21 10.2013
comitato scientifico Enrico Alleva (presidente) Giulio Ballio Roberto Cingolani Paolo Andrea Colombo Fulvio Conti Derrick De Kerckhove Niles Eldredge Paola Girdinio Helga Nowotny Telmo Pievani Francesco Profumo Carlo Rizzuto Robert Stavins Umberto Veronesi direttore responsabile Gianluca Comin direttore editoriale Vittorio Bo coordinamento editoriale Pino Buongiorno Luca Di Nardo Paolo Iammatteo Stefano Milano Dina Zanieri managing editor Cecilia Toso redazione Cristina Gallotti collaboratori Simone Arcagni Elisa Barberis Luca Bosco Davide Coero Borga Michele Fossi Giuseppe Gobetti Raffaele Oriani Daniela Ovadia Francesca Pellas Donato Speroni Luca Testoni Maria Chiara Voci
traduzioni Laura Culver Gail McDowell Alessandra Recchiuti Francesco Rende art direction e progetto grafico undesign ricerca iconografica e photoediting white distribuzione esclusiva per l’Italia Messaggerie Libri spa t 800 804 900 promozione Libromania
rivista trimestrale edita da Codice Edizioni
via Giuseppe Pomba 17 10123 Torino t +39 011 19700579 oxygen@codiceedizioni.it www.codiceedizioni.it/ oxygen www.enel.com/oxygen
© Codice Edizioni Tutti i diritti di riproduzione e traduzione degli articoli pubblicati sono riservati
Oxygen nasce da un’idea di Enel, per raccontare la continua evoluzione del mondo
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sommario
Charity un nuovo modello di sviluppo Lo sviluppo sta prendendo altre vie. Oggi che la crescita economica non si può scindere da quella sociale, il Terzo settore sta diventando sempre più rilevante nel panorama globale, sia in termini di peso istituzionale sia come traino degli altri settori. Per capire come questo sia successo e quali siano le enormi potenzialità che in esso si celano, Oxygen analizza l’evoluzione della filantropia mondiale, da teorizzato “amore per l’uomo” a macchina di sviluppo, innovazione, investimenti. Con case histories, riflessioni di chi nelle charities lavora ogni giorno o che può lavorare grazie ad esse, dati alla mano e progetti concreti, il numero racconta come l’attenzione sociale possa diventare sviluppo per tutti: umano, sociale, ambientale ed economico.
10 ˜ editoriale Fianco a fianco con la società di Fulvio Conti
12 ˜ intervista a
giuseppe guzzetti
Fondazioni: attori per il sociale di Pino Buongiorno Ogni anno le fondazioni contribuiscono a cause filantropiche per circa un miliardo di euro. Sono il motore trainante della charity in Italia, un Paese in cui la cultura del privato-sociale è ancora carente e che le mette spesso al centro di numerose polemiche. Oxygen cerca di chiarire chi sono queste fondazioni, cosa fanno, da dove arrivano i fondi e a quali aree indirizzano le loro erogazioni.
18 ˜ scenari Il non profit rilancia il for profit di Stefano Zamagni La transizione verso un Terzo settore produttivo è già in atto nel nostro Paese, dove il non profit, alla luce di una crescita considerevole nell’arco di un decennio, è sempre più conscio del proprio potenziale di sviluppo, anche a sostegno del mondo for profit. Una riflessione su nuove idee, direzioni e forme imprenditoriali che la filantropia dovrebbe percorrere anche ai fini del benessere sociale.
22 ˜ scenari Se le cavallette diventano api di Geoff Mulgan
× Charity un nuovo modello di sviluppo ×
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La filantropia come sintomo e allo stesso tempo parte della soluzione alla crisi finanziaria. Dall’autore del libro The Locust and the Bee, che teorizza un mondo diviso in cavallette e api, in predatori e costruttori, uno sguardo sull’impresa filantropica, dalle sue origini ai possibili sviluppi, e sulla diffusione dell’investimento sociale che coinvolge i cittadini comuni tanto quanto quelli più agiati.
28 ˜ intervista a
46 ˜ intervista a
meno finanziamenti per aiutare l’africa di Elisa Barberis
Attenzione al Sud di Maria Chiara Voci
dambisa moyo
Il sistema di cooperazione in Africa ha fallito, lasciando il Continente in un’eterna adolescenza economica: questa la tesi dell’economista Dambisa Moyo che auspica un cambiamento di direzione e, perché no, un’abolizione ragionata dei finanziamenti. «Spero che metteremo in dubbio il modello di aiuti come stiamo facendo con quello capitalistico. Certe volte la cosa più generosa che si possa fare è semplicemente dire di no».
32 ˜ intervista a
giuliano pisapia e flavio tosi
un impegno pubblico di Giuseppe Gobetti e Luca Bosco Governi e amministrazioni cercano di tenere il passo dei cambiamenti del Terzo settore immaginando un nuovo ruolo per il pubblico. Le iniziative, le idee e l’atteggiamento nei confronti della filantropia in due amministrazioni di città italiane, Verona e Milano, raccontate dai sindaci.
42 ˜ intervista a
cameron sinclair
L’anti archistar di Raffaele Oriani Dalla fine degli anni Novanta l’ONG Architecture for Humanity ha attuato interventi che sono atti di impegno sociale. Con una concezione di architettura condivisa con i destinatari del progetto e open source, ha preso le distanze da quegli architettiartisti che firmano pezzi unici dove l’utilità spesso è in secondo piano rispetto alla bellezza.
carlo borgomeo
In collaborazione con Enel Cuore, la Fondazione CON IL SUD ha sviluppato in quattro anni numerosi progetti rivolti al Mezzogiorno, un’area geograficamente lontana dalle fondazioni bancarie e quindi esclusa dalla maggior parte delle iniziative di solidarietà.
50 ˜ reportage La signora dei “copii strazii” di Paola Tavella I bambini di Bucarest sono le prime vittime di una città dominata dalla miseria: senza una casa e una scuola, per anni hanno vissuto per strada, rifugiandosi nei condotti di riscaldamento sotterranei durante i freddi inverni. È a questi bambini, i copii strazii, che Juliana Dobrescu ha cominciato con l’insegnare la matematica, fino a diventare oggi la loro memoria storica.
56 ˜ passepartout Enel Cuore. 10 anni di progetti
58 ˜ approfondimento Terzo settore, numeri da protagonista di Elio Silva Con una crescita quasi doppia rispetto allo scorso decennio il Terzo settore si attesta come una delle realtà più attive nel panorama italiano. Il boom numerico di iniziative, volontari, posti di lavoro, raccontato dal Censimento Istat 2012, non basta però ad attribuirgli visibilità e un ruolo politico. Il settore dovrà sapersi innovare per sfruttare questa espansione.
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62 ˜ approfondimento
76 ˜ approfondimento
solidarietà per rispondere alla crisi di Giuseppe Frangi
Donazione democratica a cura di Oxygen
Di fronte a problemi sociali sempre più complessi, la filantropia esplora nuove direzioni: le tradizionali iniziative gestite dalle fondazioni stanno cedendo il passo a nuove forme organizzative, come la venture philanthropy, che investe nel sociale partecipando al rischio d’impresa e si occupa di fornire, oltre al denaro, anche le competenze necessarie per avviare il processo di crescita.
66 ˜ intervista a
don vincenzo paglia e werner külling
Dalle ONG alle “OQG”: organizzazioni quasi governative di Michele Fossi Di fronte alla crisi della governance internazionale, le ONG hanno avuto negli ultimi 25 anni una crescita significativa. Più agili e in grado di intervenire in situazioni di difficile penetrazione per i governi ufficiali, sono una realtà che ormai occupa frequentemente un posto al tavolo dei decisori. Oxygen ne parla con due degli attori principali.
70 ˜ contesti Il sociale diventa “social” di Agostino Toscana Provocatoria, creativa, realistica, irriverente. In una parola, efficace. È la comunicazione sociale, che nella sua evoluzione ha toccato diverse forme e che sempre ne deve inventare di nuove, per raggiungere e convincere il pubblico. Per Oxygen l’esperienza di Agostino Toscana, le sue campagne e parte della storia della comunicazione sociale.
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La promozione di progetti, esigenze e start-up; social network per organizzare le risorse di chi difende l’ambiente; applicazioni che permettono di supportare le cause più svariate. È la filantropia di massa, quella che attraverso le piccole donazioni dei singoli realizza grandi imprese.
80 ˜ scenari Donare sviluppo di Bernardino Casadei Non più solo strumento redistributivo, la filantropia istituzionale ha oggi un ruolo molto più articolato: può aiutare le imprese a conseguire i propri obiettivi e a garantire la propria sostenibilità. Ed è in grado di generare reddito e occupazione. Ma perché tutto ciò avvenga, occorre che in Italia si facciano passi avanti a livello normativo.
84 ˜ approfondimento Orientarsi nel labirinto delle donazioni di Carlo Mazzini Spesso chi dona somme di denaro a un ente non profit si domanda quale sia concretamente il destino della propria offerta: una conoscenza parziale del sistema amministrativo può portare a risposte superficiali. Un’analisi sulla struttura, sui costi e sugli “utili” – e sui tempi giusti per valutarli – per imparare le giuste domande da porsi.
88 ˜ scenari Charities: dove e perché investono i privati di Donato Speroni A rispondere alla necessità di solidarietà del mondo, accanto agli stati, i cui aiuti allo sviluppo non hanno mai raggiunto gli obiettivi prefissi, sono sempre più i privati, attraverso le charities, il non profit o altre strutture e iniziative di tipo filantropico. Un dato che accende il dibattito su quale sia il modo migliore per attualizzare questa spinta e che coinvolge necessariamente il concetto stesso di impresa.
92 ˜ rubrica Tweet and quotes
94 ˜ scenari Il dovere dell’altruismo di Philippe Kourilsky Il diritto fondamentale di ogni uomo è quello alla libertà. A questo diritto inalienabile è associato, secondo il filosofo Kourilsky, il dovere dell’altruismo, visto come obbligo che la ragione impone all’individuo e l’individuo a se stesso. Può lo stesso ragionamento valere per l’altruismo di massa e quindi quello dei governi e delle nazioni?
98 ˜ contesti Prendersi la rivincita sul successo di Adam Grant
102 ˜ passepartout World giving index 2012
104 ˜ contesti vita da Plutocrati di Enrico Pedemonte Spesso sconosciuti ai più, i plutocrati tengono le redini economiche e politiche del mondo. E sono i protagonisti indiscussi delle iniziative filantropiche, soprattutto di quelle americane. Da dove vengono, di cosa si occupano, quali sono i loro interessi lo stanno raccontando molti giornalisti, tra cui Chryistia Freeland, nel suo libro Plutocrats, svelando le loro motivazioni etiche ed economiche.
108 ˜ approfondimento la tela del filantropo di Giulia Marchiori La filantropia è oggi praticata a vari livelli. Grandi e piccole imprese hanno compreso la sua importanza per lo sviluppo di relazioni positive con la comunità, mentre la rete ne ha reso l’accesso possibile a tutti. Con progressi inaspettati.
112 ˜ future tech Crowdfunding: il supporto dalla rete di Simone Arcagni e Raffaele Oriani
Nell’attuale mondo del lavoro l’altruismo viene ricompensato più velocemente che in passato, e ciò porta gli egoisti ad annaspare e gli altruisti a prosperare. Anche la selezione del personale, grazie a social network come Linkedin e Facebook basati su referenze, avviene in modo diverso e privilegia coloro che dimostrano un’attitudine al lavoro di squadra e all’empatia.
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126 ˜ contesti La nuova imprenditoria sociale di Francesco Perrini
114 ˜ contesti solidarietà energetica di Eric J. Lyman Un villaggio senza energia può essere un luogo senza prospettive. Ma un micro finanziamento può cambiarne le sorti. È la storia di una baraccopoli a Udupi, in India, ed è la storia di quelle fondazioni che lavorano perché l’energia diventi un diritto di tutti, cercando il modo giusto e soluzioni innovative, a seconda del luogo in cui operano.
118 ˜ speciale enel foundation Povertà energetica in Europa: un diritto negato di Emanuela Colombo e Tommaso Scandroglio La povertà energetica è un problema sempre più diffuso anche nel mondo sviluppato. È necessario richiamare l’Europa, in prima istanza, e poi il mondo intero, a un confronto che conduca a soluzioni operative replicabili di responsabilità sociale. Negare all’uomo la condizione d’accesso a un bene materiale è una questione socio-politica, nonché un tema di equità.
122 ˜ focus Enabling electricity: l’energia per tutti
124 ˜ focus Una lavatrice per la comunità di Ansis Berzinš
È indubbia la rilevanza attribuita oggi all’imprenditorialità sociale nel rilancio, anche sul piano competitivo, delle economie nazionali. Un’analisi a partire dalle ricerche della SIF Chair di Social Entrepreneurship e dal Centro di Ricerche su Sostenibilità e Valore dell’Università Bocconi svela come le organizzazioni si stanno attivando per acquisire strumenti propri dell’economia tradizionale.
130 ˜ approfondimento Un lavoro di squadra di Bill Drayton Un mondo in continua evoluzione ridefinisce anche i rapporti tra i singoli: come questi interagiscono, lavorano, producono e reagiscono ai cambiamenti. Perché ogni giorno ci troviamo a dover affrontare situazioni nuove e diverse opportunità. Occasioni che l’imprenditoria sociale può insegnare a cogliere senza infrangere regole etiche e, anzi, promuovendo il bene comune.
134 ˜ contesti Finanza sostenibile per l’uomo di Luca Testoni Fondi etici e social impact bond: le nuove forme di investimento testimoniano che la finanza sta intraprendendo la strada della sostenibilità. Gli investimenti SRI, infatti, consentono di essere coerenti con principi etici e di avere un ritorno non inferiore ad altri. E potrebbero dare un volto nuovo alla finanza.
138 ˜ oxygen vs co2 Le lampade verdi delle Solar Sister di Stefano Milano
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150 ˜ la scienza dal
Quel premio che viene dallo spazio di Daniela Mecenate
Slinky, la molla per tutte le tasche di Davide Coero Borga
Viaggi spaziali a basso costo per tutti, auto ecocompatibili, telefoni che sono medici tascabili… Tanti progetti e un unico obiettivo: spingere sul pedale dell’innovazione fino a superare i limiti dell’impossibile. È ciò a cui puntano i fondatori di XPrize, organizzazione non profit americana nata da un sogno spaziale. Che attribuisce premi importanti a chi dimostra di saper cambiare il mondo.
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gregg maryniak
giocattolaio
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144 ˜ contesti Il ricercatore cerca fondi di Daniela Ovadia Non esiste una sola tipologia di finanziamenti e un ricercatore non può affidarsi solo a quelli provenienti dall’università, a quelli delle imprese private o a quelli statali. Ma dal tipo di finanziamento ricevuto dipende la qualità della sua ricerca? Lo racconta chi ogni giorno, per poter innovare o fare scoperte importanti incontra nella sua strada di scienziato burocrazia, bandi, grant, strutture filantropiche.
148 ˜ focus (brailleberry) di Elisa Barberis Cosa potrebbe cambiare uno smartphone che usasse il braille nella vita dei non vedenti? Quale rivoluzione sarebbe in un Paese come l’India e per il suo inventore Sumit Dagar? Un’invenzione, una storia e quello che le iniziative di filantropia possono fare.
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Colombo
Conti
Laureato in Scienze Politiche, collabora con i movimenti globali per la filantropia. È Executive Director della VRCF - Valmiera Region Community Foundation e presiede anche il Community Foundation Movement in Lettonia.
Presidente della Fondazione con il Sud, è stato presidente della Società per l’Imprenditorialità Giovanile, amministratore delegato di Sviluppo Italia e di Bagnolifutura e consigliere delegato di Fondosviluppo.
Segretario generale di Assifero, ha precedentemente collaborato con Fondazione Cariplo come Project Manager del Progetto Fondazioni Comunitarie e ha costituito il Centro Studi Augusto Del Noce.
Delegato del Rettore al Politecnico di Milano, ha lavorato come ingegnere progettista nel settore energetico e alla Fluent Inc fino al 2001. È socio fondatore e membro del Direttivo di Ingegneria Senza Frontiere.
Amministratore Delegato e Direttore generale di Enel dal 2005, è Consigliere di amministrazione di Barclays plc, AON Corporation, RCS MediaGroup, IIT e altre aziende. È vicepresidente di Confindustria per il Centro Studi.
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Giornalista, ha diretto “Il sabato” ed è poi stato caporedattore de “L’Informazione”, e de “La Stampa” redazione milanese. Presidente dell’Associazione Giovanni Testori, dal 2001 è direttore responsabile di “Vita”.
Presidente della Fondazione Cariplo dal 1997 e dell’Associazione di Fondazioni e Casse di Risparmio dal 2000, è stato presidente della Regione Lombardia e senatore della Repubblica italiana per la decima e l’undicesima legislatura.
Biologo e genetista, è professore al Collège de France, membro dell’Académie des Sciences e ha diretto l’unità di genetica e immunologia dell’Istituto Pasteur. Ha pubblicato Il manifesto dell’altruismo e Il tempo dell’altruismo.
Segretario generale di Helvetas Swiss Intercooperation dal 1973 al 2005, ha continuato a lavorare nella cooperazione come collaboratore, coordinando sul posto l’attività di Helvetas in Buthan.
Cresciuto in Florida da padre statunitense e madre di Santo Domingo, lavora come giornalista dagli anni Ottanta. I suoi articoli sono stati pubblicati in Usa, Canada, Europa e lavora come free lance in Italia dal 2009.
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Mazzini
Moyo
Mulgan
Consulente per organizzazioni, aziende e privati impegnati nel non profit. Fa parte del Grants Advisory Committee of the New York Women’s Foundation e dell’Advisory Board of the Global First Ladies Alliance.
Cofondatore di X PRIZE, ne è stato Direttore esecutivo e, oltre a essere membro del direttivo, è anche Direttore delle collaborazioni didattiche. Inoltre è a capo dell’ufficio esecutivo dello Space Studies Institute di Princeton.
Esperto di legislazione degli enti non profit e fiscalità, dal 1995 si occupa di enti non commerciali in relazione alla legislazione speciale. Curatore dal 1999 del sito quinonprofit.it, scrive su “Vita” e su “Il Sole 24 Ore”.
Economista, si occupa di macroeconomia, affari internazionali e impatto degli aiuti stranieri. Ha scritto, tra gli altri, La carità che uccide. Come gli aiuti dell’Occidente stanno devastando il Terzo mondo (Rizzoli, 2010).
Amministratore Delegato del National Endowment for Science Technology and the Arts è visiting professor alla London School of Economics. Ha ricoperto ruoli governativi in Gran Bretagna ed è consigliere governativo di molti Paesi.
16˜ Don Vincenzo
17˜ Enrico
18˜ Francesco
19˜ Giuliano
20˜ Elio
Paglia
Pedemonte
Perrini
Pisapia
Silva
È stato ordinario diocesano a Terni dal 2000 fino al inizio 2013, quando è stato nominato presidente del Pontificio consiglio per la famiglia. Per il suo impegno per la pace ha ricevuto nel 1999 la Medaglia Gandhi dell’Unesco.
Giornalista al “Secolo XIX”, “la Repubblica” e “l’Espresso”, dove per molti anni è stato caporedattore e poi corrispondente da New York. Tra i libri pubblicati: Morte e resurrezione dei giornali (Garzanti, 2010).
Professore di Economia e gestione delle imprese alla Bocconi, è titolare della SIF Chair of Social Entrepreneurship & Philanthropy e direttore del Centro di Ricerca su Sostenibilità e Valore e del Master in Sustainability.
Sindaco di Milano, è avvocato penalista. È stato presidente della commissione giustizia della Camera dei deputati. Ha presieduto il Comitato carceri e la Commissione per la riforma del codice penale.
Giornalista, è caporedattore e inviato speciale del quotidiano “Il Sole 24 Ore”. È responsabile, tra l’altro, dell’area non profit e della responsabilità sociale d’impresa.
21˜ Cameron
22˜ Paola
23˜ Agostino
24˜ Flavio
25˜ Stefano
Sinclair
Tavella
Toscana
Tosi
Zamagni
Cofondatore di Architecture for Humanity, organizzazione per lo sviluppo di progetti architettonici per comunità in difficoltà, ha diretto interventi di ricostruzione in Giappone, Haiti e Cile.
Scrittrice e giornalista, ha lavorato per 15 anni a “Il manifesto” occupandosi della lotta armata. Ha scritto Il Prigioniero dal quale è stato tratto Buongiorno notte di Bellocchio e Gli ultimi della classe, dal quale è stato tratto O’ Professore.
Lavora in pubblicità dal 1982. Dopo numerose esperienze in diverse agenzie nazionali e internazionali è diventato Executive Creative Director di Saatchi & Saatchi Italia.
Sindaco di Verona al secondo mandato è in politica dal 1994. Consigliere provinciale dopo le elezioni del 2004, è stato rieletto nel 2005 ed è poi diventato assessore alla Sanità della Regione Veneto, fino al 2007.
Economista, ha insegnato all’Università di Parma, Bologna e alla Bocconi. Dal 2001 è presidente della commissione scientifica di AICCON e dal 2007 al 2011 è stato presidente dell’Agenzia per il Terzo settore.
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editoriale
Fianco a fianco con la società di Fulvio Conti Amministratore Delegato e Direttore Generale di Enel
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enry Ford sosteneva che «il fine più alto di un capitale non è quello di fare più soldi, ma quello di fare soldi per fare di più, migliorando la vita». È questa l’essenza della filantropia aziendale: un sentimento di vicinanza ed interesse verso il prossimo che si traduce in azioni di fattiva solidarietà per il benessere di tutti. Un sentimento altruistico che solo apparentemente è in antitesi con il mondo degli affari. Lo dimostrano le tendenze che investono la “sfera del profit” da quarant’anni avvicinandola sempre più all’universo del non profit, attraverso le così dette Corporate Foundations. Un fenomeno tutt’altro che recente – anche in Italia – dove, a partire dagli anni Ottanta, fondazioni e organizzazioni non profit sono nate e cresciute senza sosta. Oggi, il Terzo settore è una delle realtà più atti-
ve del panorama italiano, con un tasso di crescita che negli ultimi 10 anni ha di gran lunga superato quello di aziende private ed amministrazioni pubbliche. La foto scattata dall’Istat nell’ultimo censimento su industria, servizi e istituzioni non profit ci restituisce l’immagine di un Paese con un potenziale enorme ed una grande voglia “di fare”: 5 milioni di persone animano oggi il popolo dei volontari. Di fronte alla mancanza di risposte ai bisogni e al disagio delle persone, questo impegno da parte dei cittadini, marca in modo netto la distanza con governi e istituzioni che, al contrario, ancora non fanno abbastanza, magari per mancanza di risorse finanziarie se non di progetti. In questo contesto di crescita, anche se con un minor peso in termini numerici, il gradino più alto del podio spetta alla filantropia,
che ha visto quadruplicato il numero di istituzioni attive nell’ultimo decennio. Il fenomeno nasce dalla convergenza di due fattori: una domanda sempre più forte di “beni sociali” – trainata dall’aggravarsi della crisi economica di questi anni – e una sempre più diffusa “coscienza sociale”. Anche le aziende, nel loro ruolo di partner di istituzioni e comunità, sono chiamate a rispondere a queste nuove tendenze. Per questo oggi, sempre più imprese promuovono uno sviluppo sostenibile e includono nella propria corporate strategy il rispetto verso l’ambiente e i bisogni delle persone, declinandoli in valori etici, policy, progetti e metodologie che permeano l’intera struttura aziendale. Allo stesso modo la filantropia cessa di essere una donazione fine a se stessa – passiva ed anonima – ma diventa uno spazio di pensiero e azione attraverso il quale convogliare risorse e idee di cambiamento. Le donazioni vengono associate a specifici progetti di ricerca, formazione e iniziative a sostegno della crescita, parafrasando l’antica massima cinese secondo cui se si dona un pesce ad un uomo affamato lo si nutrirà per un giorno, ma se gli si insegna a pescare, lo si nutrirà per tutta la vita. Responsabilità sociale di impresa e filantropia aziendale diventano così due facce di una stessa medaglia: entrambe definiscono la reputazione e l’immagine di una società, creando le basi per istituire un rapporto diretto e trasparente tra l’impresa e tutti i suoi stakeholder. Perché una società che funziona meglio, e in cui i bisogni di cittadini, ambiente e comunità sono adeguatamente considerati, è una società che alimenta anche la crescita delle imprese. E un’azienda attenta alle persone sarà in grado di offrire performance migliori rispetto ai propri competitors. InEnelcrediamoprofondamenteinquestavisione, tanto da aver integrato responsabilità sociale di impresa e charity nella strategia aziendale. Così, dieci anni fa, è nata Enel Cuore, per concretizzare, con una struttura senza scopo di lucro, l’impegno del Gruppo nella solidarietà in favore della comunità, secondo un ideale di cooperazione che mette al centro la “persona”. Tramite Enel Cuore, sosteniamo progetti promossi da organizzazioni non profit, anche in collaborazione con enti istituzionali, impegnate sul territorio in attività di assistenza sociale e sanitaria, educazione, sport e ricreazione rivolte in particolare ai bambini, ai malati, alle persone con disabilità e agli anziani, sia in Italia che all’estero.
Negli anni, la Onlus di Enel ha esteso il rapporto di collaborazione, interpretando lei stessa i bisogni sociali e indirizzando le iniziative benefiche attraverso inviti a presentare proposte, con un’adesione sempre crescente. Solo nel 2012, 850 associazioni non profit hanno aderito e 55 sono state selezionate per altrettanti progetti in Italia, Est Europa, America Latina e Africa. Le donazioni che ne deriveranno saranno, come di consueto, erogate nella fase iniziale di ciascun progetto, per garantirne il successo in tempi rapidi e verranno focalizzate sui componenti “hardware” necessari a dar vita alle iniziative e a portare i benefici degli interventi direttamente ai soggetti svantaggiati e alle loro famiglie. Nel 2012, tra le molte iniziative, Enel Cuore ha promosso, insieme a “La Repubblica”, una raccolta fondi destinata alle popolazioni colpite dal terremoto in Emilia, ha sostenuto progetti formativi e di recupero per i detenuti nelle carceri, in particolar modo minori, ha finanziato la realizzazione di centri di accoglienza per immigrati e persone con dipendenze nel Sud Italia e ha contribuito alla realizzazione di una sala ludica nel reparto pediatrico dell’Ospedale di Castellaneta. Un impegno che è stato riconosciuto ad Enel Cuore con il “Sodalitas Social Award” – il premio che ogni anno viene assegnato a soggetti che si sono concretamente impegnati in progetti di sostenibilità d’impresa – vinto grazie al progetto, in collaborazione con Ferrovie dello Stato Italiane, “Un Cuore in Stazione”. Si tratta di una iniziativa nata con la volontà di occuparsi fattivamente del recupero e del reinserimento sociale delle persone senza fissa dimora, attraverso attività di primo ascolto, di orientamento verso i servizi sociali, di socializzazione e il ricovero notturno. Coerentemente con la dimensione internazionale del Gruppo, Enel Cuore ha avviato quest’anno – insieme ad Architecture for Humanity - un programma per la realizzazione di spazi, strutture e dotazioni di utilità sociale, in aree rurali e urbane affette da povertà e disagio sociale. Con il contributo di Enel nasceranno così scuole, ambulatori e spazi ricreativi in Europa e in America Latina. Proprio come ha fatto Enel Cuore nei suoi dieci anni di attività, continueremo ad impegnarci con passione a sostegno delle comunità, animati da questo spirito e con la consapevolezza dei risultati positivi ottenuti al fianco delle associazioni e al mondo del volontariato.
La filantropia cessa di essere una donazione fine a se stessa e diventa uno spazio di pensiero e azione attraverso il quale convogliare risorse e idee di cambiamento
Fondazioni: attori per il sociale Intervista a Giuseppe Guzzetti
Presidente dell’Acri, Associazione di Fondazioni e Casse di Risparmio Spa di Pino Buongiorno Giornalista e scrittore progetto fotografico di White
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Ogni anno le fondazioni contribuiscono a cause filantropiche per circa un miliardo di euro. Sono il motore trainante della charity in Italia, un Paese in cui la cultura del privato-sociale è ancora carente e che le mette spesso al centro di numerose polemiche. Oxygen cerca di chiarire chi sono queste fondazioni, cosa fanno, da dove arrivano i fondi e a quali aree indirizzano le loro erogazioni.
C’era una volta Adriano Olivetti. E oggi? Dove sono i filantropi italiani, i grandi mecenati che aprono il cuore e il portafoglio per aiutare gli altri? Sembrerà un’altra anomalia italiana, ma per trovare i benefattori dei nostri giorni bisogna bussare alle grandi Fondazioni di origine bancaria, nate negli anni Novanta con la legge che portò alla privatizzazione delle Casse di Risparmio e delle Banche del Monte. Giuliano Amato, che volle quella riforma, impose la separazione dell’attività creditizia da quella filantropica. La prima fu attribuita alle Casse e alle Banche del Monte, società commerciali private. Le attività finalizzate allo sviluppo sociale, culturale, civile ed economico rimasero nelle Fondazioni. A guidare dal 2000 l’associazione (l’Acri) che raggruppa le Fondazioni bancarie – oggi 88 distribuite su gran parte del territorio nazionale, specialmente al Nord e al Centro del Paese – e le 39 Casse Spa è l’avvocato Giuseppe Guzzetti, che è anche presidente della Fondazione Cariplo, una delle principali italiane. È lui il filantropo italiano per eccellenza. Oxygen lo ha intervistato. Perché in Italia sono le Fondazioni bancarie il motore trainante della filantropia? Perché le Fondazioni sono soggetti non profit, privati e autonomi, dotati di cospicui patrimoni i cui utili vengono devoluti alle organizzazioni del Terzo settore e del volontariato, dando concreta attuazione al principio di sussidiarietà promosso dall’Europa e sancito dalla nostra Costituzione. In pratica, non spetta esclusivamente all’amministrazione pubblica la responsabilità di perseguire
il benessere comune. Al contrario, si afferma l’opportunità che soggetti diversi contribuiscano ad affrontare e a risolvere problemi d’interesse pubblico. Con la storica sentenza numero 300 del 2003, la Corte Costituzionale ha posto le nostre Fondazioni «tra i soggetti dell’organizzazione delle libertà sociali», riconoscendo così che sono un importante motore della sussidiarietà, la preziosa infrastruttura di un sistema economico-sociale pluralistico. A quanto ammontano le vostre attività di filantropia? Ogni anno le Fondazioni nel loro insieme devolvono erogazioni filantropiche per circa un miliardo di euro. In tempi migliori anche un miliardo e mezzo. I beneficiari sono sempre soggetti che perseguono finalità non lucrative d’interesse pubblico: organismi privati non profit o istituzioni pubbliche. Le Fondazioni non possono fare donazioni alle imprese e al profit in generale. Da dove sono prese le risorse per la filantropia? Sono tratte dagli utili generati dagli investimenti dei patrimoni delle Fondazioni, che, in base ai bilanci chiusi il 31 dicembre 2012, ammontano complessivamente a 42,2 miliardi di euro. Solo una parte di questi patrimoni è investita in attività bancarie. Il resto è in gestioni o in altri investimenti di medio-lungo periodo, come quelli nei fondi per l’housing sociale, per l’innovazione delle piccole e medie imprese, per la ricerca tecnologica o per le infrastrutture, ma anche quelli in aziende che operano in settori strategici, 013
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come le municipalizzate, le autostrade e, non ultima, la Cassa Depositi e Prestiti, che è cruciale per lo sviluppo dei territori e il rilancio del Paese. Perché questa peculiarità tutta italiana per cui non i grandi imprenditori, come Michele Ferrero o Leonardo Del Vecchio, ma voi delle Fondazioni fate beneficenza? C’entra la cultura cattolica in contrapposizione a quella protestante americana, che mette in campo personaggi come Bill Gates, il quale ha addirittura abbandonato la sua Microsoft per dedicarsi assieme alla moglie alla filantropia? Non credo che c’entri la religione. Quello che manca all’Italia è la cultura dei corpi intermedi. Già Alexis de Toqueville, ritornando in Europa, scrisse che era rimasto molto sorpreso dalla scoperta del privatosociale in America, cioè quei corpi intermedi, come le foundations o le charities, che svolgevano una funzione essenziale in un Paese in cui il welfare pubblico, sostenuto dallo Stato, era ridotto all’essenziale. Noi invece veniamo da una cultura liberale, seguita da quella fascista, in cui i corpi intermedi non erano di fatto previsti. Il fascismo addirittura li soppresse. Ancora oggi questa cultura del privatosociale è carente. Si riconosce al Terzo settore un ruolo importante solo ora che lo Stato è in crisi, ma manca ancora la sedimentazione profonda di una cultura sussidiaria. Molte polemiche che si fanno contro le Fondazioni di origine bancaria denotano questo deficit culturale. Ma, ripeto, perché non spicca più il grande filantropo? Manca probabilmente la figura simbolo. Però ci sono tanti soggetti assai attivi nella cooperazione sociale, tanti piccoli Bill Gates silenziosi ma utilissimi negli ambiti sociali e territoriali in cui vivono e operano. Due grandi imprenditori come Giorgio Armani e Diego Della Valle se le sono suonate di santa ragione nelle scorse settimane proprio sulla filantropia. Il primo sosteneva che bisogna donare con i soldi propri e non con quelli dell’azienda. Il patron di Tod’s lo sfidava a fare di più per il Castello Sforzesco così come lui stava finanziando i lavori di restauro del Colosseo. Chi ha ragione? È chiaro che è una polemica fra due grandi imprenditori con personalità molto forti. Il problema non è questa diatriba. La questione vera è che ritornino i mecenati come c’erano nel Rinascimento e possano svolgere una funzione sociale 014
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efficace. Per il Castello Sforzesco la stessa Fondazione Cariplo ha già devoluto 35 milioni di euro. In quali settori intervengono le Fondazioni bancarie? Nel 2012 abbiamo finanziato oltre 22.000 iniziative. Fra i 21 settori ammessi dalla legge, sette sono quelli su cui si concentra la maggior parte delle nostre erogazioni. Si tratta di erte e cultura (31,6% del totale erogato), educazione, istruzione e formazione (15%), assistenza sociale (12,9%), ricerca (12,3%), volontariato, filantropia e beneficienza (12,1%), sviluppo locale (5,7%), salute pubblica (5,7%). È significativo che al welfare, che raccoglie i settori di assistenza sociale, salute pubblica e volontariato, sia stato destinato quasi il 31% delle nostre erogazioni, pari a 296,4 milioni di euro, per interventi non sostitutivi dei servizi pubblici. Insomma, operiamo laddove lo Stato oggi mette meno risorse a causa della crisi delle finanze pubbliche.
Oggi il dramma principale della nostra società riguarda l’assistenza alle persone, a tutte le categorie meno protette: gli anziani, i disabili, i minori, i tossicodipendenti, gli immigrati, i detenuti, le famiglie a rischio di esclusione sociale
Come selezionate gli interventi? Cerchiamo di avere una fotografia abbastanza precisa dei bisogni dei nostri territori. E debbo dire che oggi il dramma principale della nostra società riguarda l’assistenza alle persone, vale a dire a tutte quelle categorie meno protette, come gli anziani, i disabili, i minori, i tossicodipendenti, gli immigrati, i detenuti, le famiglie a rischio di esclusione sociale. Il welfare statale centralizzato non è più adeguato né ritornerà come quello di una volta. Noi riteniamo che bisognerà sostituirlo con il welfare di comunità. Se attorno a territori ben delimitati si cerca di realizzare progetti comunitari precisi, di sistema e non frammentati, ma soprattutto innovativi, allora la situazione può davvero cambiare. Come? Mettendo assieme chi e che cosa? Intanto ci sono le Fondazioni di origine bancaria a far da traino, con i finanziamenti e con l’expertise dei nostri manager e funzionari. Poi, bisogna investire un po’ di risorse pubbliche e, tutt’attorno, occorre coinvolgere le aziende del territorio e tutte quelle organizzazioni del volontariato e del Terzo settore che sono esempi magnifici della nostra Italia migliore. In più – e questa è la vera novità – siamo convinti di poter coinvolgere i singoli cittadini, soprattutto se i progetti a livello di comunità si dimostrano validi per il sostegno alle fasce più deboli della popolazione. Da questa idea nasce la sperimentazione delle Fondazioni comunitarie, o di comunità, che da noi 015
stanno funzionando bene e sono diventate un modello per tutto il mondo. Sono organizzazioni filantropiche che raccolgono fondi dalle comunità locali, dai privati, dalle aziende, dalle singole persone e sostengono iniziative in diversi settori. Dalla solidarietà all’arte, dai beni storici alla cultura, passando per l’ambiente. Il tutto con un unico obiettivo: il bene comune di un territorio circoscritto, provincia, Paese, comunità. Si alimentano perché le erogazioni messe a disposizione dalle Fondazioni bancarie innescano un processo virtuoso di donazioni da parte dei cittadini. Insomma, la gente comune ha scoperto il valore del donare. Oltre alla Fondazione Cariplo, finora hanno attivato Fondazioni di comunità anche la Compagnia di San Paolo, la Fondazione di Venezia e la Fondazione con il Sud, che non è una Fondazione bancaria, ma è comunque una nostra creatura. È nata proprio qui all’Acri dall’idea di un’alleanza tra le Fondazioni bancarie e il mondo del Terzo settore e del volontariato per promuovere l’infrastrutturazione sociale del Mezzogiorno. L’abbiamo patrimonializzata con circa 350 milioni di euro e ogni anno versiamo 20 milioni per sostenerne le erogazioni. Nel periodo 2007-2012 la Fondazione con il Sud ha finanziato 240 Progetti esemplari, 167 programmi di sostegno alle reti del volontariato e l’avvio delle prime tre Fondazioni di comunità del Mezzogiorno (Salerno, Messina e Centro storico di Napoli). 016
Tutti questi interventi che state attuando sono diretti all’interno del nostro Paese. Avete abbandonato i progetti all’estero? No, ne abbiamo anche lì, anche se in misura minore. Il nostro sostegno va alle Organizzazioni non governative e alle associazioni di volontariato impegnate soprattutto in Africa, nel sud dell’Asia e in Centro e Sud America. E anche qui stiamo cambiando la nostra strategia di intervento: pensiamo a progetti-Paese, come quelli realizzati in Senegal e Nord Uganda, finalizzati a creare le condizioni perché dopo l’avvio le popolazioni locali possano portare avanti da sole le iniziative avviate: noi creiamo le condizioni di base e le competenze. Altro ambito, meno noto, è quello del sostegno alle attività di microcredito. La vecchia filantropia si limitava a donare. Oggi non basta. Cosa occorre per rilanciarla? Le Fondazioni come le nostre devono avere chiara la loro missione, cioè devono dare risposte immediate e concrete ai bisogni sempre più impellenti delle comunità in cui operano. Lo possono fare come coordinatori tra le varie realtà presenti sul territorio. Ma devono soprattutto operare con una funzione anticipatrice dei bisogni sociali e con una fortissima capacità di innovazione, permettendo le sperimentazioni, costruendo la cultura tecnica e amministrativa, favorendo le reti.
Oggi ci sono tanti soggetti assai attivi nella cooperazione sociale, tanti piccoli Bill Gates silenziosi ma utilissimi negli ambiti sociali e territoriali in cui vivono e operano
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Il non profit rilancia
il for profit articolo di Stefano Zamagni Presidente della commissione scientifica di AICCON
La transizione verso un Terzo settore produttivo è già in atto nel nostro Paese, dove il non profit, alla luce di una crescita considerevole nell’arco di un decennio, è sempre più conscio del proprio potenziale di sviluppo, anche a sostegno del mondo for profit. Una riflessione su nuove idee, direzioni e forme imprenditoriali che la filantropia dovrebbe percorrere anche ai fini del benessere sociale.
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Il fatto nuovo da cui prendere le mosse è la diminuzione in tutti i Paesi dell’Occidente avanzato, nel corso dell’ultimo ventennio, delle forme tradizionali di filantropia. Fenomeno questo che riguarda pure gli Stati Uniti, dove il volume delle donazioni raggiunge oggi il 2,2% del PIL. Si tenga presente che gli Stati Uniti mai hanno adottato il modello di welfare state – che è una invenzione tipicamente europea finanziata con la fiscalità generale. Agli americani si deve piuttosto la creazione del modello di welfare capitalism (ufficialmente nato nel 1919) fondato sul “principio di restituzione”: imprese e individui arricchiti devono avvertire come impegno civico l’obbligo – non il dovere legale – di restituire parte dei redditi acquisiti grazie anche alla comunità cui appartengono. Ecco perché la percentuale del 2,2% è veramente bassa. Come darsi ragione di una tale preoccupante tendenza? Ho tre argomenti per fornire una risposta, certamente non esaustivi ma comunque rilevanti. Il primo è di natura propriamente culturale. Si continua a credere che l’unica forma di creatività sia quella profittevole (quella cioè che genera profitto) e non anche la creatività sociale (quella che genera valore sociale). A sua volta, questa obsoleta credenza ne sostanzia un’altra: che le uniche innovazioni degne di ricevere fondi e/o finanziamenti siano quelle industriali. Neppure si sospetta, nel nostro Paese, che vi sono anche le innovazioni sociali, le quali, in una stagione come quella attuale, sono di strategica importanza per lo sviluppo locale dei territori. (L’evidenza empirica su ciò è ormai abbondante anche in Italia). Di questo ritardo culturale è in buona parte responsabile il ceto degli intellettuali, a cominciare dalle università. (Basti controllare la pubblicistica accademico-scientifica per rendersene conto). Il secondo argomento chiama in causa il versante della finanza. L’innovazione sociale postula l’imprenditorialità sociale. È arcinoto che imprenditore – non importa se for profit o non profit – è chi, guidato da un’alta propensione al rischio, sa investire con coraggio e prudenza. Ma come si fa a investire se viene di fatto precluso l’accesso a prodotti o strumenti finanziari adeguati al fine che l’imprenditore si prefigge di conseguire? Certo, se si ritiene che il Terzo settore debba svolgere funzioni meramente redistributive – come finora è accaduto in gran parte nel nostro Paese – il problema sollevato scompare, ma solo perché si è eliminato il problema, non certo perché lo si è risolto. In Italia di questa lacuna il principale responsabile è il ceto politico che nulla di decisivo ha fatto per dotare il Paese di un’infrastrutturazione finanziaria per il sociale, come
invece sta accadendo altrove. Eppure, l’innovazione sociale è basicamente una disruptive innovation (innovazione di rottura), per realizzare la quale né il tradizionale fundraising né le varie forme di convenzioni (pubbliche o private) servono alla bisogna. Tali forme, se possono essere sufficienti per tenere in attività organizzazioni di flusso (quelle che distribuiscono con una mano ciò che hanno ottenuto con l’altra), non lo sono affatto per far crescere organizzazioni di stock. Un terzo argomento, infine, è quello della “sindrome delle basse aspettative” di cui sembrano soffrire non poche delle organizzazioni di Terzo settore: non ci si aspetta quasi mai dall’investimento effettuato un ritorno adeguato in termini sociali, come se il fatto di non mirare al profitto dovesse giustificare un certo lassismo organizzativo e forme varie di spreco di risorse. È bensì vero che vi è la difficoltà di costruire una metrica capace di misurare il valore aggiunto sociale, di un intervento, ma è del pari vero che nessuno sforzo sistematico viene fatto per arrivare a ciò. Ad esempio, si pensi all’indicatore noto come “moltiplicatore sociale”, definito dal rapporto tra il valore totale delle attività svolte e l’ammontare delle donazioni raccolte. Si sa che un moltiplicatore sociale superiore a due è ciò che, più di ogni altra cosa, è capace di stimolare gesti filantropici. Eppure, quasi mai questo indicatore viene reso di dominio pubblico. Alla luce di quanto precede si può comprendere perché è urgente mettere in campo nuove idee e prassi filantropiche se si vuole accelerare la transizione verso un Terzo settore produttivo, cioè socialmente imprenditoriale. Una pluralità di segni ci dice che questa transizione è già in atto. In primo luogo, è a tutti chiaro che il nostro Terzo settore sta cambiando – sia pure a pelle di leopardo – la percezione che esso ha di se stesso: da soggetto residuale che svolge funzioni ancillari a soggetto comprimario nella progettazione e implementazione delle politiche di welfare. Secondo, va mutando il senso, cioè la direzione, del proprio agire: non tanto additivista, quanto piuttosto emergentista. In altro modo, i soggetti del non profit vanno capendo che loro missione specifica è anche quella di “contagiare” i soggetti for profit. Certi risultati interessanti sul fronte della responsabilità sociale d’impresa sono la conseguenza proprio di tale effetto di contagio. I dati recenti del Censimento dell’Istat sul non profit sono la più convincente conferma del cambiamento in atto: la crescita del 28% di tali enti sull’arco di un decennio è qualcosa davvero di straordinario – una crescita, si badi, che riguarda tutti i comparti e tutte le regioni italiane, sia pure in proporzioni diverse.
Bisogna mettere in campo nuove idee e prassi filantropiche se si vuole accelerare la transizione verso un Terzo settore produttivo, cioè socialmente imprenditoriale
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censimento non profit, numeri da protagonista |
Lo spazio che ho a disposizione mi consente solamente una rapida elencazione delle forme che la nuova filantropia dovrebbe assumere. Primo, si tratta di favorire il legame finanziario diretto dei cittadini con le non profit (imprese sociali e non) sia nella forma di partecipazione a titolo di capitale, sia sotto la forma innovativa del prestito e ciò allo scopo di rafforzare la struttura patrimoniale e di aprire al non profit produttivo la via della “quasi donazione”. Penso, in particolare, a due strumenti in crescente diffusione. Per un verso, l’equity crowdfunding: piattaforme in rete volte a raccogliere capitale di rischio (equity) per imprese sociali in fase di start-up. Per l’altro verso, l’intermediazione filantropica che mira a promuovere la donazione modale democratizzando la filantropia. Si pensi a tutti quei soggetti – e sono tanti – che vogliono dare organicità e coerenza alle loro erogazioni, ma non possono o non vogliono creare una propria fondazione erogativa. Secondo, occorre dare presto vita alla creazione di fondi di investimento a carattere sociale (social impact funds) che valgono ad alimentare fondi territoriali di progettualità sull’esempio di quanto già avviene in Gran Bretagna. C’è poi quel nuovo strumento finanziario noto come social impact bond, già sperimentato con grande successo negli Stati Uniti e in Gran Bretagna. Basicamente, questo è un prodotto simile alle familiari obbligazioni, tale che un soggetto privato (o pubblico) si impegna a garantire la restituzione di un’obbligazione con cui si è
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provveduto a finanziare un progetto di utilità sociale a fronte del raggiungimento di risultati prefissati. Infine, bisogna avere il coraggio di porre in atto il principio di sussidiarietà circolare, perché la sussidiarietà orizzontale non è più sufficiente. L’idea, molto semplicemente, è quella di mettere in interazione strategica le tre sfere di cui si compone la società (la sfera pubblica, quella della business community e quella della società civile organizzata) nel momento sia della progettazione degli interventi sia della loro gestione. Può essere d’interesse ricordare che quella della sussidiarietà circolare è un’idea squisitamente italiana che risale all’epoca dell’Umanesimo civile (XV secolo) e che, forse per questo motivo, gli italiani non vogliono sentirne parlare! (Nel 2001 è stato modificato l’art. 118 della Costituzione per introdurvi il principio di sussidiarietà, ma non nella versione circolare). Il noto antropologo indiano Arjun Appadurai ha recentemente coniato l’espressione “capacità di aspirare” (capability to aspire) per denotare il grado di partecipazione delle persone alla costruzione delle rappresentazioni sociali, culturali e simboliche che danno forma al futuro, ai progetti di vita. È dal grado di diffusione nella società di questa capability che dipende il suo progresso civile ed economico. Al pari di ogni altra capacità, anche quella di aspirare può essere coltivata e incoraggiata a crescere. La nuova filantropia, se ben intesa, deve servire anche a tale fine. 021
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Se le cavallette diventano api articolo di Geoff Mulgan Amministratore Delegato di NESTA National Endowment for Science Technology and the Arts
La filantropia come sintomo e allo stesso tempo parte della soluzione alla crisi finanziaria. Dall’autore del libro The Locust and the Bee, che teorizza un mondo diviso in cavallette e api, in predatori e costruttori, uno sguardo sull’impresa filantropica, dalle sue origini ai possibili sviluppi, e sulla diffusione dell’investimento sociale che coinvolge i cittadini comuni tanto quanto quelli più agiati. A cinque anni dall’inizio della crisi finanziaria è ormai chiaro come una delle sue principali cause sia stato il cambiamento repentino nella proporzione tra attività economiche predatorie e produttive. Gli incentivi alla predazione si sono improvvisamente impennati mentre quelli per la creazione di beni e servizi utili hanno continuato a ristagnare. Per dirla altrimenti le cavallette hanno prosperato a danno delle api. In tutto il mondo il lavoro sta attraversando, da questo punto di vista, un cambiamento epocale. La Cina è alla ricerca di un modello di sviluppo economico più equilibrato nel quale poter giocare un ruolo più decisivo nella produzione di nuove tecnologie. In India i politici dibattono apertamente sulla follia di un sistema che utilizza le menti migliori per risolvere i problemi dei ricchi, che hanno certamente meno bisogno di aiuto rispetto ai poveri. Il Brasile, come molte altre economie emergenti, sta cercando di creare un sistema di welfare che diffonda al maggior numero di persone la sua crescente prosperità. La filantropia è sia un sintomo del problema, sia una parte della sua soluzione. Ne è un sintomo nella misura in cui solo un numero ristretto di persone ha beneficiato della crescente diseguaglianza 022
degli anni del boom economico e degli enormi guadagni piovuti dal cielo che ne sono derivati (a volte per via dallo sviluppo di nuove e intelligenti tecnologie, più spesso per essersi trovati al posto giusto al momento giusto). Come già successo in passato, una parte dei nuovi ricchi ha deciso di prendere la filantropia sul serio. Gates, Omidyar, Skoll e altri hanno riconosciuto di avere la responsabilità morale di restituire qualcosa, e che non ha senso spendere i propri soldi esclusivamente a proprio beneficio. Il loro impegno in tal senso fa da sfondo al nuovo vocabolario del cambiamento. “Investimento sociale” è ormai un’espressione onnipresente, che mette in relazione i metodi di investimento con i suoi esiti sociali – e la cui diffusione è stata aiutata da nuovi grossisti quali la Big Society Capital, un fondo da 800 milioni di euro creato nel Regno Unito – e che sta portando un’attenzione crescen-
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te nei confronti di problematiche quali la crescita e lo sviluppo (su cui tornerò in seguito). L’“imprenditoria sociale” è stata percorsa per molti decenni da pionieri quali Michael Young e Muhammad Yunus e ora è entrata a tutti gli effetti anche nelle organizzazioni più tradizionali, come il World Economic Forum. Più recentemente un movimento globale per l’innovazione sociale è stato promosso da figure quali il sindaco di Seul, WonSoon Park, e da grandi aziende quali la Cisco. Entrambi i movimenti hanno piantato radici in tutto il mondo. Una delle caratteristiche comuni di questi cambiamenti è la nascita di un modo diverso di fare beneficenza, da parte dei cittadini comuni e di quelli ricchissimi. Nonostante il volontariato sia sempre stato un punto cieco per gli economisti, il potenziale accesso a risorse a costo zero riveste una grande importanza. Secondo il World Giving Index, il 20% della popolazione mondiale afferma di aver speso gratuitamente del tempo per gli altri nell’ultimo mese, il 30% di aver donato dei soldi, il 45% di aver aiutato un perfetto sconosciuto. Non sono soltanto coloro che ricevono aiuto a beneficiarne: vi sono prove che dimostrano come la beneficenza abbia effetti positivi anche sul benessere dei benefattori, ed è stata riscontrata una correlazione tra quantità di denaro elargita in beneficenza da una nazione e la felicità percepita dai suoi cittadini (con un coefficiente di correlazione di 0,69, superiore a quello di 0,58 riscontrato tra prodotto interno lordo e felicità). Questa correlazione vale probabilmente anche per le persone molto ricche, che sembrano ricavare maggiori soddisfazioni dalla possibilità di avere un’influenza concreta su tematiche quali la salute dell’infanzia, che dalla capacità di accumulare capitale. La beneficenza è naturalmente parte integrante anche della cosiddetta economia civile, che si basa su motivazioni ed esiti non solo monetari. Questo tipo di economia ha radici molto antiche ma ha acquisito recentemente una nuova rilevanza. La prima società di mutua assicurazione è stata fondata in Italia nel tredicesimo secolo e diversi ordini religiosi hanno messo a punto servizi finanziari per i meno abbienti, così come forme di “investimento sociale” 024
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che costituiscono a tutt’oggi un’attività rilevante delle diverse banche riconducibili alla Chiesa Cattolica. In alcune nazioni è stata proprio la società civile a far fronte alle crisi economiche: le leggi inglesi sulla carità promulgate nel 1601, ad esempio, furono una risposta all’indigenza diffusa e alle infrastrutture pubbliche fatiscenti. Ovunque l’economia civile moderna si è sviluppata come contraltare del capitalismo commerciale, e come risposta alle diseguaglianze, alle scarse condizioni di salute e alla miseria diffusa che ha generato, mobilitando a tal fine sia l’altruismo sia l’interesse personale, la tendenza all’aiuto reciproco e gli interessi materiali individuali. Nel diciannovesimo secolo, i cittadini delle prime nazioni in via di industrializzazione dipendevano dal settore sociale per avere accesso a servizi finanziari quali assicurazioni, piani di risparmio e soldi per il mutuo, così come da cooperative che fornivano qualsiasi cosa, dai negozi di alimentari ai funerali. Si sviluppò una solida, fiera e indipendente economia civile che praticava ciò che un secolo dopo sarebbe stato chiamato microcredito, e che a tutt’oggi comprende grandi cooperative in Spagna e in Italia, società di costruzione nel Regno Unito, organizzazioni benefiche finanziate dai contributi fiscali in Germania. Ma nel corso del ventesimo secolo, il governo e le società private hanno spesso preso il posto delle organizzazioni a partecipazione sociale: i governi hanno iniziato a fornire welfare e pensioni e le aziende a commerciare in prodotti finanziari, su una scala più ampia, e qualche volta a costi minori, dei loro predecessori non profit.
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Le organizzazioni civili, tuttavia, possono diventare sia paternalistiche sia inefficienti. Quando sono piccole possono scadere nel dilettantismo, quando sono grandi nel burocratismo. Tutte le organizzazioni civili vanno incontro a problemi di scala e per quanto vi siano organizzazioni non governative molto grandi, come la Croce Rossa, la Grameen Bank o la Caritas tedesca – che dà lavoro a 400.000 persone – la maggior parte sono di dimensioni ridotte, prevalentemente perché le grandi dimensioni possono minare i valori, la dedizione e il senso di appartenenza dei loro associati. Quando questo tipo di organizzazioni cresce significativamente tende pertanto a farlo in modo da preservare l’esistenza di piccole unità funzionali: ad esempio con strutture federali che mettono insieme centinaia di ramificazioni locali, o cellule autonome come negli Alcolisti Anonimi, o in diverse chiese. La crescita lineare è complicata inoltre dai valori in gioco. Una delle prime organizzazioni caritatevoli inglesi fu fondata per raccogliere fondi per acquistare del legno con cui bruciare le streghe; appena un secolo fa un’altra organizzazione di questo tipo distribuiva sigarette ai soldati feriti. Le associazioni che rappresentano gli automobilisti hanno punti di vista diametralmente opposti rispetto ai gruppi ambientalisti, e l’insieme delle associazioni civili che si occupano di salute esprimono più una cacofonia di mutuo disaccordo che non un’armonia di credenze condivise. Inoltre, malgrado tutto, le parti più organizzate della società civile fanno propri i pregiudizi del loro tempo e della cultura del ventunesimo secolo. Credono solitamente nell’equità e preferiscono agire con che agire contro. Danno valore all’essere attivi piuttosto che passivi, alla reciprocità piuttosto che alla gerarchia, e in generale condividono lo spirito dell’aforisma di Ibsen secondo il quale «una comunità è come una nave, tutti devono essere pronti a prenderne il timone». Attingono alle idee secolari di uguaglianza e libertà ma sono anche permeate di valori quali la fede, e debitrici della persistenza della religione in quanto forza sociale ed economica. Una buona metafora che ne illustra il funzionamento è quella del granito del Guatemala: l’idea cioè che ciascuno possa contribuire con il suo piccolo granello di sabbia al cambiamento sociale. Il dato di fatto che le società a partecipazione civile sono più forti proprio in quei settori che, per altri versi, hanno grandi possibilità di crescita ha portato molti a ritenere che la loro quota di par026
tecipazione al prodotto interno lordo finirà per aumentare. Nel Regno Unito, ad esempio, ben 30.000 organizzazioni non governative sono state messe sotto contratto dal governo per fornire servizi per il sistema sanitario nazionale. Alcuni governi hanno incoraggiato questo tipo di sviluppo subappaltando quote crescenti di servizi pubblici. Attualmente, in tutto il mondo, vi sono molti esempi (diversi) di crescita lineare: dalla BRAC alla Gramen, a Pratham e Avaaz. Le scuole di economia riportano che un numero crescente degli allievi dei Master in Business administration chiedono più informazioni sulle imprese sociali e su come intraprendere una carriera che sappia coniugare il fare soldi con il fare del bene. Vi è stato uno sviluppo positivo nelle organizzazioni non governative di tutto il mondo che hanno fornito in misura sempre maggiore aiuti umanitari, campagne di sensibilizzazione e competenze specialistiche. Un futuro plausibile vede una continua espansio-
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ne dell’economia sociale sovvenzionata da investimenti crescenti. Eppure è anche possibile che le organizzazioni a fini di lucro finiranno per prevalere anche in quei mercati in cui le associazioni non governative e le imprese sociali hanno fatto da pionieri, come è già accaduto in diversi campi che vanno dal cibo biologico ai social network. La filantropia fornisce il denaro per gran parte di queste organizzazioni perché ha la possibilità di correre dei rischi, di sposare cause impopolari e di assumere una prospettiva lungimirante. Tuttavia i suoi punti di forza costituiscono altrettanti punti di potenziale debolezza. Il vantaggio principale della filantropia è che non è gravata da vincoli e responsabilità. Ma proprio questo rende della massima importanza che non diventi un’istituzione priva di scrupoli, tesa a riprodurre il potere nella sfera economica della società secondo modalità che non sono democratiche, né dal punto di vista formale, né sostan-
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ziale. In passato l’opinione pubblica si è rivoltata contro le associazioni benefiche quando ha preso atto del fatto che erano diventate troppo paternalistiche, o sempre più uno strumento in mano ai ricchi per ribadire le proprie virtù, o troppo deresponsabilizzanti per i beneficiari. Alcuni partecipanti dell’“impresa filantropica” hanno ripetuto recentemente gli errori del passato, sostenendo che i ricchi, non dovendo render conto a nessuno, sono gli unici a trovarsi nella posizione ideale per risolvere i problemi dei poveri. I filantropi più saggi, al contrario, collocheranno se stessi all’interno del più ampio movimento della società civile, prestando attenzione ai bisogni e alle richieste delle persone che chiedono aiuto. Se questo avverrà, la filantropia potrebbe diventare parte di un più ampio processo di “civilizzazione” rendendo sia il mondo degli affari sia l’economia in senso lato più civili nell’indole, nei valori, nei metodi e nelle forme di organizzazione.
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intervista
meno finanziamenti per aiutare l’africa Intervista a Dambisa Moyo Economista e scrittrice di Elisa Barberis
Il sistema di cooperazione in Africa ha fallito, lasciando il Continente in un’eterna adolescenza economica: questa la tesi dell’economista Dambisa Moyo che auspica un cambiamento di direzione e, perché no, un’abolizione ragionata dei finanziamenti. «Spero che metteremo in dubbio il modello di aiuti come stiamo facendo con quello capitalistico. Certe volte la cosa più generosa che si possa fare è semplicemente dire di no». «La storia si sta evolvendo in modo drammatico, serve al più presto un cambio di mentalità. D’altronde, perché i Paesi Occidentali dovrebbero farsi carico dei problemi del Terzo Mondo, se sono loro stessi in crisi?». Quella dell’economista dello Zambia Dambisa Moyo non è una provocazione a sé, ma una lucida analisi della direzione che ha intrapreso il mondo. Una tesi che ha spiegato nel suo best-seller La carità che uccide (Dead Aid: Why aid is not working and how there is a better way for Africa, in Italia edito da Rizzoli), tanto sconvolgente quanto forte: il sistema degli aiuti allo sviluppo dell’Africa ha fallito e ha avuto l’unico effetto di rendere ancora più povera una terra già in miseria. L’assistenza senza limiti offerta ai governi del Continente – da non confondere con le donazioni d’emergenza, come quelle per calamità naturali ad Haiti o post tsunami – si è rivelata un disastro su tutta la linea. Non solo ha aumentato la dipendenza economica, ma ha incoraggiato la corruzione, in definitiva perpetuando l’indigenza. E i numeri le danno ragione: oggi il 50% della popolazione africana, il doppio rispetto a vent’anni fa, vive con meno di un dollaro al giorno. Una situazione che Dambisa conosce bene. E che è riuscita a lasciarsi alle spalle molto tempo fa. Classe 1969, nata e cresciuta nella capitale Lusaka, nipote
di un minatore, è lei stessa il simbolo del riscatto di un continente intero: laurea in Scienze Politiche ad Harvard, PhD in Finanza a Oxford, un lavoro come consulente alla World Bank e poi otto anni nella banca d’affari Goldman Sacks. Nel 2009 il suo libro ha creato non poco scalpore, al punto che Time l’ha inserita nella lista delle cento persone più influenti al mondo, a fianco di Barack Obama e del Nobel per l’Economia Paul Krugman. L’atto d’accusa della Moyo nasce da una profonda preoccupazione nei confronti del paternalismo autoritario dell’Occidente. E da una domanda che non riusciva a togliersi dalla testa: perché, nonostante negli ultimi 60 anni abbia ricevuto oltre 1000 miliardi di dollari erogati a vario titolo e con diverse modalità, l’Africa non riesce a rialzarsi? Si stima che tra il 1970 e il 1998 – periodo in cui il trasferimento dei capitali verso i Paesi del Terzo Mondo ha toccato l’apice – il tasso di povertà sia salito al 66%. E Stati come il Burkina Faso e il Burundi, che tre decenni fa avevano un PIL pro capite superiore a quello della Cina, sono scivolati rispettivamente al 181° e al 185° posto (su 187) nella classifica dell’indice di Sviluppo Umano dello United Nations Development Programme. L’economista non punta il dito solo contro i tentativi di arricchimento personale che 029
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hanno portato amministratori e dittatori come Mobutu Sese Seko (Zaire), Frederick Chilobu (Zambia) e Robert Mugabe (Zimbawe) a rubare miliardi di dollari, usati poi per investire in immobili, beni di lusso e armi, lasciando a secco le casse statali. La causa del declino dell’Africa va cercata soprattutto nelle politiche di quei governi che hanno creato un fiorente business di cui beneficiano anche le fondazioni internazionali, le multinazionali alimentari e persino le ONG, molte delle quali, attacca la Moyo, sono interessate a perpetuare la povertà per giustificare la loro esistenza. E non giovano neanche grandi eventi organizzati da rockstar come Bono Vox e Bob Geldof, che invece di aumentare realmente la consapevolezza della gente, fanno leva soltanto sull’emotività superficiale che porta all’elemosina. Insomma, sostiene, bisogna sfatare il mito che un’economia aid dependent, ancorata ai fondi umanitari come unica ma costante e ingente forma di sostentamento, possa alleviare le difficoltà strutturali del Continente. Tutto, invece, sembra dimostrare che la solidarietà accresca i danni innescando «un circolo vizioso tra le sovvenzioni internazionali e la corruzione endemica delle amministrazioni sovvenzionate dall’Occidente, che ostacolano lo sviluppo delle libertà civili e impediscono la nascita di istituzioni trasparenti». «Aiuta davvero soltanto l’aiuto che aiuta a eliminare l’aiuto», ha scritto il filosofo e storico africano Joseph Ki-Zerbo. Per questo la proposta dell’economista è abolire gran parte dei finanziamenti, certo in modo graduale e tenendo conto del diverso grado di sviluppo dei vari Paesi. L’obiettivo è mettere in atto una sorta di “piano Marshall” per indurre gli Stati africani a uscire da questa perenne “adolescenza economica” e affrancarsi dalla “droga degli aiuti”. Un’idea ambiziosa: non sorprendono, quindi, le critiche mosse da chi gestisce il settore. Non si chiede, tuttavia, all’Africa di sviluppare un nuovo sistema. Si tratta, invece, di applicare quello che avviene altrove. «Il resto del mondo sta già operando sul modello che descrivo, basato sulla combinazione di strategie di libero mercato, un commercio più equo e investimenti stranieri diretti – spiega la Moyo. Se hanno funzionato per Cina, India e Brasile, perché non dovrebbe essere lo stesso anche per l’Africa?». Questo sarà l’anno dei mercati emergenti: qui vive quasi il 90% della popolazione mondiale. «Secondo le previsioni del Fondo Monetario Internazionale per il 2013 – continua l’economista –, il Continente africano è tra le prime tre regioni con crescita più veloce. Le stime parlano 030
Non si chiede all’Africa di sviluppare un nuovo sistema, ma di applicare quello che avviene altrove: una combinazione di strategie di libero mercato, commercio più equo e investimenti stranieri diretti
meno finanziamenti per aiutare l’africa |
di uno sviluppo del 6-7% entro il 2014. Solamente negli ultimi dodici mesi 60 Stati in via di sviluppo hanno deciso di puntare sull’emissione di bond per ottenere liquidità da impiegare per la costruzione di strade, ponti, centrali elettriche e ferrovie. Come dimostrano gli esempi di successo del Sudafrica e del Botswana, è ormai superata l’impressione che l’Africa sia solo sottosviluppo, guerre e carestie». Oltretutto, questa visione non tiene conto di un’urgenza sempre maggiore che riguarda anche i Paesi donatori, sottolinea la Moyo. «Nel Maghreb la mancanza di lavoro e il rincaro dei prodotti di consumo hanno contribuito allo scoppio degli scontri in piazza. Ma è vero anche che il mondo intero sta pagando il prezzo della crisi globale. Lo stesso Occidente è minacciato in casa propria da gravi problemi strutturali: il debito sovrano che si allarga sempre più, pesanti deficit, una popolazione che decresce in età, un tasso di disoccupazione pericolosamente alto. In futuro non ci sarà abbastanza denaro da inviare in Africa. Già oggi nessun Paese parla di aiuti umanitari nelle proprie policy e il tema è diventato un “non argomento”, non affrontato neanche più nei grandi forum internazionali». Piuttosto, l’attenzione si è spostata su altri fronti. «In primo luogo – spiega l’economista –, sugli sforzi dei governi africani
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e latinoamericani per sostenere lo sviluppo usando metodi diversi tra quelli considerati più tradizionali. E poi sugli investimenti nel Continente di altre potenze emergenti come la Cina». Pechino, infatti, è passata da una politica di prestiti a fondo perduto in cambio di risorse naturali alla concessione di crediti finalizzati e alla costruzione di infrastrutture. E il volume dell’interscambio già nel 2010 aveva superato quota 130 miliardi di dollari. Meno parole, quindi, più soluzioni concrete. A partire dalla liberalizzazione del mercato dei prodotti agricoli in loco, per favorire la nascente classe imprenditoriale autoctona, alla diversificazione dei prodotti (non solo petrolio), dallo sfruttamento dei mercati obbligazionari ad altre forme di micro-finanza, sul modello di quella sostenuta in Bangladesh e nata da un’idea del “banchiere dei poveri” Muhammad Yunus. «Una volta resa più affidabile l’economia dei Paesi africani, si spera che miglioreranno anche la politica e la democrazia», prevede la Moyo. La vera ricchezza dell’Africa risiede nella terra, ma il motore del cambiamento saranno i giovani, conclude. «Più del 60% della popolazione ha meno di 25 anni: su questa forza bisogna fare leva in modo dinamico, investendo in competenze e istruzione».
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interviste
un impegno pubblico progetto fotografico di White
Governi e amministrazioni cercano di tenere il passo dei cambiamenti del Terzo settore immaginando un nuovo ruolo per il pubblico. Le iniziative, le idee e l’atteggiamento nei confronti della filantropia in due amministrazioni di città italiane, Verona e Milano, raccontate dai sindaci.
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intervista
La regia strategica degli enti locali Intervista a Giuliano Pisapia Sindaco di Milano
di Giuseppe Gobetti
La solidarietà ambrosiana cresce nel terzo millennio. Le caratteristiche storiche della filantropia che, tra carità e assistenzialismo, tutela i più deboli, oggi si saldano in un rapporto più stretto tra enti locali e Terzo settore, che può favorire lo sviluppo economico. Giuliano Pisapia risponde a Oxygen sull’evoluzione dei rapporti tra mano pubblica e mondo non profit.
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Sindaco Pisapia, ritiene positivo, nel Suo territorio, il ruolo delle istituzioni non profit nell’assicurare coesione sociale, welfare, valori morali e sviluppo economico? Il non profit ha un ruolo strategico nella società perché contribuisce a tenerla unita, costituendo una rete fitta di rapporti tra le associazioni e tra i cittadini. In particolare, per il territorio milanese, le realtà del Terzo settore sono un collante fondamentale. Creano legami, producono cultura, promuovono benessere, si occupano delle categorie più fragili. Tutti i soggetti, dalle piccole associazioni sino alle grandi organizzazioni internazionali, sono animati da grandi spinte ideali, sete di giustizia sociale, solidarietà e altruismo. Per questo il loro impatto sul resto della società è stato, è, e sarà estremamente positivo. Come interagisce l’ente locale con la sfera delle organizzazioni non profit? Quali miglioramenti nei rapporti istituzionali potrebbero essere apportati? Enti locali e organizzazioni non profit devono essere grandi alleati e collaborare nel rispetto, ciascuno, dei propri ruoli. Così accade a Milano, dove l’Amministrazione comunale affida, attraverso bandi, la gestione di importanti attività e iniziative alle realtà del Terzo settore. Certo le linee di indirizzo debbono essere delineate dall’Amministrazione, e anche i controlli: ma è fondamentale la reciproca fiducia e lo scambio delle esperienze. Credo fermamente che l’ente locale debba ascoltare e assumere un ruolo di regia strategica per rispondere alle esigenze che nascono dal territorio. Le organizzazioni non profit denunciano spesso una volontà, da parte degli enti pubblici, di “controllare” e orientare il privato sociale a fini di parte, condizionando anche le erogazioni pubbliche a criteri diversi da quelli dell’efficacia, efficienza ed economicità. Come risponde a queste critiche? In particolare, il settore non profit è in grado di crescere in piena autonomia o rimane troppo dipendente dalla mano pubblica? Regia non significa condizionare. Il nostro obiettivo è lo sviluppo di una rete che possa collaborare con il Comune di Milano per rispondere alle esigenze dei soggetti più deboli e fragili. Obiettivi comuni e condivisi con il vasto mondo del non profit milanese. Rispetto alla capacità di crescere, invece, ritengo che queste stesse realtà siano in grado di muoversi in piena autonomia. Non dipendono dal pubblico, in quanto sono ormai capaci di reperire fondi attraverso il fundraising e il sostegno privato. Il settore for profit e quello non profit faticano a dialogare, sia per ragioni culturali, sia per la storica, reciproca diffidenza, sia, infine, per una presenza su alcuni mercati che può assumere, nei fatti, tratti di concorrenza. Vede la possibilità, per l’ente locale, di assumere un ruolo di facilitatore di tali rapporti, nell’ottica del bene comune dei cittadini e del territorio? Onestamente credo che le distanze rispetto al dialogo tra il for profit e il non profit si siano accorcia035
te. Questo perché il settore for profit ha intrapreso, ormai da anni, una seria attività di responsabilità sociale che ha portato le aziende a essere più sensibili su temi che un tempo o non venivano considerati o erano ritenuti secondari: penso, ad esempio, all’ambiente, ai soggetti più fragili, all’infanzia, alle diseguaglianze in generale. L’ente locale può facilitare questo dialogo, avvicinare i soggetti e promuovere progetti comuni. A Milano lo abbiamo fatto e lo stiamo facendo attraverso diverse iniziative con il mondo imprenditoriale e il Terzo settore. Da queste collaborazioni sono scaturiti importanti interventi a favore dell’infanzia, delle donne, della promozione della cultura, della salute. Quali azioni concrete si possono mettere in atto, da parte degli enti locali e del governo centrale, per favorire il rapporto fra istituzioni non profit e imprese for profit? L’ente locale, o il governo centrale, deve assumersi la responsabilità di convocare gli attori intorno a quel tavolo e di mantenere vivi i rapporti. A Milano ricordo, ad esempio, che si è tenuto il Forum Nazionale della Cooperazione internazionale, che ha fatto incontrare esperienze associative diverse, che lavoravano anche nello stesso campo ma che, in non pochi casi, non si conoscevano direttamente. Questo esempio può essere ripetuto come momento di scambio e crescita tra il non profit e le imprese for profit. La filantropia, le fondazioni d’impresa e le charities in generale sono attori importanti per lo sviluppo del territorio e per il rafforzamento della coesione sociale: che cosa chiedete loro e a quale tipo di rapporti dovrebbe essere ispirata l’interlocuzione? Sono tutti attori molto importanti che, ovviamente, lavorano in piena autonomia. Quello che possiamo chiedere è di pensare a progetti che tengano conto dei problemi, dei bisogni e dell’attesa di risposte da parte del territorio in cui operano. Non iniziative calate dall’alto, ma frutto dell’ascolto e della relazione con chi è impegnato quotidianamente nel lavoro sociale. Che giudizio dà sul ruolo delle fondazioni ex bancarie e sullo stato attuale dei rapporti che avete con loro, facendo riferimento nello specifico ai progetti sul territorio? Sono giudizi molto positivi. Cito alcuni esempi importantissimi per la città di Milano. La collaborazione con Fondazione Cariplo, tra l’altro, ci permetterà di valorizzare sempre di più il Castello Sforzesco e, in particolare, la Pietà Rondanini di Michelangelo; inoltre penso al contributo che è stato dato alla città per la riqualificazione del Parco Trotter, per non parlare di tanti progetti di carattere sociale e culturale che sono stati e saranno possibili solo con il contributo della Fondazione. Analogo discorso posso fare per la Fondazione Banca del Monte che ci ha permesso interventi di carattere sociale e culturale che da soli non avremmo potuto portare a termine e che, come del resto la Fondazione Cariplo, contribuisce non solo economicamente ma 036
Le distanze tra il for profit e il non profit si sono accorciate. Questo perché il settore for profit ha intrapreso, ormai da anni, una seria attività di responsabilità sociale che ha portato le aziende a essere più sensibili su temi un tempo non considerati
anche con una presenza attiva di propri rappresentanti ai successi della Scala. Un esempio diverso, ma altrettanto importante, è quello dell’iniziativa che, ogni anno, vede la collaborazione di Unicredit, Unicredit Foundation e Filarmonica della Scala e che presentiamo nella sala dell’Orologio di Palazzo Marino. Il ricavato delle prove della Filarmonica, alle quali può partecipare il pubblico, viene devoluto ad associazioni che ogni giorno si occupano, sul territorio, di disagio sociale. L’anno scorso i proventi sono stati dati all’Opera Cardinal Ferrari, al Centro Francescano Beata Maria della Passione, a Cena dell’Amicizia e a Pane Quotidiano. Come pensa di valorizzare l’enorme risorsa del volontariato che, anche alla luce dei recenti dati del censimento Istat, si conferma vitale e dinamico nel suo territorio? Milano è la capitale del volontariato e per questo abbiamo creato una specifica delega all’interno di un assessorato. Recentemente abbiamo realizzato un progetto per la promozione del volontariato giovanile che ha coinvolto più di 1500 ragazzi. L’intento è quello di promuovere il rinnovamento generazionale delle organizzazioni di volontariato milanesi, favorendo l’inserimento dei giovani e la nascita di nuove realtà associative.
Come giudica il contributo che, attraverso iniziative di responsabilità sociale, le imprese, soprattutto di grandi dimensioni, stanno cercando di offrire nell’ottica di uno sviluppo sostenibile? Tutti i contributi sono positivi a patto che si rispettino due condizioni. La prima è che le buone intenzioni scritte sui rapporti di sostenibilità si traducano in azioni concrete con una ricaduta effettiva ed efficace sul territorio. La seconda è che l’attività di core business di un’azienda non contraddica nei fatti ciò che viene proclamato in termini di sviluppo sostenibile. Se non c’è questa coerenza non si può più parlare di responsabilità sociale. Quali opportunità presenta Expo 2015 per far crescere e portare a frutto le relazioni tra istituzioni pubbliche, non profit e imprese? Expo è una straordinaria occasione per sperimentare, con creatività, nuove modalità di relazione e inventare nuovi progetti. Ci sarà la grande opportunità di poter lavorare in chiave internazionale e di confrontarci con le buone pratiche di altri Paesi. Inoltre vorrei sottolineare come proprio i volontari avranno un ruolo rilevante in Expo 2015. Ne sono previsti 18.000, un “esercito” prezioso che ci renderà orgogliosi.
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intervista
La ricchezza del sociale Intervista a Flavio Tosi Sindaco di Verona di Luca Bosco
Il mondo del non profit assolve alla fondamentale funzione di creare un tessuto sociale coeso, prerogativa indispensabile perché si generino risorse economiche e si superino momenti di crisi. Lo pensa Flavio Tosi che racconta l’esperienza di un comune in cui più di un terzo del bilancio è destinato a servizi socio-educativi per i cittadini.
Il non profit è una risorsa strategica del territorio e l’ente pubblico deve valorizzarne le potenzialità sia nella gestione dei servizi sociali, sia nella programmazione e nel lavoro in rete, così da rispondere ai bisogni emergenti dei cittadini e, al tempo stesso, riqualificare la spesa secondo criteri di efficienza ed economicità. È una ricetta chiara e precisa quella che Flavio Tosi, primo cittadino di Verona, illustra a Oxygen sullo stato dei rapporti tra sfera pubblica e mondo non profit. Una linea strategica confortata dal dato di fatto che, proprio nella città di Verona, il ruolo sussidiario delle organizzazioni del Terzo settore, dalle associazioni alle charities fino alle imprese sociali, appare forte e radicato, nonostante le difficoltà innescate dalla crisi. Sindaco Tosi, come giudica, nel suo territorio, la capacità delle istituzioni non profit di assicurare coesione sociale, welfare, valori e sviluppo economico? La nostra esperienza trae forza da questa certezza: sono le risorse sociali che generano quelle economiche e non viceversa, come sostiene Amartya Sen, l’economista premio Nobel nel 1998. È un tessuto sociale che funziona bene a dare la possibilità di avere risorse economiche, mentre le risorse economiche, da sole, non ge-
nerano un tessuto sociale adeguato a mantenerle. Nessun imprenditore andrebbe volentieri a investire dove c’è disagio sociale, dove ci sono incertezza, paura, insicurezza o dove le persone si sentono minacciate nell’abitare, nel lavorare e più in generale nella loro vita quotidiana. Partendo da questa convinzione di fondo, come interagisce l’ente locale con la sfera delle organizzazioni non profit? Quali miglioramenti nei rapporti istituzionali potrebbero essere apportati? Il mondo non profit per noi è di vitale importanza. Il Comune di Verona stanzia circa 90 milioni di euro, più di un terzo del proprio bilancio, per servizi socioeducativi a favore dei cittadini, di cui 50 milioni circa per i servizi sociali, che vengono erogati ricorrendo al non profit, che nel corso degli anni ha dimostrato la capacità di adeguarsi ai problemi e di riuscire ad aggregare persone e risorse. Gestiamo i servizi per anziani, minori, senza fissa dimora e disabili attraverso circa 100 associazioni, cooperative, fondazioni e tutto ciò che fa riferimento al mondo del volontariato e del Terzo settore, una realtà che a Verona ha espresso finora una grande vitalità e si è dimostrata strategica nel rinnovamento del welfare. Grazie al lavoro invisibile ma benemerito di tanti vo039
lontari si è realizzata, infatti, un’importante rete di protezione sociale, in grado di aderire a una molteplicità di bisogni e di nuove povertà tradizionalmente non coperte. Questa esperienza, va detto, ha anche aiutato a modificare modi di intervento che, a partire dalle esperienze spesso promosse autonomamente dai soggetti non istituzionali, è stata poi fatta propria dalle istituzioni. A tale riguardo le organizzazioni non profit denunciano talvolta la volontà, da parte degli enti pubblici, di “controllare” e orientare il privato sociale a fini di parte, condizionando anche le erogazioni pubbliche a criteri diversi da quelli dell’efficacia, efficienza ed economicità. Come risponde a queste critiche? In particolare, il settore non profit è in grado di crescere in piena autonomia o rimane troppo dipendente dalla mano pubblica? Francamente ritengo improbabile che un ente pubblico possa orientare il privato sociale per fini di parte, dal momento che tutti i contraenti sono scelti attraverso pubblici appalti, le commissioni sono costituite da tecnici e i criteri di scelta sono basati sulla qualità dei progetti, la conoscenza del territorio, la solidità organizzativa e l’offerta economica. Al Comune spetta il compito di programmare e 040
di controllare la congruità del lavoro affidato al Terzo settore con la massima trasparenza, senza permettere ad alcuno di sprecare i soldi dei contribuenti. Che il gestore sia l’ente pubblico, un partner privato o il privato sociale, quello che conta è la qualità dei servizi, la competenza e la professionalità nel gestirli, in base a criteri di efficienza, di equità e di economicità. Il profit e il non profit faticano a dialogare, sia per ragioni culturali, sia per la storica, reciproca diffidenza, sia, infine, per una presenza su alcuni mercati che può assumere, nei fatti, tratti di concorrenza. Vede la possibilità, per l’ente locale, di assumere un ruolo di facilitatore di tali rapporti, nell’ottica del bene comune, cioè nell’interesse dei cittadini e del territorio? Federsolidarietà, l’organizzazione di rappresentanza politico-sindacale delle cooperative sociali, stima che la cooperazione sociale dipenda per circa il 60,5% da risorse pubbliche: è chiaro, quindi, che la contrazione della spesa nel sociale avrà sicuramente effetti negativi sul mondo del non profit. L’Amministrazione comunale di Verona ha sempre scelto, nel corso degli anni, di non ridurre di un centesimo la spesa sociale, ma è evidente che, con i tagli ai trasferimenti statali operati dal Governo, le comunità locali non po-
tranno mantenere a lungo il livello qualitativo dei servizi fino a oggi erogati. Ritengo perciò che in futuro sarà sempre più rilevante la capacità imprenditoriale del Terzo settore, anche attraverso il ricorso a due strategie considerate premianti: la capacità di accedere a risorse liberali straordinarie e di raccogliere domande paganti. La capacità del Terzo settore di affermarsi in tale ambito dipenderà molto dalla capacità di innovazione nelle proposte, oltre che da quella di reperire risorse anche accedendo al credito, per sostenere finanziariamente le proprie attività autonome. Resterà comunque fondamentale, anche nel futuro, la capacità di cooperare su obiettivi comuni. Quali azioni concrete si possono mettere in atto, da parte degli enti locali e del Governo, per favorire il rapporto fra istituzioni non profit e imprese? Per facilitare i rapporti con i nostri partner è nostra abitudine lavorare in rete, per riqualificare la spesa ed evitare inutili doppioni, certi che l’ente locale debba gestire di meno e controllare di più. In un quadro tanto complesso è essenziale fare sistema con tutte le realtà economiche e sociali, e giungere a una sorta di patto dove ognuno concorre a mantenere la società. A Verona, quindi, si è cercato di lavorare sinergicamente con il territorio; lavorare per aree di intervento, così da dare risposte specifiche; implementare l’informazione, in modo da aiutare il cittadino bisognoso a muoversi efficacemente tra i diversi enti erogatori di servizi.
A Verona si è cercato di lavorare sinergicamente con il territorio; lavorare per aree di intervento, così da dare risposte specifiche; implementare l’informazione, in modo da aiutare il cittadino bisognoso a muoversi efficacemente tra i diversi enti erogatori di servizi
Che giudizio dà sul ruolo delle charities? E sulle fondazioni ex bancarie, alla luce dei rapporti che avete in corso, con riferimento nello specifico ai progetti sul territorio? A Verona abbiamo la fortuna di avere la Fondazione Cariverona, che non rappresenta un semplice soggetto erogatore di risorse, ma che affianca l’Amministrazione comunale sin dalla fase progettuale e nella lettura dei bisogni del nostro territorio. La Fondazione Cariverona, negli ultimi anni, ci ha permesso di sperimentare importanti progetti come il Progetto Alzheimer, che abbiamo implementato e messo a sistema per affiancare le famiglie che affrontano questa tremenda malattia: abbiamo creato un’assistenza domiciliare specifica, tre centri diurni, posti di sollievo e residenze dedicate. Sempre con Cariverona abbiamo sperimentato il progetto Marginalità estrema, destinato ai senza fissa dimora, che ci ha consentito di programmare con il Terzo settore interventi mirati che non si limitano alla logica dei posti letto, ma si pongono l’obiettivo di “emancipare” i soggetti ritenuti cronici, facendoli uscire dai dormitori. Infine, per aiutare le famiglie colpite dalla crisi economica, abbiamo attivato il progetto Nuove Povertà, in origine finanziato dalla Fondazione e successivamente messo a regime con risorse di bilancio dedicate, oltre che con i fondi del 5 per mille. 041
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intervista
L’anti archistar Intervista a Cameron Sinclair
Cofondatore di Architectura for Humanity di Raffaele Oriani
Dalla fine degli anni Novanta l’ONG Architecture for Humanity ha attuato interventi che sono atti di impegno sociale. Con una concezione di architettura condivisa con i destinatari del progetto e open source, ha preso le distanze da quegli architetti-artisti che firmano pezzi unici dove l’utilità spesso è in secondo piano rispetto alla bellezza.
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All’ultima Biennale d’architettura di Venezia la parola d’ordine era “common ground”. L’archistar David Chipperfield aveva scelto il tema per «incoraggiare i colleghi a reagire alle tendenze del nostro tempo che enfatizzano le azioni isolate e individuali». Anche il mainstream riscopre quindi il senso di comunità e promuove una miscela di preoccupazioni ambientali e consapevolezza sociale, desiderio di svolta e richiami a una tradizione di buone pratiche collettive e spesso anonime. Tanto peggio per chi continua a pensare all’architetto come a un artista che dissemina di pezzi unici il museo-mondo. E tanto meglio per i tipi alla Cameron Sinclair, quarantenne londinese che da anni fa base a San Francisco e può dire candidamente «Mi sono sempre sentito la pecora nera della categoria: per i miei colleghi tutto ruota attorno alla bellezza dell’edificio, per me il cardine è sempre stata la sua utilità». Architettura come impegno sociale. E come causa comune di chi sa tenere a freno il proprio ego. Non per nulla Sinclair alla fine degli anni Novanta, con 700 dollari e due siti web, fonda Architecture for Humanity, ONG che in quindici anni ha coinvolto oltre 6000 professionisti offrendo un tetto a famiglie, scolaresche, medici e malati di 47 Paesi del mondo. Come ha capito che l’architettura poteva essere uno strumento al servizio del non profit? Nel ’99 avevo 25 anni, vivevo a New York ma seguivo i restauri del grande complesso monumentale di Constantin Brancusi, in Romania. Lì, a poche centinaia di chilometri, infuriava la guerra del Kosovo, e di fronte a quel fiume di rifugiati mi sono detto che come architetto non potevo restare a guardare pensando solo ai miei progetti.
Sinclair alla fine degli anni Novanta, con 700 dollari e due siti web, fonda Architecture for Humanity, ONG che in quindici anni ha coinvolto oltre 6000 professionisti offrendo un tetto a famiglie, scolaresche, medici e malati di 47 Paesi del mondo
E cosa ha fatto? Be’, ero giovane. Ho cercato il numero di telefono dell’Alto commissariato per i rifugiati dell’ONU, li ho chiamati e mi sono messo a disposizione. Eppure non mi bastava. Avevo delle idee su come progetta043
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re i rifugi temporanei per i profughi, ma pensai che da solo non avrei fatto molta strada: così lanciai un concorso non profit online aperto a tutti gli architetti del mondo. Risposero in centinaia, inviando progetti e offerte di denaro, ma soprattutto facendomi capire che lì fuori c’era una grande energia da sfruttare in positivo. Così è nata Architecture for Humanity. Ma l’architettura può davvero fare la differenza? È sempre stata una mia fissazione. Sono cresciuto in un quartiere di Londra pieno solo di enormi torri di cemento. Ricordo che già a sei o sette anni passavo le ore a ricostruire con i Lego tutto quanto mi stava attorno: pensavo che tra palazzi diversi saremmo stati tutti più felici. Qual è la vera forza di Architecture for Humanity? Innanzitutto un database di 75.000 architetti pronti a collaborare ai nostri progetti gratuitamente o a tariffe decisamente ridotte. E poi la nostra capacità di operare con e non per chi ha bisogno. Coinvolgere le comunità è un processo faticoso, che richiede tempo e impone ai nostri progettisti di vivere per mesi in condizioni di grande disagio, ma ne vale la pena. Un progetto condiviso è infinitamente più ricco di uno imposto dall’esterno. Cosa sanno le comunità più o meglio degli architetti? Conoscono i propri gusti e le proprie esigenze. Un edificio sostenibile è prima di tutto un edificio apprezzato. Puoi usare tutta la tecnologia e i pannelli solari che vuoi, ma se una comunità rifiuta il tuo lavoro avrai prodotto solo un grande spreco di risorse.
Coinvolgere le comunità è un processo faticoso, che richiede tempo e impone ai nostri progettisti di vivere per mesi in condizioni di grande disagio, ma ne vale la pena. Un progetto condiviso è infinitamente più ricco di uno imposto dall’esterno 044
Il focus del nostro lavoro è sociale, non finanziario, quindi mi sembra naturale coltivare un approccio open source
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Per Enel Cuore – l’ente non profit della multinazionale italiana dell’energia – state curando sette interventi in Europa e in America Latina. Anche qui la priorità è il coinvolgimento delle popolazioni? Certamente; penso che Enel si sia rivolta a noi proprio per questa nostra competenza da architetti-antropologi. L’esperienza di Architecture for Humanity ci dice che ogni iniziativa ha bisogno di una comunità che partecipa, un donatore che oltre ai soldi metta attenzione, passione, motivazione, e un buon progetto architettonico. Nel caso della nostra partnership con Enel Cuore non manca nessuno dei tre ingredienti. A che punto sono i progetti? Finita la fase di studio, stiamo avviando tutti e sette i cantieri. Saranno completati nella prima metà del prossimo anno. Che tipo di interventi sono? Puntiamo soprattutto su strutture per i giovani, le donne, il lavoro. Così, ad esempio, in Perù abbiamo aperto il cantiere di una scuola che in fase progettuale si è giovata moltissimo dei contributi dei bambini e dei genitori che la utilizzeranno. O in Cile stiamo per realizzare due centri che rilanceranno la tradizione tessile delle donne di etnia Pehuenche. Quest’ultima è stata un’esperienza fantastica: il nostro architetto aveva presentato un bel progetto solido, sostenibile, efficiente. Ma alle comunità locali non piaceva: bene, da architetto posso dire che i lunghi mesi di confronto che abbiamo alle spalle hanno decisamente migliorato il progetto.
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Alla fine il copyright progettuale è dell’architetto o della comunità? Il focus del nostro lavoro è sociale, non finanziario, quindi mi sembra naturale coltivare un approccio open source. Concretamente cosa significa? Vuol dire mettere a disposizione del nostro network di architetti calcoli, disegni, foto. E funziona: ci è anzi già successo di venire replicati prima ancora di riuscire a completare l’opera. Lo so perché qualche anno fa ero a New York per presentare la struttura in terra cruda che avevamo escogitato per una scuola in Uganda. Bene, alla stessa conferenza prima di me intervenne un collega presentando una scuola appena ultimata in Kenya con la stessa tecnica. Ammise candidamente che aveva trovato la soluzione nel sito di Architecture for Humanity. Non sono mai stato tanto contento. In tanti anni quante case avete costruito? Abbiamo portato a termine 350 progetti, alcuni per un solo edificio, altri anche per mille abitazioni. In tutto abbiamo fornito casa, scuola o strutture sanitarie a quasi due milioni di persone. Qual è l’intervento di cui va più fiero? Forse gli alloggi costruiti a New Orleans per i profughi post-Kathrina; o i venti centri sportivi e sanitari allestiti in Sud Africa dopo la Coppa del mondo 2010. Ma sono particolarmente orgoglioso anche dei progetti che stiamo curando per Enel Cuore: mi piace che siano destinati a comunità molto specifiche. Siamo un’organizzazione globale ma rispondiamo a bisogni locali. 045
Attenzione al Sud Intervista a Carlo Borgomeo Presidente Fondazione CON IL SUD di Maria Chiara Voci fotografie di Renato Franceschin
In collaborazione con Enel Cuore, la Fondazione CON IL SUD ha sviluppato in quattro anni numerosi progetti rivolti al Mezzogiorno, un’area geograficamente lontana dalle fondazioni bancarie e quindi esclusa dalla maggior parte delle iniziative di solidarietà . 046
Nell’universo della charity è un’esperienza del tutto particolare: la Fondazione CON IL SUD è, infatti, la prima e unica struttura in Europa che vanta, fin dalla nascita nel 2006, l’alleanza fra le Fondazioni di origine bancaria e il mondo del Terzo settore e del volontariato. L’obiettivo è dare sostegno a progetti innovativi e riproducibili, nei territori del Mezzogiorno, volti a creare coesione sociale e sviluppo, con iniziative che vanno dall’educazione dei giovani, alla diffusione della cultura della legalità, all’integrazione degli extracomunitari e alla promozione dei talenti. L’erogato è di circa 20 milioni di euro l’anno, a cui si aggiungono i fondi in arrivo attraverso i partenariati. Fra tutti, quello ormai storico con Enel Cuore Onlus. Dal settembre del 2009 alla guida della Fondazione CON IL SUD c’è Carlo Borgomeo, fondatore e primo presidente del settimanale “Vita”, per quattordici anni presidente della Società per l’imprenditorialità giovanile e fino al 2002 amministratore delegato di Sviluppo Italia. Come nasce la collaborazione con Enel Cuore? Fin dall’inizio abbiamo spinto per aprire la nostra realtà al partenariato con altre Fondazioni o enti del sociale. Innanzi-
tutto con l’obiettivo di mettere insieme le esperienze e di condividere le reti e la capacità organizzativa. In secondo luogo, per intercettare nuove risorse, da dirottare verso il Mezzogiorno d’Italia. Da qui la collaborazione con Enel. Quali sono le principali esperienze che avete portato a termine insieme? Il primo bando risale al 2009 e riguardava servizi per i disabili e gli anziani non autosufficienti. Enel Cuore ha cofinanziato, per un importo di 250.000 euro, cinque dei dodici progetti selezionati. Successivamente, nel 2010, per il bando “Educazione dei giovani”, Enel Cuore ha sostenuto, per un importo di 400.000 euro, undici progetti sui sedici selezionati. L’esperienza si è rivelata molto positiva e ci ha portato a sviluppare altre iniziative, in svariati ambiti: dalla valorizzazione e gestione sostenibile di un immobile sequestrato alla ‘ndrangheta, a Polistena, fino al sostegno a un progetto UISP per le attività sportive in alcuni carceri minorili nel Sud Italia, fino all’ultimo, nato in via sperimentale lo scorso anno e incentrato sul sostegno alle donne che vivono in aree metropolitane. Un filone che ha già dato ottimi risultati. Una delle iniziative messe in campo, ad esempio, ha l’obiettivo
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di creare nel quartiere Forcella di Napoli alcune cooperative di donne immigrate e napoletane che si occupano di catering e ristorazione. Com’è possibile far lavorare insieme, con successo, due strutture complesse come la vostra e quella di Enel Cuore? Il segreto sta nella condivisione di tutte le fasi dei diversi progetti, fin dall’avvio e dall’istruttoria. In questo modo, è possibile distribuire in modo organico responsabilità e carichi di lavoro, evitando ogni sovrapposizione e individuando ruoli complementari. Per questa stessa logica, non abbiamo un accordo a priori per la ripartizione dei compiti, ma ciascun progetto è valutato a sé e, a seconda delle diverse competenze che richiede, con grande flessibilità, viene individuato il coinvolgimento delle rispettive realtà. Da anni lei si occupa di promozione dello sviluppo. Come giudica la maturità dell’Italia nel campo della filantropia? Il nostro Paese registra, purtroppo, in questo settore un gap notevole rispetto ad altri Stati. Come più volte è emerso dal confronto internazionale, da noi la cultura della charity non è sviluppata a sufficienza e il settore non è normato in modo appropriato. Ciò non significa che non vengano promosse ottime iniziative, valide sia dal punto di vista della sostenibilità e dell’impegno sia della riuscita finale. Ma si tratta, purtroppo, di esperienze spesso isolate, sparse sul territorio, non omogenee o ripetibili e senza alcuna sinergia anche sotto l’aspetto della ricerca e concentrazione di risorse economiche. Inoltre, non esistono nella nostra cultura sistemi di rating che consentano di mettere a confronto le iniziative, giudicare i risultati ottenuti e migliorare o ripetere i modelli di successo. La Fondazione CON IL SUD si rivolge a un territorio ben definito. Come funziona la filantropia nel Mezzogiorno? Per rispondere a questa domanda, è necessario premettere che in Italia, più che in altri Paesi, è assolutamente centrale 048
nelle iniziative di solidarietà il ruolo delle fondazioni bancarie. Queste, però, hanno sede soprattutto al Nord e al Centro del Paese. È dunque un fatto che, sotto l’aspetto della distribuzione delle risorse, il Sud sconti un problema di squilibrio. Nel 90% dei casi, le regioni meridionali sono tagliate fuori dalle iniziative di solidarietà messe in campo. A questa situazione, poi, si aggiungono i problemi che attraversano tutto il nostro Paese, dalla crisi economica al taglio delle risorse per gli enti locali. Anche per la sua esperienza passata, lei è un profondo conoscitore delle dinamiche socioeconomiche del Mezzogiorno e dei problemi legati allo sviluppo dell’imprenditorialità su questo territorio. Quali sono gli ostacoli principali che deve tenere in conto chi si occupa di filantropia per il Meridione? Troppo spesso si parla genericamente di Sud, senza tenere conto che il Meridione ha una gerarchia territoriale molto differenziata. In passato, a volte erroneamente, si è pensato che le zone interne fossero quelle più povere e bisognose di sostegno rispetto alla fascia costiera, mentre al contrario oggi le criticità maggiori s’incontrano prevalentemente nelle fasce costiere e nelle aree metropolitane, da Napoli a Palermo al Sud della Calabria, dove c’è meno coesione sociale ed è meno radicato anche il senso di rispetto delle regole. È su questi territori che è più importante investire per costruire educazione alla coesione sociale. Per ogni bando avviato, le proposte che arrivano alla vostra realtà sono molteplici. Come avviene la selezione? Come si sceglie un progetto da finanziare? Per l’ampio territorio di competenza la Fondazione è “condannata” a gestire una situazione di forte squilibrio tra risorse disponibili e domanda potenziale. Le risorse vengono distribuite solo attraverso specifici bandi di gara, con l’eccezione di quelle impegnate in progetti cofinanziati. Nella valutazione delle proposte teniamo conto, innanzitutto, della natura del progetto e della credibilità del soggetto proponente. In secondo luogo, per una pre-
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Da noi la cultura della charity non è sviluppata a sufficienza e il settore non è normato in modo appropriato. Ciò non significa che non vengano promosse ottime iniziative
cisa scelta strategica, la Fondazione non finanzia mai iniziative presentate e attuate da un solo soggetto. Crediamo, infatti, nel valore aggiunto della collaborazione. Infine, nel vagliare le domande, gioca un ruolo fondamentale la sostenibilità e la spinta verso l’innovazione. Il nostro aiuto, infatti, deve servire all’avvio di esperienze che poi siano in grado di sostenersi con le proprie gambe, di svilupparsi e anche di essere riproposte come modello. Al tempo stesso, premiano le idee sperimentali, che tentano nuove strade e approcci. Dall’inizio a oggi la Fondazione ha sostenuto l’avvio di oltre 430 iniziative. Qual è la percentuale di successo delle esperienze da voi finanziate? È molto alta e questo ci riempie di soddisfazione. Tre quarti delle iniziative che abbiamo finanziato sono state in grado di sostenersi e svilupparsi. Appena un quarto dei progetti, pur avendo attuato pienamente le previsioni progettuali, non è stato in grado di continuare le attività al termine della fase di avvio sostenuta dalla Fondazione. Il settore della filantropia vede protagoniste soprattutto le fondazioni bancarie. Esistono però e sono in crescita esperienze di grandi aziende, pubbliche e private, come Enel, che da tempo hanno deciso di scendere in campo per la filantropia. Come si concilia, in questi casi, la spinta alla solidarietà con la tutela del marchio? Molte aziende si stanno aprendo alla filantropia, ad esempio attraverso la creazione di fondazioni a cui viene, ogni anno, dedicato uno specifico budget. Oppure at-
traverso l’attivazione, come il caso di Enel Cuore, di divisioni per la charity interne alla realtà produttiva. In tutti i casi, il tema del rapporto con il marchio è molto forte e delicato. Un grande ente non può permettersi di sbagliare nel dare sostegno a un progetto. Per questo, è necessario procedere con estrema prudenza nella selezione delle iniziative da sponsorizzare e delle partnership da attivare. Un limite che spesso non consente di aprire il sostegno alle esperienze più piccole e meno strutturate, che non offrono garanzie di successo, anche se in potenza si tratta di ottime idee. Quali gli impegni che attendono il futuro della Fondazione? Uno dei nostri impegni è promuovere, attraverso i progetti, un cambio di mentalità. Come ho avuto modo di constatare nel mio lavoro presente e passato, è necessario spostare il dibattito meridionalistico su terreno un po’ nuovo. Siamo abituati a pensare che la coesione sociale, il senso comunitario e la densità istituzionale siano l’esito di un processo che parte dalla crescita economica. Al contrario, l’esperienza stessa della Fondazione suggerisce un paradigma contrario. L’investimento sul capitale sociale e umano è la premessa e non la conseguenza dello sviluppo economico. Senza un tessuto sociale ricettivo, le risorse che vengono spese non producono investimento. Per questo lavoriamo per la formazione, l’educazione alla legalità e la promozione del capitale di talenti che anche nel Meridione, come nel resto del nostro Paese, ha bisogno di essere riconosciuto per poter crescere. 049
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reportage
La signora dei “copii strazii” articolo di Paola Tavella Scrittrice e giornalista fotografie di Renato Franceschin
I bambini di Bucarest sono le prime vittime di una città dominata dalla miseria: senza una casa e una scuola, per anni hanno vissuto per strada, rifugiandosi nei condotti di riscaldamento sotterranei durante i freddi inverni. È a questi bambini, i “copii strazii”, che Juliana Dobrescu ha cominciato con l’insegnare la matematica, fino a diventare oggi la loro memoria storica.
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Juliana Dobrescu sfila un libro dalla borsa e lo apre a metà. Fra le pagine tiene cinquanta ron, più o meno dieci euro. Ionut, uno dei suoi ragazzi, le ha chiesto un prestito di cento euro prima di emigrare in Italia per fare il boscaiolo, e quando ha ricevuto il primo stipendio glieli ha spediti. Dopo un anno, si sono incontrati di nuovo nei bassifondi di Bucarest. Ionut aveva bisogno di cinquanta ron, Juliana non ha battuto ciglio e glieli ha messi in mano. I suoi colleghi, tutti operatori sociali, hanno pronosticato che non li avrebbe più rivisti. Juliana se n’è fregata. Dopo un mese Ionut è capitato a Parada, organizzazione non governativa fondata dal clown franco-alegerino Miloud e sostenuta da Enel Cuore, che si prende cura dei bambini di strada, soccorrendoli e insegnando l’arte circense. Juliana lavora lì, e lì Ionut le aveva riportato dieci pezzi da cinque ron: «Ora non riesco a spenderli – ride –. Mi dico che dovrei usarli per comprare qualcosa di significativo, ma per me niente è più significativo di questi soldi». Juliana è un ingegnere chimico. Durante gli anni del comunismo lavorava in un istituto di ricerche, si occupava di acque reflue. Quando il regime è crollato, ha visto famiglie normali finire in miseria da un giorno all’altro, e disgregarsi, perdere casa, il lavoro, il cibo. «Chiudevano gli uffici, le fabbriche, i negozi. La gente si rifugiava in campagna, ma non sapeva lavorare la terra. I bambini erano le prime vittime della catastrofe sociale: perdevano tutto, anche la scuola. Quando finivano soldi, cibo, elettricità, acqua, quando i loro genitori si lasciavano, cominciavano a bere, a picchiarsi, a usare violenza anche su di loro, allora i figli se ne andavano, e finivano in strada». Per Bucarest si aggiravano torme di bambini soli, scappati, perduti, oppure sfuggiti agli orfanotrofi, enormi istituti mal riscaldati, con poco personale, dove in oltre cinquemila erano stati denutriti e maltrattati. Fin dal 1966, infatti, il dittatore rumeno Nicolae Ceausescu aveva proibito l’aborto e i contraccettivi. Ogni donna sposata sotto i quarant’anni era obbligata ad avere un minimo di quattro figli. Molte famiglie non potevano mantenerli, quindi li affidavano a orfanotrofi gestiti dallo Stato, dove morivano e si ammalavano. Dopo la caduta del regime sono stati chiusi 48 orfanotrofi, ma il sistema di affido, adozione e case-famiglia non sempre ha funzionato. Centinaia e centinaia di minorenni, anche in tenera età e abbandonati a se stessi, vivevano come e dove potevano, mendicavano, rubavano, si prostituivano, si ubriacavano, sniffavano la colla. «Avevano undici, dodici anni, anche meno. Non posso dimenticare una di loro, molto arrabbiata con sua madre. Diceva: “la mamma manda la mia sorellina a chiedere l’elemosina, è così piccola che i passanti s’impietosiscono, ma in questo modo lei non va più a scuola, e se insisto risponde che deve trovare i soldi per nostra madre. Così sono andata via, ho portato la piccola con me. In casa non abbiamo niente, invece nei tombini trovo acqua calda, riscaldamento, elettricità, e una nuova 051
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Quando il regime è crollato, ha visto famiglie normali finire in miseria da un giorno all’altro. La gente si rifugiava in campagna, ma non sapeva lavorare la terra. I bambini erano le prime vittime della catastrofe sociale: perdevano tutto, anche la scuola
la signora dei “copii strazii”
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famiglia, composta da ragazzi come me”». Juliana ritiene che per alcuni la strada sia una scelta obbligata, perfino una buona scelta rispetto alle condizioni di partenza. Sulla strada arrivano i più robusti, i più intelligenti, quelli capaci di imparare le mille leggi del vagabondaggio e rispettarle, quelli che nutrono ancora speranza per il futuro. E infatti, sotto la minaccia del gelido inverno rumeno, i più intraprendenti fra i copii strazii hanno aperto i tombini d’accesso ai condotti del riscaldamento. A Bucarest, come in molte città dell’Est, esiste il riscaldamento generale, giganteschi tubi dell’acqua calda corrono sotto il selciato. Il sistema dei tombini dà accesso a grandi vani di manutenzione, i ragazzi vivono lì in trenta, in cinquanta. Il fenomeno fece scalpore anche all’estero, il governo rumeno istituì una équipe di dieci persone, Juliana decise di cambiare mestiere: «Volevo dare una mano, e impegnarmi nell’ambito umanitario. Sapevo che avrei perso sicurezze, denaro, prestigio, ma non m’importava. Avevo 38 anni, ero una signorina per bene, portavo ancora la gonna», racconta con un sorriso autoironico, ora che mette solo pantaloni, scarpe basse, borse a tracolla, «una mia collega, Lilli, mi ha accompagnato alla Gare du Nord, la stazione centrale di Bucarest che ospitava un gruppo enorme di bambini di strada. Abbiamo incontrato tre ragazzi luridi, lei li ha abbracciati, io gli ho stretto la mano, in segno di rispetto. Alla fermata della metro di Brancoveanu i colleghi giocavano a dadi con una ragazzina con il cranio rasato che sembrava un uomo. Tutti portavano ai bambini vestiti, scarpe, mentre io non avevo proprio niente. I ragazzi mi hanno chiesto: allora perché sei venuta? Ho risposto che ero lì in visita. Il giorno dopo ho cominciato a insegnargli matematica, facevamo gli esercizi sul retro dei volantini elettorali. Ci siamo conosciuti così, ben presto passavo con loro tutto il giorno». I soldi pubblici durarono appena un anno, il finanziamento non fu mai più rinnovato. Save The Children prese l’iniziativa di sostenere quel progetto, assumendo tutta la squadra, e fra loro Juliana. Così è diventata la più vecchia operatrice di Bucarest, la memoria storica del fenomeno dei copii strazii, esperta di colla e un po’ delle nuove droghe etnobotaniche che stanno sostituendo la colla, si vendono a poco, legalmente, sotto forma di sali da bagno, incensi, concimi, e bruciano il cervello. I ragazzi di strada se le iniettano, moltiplicando il rischio di malattie. Molti di loro sono sieropositivi, è facile prevedere che sarà l’AIDS la nuova emergenza umanitaria. Paradossalmente, dicono i medici, era quasi meglio quando i bambini sniffavano solo la colla o si facevano l’eroina, perché l’eroina è difficile da trovare, non è allucinogena, e almeno se ne conoscono gli effetti.
Juliana, che tuttora passa per strada almeno tre notti alla settimana, è alta, forte, con lunghi capelli biondi sciolti sulle spalle – la sua unica civetteria – e modi burberi e diretti che non riescono a nascondere la sua profonda gentilezza. «Ricordo che a Brancoveanu, come mossa d’apertura, ho indetto una campagna per la pulizia, gli ho insegnato a lavarsi. Poi ho proibito di dire parolacce davanti a me e, con mio enorme stupore, i ragazzi hanno smesso. Volevo insegnargli a pensare, prima di aprire la bocca. Se sei ricco, spiegavo, puoi dire le parolacce e andare dappertutto. Se sei povero, sii almeno bene educato, così otterrai rispetto, e sentendoti rispettato reagirai meglio. Speravo di avviare un circolo virtuoso». Una cagna bianca, un po’ malferma sulle zampe, si avvicina a Juliana e le tocca la mano con il suo grande naso rosa, guardandola con occhi pieni d’amore. È Jery, trovata nella spazzatura a pochi giorni, e cresciuta a Parada. I ragazzi dei tombini rivolgono a Juliana lo stesso sguardo, la chiamano sempre Dna (signora) Juliana. Una notte ha accettato di portarmi con sé; ho visto tre ragazzi mettere via in fretta il sacchetto di colla per porgerle dei fiori, rubati chissà dove. Lei è tranquilla, amichevole. Li abbraccia, li tocca, esamina ferite, morsi di topi e di insetti, slogature, si siede con loro e ascolta storie, scherza, dispensa consigli. Non scende mai nei canali: «Voglio testimoniare che si può vivere in un altro modo, non è giusto vivere come loro». Non dà mai soldi, ma accompagna in farmacia, distribuisce sigarette, zuppa calda e altre vivande che viaggiano sul pulmino di Parada, comprato con il denaro di Enel Cuore, offerte dai cuochi dell’Hilton e da un gruppo di signore francesi filantrope, che tutti i giorni cucinano per i copii strazii. Juliana Dobrescu ha visto generazioni di bambini di strada crescere, invecchiare, farsi distruggere dalle droghe, dal freddo, dalla paura, dalla sfortuna, e salvarsi solo qualche volta. «Nel 2000 ho avuto un burn out, non ce la facevo più. Per sei mesi sono rimasta a casa. Avevo la sensazione che non si potesse fare niente di reale per i ragazzi, temevo di combattere senza speranza contro un sistema che li rifiuta e li tiene ai margini». Poi il capo dei copii strazii del tombino della metro di Uniri andò a cercare Juliana, le chiese udienza con ogni riguardo. «Quello di Uniri era il gruppo più numeroso, e si offrirono di assumermi. Mi proponevano uno stipendio mensile davvero alto, il più alto della mia vita, purché lavorassi per loro. Dissero che avrebbero venduto il rame, il ferro, l’alluminio, la carta, che avrebbero fatto qualunque mestiere pur di pagarmi puntualmente. Mi commossero profondamente, però avevo fondati sospetti sui metodi reali con cui si sarebbero procurati i soldi per il mio famoso stipendio. Così sono tornata a Parada. E sono ancora qui».
Juliana non dà soldi, ma accompagna in farmacia, distribuisce sigarette, zuppa calda e vivande che viaggiano sul pulmino di Parada
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la signora dei “copii strazii”
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Sulla strada arrivano i più robusti, i più intelligenti, quelli capaci di imparare le mille leggi del vagabondaggio e rispettarle, quelli che nutrono ancora speranza per il futuro
Pa
passepartout
Enel Cuore
10 anni di progetti 2003 nasce ENEL CUORE
Per vedere il video di Enel Cuore Onlus inquadra il QR code con il cellulare o la webcam del pc. In alternativa, puoi vedere il video direttamente all’indirizzo www.enel.it/enel_cuore
fotografie di Renato Franceschin
2005
2007
Italia 31 progetti: assistenza sociale 12, salute 9, educazione 7, sport 3 El Salvador 1 progetto: educazione Guatemala 1 progetto: educazione Romania 1 progetto: salute Totale progetti sviluppati: 34
Italia 60 progetti: assistenza sociale 29, salute 24, educazione 3, sport 4 Bosnia 1 progetto: educazione Bulgaria 1 progetto: assistenza sociale Romania 4 progetti: assistenza sociale 3, sport 1 Totale progetti sviluppati: 66
2004
2006
Italia 14 progetti: assistenza sociale 3, salute 8, educazione 3 Bulgaria 1 progetto: assistenza sociale Romania 1 progetto: assistenza sociale Totale progetti sviluppati: 16
Italia 31 progetti: assistenza sociale 16, salute 10, educazione 5 Congo 1 progetto: educazione Kenya 1 progetto: assistenza sociale Nigeria 1 progetto: assistenza sociale Panama 1 progetto: educazione Romania 2 progetti: assistenza sociale 1, educazione 1 Slovacchia 1 progetto: assistenza sociale Totale progetti sviluppati: 39
Assistenza sociale e socio-sanitaria, sostegno all’educazione, allo sport, alla socializzazione a favore di bambini, anziani, persone con disabilità. Queste le aree in cui, dalla sua nascita, Enel Cuore opera attivando progetti insieme a istituzioni, enti, associazioni e al mondo della partecipazione attiva. Numerose iniziative, che nel tempo hanno avuto una crescita esponenziale (da 16 nel 2004 a 113 nel 2010), e si sono diffusi in sempre più Paesi del mondo: dall’Italia alla Bulgaria, dal Guatemala a Panama.
2013 ENEL CUORE compie 10 ANNI
2009
2011
Italia 63 progetti: assistenza sociale 33, salute 11, educazione 15, sport 4 Albania 1 progetto: educazione Bulgaria 2 progetti: salute 1, educazione 1 Costarica 2 progetti: salute 1, educazione 1 El Salvador 1 progetto: educazione Guatemala 2 progetti: educazione Messico 1 progetto: educazione Nicaragua 1 progetto: salute Nord America 1 progetto: educazione Romania 3 progetti: salute 2, educazione 1 Russia 9 progetti: assistenza sociale 5, salute 4 Slovacchia 1 progetto: salute Totale progetti sviluppati: 87
Italia 47 progetti: assistenza sociale 22, salute 2, educazione 20, sport 3 Brasile 3 progetti: assistenza sociale 1, educazione 2 Cile 1 progetto: educazione Guatemala 1 progetto: educazione Perù 1 progetto: educazione Romania 2 progetti: salute 1, educazione 1 Russia 1 progetto: educazione Slovacchia 1 progetto: assistenza sociale Progetto internazionale 1 progetto: educazione Totale progetti sviluppati: 58
2008
2010
2012
Italia 63 progetti: assistenza sociale 26, salute 21, educazione 11, sport 5 Bulgaria 2 progetti: assistenza sociale 1, salute 1 Guatemala 2 progetti: educazione Marocco 1 progetto: educazione Nicaragua 1 progetto: salute Romania 3 progetti: assistenza sociale 1, salute 2 Totale progetti sviluppati: 72
Italia 105 progetti: assistenza sociale 52, salute 16, educazione 30, sport 7 Cile 1 progetto: salute Guatemala e Messico 1 progetto: assistenza sociale Romania 1 progetto: educazione Russia 3 progetti: salute 2, educazione 1 Slovacchia 2 progetti: assistenza sociale 1, sport 1 Totale progetti sviluppati: 113
Italia 45 progetti: assistenza sociale 20, salute 5, educazione 16, sport 4 Brasile 2 progetti: educazione Cile 1 progetto: educazione Colombia 1 progetto: educazione Marocco 1 progetto: educazione Perù 1 progetto: educazione Romania 2 progetti: salute Slovacchia 2 progetti: educazione Totale progetti sviluppati: 55
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Ap
approfondimento
Terzo settore, numeri da protagonista articolo di Elio Silva inviato speciale de “Il Sole 24 Ore”
Con una crescita quasi doppia rispetto allo scorso decennio il Terzo settore si attesta come una delle realtà più attive nel panorama italiano. Il boom numerico di iniziative, volontari, posti di lavoro, raccontato dal Censimento Istat 2012, non basta però ad attribuirgli visibilità e un ruolo politico. Il settore dovrà sapersi innovare per sfruttare questa espansione.
Dati Istat I dati dell’infografica indicano la ripartizione percentuale delle istituzioni non profit, dei volontari e dei dipendenti fra i vari settori di attività. Istituzioni non profit
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Volontari
Dipendenti
Riuscirà il Terzo settore, che negli ultimi dieci anni è cresciuto più delle imprese private e delle pubbliche amministrazioni, a conquistare un ruolo politico e una capacità di rappresentanza pari al peso che, nei fatti, sta già esercitando nell’economia e nella società italiana? E, all’interno del sistema non profit, la filantropia e i soggetti vocati alla promozione del bene comune sapranno assumere la leadership strategica che loro compete? Sono queste le principali questioni che, per quanto riguarda nello specifico la galassia degli enti non commerciali, ci vengono consegnate dai risultati del nono censimento generale dell’industria, servizi e istituzioni non profit, realizzato dall’Istat. Un quadro di assoluta rilevanza, perché per la prima volta dal lontano 2001 ci viene offerta una base informativa comune, non meramente campionaria ma universale, alla quale tutti possono attingere semplicemente consultando il sito dell’Istituto centrale di statistica. I dati preliminari del censimento, rilasciati nel corso dell’estate, segnalano un vero e proprio boom numerico delle istituzioni non profit: al 31 dicembre 2011 ne risultavano attive 301.191, il 28% in più del 2001. Il popolo dei volontari sfiora ormai i cinque milioni di persone: sono esattamente 4.758.622, il 43,5% in più del decennio precedente. Ma è soprattutto nella capacità di creare occupazione che il Terzo settore vince la sfida rispetto alle imprese e alla pubblica amministrazione: nel periodo intercorso tra i due ultimi censimenti, le istituzioni con addetti a tempo pieno sono cresciute da 38.000 a 42.000 circa (+9,5%), mentre sono raddoppiate quelle con collaboratori legati a contratti atipici (erano poco più di 17.000 nel 2001, sono 36.000 nel 059
Un settore in crescita Dal 2001 il Terzo settore ha registrato un boom: in grafica, alcuni fra gli incrementi più importanti 2011). Gli occupati sfiorano, così, il milione di unità, un numero al quale va aggiunto il contributo del lavoro volontario, non misurabile in termini monetari alla luce del principio di gratuità delle prestazioni, ma fondamentale nella tenuta e, dove possibile, nel miglioramento dell’offerta di servizi. In alcuni settori (assistenza sociale, attività artistiche, culturali e di intrattenimento) il Terzo settore è ormai la principale realtà produttiva del Paese. Anche nei comparti della sanità e dell’istruzione guadagna posizioni, soprattutto alla luce della progressiva contrazione della sfera pubblica. L’area con il maggior numero di addetti è quella dell’assistenza sociale, mentre le istituzioni attive in ambito culturale, sportivo e ricreativo risultano molto numerose, ma confermano una dimensione media decisamente inferiore, a riprova di un sistema non profit ancora tendenzialmente polarizzato. La sfera della filantropia mostra, in questo positivo contesto, una fioritura da record: il numero delle istituzioni censite è 4847, con un aumento del 289%. Tra gli enti, 1107 hanno la natura giuridica di associazione riconosciuta, 3146 sono associazioni non riconosciute (il 65%) e 478 sono fondazioni (il 10%). Ancora più eclatante il dato sull’occupazione, con gli addetti cresciuti del 408% e i volontari del 162%. Se questa, dunque, è la fotografia dell’esistente, viene naturale chiedersi perché, nella rappresentazione quotidiana della realtà, il ruolo che il Terzo settore riesce a conquistare, o a ritagliarsi, risulti così marginale e per lo più confinato a una definizione per esclusione rispetto a ciò che non fa (più) lo Stato e non fa (ancora) il privato. La stessa formula della sussidiarietà, per anni invocata come grimaldello per introdurre dosi di privato sociale in un welfare largamente intriso di burocratico statalismo, è stata spesso usata in modo puramente verticale, come trasferimento di compiti dal potere pubblico, ormai soffocato dal debito e dalle conseguenti norme di contenimento della spesa, a operatori privati che, nei fatti, in nome della cura del bene comune assumono un ruolo di mera supplenza. 060
La sensazione è che, per essere davvero protagonista come i numeri indicano, lo stesso non profit debba fare in prima battuta un maggiore esercizio di volontà, trasparenza, efficacia e capacità di innovazione
Profit: il popolo dei volontari sfiora ormai i cinque milioni di persone, il 43,5% in più del decennio precedente
Un Terzo settore che continui a crescere solo su queste basi non può certo ambire ad avere un ruolo da protagonista. Le attenuanti non mancano. Mettiamoci un granello di responsabilità da parte del sistema dei media, ovviamente più interessati a focalizzarsi su singole storie di marginalità a effetto, piuttosto che su trend economici e sociali di lungo periodo. Aggiungiamoci il consueto cinismo della politica, che fa costantemente uso dei richiami valoriali propri del Terzo settore (coesione sociale, volontariato, tutela del bene comune e via dicendo) ma, nell’azione concreta di Governo e Parlamento, non ha mai fatto mistero di considerare residuali tutte le riforme che al non profit sarebbero necessarie, dalla revisione della disciplina civilistica alla stabilizzazione del cinque per mille. Consideriamo, ancora, che la crisi economica nel corso del 2012 e nella prima metà di questo 2013 si è fortemente aggravata, così che gli stessi dati del censimento appena rilasciati potrebbero, in alcune grandezze, risultare ridimensionati per le forti difficoltà che soprattutto il non profit produttivo (cooperazione, impresa sociale) sta incontrando. Tutte queste attenuanti, però, non bastano a spiegare in maniera completa e convincente la questione di fondo che riguarda il ruolo e il peso specifico del Terzo settore nella società italiana. La sensazione è che, per essere davvero protagonista come i numeri indicano, lo stesso non profit debba fare in prima battuta un maggiore esercizio di volontà, trasparenza, efficacia e capacità di innovazione. E le charities e le istituzioni filantropiche, che ne accompagnano lo sviluppo, dovrebbero mandare segnali chiari in questa direzione, rafforzando, laddove necessario, il proprio ruolo di guida strategica. L’idea di reggere l’urto delle difficoltà economiche battendo vecchie strade di subalternità, con basse aspettative, non può fare da viatico a un comparto che davvero voglia giocare da protagonista nella nostra società. I numeri del non profit confortano grandi ambizioni, ma i primi a doverci credere sono proprio gli attori del Terzo settore. 061
Ap
approfondimento
solidarietà per rispondere alla crisi articolo di Giuseppe Frangi Direttore responsabile “Vita non profit”
Di fronte al fallimento di iniziative filantropiche modellate sui singoli obiettivi delle fondazioni, si sta assistendo a una tendenza a operare a favore di realtà in grado di agire sui territori, stimolando il confronto con le politiche pubbliche e quello con la società civile. Negli Stati Uniti, ma anche in Europa, il Terzo settore sta diventando sempre di più in grado di influenzare il mercato lavorativo, offrendo nuovi spazi occupazionali anche ai giovani.
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316,23 miliardi I dollari donati negli Stati Uniti nel 2012
228 miliardi
I dollari provenienti da donazioni individuali negli Stati Uniti
45 miliardi
I dollari provenienti dalle fondazioni negli Stati Uniti
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Il contributo delle community foundation negli Stati Uniti
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Secondo il dato più recente disponibile, reso noto da givingusareports.com, gli americani nel 2012 hanno donato a iniziative filantropiche 316,23 miliardi di dollari: il 3,5% in più dell’anno precedente, 1,5% al netto dell’inflazione. Se si analizza questo dato si scopre che le donazioni individuali raggiungono i 228 miliardi di dollari, quelle delle corporation sono attestate a 18 miliardi. Invece il giving generato dalle fondazioni ha toccato i 45 miliardi di dollari. All’interno di questa voce va sottolineata in particolare la crescita del 9,9% delle community foundation, quelle che per loro natura sono più prossime ai bisogni generati dalla crisi. A fine 2012 negli Stati Uniti erano 11 le community foundation con asset superiori al miliardo di dollari: la loro crescita è emblematica dell’evoluzione che sta vivendo la filantropia del più ricco Paese del mondo. Rispetto al modello delle fondazioni operating che investono su progetti propri seguendo linee dettate dalla mission, le community foundation puntano sul “social improvement”, mettendo risorse per sostenere realtà ed esperienze capaci di vitalizzare i territori. È questa una tendenza che ha caratterizzato complessivamente la filantropia americana, constatato il sostanziale fallimento di un approccio volto a cercare singole soluzioni. Come ha spiegato Bernardino Casadei, segretario di Assifero, l’Associazione che rappresenta le fondazioni d’impresa in Italia, le nuove tendenze vanno in due direzioni: «Da una parte si usano le risorse per influenzare le politiche pubbliche, dall’altra le risorse vengono indirizzate per finanziare iniziative con l’obiettivo di rafforzare la società civile e la sua capacità di generare autonomamente risposte di cui sente bisogno». La prima strada, identificabile con l’advocacy, si sta rivelando estremamente efficace. Il National Committee for Responsive Philanthropy ha calcolato come un investimento in questo settore di 231 milioni di dollari abbia mobilitato risorse complessive per 26,6 miliardi di dollari. In pratica ogni dollaro messo dalle fondazioni ne ha generati altri 115. Ma questa linea, per quanto efficace, desta qualche perplessità per quello che Casadei ha definito il rischio di una possibile “filantocrazia” (arrogarsi il diritto di influenzare le politiche pubbliche, seppur con buone intenzioni). La seconda linea sembra invece quella proiettata più in prospettiva e anche la più socialmente efficace. Le fondazioni, infatti, si sono ormai rese conto che i propri program officer non sono in grado di trovare soluzioni a problemi sociali sempre più complessi. Per questo scelgono di sostenere chi è in prima linea e ha acquisito il know-how per mettere in campo quelle soluzioni e si sta quindi affermando la strategic giving, tipologia le fondazioni di erogazione che non si limita alla semplice fornitura di mezzi finanziari, ma si impegna a rendere efficace l’attività finanziata. Cresce anche la venture philanthropy, una
forma innovativa d’investimento nel sociale che non si limita all’erogazione, ma partecipa al rischio d’impresa e che, oltre alle risorse, trasferisce ai soggetti beneficiari anche competenze necessarie per la crescita. C’è infatti un fenomeno che sta caratterizzando lo sviluppo delle istituzioni non profit a livello globale: ed è il boom delle “imprese sociali”, cioè di quelle imprese che hanno come mission la produzione di beni di utilità sociale. Sono imprese che a tutti gli effetti si mettono sul mercato, conservando però una differenza identitaria di matrice non profit, riassumibile nei principi di non disponibilità del patrimonio e di redistribuzione cappata degli utili. La crescita esponenziale di questa forma di impresa si spiega con la convergenza di due fattori: da una parte una domanda sempre più forte di beni “sociali”; dall’altra la maturazione di tante organizzazioni non profit, da tempo in prima linea nella risposta a nuovi e vecchi bisogni e forti di know-how di straordinario valore. Nella crisi del welfare si apre un grande mercato del sociale, che deve essere protetto da tentazioni speculative e che d’altra parte chiede forme organizzative evolute. C’è anche un terzo fattore “esterno” che sta dando un grande impulso allo sviluppo delle imprese sociali: è l’aspettativa delle nuove generazioni. È emblematica a questo proposito una ricerca pubblicata dall’organizzazione americana Net Impact, Talent Report: What workers want in 2012, focalizzata proprio sull’analisi delle aspettative di chi si affaccia sul mondo del lavoro. Secondo questa ricerca negli Stati Uniti l’impresa sociale è tra i settori più ambiti dalla generazione nata tra gli anni Ottanta e Novanta, tanto che la maggior parte degli studenti universitari (il 65%) si dice decisa a cercare un lavoro ad alto impatto sociale e il 53% dichiara che accetterebbe un taglio del 15% sullo stipendio pur di lavorare per un’organizzazione che rispecchiasse i propri valori etici. Anche in Gran Bretagna si sta assistendo a un’analoga, rapida crescita della “social entrepreneurship”. Secondo il rapporto di Social Enterprise UK pubblicato in agosto, all’incirca un terzo delle imprese sociali made in Britain, sono nate nell’ultimo biennio. Il rapporto ha fotografato un panorama estremamente incoraggiante non solo per le nuove imprese ma per tutto il social business britannico. Sono circa un milione le persone occupate nelle 70.000 imprese sociali del Regno Unito. E il numero delle start-up sociali è tre volte superiore a quello delle nuove imprese create negli altri settori. Il 38% delle imprese sociali ha aumentato il giro d’affari nell’ultimo anno, rispetto al 29% delle piccole e medie imprese negli altri settori. Il Terzo settore insomma non sembra solo resistere meglio alla crisi, ma è individuato da molti come un’opportunità di ripresa. In Gran Bretagna il fenomeno è stato favorito anche
Community foundation, strategic giving, venture philanthropy: ecco alcune delle nuove strade esplorate dalla filantropia. Tendenze e prospettive di un mondo in evoluzione
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70.000
Le imprese sociali del Regno Unito
1 milione
Le persone occupate in imprese sociali nel Regno Unito
65%
Gli universitari americani che vogliono cercare un lavoro a impatto sociale
da un’importante legge approvata nel 2012 e in vigore dal gennaio di quest’anno, il Social Value Act. In base a questa legge il concetto di valore sociale è diventato criterio obbligatorio per l’assegnazione dei servizi pubblici. Il Social Value Act non sostituisce ma integra le altre norme vigenti, e quindi non cancella il concetto di convenienza economica, fattore prioritario che determina tutte le decisioni nel settore degli appalti pubblici. Il Social Value Act introduce però nuovi criteri per calcolare tale convenienza, includendo nel computo anche l’impatto sociale. La legge tra l’altro tiene conto della normativa europea riguardante gli appalti pubblici, che ha stabilito che le esigenze sociali possono essere pienamente incluse nella prassi delle forniture e ha definito anche quali criteri debbano esser soddisfatti. Proprio dall’Europa è arrivato un importante impulso perché gli stati membri si attivino nella promozione della “social entrepreneurship” come strumento per uscire dalla crisi e a sostegno dell’occupazione. Dopo la Social Business Initiative della Commissione Europea, c’è stato il lancio dei fondi di investimento per il sociale (gli EuSEF, European Social Entrepreneurship Funds), messi a disposizione degli investitori che sono alla ricerca di veicoli per mettere risorse su progetti sociali in grado di stare sul mercato. Per la filantropia questa sembra la strada maestra del prossimo futuro. 065
Dalle ONG alle “OQG”: organizzazioni quasi governative Intervista a Don Vincenzo Paglia
Presidente del Pontificio Consiglio per la Famiglia
e Werner Külling
Cooperante internazionale di Michele Fossi
Di fronte alla crisi della governance internazionale, le ONG hanno avuto negli ultimi 25 anni una crescita significativa. Più agili e in grado di intervenire in situazioni di difficile penetrazione per i governi ufficiali, sono una realtà che ormai occupa frequentemente un posto al tavolo dei decisori. Oxygen ne parla con due degli attori principali.
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Nel corso degli ultimi cinquant’anni, un numero crescente di cittadini nell’Occidente industrializzato si è allontanato dalla politica di massa tradizionale, rinunciando a militare tra le fila di un partito o di un sindacato, e addirittura a recarsi alle urne elettorali. Al contempo, un numero crescente di organizzazioni non governative, come Greenpeace, Shelter e Oxfam, sono riuscite a imporsi come uno strumento alternativo alla politica tradizionale per perseguire precisi obiettivi politici. Il quadro che emerge dalla fine analisi degli autori di The Politics of Expertise, una recente pubblicazione dell’Università di Birmingham, è quello di una governance internazionale in profondo subbuglio: «Possiamo dire che, grazie alle ONG, in questi anni la politica stia attraversando una fase di privatizzazione». La crescita del settore non profit, negli ultimi venticinque anni, è avvenuta a ritmi a dir poco vertiginosi: secondo l’Union of International Associations, il numero di ONG attive a livello internazionale nel 2012 era 38.000, ovvero più del doppio di quelle censite nell’annuario del 1998. Il numero di ONG attive invece a livello nazionale si aggira ormai sull’ordine dei milioni, di cui 1,5 milioni negli Stati Uniti e 3,3 nella sola India. Grazie a innumerevoli azioni mirate e puntuali, spesso spettacolari, la loro credibilità è cresciuta enormemente: molte di queste organizzazioni siedono ormai ai tavoli dei più importanti summit internazionali e riscuotono maggiore fiducia e rispetto presso il grande pubblico di colossi privati internazionali come Microsoft o Ford, che per la buona reputazione del proprio brand investono annualmente milioni di dollari. «Quella a cui stiamo assistendo, è una vera e propria “Rivoluzione associativa globale”» spiega Lester M. Salomon, direttore del Center for Civil Society Studies alla Johns Hopkins University – un centro di ricerca dedicato allo studio del settore non profit nel mondo – da ascrivere alla “crisi dello Stato” tradizionalmente inteso: «Nel corso degli ultimi venticinque anni si è incrinata, un po’ ovunque, la fiducia nella capacità d’azione dello Stato. A ciò hanno contribuito il fallimento delle politiche sociali dei governi occidentali e delle politiche di sviluppo promosse dai governi del Sud del mondo, il collasso
dell’esperimento del socialismo nell’Europa Centrale e Orientale e, certamente, l’incapacità manifesta degli Stati di raccogliere il guanto della sfida dell’attuale impasse climatica». Secondo Fariborz Ghadar, Senior Advisor e Founding Director presso lo Smeal Center for Global Business Studies della Penn State University, nel corso degli ultimi decenni stiamo assistendo a una graduale ridistribuzione della governance mondiale, un tempo appannaggio dei soli governi, a vantaggio di altri soggetti: da un lato le grandi aziende multinazionali, organizzate com’è noto in potentissime lobby capaci non di rado di tenere in scacco interi parlamenti, dall’altro le organizzazioni non governative, che si sono ritagliate il ruolo di “coscienza del mondo”, e di contrappeso al potere dei governi e all’avidità del libero mercato”. «A dispetto del nome, anch’esse prendono di fatto sempre più attivamente parte al processo di governance», spiega l’accademico. «È arrivato il tempo di trovare una nuova definizione per questa parola, che in molti testi viene ancora definita come “l’arte di guidare società e organizzazioni”. Una definizione ormai desueta, che lascia intendere un processo immediato e lineare, come l’atto di sterzare il timone di una nave, e che non rende giustizia alla sua odierna complessità. Esso coinvolge ormai una pluralità di soggetti, e il suo esercizio procede per tentativi, in maniera imprevedibile e spesso caotica, com’è normale che sia in una logica di dialettica tra più poteri». «E, si badi bene, il ruolo delle ONG non si limita a quello di “cane da guardia”, e cioè di spettatore passivo che si limita a denunciare ingiustizie e abusi da parte di governi e aziende», prosegue Ghadar. «Esse hanno dimostrato di essere un soggetto decisamente attivo e propositivo, capace di proporre soluzioni originali ai problemi e di plasmare in maniera profonda la società in cui viviamo. Nel settore degli aiuti umanitari, ad esempio, molti dei protocolli d’aiuto seguiti dagli Stati, e considerati oggi “best practice”, sono stati precedentemente messi a punto e testati nel corso di decenni dalle ONG attive sul campo». Anche le collaborazioni tra ONG e grandi aziende si fanno via via più strette: «Grazie all’azione delle ONG, assistiamo in questi anni a una ridefinizione del significato
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di “corporate social responsibility (CSR)”: tale espressione non significa più fare qualcosa di buono con i profitti dell’azienda, ma piuttosto ripensare in primo luogo le pratiche con cui quei profitti vengono realizzati», spiega Jem Bendell, direttore dell’Institute for Leadership and Sustainability alla University of Cumbria. «La natura di questa collaborazione sta cambiando radicalmente, e va ben oltre la “corporate philanthropy” a cui ci ha abituato il passato. Oggi assistiamo alla nascita di partnership strategiche che finiscono con l’influenzare profondamente le pratiche aziendali, portando a ristrutturazioni sostanziali del business model e a efficaci riduzioni dell’impatto esterno, sia sociale che ambientale, dell’azienda». Anche sul fronte dell’ambiente, le ONG si sono rivelate una forza dinamica in grado di proporre efficaci soluzioni ai problemi in maniera autonoma, senza attendere i tempi pachidermici necessari ai governi per legiferare o siglare accordi internazionali: promuovendo l’introduzione del marchio di certificazione FSC, ad esempio, con cui si attesta che un prodotto in legno non ha contribuito alla deforestazione, l’ONG ambientalista WWF è riuscita in un tempo relativamente breve a esercitare una forte pressione sull’industria e a orientarne positivamente le pratiche nella direzione di una maggiore sostenibilità. «In un mondo sempre più complesso da governare, il ruolo delle ONG è sempre più importante e indispensabile», rimarca Mons. Paglia, consigliere spirituale della Comunità di Sant’Egidio oltreché presidente della Federazione Biblica cattolica internazionale e del Pontificio Consiglio per la Famiglia. «Penso ad esempio al progetto DREAM per la lotta all’AIDS, un esempio di collaborazione internazionale tra più governi istituzioni dove la presenza della nostra ONG si è rivelata cruciale per superare ogni interesse di parte, e scongiurare il rischio, tutt’altro che remoto in Africa, che governi corrotti sviassero i fondi umanitari verso scopi meno nobili. Oppure penso ai processi di pacificazione in Mozambico, nei Balcani, e più di recente, in Darfur, che, analogamente, non avrebbero potuto concludersi con successo senza la mediazione attiva della Comunità di Sant’Egidio». Quello delle ONG, ricorda Pa-
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glia, è stato più volte definito a buon diritto un “soft power”: una forza estremamente più agile delle grandi istituzioni, capace di muoversi sul campo con maggiore disinvoltura, e di raggiungere obiettivi per esse impensabili. «Come potrebbe un governo entrare in contatto con forze, diciamo, “fuori ordine”, come milizie di ribelli, frange di resistenza, senza compromettersi?» Come ha sottolineato Papa Benedetto XVI in una recente enciclica, occorre concepire una “società poliarchica”, dove il potere è opportunamente suddiviso tra più soggetti. Una “governance della globalizzazione” a più voci che scongiuri il rischio di “un pericoloso potere universale di tipo monocratico”. Una società dove il principio di sussidiarietà – e cioè quel principio regolatore per cui se un ente che sta “più in basso” è capace di fare qualcosa, l’ente che sta “più in alto” deve lasciargli questo compito, eventualmente sostenendone anche l’azione – deve diventare la norma e non l’eccezione”. L’epoca della globalizzazione si annuncia dunque carica di straordinarie opportunità per le ONG, ma «attenzione», ammonisce Paglia: «esse non devono “montarsi la testa”, ma tenere ben a mente che solo all’interno di un triangolo d’azione con governi ed altre grandi istituzioni internazionali possono sperare di centrare gli obiettivi umanitari, ambientali e diplomatici più ambiziosi, e dagli effetti più duraturi». A detta di Werner Külling, storico fondatore di Helvetas, una delle più importanti ONG svizzere attive nel settore umanitario, «Col crescere del potere e della capacità d’influenza delle ONG, negli anni a venire sarà sempre più importante creare per esse dei sistemi di certificazione da parte di organismi terzi». Ma è dai social network che Külling prevede verranno le maggiori novità per il settore. «In seguito alla Primavera araba, è cresciuto l’interesse verso i social network per generare fondi e supporto dal basso per le ONG attraverso strumenti di crowdfunding. Vi è però chi teme che i social network, a conti fatti, finiranno con l’eroderne il potere, favorendo l’aggregazione di gruppi sparsi e non strutturati di cittadini accomunati da una causa, che non sentiranno l’esigenza di appoggiarsi a una ONG per raggiungere un obiettivo. Quale sarà il loro effetto preponderante, sarà il tempo a dircelo».
Quello delle ONG, ricorda Paglia, è stato più volte definito a buon diritto un “soft power”: una forza estremamente più agile delle grandi istituzioni, capace di muoversi sul campo con maggiore disinvoltura, e di raggiungere obiettivi per esse impensabili
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contesti
Il sociale diventa “social” articolo di Agostino Toscana Executive Creative Director di Saatchi & Saatchi Italia
Provocatoria, creativa, realistica, irriverente. In una parola, efficace. È la comunicazione sociale, che nella sua evoluzione ha toccato diverse forme e che sempre ne deve inventare di nuove, per raggiungere e convincere il pubblico. Per Oxygen l’esperienza di Agostino Toscana, le sue campagne e parte della storia della comunicazione sociale.
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«Leggi questo, pezzo di m****». Trovate un po’ rude la frase riportata qui sopra? Pensate che venga da un graffito su un muro di periferia o da uno striscione esposto dagli ultrà durante l’ultimo derby? Siete completamente fuori strada. Se foste stati a Londra, in un qualsiasi giorno del 1995, avreste potuto facilmente leggerla a caratteri cubitali su uno di quei quotidiani che portano sottobraccio i distinti signori della City. Era infatti il titolo
di una campagna contro la schiavitù (si, esiste ancora in molti Paesi del mondo, non lo sapevate?) fatta da Saatchi & Saatchi per conto di Anti-Slavery International. Il titolo era circondato da un fitto testo che iniziava così: «Se vi sentite offesi da questo annuncio, avete ragione. Nessuno dovrebbe essere trattato in questo modo. Però, sfortunatamente, ci sono milioni di persone nel mondo che lo sono. E per molti di loro, una frustata verbale è l’ulti-
ma delle cose di cui devono preoccuparsi…». Avete capito il meccanismo? Catturo la vostra attenzione con una frase forte. Vi induco a leggere un testo che altrimenti ignorereste e che vi fa scoprire che quello che avete provato per un secondo è solo una piccola parte di quello che sperimentano per l’intera vita milioni di essere umani. Vi ho coinvolto in un’esperienza. E ora magari voi siete più disponibili a sostenere una causa. Vi ho venduto qualcosa, lo ammetto. D’altra parte faccio il pubblicitario. Però, a dispetto di John Updike secondo cui la verità in pubblicità è un ossimoro, sono stato sincero. Vi ho rivelato fatti veri, documentati. Che in gran parte non conoscevate. Anzi, alcuni di questi li ho omessi dall’annuncio perché troppo crudi. Troppo veri, tanto che avrebbero dato un sapore di falso. Non sto scherzando. Chi fa pubblicità si documenta sempre prima di creare. E quando si occupa di una campagna sociale si imbatte in cose così orribili da non poter nemmeno essere pubblicate. Quindi, piuttosto che ammorbidirle, le esclude, perché sa che una mezza verità, una versione edulcorata di un fatto non sarà efficace. Efficacia è una parola importante in pubblicità. E capita spesso che le campagne sociali lo siano molto di più di quelle commerciali perché più appuntite, più focalizzate. Sicuramente meno penalizzate da levigature “politiche”, da revisioni dettate da ricerche e focus group, da banalizzazioni del linguaggio richieste da chi pensa si debba continuare a parlare principalmente ai couched potato sprofondati davanti alla tv ( i meno reattivi in assoluto ). Spesso, osservando l’evoluzione dei messaggi sociali, ci accorgiamo di come rappresentino benissimo il cambiamento delle preoccupazioni delle persone nel corso del tempo. E Jones fa notare, ad esempio, come nelle campagne che trattano di sesso in relazione alla salute pubblica si parli sempre meno di contraccezione e sempre più di AIDS. Lo shock, arma usata per anni, è ora considerato un approccio da maneggiare con cautela e viene preferito un metodo che porti il pubblico, in maniera deduttiva e partecipativa, ad aderire volontariamente a una causa.
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I cambiamenti epocali che hanno accompagnato la rivoluzione digitale, sono altresì riflessi nella comunicazione sociale. E quindi meno stampa e tv e più idee media neutral, eventi, installazioni, iniziative sui social media. Le tecniche pubblicitarie non sono “ideologiche”. Esse riflettono la cultura, non la inventano. E noi viviamo in una cultura dove le cause sociali, allo stesso modo dei prodotti commerciali, necessitano di una comunicazione efficace. Se è vero che il problema cronico del social advertising è sempre stato il denaro, oggi vale la pena ricordare quello che diceva il famoso creativo Bob Isherwood e cioè che «le idee sono la moneta del futuro» e che quindi è meglio investire in idee che non in spazi media. Anche perché oggi i media ci circondano e sono tutti accessibili. Tutto oggi è media, dallo smartphone all’etichetta del detersivo, dalla vostra t-shirt a Facebook, dai videogames alla piazza del paese (un bel flash mob?). Qualche anno fa, al direttore creativo di Saatchi & Saatchi Tel Aviv venne la pazza idea di fare una campagna sul più grosso problema del suo Paese: le relazioni tra israeliani e palestinesi. Decise che il tema meritava uno sforzo internazionale e organizzò un concorso lanciato durante il festival di Cannes con l’esplicito titolo The Impossible Brief. L’idea che vinse non fu uno spot, e neppure una campagna stampa o un poster. Fu un evento, una giornata inimmaginabile in cui palestinesi e israeliani si ritrovarono negli ospedali per donarsi il sangue a vicenda. Geniale. Enorme. La pubblicità era riuscita dove per 60 anni la politica mondiale aveva fallito. E aveva raggiunto il massimo degli obiettivi che una campagna sociale può darsi: trasformare prima l’attitudine e poi la percezione di un’audience, su un soggetto a cui prima preferivano non pensare. E in Italia? Prima degli anni Novanta la comunicazione sociale era soprattutto quella di Pubblicità Progresso, roba di buon senso che doveva essere ospitata gratuitamente sui media e quindi non doveva turbare nessuno. E poi iniziative ministeriali, campagne sulla droga dove non si parlava certamente ai tossicodipendenti, nella maggioranza 072
ancora non maggiorenni e quindi non votanti, ma a un indefinito pubblico di adulti, per di più usando un linguaggio generico e moralista. Come fare una campagna sulla mucca pazza rivolgendosi ai vegetariani. Tutto questo spreco di tempo, soldi e opportunità fu spazzato via dal ciclone Oliviero Toscani e le sue campagne firmate Benetton. Ricordate? Suore che baciavano preti, malati di AIDS sul letto di morte, cavalli che si accoppiavano, cuori (nel senso di organo umano) appoggiati sul tavolo, vestiti insanguinati, etc. L’effetto fu pazzesco. Improvvisamente si era aperta una gara a chi stupiva di più. Ma ci si era scordati di una cosa: Toscani non faceva campagne sociali. Faceva campagne firmate da una linea di abbigliamento usando immagini volutamente provocatorie. E ottenendo un enorme e indubbio eco sui mezzi di comunicazione. Ma non faceva comunicazione sociale. O perlomeno non faceva comunicazione sociale efficace. Comunque l’effetto Toscani durò poco, anche grazie a un inasprimento dei toni da parte del fotografo verso il mondo della pubblicità. E quindi, passata la sbornia, i comunicatori ripresero a fare il loro mestiere, trovandosi di fronte a una strada nuova: quella di fare della comunicazione sociale utilizzando per la prima volta in questo Paese tutti gli strumenti e le strategie che si usano per quella commerciale. In quegli anni mi ritrovai a dover fare la campagna per la prima edizione italiana di Telethon, la trasmissione fiume che serviva da raccolta fondi per la ricerca sulla distrofia muscolare. Decidemmo di fare una ricerca di tipo etnografico basata più sull’osservazione e l’empatia che non sull’interrogazione. Attraverso l’associazione, incontrammo molti ragazzi affetti da questa malattia e rimanemmo colpiti dal numero crescente di difficoltà che incontravano nel compiere i più semplici gesti quotidiani. In particolare ci rimase impresso un piccolo e artigianale leggio che grazie a un semplice meccanismo elettrico permetteva ai ragazzi di sfogliare le pagine di un libro. Decidemmo di usarlo per lo spot, che diventò una lunga ed estenuante inquadratura fissa delle pagine del libro sfogliate mecca-
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Un modo efficace di affrontare temi scomodi è quello di mirare a scardinare gli alibi per l’indifferenza o le scuse di tipo culturale
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nicamente da questa asticella ronzante. Sulle pagine era stampato il testo del messaggio che volevamo comunicare e solo alla fine svelavamo che era un malato di distrofia a sfogliare il libro. Lo spettatore percepiva la fatica di poter leggere quelle poche parole e sperimentava su se stesso gli effetti della malattia. Nessuna finzione narrativa avrebbe potuto essere più efficace di quella scarna realtà. Evitammo l’approccio emotivo anche quando ci trovammo alle prese con una campagna sui problemi dei non vedenti. Durante una chiacchierata all’istituto dei ciechi, uno di loro ci disse che la loro vita era abbastanza simile alla nostra e che in realtà i problemi più fastidiosi erano causati proprio dal cattivo comportamento dei noi vedenti. Auto e moto posteggiate sui marciapiedi o escrementi di cane sono molto pericolosi per chi non ha il dono della vista. Facemmo uno spot ironico su queste piccole inciviltà quotidiane, accompagnato da una versione speciale di Quelli che… riscritta e cantata per noi dal grande Enzo Jannacci e chiudemmo il tutto con lo slogan “Il problema più grosso dei non vedenti è vivere in un mondo di ciechi”. Un modo efficace di affrontare temi scomodi è quello di mirare a scardinare gli alibi per l’indifferenza o le scuse di tipo culturale. Il tema del turismo sessuale minorile è senz’altro uno dei più delicati e una delle fasi ricorrenti che diceva la gente nelle interviste fatte era: «Un uomo adulto con una bambina di dieci anni? Ma quella è un’usanza della loro cultura!». Capimmo subito che l’esotismo di luoghi turistici faceva sembrare tutto molto lontano e decidemmo di raccontare una storia simile ma ambientata in Italia, capovolgendo la situazione. Lo spot fu filmato in Piazza del popolo a Roma, usando una macchina da presa nascosta, in stile documentario. Un distinto italiano con una bambina per mano avvicinava un turista orientale e iniziava sottovoce una contrattazione (il dialogo ricalcava vere testimonianze di fatti accaduti in Cambogia): «Bella ragazzina, eh?» «È vergine?» «Certo, è mia figlia» «Quanto?» «Solo 100 dollari» 073
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«Cosa posso farle?» «Tutto, ma non ucciderla». A quel punto il turista si allontanava con la ragazzina, che si girava spaurita a guardare il padre e una voce fuori campo recitava: «Se accadesse a tua figlia saresti terrorizzato, vero? Ricordalo quando sei all’estero. Un bambino è un bambino in tutto il mondo». La stampa insisteva sul concetto con un annuncio che mostrava due fotografie. Nella prima un sorridente padre di famiglia era ritratto nel suo soggiorno abbracciato a sua figlia e la didascalia diceva “Doctor Jeckill”. Nella seconda immagine lo stesso uomo era in vacanza ed era abbracciato a una bimba orientale accompagnato dalla scritta “Mister Hyde”. Uno degli esempi più chiari che posso fare sull’insight significativa risale a una decina di anni fa, a una serie di pubblicità per MTV a supporto di cause social sponsorizzate dall’emittente e il primo briefing che ricevemmo fu sulla pena di morte. Un compito difficilissimo in un Paese che non contempla la pena capitale. Se l’avessimo impostata come un tema morale sarebbe stata inutile: i favorevoli sarebbero rimasti favorevoli e i contrari sarebbero rimasti contro. Ma noi volevamo convertire qualcuno o perlomeno instillare il dubbio. Ci venne in aiuto la lettura di un libro di Amnesty International, una raccolta di errori giudiziari e casi dubbi di pena capitale. Ecco l’idea. Girammo un docu-dramma di tre minuti sul caso di un condannato a morte, scagionato da una confessione volontaria solo dopo la sua morte. Il film ebbe un enorme successo, fu trasmesso da MTV anche all’estero e vinse molti premi prestigiosi. Ancora oggi ricevo mail e messaggi su YouTube che alimentano il dibattito provocato da quel film. Certo, parte del successo di quel film fu dovuta al fatto che il cliente era un famoso canale televisivo internazionale e quindi il film circolò moltissimo, contrariamente alle pubblicità sociali che di solito devono mendicare spazi media gratuiti. E questo mi permette di introdurre l’ultimo punto: come si fa pubblicità sociale oggi. Nel 2013 non c’è più differenza tra campagne sociali e campagne commerciali e i clienti si comportano nel medesimo modo.
I clienti social richiedono risultati chiaramente misurabili attraverso la risposta del pubblico, i dati governativi, la quantità di denaro raccolta con il fundraising o l’ampiezza del dibattito generato dai media, dalla politica o dalla società. Le stesse esigenze dei clienti commerciali, insomma. E infatti entrambi operano su mercati pieni di competitors, devono superare lo scetticismo, vogliono che la gente parli di loro e hanno bisogno di idee che possano trasformare la vita delle persone. L’unica differenza è che spesso i clienti social non dispongono di grossi budget per l’investimento media. Fino a qualche anno fa un dramma, ma non oggi. È mia opinione che, nell’era in cui viviamo, una campagna social debba essere non solo creativa ed efficace ma anche capace di generare free media. Un’applicazione di questa teoria è stato il lavoro che Saatchi & Saatchi Italia ha fatto per CoorDown con la campagna per l’Integration Day 2012. Lo scopo della campagna era di promuovere la piena integrazione dei portatori di sindrome di Down nel mondo del lavoro. Abbiamo deciso di chiedere a tutti i nostri clienti di poter girare delle scene alternative in tutti gli spot che avremmo prodotto per loro nei sei mesi che ci separavano dalla Giornata Mondiale per l’Integrazione. Le scene alternative erano in tutto e per tutto simili alle originali, con la differenza che il protagonista veniva sostituito con un attore down. Queste versioni dello spot sono poi state mandate in onda tutte insieme nel giorno designato e la stessa cosa è accaduta con le pagine stampa “modificate” sui maggiori quotidiani italiani. Nell’arco delle stesse ore abbiamo chiesto e ottenuto che negli show più popolari della televisione (Le Iene, La prova del cuoco, ecc.) e in alcuni tg, il presentatore o il giornalista fosse sostituito o affiancato da un portatore di sindrome di Down. Il 21 marzo 2012 gli spot sono apparsi 334 volte in tv, raggiungendo una copertura media pari a 5 milioni e mezzo di euro; 18 milioni di persone (circa un terzo degli italiani) ha visto la campagna, ma soprattutto, nella settimana successiva, CoorDown ha registrato
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un incremento delle richieste pari al 600% da parte di società interessate ad assumere persone con sindrome di Down. Nel 2013, per stimolare la raccolta di donazioni a favore della stessa associazione, con una campagna svoltasi tutta sui social media che prevedeva l’arruolamento di 50 famosi testimonial inconsapevoli, abbiamo raggiunto circa 30 milioni di persone, la metà della popolazione italiana. E CoorDown ha avuto un aumento delle donazioni del 700% rispetto alla precedente raccolta fondi. In tutti e due i casi la cosa è stata possibile grazie a un’idea creativa che conteneva anche il meccanismo per la sua stessa diffusione. Il coinvolgimento preventivo di clienti, case di produzioni, televisioni, giornali, centri media, fotografi, registi e testimonial, e il loro gioco di squadra insieme all’agenzia di pubblicità e al pubblico, hanno dimostrato che invitare gli utenti a donare fondi è importante tanto quanto invitarli a donare free media alla causa. La visibilità prodotta attraverso la condivisione, attraverso i loro post, i loro tweet e le loro conversazioni on line è diventata cruciale. Essere social nel 2013, quindi, significa diffondere un messaggio che arrivi non solo al cuore ma anche al “clic” delle persone.
Catturo la vostra attenzione con una frase forte. Vi induco a leggere un testo che altrimenti ignorereste e che vi fa scoprire che quello che avete provato per un secondo è solo una piccola parte di quello che sperimentano per l’intera vita milioni di essere umani 075
Ap
approfondimento
Donazione democratica a cura di Oxygen progetto fotografico di White
La promozione di progetti, esigenze e startup; social network per organizzare le risorse di chi difende l’ambiente; applicazioni che permettono di supportare le cause più svariate. È la filantropia di massa, quella che attraverso le piccole donazioni dei singoli realizza grandi imprese, ed è il donare aggregato, di denaro, ma anche tempo e talento (e Wikipedia ne è la dimostrazione), per creare una società attiva, responsabilizzata e per indirizzare i flussi di aiuti verso progetti che non trovano ascolto dalla filantropia delle grandi fondazioni. È la democratizzazione della charity.
Kiva
Wiser
25 dollari in prestito per creare opportunità. È il modello di Kiva, la non profit che collega le persone attraverso dei piccoli prestiti (un minimo di 25 dollari appunto) per alleviare la povertà. Attraverso il sito di Kiva si può scegliere un creditore, leggere la sua storia e il progetto o le sue esigenze (si va dalle start-up alle situazioni di emergenza), donare e poi seguire costantemente la situazione del prestito, nonché, quando possibile, la sua restituzione. Per poi ricominciare daccapo.
Fare rete tra le risorse della comunicazione e la cooperazione: è questo l’obiettivo di Wiser, una comunità online che riunisce organizzazioni e persone interessate ai temi della giustizia sociale e dell’ambiente. Un social network per le persone che operano in questi settori spesso frammentari, per accrescere le competenze e favorire lo scambio di idee e collaborazioni. L’organizzazione è non profit e riunisce 77.550 persone da tutto il mondo, vivendo grazie al sostegno delle donazioni effettuabili tramite il sito.
www.kiva.org
wiser.org
DonorsChoose
Acumen
La scuola pubblica americana spesso non ha la possibilità economica per sostenere progetti educativi o acquistare materiali per i suoi studenti. Così è nato il sito DonorsChoose.org, che raccoglie i progetti scritti da insegnanti di ogni angolo d’America, che vengono pubblicati e valutati dagli utenti interessati a dare un contributo. Anche un dollaro può contribuire alla causa e ogni donatore, se il progetto riuscirà a raggiungere la cifra necessaria alla sua attualizzazione, ne riceverà la documentazione e un messaggio di ringraziamento da parte degli studenti.
Una non profit che raccoglie investimenti a lungo termine per sostenere le aziende che stanno cambiando il modo in cui il mondo si rapporta alla povertà. Il team di Acumen supporta realtà neonate che si affacciano sul mercato con l’obiettivo di offrire beni e servizi per combattere la povertà e lo fa con un approccio imprenditoriale, declinato alle finalità del Terzo settore. Nata nel 2001, ha permesso finora a oltre cento milioni di persone di beneficiare dei suoi investimenti. acumen.org
DonorsChoose.org
Causes Anche Facebook ha voluto aprirsi al sociale e l’ha fatto tramite Causes, un’applicazione interna al social network sviluppata dalla start-up Project Agape. Direttamente dal proprio profilo personale, l’utente può lanciare o supportare una causa, generando o entrando a far parte di una comunità online; grazie allo strumento “invita” potrà quindi coinvolgere i propri amici o addirittura donare denaro. Ad oggi 180 milioni di persone hanno sostenuto una causa per un totale di 142 Paesi rappresentati. apps.facebook.com/causes
«Questo è un momento nella storia dove la persona comune ha più potere che in qualsiasi altro momento» Katherine Fulton
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Siamo i guerrieri della partita Iva. Siamo i guerrieri senza stipendio fisso e ferie pagate. Siamo i guerrieri dei salti nel buio e degli investimenti oculati. Siamo i guerrieri di provincia nel mercato globale. Siamo
#guerrieri AL COMANDO DI NOI STESSI
Sono questi i guerrieri in cui crediamo, milioni di italiani che sosteniamo con tutta la nostra energia. Nelle imprese, nella ricerca, nel sociale e nelle battaglie di ogni giorno. Se la loro storia è anche la tua, raccontala su guerrieri.enel.com Diventerà protagonista della nuova campagna di comunicazione.
QualunQue sia la tua battaglia, hai tutta l’energia per vincerla. anche la nostra.
facebook.com/enelsharing
@enelsharing
guerrieri.enel.com 079
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scenari
Donare sviluppo articolo di Bernardino Casadei Segretario generale di Assifero
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Non più solo strumento redistributivo, la filantropia istituzionale ha oggi un ruolo molto più articolato: può aiutare le imprese a conseguire i propri obiettivi e a garantire la propria sostenibilità. Ed è in grado di generare reddito e occupazione. Ma perché tutto ciò avvenga, occorre che in Italia si facciano passi avanti a livello normativo.
Molti sono ancora convinti che la filantropia istituzionale abbia essenzialmente un ruolo redistributivo. In realtà la maggior parte delle erogazioni sono pensate come dei veri e propri investimenti in grado di generare, accanto ai benefici sociali, anche reddito, occupazione e perfino entrate fiscali. Così, secondo un rapporto recentemente pubblicato da “The Philanthropic Collaborative” (Porter & Kramer, Creating Shared Value, 2011), i 37,85 miliardi erogati nel 2010 dalle fondazioni statunitensi genereranno 8.888.624 posti di lavoro, $570,56 miliardi di PIL e $117,96 miliardi di entrate fiscali. Già questi dati sintetici mostrano le grandi potenzialità che questo settore ha nel promuovere la crescita e lo sviluppo. In particolare esso può mobilitare quelle risorse, peraltro molto ingenti, che né il libero mercato, né l’intervento pubblico sembrano in grado di valorizzare a pieno, e ciò senza considerare i benefici per l’economia collegati alla crescita del capitale sociale e della fiducia che sono, di norma, una delle conseguenze più rilevanti degli interventi delle fondazioni. In altri termini, è forse arrivato il momento di superare quella dicotomia pubblico-privato, egoismoaltruismo che tuttora domina il dibattito pubblico e a cui si uniformano le norme vigenti, ma che si sta dimostrando poco feconda. Tutti i problemi che il concetto di ente commerciale pone nella gestione delle attività senza finalità di lucro ne sono un esempio, così come lo sono le difficoltà che la normativa sull’impresa sociale incontra nell’esse-
re applicata nel nostro Paese e ciò malgrado la nostra società sia ricca di organizzazioni che incarnano tale idea. Bisogna riconoscerlo, non è vero che bene comune e interesse privato sono necessariamente in contrapposizione: al contrario, è proprio la sinergia fra questi due aspetti che si rivela, di norma, la condizione più feconda per lo sviluppo di una società degna di questo nome. Così oggi sono sempre meno le persone che donano per dovere sociale, quasi dovessero saldare un debito di riconoscenza o sentano l’esigenza di tacitare la propria coscienza. Sono invece molto più numerosi coloro che trovano nel dono una via per cercare di soddisfare alcuni bisogni fondamentali dell’essere umano cui la nostra società non sembra capace di dare delle risposte adeguate. Si pensi solo all’esigenza di dare un senso alla propria esistenza, a quella di vivere relazioni non strumentali, o anche a quella di provare emozioni autentiche; necessità a cui una società basata sulla mercificazione e strumentalizzazione reciproca non può dare risposta, ma che invece possono essere soddisfatte proprio dall’esperienza del dono, non più vissuto come sacrificio ma piuttosto come un’opportunità per vivere pienamente la propria umanità. Ora, questo dono, che alcuni potrebbero chiamare egoistico, non solo non cessa per questo di produrre benefici alla collettività, ma, rispetto a quello che si riduce a un mero atto di rinuncia, è di norma molto più fecondo. In questo dono, che la tradizione cattolica identifica con la carità,
In molti trovano nel dono una via per cercare di soddisfare alcuni bisogni fondamentali dell’essere umano cui la nostra società non sembra capace di dare delle risposte adeguate
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La filantropia cessa di essere una mera forma di responsabilità, una sorta di dovere imposto dalle convenzioni sociali, per trasformarsi in una leva strategica per conseguire i propri obiettivi e garantire la propria sostenibilità la persona investe infatti tutta se stessa. Non si limita ad aprire il portafoglio o a firmare un assegno, ma mobilita tutte le sue migliori energie, sperimentando concretamente come da ciò egli effettivamente riceva cento volte tanto. Del resto non vi è donatore che non ammetta che da questa rinuncia riceve molto di più di quello che ha dato. Un processo analogo si sta verificando anche nel mondo delle imprese. La filantropia cessa di essere una mera forma di responsabilità, una sorta di dovere imposto dalle convenzioni sociali o dalla pressione della comunità nella quale essa opera, per trasformarsi in una leva strategica per conseguire i propri obiettivi e in particolar modo garantire la propria sostenibilità. Da quando Michael Porter ha pubblicato il suo articolo sul valore condiviso, sono sempre più numerose le imprese che riconoscono come vi siano ampi spazi di intersezione fra i loro interessi e il bene comune. Del resto, di fronte alla globalizzazione e alla forte competizione internazionale che ne deriva, dovrebbe essere evidente a tutti come il successo di un’impresa dipenda fortemente, oltre che dalle proprie competenze e capacità interne, anche dall’ambiente nel quale opera. Le economie esterne non sono più semplicemente date dalla possibilità di scaricare su altri i propri costi, come avviene con l’inquinamento e altri comportamenti negativi che è giusto reprimere, ma derivano anche dalla presenza di valide infrastrutture, dall’esistenza di un sistema giudiziario che operi in tempi certi e con equità, dalla capacità del sistema scolastico di formare adeguatamente le nuove generazioni. Senza tutto ciò e senza una diffusa coesione sociale che si trasformi in fiducia e tranquillità per tutti, diventa estremamente difficile, soprattutto in settori ad alto valore aggiunto, mantenere livelli di produttività adeguati. Davanti a questa evidenza, le imprese che non vogliono rimanere passive e aspettare un risolutore intervento pubblico in un’attesa che, in questo momento storico, rischia di durare fino alle calende greche, hanno un’alternativa: o creare tutto al loro interno, cercando, per quanto possibile, di proteg082
è il rapporto tra dollari donati e benefici ricevuti
8.888.624 i posti di lavoro previsti
gere i propri pubblici di riferimento fondamentali dalle pressioni esterne, o sposare il principio di sussidiarietà e quindi decidere di svolgere un ruolo attivo nella creazione di una società migliore e quindi più adatta anche al proprio sviluppo. Per coloro che vogliono perseguire questa seconda strada, la filantropia istituzionale può rivelarsi uno strumento estremamente versatile e potente. Da un lato, essa facilita le forme di collaborazione con altre categorie di soggetti, sia pubblici sia privati, come pure fra i propri concorrenti che, di norma, condividono le stesse esigenze; dall’altro essa è in grado di mobilitare diverse tipologie di risorse umane, fisiche o finanziarie provenienti dalle realtà più disparate. Inoltre, attraverso la filantropia istituzionale, è possibile minimizzare e diversificare il rischio, non appesantire la propria organizzazione con nuove infrastrutture dedicate al perseguimento degli obiettivi identificati e mantenere la massima flessibilità nella destinazione delle risorse, cosa che sarebbe impossibile fare se si dovesse decidere di gestire direttamente i servizi e le attività che si vuole promuovere. Infine, per permettere anche alle piccole e medie imprese di poter godere dei benefici della filantropia istituzionale è stato recentemente costituito nel nostro Paese il Comitato per il Dono, che permette a qualsiasi donatore di usufruire in outsourcing di tutta l’infrastruttura legale, fiscale e amministrativa necessaria per lo svolgimento di tali attività, riducendone così i costi sia finanziari sia umani, ma mantenendo il controllo completo sulla destinazione delle erogazioni. Se, per molto tempo, la filantropia istituzionale è stata esclusivamente considerata come uno strumento per migliorare la propria reputazione e gestire le relazioni, essa oggi si sta rivelando una modalità molto efficace non solo per motivare i propri collaboratori, ma anche per perseguire quegli obiettivi aziendali con una dimensione di pubblica utilità che sarebbe troppo oneroso conseguire autonomamente, ma che sono comunque necessari per il proprio sviluppo. Riconoscere questa opportunità è quindi importante non solo per le imprese, che hanno così uno strumento in più, ma anche per l’intero Paese il quale, dopo aver inserito nella propria costituzione il principio di sussidiarietà, deve ancora dotarsi dei mezzi necessari affinché esso possa esprimere tutte le proprie potenzialità.
9,7%
la forza lavoro degli Stati Uniti legata al non profit
37,85 i miliardi erogati dalle fondazioni Usa nel 2010
La filantropia istituzionale può rivelarsi uno strumento versatile e potente: facilita le forme di collaborazione e mobilita diverse tipologie di risorse umane, fisiche o finanziarie provenienti dalle realtà più disparate 083
Ap
approfondimento
Orientarsi nel labirinto delle donazioni articolo di Carlo Mazzini Giornalista curatore di quinonprofit.it
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Spesso chi dona somme di denaro a un ente non profit si domanda quale sia concretamente il destino della propria offerta: una conoscenza parziale del sistema amministrativo può portare a risposte superficiali. Un’analisi sulla struttura, sui costi e sugli “utili” – e sui tempi giusti per valutarli – per imparare le giuste domande da porsi.
Dove va a finire il mio euro donato a una non profit? La domanda più comune posta agli amministratori degli enti è paradossalmente anche quella più sbagliata e fuorviante. Vediamo perché. Partiamo pure dalle ragioni di chi afferma che un ente è giudicabile dai dati economici, e quindi dagli impieghi del denaro ricevuto dai sostenitori, dalle amministrazioni pubbliche, dalle organizzazioni grant makers. Ad esempio, un bilancio che presenti alti costi di struttura e alti costi di fundraising pone a tutti delle domande, assolutamente legittime. Ma non legittima chi è esterno all’organizzazione a dare delle risposte se chi la amministra non ha ancora spiegato le ragioni di quella che appare una nota stonata. La domanda che si pone la persona esterna è perché mai la vera mission dell’organizzazione – che ritiene identificabile nei cosiddetti oneri istituzionali – sia stata sacrificata rispetto agli altri e alti costi di struttura e di raccolta fondi. L’amministratore ha diverse risposte possibili, sempre che il richiedente abbia voglia di ascoltare, approfondire, quasi immedesimarsi nel ruolo non facile di gestore di ente non profit. La prima risposta è che in un anno di crisi non si è riusciti più di tanto a comprimere i costi, in quanto molti di questi sono assolutamente necessari per far andare avanti la struttura. L’ente è in affitto, il che comporta il costo di struttura; può cercare affitti meno cari, certo, ma la cosa non è immediata, anche dal punto di vista contrattuale. E poi, cambiando location e risparmiando poche centinaia di euro al mese cosa risolve? È più difficilmente raggiungibile dai sostenitori e dalle persone che assiste, deve ricreare una serie di rapporti col territorio che erano stati acquisiti con gli anni, il trasloco ha un costo… Non è detto che – se non vi sono altre ragioni o se l’affitto non è davvero sproporzionato rispetto alle finalità e necessità dell’organizzazione – risparmiare quei pochi euro porti un vero beneficio all’organizzazione e ai suoi destinatari. Una seconda risposta è che determinati costi nelle aziende si chiamano “investimenti” e non si capisce perché dopo anni nei quali le maggiori università hanno fatto a gara per insegnare alle organizzazioni come diventare aziende (obiettivo solo in parte condivisibile) l’organizzazione debba contrarre gli investimenti, andando contro i dettami dei maggiori aziendalisti. Investire nel fundraising, ad esempio, è compatibile in un periodo di contrazione delle donazioni, causata da riduzione del reddito disponibile, da una perdurante crisi economica? È chiaro che lo slancio è da prendersi – con i rischi connessi, ovviamente – proprio nei periodi di depressione o stagnazione economica,
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anche per guadagnare visibilità, essere maggiormente presenti nelle menti dei donatori, sia quelli acquisiti sia quelli da acquisire. Altrimenti il rischio è doppio: non si ottengono nuovi donatori e si assottigliano quelli vecchi. Non sarebbe giudicato un buon amministratore di ente non profit quello che lesinasse sulla comunicazione e sulla raccolta fondi per risparmiare somme comunque non enormi e si trovasse l’anno successivo una raccolta “naturalmente” contratta dalla decisione di disinvestimento dell’anno precedente. Se però l’amministratore aumenta l’investimento nell’anno di crisi e gli effetti di maggiori donazioni si palesano negli anni successivi, la performance dell’anno di crisi (il rapporto tra i costi di fundraising e il totale dei costi) sarà veramente pessima, e qualcuno griderà allo scandalo, al fatto che, ad esempio, 30 centesimi dell’euro che il donatore eroga vanno a società di consulenza, a professionisti, a personale interno che ha la funzione di cercare soldi. Chi vuole gridare allo scandalo perché cerca lo scandalo, si accomodi pure, non possiamo farci nulla. Chi invece sta cercando di capire qualche cosa del non profit e di come si amministra, è bene che segua i fatti e non i sensazionalismi. Come spiegare, a chi cerca lo scandalo, che alcuni enti che realizzano tra l’altro anche ricerca scientifica deliberano ogni tre anni la destinazione di importanti somme di denaro per questa attività – che peraltro è particolarmente onerosa – e, per ragioni di rappresentazione bilancistica, le somme così destinate sono riportate un anno ogni tre, facendoli figurare enti quasi inutili per due anni su tre? Così come per gli investimenti, quindi, c’è un effetto diacronico, uno sfasamento temporale tra quanto impiegato nell’anno zero e quanto è ritornato – all’ente in termini economici – negli anni seguenti. Chi non cerca scandalo ma conoscenza, comprende quindi che il non profit può essere anche giudicato in parte per scelte prettamente economiche del suo management, ma che queste devono essere collocate nel contesto anche temporale più adeguato. In un’azienda for profit, l’utile è una misura di gestione dell’azienda poiché è quello uno dei suoi fini (creazione di valore aggiunto per i suoi azionisti). Quindi, pur potendo far analisi anche su più anni, tendenzialmente lo stato di salute
annuale di un’azienda trova una significativa conferma nella presenza e consistenza dell’utile. In un ente non profit ciò non è possibile, in quanto l’utile non è un suo fine, e il suo fine non è normalmente misurabile nelle forme tradizionali che derivano dai dati di bilancio. Ciò nonostante, i valori di bilancio sono molto interessanti e possono dire molto dell’organizzazione, a patto che li si sappia leggere. Inoltre, bisogna capire gli indici di bilancio, come e quando usarli. Tutto ciò richiede un approfondimento della materia al quale deve essere condotto anche il non specialista (ad esempio il donatore), ma non deve essere lasciato solo. A giugno di quest’anno, le tre maggiori organizzazioni americane di rating del non profit (BBB Wise Giving Alliance, Guidestar, Charity Navigator) hanno scritto una lettera pubblica nella quale mettevano in guardia i donatori americani dal “mito dei costi di supporto”. Avvallando la propria tesi con dati concreti e studi di enti terzi, queste organizzazioni hanno inteso rimarcare come i singoli ratio, i rapporti tra grandezze economiche del bilancio, non sono indicatori di valore significativo se presi a se stante, e che «concentrarsi sugli overhead costs senza considerare altre dimensioni critiche relative alle performance finanziarie e organizzative di un ente reca più danni che benefici». Si tenga conto che queste tre organizzazioni americane basano le proprie analisi sulle dichiarazioni fiscali che l’IRS (Internal Revenue Service, l’Agenzia delle entrate statunitense) richiede annualmente alle organizzazioni non profit, alle quali fa compilare – anche in assenza di redditi imponibili – il form 990, in cui si trovano informazioni molto utili al donatore e all’analista, quali: i compensi del management ed eventualmente quello dei componenti del board, le relazioni familiari – se esistenti – tra board e fornitori, il nome dei maggiori fornitori, oltre a uno schema di bilancio che consente a chi voglia studiare il settore di conoscerne le reali dimensioni economiche. Le tre organizzazioni periodicamente – e, distintamente, sono tra loro competitors – stilano classifiche degli enti non profit statunitensi, dividendoli per settori, vendono analisi dettagliate sulle variabili economiche e confronti di performance tra organizzazioni. Pertanto, la denuncia delle tre organizzazioni non deve essere letta come una excusatio non petita …
Il non profit può essere anche giudicato per scelte prettamente economiche del suo management, ma queste devono essere collocate nel contesto anche temporale più adeguato
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con quel che segue. Non è un modo per dire che tanti anni di pubblicazioni di dati, di classifiche, di ranking delle non profit americane sono da buttare alle ortiche, ma, al contrario, è un modo – molto anglosassone – di focalizzare l’attenzione del grande pubblico («To the Donors of America» è l’incipit della lettera) su una complessità necessaria, sull’impossibilità di utilizzare un unico dato come base per dare un patentino di buona/cattiva conduzione dell’ente non profit. Come dire che la domanda iniziale “dove va a finire il mio euro donato a una non profit” è una domanda fuorviante, in quanto la risposta è necessariamente limitante per l’ente. In anni di vacche grasse potrà andar tronfio di performance strepitose, senza dover motivare se il merito è da attribuirsi a una struttura resa solida e competente negli anni precedenti attraverso investimenti accorti, oppure a un’unica donazione spontanea, magari neppure sollecitata. In anni di vacche magre, l’amministratore dovrà invece far di tutto per evidenziare le cause interne e quelle esterne (aumento delle tariffe postali del
500% nel 2010, mancata corresponsione del 5 per mille da parte dei ministeri) di una performance economica dai più ritenuta non soddisfacente. Quindi la domanda che il pubblico deve fare agli amministratori di enti non profit è: le donazioni che vi sono arrivate cosa hanno prodotto negli anni in termini di miglioramento della qualità della vita delle persone e delle comunità da voi assistite?
Lo stato di salute annuale di un’azienda trova conferma nella presenza e consistenza dell’utile. In un ente non profit ciò non è possibile, in quanto l’utile non è un suo fine, e il suo fine non è misurabile nelle forme tradizionali 087
Sc
scenari
Charities: dove e perchĂŠ investono i privati articolo di Donato Speroni Giornalista economico e scrittore
A rispondere alla necessitĂ di solidarietĂ del mondo, accanto agli stati, i cui aiuti allo sviluppo non hanno mai raggiunto gli obiettivi prefissi, sono sempre piĂš i privati, attraverso le charities, il non profit o altre strutture e iniziative di tipo filantropico. Un dato che accende il dibattito su quale sia il modo migliore per attualizzare questa spinta e che coinvolge necessariamente il concetto stesso di impresa.
C’è un gran bisogno di solidarietà, nel mondo, e sono sempre più numerose e importanti le iniziative destinate ad aiutare chi ha bisogno. Povertà, istruzione, sanità, ambiente: le sfide globali si fanno sempre più stringenti e richiedono una mobilitazione che non può limitarsi agli aiuti di Stato. Imprese e imprenditori con ingenti patrimoni personali impegnano rilevanti ricchezze nelle iniziative umanitarie. Con quali prospettive? Come andrà a finire questa gara tra chi cerca di migliorare le condizioni globali e i fattori che tirano il mondo verso un progressivo degrado? C’è anche chi dice che in realtà sta cambiando la natura stessa del sistema economico: non siamo di fronte soltanto a un espandersi delle iniziative filantropiche, ma a un mutamento del capitalismo, che dopo aver vinto nel secolo scorso la sua competizione col comunismo, è ora costretto, per contribuire a salvare il mondo, a mutare pelle e ad accogliere per le sue aziende altri obiettivi accanto al profitto o addirittura in sostituzione ad esso.
È utile esaminare innanzitutto i fattori che in questi anni hanno determinato la crescita degli aiuti privati, sotto forma di charities, organizzazioni non profit o altre iniziative filantropiche. Ecco qualche cifra complessiva per inquadrare il fenomeno. Gli aiuti di stato allo sviluppo non hanno quasi mai raggiunto l’obiettivo più volte proclamato a livello internazionale dello 0,7% del Prodotto interno lordo (PIL) dei Paesi donatori. Solo i Paesi del Nord Europa superano questa soglia con cifre vicine all’1%. L’Italia è crollata dallo 0,30 del 1990-91 allo 0,17 del 2010-11, ma anche gli Stati Uniti non brillano (0,21% nel 2010-2011). Nella media, i Paesi donatori nel 201011 hanno conferito 127 miliardi di dollari pari allo 0,32% del loro PIL: poco, ma comunque in ripresa rispetto allo 0,22 del 2000-01. L’entità degli aiuti privati è studiata dal CECP, Committee Encouraging Corporate Philantrophy, con sede a New York. Nel 2012, un campione di 214 imprese (tra le quali 62 delle prime cento del-
la classifica mondiale di “Fortune”) ha donato quasi 20 miliardi di dollari in denaro e prodotti. Il 60% delle società esaminate ha incrementato le donazioni dal 2009 al 2011, nonostante la crisi economica. Ricordiamo che l’analisi del CECP riguarda solo un campione di imprese. Se si estende a livello globale, è facile comprendere che l’opera delle charities ha ormai una dimensione paragonabile a quella degli aiuti di Stato. Salute e istruzione fanno la parte del leone nelle iniziative dei privati, in parallelo con gli obiettivi posti dalle Nazioni Unite. Nel 2000 infatti l’Onu definì con i Millennium development goals gli obiettivi di sviluppo, che ora sono in fase di ridefinizione per il periodo post 2015. Nel frattempo alcuni aspetti sono diventati più drammatici. Per esempio, la dinamica demografica. Anche se le previsioni degli esperti si fanno sempre più allarmanti (la popolazione mondiale potrebbe salire dagli attuali 7 a circa 11 miliardi nel 2100, soprattutto a causa della crescita nell’Africa
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Subsahariana), il tema è stato largamente disatteso dalle organizzazioni internazionali, per ragioni politiche e religiose. L’ultima conferenza internazionale delle Nazioni Unite sulla pianificazione familiare si è svolta nel 1994 e da allora il termine stesso family planning è caduto in disuso, sostituito da affermazioni più neutre come sexual and reproductive health. Nel luglio 2012 tuttavia il governo britannico con la Gates Foundation ha organizzato un incontro che ha segnato un ritorno di attenzione sul tema, da parte delle autorità politiche ma anche delle charities. Ne è scaturito l’impegno a destinare entro il 2020 una cifra aggiuntiva pari a 4,6 miliardi di dollari per la diffusione nei Paesi in via di sviluppo di moderni mezzi di contraccezione. Va aggiunto però che la battaglia per una procreazione responsabile si combatte anche su altri fronti, come la lotta ai matrimoni infantili e l’educazione delle ragazze in età puberale, perché si stima che il rinvio del momento del matrimonio e la maggior consapevolezza delle donne siano strumenti essenziali per la pianificazione familiare. In questo modo l’impegno demografico si salda anche con altre battaglie importantissime delle politiche di aiuto: l’istruzione e l’uguaglianza di genere. La lotta alla povertà è un altro dei fronti aperti per l’azione filantropica. Qui i segnali sono un mosaico difficile da ricomporre. Il più positivo proviene dal successo nella lotta contro la povertà estrema, cioè quella caratterizzata da un reddito che non supera 1,25 dollari al giorno, circa 30 euro al mese. Nel 1990, il 43% della popolazione dei Paesi in via di sviluppo viveva in queste condizioni. Nel 2010, la percentuale si era più che dimezzata, scendendo al 21%. Secondo l’“Economist”, entro il 2030 la povertà misurata con gli stessi parametri potrebbe scomparire dalla Terra. Possiamo gioirne solo in parte, perché nei primi anni del nuovo millennio la percentuale di persone con problemi di denutrizione è rimasta pressoché costante, dal 16,5 del 2000-2002 al 15,5 del 2006-2008. L’aumento del costo degli alimenti ha creato nuovo 090
stress, aumentando il bisogno di aiuti e anche di nuove strategie per non sacrificare le popolazioni più povere. La sfida è evidente. Da un lato aumenta la dimensione dei problemi che devono essere affrontati da un’umanità in crescita demografica, vessata da squilibri crescenti nelle condizioni di vita e da negative dinamiche ambientali. Dall’altro, cresce l’impegno delle imprese e dei capitalisti privati per sviluppare azioni che affrontano questa sfida. Con quali strategie? Come deve essere indirizzato questo fiume di denaro per ottenere i migliori risultati? Il problema ha dato origine a un dibattito sulla cosiddetta “filantropia strategica”, riportato dalla rivista Usa “Nonprofit Quarterly” (Npq). Il concetto di base è che ogni azione benefica deve essere sottoposta a una stringente analisi costi/benefici. La critica, espressa per esempio da William Schambra, direttore del Bradley Center for Philantrophy and Civic Renewal di Washington, è che si rischia di perdere un sacco di tempo «scrivendo numeri alla lavagna e sorseggiando tè alle erbe» anziché far fronte ai problemi che richiedono un impegno immediato. A Schambra ha risposto Paul Brest, presidente della Hewlett Foundation: i dati statistici e le indagini sociali devono certamente essere corroborati dalle esperienze sul campo, ma è giusto destinare i fondi sulla base di tutte le conoscenze che si possono acquisire sul problema da affrontare. Il dibattito nasconde in realtà una grossa preoccupazione: che in molti casi l’impegno economico delle charities non abbia dato risultati adeguati. Il dibattito è in corso soprattutto negli Stati Uniti, anche perché le donazioni private non sono senza costo per i contribuenti, considerando i vantaggi fiscali che possono raccogliere. Un articolo del “New York Times” del 2007 segnala le vedute contrastanti, anche tra i super ricchi d’America. Per il miliardario Eli Broad, «gli investimenti degli imprenditori filantropi hanno un effetto moltiplicativo maggiore dei soldi spesi dal governo». Lo contesta invece, Wil-
liam Gross, un altro super ricco, che distingue diversi tipi di filantropia: «Quando milioni di persone in Africa muoiono di AIDS o di malaria, una festa di gala per un centro d’arte o una donazione per una sala da concerto non sono filantropia, ma una incoronazione napoleonica». Negli anni comunque le posizioni sono molto cambiate. Nel 1970 l’economista liberista Milton Friedman scriveva che l’unica responsabilità sociale delle aziende era quella di aumentare i profitti. La storia è poi andata diversamente, anche perché nel tempo le imprese sono state chiamate in modo crescente a rispondere delle loro responsabilità di fronte agli stakeholder: non solo dipendenti e azionisti, ma consumatori o anche cittadini in qualche modo condizionati dai centri di produzione. La responsabilità sociale è aumentata anche perché è cresciuta la preoccupazione strategica per le condizioni globali. Inoltre le nuove generazioni guardano alle imprese in un modo nuovo: come ha scritto l’“Economist”, i corsi sulle social responsibilities sono tra i più frequentati nelle business school.
charities: dove e perché investono i privati |
Salute e istruzione fanno la parte del leone nelle iniziative dei privati, in parallelo con gli obiettivi posti dalle Nazioni Unite, i Millennium Development Goals definiti nel 2000 Salute e servizi sociali 31% Istruzione 24% Sviluppo economico e di comunità 17% Cultura e arti 14%
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× Da quali esigenze nasce il maggior impegno privato ×
Sviluppo civico e public affairs 7% Ambiente 6% Iniziative a seguito di disastri ambientali 2% Fonte: Rapporto CEPS
Qualcuno arriva a ipotizzare che le basi stesse del capitalismo stiano cambiando. Un gruppo di ricercatori del Post Growth Institute di Sidney sta preparando un rapporto sull’ipotesi di un mondo, «nel quale la Not for profit enterprise diventa il modello principale di business locale, nazionale e internazionale». Si tratta di un’ipotesi molto lontana dai consueti discorsi sulla decrescita, perché non si pone in contrapposizione con il mondo delle imprese, ma ne ipotizza una trasformazione. Non sappiamo se si arriverà a tanto, anche perché l’orizzonte temporale posto dal gruppo di Sidney è piuttosto lontano, il 2050. Ma è certo che la Corporate social responsibility, la filosofia all’origine della filantropia d’azienda, sia sempre meno una mera facciata di relazioni pubbliche e, al contrario, cerchi sempre più di andare al nocciolo dei problemi da affrontare per migliorare le sorti dell’umanità. 091
tweet tweet & & quotes quotes
A cura di Oxygen
«Rimettere al centro il valore sociale dell’impresa. Profitto sia anche un mezzo per accrescere il benessere della popolazione» (@lauraboldrini)
«Google ha aggiunto le statistiche sul non profit al suo Knowledge Graph (grafico della conoscenza)» (@NonProfitDaily)
«Censimento Istat sul non profit conferma l’importanza e il peso del settore per la tenuta economica e lo sviluppo sociale del Paese» (@VITAnonprofit)
«Sapevate che 600.000 organizzazioni non profit portano all’economia australiana un introito di 43 miliardi di dollari? Questo ci rende più produttivi dell’industria agricola, della comunicazione e del turismo» (Connecting Up Inc.)
«Il nostro progetto di prevenzione HIV in Sudafrica è stato finanziato completamente grazie al concerto #ChimeforChange» (@OxfamItalia) «La Fondazione coinvolge partner del luogo ovunque operi, per assicurarsi che i progetti rispondano davvero ai bisogni locali» (@ClintonFdn – Clinton Foundation)
«La filantropia europea è robusta, ha una storia lunga, una grande varietà e non è una copia della filantropia americana» (Gerry Salole)
«La vera carità richiede un po’ di coraggio: superiamo la paura di sporcarci le mani per aiutare i più bisognosi» (@Pontifex_it)
«Quando leggi “salute globale” pensa “salvare vite umane”. È questo quello che significa» (@BillGates)
«Le charity hanno iniziato a emanciparsi dall’abitudine di redigere report annuali, e hanno iniziato a sperimentare con i social media» (@GdnVoluntary – Guardian Voluntary)
«Perché credo nel potere di una ragazza istruita? Lei ne guadagna in salute, e può dare un futuro migliore alla sua famiglia e alla comunità» (@melindagates)
«Molti Paesi pensano all’istruzione come a una spesa. Vogliamo dire che è, invece, il miglior investimento strategico che si possa fare» (@georgesoros)
«L’impresa sociale è sempre meno “public”: oggi l’80% ha rapporti con il private» (@ETIcaNews)
«Creare business che abbiano uno scopo realmente sociale attrae e motiva chi ci lavora più di quanto non faccia un business che uno scopo sociale non ce l’ha» (The Wall Street Journal)
«Otto anni fa l’uragano Katrina ha colpito la Costa del Golfo. Grazie a @archforhumanity migliaia di famiglie sono tornate a casa» (@casinclair)
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scenari
Il dovere dell’altruismo articolo di Philippe Kourilsky Filosofo e docente presso il Collège de France
Il diritto fondamentale di ogni uomo è quello alla libertà. A questo diritto inalienabile è associato, secondo Kourilsky, il dovere dell’altruismo, visto come obbligo che la ragione impone all’individuo e l’individuo a se stesso. Può lo stesso ragionamento valere per l’altruismo di massa e quindi quello dei governi e delle nazioni?
Il detto secondo il quale “la libertà degli uni si ferma laddove comincia quella degli altri” mostra il rapporto di dipendenza reciproca delle libertà individuali, ma non chiarisce un punto essenziale. Le nostre libertà individuali sono sì limitate da quelle altrui (e pertanto dipendenti da queste), ma anche costruite grazie ad esse. Questo rapporto di dipendenza reciproca non è passivo, ma deriva da un processo attivo e richiede l’azione dei nostri simili e, di conseguenza, la nostra. Il concetto di cooperazione, proprio delle libertà individuali, implica una reciprocità a livello sia teorico che pratico. Questa considerazione è fondamentale: impone logicamente che, come individui, spetta a noi valutare ciò che riceviamo e ciò che dobbiamo dare agli altri. Per noi altruismo e libertà individuali sono collegati in modo necessario e inseparabile, sono due aspetti com-
plementari di uno stesso concetto. Per noi l’altruismo è la deliberata attenzione prestata da un individuo alle libertà individuali dell’altro, con la deliberata intenzione di difenderle e svilupparle ulteriormente. […] Per noi, infatti, l’altruismo nasce da un modo di procedere prettamente individuale, nel quale la persona attraverso un esercizio di autoriflessione identifica il dovere e sceglie le modalità con cui adempierlo. Questo modo di procedere non dipende né da una recondita speranza di reciprocità, né dall’affetto. L’altruismo dunque, a nostro avviso, è radicalmente diverso dalla generosità, qualunque sia il valore morale che lo muove. Per come lo intendiamo noi, è del tutto neutro: non implica nessuna attesa di reciprocità o di non-reciprocità, poiché si fonda su un modo di agire del tutto indipendente da questioni simili. Nell’accezione che abbiamo scelto l’altruismo
Per noi l’altruismo è la deliberata attenzione prestata da un individuo alle libertà individuali dell’altro, con la deliberata intenzione di difenderle e svilupparle ulteriormente
è un dovere che la ragione impone intellettualmente all’individuo e che quest’ultimo a sua volta impone a se stesso. Affermare l’esistenza di un legame indissolubile tra le libertà individuali e il dovere di altruismo eleva quest’ultimo, come la libertà, a imperativo universale. Affermare che esista un rapporto di proporzionalità tra i due, per il quale alle libertà individuali sostanzialmente variabili corrisponde un dovere di altruismo altrettanto variabile, presuppone una certa concezione della giustizia umana, compresa una giustizia intergenerazionale, poiché la dimensione temporale viene considerata in ogni analisi. Come passare dalla responsabilità individuale a quella collettiva?Non basta sommare tra loro le responsabilità individuali. Il tutto non si riduce solo alla somma degli elementi, così come un gruppo sociale non è propriamente il risultato della somma degli individui che ne fanno parte. L’unione delle singole caratteristiche individuali fornisce delle indicazioni
su queste stesse caratteristiche declinate a livello di gruppo, ma senza esaurire la descrizione. Perché l’estensione del concetto di libertà individuali a un gruppo sociale crea particolari problemi? Perché l’adattamento presuppone la corrispondenza tra le libertà individuali e la libertà tout court. Numerosi gruppi sociali nascono dalla libertà affermata con forza dai loro membri che decidono di aderire a un sindacato, di entrare a fare parte di una comunità web o di impegnarsi in un’organizzazione non governativa. Questo libero arbitrio implica che all’interno del gruppo vi sia una capacità di discussione e di scambio che permetta la ricerca e l’elaborazione di un consenso prodotto attraverso il confronto dei vari punti di vista di individui liberi. Ma non sempre va così. Esistono gruppi sociali che non dispongono di questa autonomia, impedendo qualunque tipo di processo, in linea di principio ma anche nella pratica, che porti a una presa di posizione comune. Prendiamo l’esempio dei dete095
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Esistono molte situazioni in cui libertà individuali e libertà pubbliche entrano in conflitto. In alcune democrazie occidentali le libertà pubbliche sono garantite, ma la disoccupazione e la povertà producono una grave perdita di libertà individuale
nuti di un carcere: questi formano un gruppo sociale con forti limitazioni delle libertà individuali, ma da un punto di vista teorico è impossibile stabilire se siano o meno d’accordo con questa valutazione, perché non hanno la possibilità di comunicare, mentre l’autorità penitenziaria può pretendere di esprimersi a nome loro e ritenere globalmente soddisfacente la loro situazione (le loro libertà individuali). L’esempio è estremo, ma rende bene l’idea delle difficoltà che incontreremo trattando i gruppi sociali più importanti: le nazioni. In una democrazia ideale e sana, la libertà, le libertà individuali e quelle pubbliche sono in armonia, così come nella peggiore dittatura la libertà, le libertà individuali e quelle pubbliche sono quasi inesistenti. Esistono molte situazioni meno estreme, in cui libertà individuali e libertà pubbliche entrano in conflitto. In alcune democrazie occidentali, per esempio, le libertà pubbliche sono garantite, ma la disoccupazione e la povertà di una parte consistente della popolazione producono una grave perdita di libertà individuale. In altri casi, una democrazia può essere forte a livello politico, ma la corruzione delle amministrazioni può limitarne in modo considerevole le libertà individua-
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li, senza tuttavia gravare formalmente sulle libertà pubbliche. Infine vi sono paesi in cui la democrazia è assente e la dittatura regna sovrana, ma i progressi economici portano a una crescita considerevole delle libertà individuali. Questo per fare capire che non tutti i regimi, democratici o meno, si equivalgono. Sono stati anche elaborati degli “indici” di democrazia, ma nessuno di questi è stato unanimemente accettato come valido. Ambiscono a fornire una valutazione più precisa, integrando dati relativi alla salute o all’educazione, continuando sempre a tenere in considerazione anche le libertà individuali e pubbliche. Questi non cancellano le tensioni che possono sussistere tra le stesse libertà e la semplice accettazione dell’aggregazione crea problemi, poiché rende in qualche modo negoziabili gli attacchi alle une o alle altre. In questo modo può capitare che il deficit di libertà pubbliche non risulti tale e che invece il bilancio sia giudicato positivo, grazie a elementi compensatori dovuti alla prosperità economica. Concretamente possiamo constatare quindi che la valutazione del benessere generale di una nazione (o di un particolare gruppo sociale) si accorda in maniera adeguata con quella di un dovere di altruismo (nazionale e sovranazionale) proporzionato al benessere nazionale. In teoria, con una programmazione d’intenti simile una nazione sarebbe in grado di produrre una valutazione autonoma del proprio dovere di altruismo verso gli altri.
Ma tramite quale procedimento si giungerà a una valutazione simile? Sarebbe plausibile un metodo di riflessione nazionale, adattato sul modello dell’esercizio di autoriflessione che abbiamo raccomandato per i singoli? Perché no? Una nazione può autoanalizzarsi e affinare la consapevolezza che ha di sé, attività a cui del resto si dedicano già molti intellettuali e uomini politici. Il problema consiste piuttosto nel far partecipare a quest’attività un gran numero di individui e nel promuovere il dialogo. Ciò presuppone una libera comunicazione – che pone di nuovo la questione delle libertà pubbliche e della democrazia – e l’esistenza di meccanismi specifici per scambiare e cercare consenso. Gli strumenti e i meccanismi per comunicare e confrontare le idee sono numerosi. Nei think tank, in cui gli intellettuali occupano un posto di prim’ordine, negli organi di stato, nelle diverse comunità e nei media abbondano i meccanismi per condividere, ottenere feedback e diffondere idee e informazioni. Nei regimi democratici la costruzione del consenso può derivare dalla libera espressione dei cittadini. Bisogna tuttavia tenere presente che la decisione presa da una maggioranza è nettamente diversa dall’acquisizione del consenso che, quando è possibile, richiede dei processi specifici che le nostre democrazie potrebbero volere migliorare. Insistiamo su un punto cruciale: il consenso deve basarsi su un procedimento sicuro e su argomenti razionali. È necessario porre semplicemente al centro della riflessione un metodo di conoscenza e costruzione della realtà.
La valutazione del benessere generale di una nazione si accorda in maniera adeguata con quella di un dovere di altruismo (nazionale e sovranazionale) proporzionato al benessere nazionale 097
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contesti
Prendersi la rivincita sul successo articolo di Adam Grant Professore di management a Wharton e autore di “Give and Take”
Nell’attuale mondo del lavoro l’altruismo viene ricompensato più velocemente che in passato, e ciò porta gli egoisti ad annaspare e gli altruisti a prosperare. Anche la selezione del personale, grazie a social network come Linkedin e Facebook basati su referenze, avviene in modo diverso e privilegia coloro che dimostrano un’attitudine al lavoro di squadra e all’empatia. Nel mondo del lavoro, fino a qualche tempo fa, i bravi ragazzi facevano una brutta fine. Gli “egoisti” (ovvero coloro che nelle organizzazioni mettono il loro interesse al primo posto) riuscivano a raggiungere il vertice e il successo sfruttando gli “altruisti” (quelli che preferiscono dare più di quanto non ricevano). Per buona parte del ventesimo secolo la maggior parte delle organizzazioni era costituita da comparti indipendenti, dove gli egoisti potevano sfruttare gli altruisti senza subire alcuna conseguenza sostanziale. Ma la natura del lavoro è cambiata in modo drammatico. Al giorno d’oggi più della metà delle aziende europee e statunitensi organizzano i loro dipendenti in team. La diffusione di strutture a matrice ha richiesto ai dipendenti di interagire con un ventaglio sempre più ampio di manager e referenti diretti. L’avvento del lavoro incentrato sul progetto ha fatto sì che gli impiegati debbano ora collaborare con una rete molto estesa di colleghi. I nuovi mezzi di comunicazione ad alta velocità e le nuove tecnologie di trasporto mettono in connessione persone di ogni parte del globo, persone che in passato sarebbero state perfette sconosciute. In queste situazioni altamente collaborative
gli egoisti restano tagliati fuori. Sono quelli che si guardano bene dall’eseguire compiti spiacevoli o rispondere a richieste d’aiuto, mentre gli altruisti, al contrario, sono i compagni di squadra che si offrono volontari per progetti impopolari, mettono a disposizione di tutti le loro conoscenze e abilità, e danno una mano arrivando per primi o andando via per ultimi. Dopo aver studiato le dinamiche dei posti di lavoro per buona parte degli ultimi dieci anni, ho scoperto che questi cambiamenti hanno posto le condizioni per far sì che gli egoisti annaspassero e gli altruisti prosperassero. In un ampio ventaglio di campi che comprende il settore manifatturiero, i servizi e il lavoro intellettuale, le ricerche più recenti hanno dimostrato che i dipendenti con percentuali più alte di promozioni a ruoli dirigenziali o di supervisione hanno le caratteristiche proprie degli altruisti: aiutano i loro colleghi a risolvere problemi e gestiscono pesanti carichi di lavoro. Al contrario gli egoisti, che mettono la loro agenda personale al primo posto, hanno meno probabilità di scalare i vertici aziendali. La caduta degli egoisti e l’ascesa degli altruisti dipende da un terzo gruppo che chiamo “reciproca-
Gli altruisti traggono vantaggio dal fatto che nella vita professionale l’anonimato sta scomparendo
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tori”. I reciprocatori si situano esattamente a metà dello spettro egoismo-altruismo e sono motivati da un profondo desiderio di giustizia e reciprocità. Prendono nota di scambi e favori, sia in un senso sia nell’altro, e fanno in modo che il loro bilancio rimanga sempre in pari nella convinzione che le uscite devono essere compensate dalle entrate. A causa della loro appassionata credenza nel motto “occhio per occhio e dente per dente” i reciprocatori diventano il motore che spinge gli altruisti verso il fondo e gli altruisti in alto. Gli egoisti violano la fiducia dei reciprocatori in un mondo giusto. Quando i reciprocatori si accorgono che gli egoisti stanno sfruttando gli altruisti si propongono di pareggiare i conti imponendo un pedaggio. Per esempio condividono informazioni con i colleghi che potrebbero essere sfruttati, impedendo agli egoisti di passarla liscia in futuro. Inoltre, la maggior parte dei reciprocatori non riesce ad accettare che vi siano atti di altruismo che non siano ricompensati. Quando vedono un altruista mettere gli altri davanti a sé, i reciprocatori s’impegnano a concedere un premio, in forma di un aumento di stipendio, di un apprezzamento o di una raccomandazione per una promozione. Un ingegnere di nome Brian, che lavora a Google, ha ricevuto otto bonus nell’arco di un singolo anno, e tre di questi in un solo mese. Ha impiegato volontariamente parte del suo tempo per addestrare i nuovi assunti e per aiutare i membri di diversi team plurifunzionali nell’apprendimento di nuove tecnologie. I suoi colleghi e capi hanno agito in questo caso da reciprocatori facendo sì che ricevesse riconoscimenti ed extra economici. Come nota il sociologo Robb Wilber della Stanford University «i gruppi ricompensano i sacrifici dei singoli». Un ambiente di lavoro interdipendente implica anche che i dipendenti verranno selezionati e promossi non solo sulla base dei loro risultati individuali ma anche in base al contributo che danno agli altri. Quando gli altruisti diventano leader i loro gruppi se ne avvantaggiano. La ricerca condotta dalla professor Daan van Knippenberg della Rotterdam School of Management ha mostrato che i dipendenti lavorano di più e in maniera più efficace quando i loro leader mettono in primo piano le esigenze degli altri. E questo, ancora una volta, è dovuto ai reciprocatori. Come hanno scoperto van Knippenberg e il professor Michael Hegg della Claremont Graduate University «fare uno sforzo, fare sacrifici o assumere rischi a vantaggio del gruppo» incoraggia i membri del gruppo a sdebitarsi con il leader e a contribuire agli interessi del gruppo stesso. Una scrupolosa analisi condotta su più di 3600 unità operative di diverse industrie da Nathan Podsakoff, professore dell’Università dell’Arizona, ha mostrato che tanto più frequentemente i dipendenti forniscono aiuto e condividono conoscenze, tanto maggiore è il profitto, la produttività, la soddisfazione del cliente e la fedeltà dei dipendenti all’azienda. Contribuendo agli interessi dei gruppi di cui fanno parte, gli altruisti hanno la possibilità di pubblicizzare i loro talenti. In uno studio condotto dal ricercatore Shimul Melwani della Kenan-Flagler Bussiness 100
Al giorno d’oggi più della metà delle aziende europee e statunitensi organizzano i loro dipendenti in team
School dell’Università del North Carolina, i membri di sessanta team che lavoravano a progetti di analisi strategica si sono valutati l’un altro sulla base di una serie di caratteristiche e comportamenti. Alla fine del progetto i membri dei team dovevano riportare chi dei loro colleghi si era fatto la reputazione di leader e il miglior predittore di leadership è risultato essere l’empatia verso i colleghi in difficoltà. È interessante notare come le persone empatiche non erano considerate solo premurose ma anche competenti e intelligenti. Manifestando interesse per gli altri, inviavano contemporaneamente il messaggio che avevano le risorse e le capacità per aiutarli. Al giorno d’oggi questi segnali sono sempre più visibili e gli altruisti traggono vantaggio dal fatto che nella vita professionale l’anonimato sta scomparendo. In passato quando selezionavamo un candidato, un potenziale partner d’affari, o un fornitore di servizi, dovevamo contare sulle referenze che aveva selezionato il candidato stesso: se un egoista si bruciava un contatto, poteva semplicemente limitarsi a eliminarlo dalla lista delle referenze. Ma ai giorni nostri i social network offrono un database molto più ampio su cui contare; ci sono buone possibilità che tramite una veloce ricerca su Linkedin o Facebook troveremo un contatto comune che abbia un’approfondita conoscenza della reputazione del nostro candidato, uno strumento molto utile a chi fa selezione del personale. Del miliardo di utenti Facebook sparsi per il mondo il 92% distano tra di loro al massimo quattro gradi di separazione e nella maggior parte delle nazioni la maggior parte delle persone si trova a una distanza di appena tre gradi. Howard Leed, ad esempio, quando era a capo della divisione di Groupon della Cina Meridionale e riceveva richieste di assunzione per lavori di vendita, cercava contatti in comune su Linkedin e quando scopriva che alcuni candidati avevano la fama di essere egoisti passava oltre e si concentrava sui candidati con una comprovata esperienza di altruismo. L’insieme di queste tendenze sta cambiando le caratteristiche che prendiamo in considerazione quando facciamo selezione del personale. Due delle caratteristiche distintive dei grandi leader sono l’abilità di tirare fuori il meglio dagli altri e la disponibilità a porre gli interessi del gruppo davanti a tutto. Oltre a investire in persone che sono già inclini a lavorare in modo altruista, sarà di importanza cruciale creare pratiche che esortano tutti i dipendenti a svilupparsi in questa direzione. In molte organizzazioni, gli egoisti di successo sono più visibili degli altruisti di successo, a causa della loro tendenza a millantare meriti e promuovere se stessi. Per far sì che gli impiegati siano consapevoli che è possibile essere altruisti e al tempo stesso avere successo, potrebbe essere necessario individuare e promuovere rispettati modelli di ruolo che incarnino l’orientamento verso gli altri. Poiché ciò diamo agli altri ci torna indietro molto più velocemente di quanto non succedesse in passato queste nuove pratiche andranno a beneficio dei dipendenti e delle loro organizzazioni. Articolo originale pubblicato su “Strategy+Business”, estate 2013
I dipendenti con percentuali più alte di promozioni a ruoli dirigenziali o di supervisione hanno le caratteristiche proprie degli altruisti: aiutano i loro colleghi e gestiscono pesanti carichi di lavoro
Pa
passepartout
canada
Donazioni: 64% Tempo per il volontariato: 42% Aiuto a sconosciuti: 67% Punteggio nella classifica mondiale: 58%
3
stati uniti
Donazioni: 57% Tempo per il volontariato: 42% Aiuto a sconosciuti: 71% Punteggio nella classifica mondiale: 57%
9
5
5
Paraguay
Donazioni: 48% Tempo per il volontariato: 42% Aiuto a sconosciuti: 61% Punteggio nella classifica mondiale: 50%
World giving index 2012 Secondo il World giving index 2012, il Paese più generoso al mondo è l’Australia, quello che, invece, può permettersi di esserlo meno è la Grecia, a pari merito al 145° e ultimo posto con il Montenegro. Basato sui dati raccolti nel 2011 con questionari somministrati a più di 155.000 persone di 146 Paesi, il report della CAF, organizzazione internazionale fondata in Gran Bretagna con lo scopo di stimolare gli aiuti umanitari, mostra quante persone al mondo hanno aiutato il prossimo donando denaro, tempo per il volontariato o compiendo azioni concrete per degli sconosciuti. Il punteggio
è stato misurato in base alla percentuale di popolazione coinvolta in questo tipo di attività in un mese e non alla quantità di denaro, il numero di ore o di persone estranee aiutate. Per questo i primi 20 Paesi risultano avere profili geografici, politici, economici estremamente diversi. Otto sono asiatici, cinque europei, quattro americani, uno africano; l’Italia si posiziona al 57° posto con il 33% della popolazione coinvolta. Un’attività, quella di donare, globalmente in calo rispetto ai dati registrati nel 2007 (la percentuale di persone che si dedicano al volontariato è scesa dal 21,4% al 18,4%).
infografica di Undesign
regno unito
Donazioni: 72% Tempo per il volontariato: 26% Aiuto a sconosciuti: 56% Punteggio nella classifica mondiale: 51%
Danimarca
Donazioni: 70% Tempo per il volontariato: 23% Aiuto a sconosciuti: 54% Punteggio nella classifica mondiale: 49%
10 2 8
irlanda
Donazioni: 79% Tempo per il volontariato: 34% Aiuto a sconosciuti: 67% Punteggio nella classifica mondiale: 60%
6
7
paesi bassi
Donazioni: 73% Tempo per il volontariato: 34% Aiuto a sconosciuti: 51% Punteggio nella classifica mondiale: 53%
indonesia
Donazioni: 71% Tempo per il volontariato: 41% Aiuto a sconosciuti: 43% Punteggio nella classifica mondiale: 52%
nuova zelanda
Donazioni: 66% Tempo per il volontariato: 38% Aiuto a sconosciuti: 58% Punteggio nella classifica mondiale: 57%
1
australia
Donazioni: 76% Tempo per il volontariato: 37% Aiuto a sconosciuti: 67% Punteggio nella classifica mondiale: 60%
4
Co
contesti
vita da
Plutocrati articolo di Enrico Pedemonte Giornalista e scrittore
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Spesso sconosciuti ai più, i plutocrati tengono le redini economiche e politiche del mondo. E sono i protagonisti indiscussi delle iniziative filantropiche, soprattutto di quelle americane. Da dove vengono, di cosa si occupano, quali sono i loro interessi lo stanno raccontando molti giornalisti, tra cui Chryistia Freeland, nel suo libro Plutocrats, svelando le loro motivazioni etiche ed economiche.
Fino al luglio 2013 erano centotredici i miliardari che avevano aderito al “Giving Pledge” (impegno a donare) lanciato nel 2010 dal fondatore di Microsoft Bill Gates e dal finanziere Warren Buffett, rispettivamente al secondo e quarto posto nella classifica “Forbes” dei più ricchi del mondo. Uno degli ultimi a sposare l’iniziativa è stato il magnate del nickel Vladimir Potanin, il primo russo dell’elenco di Gates e Buffett. Pochi mesi fa Potanin ha promesso che dedicherà ad attività filantropiche la metà delle sue ricchezze, che secondo il Bloomberg Billionaires Index ammontano a 12,3 miliardi di dollari. Dopo avere sottoscritto il suo impegno, Potanin ha invitato Gates ad attivarsi per convincere gli altri miliardari del mondo, in particolare quelli russi, a dedicarsi alla filantropia. Infatti la mappa dei 113 super-ricchi ingaggiati fino a oggi da Gates (per una somma che sfiora i 200 miliardi di dollari) è molto squilibrata a favore degli Stati Uniti, mentre nel mondo è ormai l’Asia a guidare la classifica dei miliardari: 608 secondo l’Hurun Research Institute di Shangai, contro i 440 americani e i 324 europei. Il ragionamento di Potanin è semplice: mentre il numero dei nababbi aumenta, nel mondo esplode l’ineguaglianza sociale, si allarga il fossato tra ricchi e poveri e diventa palpabile il rischio di violente rivolte sociali. E così Bill Gates gira il mondo e recluta sempre nuovi adepti a quella che sembra essere diventata la nuova religione di questo piccolo esercito di privilegiati. Nel suo recente libro (Plutocrats, The Rise of the New Global Super Rich and the Fall of Everyone Else, Penguin Books, 2012) Chrystia Freeland, per molti anni giornalista al “Financial Times” e alla Reuters, scrive che tra i nuovi padroni dell’economia «lo status symbol più desiderato non è più, come era fino a ieri, uno yacht, un cavallo da corsa o un titolo onorifico, ma una fondazione filantropica». 105
Christa Freeland spiega che i nuovi plutocrati hanno la convinzione che il mondo possa essere cambiato in meglio con la forza delle loro idee, magari grazie a un semplice algoritmo
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La Freeland usa talvolta toni ironici nel descrivere la cultura dei super ricchi, lo 0,1% della popolazione che negli ultimi decenni si è arricchita oltre ogni misura e oggi costituisce una superclasse sovranazionale che si incontra a Davos, usa gli stessi paradisi fiscali per (non) pagare le tasse, manda i figli nelle stesse università e sempre più spesso, specie negli Stati Uniti, si dedica ad attività umanitarie. Va detto, per non sembrare ingenui, che la filantropia è sempre stata parte integrante della cultura americana. Basti pensare ad Alfred Nobel, che nel 1895 finanziò il premio che porta il suo nome per non essere ricordato solo come l’inventore della dinamite; o Andrew Carnagie, campione dei robber barons a cavallo tra Ottocento e Novecento, che donò gran parte dei suoi averi per costruire ospedali, teatri, biblioteche e università. Quella che ispirava Nobel e Carnagie era una cultura fondata su radici profondamente antistatali, che considerava la filantropia come uno strumento di coesione della comunità. Con le loro donazioni i ricchi di un tempo sembravano dire allo Stato di non impicciarsi troppo nelle questioni sociali: spettava ai più fortunati badare alla parte più debole della collettività. La filantropia del XXI secolo ha caratteristiche assai diverse rispetto al passato. È culturalmente dominata dai miliardari dell’high tech, che da oltre trent’anni si diletta a costruire nuove narrative sul potenziale rivoluzionario della tecnologia e ora sta puntando i propri riflettori sulle attività umanitarie. Bill Gates, simbolo eloquente di questa generazione, passò gli anni Ottanta e Novanta a evangelizzare i consumatori sul ruolo positivamente eversivo del pc e di Internet. Poi, dopo il Duemila, si è messo in testa di riprogettare il mondo delle charities, applicando le ferree regole dell’organizzazione aziendale e misurando in modo scientifico gli effetti concreti di ogni singolo investimento affinché non un soldo vada sprecato. Nel suo libro, Chrystia Freeland spiega in modo convincente che i nuovi plutocrati (specie quelli che hanno accumulato le loro fortune nel competitivo ambiente dell’high tech) hanno la convinzione (talvolta la presunzione) che il mondo possa essere cambiato in meglio con la forza delle loro idee, magari grazie a un semplice algoritmo. Quando investono i loro soldi in iniziative filantropiche, i miliardari dell’ultima generazione utilizzano le stesse metodologie adottate nel business. E quando si danno convegno nei loro simposi esclusivi, discutono su come, allo stesso modo, si potrebbero cambiare dalle fondamenta le amministrazioni pubbliche, le strutture degli Stati, il mondo. Quando lavoravo a New York ho trovato spesso conferma del comportamento, insieme generoso e arrogante, che caratterizza i nuovi miliardari dell’high tech e della finanza. Quando chiedevo che cosa li spingesse a devolvere in beneficienza una parte cospicua delle loro ricchezze mi rispondevano tutti allo stesso modo: «In questo paese chi è stato fortunato e rifiuta di restituire alla società parte di quello che ha avuto dalla vita, diventa giustamente un paria sociale».
In questa ispirazione, che Chrystia Freeland descrive superbamente nel suo libro, è sedimentata una tradizione antiaristocratica e comunitaria che affonda le sue radici nella storia americana. Ma non è solo l’etica a spiegare questi comportamenti. Entrare nel dorato mondo della filantropia ha i suoi vantaggi. Se si scorre l’elenco dei nomi che compaiono nei consigli di amministrazione dei grandi musei, delle charities, degli ospedali, delle università e di tutte le organizzazioni largamente fondate sulle donazioni (e ben poco su fondi pubblici), si incontrano i più bei nomi della società americana. All’interno di queste istituzioni, alle quali si viene ammessi firmando assegni con molti zeri, si accede ai salotti più esclusivi, si creano proficue reti di rapporti e si pongono le basi per lo sviluppo di nuovi business. Diversi anni fa Daniel Golden, giornalista di Bloomberg News, scrisse un libro illuminante (The Price of Admission, Crown Publishers, 2006) per descrivere le ragioni che spingono le nuove aristocrazie a elargire pingui donazioni alle università più prestigiose. Si tratta di decine, spesso centinaia di milioni di dollari, che consentono ai generosi donatori di aprire le porte delle università d’élite ai propri figli, garantendo loro l’accesso a relazioni privilegiate che costituiranno un patrimonio invisibile ma straordinario per tutta la vita. L’élite accademica, infatti, riserva una quota dei posti disponibili ai propri munifici mecenati. Il sistema è ingegnerizzato in modo tale da massimizzare i vantaggi per la società e per il business. Grazie alle loro donazioni i miliardari contribuiscono a creare ospedali di eccellenza, università d’élite, musei straordinari, organizzazioni caritatevoli estremamente efficienti. Ma questa è solo una faccia della medaglia. In cambio i nuovi plutocrati ottengono vantaggi per i propri figli, creano reti di protezione, conquistano l’accesso a influenti lobby grazie alle quali possono indicare la loro visione del mondo, fare cultura. È la forza dei numeri a dar loro questo potere. Da soli Gates e Buffett, che hanno deciso di investire in attività benefiche il 95% delle loro ricchezze, stanno mettendo sul piatto 115 miliardi di dollari, una somma che equivale il PIL dell’Angola.
Pochi e ricchi, tengono le redini economiche e politiche del mondo 107
La tela del filantropo articolo di Giulia Marchiori Grants Advisory Committee di New York
La filantropia è oggi praticata a vari livelli. Grandi e piccole imprese hanno compreso la sua importanza per lo sviluppo di relazioni positive con la comunità , mentre la rete ne ha reso l’accesso possibile a tutti. Con progressi inaspettati. 108
Provare a fare la differenza nel mondo in cui viviamo è indubbiamente una delle sfide più meritevoli che un essere umano possa affrontare. Richiede sacrificio, dedizione e capacità di dare la priorità al benessere altrui rispetto al proprio. Nella mia carriera ho guardato a lungo e con ammirazione all’esempio di utopisti quali Aung San Suu Kyi o Desmond Tutu, che hanno fatto scelte difficili – pagate a caro prezzo – che hanno cambiato il corso della storia. Porsi come traguardo qualcosa che sia anche solo lontanamente paragonabile a ciò che questi eroi dei nostri tempi hanno realizzato può apparire demoralizzante ma, fortunatamente, il sentiero della filantropia e dell’altruismo è diventato col tempo sempre più alla portata di tutti. Il settore non profit continua a crescere e a prosperare e, in tutto il mondo, chiunque abbia interessi sociali – dai politici alla celebrità, alle 500 maggiori imprese statunitensi elencate su “Fortune” – sta scegliendo sempre più frequentemente di “fare del bene”. Quando ho iniziato a lavorare nel settore non profit ho deciso di fare della filantropia una priorità, sia per me stessa sia per le organizzazioni di cui facevo parte. Tuttavia le mie esperienze professionali mi hanno insegnato che alcune semplici linee-guida potrebbero essere utili a chiunque voglia contribuire a rendere il mondo un posto migliore, indipendentemente dal settore in cui opera o dai propri obiettivi professionali. Sembra che da qualsiasi parte volgiamo la nostra attenzione dobbiamo affrontare una nuova ed ennesima sfida globale, tanto eccezionale e importante quanto la precedente: dai cambiamenti climatici alla povertà, dalle nuove epidemie all’instabilità finanziaria. Nonostante il mondo sia così grande, complicato e sempre più interconnesso nelle sue varie parti, vi sono anche gruppi di individui e comunità che lavorano per migliorare le cose. Ogni giorno capita che vi sia un contadino che impara una nuova tecnica di agricoltura sostenibile, una ragazza in cerca di istruzione e una nuova tecnologia di telefonia mobile che diffonde programmi educativi a milioni di persone. Sono piccoli miracoli individuali che però nel complesso fanno la differenza e ci portano gradualmente all’esperienza condivisa di un mondo migliore. E a volte accadono anche miracoli più grandi. Ad esempio una ragazza di 16 anni che all’assemblea generale delle Nazioni Unite ha il coraggio di guardare negli occhi i leader di tutto il mondo e i suoi detrattori e ribadire l’importanza dell’istruzione nello sconfiggere la violenza. O un ragazzo di 15 anni che scopre un test, non invasivo e a buon mercato, che promette di individuare il cancro al pancreas in una fase precoce. Il progresso è ovunque intorno a noi, basta solo rendersene conto. Anche le prospettive economiche sembrano rosee. Secondo il rapporto annuale di Giving USA, pubblicato nel giugno scorso, le donazioni sono aumentate del 3,5% nel 2012 per un totale di 316,23 miliardi di dollari, superando così il record precedente di 311 miliardi, riferito al 2007, in un periodo precedente alla crisi finanziaria. 109
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È ovvio che rimane ancora molto da fare, ma è importante al tempo stesso apprezzare i progressi che sono già stati fatti. Nel mondo della filantropia ci imbattiamo spesso in esempi inquietanti di abusi a cui sembra non si riesca a porre rimedio, eppure si possono trovare soluzioni e nuove speranze nei programmi locali esistenti o anche in contesti completamente diversi. Possiamo lavorare insieme per portare alla luce le storie a lieto fine e condividerle con il mondo intero. Attraverso la tecnologia, i social media o il semplice passaparola possiamo utilizzare tutti i canali possibili di cui disponiamo per promuovere i programmi più innovativi ed efficaci. Le buone notizie meritano di essere diffuse: bisogna rimanere ottimisti e mostrare al mondo ciò che funziona. Dal momento che la filantropia ha sempre fatto parte del nostro tessuto sociale, comprendere come si è evoluta nel tempo la “cultura del dare” è di importanza cruciale. Le donazioni di denaro e altre forme tradizionali di beneficenza continuano a crescere ma, sempre più spesso, fare del bene implica anche rimboccarsi le maniche e fare qualcosa di concreto. Molti di noi hanno sentito parlare per la prima volta di responsabilità sociale d’impresa, più di dieci anni fa, nel contesto della gestione della cosiddetta “comunicazione di crisi”. Diversi studi analitici hanno dimostrato come le aziende utilizzino strategicamente le donazioni nell’ambito delle pubbliche relazioni e come questo avvenga in misura anche maggiore quando qualcosa minaccia la loro reputazione. Negli ultimi dieci anni la responsabilità sociale d’impresa ha fatto grandi passi avanti e le aziende e le fondazioni benefiche hanno trovato modi creativi e produttivi per lavorare insieme. In tutte le industrie e nella maggior parte delle nazioni, sia le aziende più importanti sia le piccole attività commerciali hanno deciso di fare della filantropia una priorità. è stato dimostrato che il coinvolgimento di un’azienda in pratiche ambientali e sociali etiche e trasparenti e lo sviluppo di relazioni positive con la comunità locale hanno un ruolo fondamentale non solo nel modo in cui questa è percepita dalla gente ma anche nell’incremento della soddisfazione lavorativa, della motivazione e della felicità dei suoi dipendenti. Nessuno prende più sul serio questo slogan delle benefit corporations, note anche come B Corp. Per dimostrare il loro coinvolgimento nel bene comune queste imprese devono soddisfare una serie di standard sociali e ambientali molto elevati, e al contempo essere in grado di generare profitti. Le B Corp sono in crescita e secondo il sito web ufficiale ve ne sono ben 760, in 27 Paesi e afferenti a 60 settori industriali diversi, e molte altre sono destinate ad aggiungersi. Il mondo degli affari e del commercio è impegnato in misura sempre maggiore in programmi che hanno un impatto sia sulla società nel suo insieme che sulle aziende e sull’ecosistema aziendale. La chiave del successo filantropico è convogliare fondi ed energie verso le iniziative già esistenti e instaurare partnership sul territorio con organizzazioni o privati che hanno una solida reputazione. 110
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Unirsi allo sforzo e all’impegno delle persone eccezionali che ci circondano e fare squadra con loro per catalizzare il cambiamento può tradursi in un ulteriore valore aggiunto. Sia che qualcuno stia patrocinando l’istruzione femminile, sviluppando nuovi strumenti per sostenere l’inclusione finanziaria, o creando nuove tecniche più efficienti di riciclaggio, abbiamo ovunque nuove opportunità per contribuire e imparare. Gli esempi positivi sono dappertutto, se solo vi fermate a considerarli. Si può trattare di individui di alto profilo come l’ex presidente Bill Clinton, di un attore come Matt Damon o di un artista come Peter Gabriel, esempi da cui possiamo trarre ogni giorno ispirazione; ma anche di persone comuni come Malala Yousafzai, una ragazzina di 16 anni che ha avuto il coraggio di combattere per ciò in cui credeva. Coloro che fanno la differenza non sono più una minoranza. Organizzazioni come Ashoka, Skoll Foundation, Omidyar Network, Shwab Foundation for Social Entrepreneurship e Echoing Green, sono impegnate nel rintracciare i fautori del cambiamento sparsi in tutto il mondo, nel promuovere il loro lavoro e nel far crescere le loro idee e i loro affari. I network filantropici dimostrano che più lavoriamo insieme coordinando le competenze locali con il sostegno dall’alto, più ci avviciniamo all’ideale di una comunità globale più sana e più felice. Ciò che rende oggigiorno le cose più semplici è che il mondo della filantropia si è consolidato in una rete globale e complessa di aziende, imprese e privati che stanno facendo passi da gigante nella capacità di muovere l’ago della bilancia anche nelle questioni più importanti. Forum internazionali quali il Clinton Global Initiative, i cui membri hanno sottoscritto più di 2300 iniziative filantropiche, il TED, che ha prodotto più di 1500 TedTalks di divulgazione scientifica e tecnologica, e il World Economic Forum che si riunisce ogni anno a Da-
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vos, compongono una comunità di leader e idealisti che credono nel potere della collaborazione. I progressi nella tecnologia hanno reso possibile l’amplificazione esponenziale dei risultati ottenuti rendendo queste idee accessibili a un pubblico sempre più vasto. Nel corso della storia non ci sono mai stati più mezzi di quanti non ce ne siano ora per collaborare e contribuire. Piattaforme online, crowdfunding, movimenti digitali e campagne pubblicitarie stanno rivoluzionando il mondo della filantropia. E questo cambiamento non accenna a fermarsi. “Aiutare” e “donare” possono assumere innumerevoli forme, ma il business filantropico è in evoluzione e questa evoluzione dimostra che ci sono modi efficaci per moltiplicare gli effetti positivi e far sì che abbiano delle conseguenze ancora più profonde. Mettere in risalto gli obiettivi raggiunti, contribuire alle iniziative esistenti piuttosto che duplicare inutilmente gli sforzi e instaurare alleanze utili e significative fa sì che cambiare il mondo sia sempre di più uno scopo alla portata di tutti.
Il mondo della filantropia si è consolidato in una rete globale e complessa di aziende, imprese e privati che stanno facendo passi da gigante nella capacità di muovere l’ago della bilancia anche nelle questioni più importanti 111
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future tech
Crowdfunding: il supporto dalla rete articolo di Simone Arcagni
Il crowdfunding come si legge da Wikipedia: «(dall’inglese crowd, folla e funding, finanziamento) è un processo collaborativo di un gruppo di persone che utilizza il proprio denaro in comune per sostenere gli sforzi di persone e organizzazioni». Si tratta di una delle espressioni più caratteristiche di un sistema culturale, sociale ed economico rivoluzionato profondamente dalle tecnologie digitali. Il crowdfunding, strettamente legato al crowdsourcing (realizzazione di un progetto sulla base di una condivisione di idee dal basso favorite da Internet), vive nella rete e dalla rete acquisisce i caratteri più importanti. Si tratta sostanzialmente di chiedere un finanziamento per un progetto, preparando un vero e proprio appello in cui si riportano le caratteristiche di ciò che si vuole realizzare e si chiede, a quanti si appassionano all’idea, di partecipare mettendo un obolo a propria discrezione. Si crea così una comunità online basata su una sorta di piccolo azionariato diffuso “dal basso”. Una comunità vera e propria, “social”, che segue tutte le fasi, dalla raccolta fondi allo sviluppo del progetto, entra in contatto con gli ideatori e commenta e dialoga con gli altri “azionisti”. Kickstarter è sicuramente la piattaforma di crowdfunding più famosa, che vanta raccolte fondi di tutte le portate, dalle più piccole a quelle milionarie. Una piattaforma che ha il grande vantaggio
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di creare, ancora prima che il prodotto sia realizzato, una comunità che ne parla e che, in maniera virale, lo diffonde, permettendo inoltre al realizzatore di avere una libertà creativa e realizzativa unica. Non è un caso che anche il cinema americano si stia interessando a questo modello: per esempio si è da poco conclusa la campagna (che ha fruttato ben 5.103.150 di dollari) che permetterà la realizzazione del film tratto
Si tratta di una delle espressioni più caratteristiche di un sistema culturale, sociale ed economico rivoluzionato profondamente dalle tecnologie digitali dalla famosa serie televisiva Veronica Mars. In questo caso quello che ha funzionato è una comunità di fan (il cosiddetto fandome) pronta a tutto pur di far vivere in forme sempre nuove il proprio oggetto del desiderio. Lo stesso accade anche per Zach Braff, noto per aver interpretato John Dorian nella serie televisiva di culto Scrubs – Medici ai primi ferri e ora apprezzato attore e regista indipendente che, per il suo prossimo Wish
I Was Here, ha ottenuto ben 3.105.473 di dollari tramite la campagna sulla piattaforma Kickstarter. Un universo, quello del crowdfunding, legato soprattutto all’industria della creatività e in particolare a quella tecnologica: oggetti di design tecnologico, applicazioni, ecc. Una sorta di nuovo artigianato altamente tecnologico che trova il proprio terreno di adozione nelle Start-up, a volte legate ai Fab Lab che sorgono un po’ ovunque, spesso caratterizzati dalle avveniristiche stampanti 3D. Un universo che, oltre a voler essere indipendente, è spesso orgogliosamente anche open source e si avvale dei Creative Commons. Un modello di business diffuso e ancora difficile da inquadrare dal punto di vista dell’impatto economico ma a cui ormai si fa sempre più affidamento. Oltre a Kickstarter ci sono diverse altre piattaforme di crowdfunding, alcune generaliste altre verticali (cioè specializzate); alcune chiedono una percentuale sulla somma raccolta, altre di partecipare al progetto presentato. Per gli “azionisti” non sono previsti compensi economici ma la partecipazione verte somme esigue, che permettono di restare a fianco di un progetto, al suo sviluppo e alla sua realizzazione, insomma: di partecipare assistendo alla concretizzazione in realtà di un’idea. E anche questo è un piccolo miracolo di un nuovo modello economico in rete.
Nuovi modelli economici articolo di Raffaele Oriani
Jason Best è uno dei padri del Jobs Act, la legge che nell’aprile 2012 ha imposto il crowdfunding alla ribalta politica e giuridica dell’America di Obama. Nei suoi discorsi ama parlare di Web 3.0, la nuova era che unisce una vecchia idea (il bisogno di soldi) a un giovane Golem tecnologico (la folla di internet). Best si muove al sole della West Coast, ma il suo sito ha celebrato come “un giorno da ricordare” la pubblicazione in Italia del regolamento Consob sul finanziamento alle imprese in crowdfunding. È un’attenzione insolita: per una volta non arranchiamo, e facciamo da apripista. In tempi di credit crunch ci sperano in molti. Nel mondo del crowdfunding c’è ovviamente il finanziamento di imprese artistiche, giornalistiche, comunque creative: dal documentario su Piergiorgio Welby che si farà grazie ai 15.000 euro raccolti da 155 sostenitori su Eppela.com, a Spike Lee che su Kickstarter sfonda il muro del milione di dollari per il suo prossimo, misteriosissimo film. Storie simili per dimensioni diverse: il sito italiano ha finanziato una settantina di progetti in quasi due anni, il colosso americano dal 2009 ha distribuito 760 milioni di dollari grazie a oltre quattro milioni di sottoscrittori. E poi c’è il cosiddetto civic crowdfunding, che mixa disinvoltamente internet e istituzioni: in Inghilterra la città di Mansfield si è dotata di free wi-fi lanciando una colletta su Spacehive.com, a Venezia la
Biennale si è appena regalata la mostra Viceversa grazie a 178.562 euro raccolti in rete. La folla corre e i soldi seguono: lo scorso anno Daniela Castrataro, giovane presidente dell’Italian Crowdfunding Network, era ricorsa a internet per raccogliere i 4000 euro necessari a organizzare “Crowdfuture”; quest’anno l’attenzione è tanta che lo stesso evento di riflessione su soldi e rete ha trovato due sponsor pronti a coprire ogni spesa. Ma dove arriveranno le risorse della folla? Per la società di consulenza Deloitte, il 2013 porterà il totale della raccolta online a tre miliardi di dollari, per il Crowdfunding Industry Report alla fine dell’anno i miliardi raccolti saranno addirittura 5,1 in crescita del 90% sul 2012. È una folla enorme, che resta preziosa anche quando si polverizza in circoli minuscoli: in America, su Indiegogo.com, 13.000 supporter e 12 milioni di dollari non sono bastati a raggiungere il target della campagna per produrre la Formula 1 degli smartphone; in Germania, il giovane arabista Johann Esau deve ringraziare 24 sottoscrittori di Sciencestarter.de se ha raccolto i 1200 euro necessari alle sue ricerche al Cairo. Nel pentolone del crowdfunding si mescolano così piani industriali e progetti personali, donazioni a perdere e investimenti che devono fruttare. In Italia il sito Smartika.it ha 5.300 sottoscrittori che in poco più di un anno hanno prestato quasi quattro milioni di euro a 600 persone in diffi-
coltà. In questo caso si pagano le commissioni, si versano e si riscuotono gli interessi. Che differenza c’è rispetto a una normale finanziaria? «Costiamo molto meno e consentiamo di monitorare quanto frutta e dove finisce il proprio patrimonio» dice l’ad di Smartika Maurizio Sella. Quella del social lending è l’ultima frontiera del crowdfunding: in America un colosso come Lendingclub.com nel 2013 farà girare da folla a folla la bellezza di due miliardi di dollari, da noi siamo appena agli inizi ma Sella si dice fiducioso che «nel 2014 Smartika raggiungerà i dieci milioni di euro prestati». A fine 2010 nel mondo c’erano 283 piattaforme di crowdfunding, a fine 2012 536, a fine 2013 è facile prevedere che raddoppieranno ancora. Nel mondo delle vecchie-nuove collette online l’istantanea è sempre sfocata, l’ultima tendenza comunque già superata. Eppure almeno in Italia una data sicura c’è: il regolamento Consob che si fa rispettare fino a San Francisco è del 26 giugno 2013. Per la prima volta il fiume di denaro online trova una chiusa che lo riversa sul mondo delle imprese. Sarà la svolta per il cosiddetto equity crowdfunding? Secondo Daniela Castrataro, “evangelista” del crowdfunding in Italia, questo modello «è in grado di rivoluzionare il mercato dei capitali: se funziona con le start up sarà più facile estenderlo a migliaia di piccole e medie imprese in cerca di risorse».
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Solidarietà energetica articolo di Eric J. Lyman Giornalista, editorialista di “The American” progetto fotografico di White
Un villaggio senza energia può essere un luogo senza prospettive. Ma un micro finanziamento può cambiarne le sorti. È la storia di una baraccopoli a Udupi, in India, ed è la storia di quelle fondazioni che lavorano perché l’energia diventi un diritto di tutti, cercando il modo giusto e soluzioni innovative, a seconda del luogo in cui operano.
Chi si occupa di progetti energetici di solidarietà deve conoscere il fabbisogno energetico di una comunità specifica, le risorse disponibili, le infrastrutture, le competenze, le normative, e le possibilità di cooperazione
Meno di due anni fa, in una baraccopoli alla periferia di Udupi, una citta nel sud dell’India, la vita doveva sembrare disperata. La comunità di circa 200 case era costituita da abitanti della parte settentrionale dello stato indiano del Karnataka, una regione grande due terzi dell’Italia e quasi con la stessa popolazione. Ma Udupi si trovava nella zona sud del Karnataka, il che, per gli abitanti delle baraccopoli, significava non avere capitale sociale, beni materiali, elettricità, acqua corrente, e vivere in un’area depressa lontana dalle strade principali e soggetta a inondazioni, senza alcuna reale ragione di credere che le cose potessero migliorare a breve. «I banchieri non avevano interesse ad arrivare in un posto come quello perché i rischi erano troppo alti» ha spiegato Arunabha Ghosh, direttore generale del Consiglio per l’energia, l’ambiente e l’acqua di Nuova Delhi. «Non c’era ragione di pensare che le persone non potessero semplicemente fare le valigie e andarsene. E senza risorse o accesso al capitale, erano davvero ben lontani dal poter migliorare il proprio destino». Ma uno degli uomini della comunità, un lavoratore affetto da poliomielite di nome Shankar, voleva un pannello solare per la sua baracca pericolante, e si è rifiutato di accettare in risposta un “no”. Ha continuato a insistere fino a quando la Selco, l’azienda indiana di servizi per l’energia solare, ha trovato una soluzione: avrebbero aiutato Shankar ad assicurarsi un prestito per i 400 dollari (300 euro) necessari a installare l’impianto solare, mentre le altre 199 case della baraccopoli avrebbero aperto conti correnti per garantirlo collettivamente. L’iniziativa avrebbe fornito elettricità al piccolo negozio di riparazione di telefoni cellulari di Shankar e un precedente di accesso al credito agli altri abitanti della città. Shankar ha ripagato il suo prestito in dieci mesi, e il futuro della baraccopoli di Udupi ha cambiato rotta. Anand Sarin, un ingegnere e responsabile di progetto che ha lavorato per la Selco a Bangalore, concorda: «Probabilmente non c’è nulla che possa avere un impatto maggiore sui più poveri che portar loro l’energia elettrica». È quasi impossibile fare delle stime sull’ammontare delle donazioni a livello mondiale, o su quale percentuale di queste sia legata all’energia, ma esperti del settore affermano che i progetti di solidarietà per lo sviluppo in ambito di energia stanno diventando sempre più comuni. «Portare energia a una comunità che non ce l’ha è un primo passo importante per aiutare lo sviluppo di quella comunità», ha affermato Richie Ahuja, direttore regionale per l’Asia dell’EDF, un fondo statunitense per la difesa dell’Ambiente. «Il problema è che non è così facile come può sembrare a prima vista. È necessario conoscere a fondo i meccanismi locali». Condivide questa osservazione anche Nick Virr, direttore del programma globale nepa115
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lese di Renewable World (prima conosciuto come Koru Foundation), un’organizzazione britannica per lo Sviluppo. «Tutte le organizzazioni che lavorano a progetti o allo sviluppo in ambito energetico hanno bisogno di un aumento progressivo della domanda a lungo termine», ha spiegato Virr. «Non si tratta di un progetto su cui può lavorare un gruppo qualsiasi. Può forse sembrare semplice come arrivare, montare qualche pannello solare e andare via, ma in realtà non lo è». Secondo gli esperti del settore, chi si occupa di progetti energetici di solidarietà deve necessariamente conoscere il fabbisogno energetico di una comunità specifica, le risorse disponibili (per esempio la distanza dalle reti elettriche esistenti, la quantità di irraggiamento solare naturale o di vento della zona), le infrastrutture, le competenze locali, le normative, e le possibilità di cooperazione, oltre ad altri fattori. John Constable, della Fondazione per l’Energia Rinnovabile di Londra, per esempio, ha dichiarato che devono esserci le giuste condizioni, normalmente sulle isole o in zone estremamente isolate, per concentrare esclusivamente sulle energie rinnovabili i progetti di solidarietà per lo sviluppo e per l’energia. «Se il fine è avviare progetti per raggiungere un obiettivo di utilizzo delle energie rinnovabili è un conto, ma se il fine è lo sviluppo, allora spesso è più sensato utilizzare un combustibile tradizionale come principale fonte di energia, a cui affiancare l’utilizzo delle energie rinnovabili», ha affermato Constable. «Crediamo che la cosa più importante sia la ricerca di soluzioni innovative», ha continuato. «Se ci si limita a fornire un sistema integrativo, l’innovazione può subire un rallentamento, perché adesso i fattori economici sono cambiati. Bisogna trovare un equilibrio. È una sorta di amore severo a fin di bene». Virr concorda sulla complessità economica della questione: «Si può avere un approccio legato all’offerta o un approccio legato alla domanda. Ma la cosa migliore ovviamente è riuscire a spingere sui due fronti». Ahuja dell’EDF ha parlato del bisogno di creare quello che lui ha definito un “sistema operativo” per i progetti di solidarietà per lo sviluppo e l’accesso all’energia. Come in un computer, è il sistema operativo sullo sfondo che crea il contesto che permette ai programmi specifici di lavorare. Nel caso dei progetti per lo sviluppo, i programmi specifici saranno il “solare”, il “biocarburante”, o qualsiasi altra soluzione che possa funzionare al meglio in quel caso specifico. Ha anche affermato che è fondamentale per i gruppi di solidarietà far leva sul loro investimento per raggiungere il massimo impatto. «Non c’è un’unica soluzione adatta a tutto» secondo Ahuja. «Serve la giusta combinazione di capitale sociale, donazioni, e fonti finanziarie convenzionali come sovvenzioni statali e banche locali. L’obiettivo è di far leva finanziaria 116
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È quasi impossibile fare delle stime sull’ammontare delle donazioni a livello mondiale, o su quale percentuale di queste sia legata all’energia, ma i progetti di solidarietà per lo sviluppo in ambito di energia stanno diventando sempre più comuni
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sull’investimento. Le organizzazioni di solidarietà si assumono il rischio finale, il che rende il progetto più interessante per le fonti private di finanziamento da coinvolgere, e assicura che il progetto alla fine possa andare avanti da solo». Raymond Wallace, ricercatore ed esperto di sviluppo di sistema dell’Università della California, ha espresso un parere simile. Ha affermato che, mentre l’aumento del numero di progetti di solidarietà per lo sviluppo in ambito energetico e la quantità di conoscenza a livello locale che i gruppi di solidarietà stanno accumulando possono da lui essere definiti “processi di sviluppo straordinariamente positivi”, l’impatto dei progetti potrebbe essere ben maggiore se ci fosse più integrazione tra pubblico e privato. «Molti gruppi di solidarietà si rivolgono al settore privato solo per la richiesta delle donazioni», ha osservato. «Questo deve far parte dell’equilibrio. Ma farebbero molto meglio a coinvolgere i privati sul campo. Sono troppi i progetti che cercano di andare avanti da soli, senza il coinvolgimento delle istituzioni finanziarie o dei gestori energetici locali. Associare lo sviluppo al supporto delle aziende locali per aiutarle a espandere i propri mercati nelle aree in via di sviluppo porta benefici a tutti: alla comunità, ai gruppi di solidarietà, alle aziende. Penso che troppi gruppi di solidarietà vedano le organizzazioni a scopo di lucro come degli antagonisti, mentre dovrebbero lavorare insieme». Virr ha commentato l’argomento in un modo diverso: «Il lato positivo dei gruppi non governativi è che sono filantropici. E il lato negativo è che sono filantropici». Nel frattempo, tornando alla baraccopoli vicino a Udupi, c’è una lezione che ha imparato per esperienza Shankar, l’uomo disabile che ha installato il primo pannello solare della sua comunità. Dopo aver ripagato il suo prestito da 400 dollari, sta cercando di ottenere un altro prestito per una sorta di ampliamento. La sua baracca è al fondo di un sentiero fangoso non molto visibile dalla strada principale. Vorrebbe aprire un nuovo negozio di riparazione di telefoni cellulari sulla strada, in modo da continuare a servire la sua comunità ma anche attirare i clienti di passaggio. Ghosh, del Consiglio sull’Energia, l’Ambiente e l’Acqua di Nuova Delhi, ha detto che non scommetterebbe contro il suo successo: «È la storia avvincente di come un singolo individuo, disabile, senza credito, senza beni, e con poche speranze per il futuro, abbia fatto la differenza».
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Povertà energetica in Europa: un diritto negato articolo di Emanuela Colombo Cattedra UNESCO in Energia per lo Sviluppo Sostenibile e di Tommaso Scandroglio Diritto all’energia, Università Europea di Roma
La povertà energetica è un problema sempre più diffuso anche nel mondo sviluppato. È necessario richiamare l’Europa, in prima istanza, e poi il mondo intero, a un confronto che conduca a soluzioni operative replicabili di responsabilità sociale. Negare all’uomo la condizione d’accesso a un bene materiale è una questione socio-politica, nonché un tema di equità.
Esiste un legame inscindibile tra energia e sviluppo. Lo fa intuire la nostra vita, quotidianamente pervasa dal consumo di diverse fonti energetiche, per gli usi personali, i trasporti, il lavoro, il tempo libero, la salute, la cura della persona, l’educazione e la cultura. Lo prova la Storia dell’uomo, dove i più significativi passi evolutivi e i principali cambiamenti socio-economici sono sempre stati associati alla scoperta, o meglio alla capacità acquisita di fare uso, di fonti energetiche. Lo conferma la grande attenzione che il tema energia sta riscuotendo nei dibattiti internazionali sullo sviluppo sostenibile incentrati sul comune obiettivo di identificare e promuovere un “sistema energetico sostenibile per tutti”. L’energia, oggi riconosciuta come strumento essenziale per la promozione umana e lo sviluppo della società, dovrebbe essere disponibile, accessibile e sicura per tutti. Ma sappiamo che non è così. Non lo è nei Paesi del cosiddetto Sud globale dove il tema della povertà energetica è largamente dibattuto in ambito internazionale ed è declinato con dettaglio nei sui aspetti principali (accesso all’energia elettrica e ai combustibili moderni). Non lo è neppure nei Paesi del Nord del mondo dove il tema della povertà energetica, meno approfondito dal punto di vista teorico ed empirico, definisce un non adeguato benessere energetico in ambito domestico e
risulta profondamente interrelato ai temi sociali di inclusione ed equità. Pur non esistendo ancora una definizione univoca, la comunità scientifica condivide in generale che la povertà energetica possa essere identificata come la condizione nella quale una famiglia non è in grado di accedere a un adeguato livello di servizi energetici domestici per gli usi materiali e per le necessità sociali. Questa definizione estende il problema oltre il solo dominio del riscaldamento domestico e identifica una condizione in cui la famiglia deve affidarsi a una serie di strategie di risparmio che riguardano anche la luce, gli usi energetici di cottura, i trasporti e la propria vita sociale. In Europa si stima che siano circa 50 milioni le persone che non riescono a pagare la bolletta o a mantenere livelli accettabili di benessere nelle rispettive abitazioni. La dimensione del problema è piuttosto rilevante come risulta evidente dai dati di uno studio recente (Harriet Thomson, Carolyn Snell, 2013, si veda fig. 1, fig. 2, fig. 3). Tali dati, se confrontati con le condizioni economiche dei rispettivi Paesi che assestano la soglia di povertà interna al 60% del salario mediano del Paese (la media EU è circa il 15% della popolazione), permettono di comprendere come la povertà energetica non sia solo uno dei volti della povertà economica, ma sia un problema socio-politico con una propria caratterizzazione.
La povertà energetica è entrata nel vocabolario dell’Europa grazie alla direttiva di liberalizzazione del gas e dell’energia elettrica che ha acceso il dibattito negli anni successivi. Il dibattito politico, solo recentemente sostenuto da un dibattito scientifico adeguato (come si può leggere nell’articolo di Christine Liddell, “Fuel poverty comes of age: Commemorating 21 years of research and policy”), ha fatto emergere alcune criticità condivise rispetto alla modalità con cui il tema viene oggi affrontato: si tende a tamponare le conseguenze privilegiando sussidi diretti sulle bollette, le relazioni di causalità non sono ben identificate, le istituzioni sono spesso carenti di capacità di gestione per tematiche multidimensionali, la ricerca scientifica deve approfondire il problema e contribuire a formulare soluzioni, le raccomandazioni introdotte hanno un carattere troppo generico e poco pratico. Gli anziani non sono più la sola categoria vulnerabile; studi effettuati sui bambini che vivono in famiglie afflitte dalla povertà energetica mostrano come essi subiscano ripercussioni a livello sia fisico sia psicologico. A seguito dell’evoluzione delle condizioni sociali e dello stallo economico, si aggiungono oggi le famiglie monoreddito, i giovani in attesa di impiego, i disoccupati, gli immigrati. Le cause principali sono legate a una complessa interazione tra basso red-
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dito, inadeguata efficienza energetica nelle abitazioni e costi dell’energia. Le categorie interessate vedono ridotta la propria qualità di vita al di sotto di una soglia “accettabile” e le principali conseguenze impattano sulla salute: aumentano le influenze, le malattie cardiache, gli infarti e il rischio di asma e le famiglie mostrano una tendenza maggiore a rivolgersi ai presidi sanitari locali. Per i bambini si registra un’addizionale difficoltà a crescere di peso e a raggiungere adeguati livelli nutrizionali, effetto evidente della dicotomia tra “mangiare o riscaldarsi”. La povertà energetica inoltre può indurre conseguenze psicologiche di tipo depressivo che minano la capacità di sviluppare e consolidare relazioni sociali. La conseguenza più estrema della povertà energetica
è legata al fenomeno della “crescita di mortalità” in condizioni climatiche critiche, inteso come il numero addizionale di decessi che si possono verificare nella stagione fredda o in corrispondenza delle eccezionali ondate di calore estive. Le strategie adottate dalle categorie vulnerabili per mitigare il problema della povertà energetica vanno dalla vendita di oggetti personali di valore, all’impiego della televisione come fonte di illuminazione, all’utilizzo del solo soggiorno come locale riscaldato, utilizzando spesso i divani come letti. Inoltre, ove siano coinvolte le famiglie, i genitori cercano di nascondere questi compromessi ai figli e agli eventuali visitatori, e questa forzatura può compromettere la stabilità emotiva della famiglia stessa.
Nell’affrontare il tema della povertà energetica si configura dunque una situazione in cui un diritto viene negato. Le risorse che l’uomo usa come energia, acqua, cibo non possono essere qualificate come “diritti”, mentre lo può essere la “condizione di accesso” a questi beni materiali. Il diritto all’accesso all’energia per le famiglie vulnerabili si inquadra in un prospettiva politica di uno Stato che si conforma al principio di sussidiarietà. I governanti (sia a livello nazionale sia, se presente, a livello sovranazionale) devono creare quelle condizioni affinché ciascuno si orienti liberamente e da sé al bene proprio e quindi si perfezioni. I singoli privati devono valorizzare la rispettiva competenza specifica e ove necessario chiedere supporto agli altri
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Percentuale di famiglie che segnalano rotture a porte, finestre, tetti o pavimenti
povertà energetica in europa: un diritto negato |
attori della società. Da qui il valore dei corpi intermedi (come gli attori della società civile, le fondazioni ma anche le imprese private). Il principio di sussidiarietà infatti predica che in stato di bisogno debba intervenire la società prossima, più vicina al soggetto in difficoltà. Nel caso specifico della povertà energetica il supporto ai clienti vulnerabili deve essere garantito da diversi attori. Lo Stato, con la propria competenza di governo, nella sua azione di vigilanza deve fornire politiche di indirizzo e disciplinare il mercato con le norme mentre nella sua azione di controllo deve introdurre correttivi laddove ci siano squilibri. Le aziende energetiche, con la propria competenza tecnica, sono chiamate a intervenire proponendo soluzioni
tabella Passaggi chiave nell’adozione di politiche europee in materia di povertà energetica (Stefan Bouzarovski, Saska Petrova, Robert Sarlamanov, 2012)
in grado di allinearsi alle politiche di governo, consentire il mantenimento del mercato, promuovere l’efficienza energetica, contenere l’impatto ambientale e promuovere equità di trattamento per clienti vulnerabili. Si riconosce inoltre un ruolo chiave per l’Europa che, come organismo sovranazionale, deve agire da guida per favorire la sinergia tra gli attori, inclusa la società civile, promuovere un coordinamento intersettoriale, multidimensionale e trasversale per evitare che cause non ancora intercettate continuino ad alimentare il problema della povertà energetica intaccando una quota sempre più crescente di famiglie europee. Infine, poiché il tema della povertà energetica ha una declinazione che interessa il mondo globale,
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si sottolinea la necessità di favorire piattaforme di dialogo e partenariati internazionali. Sarebbe auspicabile infatti che in un contesto di cooperazione tecnologica globale (Nord–Sud e Sud–Nord) si possa innestare un principio virtuale di mutuo apprendimento e alcune soluzioni tecnologiche, modelli economici, politiche e strategie sperimentate con successo in un contesto possano costituire, previo adeguato adattamento, esperienze replicabili. I sistemi integrati (mini-grid) di fonti rinnovabili per la generazione decentralizzata, studiati e realizzati con diversi modelli di business in molte zone rurali dei Paesi in via di sviluppo potrebbero già ad oggi costituire casi studio in grado di fornire spunti interessanti.
Luglio 2009
Luglio 2010
Novembre 2010
Direttiva di liberalizzazione del Gas e dell’energia elettrica
Opinione del comitato economico e sociale europeo in materia di liberalizzazione energetica
Commissione Europea
Ai governi degli stati membri è stato chiesto di formulare politiche appropriate per affrontare il tema della povertà energetica, inducendo lo sviluppo di un piano nazionale di azione
Viene sottolineato che le statistiche esistenti andrebbero armonizzate per permettere una più rigorosa identificazione della situazione della povertà energetica in Europa
Gli Stati membri sono incoraggiati ad adottare politiche di lungo perioso e non rimedi temporanei con l’obbiettivo di sostituire i sussidi sulla bolletta con un supporto al miglioramento dell’efficienza energetica delle abitazioni
È stato proposto un piano di azione integrato tra le politiche sociali e quelle di efficienza energetica in modo da favorire i clienti vulnerabili
Si insiste nella necessità di attivare un Centro di Montaggio della povertà energetica a livello europeo che possa essere inserito in qualche organismo già esistente, come ad esempio l’agenzia per la Cooperazione degli Enti Regolatori
Vengono suggerite modalità di quantificazione della povertà energetica meno soggettive delle interviste come quelle basate su soglie predefinite di spesa rispetto al salario famigliare
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Enabling Electricity: l’energia per tutti a cura di Enel
Come ha spiegato il segretario generale dell’ONU Ban Ki-moon, l’energia è fondamentale in quanto filo che unisce crescita economica, equità sociale e conservazione dell’ambiente. Un filo, però, che deve poter raggiungere tutti. Proprio per facilitare l’accesso all’energia e renderlo un diritto diffuso, Enel ha varato il programma Enabling Electricity.
L’Energia è il motore per la crescita, lo sviluppo sociale, una vita dignitosa; e la Corporate Social Responsibility rappresenta per Enel un driver di strategia industriale che integra il modello di business dei Paesi e delle comunità dove il Gruppo opera. Coniugando queste due idee, Enel ha varato il programma Enabling Electricity nell’ambito del “Decennio dell’energia sostenibile per tutti” (2014-2024) dedicato dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite alla lotta alla povertà energetica. Come membro del Global Compact LEAD dell’ONU Enel offre la propria competenza e conoscenza in zone isolate e periferiche delle grandi aree di urbanizzazione, suburbane e rurali. Oggi più di un milione di persone in tutto il mondo beneficia di questi innovativi progetti per favorire l’accesso all’energia, numero che Enel intende raddoppiare entro il 2014. Tra i progetti, Luz para todos (luce per tutti) riassume nel suo nome il significato delle molte iniziative del programma. Se oggi, infatti, sembra impossibile immaginare un mondo senza energia elettrica – a maggior ragione in un momento storico di recessione economica durante il quale essa potrebbe costituire parte del motore allo sviluppo – nel 2011 l’Agenzia Internazionale dell’Energia (IEA) raccontava una storia diversa. Stimava, infatti, nel suo rapporto annuale World Energy Outlook, che circa 1,3 miliardi di persone nel mondo non hanno accesso all’energia, mentre 2,7
miliardi di persone cucinano ancora utilizzando le biomasse tradizionali con potenziali effetti negativi sulla propria salute. In questo contesto fornire elettricità è molto più di un mero servizio. Nel mondo, gli ostacoli allo sviluppo energetico sono di diverso tipo come diverse sono anche le aree coinvolte (zone rurali e isolate oppure periferie di grandi metropoli). Brasile, Cile, Haiti, Congo, El Salvador, Guatemala, Messico, Perù, Colombia, Panama sono i molti Paesi in cui Enel ha avviato progetti di sviluppo, e per rispondere a tutte le esigenze il programma procede lungo tre direttrici: dai progetti che garantiscono accessibilità tecnologica e infrastrutturale a quelli che abbattono le barriere economiche nelle aree a basso reddito, passando per iniziative di sviluppo e condivisione di conoscenza e competenze professionali nel settore energetico. Per raggiungere le aree isolate in cui per ragioni di fattibilità fisica o economica l’energia non sia diffusa, il centro di ricerca Enel ha ideato TOB, un sistema in grado di fornire servizi essenziali off-grid, un gazebo di legno dotato di pannelli fotovoltaici e di un accumulatore. Economico, facilmente montabile e trasportabile, nonché adattabile allo sfruttamento di altre fonti rinnovabili (in base alle caratteristiche specifiche del luogo), produce energia elettrica e l’accumula per renderla disponibile nei momenti di necessità. Raccolta dei rifiuti in cambio di sconti sulla
bolletta elettrica è invece la strategia attuata in alcune delle aree urbane più povere del Sud America, caratterizzate dalla presenza di discariche a cielo aperto, dannose per la salute umana e ambientale, e contemporaneamente dallo sfruttamento illegale della rete elettrica. I progetti Ecoelce, Ecoampla (Brasile) ed Ecochilectra (Cile) si basano dunque su un “semplice” ma efficace scambio: a chi consegna i rifiuti in specifiche aree di raccolta sono assegnati dei proporzionali sconti sull’energia. Un progetto educativo, utile per la società, per l’ambiente e per l’economia, che rende l’accesso all’elettricità più economico e legale. L’educazione è anche protagonista del progetto di capacity building avviato in Paesi come Guatemala, Cile, Colombia, El Salvador, dove Enel ha deciso di esportare il modello indiano del Barefoot College, che forma donne (nel caso indiano le nonne, che hanno un carico familiare meno pesante rispetto a quello delle madri) affinché diventino “ingegneri solari”. Corsi di formazione insegnano loro a installare e manutenere piccoli impianti fotovoltaici, un’attività nei propri villaggi che consente loro di lavorare e trasmettere ad altre donne la propria esperienza, i contributi dei capi famiglia a essere retribuite per i servizi offerti. Nel 2012, mille case hanno ricevuto un impianto fotovoltaico grazie al lavoro di 16 donne. Progetti che vanno al di là della filantropia e contribuiscono in modo costante alla creazione di valore.
L’Agenzia Internazionale dell’Energia (IEA) ha stimato che circa 1,3 miliardi di persone nel mondo non hanno accesso all’energia, mentre 2,7 miliardi di persone cucinano ancora utilizzando le biomasse tradizionali. In questo contesto fornire elettricità è molto più di un mero servizio
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Una lavatrice per la comunità articolo di Ansis Berzinš Executive Director della Vrcf, Valmiera Region Community Foundation
Siamo abituati a pensare alle fondazioni come organismi che si battono per cause che coinvolgono ingenti quantità di denaro, ma a volte anche poche centinaia di euro possono fare la differenza. In un piccolo villaggio lettone, con gravi problemi economici e sociali, l’acquisto di una lavatrice è stato in grado di permettere lo sviluppo di una delle cose più importanti per l’uomo: il senso della comunità.
Il Movimento delle Fondazioni di Comunità della Lettonia ha celebrato nel 2013 il suo decimo anniversario. Cinque diverse fondazioni di comunità, che coprono circa il 10% della popolazione lettone, hanno speso più di 600.000 euro per supportare iniziative locali in tutta la nazione. Dal 2003 sono stati concessi circa 700 finanziamenti, un enorme successo per la Lettonia – un Paese dell’Europa nordorientale con una democrazia e una cultura della filantropia ancora in via di sviluppo. La Fondazione di Comunità della regione di Valmiera è una delle cinque fondazioni di comunità presenti sul territorio. Fondata otto anni fa, ha la sua base a Valmiera, una città di 25.000 abitanti, ma copre anche l’area rurale circostante, in cui vivono circa 30.000 persone. La fondazione raccoglie ogni anno da benefattori del luogo circa 20.000 euro, che vengono per lo più ripartiti tra organizzazioni su base territoriale e iniziative locali. La storia della lavatrice che vorrei raccontarvi viene da un piccolo villaggio lettone, nell’area di Valmiera: Zilaiskalns (letteralmente “collina blu”). Ha una popolazione di 700 abitanti ed è il solo insediamento di lingua russa di questa parte della Lettonia, con conseguenti problemi di integrazione per i suoi abitanti. Il villaggio di Zilaiskalns è stato costruito nel 1950 su un terreno vicino a una palude, e la popolazione è stata importata dalle altre repubbliche sovietiche affinché lavorasse in un nuovo sta-
bilimento per la produzione della torba. Dopo la conquista dell’indipendenza nel 1991, in Lettonia la produzione della torba è diminuita drasticamente e centinaia di abitanti del villaggio sono rimasti disoccupati senza possibilità di trovare un nuovo lavoro a causa delle barriere linguistiche, culturali che impedivano di trovare un nuovo impiego. Nel 2006, un gruppo di pensionati di Zilaiskalns ha contattato la nostra fondazione e ci ha proposto di comprare una lavatrice da mettere a disposizione della collettività. I promotori dell’iniziativa sostennero che la lavatrice pubblica sarebbe stata molto utile agli abitanti del villaggio che non dispongono di acqua corrente. All’inizio ero scettico: le nostre sovvenzioni sono erogate solo se accompagnate da altre attività, come riunioni e volontariato. I pensionati hanno presentato la loro richiesta alla maggiore impresa commerciale della nostra città, la società per azioni Valmiera Glass Fibre chiedendo 370 euro per l’acquisto di una lavatrice per uso pubblico e il comune ha garantito che avrebbero fornito spazi e supporto per acqua ed elettricità. Il comitato addetto alla selezione, di cui faceva parte anche un rappresentante dei finanziatori, ha ritenuto che il progetto per la lavatrice a Zilaiskalns fosse meritevole e la fondazione ha erogato il finanziamento richiesto. Nell’autunno del 2006 la lavatrice è stata installata in un appartamento al primo piano di un condomi-
nio e messa disposizione del pubblico. Da allora, nel giro di sette anni, la lavatrice è diventata il centro della comunità e il catalizzatore del cambiamento: le utenze sono ancora pagate dal comune, ma i costi per le riparazioni sono coperti da una piccola quota di partecipazione versata dagli “utenti”. Il gruppo di pensionati gestisce i turni, gli orari, porta, lava e riconsegna il bucato, ma soprattutto ora ha un luogo dove parlare in un’epoca come la nostra in cui le persone sono sempre più isolate, e già questo è un grande un risultato. Inoltre, grazie al dialogo, i pensionati possono mettere a punto nuove idee e progetti per la comunità, e tutto ciò al costo di appena 370 euro. Negli anni sono state così organizzate escursioni di Nordic walking, è stata creata una pista da skaterboard ed è stata installata, in una stanza vicino alla lavatrice, una cucina a gas, un altro punto di riferimento per incontrarsi e discutere di gastronomia. I problemi del villaggio non sono certamente scomparsi ma per molti abitanti la vita di tutti i giorni è migliorata in misura significativa. Sono sinceramente convinto che Zilaiskalns non sia il solo luogo dove una storia del genere potesse accadere; e tutto questo grazie a un piccolo gruppo e alle attività filantropiche portate avanti con mente aperta da persone disposte a condividere quello che hanno a vantaggio della comunità.
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La nuova imprenditoria sociale articolo di Francesco Perrini Direttore CReSV, Centro Ricerche su Sostenibilità e Valore
È indubbia la rilevanza attribuita oggi all’imprenditorialità sociale nel rilancio, anche sul piano competitivo, delle economie nazionali. Un’analisi a partire dalle ricerche della SIF Chair di Social Entrepreneurship e dal Centro di Ricerche su Sostenibilità e Valore dell’Università Bocconi svela come le organizzazioni si stanno attivando per acquisire strumenti propri dell’economia tradizionale.
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Nell’ultimo decennio si è registrato un crescente interesse verso il tema della filantropia, testimoniato dal moltiplicarsi a livello internazionale delle iniziative di singoli individui e imprese sia in termini quantitativi, volume di risorse erogate, e qualitativi, efficacia degli interventi. Il moltiplicarsi dell’attività filantropica è un riflesso dei cambiamenti in atto nel sistema socio-economico globale: crisi dei modelli di welfare state, arretramento dell’intervento pubblico, aggravarsi di situazioni di disagio sia nei Paesi sviluppati, per via della crisi economica, sia nei Paesi del terzo mondo, progressiva concentrazione della ricchezza globale. Si sta diffondendo un approccio più consapevole alla filantropia con una maggiore attenzione verso i risultati e gli impatti sociali e un’integrazione dell’attività filantropica con la vita e l’attività imprenditoriale degli individui in una logica giving while living. Non è facile censire la filantropia perché il fenomeno interessa sia l’attività d’imprese e fondazioni “tradizionali” che fanno filantropia, sia l’attività di fondazioni, individui e fondi esplicitamente dediti alla filantropia che stanno affiancando iniziative di venture philanthropy, o anche “filantropia attiva”, alla filantropia tradizionale. Possiamo sicuramente dire che la VP è un fenomeno in rapida espansione ma allo stesso tempo ancora marginale rispetto alle dimensioni della filantropia tradizionale. I dati sono frammentati e la conoscenza del tema passa attraverso l’attività di ricerca e promozione di singole organizzazioni, network e associazioni di operatori. A livello globale la filantropia presenta nel suo complesso dei trend di crescita importantissimi, coerentemente con i trend di concentrazione della ricchezza e la crescita del numero degli high net worth individuals a livello mondiale. Lo sviluppo dell’imprenditorialità sociale è strettamente collegato alla disponibilità di strumenti e opportunità di finanziamento specifiche per le imprese sociali. La realizzazione di un connubio tra finanza e imprenditorialità sociale è un’esigenza quanto mai necessaria e può rappresentare sia un volàno per lo sviluppo del social business sia un’opportunità per le comunità locali che presentano sempre maggiori bisogni sociali con una pubblica amministrazione incapace a soddisfarli, per mancanza di risorse e progettualità. Negli ultimi anni l’interesse verso gli strumenti di “finanza sociale” è cresciuto in maniera esponenziale e in alcuni Paesi europei sono già state avviate esperienze molto interessanti, come per esempio i Social Impact Bonds, un “prodotto” già sperimentato
con successo nel Regno Unito assimilabile ai titoli obbligazionari, valido per iniziative nel sociale. Sono infatti strumenti utilizzati dai soggetti pubblici per raccogliere finanziamenti privati da destinare a progetti di pubblica utilità. Interessante l’esperienza di UBI Banca e della BCC di Cherasco, e altre in Italia. Invero, in Italia l’uso per esempio dei fondi come strumento di finanziamento dell’economia sociale è ancora fortemente limitato, anche a causa dalla normativa. Molte fondazioni stanno iniziando a introdurre logiche di VP nel loro modus operandi ma il fenomeno non è attualmente censito, mentre le uniche esperienze di fondi di investimento sociale sono al momento quella di Oltre Venture (che, nato nel 2007, investe in iniziative di imprenditorialità sociale in Italia), e quella di Impact-Finance (che, nata nel 2010, opera come fondo di debito e che investe in social business alla “base della piramide”). Da segnalare anche la costituzione nel gennaio del 2013 di Opes Impact Fund, primo veicolo italiano di impact investing, che è una modalità di investimento che coniuga obiettivi economici e di impatto sociale ponendosi in una posizione intermedia tra gli investimenti tradizionali che hanno l’obiettivo di massimizzare il ritorno finanziario del capitale investito e la filantropia. Gli investimenti in imprese per il cambiamento sociale si stanno affermando come una nuova asset class per gli investitori. Il 3° rapporto sull’impact investing di JP Morgan indica una crescita del comparto con investimenti programmati 2013 dell’ordine dei 9 miliardi di dollari contro gli 8 miliardi del 2012 e con performance in linea con i risultati attesi dal punto di vista sociale, ambientale e finanziario (due terzi dei rispondenti dichiara inoltre di avere ritorni finanziari ad indici di mercato). In Italia sta facendo timidamente i suoi primi passi. Sono ancora pochi gli attori specializzati e le risorse mobilitate non superano complessivamente poche decine di milioni di euro. Più della metà di queste risorse è investita nel settore della microfinanza. Poi, alcuni primari istituti bancari hanno promosso iniziative ad hoc per le aziende non profit. Penso all’esperienza di Banca Prossima del gruppo IntesaSanpaolo o al progetto Universo non Profit del gruppo Unicredit. Per cui oggi chi vuole fare social business in Italia può accedere a forme di finanziamento specifiche fornite da questi soggetti e non solo alla filantropia. Pratica e teoria d’altra parte oggi sono concordi nell’identificare, nella misurazione del valore sociale atteso o creato, la possibilità, per le organizzazioni non profit e le imprese sociali, 127
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di conferire credibilità ai propri progetti, fornendo un’indicazione sintetica, in termini monetari, dell’impatto che essi hanno avuto sulle persone, i territori o le comunità che ne hanno beneficiato. È in tal senso che la misurazione aiuta a comunicare la forza di un progetto sociale ai potenziali investitori – siano essi donatori, banche in fase di concessione di crediti o investitori istituzionali in senso stretto, utilizzando un linguaggio familiare: quello monetario. Ad esempio, fondi di social venture capital quali Robert Enterprise Development Fund o Acumen Fund hanno sviluppato e diffuso modelli di misurazione del valore sociale col fine di migliorare la propria capacità d’impatto, l’immediatezza della propria comunicazione e la propensione dei promotori d’iniziative imprenditoriali sociali alla trasparenza nella valutazione e diffusione dei propri risultati. Oltre che avere una funzione esterna di allineamento delle aspettative su risultati ottenuti o attesi dalla realizzazione di un progetto sociale, se utilizzata in fase di pianificazione, la misurazione può facilitare anche la progettazione di un sistema di monitoraggio e controllo ad hoc, attraverso l’identificazione di aree operative, fattori di criticità, driver di successo. A consuntivo, un percorso di valutazione degli impatti sociali generati può supportare la definizione di attività correttive, così come motivare le ragioni di un determinato risultato. Tutto ciò è molto importante per chi deve ad esempio rendicontare l’attività – come gli investitori prima descritti naturalmente – e le scelte di destinazione della filantropia di impresa. L’approccio più diffusamente utilizzato per rispondere all’esigenza di valutare gli impatti differenziali generati da progetti imprenditoriali sociali, nonché della capacità degli stessi di perseguire efficacemente la propria missione, è il calcolo del Ritorno Sociale dell’Investimento (Social Return on Investment – SROI). Esso rappresenta il tentativo di quantificare, in termini economici, il valore sociale o ambientale non finanziario generato da un progetto, un’iniziativa, un’impresa sociale, dato un certo investimento di capitale. La risposta delle organizzazioni sociali in tale ambito è promettente. Lo SROI Network conta 700 organizzazioni non profit a livello globale attivamente coinvolte, in meno di un anno, nel calcolo del proprio ritorno sociale. Il processo che conduce al calcolo dello SROI consta di più fasi successive, basate sulla centralità delle persone – ossia i beneficiari delle iniziative sociali promosse – nell’identificazione delle aree d’impatto, nella raccolta dei dati e nella verifica dei risultati ottenuti. Il percorso prende avvio dall’esplicitazione di una teoria d’impatto sociale che dettagli il contributo differenziale del progetto in un dato ambito o per determinate catego128
rie di soggetti. Seguono la mappatura dei soggetti che sperimentano il cambiamento quale risultato delle attività implementate, l’identificazione, per ciascuna categoria di soggetti, delle relazioni causali tra risorse apportate e risultati ottenuti, la definizione d’indicatori cui attribuire un valore monetario rappresentativo degli impatti ottenuti (ad esempio, risparmi di costo o incrementi di valore), il calcolo d’indicatori sintetici che rapportino agli investimenti, i benefici sociali realizzati al netto dei costi sostenuti (si fa rinvio a La misurazione degli impatti sociali, Perrini-Vurro, Egea, Milano, 2013). In conclusione per meglio promuovere lo sviluppo della filantropia in Italia sarebbe necessario: creare una learning culture perché l’innovatività del tema rende necessario condividere, diffondere esperienze e know-how tra finanziatori, operatori sociali, accademici, imprese, ecc.; promuovere e creare reti di finanziatori, dato l’obiettivo di favorire il maggiore impatto possibile delle iniziative sociali; è dotare il sistema di strumenti giuridici innovativi e forme giuridiche ibride per favorire il protagonismo dei filantropi ma in generale della società civile; introdurre norme che favoriscano l’attività filantropica.
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6 In alcuni Paesi europei sono state avviate esperienze molto interessanti, come i Social Impact Bonds, strumenti utilizzati dai soggetti pubblici per raccogliere finanziamenti privati da destinare a progetti di pubblica utilitĂ
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approfondimento
Un lavoro di squadra articolo di Bill Drayton Amministratore Delegato di ASHOKA
Un mondo in continua evoluzione ridefinisce anche i rapporti tra i singoli: come questi interagiscono, lavorano, producono e reagiscono ai cambiamenti. Perché ogni giorno ci troviamo a dover affrontare situazioni nuove e diverse opportunità. Occasioni che l’imprenditoria sociale può insegnare a cogliere senza infrangere regole etiche e, anzi, promuovendo il bene comune.
Il tasso di cambiamento nel mondo è andato accelerando in maniera esponenziale almeno dal 1700, così come il numero di changemaker, le persone che sono in grado di dare vita al cambiamento stesso. Questa accelerazione ha riguardato anche – e questo è un punto estremamente importante – il numero delle combinazioni, e delle combinazioni delle combinazioni, delle relazioni esistenti tra coloro che apportano innovazione e progresso. L’effetto congiunto di queste forze sta mutando profondamente il modo in cui le persone lavorano insieme e niente ha maggior forza dei mutamenti nell’interazione fra le persone, perché sono in grado di cambiare qualsiasi cosa. Almeno da quando l’Homo sapiens ha attraversato per la prima volta il Mar Rosso, circa 50.000 anni fa, gli esseri umani si sono specializzati nel raggiungere l’efficienza tramite la ripetizione. Pensate a uno studio legale o a una catena di montaggio o agli scopi che tradizionalmente assegniamo all’istruzione: fornire agli studenti un corpo di conoscenze che consenta loro di padroneggiare le regole della vita associata, di andare oltre e diventare vasai o banchieri. 130
Naturalmente nel mondo ci sono sempre stati dei cambiamenti, almeno da un punto di vista evoluzionistico. Ma il lavoro delle organizzazioni è sempre stato caratterizzato da una ripetizione sempre più specializzata: un gruppetto di persone che dice a tutti gli altri come ripetere le stesse azioni in modo sempre più efficiente e coordinato, in strutture che funzionano come un sistema nervoso centralizzato protetto da mura. Per quanto questo modello organizzativo sia ancora dominante, sta iniziando a dare segni di cedimento. La vita media delle 500 aziende statunitensi più ricche elencate da “Forbes” è sempre più breve, il che implica che il tasso di mortalità di questi giganti incapaci di reinventarsi sta aumentando. Ci stiamo muovendo a grande velocità verso un mondo in cui il continuo mutamento è la caratteristica principale, e il cambiamento è l’esatto opposto della ripetizione. Poiché le parti del sistema basate sulla ripetizione possono esistere solo in presenza di un meccanismo di rinforzo della ripetizione stessa, stiamo ora scivolando verso un mondo, egualmente coerente, in cui il cambiamento genera e promuove ulteriore cambia-
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mento. Quando un sistema si rinnova ha un effetto domino sui sistemi limitrofi, che a loro volta avranno un effetto domino su altri sistemi. Il valore aggiunto nel mondo attuale non deriva dal fornire ripetutamente lo stesso bene o lo stesso servizio allo stesso cliente, ma nel riuscire a gestire processi di cambiamento caleidoscopici che si rinforzano a vicenda. Poiché abbiamo bisogno di valutare e cogliere opportunità soggette a continua metamorfosi, i nuovi modelli organizzativi devono essere fluidi e incentrati su gruppi aperti costituiti da altri gruppi. Questo è precisamente ciò che si verifica in quelle oasi in cui il nuovo mondo sta già fiorendo, come ad esempio la Silicon Valley e Bangalore. Il fattore critico per il successo consiste sempre più nel determinare qual è la percentuale delle persone che lavorano per te che sono agenti di cambiamento e a che livello, e quanto sia buono il lavoro che stai facendo nel consentirgli di lavorare insieme in team fluidi. Una squadra non è una squadra propriamente detta a meno che ciascuno non sia in grado di impostare il gioco, e nel mondo in cui viviamo non possiamo permetterci di avere qualcuno in squadra che non sia un fantasista. Certo, la ripetizione esiste ancora (per quanto l’automazione, l’intelligenza artificiale e il World Wide Web ne stiano velocemente ridimensionando la portata); ma non ci si può più permettere di avere alle dipendenze qualcuno che non abbia l’attitudine a individuare e a sviluppare opportunità di evoluzione e perfezionamento, perché è in ciò che risiede ora ciò che ha valore di mercato. Un mondo del genere richiede un nuovo paradigma di crescita e, conseguentemente, di istruzione. Così come 50-100 anni fa la nostra società ha promosso una svolta epocale estirpando l’analfabetismo, allo stesso modo ora dovremmo insistere sul fatto che ogni persona acquisisca, prima dei 21 anni, le abilità sociali necessarie per diventare un efficace agente di cambiamento. Queste abilità fondamentali sono l’empatia, la capacità di lavorare in team, e un nuovo tipo di leadership – in cui si guidano gruppi di lavoro in cui ciascuno è potenzialmente un innovatore – e di capacità di promuovere e agevolare un costante rinnovamento (le iniziative di Ashoka per l’imprenditoria collaborativa globale, come “Every Child Must Master Empathy” e “Youth Venture”, sono incentrate precisamente sullo sviluppo di queste competenze). In un mondo che cambia continuamente
e in modo esponenziale, le regole hanno sempre meno importanza. Chiunque cerchi di fare il proprio dovere limitandosi a seguire diligentemente le norme finirà inevitabilmente, anche se non intenzionalmente, per danneggiare gli altri e i gruppi di cui fanno parte. Queste persone – e insieme a loro, con ogni probabilità, anche i loro team – finiranno per essere emarginati ed espulsi dal sistema. Questo è uno dei motivi per i quali l’empatia viene considerata attualmente una qualità così importante. Come fa un mondo del genere, in cui i tutti i sistemi di cui è composto sono in reciproco e centripeto mutamento, a rimanere su una strada affidabile, equa e benefica per tutte le parti in causa? Abbiamo bisogno di una forza potente che riporti costantemente la società sulla retta via. Questo è il motivo per il quale le imprese sociali sono così essenziali (e questo è il motivo per cui l’importanza di quest’ambito è lievitata in maniera esponenziale negli ultimi tre decenni). Poiché la sfida avviene a livello sistemico ha bisogno di imprenditori, perché questo è ciò che gli imprenditori fanno. Capita spesso, tuttavia, che imprenditori con obiettivi troppo ristretti (i propri interessi, quelli degli azionisti, o il perseguimento di scopi ideologici e religiosi) mettano il mondo sulla strada sbagliata. L’ambiente ne soffre e la privacy ne risente. Gli imprenditori sociali, a questo proposito, costituiscono una forza correttiva essenziale perché cambino le regole del gioco. E sono impegnati, e di conseguenza lo è il loro lavoro, nel promuovere il bene di tutti quanti. Quando il mondo ha bisogno di una sterzata verso la direzione migliore, sono loro che salgono alla ribalta per assicurarsi che ciò accada.
Dovremmo insistere sul fatto che ogni persona acquisisca le abilità sociali necessarie per diventare un efficace agente di cambiamento: empatia, capacità di lavorare in team e un nuovo tipo di leadership Articolo originale pubblicato su “Stanford Social Innovation Review”, primavera 2013
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Finanza sostenibile per l’uomo articolo di Luca Testoni Direttore di ETIcaNews.it
Fondi etici e social impact bond: le nuove forme di investimento testimoniano che la finanza sta intraprendendo la strada della sostenibilitĂ . Gli investimenti SRI, infatti, consentono di essere coerenti con principi etici e di avere un ritorno non inferiore ad altri. E potrebbero dare un volto nuovo alla finanza.
Mentre ancora pochi anni fa la finanza etica si dileggiava come qualcosa “che si fa in chiesa” oggi quell’etica sta bussando prepotentemente alla porta del mondo finanziario. C’è voglia di investimenti etici; il problema è comprendere cosa siano, come gestirli, come costruirli, come comunicarli e come renderli accessibili. Occorre quindi rispolverare il ruolo originario delle banche: essere il trait d’union tra un’offerta di risorse altrimenti immobilizzate e una domanda di risorse con capacità di sviluppo. La tesi di quest’analisi è che la finanza abbia oggi necessità di filantropia, intesa quale “amore per l’uomo”, ossia di rimettere al centro del proprio operato l’obiettivo di una crescita sociale. E non si tratta di un approccio moralistico-valoriale, ma di possibilità di sopravvivenza e opportunità di business. Si pensi alla crisi dell’Unione monetaria europea, le cui gravi “dimenticanze” in termini di squilibri reali, rimasti in palese secondo piano rispetto agli obiettivi monetaristici, sono ben descritte nel recente saggio di Luca Fantacci e Andrea Papetti Il debito dell’Europa con se stessa. Analisi e riforma della governance europea di fronte alla crisi. Ma la finanza “filantropica” rappresenta una chiave di sopravvivenza e di business ancor prima a livello micro, appunto, di investimenti etici. Il termine investimento etico ha la vastità di una categoria aristotelica. Con un’estrema semplificazione utile ai fini dell’analisi, si può qui tracciare una distinzione tra investimento puramente finanziario e investimento diretto a impatto sociale. Il primo può essere riconoscibile nell’universo dei fondi etici, ovvero quei prodotti confezionati
dalle Sgr (società gestione del risparmio, abitualmente rientranti nell’orbita di gruppi bancari) di cui è possibile comprare quote. Questi fondi a loro volta investono in altri titoli (azioni o obbligazioni) di emittenti che soddisfano una serie di requisiti “responsabili” o “sostenibili” (da qui il termine finanza SRI, socially responsible investment). L’investimento Sri va oltre quello in fondi etici. Le stesse azioni o obbligazioni responsabili possono essere oggetto di acquisto diretto da parte di individui o altre entità. Ha fatto scalpore il dato, presentato a novembre 2012 da Eurosif in collaborazione con Bank Sarasin, secondo cui, rispetto a due anni prima, gli investimenti sostenibili degli Hnwi (high net worth individual, ossia individui con ampi patrimoni) sono aumentati del 60%, arrivando a numeri impressionanti: il denaro impiegato in asset sostenibili ha raggiunto quota 1150 miliardi di euro. È evidente che in questo “tesoro” c’è un concetto allargato di investimento sostenibile, ma è altresì evidente che queste cifre indichino una volontà diffusa di scommettere sulla sostenibilità. La Finanza Sri, infatti, comincia a essere una categoria di allocazione finanziaria che può consentire di essere coerenti con principi di sostenibilità e che in più sembra garantire un ritorno non inferiore ad altre allocazioni non vincolate alla responsabilità. Tuttavia, il problema della finanza SRI è quello di non essere ancora divenuta un fenomeno di costume, non almeno quanto i costumi sociali sembrerebbero suggerire. «L’obiettivo da raggiungere per le imprese – scrive nel suo recente Che cos’è il 135
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futuro il sociologo Francesco Morace – resta quello del profitto, da realizzare, però, puntando sull’interesse collettivo e non più su quello individuale, applicando le regole del capitalismo cooperativo, conciliando profitto e valori socio-ambientali, permettendo una ridistribuzione della ricchezza creata, immaginando nuovi modelli di business che accompagnino i nuovi modelli fruitivi che le persone stanno spontaneamente mettendo a punto». Si prenda l’esempio Italia. Con una semplice ricerca nei database specializzati nei fondi, il suffisso “etico” porta al risultato di una ventina di fondi comuni (gestiti da Etica sgr, Eurizon, Pioneer, Sella Gestioni sgr, Raiffeisen, Ubi Pramerica) e sette fondi pensione. È uno sparuto drappello. Allargando però la ricerca tra gli Oicr (Organismi di investimento collettivo del risparmio) legati al termine “sostenibilità” – termine non uniformato da alcuna istituzione – si giunge a ben 107 fondi comuni e una decina di Etf targati iShares. Ebbene, questa non è la rappresentazione di un modello ma del caos. La seconda tipologia di investimento etico, quella di impiego diretto a impatto sociale, è un universo anche più variegato del precedente. Si può definire come l’investimento a sostegno di attività, imprese, iniziative che affianchino l’obiettivo di un rendimento sociale a quello di un rendimento economico. È l’ambito dell’impact investing. J.p. Morgan, con un’analisi che nel 136
finanza sostenibile per l’uomo |
2010 fece un certo scalpore, calcolava che questo genere di investimenti a impatto sociale sarebbero arrivati nel medio periodo a un valore di un triliardo di dollari (mille miliardi di dollari). Tecnicamente, uno degli strumenti che oggi ben rappresenta questo genere di iniziativa è il social impact bond di matrice anglosassone, ossia obbligazioni il cui rendimento per i sottoscrittori è legato ai risultati sociali raggiunti con l’impiego del denaro raccolto (per esempio, al grado di riduzione del disagio giovanile, ai miglioramenti clinici per talune categorie di malati, al reinserimento di ex detenuti, alle mutate condizioni di traffico). Ma gli ambiti dell’impact investing sono assai più vasti dei social bond. In Italia, per esempio, il precursore di investimenti con impatto sociale è il fondo Oltre Venture il quale ha già registrato importanti successi nel microcredito con Permicro e nel social housing. In questi casi, non ci sono rendimenti vincolati in via diretta ai risultati sociali, ma è evidente come sia l’attività sociale a consentire anche un rendimento finanziario. È interessante evidenziare che altri due soggetti italiani di impact sono nati nell’ultimo anno: Uman Foundation e Opes Fund. L’impact investing conduce al concetto ancora più vasto delle imprese sociali: vere e proprie attività imprenditoriali la cui mission è quella di agire in ambiti che garantiscono, oltre alla sostenibilità economica, un concreto ritorno sociale. In Italia c’è una legge che ne indica il perimetro di attività (la 155 del 2006), tra i cui paletti c’è anche quello della non distribuzione degli utili. Nella realtà, il social business comincia a essere un concetto che travalica la dicotomia tra profit e non-profit: si pensi che, per superare questa contrapposizione, in luglio, il New York Times è sceso in campo aprendo un dibattito con i lettori. Del resto, negli Usa è nata una nuova tipologia di impresa, la Certified Benefit Corporation, regolata dalla legge come società di lucro, ma vincolata a precisi impegni statutari a valenza collettiva. Anche l’Italia, dal 2012, ha la sua prima B Corp., Nativa. Ebbene, questo mondo dell’impresa sociale, secondo alcuni è la migliore rappresentazione del modello economico del futuro. L’Italia può contare su una struttura imprenditoriale, su uno spirito territoriale, su un dna sociale che già compone storicamente un’idea di social business. Emergono piccole aziende (si veda la mission di aziende come Equilibrium, D-Orbit e Near) e operatori finanziari che stanno giocando con coraggio (oltre al citato Oltre Venture, si pensi alla scommessa di Main Street Partners, costituita dai giovani ex banker italiani di Goldman Sachs con l’obiettivo di favorire «la combinazione di rendimenti finanziari con un positivo impatto sulla società e sull’ambiente»). Eppure, un grande patrimonio rimane ancora nascosto: secondo Iris Network (la rete nazionale degli Istituti di Ricerca sull’Impresa Sociale), l’Italia ha un bacino unico in termini di opportunità di investimento a impatto, potendo contare su circa 100.000 imprese
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sociali nascoste, ossia realtà con un business e una mission che le rende socialmente utili. Su questo fronte, dov’è la finanza? È evidente che, per sfruttare queste opportunità, il sistema finanziario debba reimpostarsi nella direzione, come dice l’economista Stefano Zamagni di un modello in cui «la creazione di valore torni oggi – come già era accaduto all’epoca dell’umanesimo civile – ad aver bisogno di persone, di relazioni, di significati. Nella stagione attuale si produce valore generando senso, con azioni che, non separando valore economico e valore sociale, costituiscono legami». È attraverso questa iniezione di filantropia che sarà possibile creare un sistema integrato che consenta alla finanza di accedere e condividere la ricchezza dell’investimento etico. In tal modo, anche l’investimento SRI, oggi somigliante al caos, diverrà una leva per sfruttare l’enorme sviluppo che il nuovo modello socio-economico potrebbe offrire a una nuova finanza.
Occorre rispolverare il ruolo originario delle banche: essere il trait d’union tra un’offerta di risorse altrimenti immobilizzate e una domanda di risorse con capacità di sviluppo
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Le lampade verdi delle Solar Sister articolo di Stefano Milano progetto fotografico di White
Donne che vendono, nei villaggi spesso privi di elettricità, lampade solari ad altre donne, per creare luce e far girare l’economia. È Solar Sister, organizzazione nata in Uganda che, su modello del microcredito, ha creato una rete imprenditoriale tutta al femminile, generando emancipazione, istruzione, indipendenza economica ed energia pulita.
Da quando il concetto di microcredito si è attestato e ha fatto scuola, prima in India e poi in altri Paesi in via di sviluppo, al centro di molti interventi economici viene messa proprio la possibilità di accedere a piccole somme di denaro in prestito grazie alle quali è possibile rivoluzionare la propria vita. Un concetto simile è anche alla base di Solar Sister, un’organizzazione nata in Uganda sulla semplice idea che risponde al nome di MicroConsignment... un po’ il modello Avon (tanto per capirci), in cui le piccole imprenditrici consociate vendono lampade solari ad altre donne del villaggio: si tratta di un vero e proprio lavoro imprenditoriale, autonomo e che permette alle donne di decidere il tempo da dedicare all’impresa. Ogni membro delle Solar Sister riceve le lampade, un kit completo di istruzioni sul prodotto, la vendita e il marketing, e un supporto imprenditoriale e logistico. Ciò che caratterizza Solar Sister è che i destinatari di questa impresa sono le donne, soprattutto quelle provenienti da piccoli villaggi e che quindi rappresentano un motore eco-
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nomico spesso sottovalutato o decisamente non preso in considerazione. Ma, oltre a ciò, è rivoluzionaria anche l’attenzione rivolta alla luce e all’energia attraverso lampade solari “verdi”. Sì, perché dal momento che è molto difficile avere elettricità in molte zone dell’Africa Subsahariana (si calcola che oltre il 70% della popolazione viva senza elettricità), ecco che una semplice lampada può aprire un mondo di possibilità. Il motto delle Solar Sister è “Light, hope, opportunity” (luce, speranza, opportunità), perché una lampada solare significa molte cose, come per esempio potere finalmente abbandonare l’illuminazione con candele o cherosene, che sono tra le maggiori cause di incidenti domestici. Inoltre, una lampada solare in Africa ha ottime prestazioni ed è in grado di durare molti anni e, di conseguenza, si dimostra un oggetto utile per accompagnare la vita di molte donne che in questo modo la sera possono lavorare o, meglio ancora, studiare. Oppure possono suddividere la propria giornata in maniera più consona ed
Micro Consignment × Un modello che le piccole imprenditrici consociate seguono, vendendo lampade solari ad altre donne del villaggio: un vero e proprio lavoro imprenditoriale, autonomo e che permette di decidere quanto dedicare all’impresa.
efficace, tenendo conto delle proprie attività e di quelle dei figli che, nella stragrande maggioranza dei casi, sono proprio loro a dover sostenere e supportare. Ecco allora che la luce assume significati importanti e può davvero cambiare la vita di molti attraverso la possibilità di riunirsi, di creare aggregazione sociale, di fare politica e di fare impresa. Le Solar Sister vendono lampade che si autoalimentano, che possono durare più di dieci anni e che costano 20 dollari, una cifra consistente nell’economia di un villaggio, ma comunque facilmente ammortizzabile nel tempo. Anzi, con il risparmio molte famiglie hanno potuto ricevere cure mediche migliori, partorire in centri di assistenza o mandare i propri figli a scuola. L’idea è venuta a Katherine Lucey, ex dipendente di banca a New York ed esperta in campo energetico, che ha deciso di occuparsi del problema della povertà nei Paesi in via di sviluppo, con particolare attenzione al mondo femminile. Partito come progetto ridotto in un piccolo villaggio dell’Uganda, Solar Sister oggi è presente in tre Paesi africani e conta 401 imprenditrici associate, che si stima abbiano raggiunto con le loro lampade ben 53.995 persone. Per questi motivi, oltre che per il fatto di sviluppare la cultura della sostenibilità, Solar Sister ha avuto in questi anni vari riconoscimenti, tra cui quello di essere selezionato dalle United Nations Framework Convention on Climate Change (UNFCCC) come uno dei Momentum for Change Lighthouse Activities per il 2012. Solar Sister rappresenta davvero un modello interessante che evidenzia un aspetto spesso sottovalutato: una tecnologia semplice (come quella di una lampada solare), se usata in maniera efficace e intelligente, può innescare meccanismi di trasformazione e miglioramento economico, partendo da piccole cose come la quotidianità dei villaggi, il lavoro delle donne, l’importanza dell’istruzione, il microcredito e la microimpresa.
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intervista
Quel premio che viene dallo spazio Intervista a Gregg Maryniak Co-fondatore di XPrize
di Daniela Mecenate
Viaggi spaziali a basso costo per tutti, auto ecocompatibili, telefoni che sono medici tascabili… Tanti progetti e un unico obiettivo: spingere sul pedale dell’innovazione fino a superare i limiti dell’impossibile. È ciò a cui puntano i fondatori di XPrize, organizzazione non profit americana nata da un sogno spaziale. Che attribuisce premi importanti a chi dimostra di saper cambiare il mondo.
Maryniak
Gli esseri umani sono incredibilmente bravi a innovare, e sanno fare anche un’altra cosa: socializzare, confrontarsi con l’altro
Una grande passione: l’esplorazione del cosmo. E una certezza: l’uomo può farcela. Questa è la convinzione che ha spinto un gruppo di manager e studiosi americani (ma soprattutto appassionati di “sfide impossibili”) a istituire un ricco premio in denaro per chi utilizza meglio e prima degli altri l’arma più preziosa per il genere umano: l’ingegno, la sete di nuove scoperte. Non è esattamente charity, quindi, e nemmeno pura “filantropia”, quella che ha spinto Peter Diamandis e Gregg Maryniak a dare vita alla Fondazione XPrize, un’organizzazione non profit che ha l’obiettivo di incentivare scoperte innovative: la loro è stata forse soprattutto…curiosità. Fin dove può arrivare il talento umano, se stimolato con un buon incentivo e se messo in competizione con altri talenti? Fin dove è in grado di innovare, guardando a sfide all’apparenza impossibili? Così sono nati i tanti concorsi XPrize, dedicati a privati cittadini o a organizzazioni non governative che volessero misurarsi con obiettivi per molti irraggiungibili. Il più famoso, figlio della grande pas-
sione dei fondadori per gli studi spaziali, è l’Ansari XPrize, la famosa competizione tra diverse squadre per la creazione di un veicolo spaziale privato: il premo, di 10 milioni di dollari, è stato assegnato nel 2004 ad una organizzazione non governativa che è stata in grado di lanciare due volte nell’arco di quindici giorni un veicolo spaziale riutilizzabile – e quindi a basso costo – con equipaggio umano. E entro il 2015 sarà assegnato il Google Lunar XPrize, una competizione fra privati – sponsorizzata da Google – per mandare un robot sulla Luna. Non solo esplorazioni spaziali, però: XPrize, col tempo, ha rivolto la sua attenzione anche ad altri grandi obiettivi, dal genoma umano ai dispositivi medici portatili, dalla pulizia degli oceani alle automobili ecocompatibili. A spiegarci tutto è Gregg Maryniak, uno dei fondatori di questa organizzazione nata nel 1995 e cresciuta con due grandi parole d’ordine: innovazione e competizione. Un leit motiv molto Made in USA per un progetto di respiro planetario. 141
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Com’è nata la vostra Fondazione? Qual è la “filosofia” che vi ha spinto a darle vita? Dare accesso all’umanità al materiale e alle risorse energetiche virtualmente illimitate che circondano la nostra Terra: in questo io e Peter Diamandis siamo stati impegnati a lungo con varie imprese che si occupano di queste sfide. Ma abbiamo notato ogni volta che molti “sforzi” privati, decisamente promettenti, erano vanificati dalla convinzione quasi universale che solo i governi, e solo i governi più ricchi, siano in grado di inviare le persone nello spazio o di portare avanti attività di ricerca in questo ambito. Abbiamo deciso di cambiare questa convinzione dando una dimostrazione che tutti possono fare qualcosa di grande, e lo abbiamo fatto attraverso un premio per i primi voli umani nello spazio creati e organizzati da privati cittadini. Tutto è partito da lì. Veicoli spaziali, genoma umano, auto ecologiche... I campi di interesse dei vostri progetti oggi sono diversi tra loro, ma due elementi li distinguono tutti: l’innovazione e la concorrenza. Perché questa scelta? Tutti i nostri premi hanno un obiettivo: ispirare le persone ad affrontare grandi sfide considerate impossibili. Gli esseri umani sono incredibilmente bravi a innovare, e sanno fare anche un’altra cosa: socializzare, confrontarsi con l’altro. Impariamo e siamo motivati a guardare l’altro: in questo modo comunichiamo. I nostri concorsi offrono un canale molto potente per questo tipo di comunicazione. I concorrenti imparano dalle altre squadre e sono fortemente motivati dalla competizione. Paradossalmente, abbiamo anche notato una grande cooperazione all’interno dei nostri concorsi tra squadre che si aiutano quando il gioco si fa duro. Chiunque abbia mai seguito le Olimpiadi o qualsiasi competizione sportiva può sentire l’energia di chi si sfida e capire il modo in cui è proprio la competizione a incoraggiare verso le imprese più difficili, quelle che altrimenti non si sarebbero tentate. Secondo alcuni osservatori, ogni dollaro investito nella filantropia è potenzialmente in grado di generarne 12 in termini di crescita economica. Pensa che sia realistico? Quali sono i possibili benefici economici e sociali per la comunità? Noi pensiamo che il beneficio economico generato da quella che noi chiamiamo “filantropia efficace” sia in realtà molto superiore. Il concetto di “filantropia efficace” non è nuovo. Tutti hanno sentito il vecchio detto: “Dai a un uomo un pesce e lo nutrirai per un giorno, insegnagli a pescare e lo nutrirai per tutta la vita”. I concorsi a premi ben congegnati hanno dimostrato negli Stati Uniti la capacità di creare interi nuovi settori che hanno il valore di miliardi di dollari a fronte di un premio iniziale di 10 milioni di dollari. Ma vi è un beneficio ancora maggiore per la società, rispetto a quello economico. Questo ulteriore vantaggio 142
riguarda il tempo. Il tempo è l’unica vera materia prima scarsa in tutte le nostre vite: incoraggiando massicciamente la ricerca in parallelo alla sperimentazione, un XPrize può far sì che si ottengano risultati impensabili in tempi molto ristretti. La Fondazione nasce nel 1995, in una fase di espansione economica. In questi ultimi anni di crisi com’è cambiata la propensione a partecipare alle vostre iniziative e progetti? I donatori privati hanno sempre cercato di ottenere il massimo risultato con i loro contributi, e anche i governi cercano il massimo beneficio dai loro investimenti di fondi pubblici. Ebbene, in tempi di crisi economica questa ricerca di “produttività” degli investimenti benefici è ancora più importante. Abbiamo scoperto che le organizzazioni private e i governi sono ora ancora più attenti alla potente leva finanziaria che un XPrize fornisce perché cercano di fare di più con meno risorse. Un buon esempio di questo è il premio di incentivazione con cui XPrize aiuta la NASA. Basandosi proprio su una ricerca che abbiamo condotto nel 2003 per la NASA, l’agenzia spaziale ha sviluppato e lanciato il programma Centennial Challenges, che ha contribuito a generare innovazione in molti campi. Quali sono i risultati concreti conseguiti fino ad ora e quali sono i prossimi progetti su cui state puntando la vostra attenzione? I progetti passati e quelli futuri sono molti. Tra i primi, c’è l’avvio della rivoluzione dei viaggi spaziali privati (l’Ansari XPrize) e la riutilizzabilità dei sistemi di decollo e atterraggio dei razzi verticali, che consente anche un grande risparmio economico. Un altro risultato è stato quello di aver dimostrato la fattibilità delle auto ultra efficienti e di aver studiato sistemi per pulire gli oceani dalle perdite di petrolio in modo tre volte più efficiente. Attualmente stiamo cercando, attraverso i nostri concorsi, di ampliare la sfera di esplorazione dello spazio grazie all’iniziativa di privati, soprattutto l’esplorazione lunare (il Google Lunar XPrize) e stiamo cercando di ottenere risultati anche nella fornitura di servizi medici attraverso gli
smartphone. Gli sforzi futuri sono rivolti soprattutto all’ambiente e potrebbero includere lo sviluppo di nuovi sistemi di stoccaggio dell’energia in modo da poter sfruttare molto meglio di ora l’abbondante flusso di energia del Sole, la riduzione drastica dei costi di monitoraggio della salute degli oceani del mondo, il metodo per trarre vantaggi dall’anidride carbonica, ad oggi considerata solamente un inquinante. Insomma, molti progetti, quelli di XPrize, e un solo obiettivo: incoraggiare gli innovatori di ogni età per cambiare davvero il mondo.
Abbiamo scoperto che le organizzazioni private e i governi sono ora ancora più attenti alla potente leva finanziaria che un XPrize fornisce perché cercano di fare di più con meno risorse
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contesti
Il ricercatore cerca fondi articolo di Daniela Ovadia
Non esiste una sola tipologia di finanziamenti e un ricercatore non può affidarsi solo a quelli provenienti dall’università, a quelli delle imprese private o a quelli statali. Ma dal tipo di finanziamento ricevuto dipende la qualità della sua ricerca? Lo racconta chi ogni giorno, per poter innovare o fare scoperte importanti incontra nella sua strada di scienziato burocrazia, bandi, grant, strutture filantropiche. Secondo una stima dell’Organization for Economic Co-operation and Development (OCDE), circa due terzi dei fondi disponibili nel mondo per progetti di ricerca e sviluppo provengono dall’industria, il 20% dall’università (laddove è indipendente dai fondi governativi) e solo il 10% dai governi. Più il Paese è economicamente debole (per esempio, in Europa, il Portogallo e la Grecia), minore è la quota privata e maggiore il sussidio pubblico alla scienza, sia di base sia applicata. Una piccola quota dei fondi definiti privati proviene in realtà da charities o altre entità che raccolgono denaro direttamente dalla popolazione o da mecenati, anche se questa parte del finanziamento alla scienza può crescere e diventare maggioritaria in settori di nicchia in cui vi è una presenza forte e riconoscibile di un finanziatore, come è il caso della ricerca sul cancro (ambito nel quale sono attive grandi associazioni in quasi tutti i Paesi europei) oppure di quella sulle malattie rare, dove Telethon è diventato, di fatto, una sorta di monopolista. Cosa cambia nella vita di un ricercatore in base alla provenienza dei suoi fondi per la ricerca? Può cambiare moltissimo: dalle modalità per ottenere finanziamenti alla maniera di rendicontarli fino agli obiettivi del grant. «Oramai non esistono ricercatori, se non 144
in alcuni casi molto particolari, che possono affidarsi a una sola tipologia di finanziamenti» spiega Pier Paolo Di Fiore, oncologo molecolare che ha diretto, nei primi anni di attività e di avvio, l’Istituto FIRC di Oncologia Molecolare di Milano, una delle poche strutture di ricerca italiane create direttamente da una charity. «Anche quando, come nel caso di IFOM, il finanziamento di base proviene da un privato non profit, i singoli ricercatori partecipano a bandi pubblici, bandi europei o lavorano insieme all’industria per lo sviluppo di una loro scoperta. Questo richiede una buona competenza nella messa a punto dei progetti da presentare e nella gestione dei fondi». Le pratiche amministrative e di rendicontazione dei soldi ricevuti sono infatti la bestia nera dei capi progetto in tutta Europa. Solo nei Paesi più ricchi e organizzati lo scienziato può contare su figure professionali che si occupano dell’amministrazione: in tutti gli altri, il lavoro di ragioneria è parte dei compiti del ricercatore e assorbe un numero di ore lavorative consistente. «Uniformare gli aspetti burocratici dei grant sarebbe un bene per la scienza» conferma Di Fiore. «Attualmente ciascuna fonte di finanziamento stabilisce le proprie norme e i propri limiti». Che siano pubbliche o private, tutte le ri-
chieste di grant vengono oramai sottoposte al vaglio di comitati di referee che ne valutano l’innovatività e la possibilità di riuscita. E per evitare conflitti di interesse, alcuni governi, come quello italiano, hanno appaltato all’estero il processo di revisione. Nell’area biologico-sanitaria, per esempio, sono i National Institutes of Health statunitensi a costituire il gold standard della valutazione ed è a essi che molti Paesi si affidano. Alcuni privati, invece, come le fondazioni non profit (dal Wellcome Trust britannico, a Cancer Research UK, fino a Telethon e AIRC in Italia) hanno deciso di affidarsi a un proprio sistema di referaggio interno, spesso mutuato, nella forma e negli scopi, da quello pubblico. «Nel corso degli anni, man mano che la quantità di fondi erogati aumentava, anche i sistemi di valutazione degli enti privati sono diventati molto efficaci e selettivi» spiega Adrian Bird, uno dei membri del comitato direttivo di Cancer Research UK, genetista, per molti anni direttore del Centro di biologia cellulare finanziato dal Wellcome Trust presso l’Università di Edimburgo. Che cosa cambia, quindi, per un ricercatore, in base all’origine dei suoi finanziamenti? Non esiste una risposta univoca, valida per tutta l’Europa. Molto dipende 145
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dall’organizzazione del singolo Paese e dall’affidabilità sia delle strutture private sia di quelle pubbliche. In Italia e Portogallo (dove è attiva la Gulbenkian Foundation, uno degli enti più generosi a livello continentale), per esempio, i bandi pubblici hanno tempi di erogazione non prevedibili e, soprattutto, non è detto che l’intera somma messa a bando venga poi effettivamente erogata. Cambiamenti nel bilancio statale, tagli orizzontali, cofinanziamenti da parte di enti locali previsti sulla carta ma mai disponibili sono alcuni dei problemi che affliggono il finanziamento pubblico. Persino i fondi previsti dai bandi della Comunità europea possono essere decurtati della quota di finanziamento nazionale o locale, che viene trasformata da denaro contante (di cui il ricercatore ha disperato bisogno per acquistare il materiale di ricerca e, soprattutto, per pagare borse e stipendi) a contributo virtuale sotto forma di erogazione di servizi e beni. E, in caso di crisi, lo Stato può decidere di riappropriarsi di parte del denaro (indipendentemente dalla fonte di provenienza) attraverso il cosiddetto overhead, la quota di fondi che le strutture trattengono su qualsiasi finanziamento alla ricerca per l’assistenza amministrativa data ai ricercatori e l’uso delle strutture. Ha fatto discutere, alla fine del 2012, la decisione del Consiglio Nazionale delle Ricerche italiane di aumentare la trattenuta dal 10 al 15% (come peraltro già accade i altri Paesi europei), anche su progetti già finanziati. Ciò significa che lo scienziato si è visto ridurre all’improvviso del 5% la quota di denaro disponibile e, poiché alcuni enti non profit non prevedono la possibilità di aumentare la quota a favore della struttura, alcuni scienziati hanno rischiato di perdere in toto finanziamenti anche cospicui. Meglio il privato, dunque? Non proprio: talvolta il finanziamento pubblico è l’unico che permette di fare ricerca in settori molto teorici, su tematiche di base o di scarsa applicazione pratica immediata. E, in generale, il pubblico si prende maggiori rischi rispetto al privato o al non profit. I National Institutes of Health statunitensi hanno lanciato per primi il modello del “grant rischioso”: bandi per finanziare idee potenzialmente rivoluzionarie ma anche talmente innovative da rischiare il flop. «Anche noi, dopo aver visto i risultati dei bandi pubblici degli NIH, abbiamo deciso di investire in un programma simile» spiega Margareth Foti, chief executive officer dell’American Association for Cancer Research. «D’altronde uno dei problemi delle 146
charities è quello di dover dare ai propri finanziatori risultati concreti e subito utili per ottenere nuovi contributi. Ma la scienza non può innovarsi davvero se non punta anche su progetti visionari». Industria e charities, quindi, impongono la loro agenda agli scienziati, mentre il finanziamento pubblico risponde (o almeno dovrebbe) a un bisogno di conoscenze non necessariamente finalizzate a uno scopo pratico. Molti biologi, per esempio, ritengono che gli investimenti in oncologia siano eccessivi rispetto al totale degli investimenti per la ricerca biologica in generale, ma la quota di denaro disponibile è determinata dai bisogni della popolazione, che vuole soluzioni per una malattia che affligge tutti. Viceversa progetti come l’acceleratore di particelle del CNR di Ginevra e l’identificazione del bosone di Higgs, sebbene cofinanziati ampiamente dall’industria, interessata alle innovazioni tecnologiche legate al
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progetto, vive essenzialmente del contributo pubblico. «Dopo anni di lavoro presso un centro di ricerca londinese interamente finanziato da Cancer Research UK, mi sono trasferito recentemente in Italia presso IFOM, che è una struttura simile per natura» spiega Vincenzo Costanzo, un biologo che studia i meccanismi di duplicazione cellulare. «Credo che più che la fonte del denaro, conti la modalità di gestione dell’ente dove si fa ricerca. Le istituzioni gestite dalle charities possono godere di una certa libertà nello scegliere i ricercatori da assumere, hanno sistemi di audit interno molto stringenti che consentono di chiudere laboratori inefficienti e, soprattutto, garantiscono, in alcuni Paesi, retribuzioni più elevate di quelle disponibili nei centri pubblici. Vi si respira quindi un’atmosfera internazionale: i progetti di ricerca sono fortemente incentrati sulla ricerca di base ma senza mai perdere di vista l’obiettivo finale, che nel nostro caso è la cura del cancro».
Talvolta il finanziamento pubblico è l’unico che permette di fare ricerca in settori molto teorici, su tematiche di base o di scarsa applicazione pratica immediata 147
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Brailleberry ( Brailleberry ) articolo di Elisa Barberis
Cosa potrebbe cambiare uno smartphone che usasse il braille nella vita dei non vedenti? Quale rivoluzione sarebbe in un Paese come l’India e per il suo inventore Sumit Dagar? Un’invenzione, una storia e quello che le iniziative di filantropia possono fare.
Immaginate un cellulare creato su misura per le persone con disabilità visiva. Un dispositivo che, a livello più elementare, possa essere utilizzato come traduttore per convertire un testo in braille, ma che offra anche gli strumenti di un qualsiasi smartphone. Compreso uno schermo touch screen con una sorta di memoria tattile, che consenta di “vedere” immagini e informazioni. Un’utopia tecnologica in cui il designer indiano Sumit Dagar, 29 anni, ha investito tutto: lavoro, tempo e risparmi. Il suo è uno dei cinque progetti per i quali la casa svizzera di orologi di lusso Rolex ha deciso di devolvere 40.000 euro: un primo aiuto per trasformare il rudimentale prototipo in realtà. È solo l’inizio di un progetto che ha attirato l’attenzione della conferenza TED (Technology Entertainment Design) – che si propone di diffondere le idee di una comunità di pensatori influenti e famosi, da Bill Clinton all’astrofisico Stephen Hawking, al fondatore di Google Larry Page –, ma che finora non era ancora riuscito a trovare finanziamenti. Anche se potrebbe rappresentare una svolta nella vita degli oltre 285 milioni di persone tagliate fuori dal progresso tecnologico perché non vedenti. Di queste, il 22% vive in India, la quasi totalità nelle aree rurali. L’idea di Dagar è nata proprio durante un viaggio nelle comunità più povere: per questo il suo brailleberry, sviluppato in collaborazione
con l’Indian Institute of Technology di Delhi, dovrà avere un prezzo contenuto, non più di 8000 rupie (circa 110 euro). «Se è vero che i progressi scientifici – racconta Sumit – stanno dando a tutti dei “superpoteri”, dall’altro lato la tecnologia rende i ciechi ancora più disabili e isolati, invece di essere al servizio della società e adattarsi al contesto e alle persone». Ma in tempi di crisi ogni giorno che passa vede assottigliarsi i fondi destinati alla ricerca. Avere però a disposizione poche risorse costringe a trovare soluzioni alternative e, a fianco dei tradizionali investitori, va rafforzandosi la rete delle donazioni. Non solo quelle dei magnate dediti alla filantropia: soprattutto quelle sul web, attraverso il crowdfunding che permette a chiunque di contribuire con pochi euro al bilancio di un progetto che manca di altri finanziamenti. Secondo le stime della società d’analisi Massolution, nel 2012 il giro d’affari ha raggiunto i 3 miliardi di dollari nel mondo. Ma se sulla piattaforma più conosciuta, Kickstarter, la maggior parte dei progetti sono di natura artistica, quelli scientifici faticano ancora a trovare spazio. Dai dispositivi mobile per pagamenti più sicuri con carte di credito all’applicazione per smartphone per lo screening del cancro alla pelle, dalle webcam collegate al satellite per monitorare ogni punto della Terra alle “case intelligenti” per i terremotati di Haiti
minacciati dalla malaria, sono solo alcuni dei progetti in cerca di sostegno. Lo hanno trovato in siti come FundaGeek, TechMoola e #SciFund, nati per aiutare inventori e visionari a dare vita alle proprie idee. E il loro successo – ancora piccolo, ma che fa ben sperare – dimostra un’inversione di tendenza. Al punto che secondo Solomon Nabatiyan, fondatore di TechMoola, il crowdfunding «rappresenta un’alternativa che offre maggiori opportunità rispetto al tradizionale venture capital, più oneroso e orientato a breve termine». Le collette telematiche, spiega, «danno invece la possibilità di attivare un processo di innovazione duratura, sfuggendo alla mentalità del “guadagnare molto e presto”, tipica della cultura d’impresa americana». Una mentalità ormai superata, che sta cercando di scardinare anche il presidente degli Stati Uniti Barack Obama. Nell’aprile 2012 ha ratificato il Jobs Act (Jumpstart Our Business Startups), una serie di leggi con l’obiettivo di migliorare l’accesso al capitale, in particolare nelle fasi iniziali del ciclo di vita dell’aziende. La principale novità è proprio la possibilità – se non si ha l’appoggio di venture capitalist professionisti – di fare fundraising (anche su internet) raccogliendo fino a un milione di dollari in un anno da un numero illimitato di piccoli investitori. Una vera rivoluzione industriale.
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la scienza dal giocattolaio
Slinky, la molla per tutte le tasche articolo di Davide Coero Borga progetto fotografico di White
Nel 1945 l’ingegnere navale Richard James vende i primi 400 esemplari della molla Slinky, uno dei giocattoli più venduti di sempre e anche un esempio di gioco accessibile a tutti, grazie al costo contenuto mantenuto durante gli oltre sessant’anni della sua storia. Un oggetto democratico che viene anche utilizzato per lo studio delle onde.
Philadelphia, 1943. Richard James, ingegnere navale, è chiuso in laboratorio da settimane. I suoi neuroni lavorano sodo per trovare una soluzione alla difficile (se non impossibile) stabilizzazione della strumentazione navale in condizioni di mare mosso. Sta sviluppando un sistema a molle buono per ammorbidire i colpi secchi ricevuti dallo scafo durante una tempesta. La scrivania è un campo di battaglia: fogli, progetti e prototipi dappertutto. Con il gomito urta accidentalmente una delle decine di molle che lo osservano in religioso silenzio dagli scaffali. La molla cade su un ripiano, si riavvolge e si svolge rimbalzando su un bicchiere, una pila di libri, il tavolo, per finire la sua corsa sul pavimento dove si raccoglie su se stessa, completamente, ferma sulla verticale. Nasce Slinky, la molla elegante che fa le scale. Dimentico di strumenti, tempeste, flutti e prospettive dell’ingegneria navale, James esce di corsa dal laboratorio. Misura correndo i metri che lo separano da casa. Spalanca la porta dell’appartamento – o almeno è così che ci piace immaginarlo – e mostra
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orgoglioso la molla alla moglie Betty. Le dice: «Con un acciaio dalle proprietà perfette, potrei persino farla camminare». James ci riesce in meno di un anno, con metodo scientifico e folgorazione giocattolaia dà vita a un’icona del divertimento. Con un prestito di 500 dollari si lancia nell’auto-imprenditoria e nel novembre 1945 apre al pubblico il suo piccolo magazzino: le 400 molle di acciaio svedese nero e blu che ha in stock vanno via come il pane, in meno di due ore. È un successo. Se ne convince anche Betty che, sulle prime, deve aver creduto il marito matto come un cavallo. Nasce la James Industries, azienda famigliare di giocattoli con la molla: arrivano anche Slinky Worm, Suzie e il mitico Slinky Dog, il bassotto col busto a molla che molti ricorderanno per la sua celebre interpretazione in Toy Story - Il mondo dei giocattoli e Toy Story 2 - Woody e Buzz alla riscossa. Dove, nell’ordine: recupera il misteriosamente scomparso cappello di Woody; aiuta Buzz Lightyear e un piccolo plotone di giocattoli a evadere dalla stanza di Andy trasformando la molla in un rudimentale ma efficacissi-
mo bungee jumping; attraversa il centro cittadino travestito da cono da cantiere causando un incidente che coinvolge una decina di autoveicoli e un autoarticolato. Per alcuni questo passatempo amato da generazioni di bambini porterà alla mente l’esilarante scena di Ace Ventura - Missione Africa dove Jim Carrey cerca di trovare la spinta perfetta perché Slinky possa percorrere l’infinita serie di gradini di un tempio senza fermarsi fino al termine della scalinata. Cosa che puntualmente non avviene (nonostante il tifo da stadio e i balletti beneaugurali del protagonista). La molla si ferma sull’ultimo gradino sfiorando l’impresa impossibile. Ma torniamo alle cose importanti: i giocattoli. Insieme al frisbee, l’hula hoop e la palla, Slinky rientra a pieno titolo nel concetto di giocattolo popolare: inizialmente venduto al prezzo di un dollaro, per volere della moglie di James che la volle un giocattolo per tutte le tasche, realizzato a bassi costi e con materiali semplici nella convinzione che il gioco sia un diritto di tutti i bambini e non un lusso per pochi. Negli anni Slinky ha mantenuto costi molto bassi, e in sessant’anni di storia ne sono stati venduti circa 300 milioni di pezzi. Un record che nel 2000 gli è valso l’inserimento nella Toy Hall of Fame. Ma la scienza del giocattolo a molla non si ferma qui: la molla elegante che fa le scale piace anche a licei e università. È stata ed è correntemente utilizzata da ricercatori e docenti per simulare le proprietà delle onde. Com’è facile osservare, quando la molla cade per una scala si raccoglie su ogni gradino, si riflette e procede al successivo capovolgendosi. Mentre lo scalino è un punto fermo che risponde con forza uguale e contraria. Se il pavimento assorbe un po’ dell’energia della molla, l’impulso risultante, con l’aiuto della gravità nella discesa, è comunque (pressoché) identico a quello iniziale. Quindi? Slinky si comporta come quella che un fisico chiamerebbe onda anelastica. Quasi elastica, insomma. Dal momento che la riduzione è molto piccola e la molla può percorrere anche decine di metri. Come volevasi dimostrare!
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una rubrica, in onda tutti i venerdì su “Geo”, la trasmissione di Rai 3 condotta da Sveva Sagramola.
Quanta matematica c’è in un cubo di Rubik? Quanta fisica in un lancio di frisbee o in una Hot Wheels lanciata a tutta velocità? Un tuffo nella storia di intere generazioni di bambini. Una lettura divertente e istruttiva, rigorosamente da 0 a 99 anni…
Davide Coero Borga La scienza dal giocattolaio euro 19,00 pagine 224
Bellissimo
≥ La scienza dal giocattolaio è anche
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Co cover
charity – a new model of development Development is taking other routes. Today, economic growth cannot be separated from social growth, so the non-profit sector is becoming increasingly important in the global landscape, both in terms of institutional strength and as a stimulant for involving other sectors. To understand how this has happened and what the enormous potential that lies in it can be, Oxygen has analyzed the evolution of the world of philanthropy, from the theorized “love of man” to a machine of development, innovation, and investments. With case histories, observations of those who work every day in charities or who can work thanks to them, the data in hand, and concrete projects, this issue tells how social attention can become development for all: human, social, environmental, and economic.
Ed editorial
Side by side with society by Fulvio Conti Enel Chief Executive Officer and General Manager
Henry Ford declared, “The highest use of capital is not to make more money, but to make money do more for the betterment of life.” This is the essence of corporate philanthropy: a feeling of closeness and concern toward others which results in effective solidarity actions for the welfare of all. An altruistic sentiment that is seemingly in contrast to the world of business. This is demonstrated by
the trends that have been affecting the “sphere of profit” for forty years, bringing it closer and closer to the non-profit universe through the so-called corporate foundations. This phenomenon is anything but recent, even in Italy, where, since the Eighties, foundations and non-profit organizations have come into being and are growing incessantly. Today, the non-profit sector is one of the most active in the Italian market, with a growth rate over the last 10 years that has far exceeded that of private companies and public administrations. The last picture resulting from the Istat census of industry, services, and nonprofit institutions has given us the image of a country with a huge potential and a great
desire “to do”: there are five million people today who are active volunteers. Faced with the lack of response to the needs of people and to their discomfort, this commitment on the part of citizens clearly denotes the distance between them and a ruling class that, on the contrary, is still not doing enough. In this context of growth, albeit with a lower weight in terms of numbers, the highest step of the podium belongs to philanthropy, which has quadrupled the number of active institutions in the last decade. This phenomenon arises from the convergence of two factors: an ever greater demand for “social goods” – driven by the growing economic crisis of recent years – and an in-
creasingly widespread “social conscience.” In their role as a partner with institutions and the community, companies, too, are called to respond to these new trends. That is why today more businesses are promoting sustainable development and include respect for the environment and the needs of people in their corporate strategy, interpreted through ethical values , policies, projects, and methodologies that permeate the entire enterprise. Similarly, philanthropy ceases to be a donation for its own sake – passive and anonymous – and plays a more important role: that of bringing charity organizations closer to all those who need them, creating a direct channel of communi-
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cation. Donations are linked to specific research projects, training, and initiatives to support growth, paraphrasing the ancient Chinese maxim that if you give a hungry man a fish you feed him for a day, but if you teach him to fish, you feed him for a lifetime. Corporate social responsibility and corporate philanthropy thus become two sides of the same coin: both define the reputation and image of a company, creating the framework for establishing a direct and transparent relationship between the company and all its stakeholders. This relationship is beneficial to both sides: a company that works better, and one in which the needs of citizens, the environment, and communities are properly considered is a company that fosters the growth of enterprises. And a company focused on people will be able to offer better performance than its competitors. At Enel, we deeply believe in this vision, to the extent that we have integrated corporate social responsibility and charity into our corporate strategy. Therefore, ten years ago, Enel Cuore was created, with a non-profit structure, to carry out the Group’s commitment to solidarity in favor of the community, according to an ideal of cooperation that focuses on the “person.” Enel Cuore supports projects initiated by non-profit organizations, also in collaboration with institutions, working in regional activities of health and social care, education, sports, and recreation; these projects are particularly aimed at children, the sick, people with disabilities, and the elderly, both in Italy and abroad. Over the years, Enel’s nonprofit organization has extended its relationship of collaboration, addressing social needs and charitable initiatives through periodic calls for proposals, with an ever-growing following. In 2012 alone, 850 non-profit organizations joined and 55 projects were
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selected to be carried out in Italy, Eastern Europe, Latin America, and Africa. The donations accrued will, as usual, fund the initial stage of each project to ensure its success in a short time, and we will focus on the “hardware” components necessary to achieve the initiatives and to bring the benefits of the interventions directly to disadvantaged people and their families. In 2012, among its many initiatives, Enel Cuore promoted, together with the newspaper La Repubblica, a fundraiser for the people affected by the earthquake in Emilia; supported training projects and rehabilitation for inmates in prisons, especially minors; financed the construction of reception centers for immigrants and people with addictions in southern Italy; and contributed to the creation of a playroom in the pediatric ward of the hospital in Castellaneta. Enel Cuore’s commitment was acknowledged when it received the Sodalitas Social Award – a prize awarded annually to subjects that are actively engaged in projects for corporate sustainability – for its project in collaboration with the Italian State Railways, “A Heart at the Station.” In keeping with the international dimension of the Group, this year Enel Cuore, along with Architecture for Humanity, has launched a program for the creation of spaces, facilities, and equipment of social utility in rural and urban areas affected by poverty and social disadvantage. With Enel’s contribution, schools, clinics, and recreational facilities will be created in Europe and Latin America. Just as Enel Cuore has done in its ten years of activity, we will continue to commit ourselves with passion in support of the community, animated by this spirit and with the awareness of the positive results obtained alongside non-profit associations and the world of volunteering.
Philanthropy ceases to be a donation for its own sake – passive and anonymous – and plays a more important role: that of bringing charity organizations closer to all those who need them, creating a direct channel of communication
Sc scenarios
A new philanthropy for a productive non-profit sector The transition toward a productive third sector is already taking place in Italy, where, in the light of considerable growth in a decade, the non-profit sector is increasingly conscious of its role and is affecting the forprofit sector. A reflection on the desirable directions that philanthropy must also take for the purposes of social welfare. by Stefano Zamagni Chairman of the scientific committee of AICCON
The new fact on which to build is the decrease during the last two decades in the traditional forms of philanthropy in all the advanced countries of the
West. This applies to the United States as well, where the volume of donations now totals 2.2% of its GDP. Keep in mind that the United States never adopted the model of the welfare state - which is a European invention typically financed by general taxation. Instead, the Americans created the model of welfare capitalism (officially in 1919) based on the “refund principle”: enriched companies and individuals must be aware of their obligation of civic engagement – not a legal duty – to give back part of the income they have acquired, in part thanks to the community they belong to. That is why the percentage of 2.2% is very low. What are the reasons for such a disturbing trend? I have three is-
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sues that may provide an answer, certainly not exhaustive, but nonetheless significant. The first one is of a strictly cultural nature. We continue to believe that the only form of creativity is one that is profitable (namely, one that generates profit) and not social as well (which generates social value). In turn, this obsolete belief substantiates another one: that the only innovations worthy of receiving funds and/or financing are industrial ones. Nor is it suspected in Italy that there are also social innovations, which, in times like now, are of strategic importance for the local development of the territories. (The empirical evidence on this is now abundant in Italy). This cultural lag is largely the fault of the class of intellectuals, starting with universities. (Just check out the academic and scientific publications for confirmation of this). The second issue calls finance into question. Social innovation postulates social entrepreneurship. It is well known that an entrepreneur – no matter whether for-profit or non-profit – is someone who is driven by a high risk tolerance and knows how to invest with courage and prudence. But how can entrepreneurs invest if they are denied access to the appropriate financial products or instruments in order to achieve what they seek to do? Of course, if you believe that the non-profit sector should carry out purely redistributive functions – as has happened so far in much of Italy – the problem that is raised disappears. But just because you have eliminated the problem, it does not mean that it is solved. In Italy, the main cause of this lack is due to the political class, which has done nothing decisive to equip the country with financial infrastructures for
social work, as is happening elsewhere. Yet, social innovation is basically a disruptive innovation, for which neither traditional fundraising nor the various forms of conventions (public or private) can provide what is needed. Although such forms may be sufficient to keep flow organizations running (those that distribute with one hand what they have achieved with the other), they are not at all sufficient for the growth of functional organizations. Then, a third issue is the “syndrome of low expectations” that quite a few non-profit organizations seem to suffer from: they almost never expect an adequate return on their investment in social terms, as if the fact of not aiming at profit would justify a certain organizational laxity and various forms of wasting resources. It is true that it is difficult to create a scale on which to measure the added social value of an intervention, but it is equally true that no systematic effort has been made to achieve this. For example, consider the indicator known as the “social multiplier,” which is defined by the ratio between the total value of activities carried out and the amount of donations collected. It is known that a social multiplier greater than two is able to stimulate philanthropic actions more than anything else. Yet this indicator is almost never made public. In light of the above, you can understand why it is urgent to implement new ideas and philanthropic practices if you want to speed up the transition to a non-profit sector that is productive, i.e., socially entrepreneurial. A plurality of signs indicate that this transition is already underway. First, it is clear to all that the Italian non-profit sector is changing – albeit sporadically
– the perception that it has of itself: from being a residual entity performing ancillary functions to becoming the leading actor in the planning and implementation of welfare policies. Second, it should be changing the meaning, that is, the direction of its actions: not so much reductionism, but rather emergent-ism. In another way, the subjects of nonprofit organizations are realizing that their specific mission is to “infect” the for-profit subjects. Some interesting results concerning corporate social respon-
sibility are the result of precisely such a contagion effect. The recent data from the Istat Census on the non-profit sector is the most convincing confirmation of the change taking place: the 28% growth of these institutions over a period of a decade is truly extraordinary – a growth, mind you, which covers all sectors and all Italian regions, albeit in different proportions. The space at my disposal allows me to make only a short list of the forms the new philanthropy should take. First, the direct financial link between citizens and non-profit organizations (social enterprises and not) should be encouraged, both in the form of participation by way of capital, and in the innovative form of a loan with the aim of strengthening its capital structure and opening the way for an “almost donation” to the productive non-profit sector. In particular, I am thinking of two increasingly widespread tools. On the one hand, there is equity crowdfunding: Internet platforms for raising venture capital (equity) for social enterprises in the startup phase. On the other hand, there is philanthropic brokerage which aims to promote the donation mode by democratizing
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philanthropy. Think of all those people – and there are many of them – who want to give unity and consistency to their disbursement, but cannot or do not want to create their own grantmaking foundation. Second, there is a need to create as soon as possible social impact funds that feed into the territorial funds for planning, on the example of what is already happening in Britain. Then there is the new financial tool known as social impact bonds, that has already been successfully used in the United States and Great Britain. Basically, this product resembles the familiar bonds, in that an individual (or public) subject is committed to ensuring the return of a bond earmarked to fund a project of social utility, once the desired results are achieved. Finally, we must have the courage to implement the principle of circular subsidiarity, because horizontal subsidiarity is no longer sufficient. Quite simply, the idea is to put the three spheres that make up society (the public sphere, the business community, and organized civil society) into strategic interaction at both the moment of the planning of interventions and of their management. It may be of interest to recall that the principle of circular subsidiarity dates back to an exquisitely Italian idea in the era of civil humanism (15th century) and, perhaps, that is why Italians do not want to hear about it! (In 2001, Article 118 of the Constitution was amended to introduce the principle of subsidiarity, but not in the circular version). The renowned Indian anthropologist Arjun Appadurai recently coined the phrase “capability to aspire” to denote the degree of people’s participation in the construction of social, cultural, and symbolic representations that shape the future, and life projects. Civil and economic progress depends on the degree of the diffusion of this capability within society. Like any other capacity, even that of aspiring can be cultivated and encouraged to grow. If properly understood, the new philanthropy should also serve this purpose.
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Sc scenarios
Philanthropy: if the locusts turn into bees Philanthropy is both a symptom and a part of the solution to the financial crisis. The author of the book The Locust and the Bee imagines a world divided into locusts and bees, predators and creators: a look at philanthropy, from its origins to its possible developments and the spreading of social investment involving both ordinary citizens and the very rich. by Geoff Mulgan Nesta Chief Executive Five years after the beginning of the financial crisis, it is now clear that one of the main causes of the crisis was a surge in the proportion between predatory and productive economic activity. Rewards for predation boomed while rewards for the creation of useful goods and services stagnated. In other words, the locusts prospered to the detriment of the bees. All over the world, work is undergoing monumentous change, from this point of view. China is seeking a more balanced model of economic development in which it can play a more decisive role in creating new technologies. In India, leading policymakers openly talk of the madness of a system which mobilizes the best brains to solve the problems of the rich, who certainly need less help than the poor do. Brazil, like many other emerging economies, is trying to create a welfare system that spreads its growing prosperity to the greatest number of people. Philanthropy is both a symptom of the problems and a part of the solution. It is a symptom in that a tiny number of people benefitted from the rising inequality of the boom years and from huge windfall gains – sometimes the result of clever technologies, more often the result of being in the right place at the right time. As in previous eras, a few of the newly enriched have started to take philanthropy seriously.
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Gates, Omidyar, Skoll, and others have recognized the moral responsibility to give something back, and that it is senseless for them to spend their wealth exclusively on themselves. Their engagement is now backing the new vocabulary of social change. “Social investment” is now ubiquitous, linking investment methods to social outcomes – helped by big new wholesalers like the €800 million Big Society Capital fund in the UK - and is bringing much greater attention to issues of growth and scale (which I will touch on later). “Social entrepreneurship” was pioneered for many decades by figures like Michael Young and Muhammad Yunus and has now entered the mainstream of organizations like the World Economic Forum. More recently, the global social innovation movement has been promoted by figures like the Mayor of Seoul, Park Won-soon, and large firms like Cisco. Both movements have set down roots all across the world. One of the common features of all of this change is a different view of giving, whether by ordinary citizens or by the very rich. Although volunteer labor has been a blind spot for economists, the potential for tapping into non-paid resources matters hugely. According to the World Giving Index, 20 percent of the world’s population say that they have volunteered time in the past month, 30 percent that they
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have given money, and 45 percent that they have helped a stranger.It is not only the recipients of help who benefit; there is evidence of the positive effects of giving on the well-being of the benefactors as well, and at a national level, a link has been found between the amount of money given and the reported happiness of its citizens (a coefficient of 0.69 compared to 0.58 for the link between GDP and happiness). This link is almost certainly true as well for the very rich – who appear much more satisfied by their ability to concretely influence issues such as children’s health than by their ability to accumulate capital. Giving is, of course, integral to the civil economy, which combines monetary and non-monetary motives and outputs, and which has very old roots but also renewed relevance. The first mutual insurer was set up in Italy in the thirteenth century, and several of the religious orders invented new financial services for the poor, as well as forms of “social investment” that remain relevant today in the various banks that are offshoots of the Catholic Church. In some countries, civil society grew out of crises: England’s charity laws, for example, first legislated in 1601, were a response to widespread destitution and crumbling public infrastructures, and everywhere the modern civil economy grew up as the counterpart to commercial capitalism, a response to the inequalities, ill health, and human misery it brought, mobilizing altruism as well as self-interest, mutual care, and individual material interests. In the nineteenth century, the citizens of the first industrializing nations depended on the social sector for financial services like insurance, savings schemes, and money for buying homes, as well as cooperatives providing everything from food shops to funerals. A strong and proud independent civil economy grew up, including what, a century later, came to be called microcredit, and today it includes large cooperatives in Spain and Italy, construction companies
in the UK, and charities in Germany funded by tithes on income. But during the twentieth century, big government and big business often displaced socially-owned organizations, with governments providing welfare and pensions, and business providing commodity financial products, on a larger scale and sometimes at lower cost than their not-for-profit predecessors. Civil organizations, however, can be paternalistic as well as inefficient. When small, they can be amateurish; when big, they can become bureaucratic. All civic organizations find scale difficult – and although there are some very large NGOs, like the Red Cross, Grameen, or Caritas in Germany, which employs some 400,000 people, the great majority are small, mainly because greater scale can corrode values, commitment, and their members’ sense of belonging. When these organizations do grow large, they tend to do so in ways that maintain small units of activity: for instance, with federal structures linking hundreds of local branches, or cellular structures like Alcoholics Anonymous, or many churches. Linear growth is also complicated by the values at play. One of the first charities in England was set up to raise funds to buy wood with which to burn witches; a century ago, another distributed cigarettes to wounded soldiers. Associations representing car drivers have views almost diametrically opposite to green groups, and all civil associations involved in the health sector are as much a cacophony of mutual disagreement as they are a harmony of shared beliefs. Yet for all that, the more organized parts of civil society have consistent biases that go with the grain of 21st-century culture. They believe in equity, valuing activism rather than passivity; mutuality rather than hierarchy, and in general sharing the spirit of Ibsen’s comment that “a community is like a ship; everyone ought to be prepared to take the helm.” They draw on secular ideas of equality and liberty but
are also interwoven with faith, and the persistence of religion as a social and economic force. A good metaphor is that of the “granite” from Guatemala: the idea that everyone can contribute their tiny grain of sand to making social change. The fact that civil society is strong in sectors that are likely to grow for other reasons leads many to expect its share of the GDP to rise. In the UK, for example, well over 30,000 NGOs are already contracted to provide services by the National Health Service. Some governments have encouraged this growth by contracting out a growing share of public services. Globally, there are now many (very different) examples of real scale – from BRAC and Grameen, to Pratham and Avaaz. Business schools report a high proportion of their MBA students wanting to learn about social entrepreneurship and how to find career paths that combine making money with doing good. There has been a healthy growth in global NGOs, increasingly providing humanitarian aid, awareness campaigns, or specialist expertise. A plausible future sees a continued expansion of the social economy helped by rising investment. Yet it is just as possible that forprofit businesses will prevail, taking over new markets that NGOs and social enterprises pioneered, as has already happened in fields as varied as organic food and social networks. Philanthropy provides the free money for many of these organizations because it has the capacity to take risks, to tackle unpopular issues, and to take a long view. Yet its very strengths are also its potential weakness. Philanthropy’s main strength is that it is not encumbered by restraints, or accountabilities. But that makes it all the more important that philanthropy not become an unaccountable institution, replicating power in the economic sphere in society in ways that are undemocratic both in spirit and in practice. In previous eras, public opinion turned against charity when it
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was seen to be too paternalistic, too much a tool for the rich to assert their own virtues, and too disempowering for the recipients of support. Some advocates for “venture philanthropy” recently repeated the mistakes of the past in this respect, claiming that the rich, without accountability, are the only ones in the ideal position to solve the problems of the poor. Wiser philanthropy will instead put itself within the broader movements of civil society – responsive to the needs and the demands of people needing help. If that happens, it can become part of a broader process of “civil-ization,” making business and the economy in general more civil in character, in terms of values, methods, and organizational forms.
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in interview
A non-solution The system of giving aid to Africa has failed, leaving the continent in a state of eternal economic adolescence: this is the thesis of the economist Dambisa Moyo, who hopes for a substantial change in direction and, possibly, a reasoned abolition of financing. “I hope that we will put the model of aid into question, just like we are doing with capitalism. Sometimes the most generous thing you can do is simply say no.”
interview with Dambisa Moyo Writer and economist by Elisa Barberis
“History is evolving dramatically, what is needed as soon as possible is a change of mentality. On the other hand, why should the Western countries have to take responsibility for the problems of the Third World, if they are themselves in crisis?” Zambian economist Dambisa Moyo’s assertion is not a provocation in itself, but a lucid analysis of the direction the world has taken. A thesis which he explained in his best-seller Dead Aid: Why aid is not working and how there is a better way for Africa (published in Italy by Rizzoli), and is as shocking as it is powerful: the system of development aid in Africa has failed and has had the unique effect of making a country already in misery even poorer. The unlimited assistance offered to the governments of African countries – not to be confused with emergency donations, such as those for natural disasters in Haiti or after a tsunami – has proven to be a disaster in every aspect. Not only has it increased their economic dependence, but it has encouraged corruption, ultimately perpetuating poverty. And the numbers substantiate this reasoning: today, 50% of the African population, twice as much as twenty years ago, lives on less than a dollar a day. This is a situation that Dam-
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We must dispel the myth that an aid-dependent economy, anchored to humanitarian funds, can alleviate the structural problems of the African continent
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bisa knows well, and one which he managed to leave behind a long time ago. Born in 1969 and raised in the capital Lusaka, the grandson of a coal miner, he is the symbol of the redemption of an entire continent: he received a degree in Political Science from Harvard and a PhD in Finance from Oxford, he worked as a consultant at the World Bank, and then spent eight years in the investment bank Goldman Sachs. In 2009, his book created quite a stir, to the point that Time included him in its list of the one hundred most influential people in the world, alongside Barack Obama and the winner of the Nobel Prize for Economics, Paul Krugman. Moyo’s indictment comes from a deep concern about the authoritarian paternalism of the West. And a question he could not get out of his head: why can’t Africa stand on its own, in spite of having received more than 1,000 billion dollars disbursed for various purposes and in different ways over the past 60 years? It is estimated that between 1970 and 1998 – a period in which the transfer of capital to the Third World countries peaked – the poverty rate rose to 66%. And countries like Burkina Faso and Burundi, which three decades ago had a per capita GDP higher than that of China, have slipped to 181st and 185th position (out of 187), respectively, in the Human Development Index ranking of the United Nations Development Programme. The economist does not point his finger only at the attempts of personal enrichment that led administrators and dictators such as Mobutu Sese Seko (Zaire), Frederick Chilobu (Zambia), and Robert Mugabe (Zimbabwe) to steal billions of dollars, which they then used to invest in real estate, luxury goods, and weapons, leaving national coffers empty. The cause of the decline of Africa is to be found mainly in the policies of those governments which have created a thriving business which also benefits international foundations, the multinational food giants, and even NGOs,
many of which, Moyo claims, are interested in perpetuating poverty to justify their existence. And major events organized by rock stars like Bono Vox and Bob Geldof do not help either, because instead of really increasing people’s awareness, they only play on the superficial emotions that begging can arouse. In short, he stresses, we must dispel the myth that an aiddependent economy, anchored to the humanitarian funds as the only, but consistent and significant, form of sustenance, can alleviate the structural problems of the African continent. Everything seems to show that solidarity, instead, increases the damage by triggering a “vicious circle between international grants and endemic corruption of governments subsidized by the West, that hinders the development of civil liberties and prevents the emergence of transparent institutions.” “The only help that really helps is the aid that helps eliminate the aid,” wrote the African philosopher and historian Joseph Ki-Zerbo. For this reason, the proposal of the economist is to abolish most of the money, of course, in a gradually phased manner, taking into account the different levels of development of various countries. The goal is to implement a sort of “Marshall Plan” to induce African States to get out of this perpetual “economic adolescence” and break free from the “drug of aid.” This is an ambitious idea: therefore, it is not surprising that it has been met with criticism from those who manage the sector. However, Africa is not being asked to develop a new system. Instead, it is a matter of applying what is happening elsewhere. “The rest of the world is already working on the model that I describe, based on the combination of free-market strategies, fairer trade, and direct foreign investments,” explains Moyo. “If they have worked for China, India, and Brazil, why shouldn’t it be the same for Africa?” This will be the year of the emerging markets: this is where almost 90% of the world
population lives. “According to the forecasts of the International Monetary Fund for 2013,” continues the economist, “the African continent is among the top three regions with the fastest growth. The estimates point to a growth of 6-7% by 2014. In the last twelve months alone, 60 developing countries have decided to focus on the issue of bonds for liquidity to be used for the construction of roads, bridges, power stations, and railways. As the examples of the success of South Africa and Botswana have shown, the impression that Africa is only underdevelopment, war, and famine is now outdated.” Moreover, this view fails to take into account the increasing urgency that also affects the donor countries, said Moyo. “In the Maghreb, the lack of jobs and the rise of consumer products contributed to the outbreak of clashes in the square. But it is also true that the whole world is paying the price of the global crisis. The West itself is threatened at home with serious structural problems: the sovereign debt that is increasingly growing, heavy deficits, an ageing population, and a dangerously high unemployment rate. In the future, there will not be enough money to send to Africa. Even today, no country talks about humanitarian aid in their policies, and the issue has become a ‘non-issue,’ not even dealt with anymore in the major international forums.”
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Instead, the focus has shifted to other fronts. “First of all,” the economist explains, “to the efforts of African and Latin American governments to support development by using different methods among those considered more traditional. And then to investments in Africa of other emerging powers such as China.” In fact, Beijing has gone from a policy of loans repayable in exchange for natural resources to the granting of loans for the construction of infrastructures. And in 2010, the volume of the interchange had already exceeded $130 billion. Therefore, less talk, more concrete solutions. Starting with the liberalization of the market for local agricultural products, to help the nascent indigenous entrepreneurial class, the diversification of products (not just oil), by exploiting the bond markets and other forms of micro-finance, to the model advocated in Bangladesh and the brainchild of the “Banker to the Poor,” Muhammad Yunus. “Once the economy of African countries has become more reliable, it is hoped that their politics and democracy will also improve,” predicts Moyo. The real wealth of Africa lies in its land, but the motor of change will be the young, he concludes. “More than 60% of the population is under 25 years of age: this strength must be utilized in a dynamic way, by investing in skills and education.”
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in interview
The strategic direction of local authorities Milanese solidarity is growing in the third millennium. The historical features of philanthropy that provides protection for the weak through charity and welfare, are now joined in a closer relationship between the local authorities and the third sector, which can promote economic development. In this interview, Giuliano Pisapia, the Mayor of Milan, talks with Oxygen about the evolution of the relationship between the public sector and the non-profit world.
interview with Giuliano Pisapia Mayor of Milan by Giuseppe Gobetti
The distances between for-profit and non-profit organizations have been shortened. This is because, for some years now, the for-profit sector has undertaken a serious social responsibility that has led companies to be more sensitive on issues that at one time were not considered 160 160
Mayor Pisapia, is the role of non-profit institutions to ensure social cohesion, welfare, moral values, and economic development considered positive in your territory? The non-profit sector plays a strategic role in society because it helps hold it together, forming a dense network of relationships between the associations and the citizens. In the territory of Milan, in particular, the organization of the third sector acts as a fundamental glue. They create bonds, produce culture, and promote wellness, while dealing with the most fragile groups. All the subjects, from small groups up to large international organizations, are driven by great ideals and a thirst for social justice, solidarity, and altruism. For this reason, their impact on the rest of society has been, is, and will be, extremely positive. How do the local authorities interact with the sphere of non-profit organizations? What improvements could be made in the institutional relationships? Local authorities and nonprofit organizations must be great allies and collaborate in compliance, each with their roles. This is what happens in Milan, where the municipal administration, through calls for proposals, entrusts the management of important activities and initiatives to the third sector. Of course, the guidelines should be outlined by the administration, as should their monitoring: but mutual trust and the exchange of experiences are essential. I firmly believe that the local authorities must listen and take on a role of strategic direction to meet the needs that arise within the territory. Non-profit organizations often denounce a willingness on the part of public agencies to “control” and orient private capital for their purpose at hand, also affecting the public funds by criteria other than
those of effectiveness, efficiency, and economy. How do you respond to this criticism? In particular, is the non-profit sector able to grow independently or is it too dependent on public funding? Directing does not mean conditioning. Our goal is to develop a network to work with the administration of Milan to meet the needs of the most vulnerable and fragile subjects: common goals shared with the vast world of the nonprofit organizations in Milan. However, with regard to their ability to grow, I believe that these same realities are able to move independently. They do not depend on public funding, because they are now able to raise money through fundraising and private support. The for-profit sector and nonprofit organizations struggle to communicate, both for cul-
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tural reasons and a longstanding mutual distrust, and finally, for a presence in certain markets which may, in fact, take on the traits of competition. Do you foresee the possibility for the local authority to take on a role as a facilitator of such relations, with a view to the common good of the citizens and the territory? I honestly believe that the distances with respect to the dialog between for-profit and non-profit organizations have been shortened. This is because, for some years now, the for-profit sector has undertaken a serious social responsibility that has led companies to be more sensitive about issues that at one time were not considered or were considered to be secondary. For example, I am thinking of the environment, of the most fragile subjects, of childhood, and inequalities in general.
The local authorities can facilitate this dialog by drawing closer to the subjects and promoting joint projects. We have done so in Milan and we are doing this through various initiatives with the business community and the third sector. Important actions concerning children, women, and the promotion of culture and health have arisen from these collaborations. What practical measures can be put in place by local authorities and the central government to foster the relationship between non-profit institutions and for-profit enterprises? The local authority, or the central government, should take the responsibility to convene stakeholders to sit at the conference table, and to keep the relationships alive. For example, I remember the National Forum for International Cooperation that took place in Milan, which brought together the experiences of members of different associations also working in the same field but who, in many cases, did not directly know one another. This example could be repeated, as a moment of exchange and growth between the non-profit and for-profit enterprises. Philanthropy, corporate foundations, and charities in general are important actors for the development of the territory and the strengthening of social cohesion: what do you ask of them and what kind of relations should be guided by the dialog? They are all very important actors that obviously work independently. What we can ask of them is to think about projects that take into account the problems, needs, and awaited responses from the territory in which they operate. Not initiatives handed down from on high, but the result of listening and a relationship with those who are engaged daily in social work.
What is your view on the role of former banking foundations and the current status of the relationship you have with them, referring specifically to projects in the area? I have a very positive view and will cite a few examples that have been important for Milan. Our collaboration with the Cariplo Foundation, among other things, will allow us to exploit Castello Sforzesco more and more and, in particular, the Rondanini Pietà by Michelangelo; I am also thinking of the contribution that was donated to the city for the redevelopment of Trotter Park, not to mention the many projects of social and cultural activities that have been, and will be, made possible only with help of the Foundation. I can say the same for the Banca del Monte Foundation, which has allowed us to undertake welfare and cultural initiatives that would not have been possible to complete alone. The Cariplo Foundation has also contributed, not only economically but even with the active presence of their representatives, to the success of the Scala Opera House. A different but equally important example is the initiative that each year involves the collaboration of Unicredit, the Unicredit Foundation, and the Philharmonic Orchestra of the Scala, and is presented at Palazzo Marino, in the Sala dell’Orologio. The proceeds from the Philharmonic’s rehearsals which the general public can attend are donated to organizations that deal with social hardship in the territory every day. Last year, the proceeds were given to Opera Cardinal Ferrari, the Franciscan Center Beata Maria della Passione, and to the organizations Cena dell’Amicizia and Pane Quotidiano. How do you plan to exploit the enormous resource of volunteering that, also in light of recent data from the Istat census, is confirmed to be
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vital and dynamic in your territory? Milan is the capital of volunteering and so we have created a specific delegation within a city council department. We recently carried out a project for the promotion of youth volunteering that involved more than 1,500 young people. Our intent is to promote generational renewal in Milan’s voluntary organizations, encouraging the inclusion of young people and the creation of new associations. How do you assess the contributions that businesses, especially large ones, are trying to offer with regard to sustainable development through social responsibility initiatives? All contributions are positive as long as they meet two conditions. The first is that the good intentions written on the sustainability reports are translated into concrete actions with an impact on the area that is effective and efficient. The second is that the core business activity of a company does not contradict in fact what has been proclaimed in terms of sustainable development. If there is no such consistency, it is not possible to speak of social responsibility. What opportunities does Expo 2015 present for growth and bringing to fruition the relationship between public institutions, non-profit organizations, and businesses? The Expo is a unique opportunity to experiment with creativity and new ways of relating, and invent new projects. There will be the great opportunity of being able to work at an international level and make a comparison with the good practices of other countries. I would also like to emphasize that volunteers will play an important role in Expo 2015. We are planning on 18,000 of them, a valuable “army” that will make us proud.
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able to aggregate people and resources. We manage services for the elderly, children, the homeless, and the disabled through approximately 100 associations, cooperatives, foundations, and all that refers to the volunteer sector and the third sector, a reality that so far, Verona has expressed with great vitality and which has proven to be strategic in the renewal of the welfare state. Thanks to the invisible but worthy work of many volunteers, in fact, an important social safety net has been recreated, one that is able to answer to a variety of needs and new forms of poverty that are not traditionally covered. This experience, it must be said, has also helped to change methods of intervention which, starting from experiences often promoted autonomously by non-institutional actors, were then taken up by the institutions. . In interview
The social fabric that generates wealth The non-profit world provides an important function of creating a cohesive social fabric, an essential prerogative so that economic resources are created to overcome times of crisis. This is what Flavio Tosi, the mayor of Verona, thinks and he recounts his experience of a municipality in which more than a third of the budget goes to social and educational services for citizens.
interview with Flavio Tosi Mayor of Verona by Luca Bosco
Non-profit organizations are strategic resources of the territory, and local government should enhance its potential in the management of social services, both in programming and networking, as well
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as responding to the emerging needs of its citizens, and at the same time, requalifying spending according to the criteria of efficiency and economy. This is the clear and precise recipe that Flavio Tosi, the mayor of Verona, illustrates for Oxygen concerning the state of relations between the public and the non-profit world. A strategic approach supported by the fact that, in the city of Verona itself, the subsidiary role of the third sector organizations, from associations to charities, up to social enterprises, is strong and rooted, despite the difficulties triggered by the crisis. Mayor Tosi, how do you view the ability of non-profit institutions to ensure social cohesion, welfare, values, and economic development in your territory? Our experience draws strength from this certainty: social resources generate economic resources and not vice versa, as argued by Amartya Sen, the Nobel laureate economist in 1998. The social
fabric functions well to offer the possibility for economic resources, whereas economic resources, by themselves, do not create a social fabric suitable to retain them. No business owner would gladly invest where there is social unrest, where there is uncertainty, fear, insecurity, or where people feel threatened in living, working, and, more generally, in their daily lives. Starting from this basic belief, how does the local authority interact with the sphere of non-profit organizations? What improvements in institutional relationships could be made? The non-profit world is vital for us. The city of Verona allocates approximately 90 million euros, more than a third of its budget, for social and educational services for citizens, including about 50 million euros for social services, which are provided by turning to non-profit organizations that have demonstrated their ability to adapt to problems over the years, and are
In this respect, non-profit organizations sometimes denounce the willingness on the part of public bodies to “control” and orient private capital for their purpose at hand, also affecting public funding as to criteria other than those of effectiveness, efficiency, and economy. How do you respond to this criticism? In particular, is the non-profit sector able to grow independently or does it remain too dependent on the public purse? Frankly, I think it unlikely that a public institution can guide private capital for its own purposes, since all contractors are chosen through public procurement, the committees are set up by technicians, and the selection criteria are based on the quality of the projects, their knowledge of the territory, their organizational strength, and their financial offer. The city is responsible for planning and monitoring the adequacy of the work entrusted to the third sector with
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maximum transparency, and not allowing anyone to waste taxpayers’ money. Whether the manager is a public agency, a private partner, or a private social organization, what counts is the quality of the services, and the competence and professionalism in managing them, based on the criteria of efficiency, equity, and cost-effectiveness. The profit and non-profit organizations struggle to communicate, for cultural reasons, for longstanding mutual distrust, and, finally, for their presence in certain markets which may, in fact, resemble the competition. Do you envision the possibility of the local authority taking on a role as a facilitator of these relationships, in view of the common good, in the interests of the citizens and the territory? Federsolidarietà, the organization of political and union representation of social cooperatives, estimates that social cooperation depends on public resources for about 60.5%: therefore, it is clear that the contraction in spending in the social sector will certainly have a negative effect on the non-profit world. Over the years, the City of Verona has always chosen not to reduce one penny of its social spending, but it is clear that, with cuts in the state transfers operated by the government, local communities will not be able to maintain for long the level of quality of services provided to date. I therefore consider that, in the future, the entrepreneurial capacity of the third sector will be increasingly important, also through the application of two winning strategies: the ability to access extraordinary liberal resources and to muster paying requests. The capacity of the third sector to establish itself in this area will depend very much on its capacity for innovation in its proposals, as well as the ability to raise resources by accessing credit
to financially support its autonomous activities. However, the ability to cooperate on common goals will still be essential, even in the future. What practical measures can be put in place by local authorities and the government to foster the relationship between non-profit institutions and companies? To facilitate relationships with our partners, it is our habit to do networking, to qualify costs and avoid duplication, and to ensure that the local authority manages less and controls more. In such a complex situation, it is essential to work as a system with all the economic and social realities, and to come to some sort of agreement in which everyone helps to maintain society. Therefore, in Verona, we have tried to work synergistically with the territory; working by areas of intervention, so as to give specific answers; implementing information in order to help citizens in need to move efficiently between the different entities operating the services. What is your view on the role of charities? And on the former banking foundations, in the light of ongoing relationships, in particular with reference to local projects? In Verona, we are fortunate to have the Cariverona Foundation, which is not simply a dispenser of resources, but which works in parallel with the municipal administration right from the planning stage, and in reading the needs of our territory. In recent years, the Cariverona Foundation has allowed us to experiment with important projects such as the Alzheimer’s Project, that we have implemented, developing a system to assist families facing this terrible disease: we have created specific care at home, three daycare centers, places of relief, and special residences. Once again with Cariverona,
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we have experimented the project Extreme Marginality, intended for homeless people, which has enabled us to program with the Third sector interventions that are not just limited to the logic of beds, but which proposes the goal of “empowering” those who are considered chronic, bringing them out of the dormitories. Finally, to help families affected by the economic crisis, we activated the New Poverty project, originally funded by the Foundation, and subsequently provided with its own budgetary resources, as well as funds from the “5 per thousand” tax contributions.
In Verona, we have tried to work synergistically with the territory; working by areas of intervention, so as to give specific answers; implementing information in order to help citizens in need to move efficiently between the different entities operating the services 163
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In interview
Non-profit architecture Since the late Nineties, the NGO Architecture for Humanity has implemented architectural interventions that are true acts of social commitment. With a conception of architecture that is shared with the recipients of the project and as an open source project, it has distanced itself from those architects and artists who design unique pieces where utility is often overshadowed by their beauty. Here are the ideas of Cameron Sinclair – its co-founder and CEO (“chief eternal optimist”) – concerning projects, results, and collaborations.
interview with Cameron Sinclair CEO for Architecture for Humanity by Raffaele Oriani
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At the last Biennial of Architecture in Venice, the watchword was “common ground.” The renowned architect David Chipperfield had chosen the theme to “encourage colleagues to react to the trends of our time that emphasize individual and isolated actions.” Thus the mainstream also rediscovers a sense of community and promotes a mixture of environmental concerns and social awareness, desire for change, and references to a tradition of good, and often anonymous, collective practice. So much the worse for those who continue to think of the architect as an artist who scatters unique pieces throughout the museum-world. And so much the better for the people like Cameron Sinclair, a forty-year-old Londoner based in San Francisco for years, who candidly said, “I have always felt like the black sheep of the category: for my
colleagues, everything revolves around the beauty of the building, whereas for me, the mainstay has always been its usefulness.” Architecture as a social commitment. And as a common cause of people who know how to keep their ego in check. So, at the end of the Nineties, with $700 and two websites, Sinclair founded Architecture for Humanity, an NGO that in fifteen years has involved more than 6,000 professionals, offering a haven to families, students, doctors, and patients from 47 countries throughout the world. How did you come to know that architecture could be an instrument at the service of non-profit organizations? In ‘99, I was 25 years old and living in New York, but also following the restoration of the monumental complex of Constantin Brancusi in Romania. A few hundred ki-
lometers from there, the war was raging in Kosovo, and facing that river of refugees, I told myself that, as an architect, I could not stand idly by, only thinking about my projects. So what did you do? Well, I was young. I looked up the phone number of the High Commissioner for Refugees, I called them, and I made myself available. That still wasn’t enough for me. I had some ideas on how to design temporary shelters for refugees, but I figured I wouldn’t get very far by myself: so I launched a nonprofit online competition open to all architects worldwide. Hundreds responded, sending projects and offers of money, but also letting me know that there was great energy out there to be exploited in the positive. Thus, Architecture for Humanity came into being.
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Can architecture really make a difference? It has always been a fixation of mine. I grew up in a London suburb full of huge concrete towers. I remember that as early as the age of six or seven, I spent hours with Lego rebuilding everything that was around me: I thought that if the buildings were different, we would all be happier. What is the strength of Architecture for Humanity? First of all, its database of 75,000 architects who are ready to work on our projects for free or at greatly reduced rates. And then, our ability to work with and not for those in need. Involving the community is a tiring process which takes time and requires our designers to live for months in conditions of great hardship, but it’s worth it. A shared project is infinitely richer than one imposed from outside. What can members of the community know more or better than the architects? They know their own tastes and needs. A sustainable building is, above all, a building that is appreciated. You can use all the technology and solar panels you want, but if a community refuses your work, you have only produced a great waste of resources. For Enel Cuore – the nonprofit organization of the Italian energy multinational – you are overseeing seven projects in Europe and Latin America. Is the involvement of the population also a priority for these? Certainly; I think that Enel turned to us precisely because of our expertise as architects – anthropologists. The experience of Architecture for Humanity tells us that any initiative needs a community that participates, donors who give their attention, passion, and motivation
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as well as money, and a good architectural project. In the case of our partnership with Enel Cuore, none of these three ingredients are missing. What point have the projects reached? Having finished the study phase, we are starting up all seven sites. They will be completed in the first half of next year. What kind of interventions are they? We focus primarily on facilities for young people, women, and work. For example, in Peru we have opened the construction site of a school that benefited a great deal in its design phase from the contributions of the children and parents who will use it. Or in Chile, where we are going to create two centers that will revitalize the textile tradition of women of the Pehuenche ethnic group. The latter was a fantastic experience: our architect had presented a good, solid, sustainable, and efficient project. But the local communities did not like it: well, as an architect, I can say that the long months of confrontation we went through have definitely improved the project. At the end, does the design copyright go to the architect or the community? The focus of our work is social, not financial, so it seems natural to cultivate an open source approach. What does that actually mean? It means putting our network of architects, calculations, drawings, and photos at everyone’s disposal. And it works: in fact, it has already happened that we were copied before being able to complete the work. I know this because a few years ago I was in New York to present the clay structure that we had come up with for a school in
Uganda. Well, at the same conference, before my turn came, a colleague intervened who had just completed a school in Kenya with the same technique. He candidly admitted that he had found the solution on the Architecture for Humanity website. I have never been so happy. How many houses have you built over the years? We have completed 350 projects, some for just one building, others for up to a thousand homes. In all, we have provided homes, schools, or healthcare facilities to nearly two million people. Which of your works makes you the most proud ? Perhaps the housing built in New Orleans for post-Katrina refugees; or the twenty sports and health centers set up in South Africa after the 2010 World Cup. But I am also particularly proud of the projects that we have been working on for Enel Cuore: I like it that they are intended for very specific communities. We are a global organization, but we respond to local needs.
At the end of the Nineties, with $700 and two websites, Sinclair founded Architecture for Humanity, an NGO that in fifteen years has involved more than 6,000 professionals, offering a haven to families, students, doctors, and patients from 47 countries throughout the world 165
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Re reportage
The “lady” of the “copii Strazii” After the fall of communism, Bucharest became a city dominated by poverty and children were the first victims, left without homes and schools, living on the streets, and taking refuge in the underground heating ducts during the cold winters. Juliana Dobrescu began teaching mathematics to these children, the “copii strazii,” and today she has become the historical memory of the Romanian street children. by Paola Tavella Writer
Juliana Dobrescu pulls a book from her bag and opens it up in the middle. A fifty ron bill, more or less ten euros, is tucked in the pages. Ionut, one of her “boys,” had requested a loan of one hundred euros before emigrating to Italy to work as a
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woodcutter; when he received his first paycheck, he sent the money to her. A year later, they met again in the slums of Bucharest. Ionut needed fifty ron, and without batting an eyelash, Juliana put the money into his hand. Her colleagues, who are all social workers, predicted that she would never see the money again. One month later, Ionut came to Parada, a non-governmental organization founded by the Franco-Algerian clown Miloud and supported by Enel Cuore, which rescues street children by taking care of them and teaching them circus arts. Juliana works there, and that is where Ionut came to repay her with ten five-ron bills: “Now I can’t bring myself to spend it,” she laughs, “I tell myself that I should use the money to buy something significant, but there is nothing that is more meaningful to me than this money.” Juliana is a chemical engineer. During the years of communism, she worked in a research institute and was in charge of
wastewater. When the regime collapsed, she saw ordinary families end up in misery from one day to the next, disintegrating and losing their home, work, and food. “Offices, factories, and shops were closed. People took refuge in the countryside, but they were unable to work the land. Children were the first victims of this social catastrophe: they lost everything, even their schooling. When the money ran out, as well as the food, electricity, and water, and when their parents left one another and began to drink, to fight, and even use violence on them, then the children ran away and ended up on the streets.” Hordes of children roaming around Bucharest were all alone, lost, had run away, or escaped from the orphanages, those huge, badly heated institutions with few staff members, where more than five thousand children were malnourished and mistreated. In fact, starting in 1966, the Romanian dictator Nicolae Ceausescu had banned abortion and contraceptives.
Every married woman under forty was required to have a minimum of four children. Many families could not keep them, so they relied on state-run orphanages, where the children became ill and died. After the fall of the regime, 48 orphanages were closed, but the system of foster care, adoption, and foster homes did not always work. Hundreds of minors, some of them even very young, were left on their own to live however and wherever they could by begging, stealing, prostituting themselves, getting drunk, and sniffing glue. “They were eleven or twelve years old, even younger. I cannot forget one of them, who was very angry with her mother. She said, ‘Mother sends my little sister to beg because she is so little that passersby take pity on her, but this way she doesn’t go to school anymore, and if I insist, she replies that she has to get the money to give to our mother. So I went away and took my little sister with me. We had nothing at home; instead, in the heating ducts, there is hot water, heating, electricity, and a new family, consisting of kids like me.’” Juliana believes that for some, the street is their only choice, even a good choice compared to their previous conditions. The ones who end up on the streets are the strongest and the most intelligent, those who learn the countless vagrancy laws and comply with them, and who still harbor hope for the future. In fact, threatened by the freezing winter temperatures, the more enterprising of the Romanian street children opened the manholes to gain access to the heating ducts. In Bucharest, as in many cities of the East, there is a general heating system, giant hot water pipes run under the pavement. The heating system provides access to large maintenance areas where up to thirty or even fifty kids can live. The phenomenon became a sensation abroad, and when the Romanian government created a team of ten people, Juliana decided to change jobs: “I wanted to help out, and get involved in a humanitarian endeavor. I
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knew that I would lose my security, money, and prestige, but I did not care. I was 38 years old, I was a well-bred young lady, I still wore skirts,” she says with a self-deprecating smile, now that she only wears slacks, lowheeled shoes, and shoulder bags. “A colleague of mine, Lilli, accompanied me to the Gare du Nord, the main railway station of Bucharest, which housed a huge group of street children. We met three filthy boys, she embraced them, and I shook their hands as a sign of respect. At the Brancoveanu subway stop, her colleagues were playing dice with a young girl with a shaved head who looked like a man. All of them had brought the children clothes and shoes, but I did not have anything with me. The boys asked me: so why did you come? I replied that I was there visiting. The next day, I began teaching them mathematics, doing the
exercises on the back of election leaflets. So that is how we met, and soon I was spending entire days with them.” The public money lasted barely a year, and the funding was never renewed. Save the Children undertook the initiative to support the project and took on the whole team, including Juliana. Thus, she has become the most long-term operator in Bucharest, the historical memory of the phenomenon of the copii strazii, the Romanian street children, an expert on glue, and somewhat of an expert on the new ethnobotanical drugs that are replacing glue, which are sold legally in the form of bath salts, incense, and fertilizers, and which burn the brain cells. The street children inject them, multiplying their risk of disease. Many of them are HIV positive, so it is easy to predict that AIDS will be the new humanitarian emergency. Paradoxically, the doctors say it was almost better when the kids were sniffing glue or just doing heroin, because heroin is hard to find, it is not hallucinogenic, and at least they know about its effects. Juliana, who still spends at least three nights a week on the streets, is tall and strong, with shoulder-length blond hair – her only flirtatious detail – and her gruff and direct ways do not mask her deep kindness. “I remember that in Brancoveanu, as the opening move, I announced a cleanliness campaign, teaching them how to wash themselves. Then I forbade them to swear in my presence and, to my amazement, the kids stopped. I wanted to teach them to think before they open their mouth. I explained to them that if you are rich, you can swear and go everywhere, but if you are poor, you at least have to be well mannered, that way you will receive respect, and if you feel you are respected, you will behave better. I was hoping to start a virtuous circle.” A white female dog, a little unsteady on her feet, approaches Juliana and nuzzles her hand with its big pink nose, looking at her with eyes full of love. This
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is Jery, found in the trash when she was just a few days old, and raised by the people at Parada. The manhole kids look at Juliana the same way, and always call her Dna (Mrs.) Juliana. One night that she agreed to take me with her; I saw three boys quickly put away their bag of glue to hand her some flowers, stolen who knows where. She is calm and friendly. She embraces them, touches them, examines wounds, insect and mice bites, sprains; she sits down with them and listens to their stories, jokes with them, and dispenses advice. She never goes down into the heating ducts: “I want to bear witness that you can live in another way, that it is not right to live like them.” She never gives them money, but she goes with them to the pharmacy, distributes cigarettes, hot soup, and other food she brings on the Parada bus, bought with money donated by Enel Cuore, offered by the chefs of the Hilton and a group of philanthropic French ladies who cook every day for the copii strazii. Juliana Dobrescu has seen generations of street children grow up and grow old, destroyed by drugs, cold, fear, bad luck, and saved only a few times. “In 2000 I had a burnout, I could not take it anymore. For six months I stayed at home. I felt that nothing could really be done for the kids, I was afraid of hopelessly fighting against a system that rejects them and keeps them marginal.” Then the head of the copii strazii at the Uniri subway stop went to look for Juliana, respectfully asking to speak with her. “The Uniri group was the most numerous group, and they offered to hire me. They offered me a really high monthly salary, the highest of my life, provided that I work for them. They said they would sell copper, iron, aluminum, paper, and they would do any job just to pay me regularly. I was deeply touched, but I had suspicions about the real methods with which they would have procured the money for my famous salary. So I went back to Parada. And I’m still here.”
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Co contexts
Plutocrats’ life Very few and very rich plutocrats are holding the reins of the economic and political world. And they are the protagonists of philanthropic initiatives, especially in America. Where they come from, what is involved, and what their interests are has been told by many journalists, including Chrystia Freeland, in her book, Plutocrats, The Rise of the New Global Super Rich and the Fall of Everyone Else, which reveals their ethical and economic motivations. by Enrico Pedemonte
While the number of billionaires is increasing, social inequality in the world is exploding, the gap widening between the rich and the poor has become palpable, and there is the risk of violent social unrest; hence the appeal to billionaires to devote themselves to philanthropy
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As of July 2013, one hundred and thirteen billionaires had adhered to the “Giving Pledge” launched in 2010 by Microsoft founder Bill Gates and financier Warren Buffett, in second and fourth place, respectively, in the “Forbes” listing of the richest people in the world. One of the last to embrace the initiative was the nickel magnate Vladimir Potanin, the first Russian on Gates and Buffett’s list. A few months ago, Potanin promised to devote half of his wealth, which according to Bloomberg Billionaires Index amounts to 12.3 billion dollars, to philanthropy. After committing himself, Potanin invited Gates to seek to persuade other billionaires in the world, especially the Russian ones, to devote themselves to philanthropy. In fact, the map of the 113 super-rich engaged to date by Gates (for a total of nearly $200 billion) is very biased in favor of the United States, whereas in the world, Asia now leads the ranking with 608 billionaires, according to the Hurun Research Institute of Shanghai, against 440 in America and 324 in Europe. Potanin’s reasoning is simple: while the number of billionaires is increasing, social inequality in the world is exploding, the gap widening between the rich and the poor has become palpable, and there is the risk
of violent social unrest. And so Bill Gates travels the world and always recruits new followers to what seems to have become the new religion of this small army of the privileged. In her recent book (Plutocrats, The Rise of the New Global Super Rich and the Fall of Everyone Else, Penguin Books, 2012), Chrystia Freeland, a journalist for many years for the Financial Times and Reuters, writes that among the new masters of the economy “the most coveted status symbol is no longer, as it was until yesterday, a yacht, a racehorse, or honor, but a philanthropic foundation.” Freeland sometimes uses irony in describing the culture of the super-rich, 0.1% of the population, which in recent decades has been enriched beyond measure and today is a supranational super-class that meets in Davos, uses the same tax havens for (not) paying taxes, sends their children to the same universities, and is dedicated more and more often to humanitarian activities, especially in the United States. It must be said, not to seem naive, that philanthropy has always been an integral part of American culture. Just think of Alfred Nobel, who in 1895 financed the award that bears his name in order to be remembered not only as the inventor of dynamite; or Andrew Carnegie, champion of the robber barons at the turn of the last century, who donated much of his fortune to build hospitals, theaters, libraries, and universities. What inspired Nobel and Carnegie was a culture founded on deeply rooted anti-state sentiment, and they considered philanthropy a tool for community cohesion. With their donations, the rich of the past seemed to be telling the state not to meddle too much in social issues: the duty of the luckiest was to look after the weakest part of the community. The philanthropy of the 21st century has very different characteristics than the ones of the past. It is culturally dominated by high-tech billionaires, who have delighted in building new narra-
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tives on the revolutionary potential of technology for over thirty years, and are now focusing their spotlight on humanitarian activities. Bill Gates, the eloquent symbol of this generation, spent the Eighties and Nineties evangelizing to consumers on the positively subversive role of the PC and the Internet. Then, after the millennium, he made up his mind to redesign the world of charities by applying the strict rules of corporate organization and scientifically measuring the actual effects of any single investment so that not a penny is wasted. In her book, Chrystia Freeland convincingly explains that the new plutocrats (especially those who have amassed their fortunes in the competitive high tech environment) hold the belief (sometimes the presumption) that the world can be changed for the better on the strength of their ideas, maybe thanks to a simple algorithm. When they invest their money in philanthropic initiatives, the billionaires of the latest generation use the same methods they used in their businesses. And when there is a conference in their exclusive symposia, they discuss how to effect similarly fundamental changes in the governments, the structures of the States, in the world. When I was working in New York, I often found confirmation of the behavior, along with the generosity and arrogance, that characterizes the new high-tech and finance billionaires. When I asked what spurred them to donate a substantial part of their wealth to charity, they would all give the same answer: “In this country, anyone who has been lucky and refuses to give back to society part of what they have had in life, rightly becomes a social pariah.” This thinking, that Chrystia Freeland superbly describes in her book, stems from an anti-aristocratic and collective tradition that has its roots in American history. But it is not only the ethics that explain this behavior. Admission to the
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golden world of philanthropy has its advantages. If you scroll through the list of names on the boards of directors of major museums, charities, hospitals, universities, and all organizations based largely on donations (and very little on public funding), you will encounter the greatest names in American society. These institutions, entrance into which is permitted by signing checks with lots of zeros, give access to the most exclusive salons, where profitable networks of relationships are created and the foundations are laid for the development of new businesses. Years ago, Daniel Golden, a journalist for Bloomberg News, wrote an enlightening book (The Price of Admission, Crown Publishers, 2006) to describe the reasons that drive the new aristocracy to dole out fat donations to the most prestigious universities. These generous donors give dozens, often hundreds of millions of dollars, so that the doors of these elite universities will be opened to their children, ensuring their access to privileged relations that constitute an invisible but extraordinary asset for a lifetime. The academic elite, in fact, reserve a quota of places available to its munificent patrons. The system is engineered in such a way as to maximize the benefits for society and for business. Thanks to their donations, billionaires contribute to hospitals of excellence, elite universities, extraordinary museums, and extremely efficient charitable organizations. But this is only half of the story. In exchange, the new plutocrats obtain benefits for their children, creating safety nets and winning access to influential lobbies, thanks to which they can give their view of the world by making culture. It is the strength of numbers that gives them this power. Gates and Buffett alone, who have decided to invest 95% of their wealth in charitable activities, are contributing 115 billion dollars, a sum which equals the GDP of Angola.
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Id in-depth
the philanthropy’s net Today, philanthropy exists on various levels: large and small businesses now understand its importance in developing positive relationships with the community, while the web has made access, and the results, available to everyone. Giulia Marchiori, who advises international non-profit organizations, individuals, and businesses on philanthropic initiatives, tells Oxygen about the progress this sector has made. by Giulia Marchiori Grants advisory committee in New York
Trying to make a difference in the world is inarguably one of the most commendable endeavors a person can take on. It requires sacrifice, dedication, and prioritizing others’ well-being above one’s own. In my own career, I have long admired and looked to the examples set by visionaries like Aung San Suu Kyi or Desmond Tutu, who made difficult choices – and paid a high personal price – that have shifted the course of history. Aspiring to anything close to what these heroes have accomplished is daunting, but, luckily, the path of giving and altruism has become a much more accessible one. Non-profits continue to proliferate and grow, and societal stakeholders from around the world – from politicians to celebrities to Fortune 500 companies – are increasingly choosing to do good. When I decided to work in the non-profit sector, I chose to make giving back a priority for myself and for the organizations I was part of. However, my professional experiences have taught me that some simple guidelines can help anyone, regardless of sector or professional goals, contribute to a better world. It seems that everywhere we turn we face yet another global challenge, as unique and as important as the last: from our chang-
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ing climate to poverty, from disease to financial instability. While the world is vast, complicated, and increasingly interconnected, it is inhabited by pockets of individuals and communities who work to make things better. Each day, a farmer learns a new method of sustainable farming; a young girl seeks an education; and a new mobile phone technology delivers literacy programs to millions. These are small, individual miracles that collectively turn the tide toward a collective experience of a better world. There are also big miracles. We witness them on the floor of the UN General Assembly when a 16-year-old girl looks the world’s leaders, the global audience, and her attackers in the eye and affirms the power of education over violence. And when a 15-year-old boy discovers a promising early detection test for pancreatic cancer that is both affordable and noninvasive. Progress is all around us, all we have to do is realize it. The financial outlook is catching up, too. According to the annual Giving USA report released in June, charitable giving in the United States rose 3.5 percent to $316.23 billion in 2012, surpassing the record of $311 billion in 2007, before the financial crisis. Undoubtedly a lot remains to be done, but it is important to appreciate the progress that has been made. In the world of philanthropy, we are often confronted with disturbing examples of abuses that seem unstoppable. Yet solutions and hope can lie in existing programs that operate locally or in a different context altogether. We can work together to bring these stories to light and share them with the world. Through technology, social media, or word of mouth, we need to use any and all accessible channels to promote the work of innovative and effective programs. Get the word out. Stay positive. It is important to show the world what is working. While charitable giving has always been part of our social fabric, understanding how the culture of giving back has evolved is crucial. Monetary donations and
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other traditional forms of giving continue to grow but, more and more, giving means rolling up your sleeves and doing something. When many of us first heard about corporate social responsibility (CSR) over 10 years ago, it was in the context of crisis communications. Case studies showed how companies increased their charitable donations in relation to their PR strategies, and more so when something threatened their reputation. In the past ten years, CSR has come a long way, and both companies and foundations have found creative and meaningful ways to work together. Across all industries and in most countries, the world’s leading corporations and successful small businesses have made giving back a priority. In fact, it has been proven that a company’s commitment to transparent and healthy social and environmental practices, and positive community relations, play an important role not only in how it is perceived by the public but also in increasing employee job satisfaction, motivation, and overall happiness. “Doing business by doing good is the way of the future.” Nobody takes this slogan more seriously than “benefit corporations,” also known as “B Corps.” To prove their commitment to so-
cial good, these businesses are required to meet a rigorous set of social and environmental standards, while maintaining their for-profit goals. B Corps are growing, 760 of them from 27 countries and across 60 industries, according to the B Corp website, and there are more to come. Increasingly, the business community is committed to getting involved in programs that impact society in ways that also impact companies and the corporate ecosystem. For this, directing energy and funds to existing initiatives and seeking partnerships with reliable organizations or individuals on the ground are the keys to philanthropic success. There are incredible people all around us, and teaming up with them to catalyze change can only be an added strength. Whether someone is championing girls’ education, developing tools to support financial inclusion, or creating more efficient recycling practices, there are always opportunities to contribute and learn. Positive movements and stories of progress are everywhere – if you stop to look. They can be led by high-profile individuals such as former President Bill Clinton, an actor like Matt Damon, or an artist like Peter Gabriel; a person who inspires
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you in your everyday life; or Masignature annual gathering in lala, the young girl who stood Davos, bring together a comup for what she believed in. munity of leaders and visionarChangemakers are no longer ies who believe in collaborative in short supply, and organizapower. Furthermore, advances tions like Ashoka, the Skoll in technology have helped to Foundation, the Omidyar Netamplify efforts by making these work, the Schwab Foundation conversations and ideas accesfor Social Entrepreneurship, sible to wider audiences. There and Echoing Green focus their have never been more channels efforts on finding these agents to collaborate and contribute. of change scattered around the Online platforms, crowdfundworld, promoting their work, ing, digital movements, and and growing their ideas and campaigns continue to revolubusinesses. These philanthroptionize the world of giving. And ic networks prove that the more it is not about to stop now. we work together by matching local Monetary donations and expertise with toplevel support, the other traditional forms of closer we are to a giving continue to grow healthier, happier but, more and more, global commugiving means rolling up nity. What makes things easier, is your sleeves and doing that today’s world something of doing good has grown into a sophisticated, global network of “Helping” or “giving” can take companies, entrepreneurs, and countless forms, but the busiindividuals dedicated to makness of doing good is evolving ing impressive strides in movand proving that there are effecing the needle on critical issues. tive ways to multiply what works International forums like the and make a deeper impact. Clinton Global Initiative, where Looking to proven successes, members have made more adding to existing work rather than 2,300 commitments; than duplicating efforts, and TED, with over 1,500 inspiracollaborating through meaningtional and viral TedTalks; and ful partnerships make changing the World Economic Forum’s the world a goal within reach.
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Co contexts
Sustainable finance for mankind Finance, the protagonist of the global economic and social changes of the last twenty years, today seems to be the new frontier for the widely anticipated (and predicted) changes to our model of society. Basically, if finance will be able to impress upon itself the sustainable kind of evolution that other parts of the system have already begun to metabolize, it will act as a catalyst for its new development and that of the planet. But in order to do so, it will have to redesign its DNA. by Luca Testoni ETIcaNews.it director
While just a few years ago ethical finance was still mocked as something “that you do in church,” today those ethics are vigorously knocking at the door of the financial world. There is
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a desire for ethical investments; the problem is understanding what they are, how to handle them, how to make them, how to report them, and how to make them accessible. Therefore, it is necessary to brush up on the original role of banks: to be the link between the supply of resources otherwise immobilized and a demand for resources with development capacity. The thesis of this analysis is that today, finance needs philanthropy, understood as “love for mankind,” i.e., to put the goal of social growth back at the center of their work. And this is not a matter of a moralistic, valuebased approach, but of a chance for survival and business opportunities. Think of the crisis of the European Monetary Union, whose serious “oversights” in terms of real imbalances clearly remained in second place compared to the financial objectives which were well described in the recent essay by Luca Fantacci and Andrea Papetti, Europe’s debt with itself. Analysis and re-
form of European governance in the face of crisis. But “philanthropic” finance is, firstly, a key to survival and business at the micro level of ethical investment. The term “ethical investment” has the breadth of an Aristotelian category. With an extreme, analytically useful simplification, a distinction can be drawn here between a purely financial investment and a direct investment aimed at social impact. The first may be recognizable in the universe of ethical funds, or those products manufactured by the SGRs (asset management companies, usually found within the orbit of banking groups) whose shares can be bought. These funds are, in turn, invested in other securities (stocks or bonds) of issuers that meet a set of “responsible” or “sustainable” requirements (hence the financial term SRI, socially responsible investment or sustainable and responsible investment). SRI investments go beyond those made in ethical funds. The selfsame responsible stocks
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or bonds can be for direct purchase by individuals or other entities. Unprecedented data was presented in November 2012 by Eurosif in collaboration with Bank Sarasin, according to which, compared to two years ago, sustainable investments of HNWIs (high net worth individuals, or individuals with large estates) had increased by 60%, reaching staggering numbers: the money used in sustainable assets reached 1,150 billion euros. It is clear that there is a broad concept of sustainable investment in this “treasure,” but it is also clear that these figures indicate a general willingness to wager on sustainability. In fact, sustainable and responsible investment has begun to be a category of financial allocation that may allow for investments consistent with the principles of sustainability and that, in addition, appears to provide a return no smaller than that of other allocations not bound to responsibility. However, the problem of the SRI is that it has not yet become a cultural phenomenon, at least not as much as social mores seem to suggest. “The goal for businesses,” the sociologist Francesco Morace wrote in his recent book What is the future, “remains that of the profit to be made, but by setting their sights on the collective interest rather than on an individual one, applying the rules of cooperative capitalism, reconciling profit and socio-environmental values , allowing a redistribution of the wealth created, and imagining new business models that will accompany the new working models that people are spontaneously developing.” Take the example of Italy. With a simple search in databases specialized in funds, the adjective “ethical” leads to twenty mutual funds (managed by Etica SGR, Eurizon, Pioneer, Sella Gestioni SGR, Raiffeisen, and UBI Pramerica) and seven pension funds. This is a fairly meager list. However, by widening the search to include the UCITS (undertakings for collective investment) with the term “sustainability” – the term is not standardized by
any institution – you reach over 107 mutual funds and ten ETFs registered in iShares. Well, this is not the representation of a model but of chaos. The second type of ethical investment, for the use of direct social impact, is a universe that is even more varied than the previous one. It can be defined as the investment in support of activities, enterprises, or initiatives that place the goal of a social return alongside that of an economic return: this is the sphere of impact investing. With an analysis conducted in 2010 that made quite a stir, J.P. Morgan calculated that such investment with a social impact in the medium term would come to a value of one trillion dollars. Technically, today one of the tools that typifies this kind of initiative is the Anglo-Saxon social impact bond, i.e., bonds whose yield to the subscribers is linked to the social results achieved with the use of the money collected (for example, the degree of reduction of youth problems, the clinical improvements for certain categories of patients, the reintegration of ex-prisoners, or even modifications in traffic conditions). But the scope of impact investing is far more extensive than social bonds. For example, in Italy the precursor of investments with social impact is the Oltre Venture fund, which has already been very successful in micro-credit with Permicro, and in social housing. In these cases, there are no yields directly tied to the social results, but it is evident that it is the social activity which also allows for a financial return. It is interesting to note that two other Italian subjects of impact were created in the last year: the Uman Foundation and the Opes Fund. Impact investing leads to the even broader concept of social enterprises: real businesses whose mission is to act in areas that, in addition to economic sustainability, provide a concrete social return. In Italy, there is a law that indicates the scope of activities (law 155 of 2006), whose limitations include the non-distribution of profits. In re-
ality, social business has begun to be a concept that goes beyond the dichotomy between profit and non-profit organizations: just think that to overcome this opposition, in July the “New York Times” took the field by opening a debate with its readers. Moreover, a new type of company has come into being in the U.S., the Certified Benefit Corporation, legally registered as a company governed by the law of profit, but bound to specific statutory commitments of a collective nature. As of 2012, Italy, too, has its first B Corp., Nativa. According to some people, this world of social enterprise is the best representation of the economic model of the future. Italy can count on a business structure, on a territorial spirit, and on a social DNA that already historically includes an idea of social business. There are small businesses that are emerging (see the mission of companies like Equilibrium, D-Orbit, and Near) and financial players who are courageously in the game (in addition to the aforementioned Oltre Venture, just think of the gamble of Main Street Partners, made up of young Italians who were formerly bankers at Goldman Sachs, whose aim is to encourage “the combination of financial returns with a positive impact on society and the environment”). Still, a great patrimony remains hidden: according to Iris Network (the national network of the Institutes of Research on Social Enterprise), Italy has a single basin in terms of investment opportunities to impact, relying on some 100,000 hidden social enterprises, that is to say, those with a business and a mission that makes them socially useful. Where is finance on this front? It is clear that, in order to capitalize on these opportunities, the financial system must be reset in the direction of a model in which, as the economist Stefano Zamagni said, “the creation of value today returns to needing people, relationships, and meanings, as in the era of civil humanism. In the current season, value is produced by generating mean-
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ing with actions that, by not separating economic value and social value, form bonds.” It is through this injection of philanthropy that an integrated system can be created which allows finance to access and share the wealth of ethical investment. In this way, sustainable and responsible investment, which is chaotic today, will also become a means for taking advantage of the enormous development that the new socio-economic model could offer to a new finance.
It is necessary to brush up on the original role of banks: to be the link between the supply of resources otherwise immobilized and a demand for resources with development capacity
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In interview
The prize that makes the impossible possible Low cost space travel for everyone, environmentally-friendly cars, Smartphones as pocket doctors... So many projects and one goal: to push innovation forward to overcome the limits of the impossible. This is the aim of the founders of XPrize, an American non-profit organization founded on a dream of outer space. And which gives dream prizes to those who prove that they know how to change the world.
interview with Gregg Maryniak Co-founder of the XPrize by Daniela Mecenate
A great passion: the exploration of the cosmos. And one certainty: mankind can do it. This is the belief that led a group of American managers and scholars (but above all, fans of “impossible challenges”) to establish a rich cash prize for those who make the best and fastest use of the most prized weapon of the human race: their talent, and the thirst for new discoveries. So it was not exactly charity, and not even pure “philanthropy,” that drove Peter Diamandis and Gregg Maryniak to create the XPrize Foundation, a non-profit organization that aims to stimulate innovative breakthroughs: perhaps, above all, it was their curiosity. How much can human talent achieve when stimulated with a good incentive and if put into competition with other talented people? How far is it able to innovate, taking on seemingly impossible challenges? Thus, the many Xprize competitions came into being, dedicated to private individuals or non-governmental organizations that wish to aim for goals that many consider unattainable. The most famous one, stemming from
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the founders’ great passion for Space Studies, is the Ansari XPrize, the famous competition among several teams for the creation of a private spacecraft: the $10 million reward was awarded in 2004 to a non-govermental organization that was able to launch a manned spacecraft that is reusable – and therefore low cost – twice within a fortnight. And by 2015, the Google Lunar Xprize, a competition between private competitors – sponsored by Google – to send a robot to the moon, will have been awarded. It is not only about space exploration, though: over time, Xprize has turned its attention to other major objectives, from the human genome to portable medical devices, and from pollution-free oceans to environmentally-friendly cars. Here to explain it all to us is Gregg Maryniak, one of the founders of this organization that was founded in 1995 and developed with two big buzz words: innovation and competition. A very Made in the USA leitmotif for a project with a global scope. How did your Foundation come to be created? What is the “philosophy” that prompted you to bring it to life? To be able to give mankind access to material and virtually unlimited energy resources that surround our earth: Peter Diamandis and I have been engaged in this for a long time with various companies that deal with these challenges. But every time, we noticed that many very promising private “efforts” were frustrated by the almost universal belief that only governments, and only the richest governments, are able to send people into space or to carry out research activities in this area. We decided to change this belief by demonstrating that everyone can do something great, and we did it through a prize for the first manned spaceflight created and organized by private citizens. It all started with that.
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Spacecrafts, the human genome, eco-friendly cars... The fields of interest of your projects today are very different from each other, but two elements distinguish them all: innovation and competition. Why this choice? All of our awards have one goal: to inspire people facing great challenges that are considered impossible. Human beings are incredibly good at innovating, and they also do something else: they socialize, discussing with one another. We learn and we are motivated by looking at others: in this way, we communicate. Our contests offer a very powerful channel for this type of communication. The participants learn from the other teams and are highly motivated by the competition. Paradoxically, we have also noticed great cooperation in our contests among teams who help each other when the going gets tough. Anyone who has ever followed the Olympics or any sporting competition can
feel the energy of those being challenged and understand the way in which it is the competition that encourages the most difficult tasks, which otherwise would not have been attempted. According to some observers, every dollar invested in philanthropy has the potential to generate 12 more in terms of economic growth. Do you think that is realistic? What are the possible economic and social benefits for the community? We think that the economic benefit generated by what we call “effective philanthropy” is actually much higher. The concept of “effective philanthropy” is not new. Everyone has heard the old saying: “Give a man a fish and you feed him for a day, teach him to fish and you feed him for a lifetime.” In the United States, well-designed sweepstakes have demonstrated their ability to create entire new fields for a value of billions of dollars, compared
Our future efforts will be directed especially to the environment and could include the development of new energy storage systems in order to better exploit the abundant flow of energy from the sun
to an initial premium of $10 million. But there is an even greater benefit to society than the economic one. This additional advantage is time. Time is the only true raw material that is scarce in all of our lives: by massively encouraging research into parallel experimentation, an XPrize can cause unimaginable results to be obtained in a very short time. The Foundation was created in 1995, in a period of economic expansion. In these recent years of crisis, how has the propensity to participate in your initiatives and projects changed? Private donors have always tried to achieve the best results with their contributions, and governments seek the maximum benefit from their investment of public funds, too. So, in times of economic crisis, this search for “productivity” of the investment benefits is even more important. We have found that private organizations and gov-
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ernments are now even more attentive to the powerful leverage that an Xprize provides, because they seek to do more with fewer resources. A good example of this is the incentive award with which XPrize helps NASA. Based on the very research that we conducted in 2003 for NASA, the space agency has developed and launched the Centennial Challenges program, which has helped to generate innovation in many fields. What are the concrete results achieved so far and what are the next projects you are focusing on? There are many past and future projects. Among the former, there is the start of the revolution of private space travel (the Ansari XPrize) and the reusability of vertical takeoff and landing systems for rockets, which also allows for a large cost savings. Another result is to have demonstrated the feasibility of an ultra-efficient car, and also having studied systems that are three times more efficient at cleaning oil spills in the ocean. Through our contests, we are currently trying to expand the sphere of space exploration thanks to the initiative of individuals, especially lunar exploration (the Google Lunar Xprize), and we are trying to achieve results in supplying medical services through Smartphones. Our future efforts will be directed especially to the environment and could include the development of new energy storage systems in order to better exploit the abundant flow of energy from the sun, as well as aiming at the drastic reduction of the costs of monitoring the health of the oceans in the world, and the method to benefit from carbon dioxide, to date only considered a pollutant. In short, XPrize has many projects, and only one goal: to encourage innovators of all ages to truly change the world.
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Oxygen 2007/2013 Andrio Abero Giuseppe Accorinti Emiliano Alessandri Nerio Alessandri Zhores Alferov Enrico Alleva Colin Anderson Martin Angioni Ignacio A. Antoñanzas Paola Antonelli Marco Arcelli Antonio Badini Roberto Bagnoli Andrea Bajani Pablo Balbontin Philip Ball Alessandro Barbano Ugo Bardi Paolo Barelli Vincenzo Balzani Roberto Battiston Enrico Bellone Mikhail Belyaev Massimo Bergami Carlo Bernardini Tobias Bernhard Michael Bevan Piero Bevilacqua Ettore Bernabei Nick Bilton Andrew Blum Gilda Bojardi Aldo Bonomi Borja Prado Eulate Albino Claudio Bosio Stewart Brand Franco Bruni Luigino Bruni Giuseppe Bruzzaniti Massimiano Bucchi Pino Buongiorno Tania Cagnotto Michele Calcaterra Gian Paolo Calchi Novati Davide Canavesio Paola Capatano Maurizio Caprara Carlo Carraro Federico Casalegno Stefano Caserini Valerio Castronovo Ilaria Catastini Marco Cattaneo Pier Luigi Celli Silvia Ceriani Marco Ciurcina Corrado Clini Co+Life/Stine Norden & Søren Rud Elena Comelli Ashley Cooper Paolo Costa
Manlio F. Coviello George Coyne Paul Crutzen Brunello Cucinelli Vittorio Da Rold Partha Dasgupta Marta Dassù Andrea De Benedetti Mario De Caro Giulio De Leo Gabriele Del Grande Michele De Lucchi Ron Dembo Gennaro De Michele Andrea Di Benedetto Gianluca Diegoli Dario Di Vico Fabrizio Dragosei Peter Droege Freeman Dyson Magdalena Echeverría Daniel Egnéus John Elkington Richard Ernst Daniel Esty Monica Fabris Carlo Falciola Alessandro Farruggia Antonio Ferrari Francesco Ferrari Paolo Ferrari Paolo Ferri Tim Flach Danielle Fong Stephen Frink Antonio Galdo Attilio Geroni Enrico Giovannini Marcos Gonzàlez Julia Goumen Aldo Grasso Silvio Greco David Gross Sergei Guriev Julia Guther Søren Hermansen Thomas P. Hughes Jeffrey Inaba Christian Kaiser Sergei A. Karaganov George Kell Parag Khanna Sir David King Mervyn E. King Tom Kington Houda Ben Jannet Allal Hans Jurgen Köch Charles Landry David Lane Karel Lannoo Manuela Lehnus Johan Lehrer
Giovanni Lelli François Lenoir Jean Marc Lévy-Leblond Ignazio Licata Armin Linke Giuseppe Longo Arturo Lorenzoni L. Hunter Lovins Mindy Lubber Remo Lucchi Riccardo Luna Tommaso Maccararo Paolo Magri Kishore Mahbubani Giovanni Malagò Renato Mannheimer Vittorio Marchis Carlo Marroni Peter Marsh Jeremy M. Martin Paolo Martinello Massimiliano Mascolo Mark Maslin Ian McEwan John McNeill Daniela Mecenate Lorena Medel Joel Meyerowitz Stefano Micelli Paddy Mills Giovanni Minoli Marcella Miriello Antonio Moccaldi Renata Molho Maurizio Molinari Carmen Monforte Patrick Moore Luca Morena Javier Moreno Luis Alberto Moreno Leonardo Morlino Richard A. Muller Teresina Muñoz-Nájar Giorgio Napolitano Edoardo Nesi Ugo Nespolo Vanni Nisticò Nicola Nosengo Helga Nowotny Alexander Ochs Robert Oerter Alberto Oliverio Sheila Olmstead Vanessa Orco James Osborne Rajendra K. Pachauri Mario Pagliaro Francesco Paresce Vittorio Emanuele Parsi Claudio Pasqualetto Corrado Passera Alberto Pastore
Federica Pellegrini Gerardo Pelosi Shimon Peres Ignacio J. Pérez-Arriaga Matteo Pericoli Emanuele Perugini Carlo Petrini Telmo Pievani Tommaso Pincio Michelangelo Pistoletto Viviana Poletti Giovanni Porzio Ludovico Pratesi Stefania Prestigiacomo Giovanni Previdi Antonio Preziosi Filippo Preziosi Vladimir Putin Alberto Quadrio Curzio Marco Rainò Federico Rampini Jorgen Randers Carlo Ratti Henri Revol Gabriele Riccardi Marco Ricotti Gianni Riotta Sergio Risaliti Roberto Rizzo Kevin Roberts Lew Robertson Kim Stanley Robinson Alexis Rosenfeld John Ross Marina Rossi Bunker Roy Jeffrey D. Sachs Paul Saffo Gerge Saliba Juan Manuel Santos Giulio Sapelli Tomàs Saraceno Saskia Sassen Antonella Scott Lucia Sgueglia Steven Shapin Clay Shirky Konstantin Simonov Uberto Siola Francesco Sisci Craig N. Smith Giuseppe Soda Antonio Sofi Giorgio Squinzi Leena Srivastava Francesco Starace Robert Stavins Bruce Sterling Antonio Tajani Nassim Taleb Stephen Tindale Viktor Terentiev
Chicco Testa Wim Thomas Nathalie Tocci Jacopo Tondelli Chiara Tonelli Mario Tozzi Dmitri Trenin Licia Troisi Ilaria Turba Luis Alberto Urrea Andrea Vaccari Paolo Valentino Marco Valsania Nick Veasey Matteo Vegetti Viktor Vekselberg Jules Verne Umberto Veronesi Marta Vincenzi Alessandra Viola Mathis Wackernagel Gabrielle Walker Elin Williams Changhua Wu Kandeh K. Yumkella Anna Zafesova Antonio Zanardi Landi Edoardo Zanchini Carl Zimmer
Testata registrata presso il tribunale di Torino Autorizzazione n. 76 del 16 luglio 2007 Iscrizione al Roc n. 16116
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charity
un nuovo modello di sviluppo Lo sviluppo sta prendendo altre vie. Oggi che la crescita economica non si può scindere da quella sociale, il Terzo settore sta diventando sempre più rilevante nel panorama globale, sia in termini di peso istituzionale sia come traino degli altri settori. Per capire come questo sia successo e quali siano le enormi potenzialità che in esso si celano, Oxygen analizza l’evoluzione della filantropia mondiale, da teorizzato “amore per l’uomo” a macchina di sviluppo, innovazione, investimenti. Con case histories, riflessioni di chi nelle charities lavora ogni giorno o che può lavorare grazie ad esse, dati alla mano e progetti concreti, il numero racconta come l’attenzione sociale possa diventare sviluppo per tutti: umano, sociale, ambientale ed economico.
Oxygen nasce da un’idea di Enel, per raccontare la continua evoluzione del mondo