pangestu, ovvero Roberto Carvalho de Azevedo, rappresentante permanente del Brasile alla WTO, la cui forza sta non solo nei numeri della maggiore economica

latinoamericana, bensì nel fatto di poter contare sul sostegno della Russia di Vladimir Putin. Il recente viaggio a Brasilia di Dmitri Medvedev, premier di Mosca, è servito per cementare un inedito asse: il Cremlino ha recapitato alla presidente Dilma Roussef non solo i missili antiaerei per proteggere le prossime Olimpiadi e l’interesse a gareggiare con Pechino nelle commesse sulle materie prime, bensì anche il sostegno alla candidatura alla guida della WTO, dove la Federazione russa è da poco entrata a pieno titolo, intenzionata a dimostrare di voler prendere assai sul serio la propria adesione. Se è vero che un’asiatica ha già diretto la WTO prima di Lamy – la tailandese Supachai Panitchpakdi dal 2002 al 2005 – in questo caso ci troviamo davanti allo scenario di una sfida interna ai BRICS – Brasile, Russia, India, Cina e Sudafrica – sulla guida della WTO, con Pechino non contraria a Pangestu e Mosca schierata nettamente a favore di Carvalho de Azevedo. Tanto basta a trasformare la gara per la guida della WTO in un barometro dei nuovi equilibri planetari. Ma c’è dell’altro, perché, almeno sulla carta, nel parterre dei candidati vi sono altri sette sfidanti. L’Africa mette in campo Alan John Kwadwo Kyerematen, ex ministro del commercio del Ghana di Kofi Annan, e Amona Mohammed, vicesegretario generale dell’ONU nata in Kenya, mentre fra i latinoamericani il Messico gioca la carta di Herminio Blanco, ex ministro di commercio e industria, e il Costa Rica dell’omologa Anabel González. Gli altri candidati dell’Asia sono invece il ministro del commercio della Corea del Sud, Taeho Bark, e il collega della Nuova Zelanda, Tim Groser. Si tratta di una gara nella quale avere un candidato significa poter recitare un ruolo ad hoc nei nuovi equilibri economici del Pianeta. Il Messico, ad esempio, veste i panni di unificatore dei latinoamericani, dicendosi pronto

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«L’economia globale – come spiega il premio Nobel Robert Mundell – è un equilibrio di blocchi» e dunque il più forte è chi riesce a unificarne il numero maggiore

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a sostenere il candidato brasiliano pur di recitare il ruolo di kingplayer così come Seul, che già conta il Segretario generale dell’ONU Ban Ki-moon, sa di non poter prevalere ma ha un obiettivo di diverso tipo: far presente di essere in grado di mettere in campo candidati di valore per ogni carica internazionale di primaria grandezza. Come ammette Keith Rockwell, portavoce della WTO, «non vi sono mai stati così tanti candidati per la guida della nostra organizzazione» e se Pangestu, 57 anni, veste i panni di favorita è perché somma l’esperienza economica maturata in più stagioni: durante l’apertura al commercio dell’Indonesia negli anni Ottanta, nella difficile fase del superamento delle crisi finanziarie degli anni Novanta e al debutto negli equilibri globali a seguito della crisi finanziaria che ha colpito gli Stati Uniti nel 2008, portando all’affermazione del G20 come il forum più importante sui temi dell’economia mondiale, a dispetto del G8. La decisione formale sulla successione di Lamy sarà adottata al summit di Bali, in dicembre, ma l’accordo dovrà essere raggiunto in estate e la decisione di USA e Unione Europa di lanciare a febbraio i negoziati per la “Transatlantic Partnership” su commercio e investimenti appare destinata a ritagliare al blocco euroatlantico un ruolo di spinta in favore dell’agenda del nuovo direttore, ovvero l’accelerazione verso la liberalizzazione del commercio. Il nodo da sciogliere viene dallo stallo dei negoziati iniziati a Doha nel 2001 e falliti in Brasile nel 2008. I veti incrociati che impediscono di sbloccare la trattativa, soprattutto su terreni come l’agricoltura, spiegano perché gli Stati Uniti abbiano scelto di prendere l’iniziativa: offrendo prima ai partner del Pacifico e poi a quelli dell’Atlantico una “partnership” sul libero commercio, il presidente Obama si propone di creare di fatto un sistema alternativo alla WTO, obbligando le economie emergenti a reagire per non rimanere isolate. Se nella cornice del negoziato di Doha i Paesi della WTP non riescono ad accordarsi, Obama sta creando dal basso un network di accordi sul libero commercio che tende nella stessa direzione. «L’economia globale d’altra parte – come spiega il premio Nobel Robert Mundell, docente alla Columbia University – è un equilibrio di blocchi» e dunque il più forte è chi riesce a unificarne il numero maggiore. Le posizioni di Pangestu a favore della liberalizzazione degli scambi fra economie emergenti sembrano andare

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incontro alla visione di Obama, sostenuta dai leader di Unione Europea e Giappone, mentre il Brasile fino a questo momento ha fatto maggiore attenzione a difendere i mercati di quei Paesi che vogliono prima rafforzarsi e, solo poi, iniziare ad abbattere le tariffe. Non a caso è stato proprio il Brasile, in seno al FMI, il Paese più aggressivo del BRICS – assieme all’India – nei confronti dell’Eurozona, in occasione della crisi finanziaria del 2011-2012. Fra gli analisti che seguono le trattative multilaterali sulla sostituzione di Lamy – passate anche attraverso lavori del Forum di Davos – la curiosità si indirizza in particolare verso la possibile intesa fra Washington e Pechino sulla candidata indonesiana perché, se dovesse davvero realizzarsi, consentirebbe di individuare una convergenza fra le due grandi potenze economiche protagoniste di duri scontri su tariffe e concorrenza proprio in senso alla WTO. A Pechino si è insediato in autunno il nuovo presidente Xi Jingping e c’è chi scommette che possa individuare proprio nella WTO il terreno sul quale costruire un nuovo rapporto con l’America di Obama, anche per bilanciare le tensioni che si originano dalle reciproche polemiche sulle intrusioni di hacker. Ma è una situazione che resta assai fluida per il semplice motivo che le fibrillazioni commerciali fra Washington e Pechino sono tali e tante da poter innescare brusche accelerazioni in qualsiasi momento. Come ad esempio è avvenuto a febbraio quando gli Stati Uniti hanno deciso di restringere l’esportazione di gas liquido LNG verso la Cina popolare. L’altra incognita riguarda il gigante di New Delhi, protagonista nelle ultime settimane di uno scontro con gli Stati Uniti in seno alla WTO sullo sviluppo dei pannelli solari e finora rimasta alla finestra nella sfida per la successione di Pascal Lamy.

La decisione formale sulla successione di Lamy sarà adottata al summit di Bali in dicembre, ma l’accordo dovrà essere raggiunto in estate


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opinioni

Occupy... What? articolo di Tom Kington

Gli Indignados in Spagna, i movimenti di Occupy negli Stati Uniti e in Gran Bretagna e il gruppo Yo Soy 132 in Messico. Le migliaia di persone accampate a Madrid, Londra e a Wall Street nel 2011 – quando il sistema finanziario internazionale sembrava prossimo al crollo – sono state solo una breve, rumorosa protesta portata avanti da studenti che twittavano sui loro iPhone? O sono state qualcosa di più profondo, che ha lasciato un segno sul governo democratico?

Nell’ottobre del 2011 l’Italia ha dato un piccolo contributo alla storia del movimento degli Indignados quando i manifestanti hanno piantato una trentina di tende davanti alla basilica di Santa Croce in Gerusalemme, a Roma, e sistemato sotto gli occhi incuriositi dei passanti un enorme striscione con un drago. Il drago era una spiritosa allusione a Mario Draghi, e una rappresentazione della lotta con un sistema bancario accusato di aver messo in ginocchio l’economia globale. Ma i campeggiatori erano meno convinti su dove dovessero stare. Alcuni sedevano in cerchio sui ciottoli e discutevano delle basi della sua nuova esistenza, da chi si sarebbe incaricato di cucinare a dove gettare l’immondizia. Quando mi sono avvicinato per intervistarli sui motivi della protesta mi hanno risposto che nessuno avrebbe parlato coi giornalisti. «Parleremo con una sola voce», mi avvisò uno. «Non ci saranno né leader né portavoce. Torni domani, quando avremo pronto il nostro manifesto, e potrà leggerlo allora».

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Capire esattamente per cosa si battano gli Indignados in Spagna, i movimenti di Occupy negli Stati Uniti e in Gran Bretagna e il gruppo Yo Soy 132 in Messico, e se abbiano qualcosa in comune, ha rappresentato fin da subito un problema; stabilire come abbiano influenzato la politica tradizionale è anche più difficile. Le migliaia di persone accampate a Madrid, Londra e a Wall Street nel 2011 – quando il sistema finanziario internazionale sembrava prossimo al crollo – sono state solo una breve, rumorosa protesta portata avanti da studenti che twittavano sui loro iPhone? O sono state qualcosa di più profondo, che ha lasciato un segno sul governo democratico? L’ondata di proteste era nata in Spagna, dove la bolla immobiliare era esplosa in modo più spettacolare che nel resto d’Europa, e quando la disoccupazione giovanile aveva raggiunto il 42% – un record, per il Vecchio Continente – in migliaia si erano riversati a manifestare nelle strade di 58 città. Era il 15 maggio 2011.


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oxygen | 19 — 04.2013

La rivolta di Occupy ha posto l’ineguaglianza economica al centro del discorso e del dibattito politico americano, come gli intellettuali di sinistra e i sindacati organizzati non erano mai riusciti a fare

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Protestando contro i politici e la loro gestione dell’economia, contro il ruolo delle banche nella creazione della bolla immobiliare, difendendo la spesa sociale contro i tagli previsti, otto milioni di spagnoli parteciparono a mesi di proteste e a scontri regolari con la polizia: nella sola giornata del 15 giugno, quando la polizia sparò proiettili di plastica a Barcellona, ben tre milioni di persone parteciparono a manifestazioni organizzate in tutto il Paese. Accampati nelle piazze, i manifestanti avevano formato dei comitati per nutrirsi, capire come usare Internet per comunicare con il mondo e ricevere assistenza legale in caso di arresto. Il 24 luglio migliaia di persone provenienti da tutto il Paese arrivarono a Madrid per manifestare sotto lo striscione “Non è una crisi, è il sistema”. «Due anni dopo la protesta si è spenta, ma il movimento è ancora vivo», dice Rossend Domènech, il corrispondente dall’Italia di “El Periódico”. «Ha costretto il governo ad approvare una legislazione che blocca gli sfratti per mancato pagamento del mutuo. Ha anche fatto pressione sulle banche affinché non buttassero gli inquilini fuori di casa, o gli restituissero l’abitazione così che riuscissero a pagare il mutuo, o trovassero una sistemazione in uno delle migliaia di alloggi vuoti oggi in Spagna». Nel contempo però il profilo nazionale del movimento si è sbiadito: «Non ci sono più accampamenti nelle piazze e il movimento è diventato amorfo, diviso in vari gruppi a livello locale». E questo, dice Domènech, è un magro risultato per un movimento che ha fatto scendere in strada milioni di persone: «Così tanta gente, eppure ha prodotto un effetto piuttosto limitato, e questo perché non è emerso un leader, precisamente perché hanno detto di non volerne uno. Neppure coloro che erano considerati i mentori del movimento hanno proposto delle idee per realizzare gli obiettivi». Il risultato è che il movimento non è mai penetrato nella politica nazionale, «in parte perché i socialisti non se ne sono avvantaggiati, temendo di essere respinti – o dominati – dal movimento». Anche a Londra le tende piazzate il 15 ottobre 2011 fuori dalla cattedrale di St. Paul sono ormai un ricordo, ma non c’è dubbio che i manifestanti avessero toccato un nervo scoperto negli elettori di un po’ tutti gli schieramenti politici. Cavalcando l’onda del malcontento per il salvataggio delle banche – colpite dalla crisi dei mutui subprime – voluto dal governo britannico, Occupy London ha richiesto una maggiore trasparenza nella City e minor elusione fiscale da parte delle grandi corporation, oltre a una difesa delle sanità e della spesa sociale. Nel gennaio del 2012 il primo ministro britannico David Cameron si è detto a favore di una riduzione degli stipendi degli alti dirigenti, un segno della sua attenzione per una protesta che stava facendo breccia tra i conservatori. Fatto insolito, a ottobre il direttore della Banca d’Inghilterra, Andy Haldane, ha ammesso che i

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manifestanti avevano ragione a dire che il settore finanziario andava radicalmente riformato e che l’ineguaglianza aveva contribuito a scatenare la crisi finanziaria. «Il movimento era caratterizzato da grandi discussioni che facevano sfigurare i seminari universitari», dice Rodney Barker, Emeritus Professor of Government della London School of Economics di Londra. «Ricordava i teach-in degli anni Sessanta e mescolava il dibattito tradizionale con le nuove tecnologie di comunicazione». Barker sostiene che Occupy London ha «spostato il centro di gravità» della discussione sul capitalismo nel Regno Unito, introducendo un elemento morale. Non è un caso che i manifestanti abbiano scelto di sistemarsi davanti alla chiesa più famosa di Londra. «Hanno detto che la creazione del profitto non è un fine in sé, che le politiche pubbliche hanno una dimensione morale, e questo ha fatto suonare un campanello nelle testa dei conservatori vecchio stile». Secondo Barker, la recente indignazione in Gran Bretagna per i sistemi di elusione fiscale usati da Starbucks e Amazon ne è una conseguenza: «Quando le corporation dicono di non aver infranto la legge, la risposta è “Non è questo il

punto”. A queste aziende è stato detto che non possono usufruire dei benefit pubblici senza dare il loro contributo, e questo è un argomento dei conservatori, rivolto di solito contro chi è accusato di rubare le prestazioni sociali offerte dallo stato». Occupy London ha seguito l’esempio di Occupy Wall Street, che aveva preso possesso di Zuccotti Park il 17 settembre 2011. Usando lo slogan “Siamo il 99%” per sottolineare il divario di reddito tra il ricchissimo 1% americano e il resto del Paese, il movimento ha promesso di sfidare le banche e le società americane di servizi finanziari che secondo loro controllavano la Casa Bianca. Sono state sviluppate nuove forme di dibattito democratico, incluso un sistema detto stacking per stabilire l’ordine degli oratori nei gruppi di discussione, che non avevano un leader. Non avendo il permesso di usare megafoni, i manifestanti si sono inventati un sistema chiamato “microfono umano”, in cui i membri del pubblico

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ripetevano, all’unisono, le frasi dell’oratore. I social media hanno avuto un ruolo cruciale, così come sarebbe successo l’anno dopo in Messico, dove il movimento studentesco Yo Soy 132, nato su YouTube, ha sfidato il potere e le presunte discriminazioni delle reti televisive messicane. Ma, come in Spagna, anche il movimento americano ha scoperto che se l’assenza di un leader e di una piattaforma di proposte permetteva alle idee di fluire più liberamente, non c’era però nessuno a promuovere quelle idee presso un pubblico più ampio. «La rivolta di Occupy ha posto l’ineguaglianza economica al centro del discorso e del dibattito politico americano, come gli intellettuali di sinistra e i sindacati organizzati non erano mai riusciti a fare – malgrado ci provassero da decenni», dice Michael Kazin, professore della Georgetown University. «È stato uno degli elementi che hanno convinto Obama ad adottare nel 2012 un messaggio economico più populista. Ma non si è mai davvero consolidato in un movimento». Inoltre molti degli attivisti sono passati a interessarsi di campagne locali, contro gli sfratti e i bassi salari o aiutando le vittime dell’uragano Sandy a ottenere i risarcimenti, spiega Kazin. «Ma come nel caso di precedenti rivolte sinistrorse in America, Occupy avrà anche contribuito a un cambio di mentalità, ma si è dimostrata incapace, perlomeno finora, di costruire un movimento duraturo». E non era una conclusione inevitabile, dice Kazin citando il movimento contro la guerra del Vietnam, il femminismo e il Black Power, anch’essi privi di un’organizzazione centrale. A differenza di Occupy Wall Street «riuscirono a formulare delle strategie che trascendevano i sit-in e le manifestazioni nate da quei sit-in. E soprattutto riuscirono a offrire delle soluzioni ragionevolmente chiare ai problemi per cui protestavano». In Italia, un protagonista del movimento, Gianfranco Mascia, ha detto che secondo lui lo slancio di Occupy-Indignados non durerà a lungo, aggiungendo però che non è questo il punto: «L’importante è la rete che si crea: è questo che conta». Nel 2011, quando sono tornato alla basilica di Santa Croce in Gerusalemme il giorno dopo la mia prima visita, ho conosciuto Giulia, una studentessa di architettura di Venezia: prendere parte alla protesta, mi ha detto, ha fatto crescere in lei la voglia di salvare la sua fragile città. «Sono curiosa di saperne di più sugli eventi organizzati a Venezia e che sono simili a questo. Quest’esperienza è stata qualcosa che potrebbe servirmi davvero nella vita». Poi mi sono messo alla ricerca del manifesto che mi era stato promesso, nella speranza di capire per cosa volevano lottare. Sotto una pioggia battente, pochi si erano avventurati fuori dalle tende, ma alla fine ho scovato un pezzo di cartone affisso a un palo, con il manifesto scritto a pennarello. Solo che dopo ore di pioggia l’inchiostro era tutto sbavato, rendendo il testo pressoché illeggibile.


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Quando le corporation dicono di non aver infranto la legge, la risposta è «Non è questo il punto»

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LiquidFeedback, democrazia liquida articolo di Marco Ciurcina

«Secondo molti l’innovazione delle tecnologie della comunicazione che si sta realizzando in questi decenni abiliterà un reale cambiamento nelle forme di partecipazione democratica. Da alcuni anni diversi Partiti Pirata utilizzano LiquidFeedback: una piattaforma software che permette di deliberare e votare online». Ecco cos’è e come funziona.

«È nata così la “democrazia rappresentativa”, che dopo alcune geniali modifiche fa sì che tu deleghi un partito che sceglie una coalizione che sceglie un candidato che tu non sai chi è, e che tu deleghi a rappresentarti per cinque anni, e che se lo incontri ti dice giustamente: “Lei non sa chi sono io!”». Nel 1996 Giorgio Gaber in La Democrazia sintetizzava così i limiti della democrazia rappresentativa. Sta di fatto che i tanti tentativi di correggere i difetti della democrazia rappresentativa, magari richiamandosi ai valori della “vera democrazia” (che, per contrapposizione alla “rappresentativa”, si è soliti chiamare “diretta”) fino ad oggi non hanno prodotto frutti duraturi. Secondo molti l’innovazione delle tecnologie della comunicazione che si sta realizzando in questi decenni abiliterà un reale cambiamento nelle forme di partecipazione democratica e nel funzionamento delle istituzioni democratiche. Se è così, forse, l’esperienza dei Partiti Pirata offre indizi sul possibile aggiornamento del modello della “democrazia rappresentativa”. Da alcuni anni, diversi Partiti Pirata utilizzano LiquidFeedback: una piattaforma software che permette di deliberare e votare online. LF è stato sviluppato in risposta a esigenze emerse nel Partito Pirata Tedesco e si è rapidamente diffuso. Oggi è utilizzato dal Partito Pirata di Germania, Austria, Italia, Svizzera e Brasile, ma anche da altre organizzazioni politiche (e non solo). In Italia, per esempio, è stato utilizzato localmente da alcune liste civiche del Movimento 5 Stelle e in occasione delle ele-

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zioni regionali in Sicilia (per la stesura del programma del candidato presidente Giancarlo Cancelleri); anche Umberto Ambrosoli, candidato presidente della regione Lombardia, ha utilizzato LiquidFeedback per raccogliere proposte al suo programma. In Germania i rappresentanti eletti del Partito Pirata usano LiquidFeedback anche per raccogliere suggerimenti e indicazioni dagli elettori di cui tengono conto nelle loro manifestazioni di voto. LF è software libero: è licenziato secondo i termini della licenza MIT e quindi chiunque lo scarichi può liberamente utilizzarlo, modificarlo e distribuirlo, anche in versione modificata, avendo accesso al codice sorgente del programma. Questa qualità del software LiquidFeedback, che lo rende intrinsecamente coerente con i valori che incarna, ha certamente costituito un motivo del suo successo. Così come ha indubbiamente determinato il successo di LiquidFeedback il fatto che sia stato utilizzato dal Partito Pirata Tedesco per costruire collettivamente il programma elettorale in occasione delle elezioni di Berlino nel settembre 2011. Ma certamente il successo di LiquidFeedback sta anche nelle sue caratteristiche funzionali che sono interessanti sotto diversi aspetti. Innanzitutto, questo software abilita un processo deliberativo senza intermediari: chiunque può formulare proposte nuove e alternative o suggerimenti alle proposte avanzate da altri. Poi, LF abilita delle modalità di delega molto raffinate. L’utente può delegare il proprio di-

ritto di voto a diversi livelli: può attribuire a un altro utente una delega generale, oppure per una specifica area tematica, o anche per una proposta mirata. I diversi livelli di delega possono anche coesistere ma, in ogni caso, il delegante conserva la facoltà di modificare o revocare in qualsiasi momento la delega conferita o di votare direttamente. Infine, i voti espressi sono calcolati secondo il “metodo Schulze”: un sistema che tiene conto dell’ordine di preferenza espresso dai votanti. Ovviamente l’adozione di LiquidFeedback presuppone una scelta di fondo: la trasparenza e la tracciabilità del processo deliberativo (proposte, suggerimenti e voti espressi dagli utenti); questa caratteristica non può essere eliminata senza danneggiare l’affidabilità del sistema. Se la scarsa attenzione alla privacy degli utenti non può essere considerato un vero difetto di LiquidFeedback, lo stesso non si può dire, per esempio, del fatto che la sua interfaccia d’uso sia decisamente “grezza” e poco adatta alla rappresentazione evoluta dei dati processati dal sistema. Merita d’essere seguita l’esperienza d’uso di LF da parte del Partito Pirata Italiano, l’unico che, ad oggi, abbia modificato il proprio statuto istituzionalizzando l’uso di LiquidFeedback: l’istanza di LF utilizzata dal Partito Pirata Italiano costituisce quindi la sua “assemblea permanente” nella quale tutti i soci possono partecipare al processo deliberativo (formulare proposte e suggerimenti e votare) attuando il principio “uno vale uno”.


L’innovazione delle tecnologie della comunicazione che si sta realizzando in questi decenni abiliterà un reale cambiamento nelle forme di partecipazione democratica

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Il nuovo ’68 è nella rete articolo di Jacopo Tondelli

«La rete è luogo di passioni furoreggianti, di grandi battaglie, di identità personale dentro a gruppi, di naturali, fisiologiche avanguardie, di nevrosi e di tante solitudini», ma soprattutto, negli ultimi anni, di fervore politico. Referendum, elezioni regionali e politiche: il rapporto tra internet ed espressione democratica in Italia.

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In principio, nell’America del 2008, fu Barack Obama. Alla fine, nell’Italia del 2013, toccò a Beppe Grillo. È in questo quinquennio, e in questi esiti così distanti, che sta descritta la definitiva archiviazione del Novecento mediatico. Un’onda si è alzata negli Stati Uniti, nel paese della Sylicon Valley e di una mela morsicata che ha cambiato gusti e gesti di una nuova intellighenzia planetaria, e da Obama in poi niente sarebbe stato più lo stesso: il media che forma e diffonde l’opinione decisiva per vincere le elezioni non è più la televisione, mentre dei giornali di carta già in quel 2008 si parlava spessissimo perché ne chiudevano tanti, e gli altri rischiavano. L’onda, la forza, la retorica e la moda della Rete come grande player politico ci mette cinque anni per varcare compiutamente l’oceano e prendere le sembianze, decisamente meno anglosassoni e invece marcatamente latine, di Beppe Grillo. L’unico, del resto, che viveva di Rete quando la “discesa in campo” era ancora una lunga serie di ipotesi, mentre gli utenti di Internet, in Italia, erano la metà di quelli di oggi. L’ultimo esito elettorale mostra plasticamente la fine di un ciclo di vita repubblicana, ma rende anche evidente che si può prendere il 25% dei voti avendo come unico media “amico” la rete, dove certo Beppe Grillo e i suoi giocano in casa. Ma questo succede anche per responsabilità di quanti, in questi anni, hanno creduto contassero di più 15 prestigiossisime righe d’inchiostro piuttosto che ventimila bacheche di Facebook. E insomma, in internet Grillo si è messo come un plotone d’assalto in campo aperto, e i risultati si vedono. In una rete che per definizione non ha padroni, e amplia le risorse all’infinito, Grillo si muove forte della (legittima) posizione dominante che ha costruito in questi anni, senza incontrare vere resistenze culturali. E però, per capire come si arriva a quest’oggi, e come il mito fondativo della campagna elettorale di Obama si traduca in italiano con “Cinque Stelle”, è necessario ripercorrere qualche tappa intermedia, alcuni momenti decisivi, caduti giusto a metà di questo quinquennio che ha cambiato il mondo e definitivamente il nostro modo di farci un’idea delle cose. Pensiamo alle elezioni amministrative del 2011, a quel voto che a Milano segna la sconfitta del centrodestra e la vittoria di Giuliano Pisapia: niente di simile era mai successo da quel 1994 che battezza col voto la Seconda Repubblica. E la partecipazione politica che passa per la rete, in quell’occasione, conta eccome. Alla Moratti che in televisione rinfaccia a Pisapia un’automobile mai rubata, rispondono le onde di sarcasmo virale dei supporter del sindaco e il tormentone secondo il quale era «tutta colpa di Pisapia». Al presidio classico degli uffici stampa che conta-

Comprare click e likes su Facebook non serve a nulla, perché fare politica vuol dire anche prendere i voti, opinioni sinceramente favorevoli, idee e azioni apprezzate

no su relazioni, occupazione degli spazi, e qualche malfermo rapporto storico ormai arrivato a fine impero, risponde un uso sicuro (anche quella volta, senza avversari) delle meccaniche della rete, della sua capacità di beatificare, consolidare o devastare una reputazione. Quando la partita è impari, di solito, chi è ignaro della rete e già se ne sente sconfitto viene malamente consigliato di comprare qualche centinaio di migliaio di fan e follower; e anche in quell’occasione, naturalmente, tutto ciò accadde. Dimenticando un dato essenziale, costitutivo della rete: e cioè che a nessuno può essere tolto il diritto di esprimersi secondo i propri convincimenti (comunque formatisi) al pari del più noto, blasonato e autorevole opinionista. E quindi, comprare click e likes su Facebook non serve a nulla – se non a chi questi servizi li vende – perché fare politica vuol dire anche prendere i voti, opinioni sinceramente favorevoli, idee e azioni apprezzate, e non millantare di avere tutto questo, forti di qualche trucchetto da seconda elementare. La riprova, del resto, arriva di lì a poco. Dopo le regionali in cui lo scricchiolio di un’era risuona forte, quasi sembrando già un crollo, un mese dopo, arrivano i referendum. Acqua e servizi pubblici, energia nucleare, legittimo impedimento. Temi fatti apposta per un’opinione pubblica fortemente motivata idealmente, o ideologicamente, e senza dubbio rafforzati nella “popolarità” dalla catastrofe di Fukushima appena successa; ma, dopo diciotto anni in cui la parola “referendum” faceva ormai rima con fiasco, credere al quorum sembrava davvero difficile. A rafforzare lo scetticismo, oltre alla storia recente, stava anche la percezione – netta e corroborata da dati – di una sottoesposizione da record dei referendum sui media tradizionali. Poco spazio in termini generali, poco spazio a dibattiti seri sui temi riguardati, qualche baruffa tra politici buona per tutti i contesti e poco altro. In tv e sui giornali andava così, in rete no. Comitati attivissimi, da mesi, battevano il sentiero dei contenuti, degli argomenti e delle loro propagande. Gli stessi comitati si condensavano attorno alla catastrofe nucleare in Giappone, ovviamente cavalcandola, ma forti di un tam tam e di una serie di network già attivi e corroborati. Il fatto che in quei giorni di paura, sui referendum e tutto quanto rappresentano, si getti ad alzare la temperatura Beppe Grillo conta tanto, ma certo non può sorprendere. E dunque rieccoci a noi, al presente in cui quella grande piattaforma che incrocia media e persone chiamata Rete contribuisce in modo fondamentale a decidere gli equilibri politici e del governo dello stato, cambia la nostra vita, le abitudini, le attitudini, i consumi, eppure non ci fa sentire lo Stato né più vicino né davvero più efficiente. Così colpisce vedere che il radicarsi di internet non ha aiutato a contenere la spesa pubblica, né a rendere migliore la fama degli uffici dello Stato. E del resto, per come si manifesta e per le leadership che riconosce, la Rete politica italiana inizia ad avere una fisionomia consolidata: dentro alla quale ai

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pochi soggetti forti si contrappongono schiere ampie di sprovveduti. Ed essa è luogo di passioni furoreggianti, di grandi battaglie di identità personale dentro a gruppi (o a branchi), di vere avanguardie e di avamposti di nevrosi, e di tante solitudini: che cercano compagnia in una comunità più o meno politica, di simili che si riconoscono attraverso Internet e tutti i suoi filtri. Una comunità che si cerca naturalmente off line, attorno magari a simboli da focolare del terzo millennio – il “meet up” grillesco –, e che dentro la rete affina – ma soprattutto si fa dettare – la linea. Apprende in Rete le parole d’ordine, guarda le piazze piene se non le può raggiungere, legge e scrive, si lamenta e propone: in ogni caso dice la sua.

Che strada prenderà il rapporto tra Internet ed espressione democratica, in Italia, dipende naturalmente da tanti fattori, e in fondo sempre anche dall’agire di ciascun attore rilevante: sia esso conosciuto e importante per gli altri media, sia esso parte a qualsiasi livello della “catena alimentare” dell’informazione veicolata dalla Rete. Certo è che – come spesso capita da noi – ci accorgiamo che un tema esiste, che un problema stava montando, quando è troppo grosso per essere ignorato e gestito. Fa impressione ricordare, a ventuno anni di distanza dalla sua pubblicazione, il testamento politico di Fabrizio De Andrè, che il blog di Beppe Grillo riconosce spesso tra i suoi punti di riferimento intellettuali. Il cantautore genovese ritagliava nella Domenica delle Salme l’agonia di un Repubblica, allora mani e piedi piantata nel suo infinito Novecento, in bilico sulle tv, assente ai propri fallimenti, sfacciata in ogni ingordigia. E gli italiani? E l’Italia? Per tutta risposta, «da Palermo ad Aosta si gonfiava in un coro di vibrante protesta». Sullo sfumare di queste ultime parole, Fabrizio De Andrè lasciava esplodere un assordante cicaleccio. Son passati vent’anni, sono cambiati i mezzi di comunicazione ma non le storture di mentalità e struttura. Il cicaleccio si è fatto grande, annoda rabbia e proposta nello stesso intreccio e ormai ci avvolge. Come una rete.

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L’ultimo esito elettorale in Italia mostra plasticamente la fine di un ciclo di vita repubblicana, ma rende anche evidente che si può prendere il 25% dei voti avendo come unico media “amico” la rete



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approfondimento

i giornalisti servono ancora articolo di Antonio Preziosi

Il giornalista oggi svolge la sua professione in un contesto globalizzato, raggiungendo velocemente chiunque in qualunque Paese. Ancora più delicato è quindi il ruolo di chi deve offrire – sempre più in fretta come impone la rete – chiarezza, trasparenza, credibilità, completezza. Perché genera consapevolezze e scelte in un mondo i cui equilibri sono in continuo assestamento. 092


L’informazione e il suo governo: non è certo impresa facile trovare il giusto equilibrio tra l’esigenza di regole condivise e la corretta salvaguardia di un diritto costituzionalmente garantito. Recenti studi di law and economics hanno disarticolato la problematica dell’informazione, dividendo tra l’“informare” – manifestazione della libertà di espressione prevista dall’art. 21 della Costituzione – e l’“informarsi”, cioè il diritto del cittadino all’informazione necessaria per compiere liberamente le proprie scelte (e, quindi, alla base di tutte le libertà tutelate dalla nostra Carta). Se, dunque, alla prima attività corrisponde la governance della professione giornalistica, alla seconda si riferisce tutto il complesso di regole volte a garantire, da un lato, che il cittadino riceva notizie complete e, dall’altro, che la circolazione delle informazioni non sia viziata da comportamenti poco trasparenti o corretti. Assicurare tutto questo è, in estrema sintesi, compito del giornalista che deve muoversi tra le notizie con grande senso di responsabilità e spirito di servizio, nel pieno esercizio di quella che potremmo definire la “funzione sociale” del giornalista. L’operatore dell’informazione svolge la propria professione in un contesto globale e globalizzato: una notizia – grazie a internet – può facilmente compiere il giro del mondo in pochi secondi ed essere raccontata in tutte le lingue conosciute. Questo, da una parte, spinge il giornalista a “fare in fretta”, in una comprensibile e anche necessaria logica di competizione; dall’altra, deve indurlo ad attente verifiche, perché potrebbe incorrere nella diffusione di una notizia falsa o parziale. Internet ha certamente trasformato l’informazione giornalistica e continua a farlo. Ma la velocità della stessa e la moltiplicazione delle fonti di informazione non deve far dimenticare una regola assolutamente inderogabile. È la più antica e tradizionale e risale all’epoca precedente al web: la verifica delle fonti. Si tratta di un semplice eppure essenziale metodo di lavoro per chi vuole garantire i diritti di cui parlavamo. Serve a evitare una grande insidia: quella di confondere il vero con il verosimile, perché cadere nella verosimiglianza significa generare disinformazione. È questo il reale pericolo di una professione che non venga svolta nel pieno rispetto delle regole e della deontologia. Pertanto essere “massicciamente” informati non significa necessariamente essere meglio informati: selezionare notizie dal flusso indistinto dei fatti è il compito del giornalista che diventa così mediatore.

L’informazione funge da lente d’ingrandimento dell’attualità, genera consapevolezza. Il racconto di una crisi globale come quella che sta investendo il mondo occidentale deve prendere le distanze da tutto ciò che può mettere a repentaglio la buona informazione

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Non c’è dunque bisogno di regolamentare nel minimo particolare una materia così delicata, anche perché si tratta – come già detto – di un diritto contenuto nella nostra Costituzione e, in quanto tale, “prevalente”. Una regolamentazione sovranazionale, invece, semplicemente non esiste. Non ci sono norme che disciplinano il giornalismo globale. Del resto, a colmare questa vacatio basta la considerazione che se si svolge la professione del giornalista nel rispetto dell’etica professionale, non saranno necessarie molte altre regole: informazione chiara, corretta, trasparente e completa. In questi aggettivi si ritrova l’essenza stessa dell’essere giornalista. Il rispetto di tali “obblighi” professionali appare infatti fondamentale per assicurare la corretta circolazione delle informazioni. Eventuali oneri di trasparenza – oltre a porre condizioni di parità concorrenziale tra gli operatori – assicurano la possibilità di verificare le notizie che autonomamente circolano tra il pubblico. La correttezza genera affidabilità e ciò dà autorevolezza a chi informa, che diventa un media di riferimento per l’opinione pubblica. È il concetto centrale della credibilità che – in tempo di rivoluzione digitale – si traduce anche nel concetto della web reputation. Nel mondo dell’informazione – anche sul web – la credibilità si conquista ogni giorno e si accredita nel tempo solo con servizi, approfondimenti, inchieste attendibili, che diano uno spaccato della realtà approfondito e onesto. E questa credibilità non si deve dare mai come acquisita per sempre. Ma si confronta giorno per giorno con l’attenzione, l’affidamento e la critica di ogni singolo cittadino. Ingredienti di questa credibilità sono proprio la correttezza, la trasparenza e la completezza dell’informazione. La chiarezza, inoltre, permette la divulgazione delle notizie che devono arrivare a più persone possibili. A essa si aggiunge poi un altro requisito, quello della tempestività della diffusione: solo tempi minimi di “lavorazione” potranno consentire alla professione giornalistica di essere al passo con i tempi senza mai andare – ricordiamolo sempre – a detrimento della certezza della notizia e della verifica delle fonti. Una modernità, quella richiesta ai media, che spesso li mette a dura prova. Notizie e mezzi di informazione si inseriscono ormai in un mercato internazionale. Questo impone una riflessione sul ruolo del giornalista divenuto l’occhio vigile sulla governance globale e non più soltanto il cane da guardia del potere nazionale. In assenza di un “ordine sovrano mondiale”, particolare rilievo assumono gli incontri tra i capi di Stato e di Governo dei Paesi investiti dalla crescita economica, dalla rivoluzione finanziaria (e dalla sua crisi). Ciò sia nella forma di vertici bilaterali, sia nella veste di consessi multilaterali, formali o informali. Tutti avvenimenti che delineano “in divenire” la comunità internazionale. Un diritto vivente che non dà regole e riferimenti sempre certi. Raccontare

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questi momenti è una sfida per il giornalista che deve essere costantemente aggiornato e formato: per informare, lo ripetiamo, bisogna informarsi. Si tratta di un passaggio fondamentale per garantire il diritto/tutela all’articolo 21 della Costituzione italiana. In questo senso la recente crisi economica ci ha insegnato molto. Ha “obbligato” tutti gli operatori dell’informazione a studiare, a capire in prima persona cosa stesse accadendo nel mondo, per poi spiegarlo ai fruitori dell’informazione. I media hanno formato e informato i cittadini, spiegando loro i nuovi termini diventati di uso comune (spread, mutui subprime, default…) e aggiornandoli sull’andamento della crisi e sugli effetti che essa ha creato nella vita di tutti i giorni, senza generare allarmismi né però ignorare i possibili scenari, seppure negativi. L’informazione funge da lente di ingrandimento dell’attualità, genera consapevolezza. E la consapevolezza determina le scelte dei cittadini. Il racconto di una crisi globale come quella che sta investendo il mondo occidentale, ad esempio, deve prendere le distanze da tutto ciò che può mettere a repentaglio la buona informazione: l’analisi superficiale, la notizia ripresa e non verificata, la scelta di omettere o enfatizzare alcuni indicatori economico-finanziari. Tutto questo non aiuta a far ritrovare nell’opinione pubblica le risorse e gli strumenti per uscire dallo stato di crisi. Naturalmente chi fa informazione non è mai un semplice osservatore. Non tratta la notizia asetticamente, chirurgicamente, bensì sceglie, valuta, interviene. Ma lo può fare responsabilmente solo se conosce. In fondo è la sostanza stessa del mestiere del giornalista: cercatore di verità che sfronda da tutti gli elementi, che raccoglie tutto ciò che non serve, ciò che è superfluo, ciò che distrae dall’obiettivo finale. Il giornalista deve cercare l’obiettività. È un metodo, una tensione, una predisposizione mentale che lo ispira mentre scrive un pezzo, mentre dà una notizia. Certo al giornalista non si chiede di non avere opinione, ma di separarla dai fatti, di non contrabbandare l’opinione per un fatto, di avere sempre trasparenza rispetto al pubblico dei destinatari della sua attività di informazione. Questo sì è un imperativo categorico per il giornalista. Da qui si evince la delicatezza della materia e il forte senso di responsabilità che deve esserci in tutti coloro che lavorano in questo contesto. E da qui discende l’importanza della formazione. Più si moltiplicano e più si specializzano i mezzi di comunicazione, più cresce la necessità di essere capaci di comunicare. Per questo si è passati dal mestiere imparato “sulla strada”, alla professione, alla formazione sempre più scolarizzata e specialistica, fatta di regola di un serio percorso universitario e post universitario. Comunicare è un obbligo se non si vuole restare fuori gioco, e imparare le regole (tecniche e deontologiche) prima di metterle in pratica, appare una strada obbligata per ogni aspirante giornalista.


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Science fiction, l’utopia diventa distopia articolo di Simone Arcagni

Nella science fiction l’ottimismo pare non essere contemplato. Nelle trame di serie e documentari web il mondo sprofonda per l’assenza di petrolio, le tecnologie prendono il sopravvento o hanno effetti degenerativi sulla società. Perché i nostri timori non creano più utopie ma distopie.

Perché l’utopia tende sempre a trasformarsi in distopia? Se da una parte la scienza, e persino i governi, fanno a gara per proporre un futuro utopico in cui le tecnologie saranno in grado di provvedere in maniera sempre più semplice ed efficace ai nostri bisogni (si pensi all’idea di smart city), dall’altra la nostra società e la nostra cultura non riescono a mostrarsi particolarmente felici, e nei racconti l’utopia si trasforma spesso nel suo esatto contrario, una distopia. Leggendo i romanzi o le visioni dei futurologi o guardando i nuovi prodotti di sci-fi (science fiction) basati su analisi di tecnologie al momento in fase prototipale, gli scenari appaiono apocalittici. In Electric City – la serie web prodotta da Tom Hanks per Yahoo! – si immagina un mondo senza petrolio trasformato in un grande paese di provincia e controllato dalle agenzie di elettricità; in H+ – serie web prodotta da Bryan Singer per la Warner Bros. – un virus nei microchip di connessione sottocutanea fa sprofondare il mondo in una nuovo Medioevo... forse perché vale la massima, posta all’inizio del primo episodio di Electric City, «L’umanità intralcia la perfezione». E infatti, nel futuro ipotizzato dalla serie in animazione Electric City, una città, che a un primo sguardo sembra ideale, addirittura paradisiaca, con molto verde e basata su fonti di energia rinnovabili, poco alla volta svela un aspetto ben poco rassicurante. Anche la sonnacchiosa “società dell’uncinetto”, un circolo di vecchiette apparentemen-

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te dedite solamente a fare la maglia, controlla invece la città con metodi diciamo “poco ortodossi”. E così tra sorveglianza della comunicazione e dell’informazione e killer ingaggiati per tenere sotto controllo ogni cosa, la green city paradisiaca mostra un aspetto orwelliano. In questa direzione si muove anche l’altra sci-fi, anche in questo caso nata per la rete, H+. È una serie web dai grandi investimenti che mostra un futuro in cui la tecnologia offre un avveniristico impianto sottocutaneo per la connessione. Non siamo lontani dalle teorizzazioni del web 3.0, dell’internet delle cose e del wearable computing (si pensi agli occhiali Google Glasses che la famosa compagnia di Mountain View sta sviluppando)... eppure qualcosa va storto, e come nelle distopie dei primordi della società digitale (pensiamo a Blade Runner, Tron, Terminator, ecc.), una tecnologia nata per realizzare un mondo migliore si trasforma in un male apocalittico. E sempre per rimanere nell’ambito delle serie, anche se in questo caso non per il web, va citato anche il caso di Black Mirror, serie televisiva britannica, ideata e prodotta da Charlie Brooker per Endemol e trasmessa in prima visione su Channel 4. La peculiarità di Black Mirror sta nel fatto che si tratta di tre episodi, ognuno slegato dall’altro e della durata di 60 minuti (un mini-film). Lo “specchio nero” è lo schermo di un televisore, un computer, un tablet o uno smarthphone: i tre film, infatti, tematizzano alcuni effetti degenerativi della tecnologia sugli esseri umani e sulla società.

Electric City × In Electric City – la serie web prodotta da Tom Hanks per Yahoo! – si immagina un mondo senza petrolio trasformato in un grande paese di provincia e controllato dalle agenzie di elettricità


Leggendo i romanzi o le visioni dei futurologi o guardando i nuovi prodotti di sci-fi (science fiction) basati su analisi di tecnologie al momento in fase prototipale, gli scenari appaiono apocalittici Apocalissi ben più tecnologiche di quelle dei Maya, e che mettono in evidenza una sostanziale sfiducia, non tanto nella scienza, quanto proprio nell’uomo, tra complotti internazionali, guerre di potere e di religione e l’evidente incapacità di gestire le risorse del pianeta, come nell’originale web documentario crossmediale Collapsus che mostra il pianeta dopo il blackout dovuto alla fine delle risorse energetiche. Collapsus è un’opera interattiva che mescola finzione, animazione e documentario. Il punto sembra essere l’enorme potere che le tecnologie mettono a disposizione e, di contro, la dimostrata incapacità umana di gestire al meglio le enormi potenzialità che la tecnologia sviluppa. Ecco: ciò che colpisce di queste serie distopiche è la vicinanza con noi, con le nostre paure così attuali, così quotidiane, come la crisi energetica, il sovrapotere della rete, la possibilità di essere controllati in maniera capillare. È una fantascienza così umana, così vicina, un po’ come già era Blade Runner. Emblematico è il caso di un’altra serie web apocalittica, Cybergeddon, di Antony Zuiker (produttore esecutivo di CSI), che parla di attacchi terroristici tecnologici a opera di cybercriminali e hacker, e che è sponsorizzata da Norton Symatec, leader mondiale in sistemi antivirus, come dire: ecco le tue paure realizzarsi! Ecco qui cosa ti può succedere anche domani... ovviamente, a meno che tu non abbia l’antivirus!

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Sc

scenari

guerre e paci articolo di Marco Valsania

«Il mondo del 2030 sarà radicalmente trasformato rispetto a oggi. Entro il 2030 nessun Paese, né gli Stati Uniti, né la Cina, né nessun’altra grande nazione, sarà un potere egemonico». Quali sfide e quali pericoli si pongono per un mondo frammentato? Quale ruolo avranno in futuro le attuali superpotenze? Crisi delle risorse, nuovi Paesi emergenti, Pianeta in crescita, urbanizzazione: un quadro degli scenari e dei protagonisti possibili.

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New York. Un mondo sempre più multipolare, che eredita vecchie ferite e fa i conti con nuove sfide. Che ha bisogno di maggior cooperazione e leadership per fare “scoppiare” la pace. Oppure rischia di dover convivere con la conflagrazione di una miriade di conflitti e i rischi di un loro contagio. La sfera di cristallo che solleva il sipario sul palcoscenico internazionale del prossimo futuro offre poche certezze – sempre meno quanto più lo sguardo si volge lontano, tra quindici o vent’anni. Al traguardo del 2030 le regioni e le radici dei conflitti – o di potenziali soluzioni all’ombra della diplomazia e della pace – appaiono inestricabilmente legate tra loro. In parte eredità del passato e del presente, pensiamo al Medio Oriente, con la continua impasse della crisi israelo-palestinese e la primavera araba, come alla contesa attorno a risorse essenziali quali l’acqua. E in altrettanta parte il risultato di tendenze ancora in evoluzione o di nuove incognite che si preparano a giocare un ruolo decisivo, dalle rivoluzioni tecnologiche alle crisi economiche, dall’effetto ser-

ra alla crescita demografica fino all’affermazione della potenza cinese ben oltre l’economia, in politica estera e militare. Le sfide che questo mondo frammentato porrà sono particolarmente rilevanti per la potenza che – se non più il superpower assoluto e senza rivali dell’indomani della Guerra Fredda – rimarrà, a detta di tutti gli analisti, il Paese di riferimento più che un primo tra eguali. Gli Stati Uniti, con la loro vocazione e raggio d’azione globali, rimarranno al cuore del ripensamento e dell’efficacia di alleanze e istituzioni multilaterali quali la Nato e le Nazioni Unite. Con l’avvio a conclusione, almeno ufficiale, di aperti conflitti e missioni belliche che hanno segnato l’epoca recente per Washington – quelli in Iraq e Afghanistan – l’attenzione prenderà inoltre a spostarsi con convinzione sulle più vaste regioni dell’Asia e del Medio Oriente quali potenziali focolai di crisi o laboratori di soluzioni. La preoccupazione per i prossimi decenni, così, è oggi parte integrante del dibattito per nulla solo

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guerre e paci

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Le sfide che questo mondo frammentato porrà sono particolarmente rilevanti per la potenza che rimarrà, a detta di tutti gli analisti, il Paese di riferimento più che un primo tra eguali: gli Stati Uniti

ARMI ALLE NAZIONI EMERGENTI Lo scorso anno le vendite di armi alle nazioni emergenti sono state le più alte registrate dal 2004 (28 miliardi di dollari totali, il 60% delle vendite globali).

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accademico dell’élite statunitense. Un dibattito iniziato dentro l’apparato di intelligence drasticamente riorganizzato negli anni successivi alla guerra al terrorismo, pur tra difficoltà e passi falsi, in un’articolata struttura che deve dar prova di essere capace di maggiore raccolta, condivisione ed elaborazione di informazioni in risposta a fallimenti che tuttora scottano. Uno dei prodotti di questa trasformazione, sul piano teorico, è una vasta quanto poco citata analisi del National Intelligence Council dedicata interamente a delineare i mondi alternativi di domani, Alternative Worlds. Tenuto a battesimo nel 1996-1997, non è un dispaccio tipico dei servizi segreti, anche se ideato sotto gli auspici del Direttorato nazionale che coordina il network americano dell’intelligence. Piuttosto è un documento di vera e propria policy, il distillato di un dibattito aperto anche all’esterno, che coinvolge esperti civili di diversa estrazione. L’ultima versione, la quinta appena resa nota, esamina proprio il traguardo del 2030. E fin dalle prime battute mette in chiaro l’orizzonte entro il quale la dinamica dei conflitti e della pace si svilupperà: «Il mondo del 2030 sarà radicalmente trasformato rispetto a oggi. Entro il 2030 nessun Paese, né gli Stati Uniti, né la Cina, né nessun altro grande Paese, sarà un potere egemonico».

Le due nozioni chiave utilizzate per concettualizzare le dinamiche sono i megatrend, vale a dire le grandi tendenze che appaiono di sicuro impatto, e i game-changers, vale a dire eventi critici e non necessariamente prevedibili che possono condizionare in modo drammatico la realtà che si manifesterà. Un capitolo a sé lo richiedono le disruptive technologies, le nuove tecnologie “dirompenti”. L’intreccio tra regioni e tematiche, la cui soluzione può generare stabilità ma la cui degenerazione minaccia di essere motore di crisi locali con pericolo di contagi più ampi, è identificabile a partire dai suoi elementi. Tre appaiono i grandi trend che acquisteranno indubbia “spinta”, cominciando con l’affermarsi del multipolarismo. Oltre alla Cina, Paesi quali l’India e il Brasile, e anche protagonisti regionali quali Colombia, Indonesia, Nigeria, Sudafrica e Turchia, avranno ruoli accre-

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sciuti nell’economia globale. In generale vedrà accelerazioni un fenomeno di diffusione del potere, grazie alla riduzione della povertà, alla maggior istruzione e alla miglior assistenza sanitaria che genereranno un’espansione dei ceti medi globali, capace di rivelarsi un movimento tettonico alla base di questi nuovi equilibri. La svolta demografica a venire è altrettanto certa: la popolazione da 7,1 miliardi arriverà forse a 8,3 miliardi, con un invecchiamento nei Paesi sviluppati e un aumento demografico nelle regioni in via di sviluppo, accompagnati da crescenti migrazioni, compresa la marcia inarrestabile dell’urbanizzazione che porterà il 60% della popolazione mondiale a vivere in megalopoli. La domanda di risorse, come generi alimentari, acqua ed energia si moltiplicherà infine seguendo simili trend demografici. Gli aumenti saranno rispettivamente del 35, 40 e 50%. Il cambiamento climatico esacerberà i rischi di scarsità, in particolare in regioni quali Medio Oriente, Nordafrica e Asia centrale. Uno studio della Nasa nota già un intensificarsi di crisi negli ultimi sei anni dell’accesso all’acqua per milioni di persone in Medio Oriente. I game-changer rappresentano incognite a tutti gli effetti; tra essi ci sono i Black Swan, i cigni neri, che hanno un elevato potenziale nel causare improvvise scosse. L’economia globale, in primo luogo, è soggetta a crisi e a gravi squilibri tra le diverse aeree, una situazione evidenziata dall’emergenza finanziaria del 2008 che ha messo in ginocchio l’economia mondiale. Un quadro che può diventare terreno fertile per l’esplosione di tensioni, oppure per opportunità di maggiori controlli. Qui un ruolo cruciale lo svolgeranno le istituzioni per la governance mondiale, se si ispireranno al comportamento delle maggiori potenze, capaci di tessere un clima di cooperazione con i Paesi emergenti. Due regioni che sollevano spettri di particolare instabilità e contagio per la sicurezza globale resteranno il Medio Oriente e l’Asia Sudorientale. Storicamente, gli ultimi due decenni hanno visto un declino dei conflitti armati e una riduzione delle vittime. Le guerre aperte tra grandi potenze restano improbabili, per i grandi rischi che comporterebbero. I conflitti regionali e locali, però, potrebbero continuare a presentarsi e tornare ad aggravarsi. Per il Medio Oriente molto dipenderà dall’Iran: una repubblica islamica dedita ad arsenali atomici manterrà elevata l’instabilità, una transizione moderata e democratica nella regione e la fine del conflitto israelo-palestinese, possibile entro il 2030 con la nascita di uno stato palestinese, farebbero avanzare sviluppo e pace. Tensioni con minoranze – entiche, generazionali o politiche – e carenze di risorse naturali potran-

Tensioni con minoranze e carenze di risorse naturali potranno facilmente degenerare in aree come l’Africa Subsahariana e il Sud-Est asiatico, con rischi anche di coinvolgimento di Cina e India


guerre e paci

INDIA E ARABIA SAUDITA Sono i “migliori acquirenti” di armi (rispettivamente per 2,8 e 2,7 miliardi di dollari, secondo i dati di The Economist). I migliori fornitori sono USA e Russia, che insieme producono i due terzi delle armi esportate nelle nazioni emergenti.

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no inoltre facilmente degenerare in aree quali l’Africa Subsahariana e il Sudest asiatico, con rischi anche di coinvolgimento di Cina e India. Paesi quali Pakistan e Afghanistan faranno i conti con shock derivati da bassa crescita, rincari dei generi di prima necessità e carenze di energia. L’avvento di nuove tecnologie potrà da parte sua offrire nuove capacità offensive e di destabilizzazione, da cui nascono fin d’ora nuove agende di cyber-sicurezza. Gli stessi Stati Uniti, stando a quanto propongono Peter Singer e Thomas Wright del think tank Brookings Institution, devono mettere nero su bianco un nuovo protocollo per il ricorso a simili arsenali hi-tech se vogliono evitare rischi di proliferazione incontrollata. Le rivoluzioni tecnologiche contengono però anche la promessa di migliorare la produttività e di meglio gestire le trasformazioni internazionali e il coordinamento dei protagonisti. In gioco, in un simile clima di innovazione, potrebbero entrare con crescente influenza protagonisti non statali. I “cigni neri” hanno a loro volta nomi. In qualche caso possono avere conseguenze incoraggianti: da una rapida democratizzazione della Cina a un Iran riformato. Più spesso minacciano tuttavia ripercussioni da temere: pandemie a catastrofi naturali, conflitti nucleari e intensificazione dell’effetto serra. Di recente al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite sono stati discussi i legami tra cambiamento climatico e sicurezza globale: l’ipotesi, ad esempio, che ci sia nel 2033 un’India più popolosa della Cina ma senza monsoni e precipitazioni atmosferiche, vittima di una siccità che semini letali carestie e gravi conflitti. Due sono i grandi scenari estremi d’insieme, nelle casistiche compilate dal National Intelligence Council, che derivano dalla combinazione dei trend e delle incognite. Da un lato un mondo, chiamato Stalled Engines, a motori fermi, segnato da una rete paralizzante e distruttiva di conflitti interstatali. In questo futuro le potenze leader, quali gli Stati Uniti, si ritirano progressivamente dal palcoscenico globale infliggendo serie battute d’arresto all’intero processo di globalizzazione. E una spirale fuori controllo di diseguaglianze economiche aggrava tensioni sociali, politiche e militari, senza più avere davanti un “poliziotto mondiale” come è stata in passato l’America. Nel migliore dei destini possibili, invece, emerge uno scenario denominato Fusion, fusione: la spinta alla cooperazione viene guidata da un nuovo e proficuo asse che si consolida nel corso degli anni tra gli Stati Uniti e la Cina. E una simile strada pacifica si afferma anche tra gli altri attori del cambiamento internazionale. Tra questi due mondi estremi, la realtà dovrà scegliere. Ma, come avverte lo stesso rapporto dell’intelligence statunitense sul 2030, il futuro sarà probabilmente più complesso e articolato. «Probabilmente – ammonisce Alternative Worlds – consisterà di elementi prelevati da tutti gli scenari». Che, finora, non possono che restare immaginari e approssimativi.

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la scienza dal giocattolaio

Non RisiKo! Scelgo la pace articolo di Davide Coero Borga fotografie di White

Una plancia su cui da anni si posano i carrarmati colorati di RisiKo! o sofisticati videogiochi moderni? Con strumenti che si sono evoluti nel tempo, i wargame da sempre hanno uno scopo comune: «Ricostruire eventi storici o immaginari per esplorare gli effetti di un’azione senza ricorrere alla realtà».

Conquistare territori. Presidiarli con le proprie armate. Annientare gli eserciti di colore nemico. Perseguire obiettivi segreti e complessi in una guerra planetaria. Occupare 42 territori in sei diversi continenti. Non è la trama di uno spy movie: è RisiKo! Con il punto esclamativo. Non per entusiasmo, ma per amor di precisione. Perché è così che si chiama la versione italiana di Risk, il gioco di strategia da tavolo più famoso al mondo. Arcinoto come i soldatini o la battaglia navale, ma più ambizioso, articolato, stupefacente. RisiKo!: il giocattolo che richiede al giocatore un’infarinata delle fondamentali strategie, tattiche e tecniche di guerra. Perché è vero che non esiste una tattica buona per tutte le stagioni e, come nella vita, bisogna scendere a patti con la realtà, anche quando differisce dall’obiettivo finale. Ma un bravo comandante deve avere un piano definito in testa (e un piano B, all’occorrenza), puntare dritto all’obiettivo solo quando è sicuro di farcela, attendere pazientemente che i tempi siano maturi, mentire spudoratamente, dissimulare i propri obiettivi, confondere gli avversari, evitare o abbandonare un attacco iniziato per limitare le perdite di mezzi e territori, stabilire alleanze con i giocatori in campo per assecondare tattiche e strategie. Si parla in questi casi di attacchi coordinati, resistenze passive, taciti scambi di territorio. La matematica ci aiuta a esaminare le situazioni di conflitto e cercare soluzioni competitive e cooperative. La teoria dei giochi definisce la guerra come un gioco a somma

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costante, dal momento che prevede per ogni vincita di un giocatore la perdita per un altro (la teoria dei giochi è un tentativo di matematizzare il comportamento umano in quelle situazioni che comportano lo spartirsi di un qualche tipo di risorsa. Pertanto è una scienza che non riguarda esclusivamente la guerra ma anche l’economia, il mercato, e la vita in generale). I wargame o i giochi strategici di guerra come RisiKo! servono a ricostruire eventi storici o immaginari per esplorare gli effetti di un’azione senza ricorrere alla realtà. Sono realtà virtuali, allenamenti a tavolino. E se l’infanzia dei cosiddetti “nativi digitali” non è molto diversa da quella di noi giurassici bambini novecenteschi, bisogna ammettere che gli strumenti in più ci sono. I videogame sono uno strumento, sì, perché la tecnologia è come un arnese (il telefono cellulare in tedesco si chiama Handy, come a dire che è un prolungamento della mano) e in questo senso: un gioco. La console può essere un potente strumento didattico. Certo vien da chiedersi cosa resti dell’ingegnoso RisiKo! nei moderni giochi sparatutto! Ma non bisogna perdersi d’animo. I bambini e i ragazzi non smettono mai di stupirci! Nel gioco Skyrim – l’ultimo della saga The Elder Scrolls – i giocatori possono uccidere draghi, saccheggiare tombe, combattere qualunque creatura fantastica. C’è però chi ha deciso di abbracciare una prospettiva più francescana:

Daniel Mullins, diciannove anni, ha creato un personaggio mezzo gatto e mezzo uomo, Felix il monaco pacifista, che ricorre alla magia per placare i lupi e rabbonire i nemici. Senza ammazzare una mosca. Un tipo che fa sul serio (lascia in pace, si fa per dire, anche scheletri e non morti). C’è poi chi ha raggiunto l’ultimo livello di World of Warcraft senza lasciarsi andare ad ammazzamenti creativi, con cui è più semplice (e forse banale) accumulare punti. Ha preferito raccogliere erbe, fare legna, cucinare, trovare minerali, esplorare i territori del gioco. Attività soporifere e monotone per la quasi totalità dei giocatori e che hanno richiesto energia e tempo considerevoli: cinque mesi in tutto. Pazzia? O visione collaterale del divertimento video-giocato? Uccidere è la via semplice nella piattaforma virtuale. I ragazzi che come Daniel hanno bisogno di una sfida, regalano una possibilità alla pace. Stephen Totilo, del blog Kotaku, ha dichiarato al “Wall Street Journal”: «Il gioco è un laboratorio sperimentale dove si possono abbracciare comportamenti estremi, edificanti o condannabili, e stare a guardare che succede». Può finire così che alcuni ritrovino nel pacifismo la via che rende intrigante l’avventura. E lo schema “perdente” nell’ottica del programmatore, diventa una sfida strategicamente più interessante per il giocatore. Che noia i videogame sparatutto! Gli amanti del Risiko! preferiscono i peacekeeper.


La teoria dei giochi definisce la guerra come un gioco a somma costante, dal momento che prevede per ogni vincita di un giocatore la perdita per un altro

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“Tempi Moderni”, la nuova collana di Codice Edizioni. Da marzo in libreria.

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Non vedo altro modo di uscire dalle attuali condizioni se non quello di una lungimirante, onesta e coraggiosa politica. Albert Einstein

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FranÇois Bourguignon

Un’analisi degli effetti sociali della globalizzazione, lucida e lontana dai luoghi comuni.


19 04.2012 Science for everyone Co cover

GOVERNANCE, PLURAL FUTURE The economic and financial crisis and the revolution in the contemporary social model have imposed the advent of a new era that is seeing the advance of “unexpected” players, who are more and more influential in the global geopolitical balance. As the power of national governments and supranational organizations seems to weaken, new players are emerging to lead the “soft power” of relations and international developments: they are corporations, non-governmental organizations, and social media that give voice to millions of citizens. Here are the new political, economic, and social factors that will be able to impose their vision on the planet.

Ed editorial

Looking for a new world government by Vittorio Emanuele Parsi

Faced with the prospects of change evoked in this issue of Oxygen, the real question we should be trying to answer is not “Who will rule the world,” but if someone will actually be able to do so. The idea that the international system nevertheless remains subject to governance, even though it is articulated by the presence of more and more actors, and that there is simply not a situation of anarchy (understood to be the mere absence of a government, as the old realist theory of international relations has always sustained), perhaps conceals an excess of confidence in the role that rationality or simply coherence plays in human events. It is precisely the qualitative plurality of the nature of the actors that makes it extremely difficult to hypothesize the continuity of consistent forms of governance of

the international system. In the past, when the States were almost exclusive actors in the international arena, it was the difference between them in terms of capacity (expressed in power and determined by military, economic, and cultural relations) that sanctioned the de facto government of the world. This was the logic of the concert of great powers, whose last pale heir is represented by the international summits of the G8 and its multiples. In recent years, in fact, in the international system the principle “the one who has the most” has more say in their government – and above all, is more likely to have his/her voice heard – has been applied in unusual, and perhaps even questionable, forms but has never really been abandoned. Especially during the Cold War years,

the non-military dimensions of power gained increasing importance without ever coming to replace the former or render them irrelevant. Almost a quarter of a century since the end of the Cold War, having set aside the illusion of an apparent absolute victory, due to a lack of challengers, the same values embodied by Western liberalism summarized in the “democracy and the market” dyad have regained their “competitive” or “ideological” dimension, or that is to say, represent both a proposal for a social organization and a tool through which to also change reality and not the exhaustive container of reality. Subjects of a different nature, which embody or are inspired by different ideals but which nonetheless continually interact with respect to one another. What

makes the situation and the prospect of governance so complicated today, more complicated than in the past, is not so much the new qualitative articulation of the actors (States, multinational corporations, international institutions, the media, NGOs, criminal and terrorist groups, individuals…) or the fact that the interests represented have increased and have significantly diversified. The biggest problem, the one that is truly the most intricate, consists of the non-convergence toward a shared framework, a set of values that is able to attract a general consensus on the part of such different actors, and therefore able to “prioritize” the interests on the basis of priorities minimally accepted by all or most (and strongest). By now we have left the phase when it was believed that “liberal values”

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could represent this platform. Their triumph, the absence of alternatives sufficiently robust and at the same time able to intercept adhesion in different areas and in different regions of the world, had allowed for its de-ideologization, or the transformation from “partisan banners” into signs under which to rally humanity as a whole. For those who challenged it, this shift took the form of the “dictatorship of the single thought,” a totalizing if not totalitarian conformism. Like it or not, this was the condition that allowed – after ’89 – to formulate the hypothesis of global governance, which was actually nothing more than the extension, with minor adaptations, of the rules and principles of the intra-Western mode of op-

eration to the entire global system. The current conditions are quite different. This is also due to the limits shown by the economic crisis that began to attack the system in 2007 and the outbreak of tensions between democracy and the market that it has exacerbated – demonstrating how the practice has increasingly moved away from its true liberal model – and the particular, and not universal, nature and organization of Western political and economic relations have become evident once again. Not only. Precisely the attack on the paradigm of equality – understood as being a rejection of privilege – implicit in some of the proposed solutions to exit from the crisis, leads one to believe that, with the end of the transient

era of the “post-Cold War,” the clash between ideological visions is once again to have full citizenship already in the West. And even more important is to consider that, while this contrast between the two souls of the Western world is positively equipping a new era of pluralism of ideas and policy proposals, elsewhere visions and experiences are being reinforced that are completely alternative if not explicitly hostile by those whom we had deluded ourselves into thinking would have monopolized the international system at the same time with the crisis and the fall of the Soviet Union. To represent this set of problems in relation to the renewed proliferation of platforms of values and interests, that, as always, are

A future of extreme pluralism, in which the certainties of the past will be of little help, if not downright detrimental 110

looking for their own pathway to a universal dimension (think of the concept of “harmony” as opposed to the “trade-off”) does not mean to imagine a bleak future in which the competition among ideals will necessarily become a clash between the actors who embody them or in which they identify themselves. And it would make even less sense to envisage scenarios of real military conflict, especially now that the growing ineffectiveness of the ordering capacity of force is plain for all to see. What matters, instead, is to stress – and it is crucial to be equipped for – a future characterized by extreme pluralism, in which the certainties of the past, even the recent past, will be of little help, if not downright detrimental.


english version

Pr preview

antifragile: a new trend to save modernity “By understanding the mechanisms of antifragility, we can build a systematic and broad guide to non-predictive decision-making under uncertainty in different fields: economics, politics, medicine, and l ife in general – anywhere the unknown preponderates, any situation in which there is randomness, unpredictability, opacity, or incomplete understanding of things.” by Nassim Nicholas Taleb

According to my definition, modernity is the large-scale dominance of the human environment, the systematic smoothing of the roughness of the world, and the suppression of volatility and stress factors. Modernity is the systematic eradication of human beings from their ecology burdened by physical, social, and even epistemological, chance. Modernity is not just the post-medieval, post-agricultural, and post-feudal historical period, as defined in sociology texts. Rather, it is the spirit of an age marked by rationalization (naive rationalism), the idea that society is understandable and, therefore, must be modeled by men. Statistical theory was also created at the same time as this idea, and thus, the horrible bell curve. And linear science. And the concept of “efficiency” or “optimization.” Modernity is a Procrustean bed, be it good or bad, a reduction of human beings to what is efficient and useful. In some respects, it works: Procrustean standards are not always negative reductions. Some may even be beneficial, albeit rarely. Think about the life of a lion in the comfort and predictability of the Bronx Zoo (Sunday visitors who flock to watch him with a mixture of curiosity, fear, and pity) and then compare it to the life of his cousins in the wild. We, too, at some point in history have had

free-ranging men, women, and children, before the advent of the golden era of super-busy moms and super-busy children. We are entering a phase of modernity marked by lobbyists, by extremely limited corporate responsibility, by those with Master’s degrees in business administration, by the problems of gullibility, by secularization (or better yet, the invention of new sacred values, such as flags, which have come to replace altars), by tax-collectors, by the terror of our boss, of spending weekends in interesting places and the working week in other places considered much less interesting, by the separation between “work” and “pleasure” (although to a person from a wiser era, the two may seem the same), by pension plans, by polemic intellectuals who would disagree with this definition of modernity, by thought without imagination, by inductive inferences, by the philosophy of science, by the invention of the social sciences, by smooth surfaces and egocentric architects. Violence is transferred from individuals to states, as is financial insubordination. At the center of all this, is the negation of antifragility. It relies on stories, on an intellectualization of actions and risky enterprises. Public companies and their directors, even the employees of large companies, can only do what seems to be part of a narrative, as opposed to businesses that can simply follow their profits, whether or not they are supported by a good story. Remember that when you construct a story, you need to give a name to the color blue, but that this does not happen when you act: the thinker who does not have a word for blue is disadvantaged; not so those who act (I made a huge effort to make intellectuals understand the intellectual superiority of practice). Modernity has widened the difference between what is sensational and what is relevant: in a natural environment, the sensational is, well, sensa-

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Violence is transferred from individuals to states, as is financial insubordination. At the center of all this, is the negation of antifragility

tional for a reason; today, we depend on the press for what concerns essentially human things like gossip and anecdotes, and we are interested in the private lives of people living in remote corners of the Earth. In fact, in the past, when we were not fully aware of antifragility, selforganization, and self-healing, we were able to observe these properties in the belief that they helped in managing uncertainty and surviving it. We have made improvements on the work of God (or gods). Maybe we denied that things could have taken care of themselves without outside intervention, but it was the gods who acted, not the longtime Harvard-graduate captains. Thus, the birth of the nation-state in its own right lies in this progression, that is, the transferring of the capacity to intervene to mere humans. The history of the nation-state coincides with that of the concentration and the exaggeration of human errors. Modernity begins with the state monopoly on violence and ends with the state monopoly on financial unconsciousness. [Excerpt from Antifragile, published in 2012 by Random House]

ANTIFRAGILE Some things benefit from shocks, thrive and grow when exposed to mutation, randomness, disorder, and stress, and love adventure, risk, and uncertainty. Nevertheless, in spite of the omnipresence of the phenomenon, we do not have a term indicating the exact opposite of fragility. For this, we will talk about antifragility. Antifragility goes beyond the concept of “elastic resilience” and robustness. A resilient thing withstands shocks but remains the same as before: antifragility gives rise to something better. This property underlies everything that changes over time: evolution, culture, ideas, revolutions, political systems, technological innovation, cultural and economic success, the survival of organizations, the best recipes (such as chicken soup or tartare with a drop of cognac), the emergence of cities, cultures, and legal systems, the equatorial forests, the resistance to bacteria, and so forth, up to and including the very existence of our species on this planet. Antifragility establishes the boundary between what is living and organic (or complex), such as the human body, and what is inert, such as a physical object like the stapler on your desk. [...] By understanding the mechanisms of antifragility we can build a systematic and broad guide to non-predictive decision-making under uncertainty in different fields: economics, politics, medicine, and life in general – anywhere the unknown preponderates, any situation in which there is randomness, unpredictability, opacity, or incomplete understanding of things.

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Op opinions

the people will govern themselves At the World Economic Forum in Davos, Shimon Peres spoke of an optimistic future in which people would govern themselves, supported by the state, global companies, and science. Pursuing diversity and satisfying the desires common to all individuals, in equal measure, will help to overcome the economic crisis. by Shimon Peres

I think the world is moving faster than our minds are: we live in a new era, but we have an old mentality. At one time, we needed to have nations, fences, or armies to defend and expand our borders. But science cannot be controlled, neither by distance nor by fences, not by the police nor by the army. An army can conquer a territory, but not knowledge. When a scientist goes through customs, they can check his bag, but not his brain. In a meeting with President Obama, I told him, “Just think, a twenty-seven year old boy, Zuckerberg, has unleashed a revolution greater than that of Lenin and Stalin, without killing anyone. And this revolution is still alive and goes on.” And thus, the governments that we have built so they can defend the countries find themselves unemployed, because the economy has become global and governments have remained national. Everybody is influenced by the global economy without being able to influence it. And security is no longer about clashes between armies, but about the spreading of terror. A handful of people, maybe fifteen, can get to Manhattan, destroy the Twin Towers, cause 3,000 deaths, and escape. We do not know where they come from, we do not know their motives, and we do not know how to stop them. Today, when a traditional politician tells you, “I am wise, I am strong, I am great,” you ask him,

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“Really? Can you stop the economic crisis?” He’ll say no, he cannot. “Can you stop terror or the war?” Once again he’ll say he cannot. So you may object, “Why do you want to rule us? We are not looking for rulers.” People need someone who is able to save them. This is why another system of government has arisen, a more powerful kind: that of global companies. At first, it was neither true nor clear that large companies might have more money and means than all the armies in the world. Because in reality, governments have a budget but not the money. Whereas corporations have lots of money and do not depend on politics. Companies have given power to the individual. They do not govern as governments do, with laws, armies, or the police, but with their ears, by listening to the wishes and expectations of individuals. This is something that absolutely must be done, because the younger generations do not listen to the government or to their parents. Young people say to their parents: “Thank you for bringing us to life, but stop telling us about your great experience and great wisdom. You weren’t so great: what sort of a world have you left us? It’s full of wars, full of hatred and suspicion. We don’t want it, we don’t want to continue it. We want to be different.” Their concept of democracy is different. For them, democracy is not just the attempt to be equal, but the

contrary: it is the equal attempt to be different: “I want to remain personal, I want to develop my own potential, my own inclination. And we don’t want to have a collective group of equal people; rather, we want to have an open club of different people who live together in peace.” Now we have to answer them. The global companies are trying not only to resolve the situation of new globalism, but also to satisfy the new expectation of individuality. Whatever your desires are, no matter where you come from, they do not hate you, they do not suspect you, they do not say if you are doing well, and they will not give up. Today, just to be a young man, or a young woman, is very expensive: you must be more educated, more competitive. Your parents cannot answer all your needs, and the deficit does not just concern money, it is a deficit of expectations. Global companies are introducing more and more individuality.

An army can conquer a territory, but not knowledge. When a scientist goes through customs, they can check his bag, but not his brain


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Companies have given power to the individual. They do not govern as governments do, with laws, armies, or the police, but with their ears, by listening to the wishes and expectations of individuals

[Excerpt form the speech given at the World Economic Forum in Davos, January 24, 2013]

Now we are going to replace massproduction with individual production. It is a major change in the world. If a lady is in the company of some of her friends, and she finds four of them are wearing the same dress as hers (how awful), she has no reason to be worried. All she has to do, thanks to 3-D printers, is “print” her own original dress. She can keep her personality the way she wants; and this is a major change. Likewise, there are more and more computers and every year their number increases exponentially, and the same holds true for robots as well. And the people are afraid: “What will become of us. They will work instead of us.” I do not think there is anything to worry about because there will be new industries. Instead of building many different instruments to aid the human being, such as glasses or umbrellas, there will be an industry for human “spare parts”: rather than look for outside aids, you can simply replace

or improve a part of your own body. I also think we should have more time to learn and less to work. I do not think it is true that we have to work eight hours a day; I think maybe it is enough to work 3 or 4 hours a day, but the other 4 hours are for learning, every day. At times, the students are more informed than their teachers, who stopped studying years ago and since then, the world has changed. If the teachers are good ones, they will know what is happening. I like to say jokingly that if you eat three times a day, you will get fat: if we could read three times a day, we would become wise. Better to be wise than fat. And also, give more and more freedom to your spirit. Facts become old, but values, spirit, and wisdom never age. We have to learn them and adopt them. I think that is the way of the future. I know that the world is becoming ungovernable, the weakness of the government is the weakness of our society. I think there will be three major elements that will

enable us to continue and not let the world become wild and out of balance. The first one is to understand that national governments have their limitations. They cannot control the companies and the economy, but somebody must be in charge of the changing climate: it is in this sense that we need a government. So there will be governments that will be doing what must be done, and will be in charge of the husbandry of the state. The second matter is an empowerment of the global companies which will have more and more power; they will deal with development and investment in science (the third element), enabling other public companies to enjoy them It is so strange: we have such a brilliant instrument on our shoulders that we can create artificial intelligence, but we are unable to understand our own selves. We are strangers to ourselves. We do not know what makes us decide to do this and that. Now we are trying to enter the

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brain, and although we are quite ahead of it, we are still very far from solutions. But if we could understand how our head functions, how we make decisions, I believe that if every person had to choose between being happy or unhappy, they would choose to be happy. And between being extreme or moderate, they would choose to be moderate. When did civilization appear? I think it was when the mirror was introduced. Before then, nobody combed their hair or cut their nails. Every morning everybody was just themselves. Dull governments and dull dictators. The minute we have the mirror of our own functions, I believe the people will be the government of themselves. And it is already beginning: today we know that we can already overcome a great deal of illnesses and weaknesses. When I was a young boy, I admired telescopes. I wanted to see the stars and the sun, and to say nice things to my girlfriend about the moonlight. Today, I prefer a microscope to enter into our cells: the secret in every cell of our brain is greater than the secrets of the moon. We now want to be inside ourselves and billions of dollars and millions of scientists are making this effort. I believe that there will be an entirely new world in the near future. There will be more balances and more possibilities. I am ninety years old, and I have never lost a thing by believing or by hoping. If I have lost, it was when I was disappointed. It is better to have great hope than to suggest hopelessness. Better to encourage friendship than to look to your enemies and fight animosities. So these are the three concepts that I want to focus on for the future and we are moving in that direction. I believe all of you will reach that era, thanks to governments or husbandry of the state, and global companies offering to innovate for producing new ideas in science. Human science and others sciences tend toward the human being’s control over himself. Pessimists or optimists might pass away in the same manner, but they live differently. The advice I give you is to live as an optimist. I have tried it for ninety years, it’s not bad.

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In interview with

parag khanna

The frontiers of “open regionalism“ From the economic crisis to “open regionalism,” through foreign policy and the race to energy independence of the United States, the difficult phase of the European Union, the rapidly growing countries and their relationship with democracy, up to the new players in the governance of a “multistakeholder” world and the increasing role played by cities. by Stefano Milano

How does the world feel in this beginning of 2013? It feels more optimistic than 5 years ago. Some say this is the first postfinancial crisis year. Many countries seem to be slowly solving the problem of the economic crisis. Is this really true? Which countries do you think are regaining their economies and which will continue having trouble? We have known the solutions for some time, but the rate of adoption of bold policies varies. Look at how Ireland has radically reformed itself structurally and picked itself back up. Spain and Greece have deeper problems and may have taken austerity too far, but they still must focus on productivity, services, exports, and other shifts to rebalance their economies. How has the economic crisis affected global governance? Clearly, monetary coordination remains very weak, as we can see through the competitive devaluations led by the U.S. and Japan, for example. Fiscal stimulus is also highly variable and uncoordinated. America has simply reduced interest rates, while China is truly investing in new infrastructures. So there is very little actual global economic governance. Yet almost all nations retain a crucial interest and stake in keeping markets open. Despite the economic crisis, there are many “breakout nations” that

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are growing and are having/will have gradually more power. Which countries are becoming/will become “top players” in the global scenario? I have written about dozens of these so-called “breakout nations” in my book The Second World. There are key ones in each region: Colombia and Mexico, Angola and Mozambique, Saudi Arabia and Turkey, Malaysia and Indonesia. All are performing well, remaining stable, and have become economic gateways. I am often a champion of these markets. Outsiders tend to perceive them as more risky than they actually are.

from the EU, yet there is still a big effort to have more FTAs between the EU and ASEAN, or the U.S. and key Asian allies like Thailand.

Many emerging countries are growing and gaining economic power at the expense of democracy: i.e., Zambia, Mozambique, Liberia, and Niger were among the fastest growing economies in 2012, but they are in a low position in the Democracy Index of the Economist Intelligence Unit. “Growing economy = Low democracy” seems to be a widespread paradigm. Is that really so? What do you think? The Asian growth miracle has already weakened the linkage between economic progress and democracy. Remember how Singapore, China, Vietnam, and Malaysia have grown in recent decades without being full democracies. So this is not a new phenomenon. Good governance can be achieved through investing in infrastructures and enabling entrepreneurship. This does not always require democracy.

Every president since Richard Nixon has chased the dream of energy independence, promising to break U.S. reliance on foreign oil. Today, this seems to be possible: in 2012, the U.S. produced 83% of the energy it consumed, imports from OPEC have been cut by a quarter in the last four years, new drilling techniques have unlocked vast reserves, and oil and natural gas production is increasing at its fastest rate in 50 years. Do you think the U.S. is really going to be 100% energy independent? Obviously, this goal would change many things, not only in foreign policy… It is not just about the U.S. producing for itself, but the creation of a full zone of energy independence across the entire Western Hemisphere. This means including in our calculation the tar sands of Canada and the oil and gas of Brazil, in addition to America’s shale gas. And that hemispheric resource wealth is not just hydrocarbons but also water and food, which are just as important!

The world is becoming increasingly multipolar: what consequences will this have on international diplomacy and governance? What kind of multilateral political and economic agreements will we see? Multipolarity is already a reality today. We have strong North American, South American, European, and Asian systems whose internal trade is now greater than with each other. So there is a major regionalization of the world going on. At the same time, there is also an interdependency of natural resources and other supply chains. So we have a world of “open regionalism.” Trade within Asia is greater than with North America and Europe, which shows how ASEAN (Association of Southeast Asian Nations), for example, is gradually decoupling

Let’s talk about the three superpowers… first of all, the U.S. During Obama’s second term, what is going to change and what is going to be empowered in U.S. foreign policy? Obama wants to have a second term without any surprises, to complete the withdrawal from Iraq and Afghanistan, and to build economic and strategic ties with Asia. These are good goals.

More widely: examples like U.S. energy independence lead to thinking about some kind of new form of protectionism… Do you think the economic crisis is leading some countries to some protectionist measures? Not protectionism, but exporters will have to re-evaluate the rapidly shifting (declining) demand from the Western hemisphere. Countries from Canada to Argentina will not need to import any natural resources, whether oil/gas, food, or other commodities. This will make North and South America stronger in the sense of resource au-


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tarky, but not necessarily more protectionist. Yet still, resource exporting nations will have to look for new markets for the long-term. Shortly, China is going to change its leadership, and there is the possibility this will lead to some important changes. Do you think China will really start a kind of democratic transition? What consequences could this have? China’s political and economic liberalization process is a very controlled process, even if there are surprises, such as the corruption scandals involving Bo Xilai and others. These changes will make China a more consultative political system, if not a truly democratic one. Last but not least, the EU: its role in global governance has been softened in the last years. How can Europe recover stability and have a renewed centrality in the global scenario? The EU needs to remain unified as a market and economic zone to retain global relevance, and it is good to see the strong ECB signals that it will support this. The next step is to keep up the role of being the largest importer and also an exporter of capital in terms of foreign investment, as this is crucial to global leverage. Talking about global governance, two things seem to have a reverse trend: on the one hand, the power of the governments, and above all, of the supranational organizations, is becoming increasingly more weak; on the other hand, “new actors” of global governance are emerging and the power of some of them (such as corporations, stakeholders, social movements, etc.) is growing. Who are these new actors? What is their real power and who are the most powerful? How is this changing global governance? The world has truly become a multi-stakeholder in terms of governance. Most delivery of services takes place through supply chains or partnerships that involve some combination of governments, companies, and NGOs. These new players claim authority on the basis of their capacity to provide basic goods and services that governments have failed to do. I think this

is a very healthy trend – it is what I call “all hands on deck.” We have a far greater capacity to address global problems than just what is controlled by governments. The Gates Foundation, for example, has not only taken the lead in addressing infectious disease treatment in Africa, but also provides 40 percent of the annual operating budget of the World Health Organization (WHO). So it is an NGO funding an international organization. Indonesian forests have been pillaged by the government and corporations, but now Asian Pulp and Paper has demanded that its supply chain not rely on the logging of virgin forests. WalMart’s supply chain emits more greenhouse gases than the country of Ireland, so it very much needs to have a seat at the table in negotiations concerning climate change. These are just some examples of how we need to bring in the players whose actions can have a decisive impact. And what about the power of terrorist organizations? Terrorism is a constant phenomenon in the world and cannot be eliminated. But we should not blow its influence out of proportion. Terrorist groups do not make very good governors, just look at the Taliban! How is the spreading power of social networks and technology (and of the millions of citizens using the social medias and organizing through them) gaining soft power and leading to new forms of governance? It is a two-part phenomenon: technology enables the rising power of new players in governance, and it is also a tool for their collaboration with each other. NGOs now coordinate with each other and with companies and international organizations in crisis situations or war zones by using social media. In Hybrid Reality, you and Ayesha Khanna wrote that “the political consequence of globalization and the information revolution are now playing out a broader set of empowered players (including governments, companies, NGOs and more) and competing ambitions (territory, market monopoly,

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mind-share). Each now has access to the deep source of power – authority – to build the constituencies that legitimize their influence. […] Citizen groups, consumers, social movements can all increasingly alter the parameters of politics. As a result even government is becoming a generative one featuring novel assemblages of diverse players that associate freely.” How is this changing the new governance? This notion of “assemblage” is the new reality of how governance operates in much of the world. Authority must be earned by delivering goods, not simply assumed on the basis of sovereignty. “The 21st century will not be dominated by the USA or China, Brazil or India, but by the city” (Hybrid Reality). Are the big and smart cities becoming the “clusters” of governance of the future? If so, why and how? Cities are the foundation of global demographics and economics. Most of the world’s population lives in cities, and the lion’s share of the world economy is centered on just 200 cities. Some cities are indeed becoming so large and geographically expanded that they are fusing into urban corridors. One sees this between San Francisco and San Jose, Dubai and Abu Dhabi (or “Abu Dubai”), Beijing and Tianjin, and the entire Pearl River Delta region of China. Also, cities learn more from each other than from federal government mandates, and trade and investment flows between cities are decisive for economic growth. I now focus as much on “inter-city relations” as on international relations.

The world has become truly multistakeholder in terms of governance. These new players claim authority on the basis of their capacity to provide basic goods and services that governments have failed to do 115


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Co contexts

A new phase of “diplomatic intervention” able to show that being cautious and pragmatic does not necessarily mean being passive or “disengaged”

Obama II: a more interventionist agenda “What would be reasonable to expect from the second term of Obama, after two decades of wishful thinking? Caution and realism are a must. Despite the public pronouncements and the agenda, however, a significant step toward change in the international projection of the Obama II administration is not to be excluded.” The priorities? The Middle East, China, and institutions of global governance. by Paolo Magri

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Over the past twenty years, the hope of obtaining an effective response to the growing demand for global governance has been fed by two illusions. The first illusion led us to believe that the collapse of the Soviet Union would lay the foundations for a new order, less expensive and imperfect than the one guaranteed by the bi-polar system of the Cold War. A hierarchical order, with the United States, the hegemonic but “benign” power at the center, and whose solitude in command could be balanced by the multilateral and regional organizations (UN and EU in particular), at long last out of the hibernation of the Eighties. An order which, precisely because it is “benign” and “multilateral,” could even be allowed to violate the sovereignty of the individual states in order to guarantee global order: to export the free market, security, peace (for humanitarian reasons), and even justice (with the birth of the International Criminal Court). Wishful thinking. G.W. Bush, with his mistakes and the “war on terror,” reminded us that the hegemonic power was not necessarily benign; the revival of international organizations immediately showed signs of slowing down; with the financial crisis of 2008, the capitalist economic model – emerging triumphant from the Cold War and diligently exported – entered into crisis in the very country that had elected it as its creed. The second illusion occurred with the election of Barack Obama, when America was still engaged in the conflicts in Iraq and Afghanistan, and hit hard by the financial crisis. The illusion was that the discontinuity that the new President represented (generational, political, racial) would guarantee a recovery of the image and prestige of the “benign power” and make his significant contribution to global governance possible. Agreements on financial regulation, on measures to tackle the economic crisis in the advanced economies, on trade, and on the environment would, in essence, have benefited from America’s new “engagement” (radically different as to means and styles)


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in world affairs. Obama had no shortage of narrative rhetoric (“outstretched hand,” “reset,” the emphasis on “dialog among equals”) or tools, starting with the newly formed G20, more inclusive and attentive to the new equilibrium that has emerged in the last decade. The “Yes We Can” President was even awarded the Nobel Peace Prize on this basis, receiving the first “preventive” Nobel in the history of the Norwegian prize. Despite the Nobel, despite the millions of miles traveled by Hillary Clinton, the capture of Bin Laden, the withdrawal from Iraq, and the (announced) withdrawal from Afghanistan, the foreign policy inherited from Obama’s first term was a long series of “unfinished missions” (dialog with China and Russia, the Israeli-Palestinian negotiations, Iran’s nuclear program), the “forgotten continents” (Africa, Europe, Latin America), and blocked global negotiations (trade, environment, financial regulation). Of course, it was not solely the responsibility of the U.S. President, but it is undeniable that Obama’s emphasis on domestic priorities (the crisis, employment, debt, deficit) has inspired an extremely pragmatic and cautious approach to foreign policy that, while the expression of a positive awareness of the need to revise America’s role in a new multipolar context, did not seem able to ensure a more orderly and stable “governed” world. The most explicit translation of this cautious pragmatism – the Libyan “lead from behind,” which then evolved into “wait from behind” in Mali – presupposes a willingness and ability for guidance by others; a condition that has occurred, thanks to France and Great Britain, in these two crises but was far from materializing in Syria, for example, where the weaknesses and divisions of the United Nations, Europe, and the emerging countries became clearly evident. What would be reasonable to expect from Obama’s second term, after two decades of wishful thinking? Caution and realism are a must; in all probability, the choices of the recently re-elected

President will continue to be inspired by Kennedy. Not John, nor Bob, but Paul, the AngloAmerican historian who, already in 1987, declared the inevitable decline of the superpowers whose interests and global military commitments would exceed their economic strength. Hence – in full awareness of weak growth, the $17 trillion debt, and a deficit of nearly 10% of the GDP – the totally “domestic” emphasis of the presidential campaign and the first pronouncements after reelection. The four-point program indicated in the State of the Union address on February 13th (work, education, minimum wage, gun control) is a more explicit demonstration, especially when compared with another State of the Union address by Truman in 1949, who indicated to America, just back from a war “in Europe” and “for Europe,” his confirmed commitment to the UN and NATO, the continuation of the Marshall Plan, and the launch of de-colonization, the four points of his presidential program. It is not just the pre- and postelection rhetoric that leaves few illusions to those who are waiting for a new “vision” concerning the role of the U.S. in the world or, at least, a less passive approach by the “indispensable superpower.” The 2013 political agenda is totally dominated by an obstacle course of internal affairs, made even more complex by the increasingly difficult dialog with the Republicans: the “sequester” management, adopted on March 1st; the deadline on March 23rd of the “Continuing Appropriations Resolution” to manage the Interim Financial Statements; and yet another increase in the debt ceiling, in mid-May. Despite the public pronouncements and the agenda, however, a significant step toward change in the international projection of the Obama II administration is not to be excluded. Certainly not for the “second term theory,” which sees the U.S. Presidents, released from the stress of re-election, as more likely to use their last four years in the White House for opening up to foreign policy capable of ensuring them a significant legacy. The

theory has held up with Reagan (detente with Russia, despite the stain of the Iran-Contra scandal) and Clinton (the peace process in the Middle East, despite the Lewinsky scandal); much less so with Nixon and Bush, whose second terms were characterized by Watergate and the controversy over the lack of relief efforts after Hurricane Katrina, respectively, rather than by any new visions of foreign policy and the commitment to global governance. Even more important for understanding the direction that the Obama presidency will take in the coming months and years, are the appointments made for key positions (for the purposes of foreign policy) in the administration: Kerry (foreign policy), Hagel (defense) and McDonough (chief of staff of the White House) are three well-known and respected experts in international politics, from isolationist positions and with a staunchly multilateral vision. “Doves,” but tenacious and determined doves who could foreshadow significant changes of direction. The main focus is obviously aimed at the new Secretary of State; Obama’s second choice (after the “sacrifice” of Susan Rice in the post-Benghazi negotiations with the Republicans) who, however, brings a significant range of skills and relationships to the administration, as well as a focus on economic diplomacy and environmental issues that could lead to a new phase of “diplomatic intervention” (as an alternative to the military kind, less and less compatible with budget constraints), and is able to show that being cautious and pragmatic does not necessarily mean being passive or “disengaged.” There is no shortage of areas in which to test a greater involvement; above all, there are three key priorities that are unavoidable. The first, and most pressing, is the Middle East. Obama cannot afford to accompany the slow death of the two-state solution between Israel and Palestine, to leave the countries of the “Arab awakening” to their political and economic chaos,

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to witness the completion of the Iranian nuclear issue. America did not seem to be able to determine the course of events in any of these crises; however, it can significantly influence them with diplomatic, economic, and (occasionally) military engagement which was certainly lacking in the first four years of Obama’s administration. Then there is the need to limit the damage inflicted by the electoral rhetoric (Republican, but also Democratic) to relations with China, a country with which it is trying to find a stable modus vivendi, given its economic importance (especially for the U.S.), and the growing threats to regional stability raised by territorial disputes with Japan, Vietnam, and the Philippines. The third priority – and certainly the most ambitious – is to deal with the architecture of global governance. The current institutions (UN, WTO, IMF) reflect a world that no longer exists and, despite the cautious reforms of recent years, are neither inclusive (regarding new players) nor effective, as demonstrated by the Syrian deadlock and the failure of negotiations on trade, the environment, and financial regulations. Missions that are seemingly impossible – even for the “Yes We Can” President – and that obviously depend on the stance taken by the main stakeholders in the coming months. But Obama and his new team might just amaze us by leaving “cliffs” and “ceilings” behind, and putting back into play an America that helps to shape a new order for a deeply transformed world. On the other hand, like Obama, F. D. Roosevelt, too, was elected to address the concerns of American voters and the economic problems after the Great Depression, but he ended up being the President of the war in Europe, the birth of the UN, and the institution of the Bretton Woods monetary management system. We would gladly spare ourselves another world war. We would not at all mind an America that is more “engaged” and that assumes more responsibility (with the necessary support of Europe and other regional powers).

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Co contexts

The eurozone between a rock and a hard place Austerity was the theme of the revamped growth and stability pact (GSP), the core economic governance framework of the EU. The latest European growth forecast predicts zero growth for 2013, and unemployment at an all-time high of 11%. This is putting pressure on European governments to explain what they are doing, and why. Recent eurobarometer figures showed that 29% of the European population had a negative or very negative view of the EU, an all-time high. by Karel Lannoo

The euro-sovereign crisis may be over for the financial markets, but not for the economies of most of the member states, considering the growth prospects for 2013, the unemployment figures, and budget deficits. This while the U.S. is gradually recovering from the economic crisis, with growth, declining unemployment, but with an important budget deficit. The latter element indicates better than anything else the difference in approach on both sides of the Atlantic: austerity first in the eurozone, and growth first in the U.S. Recent developments seem to be indicating that the U.S. is on the right track, or did the eurozone have no alternative? Austerity has been the fundamental theme in the eurozone and in the EU’s crisis response. After a too generous response to the banking crisis, with about 13.5% of the EU’s GDP spent on bank rescues, EU member states reacted too tightly to the sovereign crisis, and are now reaping the harvest: increasing unemployment, declining growth perspectives, further pressures on public finances, and strong declines in the support for the EU. The latest European growth forecast predicts zero growth for 2013, and unemployment at an all-time high of 11%. This is putting pressure on European governments to explain what they are doing, and why. Europe is thereby seen as the bad man. In the

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U.S., in contrast, growth for this year is expected to be at about 2%, with an unemployment rate of 7.7%. Austerity was the theme of the revamped growth and stability pact (GSP), the core economic governance framework of the EU. With the “six-pack” and “duo-pack” measures, adopted in November 2011 and February 2013, respectively, the EU agreed to control public finances on the basis of a broader set of criteria, and to give more powers to the EU Commission to control its application. Hence, apart from monitoring public debt and budget deficits, current account positions and draft budget plans of the member states are also assessed. With the “Fiscal Pact,” concluded in March 2012, the EU leaders of 25 member states (without the UK and the Czech Republic) agreed on an Intergovernmental Pact to strive to maintain balanced primary budgets, the “golden rule,” and to write it down in the national constitutions. It would be wrong to state that austerity is only an issue for the eurozone. The UK, too, is pursuing tight budgetary conditions, with a high budget deficit and low or no growth. It devalued its currency, the £, by about 20% in 2008, but the results so far have not been very comforting for life outside the eurozone. It certainly is no example for those economists arguing that countries need to keep control of monetary policy as a core

Eurozone vs US, key figures 2013 forecasts (or latest)

Eurozone

US

gov debt (% GDP) budget deficit (% GDP) inflation (%) long bond yield (av. %) growth (% GDP) current account (% GDP) unemployment (%) rating

95.1 -1.3 1.8 3.25 0.1 2.2 11.1 ( ) from AAA to BBB-

111.1 -6.6 1.9 1.8 1.9 -3.0 7.7( ) AA+( )

Sources: European Commission (2013), JP Morgan


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Recent eurobarometer figures showed that 29% of the European population had a negative or very negative view of the EU, an all-time high and double that of the pre-crisis period. At the same time, only 30% still have a positive view of the EU, down from 50%

tool to monitor competitiveness. To make austerity possible, and prepare for eventual contingencies, the eurozone agreed on a permanent stabilization mechanism, the European Stability Mechanism (ESM), which was inaugurated in October 2012. Combined with the ECB’s Outright Monetary Transactions, the facility now exists at eurozone level to react to debt funding problems in the member states. The ESM can buy primary debt of eurozone member states, and the ECB can, through the OMT, buy debt of member states with problems on the secondary markets. The latter facility is, however, conditional to the acceptance of a fiscal program, a scheme to bring the public finances back in balance. The market reaction to austerity has, for the last months, been positive. The yield spreads between the eurozone countries have started to converge slowly again, after the peaks of the second half of 2011 and the first half of 2012. But the reaction of the public is quite different. Recent eurobarometer figures, the opinion polls in member states about views on the EU, showed that 29% of the European population had a negative or very negative view of the EU, an all-time high and double that of the pre-crisis period. At the same time, only 30% still have a positive view of the EU, down from 50%. After almost three years of expanding sovereign crisis, these measures were considered sufficient by the markets to restore some calm. The question, however, is for how long. Markets will want to see further measures to strengthen market integration in the EU and stimulate economic growth; the public will want to have a bigger say in what is going on. This concerns the other large wharfs of the EU: economic and political union. But both subjects have been discussed for decades at the EU level, without agreement on its effective content. Economic union would require that, where appropriate and more effective, further integration be pursued at the EU level. This concerns, for example, energy policy, with commonly managed grid networks and a common energy supply policy; research and development policy, with a higher degree of coordination of R&D expenditure; a

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common digital agenda, with content and data protection laws and common e-network policies; more harmonization in corporate taxation, a domain almost untouched by EU harmonization efforts so far; and action in the domain of employment policy to allow for the emergence of a European labor market, through transferable labor rights and pension plans. Proposals for action in all these areas have been raised in the context of the recent economic problems, such as, for example, in the May 2010 report by Mario Monti on the single market, but little progress has been achieved so far. Political union would require that the EU institutions become truly accountable, from the mixture of intergovernmental and federal institutions that we have today. In the reaction to the sovereign crisis, the central power has been strengthened, but not necessarily the democratic control over it. The powers of Parliaments over the European Commission on economic governance matters remain limited, and the ECB insists on retaining its hallmark trait of independence. Unlike national parliaments, the European Parliament has no real right of initiative, which rests with the European Commission. But the Commission College is appointed by the member states of the EU and its leaders are not elected to their positions. Hence, to bring the EU onto a sustainable path toward the future, plans urgently have to be developed to create economic growth and political union. A large European industrial plan is required to create growth, to get rid of the uncoordinated or old-fashioned policies of the past, and to demonstrate that the EU matters. A political union is needed to give the EU population the feeling that their views count, not only in the national capitals, but also in Brussels. The recent eurobarometer results should be a wake-up call for all of them. If the negative attitude toward the EU is not tackled urgently, the next European Parliament elections could produce disastrous results, with all the consequences this entails for EU policy making.

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Co contexts

Italy, Europe’s “special” interlocutor The relationship between Europe and Italy, the role played by a member state with a special weight in the economic balance and its contribution to the European Stability Mechanism and the Pact for Growth and Employment, their advantages and their weaknesses. Europe is a place of debate and Italy is one of its essential interlocutors. by Franco Bruni

In 2011, Italian public finances were found to be out of line with the European coordination of fiscal policies, which had become more attentive due to the international financial crisis. At first, it was not a question of the measure of the plan for recovery from the deficit but the credibility of the decisions to achieve it. After Italy’s further hesitations about what to do, Europe also asked to review the size of the planned balances, moving up to 2013 the goal of breaking even. Relations with Brussels were stretched to the point of becoming a contributing cause of Italy’s change of government. It has fueled the debate on national sovereignty, on the degree of invasiveness of the EU, and on the effectiveness of imposing austerity from the outside, without an adequate sharing of responsibility within the country. Three months before taking on the task as Prime Minister to adapt to that imposition, Monti himself warned us about the critical aspects of “foreign authority” (“Corriere della Sera,” August 7, 2011). Throughout the EU, the sovereign debt crisis has accelerated the reassessment of economic coordination, in order to make it stronger and shared. In 2012, this effort marked great strides forward. It has become increasingly clear that the stability and growth of the member countries are both a condition and an effect of good collective policies. Italy has played a crucial role in strengthening the integration of

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the EU: by starting the adjustments and reforms internally, it has given stability to the eurozone. It has taken advantage of the control of the EU, but has also earned the credibility to influence its improvement. This special role of Italy is due to its size. If the country falls into a financial abyss, it drags down Europe, which will not be able “save” it, because it is too big. Therefore, when an Italian crisis deepens, mutual responsibility between Rome and Brussels is triggered. The European Community helps, and together, it “ties the hands” of the Italian authorities, holding them back from the brink. And every progress made in Italy increases the weight of the country’s voice in the European concert. The diplomacy of our country, if governed by sustainable policies, has the clout to make multilateral interventions that recompose the alignments between Member States seeking consensus for the advancement of the EU. In 2012, Italy was decisive – also for the attention it paid to countries such as Spain, the UK, and Poland – in interrupting the arbitrariness of a self-proclaimed Franco-German leadership that was ineffective and controversial. Italy has contributed with ideas and actions on three fronts: rigor, solidarity, and stimulus for growth. With regard to rigor, in addition to “putting its house in order,” it insisted on the fact that EU macroeconomic discipline had already been strengthened and expanded. The Stability Pact, adopted at the same time as the euro and misfiring shortly thereafter, was reformed in 2011. It was enhanced with the monitoring of imbalances in the private sector, including its competitiveness and the balance of foreign trade; the “European semester” was launched, i.e., the elaboration of Community estimates of the adjustment plans and structural reforms to be launched in every country in the second half of each year; a minimum speed was prescribed for the reduction of the stock of public debt when in excess of 60% of the GDP; and the Commission’s power to sanction non-

compliance with commitments of the national governments was strengthened. In 2012, it was decided to add to this governing framework the so-called Fiscal Compact, which requires that balanced budgets be made obligatory through norms of constitutional status. It was important that the addition not compromise the implementation of newly-made reforms with a counter-productive rigidity of “too many restrictions and caveats” (an expression used by Monti in his address to the Senate on January 25th). We have managed to avoid this risk: the formulation of the Fiscal Compact was sufficiently flexible. In terms of solidarity, Italy has insisted on the “systemic” nature of the instability in the eurozone: the difficulty of refinancing the public debt of a country and avoiding excessive increases in its spread does not always depend on the intracta-

In terms of formal decisions, 2012 was therefore an exceptional year for the construction of a real European economic policy. Italy has contributed in an essential way


english version

bility of its budget. Even the spread of those countries which comply with the Community guidelines might increase too much, plagued by the problems of others: Italy can suffer from the problems in Greece, Spain, or even those outside Europe. So, if solidarity mechanisms, that is to say, interventions of support using EU funds, are properly organized, aid to “disciplined” but “infected” governments should not require doses of rigor that go beyond the discipline already under the Commission’s control. This position reflected the situation in Italy, which was paying spreads disproportionate to the imbalances that it was fixing. But it was also correct from the point of view of the effectiveness and timeliness of EU solidarity. Our government was vehemently insistent, with moderate success, in the European Council in June 2012 when it came to deciding the rules of the newborn European Stability Mechanism (ESM), the intergovernmental solidarity fund created to help refinance countries in difficulty. The result was important because the support of the ESM was then considered a prerequisite for the ECB’s interventions which, between July and August, Draghi promised to use to smooth out that part of the spread created by the erroneous perception of a risk of the euro’s rupture. This promise was all that was needed: the markets have reduced spreads and Italy has benefited greatly. During the European summit in June 2012, Italy’s insistence on “flexible” solidarity for the disciplined countries went so far as to threaten – if the unnecessary rigidity in the conditionality of ESM aid was not excluded – to veto the launch of the Pact for Growth and Employment, even though the Pact would have been acceptable to Italy, whose diplomacy had done the utmost to obtain it. The Pact was perhaps the biggest development of European economic policy in 2012. To forge toward ways of eurozone recovery that would be more favorable to growth and employment was a constant objective of the Italian government last year. The Pact is divided into different fronts of action; but the leitmotiv is that of the most rapid and intense

completion of the single market, especially in the field of services. Exploitation of the opportunities of the internal market in the EU is the main tool for relaunching growth, but it meets with the resistance of special interests and nationalistic protectionism, including those in Germany. The credibility of Italian commitment in this area has been increased by the fact that, in 2010, Professor Monti, on behalf of the Commission, drafted a document which later became the Single Market Act, whose difficult implementation was given new impetus in the Pact of June 2012. In terms of formal decisions – made on the basis of what had been maturing in 2011 –, 2012 was therefore an exceptional year for the construction of a real European economic policy. Italy has contributed in an essential way, both because it would otherwise

Italy has played a crucial role in strengthening the integration of the EU: by starting the adjustments and reforms internally, it has given stability to the eurozone

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have risked collapsing along with the entire eurozone, and because its internal political situation puts it in a position to influence Europe. The question is whether Italy and the EU will continue on the right path, putting what they have actually decided into act. More than trying to guess the correct degree of optimism, here it is a matter of reiterating the three points underlying the progress made, at least conceptually and on paper, by European cooperation for stability and growth. First: the macroeconomic discipline is strict but flexible and cyclical: it does not ask – not even the Fiscal Compact asks – that decreases in the GDP be followed with greater fiscal stringency, thus creating a vicious circle. Second: Community solidarity toward countries in difficulty is now a fact, incorporated into the European institutional apparatus and justified by the systemic interdependence increasingly felt in the eurozone. It can be assumed that the solidarity is still insufficient, but it makes no sense to pretend that there is none or to believe that they can make do without it: the non possumus and rigorous rhetoric of some Germans has been refuted by the facts. Third: the heart of the policies to regain stability and growth, the foundation of the countries’ annual commitments with the Commission, is no longer represented by the cuts made to the deficit of countries considered “big spenders,” but rather by the programs of structural reform, of both the public administrations and the markets and private sectors, able to increase the competitiveness and resilience to shocks of the individual member countries, the whole interconnected eurozone, and the EU. Italy, therefore, must draft its future policies by looking to Europe not as a policeman totally dedicated to fining overspending, but as a supportive and interdependent framework in which to agree on the best ways to modernize its public and private economy, finding among its community partners the care and help of those who, in addition to coordinating their own agenda of reforms with others, are aware of the benefits that will result from the national reforms of the others.

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Sc scenarios

Energy: everything is changing! Gas, oil, nuclear energy, renewable energy: depending on the availability and export strategies in each country, the world map is being redrawn. Countries with a brighter future have resources and, at the same time, they are imposing rigorous standards for energy efficiency. by Fatih Birol

For many countries, energy efficiency represents the best opportunity to enjoy their own energy boom. But this will be possible if, and only if, governments take the lead 122

The global energy map is changing, with potentially far-reaching consequences for energy markets and for economic prospects. It is being redrawn by the resurgence of oil and gas production in the United States, Canada, and Iraq, and by the retreat from nuclear power in some countries following Fukushima Daiichi. It could also be transformed if major energy-consuming countries follow through on what seems to be a renewed policy focus on energy efficiency. Amidst these shifts, the past twelve months have also shown that many symptoms of an unsustainable energy system persist. CO2 emissions have risen to a new record level – with the renewables industry experiencing growing strains – while climate change has slipped down the policy agenda. Oil prices continue to remain at well over $100 per barrel, acting as a brake to the fragile global economic recovery. Momentum behind reform to fossil-fuel subsidies appears to have stalled, particularly in the Middle East and North Africa, meaning that the value of these subsidies ballooned to $523 billion in 2011 – 30% higher than in 2010 – encouraging wasteful consumption and artificial demand growth. Meanwhile, despite new international efforts, 1.3 billion people still lack access to electricity. The resurgence of oil and gas production in the United States is one of the most remarkable features of the changing energy landscape. The innovative application of horizontal drilling and hydraulic fracturing

technologies has unlocked unconventional resources that only a few years ago had been considered too difficult or costly to access. Consequently, increasing production of light tight oil and shale gas has reversed the long trend of declining U.S. oil and gas output, putting the country on track to overtake Saudi Arabia as the world’s largest oil producer and Russia as its top gas supplier between the end of this decade and the mid-2020s. The implications of this growth in supply are being felt well beyond the energy sector. In North America, a range of industries are gaining a competitive edge from cheaper gas and electricity prices. The combined effect of booming oil production and more rigorous vehicle fuel-economy standards, introduced by the first Obama administration, has also set the United States on a path to dramatically reduce its oil imports and its oil import bill; there are already signs that the U.S. trade deficit is narrowing due to increasing oil product exports and reduced petroleum imports. Considering trends in the U.S. together with the broader (and wellestablished) phenomenon of shifting oil demand growth toward emerging economies, especially those in Asia, you have the ingredients for a fundamental re-orientation in patterns of oil trade. We anticipate that the focus for oil trade will shift even more toward Asia, putting increasing strategic emphasis on the security of shipping routes to Asian markets from the Middle East, as well as the relationships of emerging trading partners. Some of the dynamics affecting oil market are in play with natural gas, but (as opposed to oil) you do not have a single international market, but rather three main regional markets, each with their own market dynamics, their own ways of pricing gas, and – for the moment – wide variations in price levels. At its lowest level in 2012, natural gas in the United States traded at around a fifth of import prices in Europe and an eighth of those in Japan. In the future, price relationships between regional gas markets are set to strengthen as the liquefied natural gas trade becomes more flexible and contract terms evolve, meaning that changes in one part of the world are more quickly felt elsewhere. Unconventional gas production will help to accelerate this

process of globalization of gas markets, putting pressure on the main conventional gas exporters and on traditional oil-linked pricing mechanisms for gas. And within individual countries and regions, competitive power markets are creating stronger links between gas and coal markets. Taking oil and gas together, it becomes even more striking how the United States is bucking the trend that characterizes the other major importing countries. Even considering the likely spread of unconventional oil and gas production in some resources-endowment regions, all major importing countries are set to become more dependent on oil and gas imports over the next two decades, with the United States being the only one having its oil imports being reduced significantly and becoming a small but significant exporter of gas. The power sector is another focal point of a shifting energy landscape. Almost two years after Fukushima Daiichi, the future of nuclear power – at least among the OECD countries – continues to dim. Japan and France joined other countries in announcing their intentions to reduce their use of nuclear power. Meanwhile, its competitiveness in North America is challenged by an extended outlook of relatively cheap gas. These actions and conditions will have varying degrees of consequences related to spending on imports of fossil fuels, electricity prices, and the level of effort needed to achieve climate targets. Nevertheless, there has been no change to policies among the countries expected to be the main drivers of the industry – namely China, India, Russia, and Korea. How governments and industry respond to this shifting landscape will be crucial to shaping our energy future for years to come. The IEA’s World Energy Outlook 2012 projects that $37 trillion ($1.6 trillion per year on average) of investment is needed in the world’s energy-supply infrastructure to 2035, with investment in the power sector absorbing almost half of the total. A significant portion is needed to replace existing power plants, more than a third of which will be retired by 2035. Thanks to substantial capacity additions and investments, renewables-based generation is expected to become the second-largest source behind


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coal already in 2015. Renewables are gaining in competitiveness versus conventional energy sources, but after a period of very strong growth, renewable energy sources have reached a crossroads as some governments look at the undoubted benefits but also review critically how renewables are being supported and how much that is costing. Subsidies to renewable energy, which totaled $88 billion in 2011, would have to increase to $240 billion per year in 2035 to meet existing targets. But weak economic conditions and tightening government budgets, particularly in OECD countries, mean that some of the government support to renewable energy, including for research, is now in danger of being eroded. Support schemes for renewables must be carefully designed to ensure their success with ambitious yet credible targets and be support differentiated according to the maturity of each technology. And as cost reductions for renewable technologies are achieved, the level of support provided for new installations needs to decline to avoid excessive and unnecessary increases in the cost of energy services. Additional renewables capacity means that system flexibility will be critical, and must be supported by robust transmission and distribution grids. The majority of necessary investment will have to come from the private sector, but

there is a clear role for policymakers to provide priorities and frameworks that send the appropriate signals. Another potential game-changer for the global energy markets is energy efficiency. Several large energyconsuming countries have, in the last year, announced new measures aimed at improving energy efficiency: China is targeting a 16% reduction in energy intensity by 2015; the European Union has committed to cut its 2020 energy demand by 20%; and Japan plans to decrease electricity consumption by 10% by 2030. Such policies will help to accelerate the slow progress on energy efficiency seen over the last decade, but even with these and other new measures in place, two-thirds of the world’s economic potential to improve energy efficiency would remain unrealized. Global action to remove obstructions to energy efficiency could represent another “unconventional revolution” for global energy and climate trends. Based on the IEA’s World Energy Outlook 2012, implementing economically viable energy efficiency measures could halve the growth in global energy demand, with the amount of oil saved equivalent to the current combined production of Russia and Norway, and generate similarly impressive savings for coal and gas. But this would also lead to important benefits for the environment, buying precious time for gov-

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ernments to take determined action to mitigate climate change. And critically, the additional investment that would be needed in energy efficiency to achieve those energy savings would be more than offset by savings in fuel expenditures by households and businesses. For many countries, energy efficiency represents the best opportunity to enjoy their own energy boom. But this will be possible if, and only if, governments take the lead in ensuring that these opportunities are exploited fully and rapidly. In conclusion, trends in the past year point to major shifts in the global energy landscape, but the hard truth is that the imperative to enable a transition to a more secure and cleaner energy economy remains clear and urgent. Doing so requires that decision-makers reconcile sometimesconflicting energy security, economic, and environmental objectives and adopt much stronger policies and measures than currently envisaged. Weakened economies and the specter of “an age of austerity” provide tempting excuses to delay making the necessary investments in a more sustainable energy future. Against this complex backdrop, one policy approach stands out as a way for policymakers to reach multiple policy objectives – that is energy efficiency. We cannot allow this potential to go to waste.

World Energy Outlook 2013 In 2013, the World Energy Outlook, the most authoritative source of strategic analysis of the global energy markets, reset the old expectations about the future of energy and, in light of current events, updated its projections up to 2035. The emerging themes are: the relationship between climate change and energy; future prospects of oil – demand, supply, and trade; the diffusion and the environmental and social impacts of the supply of unconventional gas; the situation in some specific areas and, thus, the energy prospects in Brazil and fossil fuel subsidies in the Middle East. (worldenergyoutlook.org)

Global renewable energy subsidies of $4.8 trillion, 2011-2035 100%

gas imports

japan

80%

european union

biofuels

1.2$ trillion

60%

committed to existing projects

1.0$ trillion

40% china

india other subsidies to electricity

20%

1.0$ trillion united states

0%

1.6$ million

gas exports

20%

required to meet targets 2012-2020

oil imports

40%

60%

80%

Trends in oil and gas import dependency Source: IEA, World Energy Outlook 2012, New Policies Scenario

100%

2010 2035

total electricity

3.6$ trillion 123


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Co contexts

Competition and collaboration between China and India “The common challenges and shared interests of China and India underscore that the relationship between the two countries will shift back and forth between competition and collaboration. Now, as the West slowly recedes from the global stage, it is time for the future superpowers to begin taking more responsibility for the welfare of our world.” by Kishore Mahbubani

The most important geopolitical relationship in the world today is between the world’s greatest power, the United States, and the world’s greatest emerging power, China. The second most important geopolitical relationship in the world is between the world’s two emerging superpowers, China and India. Goldman Sachs has forecast that by 2050 or earlier, the number one and number two economies in the world will be China’s and India’s. Hence, even though the China-U.S. relationship is the most important geopolitical relationship today, the China-India relationship will be the most important one tomorrow. Right now, both China and India are dealing with a new political reality in which the richer Western countries no longer feel confident about the future. Western politicians are constrained by their anxious publics from making short-term sacrifices for the long-term global good in issues like trade and climate change. A greater burden will then shift onto the shoulders of China, India, and other developing countries. So the time has come for both China and India to think about the clear longterm interests they have in collaborating with each other in many areas of common interest. Both China and India can sustain their rapid economic growth only if the relatively open 1945 rules-based order is sustained and, indeed, strengthened. Both China and India are increasingly plugging their economies into the global econom-

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ic grid. In so doing, they are demonstrating great common faith that this global economic grid will carry on. What happens if this grid falls apart? Who is going to rebuild it? China and India have essentially been “free riders,” exploiting the advantages of this global economic good without sustaining it. While it is true that China and India are playing by the rules of the 1945 political order, who have the custodians of this rules-based order been? The answer, of course, is America and the EU. And why should America and the EU continue to be custodians of the multilateral order in which the primary beneficiaries have become China and India? Pure common sense dictates that both China and India should put in a stronger common effort to keep the global economic grid functioning. Sadly, Chinese and Indian policymakers have not yet accepted the reality that they have to do more to keep the current institutions of global governance going. A second common challenge for both China and India is the need for open global access to natural resources. Both countries have been roaming actively around the world in search of critical natural resources such as oil and gas, iron and coal, bauxite and aluminum. A report by Rice University’s Baker Institute has found that “Chinese oil consumption has close to doubled over the last decade and now represents over 10 percent of the global world demand.” The same story is true for India. Consumption of coal in India is increasing at a rate of 9 to 10 percent a year, while India’s oil imports are expected to more than triple from 2005 levels by 2020. In some cases, zero-sum competition is unavoidable, but both share a common interest in ensuring that the rules encourage open and continuing access to key resources. Such collaboration is growing, notably between Indians and Chinese in Africa. In January 2006, Beijing and New Delhi promised to exchange information when bidding for oil resources abroad. “Unbridled rivalry between Indian and Chinese companies is only to the advantage of the seller,” China’s official Xinhua News Agency quoted the Indian Minister for Petroleum and Natural

Gas, Mani Shankar Aiyar, as saying. There are other geopolitical challenges in which there are incentives for the two countries to discover shared solutions. Maintaining rising nutrition levels requires both China and India to import more food. Food, however, is a politically sensitive commodity. When food prices rise, politicians, especially in developing countries, panic and immediately begin to ban exports. Such behavior is immensely destructive in the long run, driving up global food prices and denying domestic farmers a higher profit, creating a disincentive to grow more food. Despite this obvious common interest in developing a fair and equitable regime in food supplies, neither China nor India has even begun a dialog in this area. Both sides also share a common interest in developing a common global assessment of the relatively predictable expected demand in the coming decades and the relatively unpredictable supply of food. A third common challenge is secure sea-lanes. In the past two decades, the enforcer of the last resort in keeping vital sea-lanes open has been the U.S. Navy. Even though it has been carrying out its global operations in response to a vital American national interest, the U.S. Navy has also been delivering a global public good that both China and India have benefited from. But with enormous and unending budget deficits, the U.S. will have difficulty justifying its levels of military expenditures. Indeed, with the diminution of interstate wars, why maintain a thirteen-carrier Navy? Logically, there will be a significant shrinking, in relative terms, of the Navy in the coming decades. Both China and India will be affected by this shrinkage. Hence, both should be maintaining a dialog on keeping sea-lanes secure. In the maritime area, China and India also have a common interest in developing a viable long-term global regime for preserving fish stocks. There seems to be a growing global consensus that humanity’s harvesting of fish stocks has become unviable. Indeed, “Newsweek” noted in 2012, “The oceans have changed more in the last 30 years than ever before. In most

places, the seas have lost upwards of 75 percent of their megafauna […] By the end of the 20th century, almost nowhere shallower than 3,000 feet remained untouched by commercial fishing.” Moreover, a 2009 World Bank report, “The Sunken Billions,” calculates that the major fish stocks of the world would produce 40 percent more if they were fished less. Since China and India will produce the world’s largest new middle classes in the near future, they will suffer the most deprivation if future fish stocks diminish. The current generations of middle classes are benefitting at the expense of future generations of Chinese and Indian middle classes. What are China and India doing to protect this common future interest? A fourth, and most obvious, common challenge that China and


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India face is global warming. If the forecasts of the consequences of global warming prove to be accurate, both China and India will emerge as big losers. The Stern Review, a report commissioned by the British government on the economics of climate change, projects that melting glaciers will eventually threaten one-sixth of the world’s populations, most of whom reside in India and China. Yet, while they share a common long-term interest in preventing global warming, they also share a common short-term interest in not paying too heavy an economic price for reducing current GHG emissions. Both share a vital common interest in apportioning a larger share of the economic burden on the richer developed countries that have been emitting greenhouse gases for centuries

without paying an economic price. Finally, a fifth common interest is the geography of neighbors: China and India will want to preserve stability on their common borders. To cite two obvious examples, if both Afghanistan and Pakistan fall apart and become havens for terrorist groups, both China and India will suffer, as both have disgruntled domestic Islamic groups willing to collaborate with external terrorist groups. Indeed, if Pakistan collapses and its nuclear weapons are not secured, the consequences could be disastrous for the region. Despite this clear common challenge, the dialog between China and India is furthest apart on the issue of Pakistan. China perceives Pakistan as a reliable old-time ally that helped China consistently and which it will therefore not even contemplate abandoning. By contrast, India views Pakistan as the biggest thorn in its side. Even though New Delhi has overcome its obsession with Pakistan as its natural rival and competitor, it still believes that the Pakistan regimes have had a consistent long-term policy of undermining India’s political order, partly justified by frequent Pakistan-funded and supported terrorist attacks in India. The common challenges and shared interests of China and India underscore that the relationship between the two countries will shift back and forth between competition and collaboration. Cooperation between the two giants is not only in the national self-interest of China and India, but in the long-term interest of the rest of the world. Now, as the West slowly recedes from the global stage, it is time for the future superpowers to begin taking more responsibility for the welfare of our world.

Chinese and Indian policymakers have not yet accepted the reality that they have to do more to keep the current institutions of global governance going

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interview with francesco sisci

China: it is time to reform. Policies by Cecilia Toso The election of the new President of the People’s Republic of China, Xi Jimping, opens a season of political reforms that will affect their economic reforms. An inevitable and controlled transformation of Chinese global power.

In his closing speech of the eighteenth congress of the Communist Party, the future President of the People’s Republic of China, Xi Jimping, said that if China needs to know more about the world, the world needs to know more about China. Francesco Sisci, journalist and sinologist, has confirmed this to Oxygen: “The Chinese are much more informed on matters abroad than foreigners are on China. Very few in the West know what China is now.” In fact, while the whole world watched the fate of the U.S. elections, few have perceived that China – with the end of the congress and the appointment of Xi Jimping as President and Li Keqiang as Premier – was simultaneously experiencing a very significant step because it is one that is different from all the previous changes. “The last 30 years have brought about economic reform, while the next 30 years will be about political reform,” continues Sisci. “Xi Jimping confirmed this and, with a highly unofficial signal, on January 1, the Chinese central television announced that China will have to implement political reforms that can lead the political system to be like that of other countries, certainly over time and with gradual steps and great

prudence.” There will thus be a slow transition to democracy: “The strategy is clear, the tactics less so. But that is how you win all the wars and that is what makes China the country that it is. Instead, policies are failing in those nations which live on tactics but are unaware of the strategies to be applied.” It is hard to say for sure when the effect of these reforms will begin to be felt: “The impact and scope of the economic reforms were initially minimal. Launched in ‘78, their effects began to be felt only in the early Nineties. And this is likely to happen with the political reforms, whose impact will be felt only in a few years.” But some changes are already visible: “In the last 10 years, we have witnessed a gradual freedom of information on the Internet and this has been granted by the government precisely to announce a future of freedom in the most absolute sense.” It is more risky, however, to make predictions about what will change in terms of governance and foreign and domestic policy. For now, “we only know that there will be a major reorganization of the government which, for example, will dramatically reduce the number of ministries, from the current 40-44 to around 23-27.”

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Co contexts

Civil society guides democracy in Latin America Latin America, with its contradictions and difficult political and economic conditions, is aiming for democracy. The different situations of Latin American countries do not create an equal number of democracies, but just good or bad democracies, so it is important to learn how to best evaluate and measure them.

Latin America no longer has need of the likes of Chávez, Morales, Uribe, another Simón Bolívar figure or similar “saviors of the country.” The existence of an active civil society is a much safer route in terms of democratic quality

by Leonardo Morlino

In recent decades, Latin America has embarked on a difficult road but, nevertheless, it is resolutely aiming for democracy. What conclusions can be drawn today? To answer this question, first of all, it is necessary to specify how a democracy is analyzed to detect its quality and, then, to see how democratic governance has actually been carried out in this area of the world. This is what we will do, also asking ourselves if the “populist siren,” which has had such a large say in the past, is still present. Without dwelling on the debate among scholars, let us remind ourselves that a democracy of quality should be a stable institutional framework through which properly functioning institutions and mechanisms achieve freedom and equality for its citizens. Therefore, a quality democracy is, first, a largely legitimate and stable system, where citizens are fully satisfied (quality with respect to the result). Second, the individuals, associations, and communities that are part of it enjoy freedom and equality at a level that is somewhat higher than the minimum levels of freedom and equality (quality with respect to content). Third, due to their inherent characteristics, the citizens of a good democracy must be able to monitor and evaluate whether and how these two values are achieved through full compliance with the regulations in force (the so-called rule of law), and their efficient implementation, the effectiveness in decision-making, with the political responsibility for the choices made by those elected

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Uruguay, Costa Rica, and Chile are the countries with the relatively highest democratic quality, but Argentina is also in a good position, followed by Brazil

to office in relation to the demands expressed by civil society (quality with respect to procedure). Based on these premises, a democracy has at least eight dimensions of quality that must be analyzed and assessed. The first five are procedural, in that they relate mainly to the rules and only indirectly to the content. They are: the rule of law, or respect for the law; two dimensions concerning accountability or electoral responsibility and inter-institutional responsibility; participation; and competition. The other two are substantive: full respect of the rights that can be extended to achieve the different freedoms and the progressive development of greater social and economic equality. The last dimension to analyze relates to the result and regards responsiveness, i.e., that the responsiveness of governments to the questions and needs of the citizens meets their satisfaction. Without going into a specific analysis of the indicators, on the basis of a scale from 0 (absence of quality) to 5 (maximum presence), in the table below, you can immediately see the state of democracy in almost all Latin American countries. As might be expected, Uruguay, Costa Rica, and Chile are the countries with the relatively highest democratic quality, but Argentina is also in a good position – thanks to the operation of electoral accountability mechanisms –, followed by Brazil, which better achieves control mechanisms among the different institutional powers (column 3). Reflecting on this data, the first question to ask is if there are two models of democracy emerging in the Latin American reality of today, one that is liberal and one that is neo-populist, characterized by high levels of participation and, at the same time, reduced control among the different constitutional powers and low political competition. The answer is no. For example, in Bolivia and Nicaragua, there is great participation and reduced control among the different powers, but the competition is high. In other words, the data shows the predominance of a single democratic model, that is consistently characterized by lower or higher levels of the different dimensions, but not by that opposition and distance among different values in the abovementioned dimensions which char-


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acterizes the neo-populist model. One may wonder, however, whether there are low-quality democracies in which the citizen is called upon to vote, but in which his questions and needs will be ignored until the next elections; where politicians take turns promising measures and laws that they will enact once they are elected or re-elected; where citizens do not have a direct or indirect way of controlling corruption and mismanagement, and where there are no institutions that are able to control the other great powers. In fact, these democracies – or the so-called “delegated democracy,” whose mechanisms of representation and control are very weak – exist and are mainly those of Paraguay, Peru, Venezuela, Nicaragua, El Salvador, and Guatemala. In this regard, take a look at their low scores on the rule of law, freedom, and equality to get a strong indication of the democracies without qualities in this area. Continuing in our reasoning, we can focus on two qualities in which they appear worse than in others: participation and equality. In Latin America, it is well known that there have always been low political participation and high inequality. But our data emphasizes the close connection between these two dimensions, and, more precisely, that a greater participation entails greater equality. Moreover, in contexts

Country

RL

EAcc.

I-I.Acc.

PP

PC

Res

L

E

Total

Uruguay Costa Rica Chile Argentina Brazil Bolivia Ecuador Mexico Colombia Paraguay Peru Venezuela Nicaragua El Salvador Guatemala

3.84 3.78 3.85 2.90 2.83 2.49 2.31 2.04 2.19 2.42 2.12 1.96 1.97 2.09 1.88

4.62 4.65 4.62 4.30 4.23 3.82 3.86 4.08 2.69 3.53 3.85 3.49 3.41 3.70 3.57

3.40 3.84 3.66 3.54 3.90 2.76 3.20 3.28 3.42 2.95 2.35 2.50 2.68 2.64 2.51

3.53 3.29 3.48 3.40 3.43 3.38 2.67 2.82 3.23 2.83 2.78 2.75 2.96 2.11 2.34

4.50 4.00 4.00 3.83 4.33 3.75 3.50 2.50 2.81 2.75 3.67 2.50 3.17 2.50 3.17

4.50 4.50 3.25 4.00 3.88 3.75 3.10 2.75 3.30 2.25 2.75 2.88 2.50 2.88 2.63

4.33 4.25 4.00 3.83 3.50 3.00 2.83 3.00 2.90 3.13 2.58 2.25 2.08 2.17 2.08

3.83 3.47 3.30 3.05 2.50 1.67 2.17 2.33 2.28 2.55 2.25 3.00 2.00 2.17 1.42

4.07 3.97 3.77 3.61 3.58 3.08 2.96 2.85 2.85 2.80 2.79 2.67 2.60 2.53 2.45

Legend: RL = rule of law, Eacc. = electoral accountability, I-IAcc. =inter-institutional accountability, PP = participation, PC = competition, Res = responsiveness, L = liberty; E = social and economic equality. Source: G. Katz and L. Morlino, What Qualities of Democracy in Latin America?, Stockholm, IDEA, 2013

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in which violent and radicalized participation has decreased significantly, so has unconventional participation featuring demonstrations of various kinds and, thus, testifying to the vitality of civil society, which leads to a decrease in inequality. In this perspective, the new democratic Latin America no longer has need of the likes of Chávez, Morales, Uribe, another Simón Bolívar figure, or similar “saviors of the country.” The existence of an active civil society, even at the local level, is a much safer route in terms of democratic quality. These observations lead us to focus more on the issue of equality. If we ask ourselves which are the most markedly unequal countries, we immediately see that they are the ones that are not doing well also with regard to the other dimensions. First of all, this confirms the link between the different dimensions and suggests that it is simplistic to only emphasize the connection between equality and participation: a non-violent participation helps reduce inequality, but to fully achieve this result, there must also be respect for the law, which, in fact, is more limited precisely in those countries that are more unequal. Thus, only in the context of effective law, and after having allowed for a certain amount of time to go by in order to see the effects, does our analysis show that collective action which is expressed in different forms of participation is necessary to improve inequalities. A number of examples can be made to support this conclusion. But perhaps the most significant case is Bolivia, where there is strong economic and social inequality, especially with respect to the Andean people, at the same time as increased participation in different areas, with good results in the direction of decreasing disparities, including that of race. So, to conclude, in Latin America today, there are no liberal and neopopulist democracies, there are just good and bad democracies. And the only possible way to improve them, especially as regards their biggest problem of inequality and poverty, seems to be through participation that is more or less organized, but always non-violent.

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Re report

The war in Aleppo and the future of Syria After the First World War, it rebelled against the Ottoman Empire. After WWII, it gained its independence. After the war that is still raging today, however, Syria may cease to exist. While the world looks away, the country is disintegrating and threatens to drag the surrounding states along with it and fuel the jihad. There have already been 70,000 deaths, mostly civilians. And the power of the Muslim Brotherhood and radical Islamists is growing. What will happen to Syria? For Oxygen, here is an exclusive report from Aleppo. by Gabriele Del Grande photographs by Alessio Genovese

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“May God protect us! I am neither for the regime nor the opposition. Bashar bombards us and the free army robs us. Aleppo was a gem. Today there is no electricity, gas, water, or telephone. Nothing. I have five children, my husband was killed by a bomb and I have come to beg for bread. How did we get to this point? Who has sown all this hatred in the hearts of our children? The soldiers of the regime are our children, too. Who benefits from all this blood?” The women around Amal all agree. There must two hundred of them. Many have children in their arms. They have been standing in line for three hours in front of a building of Masakin Hananu in Aleppo, to pick up a package of food. Some of them are widows of soldiers of the free army. Others, of soldiers of the regime. But in their eyes, it does not

make much difference: whether from one side or the other, they are all called martyrs. Beyond the gate, a middle-aged gentleman comes forward. His name is Yusef ‘Abbud, and he has a trimmed salt-and-pepper beard. With a reassuring tone, he exchanges a few words with some of the ladies. Then he organizes the students to begin the distribution. There are black bags with oil, sugar, rice, salt, and flour. ‘Abbud is a commander of the Free Syrian Army, but today he is not wearing any camouflage. He has come as chairman of the Committee for the Distribution of Goods (Hayat Amr bil Ma’ruf), the civilian branch of the Islamic Front for the Liberation of Syria (Jabhat Tahrir Suriya al Islamiya), the new Islamist coalition of the free army, and the most important as to the number of fighters and political weight. “We have just formed,” ‘Abbud explains to me, “and we already have more than 125 battalions, of which the most important are: Liwa al Tawhid, Liwa al Fateh, Kataib al Faruq, and Liwa al Nasr. More than 30,000 combatants, practically the entire moderate Islamic movement of the free army. Our union is the first step toward the construction of a moderate Islamic state.” The funding of this new formation comes both from businessmen close to the Syrian Muslim Brotherhood and from the governments of Qatar and Turkey. And the food aid that ‘Abbud is distributing to the women comes from an Islamic Turkish charitable organization. “We are working on three fronts. The first is the jihad, the war against the forces of the regime. The second is the security of the liberated areas: we have formed a revolutionary Islamic police and Islamic courts. The third is aid. People are living in extreme poverty. We are assisting thousands of displaced people in Aleppo who lost their homes in the bombings. We are cleaning up the streets from the mountains of garbage, soon we will repair the electrical grid, we are re-opening schools and replenishing hospitals with supplies and medicines.” Armed resistance, safety, and social services. Thus, the Islamists are trying to build consensus in the areas of Aleppo liberated from the regime. But first they have had to bring a

little calm to the city by changing military strategy. Less urban warfare and more targeted attacks at checkpoints, convoys, military bases, and airports of the regime. Consequently, in the last three months, the main bases from which the regime bombed Aleppo have fallen. Bases from which the combatants of the free army looted arms and ammunition in large quantities. Including those that the United States had forbidden sending to the Syrian opposition. Tanks, rocket launchers, mortars, and anti-aircraft weapons. The regime’s Air Force continues to bomb the city, but with less intensity. On the one hand, this is because the planes must take off from Homs and Hama, since the regime no longer has any airports, neither in Aleppo nor in Idlib. Secondly, because the bulk of the fighting has now moved to Damascus. Thus, a new front has opened amid the rubble of Aleppo. However, this time the fighting is not being conducted with weapons, but with aid and services. What is at stake is the consensus for the future government of Syria after Assad. The battle is between the block of moderate Islamists and the radical Islamists’ Front of Victory (Jabhat al-Nusra) who, after gaining acceptance on the front, have restored order in the city and put an end to the looting carried out by the free army. In the vacuum created by the war, in fact, real gangs of thieves have infiltrated the ranks of the free army of Aleppo. Despite being a small minority, they have aroused a lot of attention for their robberies, kidnappings, and extortion on the price of flour for bread. Up until the first two courts in the city were opened: two Islamic courts that apply the religious laws of the Sharia and which are under the control of the radical Islamists of Jabhat al-Nusra. The Americans accuse them of being close to Al Qaeda. The free army has opened their doors like any good ally. In Syria, there must be at least 4,000 Nusra extremists. They wear traditional clothing, do not smoke, do not drink alcohol, do not listen to music, and are the best in battle for the cult of martyrdom that makes them almost wish for death. 15% are foreigners, religious youth rushed to Syria from all over the world, armed to defend the


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oppressed Sunni community. The others are Syrian boys, fascinated by the religious discourse of Nusra and eager to liberate the country from the regime. The feelings of the people toward the Nusra front are a mixture of fear and respect. Fear, because it is radical Islam and the idea of ​​an Islamic caliphate are far from the common feelings. Respect, in that – precisely because of their religious devotion – the men of the Nusra are proving not only to be the best in battle, but also the most honest in the city in their relations with the citizens. However, despite the power and the consensus that the Nusra front has earned in Aleppo in a few months, moderate Islamists do not seem to be worried. General Khalil, the Kurdish head of the military council of the free army and a member of the Islamic Front for the Liberation of Syria, is sure that Syria will take another route. And not just because the Nusra radicals are a small minority of the free army. “Syrian society is pluralistic. Minorities make up 40% of the population. We cannot create an Islamic state. Where would we put the Christians, the Shiites, and the Alawites? The only solution is a democratic state with a large popular Islamist party. It will be the voting that decides. But Syria must continue to be an example of coexistence between religions for the whole world. It is our history. It is our civilization. And we are proud of it.” It is hard to predict, though, when it is the weapons and not the thinking that decides. The echo of gunfire and explosions remind the people of Aleppo that the war is just beginning. The battered minivans of the volunteer fighters of the free army keep going back and forth from the front. These are just ordinary guys. Mostafa was a merchant; Yusef, a carpenter; and Ahmed worked with computers. They bought their weapons with their own money and really believe in the revolution. You can tell by their stories. Many of them were at the demonstrations in the Syrian squares two years ago, in the spring of 2011, when there were uprisings on the wave of popular movements that had led to the fall of the dictatorships in Tunisia and Egypt. For six months, the protest remained non-

violent, despite the brutality of the repression, and despite hundreds of deaths every week: shot by the police at the demonstrations or in jails under torture. Until, disheartened by the immobility of the international community and courted by the petrodollars from the Gulf countries who are Assad’s enemies, a group of deserting officers created the Syrian free army. This was in August, 2011. At first they simply protected demonstrations from attacks by the security forces. Then, supported by Qatar, Turkey, Saudi Arabia, and the USA, they chose a military solution, starting to attack the forces of the regime in the countryside and in cities. The young men of the free army continue to believe that this was the only choice possible. And the only right choice. But not everyone in Syria thinks so. Especially the activists of the anti-war movement. The war has cut them off. The voice of the armies covers the voice of any procession or any strike or civil initiative. So, often from exile, they see their country dragged into a bloodbath by the regime and its allies. By now, at least 70,000 people, mostly civilians, have died. And in that bloodbath they see consensus advance for the Muslim Brotherhood and radical Islamists, the only ones with support from the Gulf countries, which are in Syria to play out a match against Iran. For the Syrian activists in the peace movement, the revolution ended with the beginning of the war. Farzand is convinced of this. He is a Kurdish doctor from Aleppo in his forties, the father of two children. A year ago, he took to the streets against the regime. Today, he has left Syria, leading his family to safety. Talking with tears in his eyes, weighing every word, it is as if he were admitting defeat for the first time. “A year ago, we had a dream. And it was not just the end of the regime. Our dream was to build the future of Syria. After 40 years of dictatorship and terror, the Syrian people had defeated fear, we had found our dignity and started to dream once more. The war has killed all that. I do not want the fall of the Ba’ath regime if then another regime comes along, maybe an Islamist one. And I do not want the regime to fall if the price to pay is the blood of tens of thousands of innocent people.”

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Jordan: the peaceful heart of the Middle East

Syria, Iraq, the Palestinian territories, Israel, and Saudi Arabia. And just a step away, Lebanon and Egypt. These are highly tense boundaries but, despite everything, Jordan, which has long been the mild heart of the Middle East, is divulging its recipe for peace: in ‘48 and ‘67 it welcomed the Palestinian refugees (who now make up 40% of the population), in ‘91 the Iraqis, and now the Syrians, already more than 300,000 of them. Religious tolerance is a reality here and in the center of Amman, Christian churches stand alongside mosques. But the state of Jordan is primarily looking to the future: the population is young (60% are under thirty) and has a high percentage of university access. The capital is a city with great development plans (GAM City Projects, Abdali, and the expansion of the airport) to make it become the main crossroads between East and West: projects have been designed to make it an even more cosmopolitan city, even though it is already very modern and lively, from the cultural point of view. Two years ago, Jordan was one of the first countries to be affected by the Arab Spring, and it found an outlet by following a path of gradual reform and aperture, instead of violence and revolutions. King Abdullah II responded to the protests by dissolving the government and – in June 2012 – the parliament, and introducing a new electoral law (which, however, did not increase parliamentary

power at the expense of the weight of the constraints of tribal loyalties to the crown). After the 10% increase in the price of gas and the ensuing protests in public squares last November, elections were held in January (once again preceded by demonstrations by the opposition, the Islamic Action Front, vastly growing in the country), in which citizens were able to elect their representatives in the lower house of Parliament. These progressive reforms, even if not yet politically decisive, are the result of the vision of a sovereign who is investing in the “new Jordan” in a number of ways, and they concretely respond to the economic crisis that is being felt. The aim of King Abdullah II is the major re-launching of the two leading sectors for the country: the service sector (in this sense, the plan of development and modernization of Amman is strategic) and tourism. Precisely the tourism sector is the pride of Jordan, with its rich and protected heritage, also from the point of view of the extreme safety of tourists visiting the country. Its potential is significant: from the secular stratification of Amman (ancient Philadelphia) to the red wonders of Petra (UNESCO), from the timeless landscapes of Wadi Rum to well-being on the Dead Sea. And there are many more reasons to push for the Jordanian revival and keep peace in the country. (Stefano Milano)

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Id in-depth

Beyond the GDP: a new measurement of well-being For all countries to reach the same level of progress, it is necessary to find a common understanding of development and therefore, common goals. While the UN sets out the goals to be achieved over the next 15 years, the world searches for new indicators that establish what the well-being of a nation is. by Donato Speroni

By 2014, the planet will have new global goals, approved by almost all countries, with the aim of guiding the policies of states and international governance. And this is one of the main commitments of the UN Secretary General, Ban Ki-moon, confirmed at the Rio+20 summit in June 2012. A utopian bet? In order to answer, we need to analyze the outcome of the previous objectives, the Millennium Development Goals (MDGs), approved by the United Nations in 2000 and to be achieved by 2015. 2015: We can end poverty, proclaims the heading of the website dedicated to the UN Millennium Development Goals, and already the slogan tells us that the goal has not been reached. There were eight objectives, from the cancellation of extreme poverty and hunger, to gender equality and empowerment of women, from primary education for all children to the fight against AIDS, malaria, and other diseases that especially ravage the most backward countries. Each objective was made up of a series of indicators, more than 60 in all, whose constant verification would clarify if the world was on the right track with respect to the stated goals. For example, the objectives of the fight against extreme poverty and hunger included nine indicators: from the proportion of the world’s population living on a maximum of one dollar a day to the incidence of underweight children under five years of age. The Millennium Development Goals have not been fully achieved, but they have given a strong boost to the quality of the overall statistics: today, it is

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easier to monitor health in the world, even if the resulting diagnosis is not comforting. However, it should be noted that this picture is not entirely negative, mainly due to the tremendous progress in Asia, whereas Africa, especially sub-Saharan Africa, has remained far behind. The main flaw of the MDGs, however, was that they had been imposed from above, approved in the wake of the hopes for the beginning of the new millennium, but they hardly ever became a conscious goal of national governments. In politics, numbers that do not become tools of analysis, mobilization, and consensus end up having little meaning, and this is the error that Ban Ki-moon wants to avoid with the new targets for the years beyond 2015. Preferably, they would be established through an extensive process of discussion and sharing, and at the same time, take into account the changes in sensitivity gained over the years, especially related to climate change. In fact, the new objectives will be called Sustainable Development Goals (SDGs). Having found the name and traced the path, we must admit that filling the SDGs with content is not at all easy. As the name suggests, the new global goals will give more importance to sustainability, and therefore to the environment. The Doha Conference which ended in December 2012, however, confirmed the great difficulty in achieving an agreement between countries on objectives which may serve to contain climate change. It will not be easy to add shared parameters concerning emissions of carbon dioxide or other climate-changing factors. Both the old MDGs and the new SDGs do not take into account the dynamics of the gross domestic product of many countries.

In politics, numbers that do not become tools of analysis, mobilization, and consensus end up having little meaning, and this is the error that Ban Ki-moon wants to avoid with the new targets


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The major objectives of the UN are, in fact, part of a process that has gained strength in recent years, which tends to provide policymakers with new tools for assessing the progress of those societies that are called upon to lead. The economic crisis has increased awareness that the measurement of the GDP is no longer sufficient, that parameters are needed to detect the distribution of wealth among families, the actual well-being of citizens or even their happiness, and to assess whether this prosperity is sustainable over time or whether it comes at the expense of future generations. The best-known work in this field is the report developed in 2009 by the Stiglitz Commission, commissioned by the French President at the time, Nicolas Sarkozy, and led by Nobel laureates Joseph Stiglitz and Amartya Sen, and the French economist, Jean Paul Fitoussi. Equally important is the process initiated by the OECD through the Measuring Progress initiative, promoted by Enrico Giovannini, the current president of Istat, when he was chief statistician in the Paris organization. The last Global Forum on this subject was held in New Delhi in October and “photographed” a situation where many countries are developing measures of well-being. There is no longer only the legendary Bhutan with its index of gross domestic happiness: from China to Thailand, from Canada to Britain, work is being done to define new parameters that could also become the objectives of different political action. Including Italy, which in 2013 will present the parameters of equitable and sustainable well-being (BES), developed by Istat and CNEL. There is also an OECD website, wikiprogress.org, which collects all the work in progress on this issue; the OECD also proposes an indicator, the Better Life Index, which compares the well-being in the major countries of the world according to subjective parameters. The user can change the weight given to each component, because the quality of life obviously depends on different cultural and individual propensities:

for example, there are those who attach more importance to social relations and those who favor trust in the institutions. Originally, it was hoped that the new indicators of progress could replace the GDP. In these years of intense work, especially after the release of the results of the Stiglitz Commission, we have realized that the GDP should not be deleted but complemented by other indicators. First of all, it is difficult to construct an indicator that has a value of global comparability similar to the current “national accounts” of which the GDP is a part, and whose methodology is elaborated with shared international standards. It is even more difficult to gather the set of all the factors that contribute to well-being into a single index. The only way to reach a parameter of universal well-being would be to focus on the measure of happiness, a goal common to all mankind. The Gallup poll already does so, periodically asking a sample of people from over 160 countries: “On a scale of zero to ten, how satisfied are you with your life?” According to the economist Richard Layard, who has inspired many studies on happiness at the London School of Economics, only an indication of this kind could have enough political and media strength to be a substitute

for the GDP within a generation. But there are many problems, because the subjective responses vary from one country to another (for example, Asians rarely give a vote of more than seven, the Anglo-Saxons use the entire scale) and they may also be influenced by situational factors, such as the day on which they respond, or if the weather is good or it is raining. Furthermore, some studies in the United States have shown that when the questions about their well-being follow questions on the political situation, the happiness index tends to decrease. In short, the subjective perception of happiness is not very reliable. In conclusion, there is now general agreement that it is necessary to establish new national and international policy objectives that go beyond the production of wealth. For now, however, it is best to measure these objectives with a “dashboard,” a set of several welfare indicators to be monitored, rather than dream of a “new GDP” that marks progress in the twentyfirst century just as the gross domestic product marked that of the twentieth century. Moreover, the health of the human body itself is assessed with hundreds of analyses, without there being any presumption of measuring it with a single super-index.

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GROSS DOMESTIC HAPPINESS

Human happiness is very subjective and therefore, difficult to follow in a way that is universal. But learning to measure it could facilitate the task and even help in preferring its achievement to that of increasing the GDP. With this in mind, since 1972 the Buddhist kingdom of Bhutan has asked its population to orient their policies toward the promotion of Gross National Happiness (GNH), to make the people grow together with their country. A special commission measures the GNH through nine aspects: psychological wellbeing, use of time, community life, culture, health, education, biodiversity, quality of life, and government operations. And Bhutan’s latest results are very significant: 52% of the people said they were happy, 45% very happy and only 3% is not very happy. Happiness that cultural differences do not affect: “Someone asked us how these values act ​with respect to cultural and religious diversity. But we are talking about universal values ​​that everyone shares,” said Prime Minister Jigmi Y. Thinley at the Science Festival in Rome.

There is now general agreement that it is necessary to establish new national and international policy objectives that go beyond the production of wealth

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Id in-depth

An emerging country to head the WTO This year, the World Trade Organization (WTO) will become the first major international economic institution to be led by a representative of an emerging economy, but this watershed event is marked by a no holds barred challenge between the two countries with the most qualified candidates: Indonesia and Brazil. by Maurizio Molinari

Pascal Lamy, the French director of the WTO, will end his term at the end of year and by August, the 157 member countries will have to have reached an agreement on the name of his successor. Seeing as how the IMF is led by France’s Christine Lagarde and the World Bank is headed by the American Jim Yong Kim, emerging economies are claiming the position with a determination shown by nine candidates formally in the field. Indonesia was the first to make a

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move, focusing on Mari Pangestu, Minister of Tourism and of the creative economy, a strong advocate of the need to tear down trade barriers between the emerging nations in order to strengthen their role in driving the planet. The candidacy of Pangestu is solid because Indonesia is one of the emerging nations that has shown to be the most prosperous in the last 18 months, it is the most populous Muslim democracy in the world, and it can count on two allies of the first magnitude: the United States, which considers it to be a strategic ally, and China, to which Pangestu is linked by belonging to a Chinese ethnic minority and which regards her as a kind of emanation of its influence in the Far East. If you add to this that U.S. President Barack Obama is personally linked to Indonesia, having lived in Jakarta as a boy, and Pangestu represents the promotion of free trade in the Pacific (which is also dear to Japan, India, and South Korea), it is not hard to imagine why she is the candidate in pole position. But since we are seeing the first real challenge among the new leaders of the global economy, by definition the game is open. Hence, the

focus on the major rival of Pangestu, Roberto Carvalho de Azevedo, Permanent Representative of Brazil to the WTO, whose strength lies not only in the numbers of the greatest Latin American economy, but also in the fact that he can count on the support of Russia’s Vladimir Putin. The recent trip to Brasilia by Dmitri Medvedev, Prime Minister of Russia, has served to cement an unprecedented axis: not only has the Kremlin delivered anti-aircraft missiles to President Dilma Rousseff to protect the next Olympic Games and is interested in competing with Beijing in the procurement of raw materials, but it also supports his candidacy for the leadership of the WTO, of which the Russian Federation recently became a full member and wants to prove that it takes the membership very seriously. Although it is true that an Asian already headed the WTO before Lamy (the Thai Supachai Panitchpakdi, from 2002 to 2005), in this case, we are faced with the scenario of an internal challenge of the BRICS – Brazil, Russia, India, China and South Africa – concerning the head of the WTO, with Beijing not against Pang-

estu and Moscow aligned strongly in favor of Carvalho de Azevedo. This is enough to turn the race for the leadership of the WTO into a barometer of the new planetary equilibrium. But there is more, because there are seven other players among the contenders, at least on paper. Africa is proposing Alan John Kwadwo Kyerematen, former Trade Minister of Ghana under Kofi Annan, and Kenyan-born Amona Mohammed, Deputy Secretary General of the UN; while among the Latin American candidates, Mexico is playing the card of Herminio Blanco, former Minister of Commerce and Industry; and Costa Rica, their homologous Anabel Gonzalez. The other candidates from Asia are the trade minister of South Korea, Taeho Bark, and his colleague from New Zealand, Tim Groser. This is a race in which having a candidate means being able to play a role in the new ad hoc economic balance of the planet. Mexico, for example, plays the role of unifier of the Latin Americans, declaring its readiness to support the Brazilian candidate, simply in order to play the role of kingmaker, just as Seoul, which already has UN Secretary-General Ban Ki-moon, knows


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it cannot prevail but has a different type of goal: to show it is able to have worthy candidates for every major international appointment. As WTO spokesman Keith Rockwell admits, “There have never been so many candidates for the leadership of our organization,” and if Pangestu, 57, plays the role of the favorite, it is because of the sum of her economic experience gained over many seasons: during Indonesia’s opening to trade in the ‘80s; in the difficult phase of overcoming the financial crises of the ‘90s and the debut in the global balances as a result of the financial crisis that hit the United States in 2008, leading to the success of the G20 as the most important forum on the issues of the world economy, despite the G8. The formal decision on Lamy’s successor will be adopted at the summit in Bali in December, but the agreement must be reached this summer, and the decision in February of the U.S. and the European Union to launch negotiations for the “Transatlantic Partnership” of trade and investment appears set to give the Euro-Atlantic block a driving role in favor of the agenda of the new direc-

tor, or that is to say, the acceleration toward the liberalization of trade. The problem to solve is the stalling of the negotiations initiated in Doha in 2001, which then failed in Brazil in 2008. The various vetoes that prevent the unblocking of these negotiations, especially on difficult terrain such as agriculture, explain why the United States has chosen to take the initiative: offering a free trade “partnership” first to the partners in the Pacific and then to those of the Atlantic, President Obama aims to create a de facto alternative to the WTO, forcing emerging economies to react so as not to remain isolated. If the WTP countries cannot agree within the Doha framework, Obama is creating a network of free trade agreements from the bottom up which is oriented in the same direction. “The global economy, on the other hand,” as Nobel Prize winner Robert Mundell, a professor at Columbia University, explains, “is a balance of blocks” and therefore the strongest is the one who manages to unify the greatest number. The positions of Pangestu in favor of the liberalization of trade between emerging economies seem to meet

the vision of Obama, supported by the leaders of the European Union and Japan, whereas so far, Brazil has paid more attention to defending the markets of those countries which want to be strengthened first and only later to begin to cut down the rates. Not surprisingly, within the IMF, Brazil was the most aggressive of the BRICS countries – along with India – against the eurozone, during the financial crisis of 2011-2012.

“The global economy,” Nobel Prize winner Robert Mundell explains, “is a balance of blocks” and therefore the strongest is the one who manages to unify the greatest number Among the analysts who follow the multilateral negotiations on the replacement of Lamy – also passed through the work of the Forum in Davos – curiosity has been directed particularly at the possible agreement between Washington and Beijing on

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the Indonesian candidate because, if it were to actually happen, it would permit a convergence to be found between the two great economic powers, protagonists of fierce fighting on rates and competition exactly in the sense of the WTO. In Beijing, the new president Xi Jingping took office this past autumn and there are those who are betting that the terrain on which to build a new relationship with the United States of the Obama administration is to be found precisely within the WTO, also in order to balance the tensions that arise from mutual polemics against hacker intrusions. But the situation is very fluid for the simple reason that the trade fibrillation between Washington and Beijing is such that it could trigger sudden accelerations at any time. Such as what occurred in February, when the U.S. decided to restrict the export of liquefied LNG to the People’s Republic of China. The other situation concerns the unknown giant, New Delhi, protagonist in the last weeks of a clash with the United States within the WTO on the development of solar panels, and which, so far, is sitting on the fence with regard to the challenge of the succession of Pascal Lamy.

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Op opinions

Occupy… What? The Indignados in Spain, the Occupy movements in the United States and the United Kingdom, and the Yo Soy 132 group in Mexico. Thousands of people camped in Madrid, London, and on Wall Street in 2011 – when the international financial system seemed close to collapse – was this only a short, noisy protest carried out by students who were tweeting on their iPhones? Or was it something deeper, which has left a mark on democratic government? by Tom Kington

In October 2011, Italy made a small contribution to the history of the Indignados movement when about 30 tents were pitched outside the Basilica of Santa Croce in Jerusalem by protesters and a massive banner featuring a ferocious dragon was set up in front of curious commuters. The dragon was a joking reference to Mario Draghi and a depiction of the struggle with a banking system accused of bringing the global economy to its knees. But the campers were less convinced about where they stood. A group was sitting on the gravel in a circle debating the essentials of their new existence, from who was doing the cooking to where to put the rubbish. And when I approached them for an interview about what they were protesting about, I was told that no one was talking to journalists. “We will only speak with one voice,” someone said. “There are no leaders and no spokesmen, come back tomorrow when we will have agreed on our manifesto. You can read it then.” Understanding exactly what the Indignados in Spain, the Occupy movements in the U.S. and the UK, and the Yo Soy 132 group in Mexico stand for, and whether they have anything in common, has been a challenge from the start, and deciding how they have influenced mainstream politics is even harder. Were the thousands of people who camped out in Madrid, London, and on Wall St. – as the international finance system appeared close to

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The Occupy uprising did bring the issue of economic inequality to the forefront of the American political discourse and debate in a way that left-wing scholars and organized labor had been unable to do

breaking down in 2011 – just a brief, noisy protest held by students twittering on their new iPhones? Or something deeper, which has left a mark on democratic government? The wave of protest got underway in Spain, where the property bubble had burst more spectacularly than anywhere else in Europe, and, as youth unemployment reached 42 percent – an EU record –, thousands turned out to protest in 58 cities on May 15th, 2011. Protesting against their politicians’ handling of the economy, against the role played by the banks in creating the bubble, and defending social spending against cuts, up to eight million Spaniards went on to take part in the months of protests and regular clashes with police, with three million taking part in nationwide protests on June 15th alone, when police fired plastic bullets in Barcelona. Bedding down in piazzas, protesters formed committees to feed themselves, figure out how to use the Internet to communicate with the world, and find legal assistance in case they got thrown in jail On July 24th, thousands of protesters marching from all around the country arrived in Madrid to demonstrate under the banner “It’s not a crisis, it’s the system.” Two years later, the protests have died down, but the movement is still alive, as a correspondent for Spain’s “El Periodico”, Rossend Domènech, said. “They forced the government to approve legislation stopping evictions for non-payment of mortgages,” he said. “They have also pressured banks into letting tenants stay in their homes, or allowing them to hand the houses back in order to pay off mortgages and arranging accommodation in any of the thousands of empty flats in Spain,” he added. But in the meantime, the movement’s national profile has faded. “There is no more camping in piazzas, it has become amorphous, split into different groups at the local level.” And that was a meager result for a movement that had brought millions into the streets, he said, “So many people produced a rather limited effect, and that was because a leader did not emerge, precisely because they said they did not want one. Even the people seen as men-

tors of the movement did not have any ideas as to how objectives could be reached,” said Domènech. The result was that the movement never entered into national politics, “partly because the Socialists did not see any advantage in it, because they were scared of being rejected by the movement, or dominated by it,” he said. In London, the tents that were erected outside St Paul’s Cathedral on October 15th, 2011, have also been packed away, but there is no doubt that protesters struck a nerve in voters from across the political spectrum. Riding a wave of opposition to the UK government’s bailing out of banks hit by the subprime crisis, the Occupy London movement demanded greater transparency in the City of London and less tax avoidance by big corporations, as well as a defense of health and social spending. By January 2012, British Prime Minister David Cameron was claiming executive pay needed to be reduced, a sign he was listening to a protest which was gaining support among conservatives. Remarkably, in October, the director of the Bank of England, Andy Haldane, admitted that the protesters were right to claim the financial sector needed radical reform and that inequality had helped drive the financial crisis. “The movement was characterized by great discussions which put university seminars to shame,” said Rodney Barker, Emeritus Professor of Government at the London School of Economics. “It recalled the teach-ins of the 1960s, and mixed old fashioned debate with new communications technology,” he said. Barker claimed Occupy London had “shifted the center of gravity” in the discussion of capitalism in the UK, introducing a moral element. It was no coincidence that the protesters found a home outside London’s most famous church. “They said the creation of profit was not an end in itself, that public policy had a moral dimension, and this rang bells with old-fashioned conservatives.” The recent outcry in the UK over tax avoidance schemes used by Starbucks and Amazon were the consequence, he said. “When corporations say they have broken no laws, the response is ‘That’s not the point.’ These companies have been told they cannot have the benefits from the state unless they contribute and


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that is a conservative argument usually aimed at people accused of stealing welfare benefits.” Occupy London took its lead from the Occupy Wall Street movement, which took possession of Zuccotti Park on September 17th, 2011. Using the slogan “We are the 99 percent” to highlight the income gap between America’s wealthiest one percent and the rest of the country, the movement vowed to take on the U.S. banks and financial services companies which they said controlled the White House. Novel forms of democratic debate were developed in the square, including a system known as “stacking” to allocate places in a queue of speakers in group discussions that had no leaders. Without permits to use megaphones, the protesters invented a system called “the human microphone,” where audience members would repeat, in unison, what the speaker had said. Social media played a crucial role, just as it did the following year in Mexico, where the Yo Soy 132 student movement, born on YouTube, challenged the power and the alleged bias of Mexico’s TV networks. But as in Spain, the U.S. movement discovered that, while having no leader and no platform of proposals meant ideas flowed more easily, there was no one to sell those ideas to the wider public. “The Occupy uprising did bring the issue of economic inequality to the forefront of the American political discourse and debate in a way that left-wing scholars and organized labor had been unable to do – despite decades of trying,” said Georgetown University professor Michael Kazin. “It was one of the elements which persuaded Obama to adopt a more economic populist message in 2012. But it never quite got consolidated into a movement,” he said. Moreover, many of the activists involved have since gone on to local campaigns, halting evictions, campaigning against low wages, and helping victims of Hurricane Sandy get funding, he said. “But as has happened with earlier uprisings of the U.S. left, the Occupy movement may have helped change minds but, at least so far, it has not managed to build a durable movement.” That was not inevitable, Kazin said, pointing to the antiVietnam, feminist, and Black Power movements, which also lacked a

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central organization. Unlike Occupy Wall Street, “they were able to formulate strategies that went beyond sitins and the demonstrations which those sit-ins spawned. And more importantly, they could offer reasonably clear solutions to the problems they were protesting,” he said. Back in Italy, one protagonist of the Italian movement, Gianfranco Mascia, said he was not optimistic that the Occupy-Indignados momentum would keep going, but claimed that was not the point. “It’s the networks you create that are important – that is what counts.” When I returned to the Basilica of Santa Croce in Jerusalem a day after my first visit in 2011, I met Giulia, 30, an architecture student from Venice who said taking part in the protest had stimulated her interest in saving her fragile hometown. “I am curious to know more about the events going on in Venice which are similar to this,” she said. “This experience has been something which could be really useful to me in life.” Moving on, I searched for the manifesto the protesters had promised, hoping to get an idea of what they had decided to fight for. With the pouring rain, few had ventured out of their tents, but I eventually found a piece of cardboard nailed to a post with their manifesto written in felttip pen. But after hours of rain, the ink was blotched, rendering the writing all but illegible.

When corporations say they have broken no laws, the response is “That’s not the point”

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Op opinions

The new ‘68 is on the Internet

The result of the last election plastically shows the end of a lifecycle of the republic, but also makes it clear that you can get 25% of the votes if your sole media “friend” is the Internet

“The Internet is a place that is all the rage for passions, great battles, and personal identity within groups, made up of the natural, physiological avant-garde, of neurosis, and a lot of solitude,” but in recent years, above all, of political fervor. Referendums, regional elections, and policies: the relationship between the Internet and democratic expression in Italy. by Jacopo Tondelli

In the beginning, in the America of 2008, it was Barack Obama. At the end, in the Italy of 2013, it fell to Beppe Grillo. It is in this five-year period, and in such diverse results as these, that the definitive dismissal of twentieth century media is circumscribed. A wave arose in the United States, in the land of Silicon Valley, and an apple with a chunk missing changed the tastes and gestures of a new global intelligentsia. From Obama onward, nothing would ever be the same: television is no longer the media which shapes and spreads the decisive opinions for winning elections, while the newspapers in print, already in 2008, often spoke of this because many were closing down and others were in danger of doing so. The wave, the force, the rhetoric, and the fashion of the Internet as a great political player took

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five years to fully cross the ocean and take the form – most definitely not Anglo-Saxon and instead, markedly Latin – of Beppe Grillo. Moreover, he is the only candidate who was already fully present on the Internet when his “descent into the field” was still just a long series of hypotheses, while users of the Internet in Italy were half the number of those who use it today. The result of the last election plastically shows the end of a lifecycle of the republic, but also makes it clear that you can get 25% of the votes if your sole media “friend” is the Internet, where Beppe Grillo and his team are right at home. But this is also the fault, in recent years, of those who believed that 15 lines of very prestigious ink mattered more than twenty thousand Facebook page contacts. And in short, Grillo placed himself on the Internet as if it

were an assault platoon in the open field, and the results are evident. In a network which by definition has no master and expands the resources to infinity, Grillo moves with (legitimate) strength from a dominant position he has built up in recent years, without encountering any real cultural resistance. And, therefore, to understand how we got where we are today, and how the founding myth of the Obama campaign is translated into Italian as “Five Stars,” it is necessary to retrace some intermediate stages, a few decisive moments, that happened right in the middle of this five-year period and definitively changed the world and our way of getting an idea of things. Think of the elections of 2011, of the voting in Milan that marked the defeat of the center-right and the victory of Giuliano Pisapia: nothing like this had ever happened since 1994, which ushered in the Second Republic with the voting. And political participation that passed via the Internet, on that occasion, did indeed count. There were waves of viral sarcasm from supporters of the mayor, when Madame Moratti confronted Pisapia on television about a car that had never been stolen, according to which the catchphrase was “it’s all Pisapia’s fault.” A safe use (even then, without adversaries) of the mechanics of the Internet, its ability to beatify, consolidate, or devastate a reputation, responds to the classic garrison of press offices that rely on relationships, the occupation of spaces, and some shaky historical rapports that by now have

reached the end of their empire. When the game is uneven, usually those who are oblivious of the Internet and already feel defeated by it are ill-advised to buy a few hundred thousand fans and followers, and that time too, of course, all of this happened. Forgetting an essential, constitutive fact of the Internet: and that is, no one can be deprived of the same right to express themselves according to their own beliefs (however formed) as the best-known, noble, and authoritative commentator. And then, buying clicks and likes on Facebook is useless – though perhaps not to those who sell these services – because politics also means getting votes, having sincerely favorable opinions, ideas, and actions that are appreciated, and not boasting of having all this, feeling smug because of some schoolboy tricks. The proof, moreover, came a little later. A month after the regional elections – in which the creaking of an era resonated strongly, almost seeming to collapse – came the referendum: water utilities, nuclear power, legitimate impediment. Themes that were made especially for a public opinion movement that was strongly motivated ideally, or ideologically, and no doubt strengthened by the “popularity” of the Fukushima disaster that had just happened; but, after eighteen years, in which the word “referendum” has become synonymous with fiasco, it was hard to believe in the quorum. To strengthen skepticism, in addition to recent history, there was also the perception – clear and corrobo-


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rated by data – of a record-breaking underexposure of the referendum by the traditional media, little room for serious debate on the significant issues, a few tussles among politicians good for all the contexts and little else. That is how things were on TV and in the newspapers, but not on the Internet. For months, very active committees had been beating the path of the contents, of the arguments, and their propaganda. The same committees coalesced around the nuclear disaster in Japan, of course, riding it, but also employing a strong word of mouth and a series of substantiated networks already in place. The fact that, in those days of fear, with regard to the referendum and everything it represented, Beppe Grillo threw himself into raising the temperature counted a lot, but that is certainly not surprising. So here we are, back again in the present time, when the great platform of the crossroads of media and people that is called the Internet is a major contributor in deciding the political balance and the state government, changing our lives, habits, attitudes, and consumption, yet it does not make us feel any closer to the state nor make it truly more efficient. Therefore, it is striking to see that the Internet taking root has not helped to contain public expenditure nor to improve the reputation of the offices of the state. After all, for the way in which it is made manifest and for the leadership that recognizes it, the Internet of Italian politics has begun to have an established face, in which the few strong subjects are offset by

masses of the inexperienced. It is a place that is all the rage for passions, great battles, and personal identity within groups, of the truly avantgarde, outposts of neurosis, and a lot of solitude: looking for companionship in a community that is more or less political, of similar people who recognize each other through the Internet and all of its filters. A community that seeks out one another, off-line of course, perhaps around symbols representing the hearth of the third millennium (Grillo followers “meet up”) and who, via the Internet, refine (but most of all establish) the line. Thanks to the Internet, you can learn all the catchwords, watch what is happening in the crowded squares if you are not able go there yourself, read and write, complain and propose: in any case, say what you have to say. What route the relationship between the Internet and democratic expression will take in Italy, of course, depends on many factors, and in the end, it is always how each actor will perform that is significant, be it known and important to other media, or be it at any level of the “food chain” of the information conveyed by the Internet. What is certain is that – as so often happens – we only realize that there is an issue, that a problem was brewing, when it is too big to be ignored and managed. It is uncanny to remember, twentyone years after its publication, the political testament of Fabrizio De Andrè; on his blog, Beppe Grillo often acknowledges it as one of his intellectual reference points.

In Domenica delle Salme, the Genoese singer-songwriter pinpointed the agony of a republic, back then firmly planted in its infinite twentieth century, balancing between TVs, absent with regard to its failures, and with shameless greed of all kinds. And the Italians? And Italy? In response, “from Palermo to Aosta, voices swelled in a chorus of vibrant protest.” As these last words faded out, Fabrizio De Andrè would let the deafening roar explode. Twenty years have gone by, the media has changed but not the distortions in thinking and structure. The chattering has grown up, knotting anger and proposals into the same fabric that now surrounds us. Like a network.

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Buying clicks and likes on Facebook is useless because politics also means getting votes, having sincerely favorable opinions, ideas, and actions that are appreciated

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Correctness generates reliability, and this gives authority to those who inform, which becomes a determining factor in public opinion. This is the central concept of credibility 138


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Id in-depth

Journalists are still useful Today, journalists carry out their profession in a globalized context, quickly reaching anyone in any country. So the role of those who must offer clarity, transparency, credibility, and completeness – and always faster and faster as required by the Internet – is even more delicate. Because information generates awareness and the choices in a world of constantly shifting balance. by Antonio Preziosi

Information and its government: it is not at all an easy task to find the right balance between the need for common rules and the proper maintenance of a constitutionally guaranteed right. Recent studies of law and economics have analyzed the problem of information, dividing it into “informing” – the manifestation of freedom of expression as sanctioned in Art. 21 of the Constitution – and “inquiring,” i.e., the citizen’s right to the information needed to make their own choices freely (and, thus, the basis of all the freedoms protected by our Charter). Therefore, if the first task is the governance of the journalistic profession, the second one concerns the whole set of rules ensuring that, firstly, citizens receive news that is complete, and secondly, that the flow of information is not vitiated by behavior that is not very transparent or is incorrect. The task of the journalist, in a nutshell, is to ensure all this, and to act with a great sense of responsibility and spirit of service toward the news, fully exercising what we might call the “social function” of the journalist. The information operator performs his or her profession in a global and globalized context: news – thanks to the Internet – can easily travel around the world in seconds, and be communicated in all known languages. On the one hand, this encourages journalist to “hurry,” in an understandable and even necessary logic of competition; on the other hand, it should induce him or her to make careful checks, because it could lead to the spreading of a false,

or partially false, story. The Internet has certainly changed journalistic information and continues to do so. But the speed is the same and the multiplication of sources of information should not overshadow an absolutely imperative rule. It is the oldest and most traditional rule, and dates back to before the advent of the Internet: the verification of the sources. This is a simple yet essential work method for those who want to guarantee the rights we mentioned. It helps avoid a major pitfall: that of confusing the true with the plausible, which means creating misinformation. This is the real danger of a profession that is not performed in full compliance with the rules and ethics. Therefore, being “massively” informed does not necessarily mean being better informed: selecting news from the indistinct flow of facts is the task of the journalist, who thus becomes a mediator. There is, therefore, no need to regulate such a delicate matter right down to the smallest detail, because – as already mentioned – it concerns the right contained in our Constitution and, as such, is “predominant.” However, a supranational regulation simply does not exist. There are no rules governing global journalism. Moreover, just the consideration that the profession of journalism must be carried out respecting the professional ethics should suffice, and not many other rules will be needed to fill this vacatio: clear, fair, transparent, and complete information. The very essence of what it means to be a journalist can be found in these adjectives. Compliance with these professional “obligations” is, in fact, essential to ensuring the proper flow of information. Charges of transparency – as well as putting the operators on a level of competitive equality – provide the ability to independently verify the reports that circulate in public. Correctness generates reliability, and this gives authority to those who inform, which becomes a determining factor in public opinion. In the era of the digital revolution, this is the central concept of credibility, which is also reflected in the concept of the Internet reputation. In the world of information – on the Internet – credibility must be achieved every day and is credited over time only through the journalist’s ser-

vices, insights, and reliable inquiries, giving a glimpse of in-depth and honest reality. This credibility should never be taken for granted: it must confronted day after day with the attention, trust, and criticism of every single citizen. The ingredients of this credibility are precisely the accuracy, transparency, and completeness of the information. Clarity also allows for the spreading of information that must reach the most people possible. In addition, there is another requirement, that of the timeliness of disclosure: only a minimal “processing” time will permit the journalistic profession to be in step with the times and never – let us always remember this – to the detriment of the certainty of the news and the verification of sources. The request to the media is for a modernity which often puts them to the test. The news and media are part of an international market by now. This requires a reflection on the role of the journalist, who has become the watchful eye on global governance and not just the watchdog of national power. In the absence of a “sovereign world order,” the meetings of the heads of state and government of the countries affected by economic growth, and the financial revolution (and its crisis) are of special importance. Both in the form of bilateral summits, and as a formal or informal multilateral consensus: all events that delineate the international community “in the making.” A living law that does not confer rules and references that are always certain. Relating these moments is a challenge for the journalist, who must be constantly updated and trained: we repeat – in order to inform, we have to inquire. This is a fundamental step to ensure the right safeguarded by Article 21 of the Italian Constitution. The recent economic crisis has taught us a lot in this regard. It has “forced” all information professionals to study, to understand first-hand what is happening in the world, and then be able to explain it to the users of the information. The media has shaped and informed citizens, explaining the new terms that have become standard (spread, subprime default...) and updating them on the progress of the crisis and the effects it has created in our daily lives, without generating alarmism

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or ignoring the possible scenarios, even negative ones. Information acts as a magnifying glass for seeing the current events and generates awareness. And awareness determines the choices of citizens. For example, in relating the story of a global crisis like the one that is sweeping the Western world, the journalist must distance himself or herself from anything that may jeopardize their reliable information: a superficial analysis, news that is reported but not verified, the choice to omit or emphasize certain financial indicators. All this does not help the general public in restoring the resources and tools to overcome the crisis. Of course, anyone who provides information is never a mere observer. They do not treat the news aseptically or surgically; instead, they choose, assess, and even intervene. But this can be done responsibly only if they understand. Ultimately, that is the very substance of the job of the journalist: a seeker of truth who prunes everything that is not needed, that is superfluous, or that distracts from the final objective, from all the elements that he or she collects. The journalist must seek objectivity. It is a method, a tension, a state of mind that inspires them while writing a piece, or while communicating the news. Of course, the journalist is not being asked to have no opinion, but rather, to separate it from the facts, not to trade an opinion for a fact, and to always have transparency with respect to the targeted audience of their information activities. This is truly a must for the journalist. This is what shows their sensitivity on the matter and the strong sense of responsibility that there should be in everyone who works in this context. And this is where the importance of education arises. The more the media proliferates and is specialized, the greater its necessity to be able to communicate. For this reason, we have moved from the craft learned “on the road” to the profession, to training that requires more and more education and specialization, normally through formal university and post-graduate education. If you do not want to be out of the game, communicating is obligatory and learning the rules (technical and ethical) before putting them into practice is a must for every aspiring journalist.

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Sc scenarios

by Marco Valsania

a country of reference than a first among equals. The United States, with its vocation and global reach, will remain at the heart of the rethinking and the effectiveness of alliances and multilateral institutions such as NATO and the United Nations. With the initiation, at least officially, of the end of open conflict and combat missions – in Iraq and Afghanistan – that have afflicted Washington in recent times, attention will also decisively shift to the vaster regions of Asia and the Middle East as potential trouble spots or laboratories for solutions. Therefore, the concern for the coming decades is now an integral part of the debate that is not at all only for the academic elite of the U.S. This

American intelligence network. Rather, it is a document of real policy, the compendium of an open debate that is also taking place abroad, involving civilian experts from different backgrounds. The latest and fifth version, announced just recently, examines precisely the goal of 2030. And right from the very start, it clearly delineates the horizon within which the dynamics of conflicts and peace will develop: “In 2030, the world will be radically transformed with respect to the world today. By 2030, no country, neither the United States, nor China, nor any other great nation will be a hegemonic power.” The two key concepts used to conceptualize the dynamics are the me-

New York. An increasingly multipolar world, which inherits old wounds and has to deal with new challenges. A world that needs more cooperation and leadership in order for peace to “break out.” Otherwise it will risk having to live with the conflagration of a myriad of conflicts and their contagion. The crystal ball that raises the curtain on the international stage in the near future offers few certainties – fewer and fewer than fifteen or twenty years ago, or even further back. On the threshold of 2030, the regions and the root causes of conflicts – or of potential solutions in the shadow of diplomacy and peace – are inextricably linked. Think of the Middle East, which in part has inherited its past and its present, with the continued impasse in the Israeli-Palestinian crisis and the Arab spring, where the contention was about essential resources such as water. And another part is the result of the still evolving trends or new unknowns that are preparing to play a decisive role, from technological revolutions to economic crises, from the greenhouse effect to population growth, up to the affirmation of China’s power in foreign and military policy, which goes well beyond its economy. The challenges that this fragmented world will have to deal with are particularly relevant to a power which, according to all the analysts, although no longer the absolute and unrivaled superpower of the post-Cold War years, will be more

is a debate that started within the intelligence apparatus, drastically reorganized in the years following the war on terrorism – in spite of the difficulties and mistakes – into a complex structure that must prove to be more capable of gathering, sharing, and processing information in response to failures that still smart. One of the products of this transformation, in theory, is an extensive yet little-known analysis by the National Intelligence Council, Alternative Worlds, devoted entirely to outlining the alternative worlds of tomorrow. Created in 1996-1997, it is not a typical dispatch of the secret services, even though it was developed under the auspices of the National Directorate which coordinates the

ga-trends, namely the major trends that appear to be of great impact, and the game-changers, i.e., critical events that are not necessarily predictable which can dramatically affect the reality that will take shape. A separate chapter is required for the new disruptive technologies. The interplay between regions and issues, whose solution can generate stability but whose degeneration threatens to be the driving force of local crises that threaten widespread contagion, is identifiable starting from its elements. There are three major trends that will undoubtedly become “driving forces,” starting with the emergence of multi-polarity. In addition to China, countries such as

War and peace “In 2030, the world will be radically transformed with respect to the world today. By 2030, no country, neither the United States, nor China, nor any other great nation will be a hegemonic power.” What are the challenges and dangers that will arise for a fragmented world? What role will the current superpowers have in the future? Resource crises, the emerging countries, planetary population growth, and urbanization: an overview of the possible scenarios and actors.

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India and Brazil, as well as regional players including Colombia, Indonesia, Nigeria, South Africa, and Turkey, will play greater roles in the global economy. In general, there will be an acceleration of the phenomenon of the spreading of power, thanks to the reduction of poverty, higher levels of education, and better healthcare, that will generate an expansion of the global middle class, able to be a tectonic movement at the base of this new balance. The demographic change ahead is less certain: the population will increase from the current 7.1 billion to perhaps 8.3 billion, with an aging population in developed countries and an increase in population in developing regions, accompanied by a growing migration, including the relentless march of urbanization that will bring 60% of the world’s population to live in mega-cities. The demand for resources such as food, water, and energy, following similar demographic trends, will multiply in the end. The increases will be by 35, 40, and 50%, respectively. Climate change will exacerbate the risks of scarcity, particularly in regions such as the Middle East, North Africa, and Central Asia. A NASA study has already noticed an intensification in the last six years of crises concerning the access to water for millions of people in the Middle East. The game-changers are the unknowns, in every respect: these include the “black swans,” which have a high potential to cause sudden shocks. First of all, the global economy is subject to crises and imbalances between different areas, a situation highlighted by the 2008 financial emergency which devastated the world economy. This framework can become a breeding ground for the explosion of tensions or opportunities for more controls. A crucial role will be played by global governance institutions, in this regard, if they are inspired by the behavior of the major powers, capable of creating an atmosphere of cooperation with emerging countries. Two regions that particularly raise the threat of instability and contagion for global security will still be the Middle East and Southeast


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Asia. Historically, the last two decades have seen a decline in armed conflict and a reduction of the victims. An open war between great powers is unlikely, due to the large risks that would ensue. However, regional and local conflicts may continue to appear and worsen once again. Concerning the Middle East, much will depend on Iran: an Islamic republic devoted to nuclear arsenals will keep instability high, whereas a moderate and democratic transition in the region, and the end of the IsraeliPalestinian conflict, which could be possible by 2030 with the birth of a Palestinian state, would advance development and peace. Tensions with minorities – ethnic, generational, or political – and a lack of natural resources can also easily degenerate in areas such as sub-Saharan Africa and Southeast Asia, with risks of also involving China and India. Countries such as Pakistan and Afghanistan will have to come to terms with shocks resulting from low growth, increased costs for basic commodities, and energy shortages. The advent of new technologies may offer new offensive and destabilization capabilities, for which new agendas of cyber-security are being created even now. The United States itself, according to what was proposed by Peter Singer and Thomas Wright of the Brookings Institution think tank, must put pen to paper to draft a new protocol for the use of such hi-tech arsenals if they want to avoid the risk of uncontrolled proliferation. The technological revolutions, however, contain the promise of improved productivity, better management of international change, and the co-ordination of the protagonists. In such a climate of innovation, the growing influence of non-state actors might come into play. The “blacks swans” have names, too. In some cases, the consequences can be encouraging: from a rapid democratization of China to a reformed Iran. More often, though, they threaten frightening repercussions: pandemics, natural disasters, nuclear wars, and intensification of the greenhouse effect. Recently, the Security Council of the United Nations discussed the links between climate change and

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global security: for example, the hypothesis that in 2033, India will be more populated than China, but without any monsoons and rainfall, the victim of a deadly famine and drought that may sow serious conflicts. Overall, there are two large extreme scenarios in the case studies compiled by the National Intelligence Council, which result from the combination of trends and uncertainties. On the one hand, a world called Stalled Engines, marked by a paralyzing and destructive network of inter-governmental conflicts. In this future scenario, the leading powers such as the United States withdraw gradually from the global stage, thus inflicting a series of setbacks to the whole process of globalization. And an out-of-control spiraling of economic inequality that exacerbates social, political, and military tensions, seeing as there is no longer a “world policeman” to block them, as America used to be in the past. The best of all possible destinies, however, comes from a scenario called Fusion: the boost for cooperation is driven by a new and profitable axis between the United States and China that has been consolidated over the years. And a similar peaceful course has been declared by the other actors in international change. Reality will have to choose between these two extreme worlds. But, as the U.S. intelligence report on 2030 warns, the future is likely to be more complex and articulated. “Probably – warns Alternative Worlds – it will consist of elements taken from all the scenarios” which, for the time being, can only be imagined and vague.

The challenges that this fragmented world will have to deal with are particularly relevant to a power which, according to all the analysts, will be more a country of reference than a first among equals: the United States 141


oxygen | 19 — 04.2013

Ft future tech

Science fiction, a dystopian future by Simone Arcagni

Optimism does not seem to be contemplated in science fiction. In the plots of the series and documentaries on the Internet, the world collapses due to the absence of oil, technologies take over or have degenerative effects on society. Why our fears are no longer creating utopias, but dystopias.

Why does utopia tend to turn into dystopia? If on the one hand, science and even governments compete to propose a utopian future in which technology will be increasingly able to provide for our needs in a simple and effective way (think of the smart city idea), on the other, our society and our culture do not manage to show they are particularly happy about it, and in the stories, a utopia often turns into its opposite, a dystopia. Reading novels or the visions of futurists or watching the new sci-fi products based on analyses of technologies currently in the prototype stage, the scenarios seem apocalyptic. Electric City – the Internet series produced by Tom Hanks for Yahoo! – imagines a world without oil turned into a large provincial town controlled by the electricity companies; in H+ – the Internet series produced by Bryan Singer for Warner Bros. – a virus in a subcutaneous microchip connection has plunged the world into a new Dark Age… perhaps the maxim quoted at the beginning of the first episode of Electric City applies: “Mankind hinders perfection.” In fact, in the future envisaged by

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the animated series Electric City, a city that at first glance seems ideal, even idyllic, with many green and renewable energy sources, gradually reveals an aspect that is not at all reassuring. Although the sleepy “knitting club,” a circle of old women, is seemingly dedicated solely to knitting, it actually controls the city with methods that could be called “unorthodox.” And thus, what with the surveillance of communication and information and the killers hired to control everything, the idyllic green city shows an Orwellian aspect. Another sci-fi series, H +, also moves in this direction, and in this case, too, it was created for the Internet. An Internet series with large investments, it shows a future in which technology offers a futuristic subcutaneous implantation for connections. We are not so far from the Internet 3.0 theories, the Internet of things, and of wearable computing (think of the Google Glasses that the famous company Mountain View is developing)... but something goes wrong, and in the dystopias at the dawning of digital society (think of Blade Runner, Tron, Terminator, etc.), technology

created to achieve a better world turns into an apocalyptic evil. And always remaining in the sphere of sci-fi series, although in this case not for the Internet, we should also mention the case of Black Mirror, a British television series conceived and produced by Charlie Brooker for Endemol and broadcast premiering on Channel 4. The peculiarity of Black Mirror lies in the fact that it consists of three episodes, each unlinked to the other, and their duration of 60 minutes (a mini-film). The “black mirror” is the screen of a television, a computer, a tablet or a smartphone: the three films, in fact, deal with some degenerative effects of technology on human beings and society. These apocalypses are much more technological than those of the Maya and they underline a substantial distrust, not so much of science as of human beings, amidst international conspiracies, wars of power and religion, and the apparent inability to manage the resources of the planet, as in the original Internet crossmedia documentary, Collapsus, which shows the planet after the blackout cre-

ated when the energy resources run out. Collapsus is an interactive work that mixes fiction, animation, and documentary. The point seems to be the enormous power that the technologies provide and, by contrast, the evidence of humans’ inability to better manage the enormous potential that technology develops. Therefore, what is striking in these dystopian series is their nearness to us, with those fears of ours that are so very timely and mundane, such as the energy crisis, the super-power of the Internet, and the possibility of being thoroughly controlled. It is a kind of science fiction that is so very human, so close, a bit like Blade Runner was in its day. The case of another emblematic apocalyptic series on the Internet is Cybergeddon, by Antony Zuiker (executive producer of CSI), which is about terrorist attacks by technological cybercriminals and hackers, and which is sponsored by Norton Symatec, a world leader in anti-virus systems. Almost as if to say: here are all of your worst fears come true! Here is what can happen to you tomorrow... unless you have the anti-virus, of course!


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Ts science at the toy store

Not Risk. I choose peace by Davide Coero Borga

A Risk board upon which the colored army tank playing pieces have moved for years or sophisticated modern video games? With tools that have evolved over time, war games always have a common goal: “Reconstructing historical or imaginary events to explore the effects of an action without resorting to reality.”

Conquering territories. Guarding them with armies. Destroying enemy armies. Pursuing secret and complex objectives in a planetary war. Occupying 42 territories on six continents. This is not the plot of a spy movie: in Italian it is called RisiKo! With an exclamation point. Not out of enthusiasm, but for the sake of accuracy. Because that is what the Italian version of Risk, the world’s most popular board game of strategy, is called. As well-known as toy soldiers or naval battles, but more ambitious, articulate, and amazing. Risk: the game that requires the player to have a smattering of the fundamental strategies, tactics, and techniques of warfare. Because it is true that there is no one tactic that is good for all seasons and, as in life, you have to come to terms with reality, even when it differs from the final goal. But a good commander must have a definite plan in mind (and a plan B, if necessary), going straight to their goal only when it is safe to do so, and to wait patiently until the time is ripe, blatantly lie, conceal their objectives, confuse the enemy, avoid or abandon an

ongoing attack to reduce the loss of resources and territories, and establish alliances with players in the field to accommodate tactics and strategies. In these cases, we are talking about coordinated attacks, passive resistance, and tacit exchange of territories. Mathematics helps us to examine the situations of conflict and look for competitive and cooperative solutions. The game theory defines war as a constant-sum game, since for each player who wins, there is another who loses (game theory is an attempt to mathematize human behavior in situations that involve the sharing of some kind of resource. Therefore, it is a science that is not just about war but also concerns the economy, the market, and life in general). War games, or war strategy games like Risk, are helpful in reconstructing historical or imaginary events to explore the effects of an action without resorting to reality. They are virtual reality, theoretical training. And if the childhood of the so-called “digital natives” is not so very different from that of us Jurassic children of the twentieth

century, it must be admitted that there are a lot more tools. Yes, video games are a tool, because technology is like a tool (in Germany, the mobile phone is called a Handy, as if to say that it is an extension of the hand), and in this sense: a game. The board can be a powerful teaching tool. Of course, one wonders how much of the simple Risk board game remains in the modern shooter games! But we must not lose heart. Children and young people never cease to amaze us! In the game Skyrim – the latest in The Elder Scrolls saga – the players can kill dragons, plunder tombs, and fight any fantasy creature. There are, however, those who have decided to embrace a more Franciscan perspective: nineteen-year-old Daniel Mullins has created a character that is half cat and half man, Felix, the pacifist monk who resorts to magic to placate wolves and appease enemies. Without killing a fly. A guy who is definitely serious (and leaves even skeletons and the undead in peace, so to speak). Then there are those who have

reached the last level of the World of Warcraft without giving rein to creative killings, for whom accumulating points is easier (and maybe more banal). They have preferred to gather herbs, chop firewood, cook, find minerals, and explore the territories of the game. A soporific and monotonous activity for almost all of the players and one that has required considerable energy and time: five months in all. Madness? Or the collateral vision of video game fun? Killing is the easy way in the virtual platform. Guys like Daniel need a challenge, to give peace a chance. Stephen Totilo of the blog Kotaku, told the “Wall Street Journal”: “The game is an experimental laboratory where you can embrace extreme behavior, albeit edifying or reprehensible, and watch what happens.” It can turn out that some find pacifism to be a way that makes for intriguing adventure. And the “losing” scheme, in the context of the programmer, becomes a strategically more interesting challenge for the player. Shooter video games are so boring! Risk lovers prefer to be peacekeepers.

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Oxygen 2007/2013 Andrio Abero Giuseppe Accorinti Nerio Alessandri Zhores Alferov Enrico Alleva Colin Anderson Martin Angioni Ignacio A. Antoñanzas Paola Antonelli Antonio Badini Roberto Bagnoli Andrea Bajani Pablo Balbontin Philip Ball Ugo Bardi Paolo Barelli Vincenzo Balzani Roberto Battiston Enrico Bellone Mikhail Belyaev Massimo Bergami Carlo Bernardini Tobias Bernhard Michael Bevan Piero Bevilacqua Ettore Bernabei Nick Bilton Andrew Blum Gilda Bojardi Aldo Bonomi Borja Prado Eulate Albino Claudio Bosio Stewart Brand Luigino Bruni Giuseppe Bruzzaniti Massimiano Bucchi Pino Buongiorno Tania Cagnotto Michele Calcaterra Davide Canavesio Paola Capatano Maurizio Caprara Carlo Carraro Federico Casalegno Stefano Caserini Valerio Castronovo Ilaria Catastini Marco Cattaneo Pier Luigi Celli Silvia Ceriani Corrado Clini Co+Life/Stine Norden & Søren Rud Elena Comelli Ashley Cooper

Paolo Costa Manlio F. Coviello George Coyne Paul Crutzen Brunello Cucinelli Partha Dasgupta Marta Dassù Mario De Caro Giulio De Leo Michele De Lucchi Ron Dembo Gennaro De Michele Andrea Di Benedetto Gianluca Diegoli Dario Di Vico Fabrizio Dragosei Peter Droege Freeman Dyson Magdalena Echeverría Daniel Egnéus John Elkington Richard Ernst Daniel Esty Monica Fabris Carlo Falciola Alessandro Farruggia Francesco Ferrari Paolo Ferri Tim Flach Danielle Fong Stephen Frink Antonio Galdo Attilio Geroni Enrico Giovannini Marcos Gonzàlez Julia Goumen Aldo Grasso David Gross Sergei Guriev Julia Guther Søren Hermansen Thomas P. Hughes Jeffrey Inaba Christian Kaiser Sergei A. Karaganov George Kell Parag Khanna Sir David King Mervyn E. King Hans Jurgen Köch Charles Landry David Lane Manuela Lehnus Johan Lehrer Giovanni Lelli

François Lenoir Jean Marc Lévy-Leblond Ignazio Licata Armin Linke Giuseppe Longo Arturo Lorenzoni L. Hunter Lovins Mindy Lubber Remo Lucchi Riccardo Luna Tommaso Maccararo Giovanni Malagò Renato Mannheimer Vittorio Marchis Carlo Marroni Peter Marsh Jeremy M. Martin Paolo Martinello Massimiliano Mascolo Mark Maslin Ian McEwan John McNeill Daniela Mecenate Lorena Medel Joel Meyerowitz Stefano Micelli Paddy Mills Giovanni Minoli Marcella Miriello Antonio Moccaldi Renata Molho Carmen Monforte Patrick Moore Luca Morena Luis Alberto Moreno Richard A. Muller Teresina Muñoz-Nájar Giorgio Napolitano Edoardo Nesi Ugo Nespolo Vanni Nisticò Nicola Nosengo Helga Nowotny Alexander Ochs Robert Oerter Alberto Oliverio Sheila Olmstead Vanessa Orco James Osborne Rajendra K. Pachauri Mario Pagliaro Francesco Paresce Claudio Pasqualetto Corrado Passera Alberto Pastore

Federica Pellegrini Ignacio J. Pérez-Arriaga Matteo Pericoli Emanuele Perugini Carlo Petrini Telmo Pievani Tommaso Pincio Michelangelo Pistoletto Viviana Poletti Stefania Prestigiacomo Giovanni Previdi Filippo Preziosi Vladimir Putin Alberto Quadrio Curzio Marco Rainò Federico Rampini Jorgen Randers Carlo Ratti Henri Revol Marco Ricotti Gianni Riotta Sergio Risaliti Roberto Rizzo Kevin Roberts Lew Robertson Kim Stanley Robinson Alexis Rosenfeld John Ross Marina Rossi Bunker Roy Jeffrey D. Sachs Paul Saffo Gerge Saliba Juan Manuel Santos Giulio Sapelli Tomàs Saraceno Saskia Sassen Antonella Scott Lucia Sgueglia Steven Shapin Clay Shirky Konstantin Simonov Uberto Siola Francesco Sisci Craig N. Smith Giuseppe Soda Antonio Sofi Giorgio Squinzi Leena Srivastava Francesco Starace Robert Stavins Bruce Sterling Stephen Tindale Viktor Terentiev Chicco Testa

Chiara Tonelli Mario Tozzi Dmitri Trenin Licia Troisi Ilaria Turba Luis Alberto Urrea Andrea Vaccari Nick Veasey Viktor Vekselberg Jules Verne Umberto Veronesi Marta Vincenzi Alessandra Viola Mathis Wackernagel Gabrielle Walker Elin Williams Changhua Wu Kandeh K. Yumkella Anna Zafesova Antonio Zanardi Landi Edoardo Zanchini Carl Zimmer

Testata registrata presso il tribunale di Torino Autorizzazione n. 76 del 16 luglio 2007 Iscrizione al Roc n. 16116


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Governance, futuro plurale La crisi economico-finanziaria e la rivoluzione nel modello sociale contemporaneo hanno imposto l’avvento di una nuova era che vede avanzare protagonisti “inaspettati”, sempre più influenti negli equilibri geopolitici globali. Mentre il potere di governi nazionali e organizzazioni sovranazionali sembra diluirsi, emergono nuovi attori a guidare il “soft power” delle relazioni e nelle evoluzioni internazionali: sono le corporation, le organizzazioni non governative e i social media che danno voce a milioni di cittadini. Ecco le nuove forze politiche, economiche e sociali che riusciranno a imporre la propria visione sul Pianeta.

Oxygen nasce da un’idea di Enel, per promuovere la diffusione del pensiero e del dialogo scientifico


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