comitato scientifico Enrico Alleva (presidente) Giulio Ballio Roberto Cingolani Paolo Andrea Colombo Fulvio Conti Derrick De Kerckhove Niles Eldredge Paola Girdinio Helga Nowotny Telmo Pievani Francesco Profumo Carlo Rizzuto Robert Stavins Umberto Veronesi
art direction e progetto grafico undesign ricerca iconografica e photoediting white distribuzione esclusiva per l’Italia Messaggerie Libri spa t 800 804 900 promozione Istituto Geografico DeAgostini spa
direttore responsabile Gianluca Comin direttore editoriale Vittorio Bo coordinamento editoriale Pino Buongiorno Luca Di Nardo Giorgio Gianotto Paolo Iammatteo Dina Zanieri managing editor Stefano Milano
rivista trimestrale edita da Codice Edizioni
redazione Cecilia Toso collaboratori Simone Arcagni Davide Coero Borga Cristina Gallotti Vera Mantengoli Luca Salvioli Donato Speroni traduzioni Monica Belmondo Susanna Bourlot Laura Culver Gail McDowell
via Giuseppe Pomba 17 10123 Torino t +39 011 19700579 oxygen@codiceedizioni.it www.codiceedizioni.it/ oxygen www.enel.com/oxygen
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sommario
MEDITERRANEO Luogo d’incontro fra culture, religioni, società, il Mediterraneo è territorio ricco e complesso, da sempre strategico per la comunicazione fra Europa, Africa e Medio Oriente. Oggi le primavere arabe, il bisogno crescente di risorse energetiche e le nuove possibilità di comunicazione impongono una nuova forza all’area, che diventa centrale negli equilibri geopolitici mondiali. Da che cosa sia composta la “ricchezza” del Mediterraneo lo racconta l’attualità, con l’imporsi di nuove esigenze sociali, e così anche le economie in espansione, la politica in cambiamento e la cultura in fermento. Questo numero di Oxygen racconta un territorio in crescita, con enormi potenzialità che possono trovare la loro espressione solo se fra i Paesi del Mediterraneo, così diversi fra loro, s’instaurerà un duraturo ponte di comunicazione e collaborazione.
10˜ editoriale Un’Europa più mediterranea di Antonio Tajani
12˜ scenari Le nuove rotte della governance mediterranea di Nathalie Tocci Il Mediterraneo governato dall’Occidente, come l’abbiamo conosciuto dalla fine della Guerra Fredda, sta scomparendo. Altri Paesi si affacciano sulla scena globale, nuove economie emergono, ordini politici e sociali alternativi stanno plasmando la regione. Una visione sul futuro di una governance in evoluzione.
18˜ contesti L’eredità delle primavere arabe di Gian Paolo Calchi Novati I movimenti che hanno dato origine all’acclamata Primavera araba hanno creato aspettative non indifferenti in Occidente, fra preoccupazioni rivolte ai partiti islamici e massima attenzione alle prime elezioni libere. Ma il cambiamento nel mondo arabo-islamico non è mosso solo da questioni religiose e culturali, bensì da nuove e inderogabili esigenze sociali.
22˜ contesti Lo sguardo di Italia e Spagna sul Mediterraneo di Javier Moreno e Alessandro Barbano
× Un mare al centro del nuovo mondo ×
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Solo 15 chilometri di acqua separano la Spagna dal Nord Africa; sono solo circa 70 quelli che scorrono tra Pantelleria e la Tunisia. Spagna e Italia così vicine all’Africa eppure così poco “mediterranee”. Entrambe dimostrano infatti ancora molta reticenza a fare parte di un’area oggi estremamente strategica per l’economia europea. L’opinione di due illustri direttori di quotidiani.
28˜ opinioni
46˜ opinioni
Un’ondata di opportunità di Emiliano Alessandri
Il futuro dell’energia tra “mari” e “monti” di Wim Thomas
Le crisi gemelle dell’Eurozona e della Primavera araba si sono intersecate. La stagnazione economica europea ha ridotto le prospettive di crescita dei Paesi arabi e l’instabilità politica e sociale dovuta alle rivoluzioni crea tensioni nella vicina Europa. Ma queste difficoltà possono portare una ventata di cambiamenti positivi.
34˜ intervista a franco bassanini Investimenti per abbattere i confini di Paolo Valentino InfraMed, il fondo di investimento equity per il sud e l’est del Mediterraneo, è uno strumento operativo di vitale importanza per l’Europa, dal punto di vista economico e politico. Ma per concretizzare al meglio le sue potenzialità c’è bisogno che l’Unione prenda atto della valenza strategica di questa regione.
38˜ focus Al centro del mondo di Donato Speroni
40˜ contesti Infrastrutture che aprono orizzonti di Andrea De Benedetti I Paesi del Mediterraneo comunicano per mare, per terra, attraverso i gasdotti e con le “autostrade informatiche”. O almeno potrebbero. Sulle vie di comunicazione del bacino c’è molto da migliorare affinché il Mare Nostrum non appaia piuttosto come uno stagno.
44˜ passepartout Un mare di strade
Wim Thomas, Chief Energy Advisor della Shell, in questo articolo per Oxygen cerca di esplorare il futuro, così che quando arriverà non ci sia completamente ignoto. E per gli scenari energetici ci attendono due strade: la vittoria del gas, la vittoria del solare.
52˜ approfondimento È tempo di rinnovare di Houda Ben Jannet Allal Nel panorama di cambiamenti, crisi politica ed economica, si inserisce, nei Paesi a sud e a est del Mediterraneo, la necessità di promuovere misure di risparmio energetico e piani che sviluppino le energie rinnovabili. Se fino ad ora la biomassa, il solare termico e l’idrico erano stati i più utilizzati, ora sono il solare fotovoltaico e l’eolico che si fanno spazio.
56˜ contesti La via del gas di Marco Arcelli Le relazioni passate e future tra i Paesi del Nord Africa e l’Europa si basano sul gas, risorsa preziosa che rischia però di vedere crollare la sua domanda. La crisi europea, la crescita delle rinnovabili e l’evoluzione dei mercati globali mettono alla prova la posizione di leadership nell’esportazione di gas del Nord Africa. Vediamo quali sono le strategie da attuare.
60˜ speciale enel foundation L’energia mette in rete Europa e Africa di Vera Mantengoli Un bacino energetico strategico, che possiede fonti continue e discontinue, che ospita il 7% della popolazione mondiale, che fa da corridoio per i mercati energetici globali. Il Mediterraneo è un luogo dove creare importanti relazioni. Le visioni di El-Salmawy, Boutarfa e Adam Brown da un convegno sul tema organizzato da Enel Foundation.
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64˜ contesti
78˜ focus
Make the desert bloom di Luca Salvioli
Croazia: Europa a 28 di Mara Gergolet
In Israele, università, incubatori e finanziamenti alla tecnologia danno forza alle start-up e consentono il loro sviluppo in tutto il mondo. Le risorse energetiche sono l’obiettivo della maggior parte delle aziende israeliane che si sono fatte strada all’estero, in particolare grazie alla gestione idrica, di cui il Paese è leader mondiale. Un deserto verde con industria ed energia come fiori all’occhiello.
Troppo tardi per qualcuno, in un momento sbagliato per altri, la Croazia è diventata il ventottesimo stato dell’Unione Europea. Ma il Paese che molti credono essere l’ennesimo territorio problematico per la stabilità dell’Unione, potrebbe invece rivelarsi una risorsa e un buon interlocutore per i Balcani.
68˜ future tech Le bussole della navigazione moderna di Cecilia Toso
70˜ approfondimento Oltre Erdogan per tornare a crescere di Pino Buongiorno Il tramonto politico di Erdogan, in seguito alle rivolte di piazza Taksim, è un segnale del forte cambiamento della società turca, composta da giovani e donne consapevoli della propria vitalità. Perché la Turchia possa uscire dalla crisi registrando un’ulteriore crescita sarà cruciale la comprensione di questa nuova forza da parte del partito islamico.
74˜ contesti Rinascita ellenica? di Antonio Ferrari Protagonista dei più grandi timori europei negli ultimi anni, la Grecia sta vivendo un timido ma parziale rilancio economico. Nonostante una disoccupazione altissima e stipendi ridotti all’osso, la repubblica ellenica vede rinascere il turismo, la speculazione finanziaria che gira a suo favore e il riallacciare di importanti rapporti internazionali.
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80˜ contesti Il lungo autunno libico di Gerardo Pelosi Quella che segue la scomparsa di Gheddafi è per la Libia una lunga stagione di transizione e di ricostruzione di ruoli, nella quale stanno cercando di emergere le comunità locali, i diversi partiti ma anche le pericolose milizie. Una fase che può finire con successo se la comunità internazionale e soprattutto i principali partner commerciali della Libia offriranno il loro supporto.
84˜ contesti La monarchia illuminata del Marocco di Giovanni Porzio Diritti umani, trasporti, infrastrutture, riforme costituzionali e salute sono al centro delle riforme del giovane sovrano del Marocco: misure attuate per tempo che hanno scongiurato la primavera rivoluzionaria nel Paese. Condizioni diverse, anche se non ottime, che raccontano l’altra faccia del mondo arabo.
88˜ scenari Africa: il prossimo miracolo economico? di Vittorio Da Rold Nonostante l’instabilità politica, le sommosse di piazza e la diminuzione degli scambi commerciali con l’estero, il Continente africano sta uscendo dal lungo letargo. Tra Paesi più avanzati e altri meno, il Fondo Monetario Internazionale disegna un quadro generale di crescita, che interessa cinesi, americani ed europei.
94˜ approfondimento
114˜ contesti
Quanta scienza al di là del mare di Davide Coero Borga
Il potere semplice della dieta mediterranea di Gabriele Riccardi
Basiamo la nostra conoscenza sul sistema di numerazione arabo, ma spesso ignoriamo la vera importanza che questa parte di mondo ha ricoperto in alcune delle rivelazioni che hanno plasmato la scienza: dalla prova del nove alla rifrazione della luce, dall’astronomia alla medicina. Una storia di scoperte e innovazioni che abbiamo ereditato e, in alcuni casi, fatto nostre.
Quelle che per molto tempo sono state le abitudini dietetiche dei popoli mediterranei risultano oggi essere le più coerenti con le linee guida nutrizionali prodotte da istituzioni e ricercatori scientifici.
100˜ scenari Un’identità, tante identità di Matteo Vegetti
118˜ approfondimento Pesca: risorsa rinnovabile del Mare Nostrum di Silvio Greco
Tradizionalmente metafora dello spazio pubblico, il Mediterraneo riunisce sulle sue sponde un pluralismo culturale, politico ed economico che spesso si è cercato di unificare. Nonostante i tanti tentativi e le proposte per creare unità, la questione resta tutt’oggi aperta.
Parlare di pesca nel Mediterraneo significa considerare molteplici aspetti, dal confronto tra i Paesi comunitari e non ai cambiamenti in atto in Nord Africa, sino alla varietà di regolamentazioni, flotte e tecniche. Ma alla base di queste valutazioni non deve mancare la consapevolezza che il mare è una risorsa esauribile e di tutti.
106˜ contesti
122˜ contesti
Incontri o conflitti? La parola agli artisti di Ludovico Pratesi
Il mondo arabo aperto a tutti di Simone Arcagni
Documentare evoluzioni, cambiamenti, rivoluzioni attraverso l’arte contemporanea. È il compito che si sono date le nuove generazioni degli artisti del Mediterraneo, riprendendo folle in delirio, riflettendo sulle rovine, sull’immigrazione, sul rapporto fra le diverse religioni presenti in questo territorio di incontro. Una passione in crescita, grazie alle tecnologie e a un punto di vista nuovo per esplorare l’attualità mediterranea.
Le recenti proteste nei Paesi arabi hanno determinato l’affermazione dei social network come creatori di community attive, in grado di sensibilizzare i media e superare le barriere dell’informazione, diventando un luogo di interesse anche dal punto di vista artistico.
110˜ approfondimento Un suono di sponda di Paolo Ferrari La vocazione melodica che accomuna le musiche mediterranee dà luogo a contaminazioni e rimandi che compongono un universo sonoro che dialoga attraverso le sponde del mare. Artisti, festival e correnti di oggi in un viaggio musicale attraverso tre continenti.
126˜ la scienza dal giocattolaio Ingegneria di un castello di sabbia di Davide Coero Borga
129˜ english version
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il nostro viaggio nell’energia continua.
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Siamo pronti a condividere ancora milioni di attimi inSieme. enel.com
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01˜ Emiliano
02˜ Houda Ben
03˜ Marco
04˜ Alessandro
05˜ Franco
Alessandri
Jannet Allal
Arcelli
Barbano
Bassanini
È senior transatlantic fellow presso il German Marshall Fund a Washington D.C, per il quale ha investigato in particolare sul Mediterraneo. Attualmente fa parte del board dell’Istituto Affari Internazionali (IAI) di Roma.
Dal 2013 è direttrice generale dell’Osservatorio mediterraneo dell’energia (OME) dov’è stata capo del Dipartimento energie rinnovabili. È stata consulente presso la Commissione Europea per lo sviluppo sostenibile.
Direttore della divisione Upstream Gas del Gruppo Enel, è responsabile per gli investimenti nella produzione di gas. È stato assistente al CEO del gruppo, presidente e amministratore delegato di Enel North America Inc.
Giornalista e professore, è direttore del quotidiano Il Mattino. È stato vicedirettore del Messaggero e del Nuovo quotidiano di Puglia. È autore, insieme a Vincenzu Sassu, del libro Manuale di giornalismo (Laterza, 2012).
Professore di diritto costituzionale, è stato membro del Parlamento italiano dal 1979 al 2006, anche come ministro. È presidente della Cassa Depositi e Prestiti, della Fondazione ASTRID e dell’Investment Board del Fondo Inframed.
008
06˜ Gian Paolo
07˜ Andrea
08˜ Vittorio
09˜ Antonio
10˜ Paolo
Calchi Novati
De Benedetti
Da Rold
Ferrari
Ferrari
Professore di Storia e istituzioni dei Paesi afro-asiatici all’università di Pavia, è stato direttore dell’Istituto IPALMO e direttore della rivista Politica Internazionale. Dal 2009 è senior research fellow all’ISPI.
Giornalista, insegnante, saggista e traduttore. Scrive di sport, società e cultura per GQ, Il Manifesto, Guerin Sportivo. È co-autore, con Luca Rastello, di Binario Morto (Chiarelettere, 2013), reportage sul corridoio 5 Lisbona-Kiev.
Giornalista, è corrispondete del Sole 24 Ore, si è occupato di molti Paesi e di diversi tipi di transizione: Polonia, Francia, i problemi dell’euro. Ha seguito le elezioni presidenziali in Iran del 2009 e le crisi greca e slovena.
Editorialista del Corriere della Sera, ne è stato inviato speciale in Italia, poi all’estero, nel Medio Oriente e nei Balcani del Sud. È autore di diversi libri, tra i quali Sami, una storia libanese e Islam sì, Islam no.
Critico musicale, scrive per La Stampa, Torino Sette, Rumore e Il Manifesto. È stato autore e conduttore, tra gli altri, di Planet Rock, Stereo Notte, Suoni e Ultrasuoni e Boogie Nights per Radio Rai2.
11˜ Mara
12˜ Silvio
13˜ Javier
14˜ Gerardo
15˜ Giovanni
Gergolet
Greco
Moreno
Pelosi
Porzio
Giornalista, dalla guerra del Kosovo del 1999 è al quotidiano Il Corriere della Sera, dove si è occupata di Balcani, Europa dell’Est e del conflitto israelo-palestinese. Attualmente lavora al desk degli Esteri a Milano.
Biologo marino, ha partecipato a campagne di ricerca in Antartide. È stato docente presso la Federico II di Napoli e insegna all’Università di Scienza Gastronomiche di Pollenzo. È presidente del Comitato scientifico di Slow Fish.
Direttore di “El País” dal 2006, ha cominciato dalla redazione economica per poi essere il caporedattore della versione messicana. È stato corrispondente da Berlino e si è occupato della famosa edizione domenicale.
Inviato del Sole 24 Ore per la politica e l’economia internazionale, ha lavorato al Gazzettino e all’Agenzia Italia, e come capo ufficio stampa del Ministero del Commercio estero. È coautore del libro Dopo Gheddafi.
Reporter, da più di trent’anni è inviato di Panorama, occupandosi dei maggiori conflitti dell’attualità in Africa, Medio Oriente, Asia, Europa, Sudamerica. Tra gli altri, ha ricevuto il Max David Prize per il suo lavoro in Afghanistan.
16˜ Ludovico
17˜ Gabriele
18˜ Antonio
19˜ Wim
20˜ Nathalie
Pratesi
Riccardi
Tajani
Thomas
Tocci
È curatore e critico d’arte per Repubblica. È Direttore artistico del Centro arti visive Pescheria di Pesaro e della Fondazione Guastalla per l’arte contemporanea. Il suo ultimo libro è New Italian Art. L’arte italiana delle ultime generazioni.
È medico nutrizionista e professore di endocrinologia e malattie del metabolismo alla Federico II di Napoli dov’è anche presidente del corso di laurea magistrale in Nutrizione umana. È membro dell’advisory board del BCFN.
Dal 2010 è vicepresidente della Commissione europea e commissario responsabile di Industria e imprenditoria. Dal 2008 al 2010 è stato vicepresidente della Commissione europea e commissario ai Trasporti. Ha lavorato per Il Giornale, Il settimanale e condotto radio Rai1.
È chief energy advisor di Shell ed è a capo degli analisti che si occupano di studiare lo scenario energetico mondiale per Shell. È membro, per il Regno Unito, del World Petroleum Council e consulente del World Energy Council.
È vicedirettore dell’Istituto Affari Internazionali, direttrice dell’Area UE e vicinato dello IAI ed editor della rivista The International Spectator. Si occupa di politica estera europea di vicinato. Nel 2008 le è stato assegnato il premio Anna Lindh.
21˜ Paolo
22˜ Matteo
Valentino
Vegetti
Inviato-editorialista di politica estera al Corriere della Sera, è stato corrispondente da Bruxelles, Mosca, Berlino e Washington. È l’unico giornalista italiano ad aver intervistato il Presidente Barack Obama nello Studio Ovale.
Dottore in filosofia, insegna Estetica al Politecnico di Milano e Cultura del territorio all’Accademia di architettura di Mendrisio. È autore di La fine della storia, Hegel e i confini dell’Occidente, Filosofie della metropoli.
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Ed
editoriale
Un’Europa più mediterranea di Antonio Tajani Vicepresidente della Commissione Europea
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l Mediterraneo è sempre stato un’area d’importanza capitale per gli equilibri e gli scambi a livello mondiale: culla dell’Occidente attraverso le civiltà greca e latina, ma allo stesso tempo dell’Oriente e dell’espansione delle sue civiltà; crocevia di religioni, di diverse rotte commerciali che conducevano già molto tempo fa in Africa, in Asia (la Via della seta) o ancora verso l’Oceano Indiano attraverso il canale di Suez. Senza dimenticare i navigatori partiti dal Mediterraneo per scoprire “il Nuovo Mondo”… Questa regione, di una ricchezza culturale ed economica immensa, non può che essere di importanza essenziale. Come italiano, non posso ovviamente restare indifferente al destino di questa regione. In qualità di Vicepresidente della
Commissione Europea responsabile della politica imprenditoriale e industriale, il Mediterraneo è una regione con la quale ho voluto rinforzare i rapporti e la cooperazione. Senza dubbio dei legami già forti univano l’Unione Europea al Mediterraneo attraverso la politica europea di vicinato, e già prima del mio arrivo avevamo una politica di cooperazione industriale euro-mediterranea. La regione è in continua evoluzione, cambiamento. Con la Primavera araba, sono i sistemi politici di questi Paesi e le loro priorità economiche a essere ridefiniti. Questi cambiamenti sono ancora in corso e per questo penso che l’Europa debba essere più presente che mai e rispondere alle richieste dei nostri partner mediterranei.
Se ci dimostriamo amici nei momenti difficili, saremo in grado di costruire forti relazioni con loro. Se riusciremo a far evolvere la partnership nella giusta direzione, i nostri partner mediterranei saranno, spero, riconoscenti nei confronti dell’Europa. Questo è il motivo per cui, oltre alla nostra esistente cooperazione industriale, ho voluto ancora fare dei progressi. Mentre l’Europa stessa attraversa una crisi senza precedenti e mentre profondi cambiamenti scuotono ancora i nostri partner, è sbocciata l’idea di organizzare missioni economiche europee nel Mediterraneo. L’obiettivo è rivitalizzare i legami commerciali bilaterali per sviluppare la crescita sulle due sponde del mare Mediterraneo. Nel 2012, queste idee si sono concretizzate, con mia grande gioia, e si sono svolte missioni economiche, chiamate “Missioni per la crescita” in tre Paesi del Nord Africa: in Egitto nel maggio 2012, in Marocco e in Tunisia nel novembre 2012. Queste missioni riuniscono imprenditori europei di alto livello provenienti da piccole, medie e grandi imprese, nonché rappresentanti di organizzazioni attive nello sviluppo del business internazionale. L’obiettivo è di aprire a queste delegazioni di imprenditori le porte del mondo dei decisori politici. Soprattutto nel Mediterraneo, è importante che imprenditori, politici e decisori di alto rango (ministri) siano in grado di comunicare tra di loro attorno allo stesso tavolo. Partnership e investimenti nascono sia attraverso contatti commerciali, ma anche con il sostegno e le garanzie offerte dai politici di questi Paesi. In Europa, il successo di queste missioni è stato immediato e siamo stati in grado di mettere insieme un gran numero di delegazioni di imprenditori che cercano di espandere la loro attività nel Mediterraneo. Tra i nostri omologhi egiziani, marocchini e tunisini, il messaggio è stato accolto molto positivamente e da parte loro si sono create grandi attese al fine di proseguire con lo stesso slancio le nostre missioni per la crescita. Per esempio, con i tunisini abbiamo istituito un Consiglio UE-Tunisia per l’imprenditorialità che sarà responsabile della conduzione della missione di monitoraggio e degli accordi firmati con i partner in settori quali le piccole e medie imprese, le materie prime, il turismo, la normalizzazione o la cooperazione nel settore spaziale. La mia visione per i prossimi anni sarà di mantenere il ritmo di queste missioni
economiche europee per la crescita su entrambe le sponde del Mediterraneo. L’organizzazione di altre missioni nei Paesi del Mediterraneo è presa in considerazione mentre è stata appena svolta una missione in Russia e un’altra è prevista molto presto in Cina. Inoltre, al di là dei numerosi piani di azione già firmati tra l’UE ei suoi partner mediterranei, i servizi della Commissione Europea hanno anche avviato negoziati per arrivare ad accordi di libero scambio tra l’UE e il Marocco e la Tunisia. Spero inoltre che le discussioni in stadio molto avanzato con la Giordania e l’Egitto sfocino molto presto in negoziati simili. Poco a poco, un grande mercato Paneuropeo mediterraneo sarà creato e messo in funzione gradualmente. Un mercato che comprenderà l’UE, l’EFTA, i Balcani occidentali, la Turchia e i Paesi del Mediterraneo. Credo che il programma per la crescita dell’Unione Europea sia fondamentale per ridare la capacità all’industria europea di accedere a nuovi mercati e, al contempo, di rinnovare e innovare per adattarsi alle nuove realtà di un mondo sempre più globale e in mutazione. Queste missioni per la crescita, questi accordi di libero scambio o la graduale attuazione del futuro grande mercato “Paneuromediterraneo” rientrano chiaramente in questa agenda per la crescita, alla quale accordo la più alta delle priorità. L’obiettivo non è soltanto di rimettere l’Europa sulla strada della prosperità, ma anche di stabilizzare l’ambiente economico nel suo vicinato e sviluppare forti relazioni con i nostri partner per avvicinarci ulteriormente. Non dimentichiamo che il commercio e gli scambi sin dai tempi antichi, sono stati il modo migliore per far incontrare i popoli nel Mediterraneo. Abbiamo bisogno di riportare il commercio al centro del dibattito e favorire al massimo gli imprenditori desiderosi di lanciarsi sulla scena internazionale, perché sono loro che costituiranno nuovi legami sociali e ritireranno su le nostre economie. Questa è d’altronde un’altra sfida che vogliamo raccogliere attraverso l’iniziativa “Internazionalizzazione delle PMI”. Oggi viviamo in un mondo globale e interconnesso, le strutture politiche e decisionali devono adattarsi per andare incontro alle aspirazioni dei loro popoli al fine di portare più benessere e democrazia al più grande numero di persone.
Mentre l’Europa attraversa una crisi senza precedenti è sbocciata l’idea di organizzare missioni economiche europee nel Mediterraneo
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scenari
le nuove rotte della governance mediterranea articolo di Nathalie Tocci Vicedirettore dell'Istituto Affari Internazionali
Il Mediterraneo governato dall’Occidente, come l’abbiamo conosciuto dalla fine della Guerra Fredda, sta scomparendo. Altri Paesi si affacciano sulla scena globale, nuove economie emergono, ordini politici e sociali alternativi stanno plasmando la regione. Una visione sul futuro di una governance in evoluzione.
Il ruolo egemonico dell’America nella regione sta forse giungendo lentamente alla fine e lo stesso si può dire dell’Europa
Il Mediterraneo e il Medio Oriente stanno vivendo una profonda trasformazione. Se oggi è impossibile decifrare con chiarezza il punto d’arrivo della regione nel suo travagliato cammino verso il XXI secolo, è senz’altro più definito il punto di partenza che si sta lasciando irrevocabilmente alle spalle. Detto senza mezzi termini però, il proverbiale “Occidente” ha guidato il Mediterraneo e il Medio Oriente del XX secolo. Col crollo dell’Impero Ottomano all’alba del secolo scorso, salivano al comando le potenze occidentali, che con l’accordo Sykes-Picot stabilirono dall’esterno – e artificialmente – la situazione della regione. Dopo la Seconda guerra mondiale, quando il colonialismo europeo entrò in declino, il timone passò agli Stati Uniti, in competizione con l’Unione Sovietica nell’emergente architettura globale della Guerra Fredda. Nel 1978, con il primo accordo di Camp David venne riaffermata la leadership occidentale, e in particolare quella americana. La regione era divisa politicamente in due fazioni, quella “moderata” (cioè filo-occidentale) e quella radicale o
di resistenza (cioè anti-occidentale), e di solito la prima aveva la meglio sulla seconda. Quando la Guerra Fredda giunse alla fine, il coinvolgimento americano nella regione si intensificò, soprattutto con le due guerre irachene e con un forte investimento nel processo di pace in Medio Oriente. Il Medio Oriente che ho appena descritto sta scomparendo. A livello nazionale e regionale il Mediterraneo e il Medio Oriente sono chiusi nella stretta di quella che è stata chiamata ottimisticamente la Primavera araba. Più palesemente, le insurrezioni arabe hanno portato a un cambio di regime in tre Paesi – Tunisia, Egitto e Libia – due dei quali erano stati fedeli alleati degli Stati Uniti e il terzo – la Libia di Gheddafi – in rapido riavvicinamento all’Occidente. Ma la trasformazione è molto più profonda e riguarda tutta la regione, da La Mecca a Marrakech. È un processo alimentato da grandi mutamenti economici, sociali e tecnologici, che conferisce importanza all’azione del singolo, mobilitatosi alla ricerca di un maggior empowerment; allo
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stesso tempo è anche un processo in cui identità collettive – e settarie – vengono (ri)svegliate. L’azione individuale e le affiliazioni collettive a loro volta rappresentano una sfida formidabile al sistema dello Stato. Per molti versi, può essere vista come una corsa contro il tempo. Lo “stato” ha avuto un vantaggio iniziale, essendo dotato di istituzioni che continuavano ad assicurare un monopolio weberiano sull’uso della forza. Nel medio-lungo periodo però l’empowerment individuale e le dinamiche collettive possono avere la meglio. Alcuni stati resisteranno più a lungo, come le monarchie del Golfo, l’Iran e il Marocco, mentre altri, come la Siria, stanno crollando sotto i nostri occhi. Tuttavia è bene non sottovalutare il rischio che il Medio Oriente sia travolto da forze centrifughe, in grado di mettere in discussione il sistema dello Stato e le alleanze che ha stretto negli ultimi decenni. In questo sistema regionale in divenire, l’Occidente si sta gradualmente ritirando. L’eufemistico appello di Barack Obama per una leadership from behind in Libia forse non è tecnicamente corretto – è difficile immaginare come la NATO avrebbe potuto rovesciare il regime di Gheddafi, spingendosi ben più in là del suo man-
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dato per l’istituzione di una no-fly zone, se gli Stati Uniti non avessero occupato il posto di comando insieme alla Francia e la Gran Bretagna. Ma dal punto di vista politico l’appello di Obama rivela l’intenzione americana di ridurre gradualmente la sua presenza nella regione, soprattutto nel Nord Africa ma anche nel Medio Oriente in generale. A questo va aggiunto il graduale declino della dipendenza americana dal petrolio del Golfo, grazie alla “shale revolution”. Tutto ciò non implica comunque un totale ritiro americano dal Medio Oriente – Iran e Israele continueranno a far preoccupare Washington per gli anni a venire. Piuttosto, significa che il ruolo egemonico dell’America nella regione sta forse giungendo lentamente alla fine. Lo stesso si può dire dell’Europa: in retrospettiva, gli anni d’oro dell'UE nel Mediterraneo sono quelli del Processo di Barcellona (1995), quando la promessa di pace portata dagli Accordi di Oslo del 1993 si inseriva in una cornice multilaterale. In quel più ampio contesto internazionale, contraddistinto dalla fine della Guerra Fredda e dall’egemonia americana nella regione, l’UE si faceva avanti per supportare una patria comune euro-mediterranea. Oggi, con gli accordi di Oslo ormai tramontati e nessun processo di
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La trasformazione è profonda: è un processo alimentato da grandi mutamenti economici, sociali e tecnologici, che conferisce importanza all’azione del singolo, mobilitatosi alla ricerca di un maggior empowerment
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pace a sostituirli, con la regione in subbuglio e l’UE impantanata nella sua più profonda crisi esistenziale, anche l’influenza europea sulla regione è in calo. L’egemonia occidentale nel Mediterraneo non verrà sostituita, in tempi brevi, da altri poteri esterni. Nonostante tutto il dibattito sul declino dell’Occidente e l’ascesa del “resto del mondo”, i BRICS (Brasile, Russia, India e Sudafrica) non stanno facendo un ingresso trionfale in Medio Oriente. Certo, la loro presenza è sempre più avvertita. I legami economici cinesi e indiani con il Nord Africa e il Medio Oriente si stanno rafforzando. Inoltre, dati i bassi prezzi dell’energia nell’Europa stretta dalla crisi e la sete di energia delle economie emergenti, i flussi energetici si stanno spostando verso est. Anche le dinamiche della sicurezza sono sempre più influenzate dai Paesi emergenti. Il mandato Responsibility to Protect (R2P) del Consiglio di Sicurezza dell’ONU in Libia è stato possibile grazie al sostegno o l’astensione dei BRICS. Al contrario, un intervento militare in Siria è escluso – per il momento – a causa della forte opposizione dei russi e dei cinesi (e naturalmente della riluttanza americana). Ma sebbene i BRICS abbia-
È bene non sottovalutare il rischio che il Medio Oriente sia travolto da forze centrifughe, in grado di mettere in discussione il sistema dello Stato e le alleanze che ha stretto negli ultimi decenni 016
no un ruolo maggiore nella regione, ci vorrà del tempo prima che rimpiazzino l’egemonia dell’Occidente. Dunque chi sarà al comando del Mediterraneo? In definitiva, la risposta è che gli attori regionali saranno sempre più artefici del proprio destino, perlomeno nell’immediato futuro. La crescente influenza della Turchia, dell’Iran e del Consiglio di Cooperazione del Golfo (soprattutto Qatar e Arabia Saudita) è evidente a tutti. Questi Paesi sono sempre più attori “nel” e non solo “del” Mediterraneo e Medio Oriente. Ma sarebbe un errore guardare l’evoluzione della regione solo attraverso questo prisma westfaliano. Come detto all’inizio, è in atto una trasformazione profonda, che dà origine a un ricco assortimento di attori non-statali, sub-regionali e transnazionali, le cui azioni e interazioni avranno sempre più peso nel Mediterraneo e nel Medio Oriente di domani. Il quadro che sta emergendo è molto più confuso del Medio Oriente in bianco e nero del “con noi o contro di noi” che abbiamo conosciuto per anni. Eppure faremmo bene a comprenderlo in fretta, se non vogliamo che il declino della nostra influenza si aggravi ulteriormente.
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L’eredità delle primavere arabe articolo di Gian Paolo Calchi Novati Professore di Storia e istituzioni dei Paesi afro-asiatici
I movimenti che hanno dato origine all’acclamata Primavera araba hanno creato aspettative non indifferenti in Occidente, fra preoccupazioni rivolte ai partiti islamici e massima attenzione alle prime elezioni libere. Ma il cambiamento nel mondo arabo-islamico non è mosso solo da questioni religiose e culturali, bensì da nuove e inderogabili esigenze sociali.
In molti hanno creduto di vedere nelle primavere arabe la riedizione, aggiornata, di eventi che risalgono alla storia del Vecchio continente: il 1789 della Bastiglia, il 1848 dei moti liberal-nazionali in numerosi Stati europei, il 1989 della dissoluzione dell’“impero” sovietico. Forse, un ultimo scotto pagato all’eurocentrismo. Altri hanno puntato di più l’attenzione sul “locale”, ma abusando nell’interpretazione del cliché orientalista già bollato da Edward Said con la vis polemica che lo caratterizzava. La cultura e la religione (e la filologia per l’analisi) non sono i soli fattori ad aver rilevanza per il mondo arabo-islamico. Nella fattispecie i temi che sono emersi da uno sconvolgimento destinato a segnare uno spartiacque fra il “prima” e il “dopo” sono, in estrema sintesi: la posizione delle classi e la collocazione degli individui nella società, con riferimento al grado di scolarizzazione, all’occupazione, alle disparità fra città e campagna (l’appartenenza religiosa conta, ma è segnata da attraversamenti e sovrapposizioni ed è sempre a rischio di strumentalizzazioni pro o contro); il contesto regionale, che ha contribuito variamente a susci-
tare le crisi e che poi ha influito sugli esiti e sul conseguente assestamento (ancora in corso); il riassetto del rapporto fra Nord e Sud, che per l’occasione ha restituito al Mediterraneo una centralità che era andata in parte perduta con lo spostamento del focus delle tensioni verso la massa continentale eurasiatica. Se di una “terza ondata” si è trattato, dopo le transizioni alla democrazia in America Latina e in Europa meridionale negli anni Settanta e nell’Europa centroorientale alla fine degli anni Ottanta, la priorità spetta pur sempre alle vicende proprie del Nord Africa con le specificità dei singoli stati. Ed è qui che irrompe sulla scena la componente islamica: non solo la lettura dei fatti ma il loro stesso svolgimento dovrà dire se l’Islam è la soluzione o il problema. Le primavere arabe sono state la riscossa di società apparentemente ferme malgrado un accelerato incremento demografico (con il “sorpasso” di giovani e giovanissimi sugli adulti) e un continuo allargamento degli accessi all’istruzione e ai mezzi tecnologici della comunicazione. Le rivolte per la libertà e la giustizia hanno avuto come protagonisti quanti per classe d’e-
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tà, formazione professionale e aspettativa di crescita sociale si sentivano in credito verso un sistema di potere obsoleto e repressivo. Quello che in Tunisia e in Egitto si risolveva in “mugugno” è emerso allo scoperto. Le manifestazioni e i tumulti nelle città maggiori, sostanzialmente senza ricorso alla violenza da parte dei dimostranti, hanno rappresentato bene questa esplosione di rabbia e di speranza. Fra le tante “diversità” della Libia non è secondario il fatto che in Libia non esista nessun luogo fisico o metaforico paragonabile a piazza Tahrir del Cairo. La protesta contro il regime di Gheddafi, per di più, è partita da Derna e Bengasi, ed è stato facile scambiarla o far finta di scambiarla per le solite fobie semi-secessioniste della provincia orientale, che, dopo la caduta di Idris, sovrano di Libia ma in effetti emiro di Cirenaica, si considera discriminata. Quando l’esercito a Tunisi e al Cairo mostrò di volersi dissociare dai presidenti, ormai indifendibili, il cambiamento ebbe via libera. Aveva vinto la coalizione impropria fra i giovani e le forze armate. In passato, i regimi avevano resistito con una certa facilità alla protesta sociale in ambiente rurale o nelle fabbriche. Questa volta però la contestazione riguardava non la condizione economica bensì l’esercizio del potere. Verosimilmente, la fuoriuscita di Ben Ali e Mubarak, dopo un’impasse iniziale, era stata autorizzata e probabilmente incoraggiata da Stati Uniti e Francia. In Egitto e Tunisia l’esercito – e prima ancora lo Stato – sono abbastanza forti da garantire una tenuta delle istituzioni anche in concomitanza con un simile sconquasso. Di nuovo, la Libia faceva eccezione. Gheddafi non era abbastanza “dipendente” da una grande potenza (in teoria sarebbe spettato all’Italia) da essere obbligato a cedere senza combattere e, d’altra parte, in Libia non c’era, neppure con Gheddafi, un esercito “nazionale”. La saldatura fra Tripolitania e Cirenaica è sempre stata precaria. Non è un caso che dopo il collasso dei regimi, l’esercito sia più che mai presente (sia pure sullo sfondo) in Tunisia ed Egitto mentre in Libia spadroneggino le milizie su base clanica o settaria. I movimenti islamici non avevano figurato in prima fila nei primi giorni della rivolta. Quando entrarono in campo però vi portarono la loro maggiore organizzazione. E quando la transizione imboccò la strada delle verifiche elettorali, la Fratellanza musulmana si impose sia in Tunisia sia in Egitto grazie al suo insediamento, alle benemerenze acquisite con la lunga opposizione ai regimi in carica e all’opera delle charities islamiche. Maxime Rodinson aveva previsto nel lontano 2004 che in tutti i 020
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Paesi arabi le prime elezioni libere sarebbero state vinte dai partiti islamici: una vittoria più difficile da replicare nelle volte successive. Per questo i pessimisti temono che lo slogan “One man one vote” possa diventare “One man one vote one time”. I partiti islamisti hanno avuto fin troppo potere e troppe responsabilità. Dovevano, tutt’insieme, riformare lo Stato con una nuova Costituzione, riavviare lo sviluppo, soddisfare la voglia di promozione sociale e uguaglianza. Al di là degli errori commessi, i governi – monocolore islamico al Cairo, di coalizione tripartita a Tunisi – hanno incontrato due ostacoli formidabili: da un lato, la vulnerabilità alle istanze secolarizzanti, liberali o radicali, dei ceti più progrediti (in Egitto si parla di un’opposizione “cairocentrica”), incapaci di imporsi nelle urne ma determinanti per le funzioni che esercitano nelle città e nei livelli alti della società (i voti si contano, ma ancora di più si pesano) e, dall’altro, la tendenza di tutte le opposizioni a indulgere in quella che Olivier Roy chiama la “cultura della protesta”, collaborando poco o niente con il governo perché in attesa, non si sa quanto consapevolmente, piuttosto del suo fallimento. I partiti islamisti hanno una rappresentanza trasversale, con punte sia in alto sia in basso. Un aforisma recita: «per i ricchi c’è la caserma, per i poveri c’è la moschea». Non dispongono di nessuna ricetta miracolosa per risolvere le debolezze dei Paesi a capitalismo dipendente. In Tunisia più che in Egitto gli islamisti hanno una vocazione dirigista, ma nel complesso ci si deve aspettare una politica di mercato per favorire gli investimenti e gli aiuti. Le istituzioni finanziarie internazionali hanno posto condizioni per i prestiti che per esempio Morsi ha esitato ad accettare per non penalizzare troppo i poveri e gli abitanti delle città. Gli aiuti del Qatar sembrano arrivare senza troppi gravami, anche se veicolano una pressione orientata all’islamizzazione delle società. Gli sviluppi del Nord Africa hanno segnato altri punti a favore del blocco sunnita nella contesa fra le due correnti dell’Islam ormai vicina a un punto di rottura (anche per effetto della guerra in Siria). Le attese, più o meno disinteressate, dell’Occidente per i processi di democratizzazione devono adattarsi allo spirito di movimenti, di piazza o di palazzo, che aspirano a riappropriarsi della propria autonomia e dei valori tradizionali. In questa prospettiva, le primavere arabe appaiono un po’ una seconda decolonizzazione e un po’ una contro-decolonizzazione, perché muovono più dal basso che dall’alto. Sarebbe fuori luogo, comunque, pretendere in questi Paesi una sacralizzazione della laicità a imitazione di una modernità di cui neppure l’Occidente è più tanto sicuro.
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Le Primavere arabe appaiono un po’ una seconda decolonizzazione e un po’ una controdecolonizzazione, perché muovono più dal basso che dall’alto 021
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contesti
Lo sguardo di Spagna e Italia sul Mediterraneo
Solo 15 chilometri di acqua separano la Spagna dal Nord Africa; sono solo circa 70 quelli che scorrono tra Pantelleria e la Tunisia. Spagna e Italia così vicine all’Africa eppure così poco “mediterranee”. Entrambe dimostrano infatti ancora molta reticenza a fare parte di un’area oggi estremamente strategica per l’economia europea. L’opinione di due illustri direttori di quotidiani, Javier Moreno del País, Alessandro Barbano del Mattino.
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Le sorde orecchie dell’Europa articolo di Javier Moreno Direttore di El PaĂs
La mancanza di una vera e univoca strategia nei confronti del Mediterraneo caratterizza pesantemente la nostra attualitĂ e i nostri timori. Spagna ed Europa, impegnate da altri problemi che rendono fallimentare il loro apporto sul fronte mediterraneo, sono incapaci di prevedere, ascoltare e intervenire.
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È difficile farsi un’idea concreta della strategia spagnola per il Mediterraneo. E lo è ancora di più capire in modo chiaro se la Spagna abbia una qualsiasi strategia sul Mediterraneo, area la cui importanza si manifesta in modo tanto evidente che non vale la pena dilungarsi in ragionamenti. Basta citare gli argomenti più elevati – come la pace o la prosperità condivisa – e quelli più pragmatici, tra cui vanno annoverati, senza dubbio, la sicurezza energetica, l’immigrazione irregolare e la minaccia del terrorismo islamico. Tengo per me il fatto che l’affermazione precedente susciterebbe un’energica protesta da parte di qualsiasi funzionario della diplomazia spagnola, e persino europea, i quali porterebbero a testimonianza del proprio operato una lista interminabile di programmi, organismi, riunioni e conferenze che negli ultimi vent’anni si sono occupati, facendo ricorso a titoli ogni volta più altisonanti, di quella che col tempo è stata chiamata la strategia mediterranea nell’Unione Europea. Nessuno di questi, presi individualmente o nel loro insieme, sono serviti per individuare, prevenire e ancor meno attenuare il principale avvenimento degli ultimi anni: lo scoppio della Primavera araba e la frammentazione politica, l’instabilità e l’esplosione dell’islamismo politico che ne sono conseguiti. Non deve però sembrarci strano. La Spagna e, con lei, i principali Paesi europei del Mediterraneo – come l’Italia, ma anche la Francia – sono intrappolati da anni in una spirale che sta risucchiando la parte “ricca” della costa: la crisi europea, l’accelerazione della globalizzazione con conseguente perdita di potere, ricchezza e benessere, e lo spostamento del centro di gravità verso l’Asia. La Spagna ha inoltre un’appendice iberoamericana di cui occuparsi e della quale, ultimamente, non si è curata come dovrebbe. Quando la Spagna accumula compiti di politica estera i suoi funzionari corrono a proteggersi in
Europa, e solo in questo caso la soluzione europea si rivela quella corretta (non lo è nel caso dell’America Latina, dove la vocazione spagnola deve essere più profonda di quella europea). Non sono poche le volte in cui questi Paesi hanno creduto che la costruzione di un sistema europeo di politica estera permettesse di articolare e sviluppare un programma congiunto per il Mediterraneo; ebbene, ciò non ha funzionato – o non ha ancora funzionato – e abbiamo potuto notare come ogni Paese europeo abbia preso una posizione diversa a seconda del problema affrontato di volta in volta, dall’intervento militare in Libia all’ammissione della Palestina all’UNESCO, per citare solo qualche caso. Ma ancora, la “costa ricca” del Mediterraneo non sembra avere, ad eccezione delle dichiarazioni di buone intenzioni a uso e consumo quotidiano delle anime benpensanti, un piano per assicurare un futuro congiunto, proprio e della costa meno abbiente, così da stimolare e sostenere la crescita economica, la riduzione della disuguaglianza, l’approfondimento della democrazia e la difesa dei diritti umani e delle libertà. In cambio l’Europa potrebbe ottenere sicurezza di rifornimenti energetici, un controllo più razionale dei flussi migratori e una lotta unita e impegnata contro la minaccia terroristica islamica. La Spagna (e l’Europa) ha cercato per anni di ottenere questi vantaggi senza impegnarsi e investire in questi sforzi. Il fallimento è davanti agli occhi di tutti, e il suo arrivo non aveva mancato di farsi prevedere. Ma da questa parte della costa non si è mai voluto dare ascolto agli avvertimenti che intellettuali e politici hanno rivolto alle sorde orecchie dell’Europa. Come dice il proverbio cinese, ci sono due buoni momenti per piantare un albero: 30 anni fa e oggi stesso. Per fare tutto questo c’è bisogno di volontà politica, intelligenza, costanza e, senza dubbio, risorse economiche. Però è lì, temo, che le strategie falliscono sempre. 025
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La chance dell’integrazione articolo di Alessandro Barbano Direttore del Mattino
La crescita economica, l’emancipazione conseguente alla Primavera araba, la vicinanza tra l’Italia e il Nord Africa, sono elementi che contribuiscono a fare del Mediterraneo un’occasione. Ma perché l’Italia si possa presentare preparata a questo appuntamento storico, serve una soluzione politica alla sfida dell’integrazione. Affinché il Paese trovi il modo di rendersi adeguato all’accoglienza proteggendo la propria identità e superando i timori.
C’è una questione pregiudiziale che rischia di trasformare il rapporto con il Mediterraneo in un’eterna incompiuta. Essa riguarda la mancanza di un modello di integrazione. Più grave dopo un ventennio di politiche di segno diverso ma ugualmente inconcludenti che hanno fatto dell’Italia un Paese tanto permeabile quanto inadeguato all’accoglienza. Con l’effetto oggi di avere sul territorio nazionale una popolazione immigrata che supera i 4 milioni di persone e della quale una percentuale variabile tra il 15 e il 20% vive in condizioni di clandestinità. Due numeri fotografano la nostra incompiutezza. Il 44% dei figli degli immigrati lascia la scuola prima della scadenza prevista dalla legge, gonfiando l’area della dispersione e il potenziale bacino di reclutamento della malavita organizzata. Allo stesso tempo, le imprese controllate dagli immigrati sono quasi 500.000 e rappresentano ormai il 7,4% dell’intero patrimonio aziendale del Paese, con punte vicine al 20% in regioni come la Lombardia. C’è un’immigrazione che possiamo assorbire e che è portatrice di ricchezza, e c’è un’immigrazione che può peggiorare la delicata coesione sociale del Paese. Favorire la prima, an026
corandola a una piena cittadinanza fatta di diritti e di doveri, e reprimere la seconda, con l’uso della legalità interna e di relazioni internazionali, significa avere un’idea di buon governo dell’immigrazione. Finora è accaduto il contrario. Ma l’urgenza di superare questo stallo nelle politiche dell’immigrazione cresce insieme alla rilevanza strategica dell’area mediterranea: l’emancipazione democratica avviata con la Primavera araba ha liberalizzato il mercato e il rilancio delle energie rinnovabili insieme all’economia marina hanno implementato le prospettive di differenziazione economica di Paesi prima considerati mere riserve di idrocarburi. Nonostante i persistenti disordini rivoluzionari e le incertezze politiche che gravano ancora su realtà centrali come Egitto e Tunisia, gli scambi sono quasi tutti in crescita. L’Italia, che svolge il ruolo di corridoio tra Europa e Nord Africa, si conferma il primo partner commerciale dell’area Med, facendo registrare nel 2012 un interscambio pari a 57,7 miliardi di euro (superiore ai 56,6 miliardi della Germania ed i 46,8 miliardi della Francia). E le previsioni per il 2014 parlano di un incremento del 50% entro il 2014 (per un totale di 74 miliardi).
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Ciononostante non saranno la diplomazia, per altro in ombra nell’ultimo decennio, gli interessi energetici ed economici, la contiguità culturale tra l’Italia e i Paesi del Nord Africa a fare del Mediterraneo un’occasione, se l’incontro tra le diverse popolazioni e culture che abitano le due sponde di questo grande mare avverrà senza regole e per dura necessità della storia, così come è accaduto finora. La recente visita del Papa a Lampedusa ha portato alla luce questa contraddizione politica e civile, chiamando il governo e i partiti a farsene carico. L’idea che il rapporto dell’Italia con l’immigrazione possa oggi risolversi nella cosiddetta Bossi-Fini, la legge che dal 2002 regola l’accesso degli stranieri nel nostro Paese, equivale a una rimozione del problema. Eppure nessun esecutivo e nessuna forza politica han assunto la costruzione di un modello di integrazione come l’asse fondante di una politica di governo. Nel frattempo la società si attrezza con i mezzi di cui dispone. Il Mezzogiorno, da bacino di approdo e di transito è diventato punto di arrivo e laboratorio di nuove società: la struttura urbanistica e sociale delle città e dei piccoli centri del Sud ha favorito un’integrazione naturale fondata su uno schema pluralista, che in primo luogo ammette e tollera l’alterità, tanto da accettare la coesistenza di più culture all’interno di una medesima società. E che nel contempo, però, attiva processi di inclusione progressiva dei diversi gruppi etnici, che peraltro possono conservare i propri mores e i propri costumi, a condizione che non contraddicano o compromettano i valori generali che tengono unita l’intera società. Tuttavia, la mancanza di una cornice legislativa in grado di riconoscere e garantire diritti e doveri fa sì che il rapporto di forze impari tra ospite e ospitante produca un equilibrio sociale non sempre soddisfacente: così accade che gli immigrati abbiano rimpiazzato gli italiani nei lavori più umili nell’industria e nell’agricoltura, andando a occupare sacche di sommerso in cui la tutela dei diritti più elementare risulta compromessa. Nelle popolazioni immigrate cresce la frustrazione provocata dallo squilibrio tra la cultura che definisce le mete e la società costituita dalla distribuzione effettiva delle opportunità. Gli immigrati di seconda generazione fanno propri gli obiettivi del Paese in cui sono nati senza avere, però, le chances per raggiungerli. Il divario crescente in Occidente nella distribuzione della ricchezza renderà più drammatica questa discriminazione? È pensabile un’integrazione che prescinda da una maggiore giustizia sociale? Questi due quesiti toccano il cuore del problema che il messaggio del Pontefice ha posto all’attenzione dell’Europa. Dove nel frattempo il concetto di identità è andato ridefinendosi sulla scorta di due fattori concomitanti e tuttavia diversi per caratteristiche e genesi, che modificano il quadro sociale e cognitivo su cui si fondano le comunità occidentali e allo stesso tempo interagiscono tra loro, ovvero il crescere dei flussi migratori verso l’Europa e i
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processi di frantumazione delle antiche appartenenze proprie della cultura occidentale da cui deriva la crisi dello Stato e dei corpi intermedi. Entro il 2025 gli immigrati africani del Vecchio Continente saranno diverse decine di milioni. La natura di questa emigrazione è del tutto inedita nella storia umana, per lo meno in simili proporzioni. Non si tratta di un’emigrazione soltanto da domanda, causata da fattori di attrazione e dalla capacità di assorbimento del mercato del lavoro europeo, come quella che portò tra la fine dell’Ottocento e la metà del Novecento milioni di italiani ed europei in America. Si tratta invece anche di un’emigrazione da offerta, provocata da fattori di spinta presenti nei Paesi di provenienza. Non sono perciò del tutto in equilibrio le condizioni di reciproco vantaggio su cui s’instaura lo scambio migratorio. La storia delle società moderne degli ultimi due secoli è scritta nella contrapposizione tra un modello di identità civile di derivazione illuministica, fondato sull’appartenenza a valori condivisi, e un altro di derivazione romantica, fondato sulla nascita e su una presunta identità etnicamente attribuibile all’individuo. Poi, dalla fine del secolo scorso l’identità in Occidente ha iniziato a essere percepita non più come data una volta per tutte, ma come la costruzione di un’intera esistenza. In quanto fondata su molteplici appartenenze, alcune legate a una storia etnica e altre no, alcune legate a una tradizione religiosa e altre no, essa è sempre più la risultante delle relazioni di socializzazione diretta tra gli individui e tra gli individui e le istituzioni. Nel decennio appena trascorso, nel clima di paura per un conflitto di civiltà seguito alla strage delle Torri gemelle, l’Occidente ha iniziato a interrogarsi sul limite della tolleranza quale esercizio di virtù civile, varcato il quale il rispetto per le culture alternative è parso calpestare quello per la persona umana. Scongiurato poi, o forse solo allontanato lo spettro dello scontro di civiltà, resta in piedi oggi la difficoltà di trovare una misura tra necessità dell’integrazione e tolleranza degli integralismi che essa può comportare. È una sfida che ha di fronte l’Europa e che tocca il nucleo dell’identità. In ogni Paese la popolazione è attraversata da una somma di diaspore. Gli attori del meticciato sono eredi e portatori di tradizioni molto radicate e talvolta radicali. In che modo il Vecchio continente si relazionerà con esse? Metterà tra parentesi la propria identità in nome di alcuni principi di libertà universali e astratti? Ma una neutralità indifferente ai valori lo trasformerà in un non luogo abitato da enclavi in costante sospetto l’una con l’altra? Un modello di integrazione chiaro, proiettato nel futuro demografico e sociale dell’Italia che sarà, dovrà utilizzare la leva della cittadinanza scegliendo, tra le coordinate dello ius sanguinis e dello ius soli, il punto di incontro di due civiltà. È una sfida irrinunciabile. Che si gioca sul Mediterraneo. Com’è già accaduto più volte nel corso dei secoli. 027
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opinioni
Un’ondata di opportunità articolo di Emiliano Alessandri Consulente dell’Istituto Affari Internazionali
Le crisi gemelle dell’Eurozona e della Primavera araba si sono intersecate. La stagnazione economica europea ha ridotto le prospettive di crescita dei Paesi arabi e l’instabilità politica e sociale dovuta alle rivoluzioni crea tensioni nella vicina Europa. Ma queste difficoltà possono portare una ventata di cambiamenti positivi, soprattutto se si riconoscerà la potenza della strategia della condivisione e dello scambio delle risorse. E il fallimento della frammentazione mediterranea.
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Definito per tradizione la culla delle civiltà antiche o, in alternativa, il confine che separa il Nord dal Sud del mondo, negli ultimi anni il bacino del Mediterraneo sembra somigliare più a un vortice capace di mettere in ginocchio le società che lo circondano. Col loro impatto negativo sull’Europa mediterranea e sul Mediterraneo arabo, la crisi dell’Eurozona e quella seguita alla Primavera araba rischiano di far sprofondare l’intera regione in una grave instabilità. Se le società arabe, dopo le rivolte del 2011-2012, si sono imbarcate in transizioni politiche incerte e affrontano terribili sfide economiche – i tassi di crescita del 3,6% previsti per il MENA (la regione formata da Medio Oriente e Nord Africa) potranno difficilmente contenere livelli di disoccupazione già molto alti – i membri meridionali dell’Unione Europea hanno provato sulla loro pelle quanto la deflagrazione di squilibri economici minacci di invertire decenni di “europeizzazione”. Le crisi gemelle dell’Eurozona e della Primavera araba si sono intersecate. La stagnazione economica europea ha depresso le prospettive di crescita dei vicini arabi, per via del calo della domanda. Le difficili transizioni nel mondo arabo possono creare stati falliti a pochi passi dall’Europa. Non solo i turisti europei esitano a trascorrere le loro vacanze sulle spiagge del Nord Africa, ma gli immigrati arabi in Europa vengono visti sempre di più come una presenza invadente dalla sottoccupata forza lavoro locale. Le recenti proteste di massa in Turchia – fino ad allora dipinta come la nuova potenza economica della regione o la “Cina del Mediterraneo” – hanno completato l’arco della crisi orientale, aggiungendo un nuovo elemento di fluidità in una sotto-regione che già ne aveva in abbondanza, per via della guerra civile siriana. Di fatto, le manifestazioni di scontento popolare sono alla base degli sviluppi avvenuti in tutta la regione del Mediterraneo, dagli Indignados in Spagna ai movimenti giovanili nel mondo arabo, fino alle recenti agitazioni in Turchia, che sembrano collegare la richiesta di giustizia sociale e di sviluppo sostenibile al timore di un ritorno delle tendenze autoritarie nel Paese. Anche se è impossibile negare la “crisi mediterranea” oggi in atto, le difficoltà
odierne non sono per forza sinonimo di rovina. Certo, le prospettive della regione sono cupe, ma non è detto che questa difficile situazione sia l’anticamera di un inesorabile declino. Nelle avversità non mancano mai le opportunità, e il futuro della regione dipende dalla capacità delle sue società di ridurre al minimo le prime e, nel contempo, identificare correttamente le seconde. In quest’ottica, l’attuale fluidità del Mediterraneo può essere l’altra faccia di quel dinamismo senza cui pare impossibile uscire dalla crisi. In effetti, molta della recente instabilità è dovuta a processi che andranno gestiti. Nel Mediterraneo meridionale il mutamento sociale verso una maggiore modernità (uno dei tanti segnali è il rapido calo dei tassi di fertilità tra le donne arabe: il numero medio di figli è sceso da sette nel 1960 a tre nel 2006) non ha trovato la cultura politica e le istituzioni necessarie a incanalare le sue energie verso esiti desiderabili. Nell’Europa mediterranea, invece, società invecchiate e in larga parte stagnanti hanno abusato o distorto gli incentivi istituzionali che derivano dall’appartenere a un club di nazioni sviluppate come l’Unione Europea. Dato che il Mediterraneo meridionale avrà bisogno di istituzioni più forti a tutti i livelli – da governi più rappresentativi a una migliore governance economica (nel 2012 la regione del MENA ha speso più di 200 miliardi di dollari in sussidi alimentari ed energetici, la metà del totale mondiale) – e l’Europa mediterranea avrà bisogno di società più giovani e dinamiche, nella regione possono svilupparsi rapporti di complementarità. La questione è quindi se gli indispensabili processi di riforma nel Nord e nel Sud possano essere sincronizzati con efficacia o se le tensioni sub-regionali avranno effetti esclusivamente negativi, acuendo una divisione che già esiste in termini di sviluppo socioeconomico e di pregiudizi sulla religione e la cultura. Per contrastare pattern demografici sfavorevoli, e con un impatto negativo, sulla crescita, e le finanze pubbliche, i Paesi come l’Italia potrebbero trovare una risorsa nel mondo arabo, dove la popolazione è prevalentemente giovane. Ma dato che oggi i giovani dell’Europa meridionale sono in larga parte disoccupati e stanno combattendo la loro battaglia contro le generazioni
anziane, la gioventù del Mediterraneo potrebbe uscirne ancora più spaccata. Inoltre, anche se il numero di immigrati dalle società arabe destabilizzate non è aumentato radicalmente dopo la Primavera araba, nell’attuale contesto di austerità l’opinione pubblica europea sembra ancora più insofferente verso l’immigrazione. I politici locali continuano ad agitare lo spettro di una “invasione araba dell’Europa”. Le soluzioni però non mancherebbero. I programmi di formazione sponsorizzati dall’UE e adattati alle esigenze locali potrebbero contribuire allo sviluppo delle società arabe, creando nel contempo le condizioni per una migrazione più selettiva verso l’Europa: i programmi di scambio scolastici come Erasmus Mundus sono già stati ampliati per gettare dei ponti tra le società del Mediterraneo. Si può fare di più agendo sulle organizzazioni della società civile che sono già attive nella regione. Se messe in atto con cura e coerenza, le mobility partnership come quella siglata di recente tra l’UE e il Marocco potrebbero portare nel tempo a una circolazione più libera della forza lavoro all’interno del Mediterraneo. Passando dalle persone alle merci, una graduale apertura dei mercati europei a quelli arabi potrebbe stimolare quella transizione economica, dai settori tradizionali e agricoli, che i Paesi dell’Europa meridionale dovranno effettuare in un modo o nell’altro se vogliono conservare il loro status di economie sviluppate all’interno dell’attuale ambiente competitivo globale. È quindi importante che nel 2012 l’UE abbia acconsentito a un accordo commerciale con il Marocco che copre più della metà dei prodotti agricoli e ittici marocchini. Sebbene non sia stato del tutto digerito dagli stakeholder europei, questo accordo sarà un test per la potenziale liberalizzazione di altre aree sensibili del commercio nella regione. Malgrado l’instabilità regionale e i timori di una concorrenza sleale, i Paesi europei continuano a rafforzare il loro legame con i Paesi mediterranei. Come mostrano gli studi a disposizione, negli ultimi anni l’Italia ha ampliato il suo interscambio all’interno del Mediterraneo – il commercio totale nell’area è salito da 37,2 miliardi di euro nel 2001 a 65,7 miliardi nel 2012, come spiega il Med Business and Trade Indicators 2013. Anche se il commercio tedesco nel Mediterraneo rappresenta solo il 3% circa del totale del Paese, la sua presenza nella regione sta crescendo (la Germania detiene la seconda quota in
Nel Mediterraneo meridionale il mutamento sociale verso una maggiore modernitĂ non ha trovato la cultura politica e le istituzioni necessarie a incanalare le sue energie verso esiti desiderabili
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termini di valore degli scambi commerciali totali nell’area del Mediterraneo). E con un’Europa indebolita, solo se la Germania svilupperà un certo interesse nell’economia del Mediterraneo si potranno mobilitare risorse sufficienti a contribuire alla stabilizzazione della regione. Anzi, data la preoccupazione tedesca per il lassismo e le scarse prestazioni dell’Europa meridionale, dovrebbe essere nel suo interesse che l’Europa mediterranea non vada ulteriormente alla deriva. Perlomeno come polizza assicurativa, i leader politici ed economici tedeschi dovrebbero quindi ambire a un ruolo più attivo nel creare le condizioni per un “cuscinetto” mediterraneo, se non una piattaforma, che aiuti la ripresa europea. La questione dell’impegno tedesco evidenzia un’altra realtà fondamentale del Mediterraneo, che rappresenta sia una sfida sia un’opportunità: la crescente pluralità di attori in uno spazio mediterraneo sempre più globalizzato, le cui dinamiche trascendono quelle di un bacino regionale. Potenze extraregionali hanno sempre maggiori interessi nella regione, e questo fa sì che oggi siano in molti a contribuire alla prosperità mediterranea, dalla Cina ai Paesi del Golfo e, in un futuro non così lontano, economie emergenti del “Sud Globale”. Per la stessa ragione, anche i competitor dell’influenza regionale occidentale, a partire dalla Russia, avranno più voce in capitolo. Sarà quindi nell’interesse dei Paesi europei rafforzare quel che resta della loro influenza nella regione. Via via che i capitali
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affluiranno ai Paesi del MENA da altre parti del mondo, le relazioni strategiche potrebbero ancora essere capitalizzate con l’aiuto degli Stati Uniti. In questo contesto, si potrebbe esplorare un mercato energetico più forte. I giacimenti di gas recentemente scoperti nel Mediterraneo orientale stanno offrendo alla regione delle opportunità senza precedenti e lasciano intravvedere nuove prospettive per riallineare politicamente Cipro, la Turchia e Israele. Nel Mediterraneo occidentale invece sono ripresi i tradizionali flussi gas-petroliferi interrotti durante il conflitto libico; nei Paesi importatori di greggio che sono strettamente integrati con l’Occidente, come il Marocco e la Tunisia, questi flussi saranno accompagnati da una maggiore disponibilità di energie rinnovabili. In questo contesto in evoluzione, le triangolazioni a medio termine potrebbero vedere l’Europa che aiuta i Paesi del MENA per quanto riguarda le infrastrutture, l’innovazione e l’efficienza energetica, mentre la sicurezza energetica verrebbe migliorata non solo rafforzando il flusso dei combustibili fossili, ma investendo in progetti come una rete unificata dell’energia solare mediterranea. È grazie a una costante consapevolezza dei costi insopportabili della frammentazione mediterranea che la regione può uscire dalla difficile situazione di declino in cui versa oggi. Allo stato attuale, il bacino del Mediterraneo ha davanti a sé delle prospettive estremamente complesse, ma la sua parabola può non essere discendente se verranno colte, con lungimiranza, le opportunità offerte dai rapporti di complementarità non ancora sfruttati e dal maggiore accesso alle connessioni globali.
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intervista
Investimenti per abbattere i confini intervista a Franco Bassanini
Presidente della Cassa Depositi e Prestiti e Vicepresidente di Inframed di Paolo Valentino Editorialista del Corriere della Sera
InfraMed, il fondo di investimento equity per il sud e l’est del Mediterraneo, è uno strumento operativo di vitale importanza per l’Europa, dal punto di vista economico e politico. Ma per concretizzare al meglio le sue potenzialità c’è bisogno che l’Unione prenda atto della valenza strategica di questa regione.
«Nell’era della competizione globale, l’Europa è di fatto un piccolo continente. I nuovi scenari geopolitici ed economici del mondo vedono ormai competere fra di loro Paesi che rappresentano mercati di produzione e consumo tendenzialmente da un miliardo di persone, con capacità di acquisto e tecnologiche sempre più paragonabili a quelli dei nostri Paesi. Perfino l’Europa a 28 ha una dimensione insufficiente a reggere questa competizione se non acquista massa critica, diventando il perno di un sistema regionale più ampio, aperto ai Paesi del Sud del Mediterraneo e del vicino Oriente, da una parte, all’Europa Orientale e all’Asia centro-occidentale dall’altra». Il sogno mediterraneo di Franco Bassanini resiste a venti e maree. Anche adesso che le primavere arabe sono un ricordo lontano e confuso e che perfino la Turchia, da sempre indicata a modello di un Islam moderato, accusa segni di instabilità, tra proteste e inclinazioni autoritarie, il presidente della Cassa Depositi e Prestiti non rinuncia a indicare lo sviluppo e l’integrazione dei Paesi meridionali del Mare Nostrum come «una sfida fondamentale per la crescita economica sostenibile, la competitività e il ruolo politico dell’Europa nel nuovo scenario mondiale». Di più, Bassanini è convinto che l’attuale situazione di crisi nel bacino mediterraneo sia anche la conseguenza di un’insufficiente proiezione europea: «Negli ultimi 15 anni, dentro l’Unione è prevalsa la convinzione che la prima frontiera dell’ampliamento dell’area economico-politica fosse quella orientale. La verità, anche se la cosa detta adesso può sembrare banale, è che noi abbiamo bisogno sia di un ampliamento a est sia di uno, non necessariamente politico, verso il Mediterraneo. E resto del parere che si sia commesso un gravissimo errore a non concludere l’adesione a pieno titolo della Turchia, quando domandava di farlo. Penso che saremmo stati in grado di affrontare un processo di integrazione: oggi è il Paese di quell’area con il più grande tasso di crescita e sarebbe stato un elemento decisivo in questa fase di crisi». Be’, Presidente, non è che i turchi fecero proprio tutti i loro compiti… È vero. Ma nei casi di ampliamento l’UE negozia con l’idea di utilizzare la richiesta di adesione per spingerlo a riformarsi. Se chi tratta da parte europea mostra
scetticismo sull’esito finale e propone tempi biblici, la forza di attrazione dell’Europa diminuisce. Inoltre, vorrei ricordare che al momento di cominciare il negoziato non tutti i Paesi poi accolti erano modelli di democrazia. Cosa porterebbero in dote i Paesi mediterranei? I Paesi del Sud Mediterraneo hanno grande dinamismo demografico, popolazioni giovani, potenziale di crescita economica elevato e condizioni di sufficiente stabilità politica. Mentre mancano di tecnologie, conoscenze e capacità organizzativa. Insomma esistono tutte le condizioni per un’integrazione virtuosa, in cui le debolezze nostre sono le loro ricchezze e viceversa. Ci sono tutte le ragioni per puntare alla creazione di una grande area economico-commerciale. E insisto nel dire che questo non significa affatto che debbano per forza entrare in un’unione politica. Ma la situazione d’instabilità attuale, in Egitto, Libia, nella stessa Turchia, non dovrebbe consigliare un po’ più di prudenza verso l’opzione mediterranea? Le faccio io una domanda: allo scoppio delle primavere arabe si parlò della necessità di un Piano Marshall verso quei Paesi che chiedevano democrazia. Risorse, strumenti che avrebbero potuto consolidare i processi democratici. Che cosa si è fatto? Poco o nulla. Ma il Piano Marshall ebbe interlocutori chiari. Qui c’era un problema d’interlocutori affidabili. Forse che il Piano avrebbe potuto evitare che l’Egitto cadesse in mano ai Fratelli Musulmani? Con un forte intervento occidentale di sostegno e assistenza sarebbe stato possibile favorire l’evoluzione e il rafforzamento di un Islam moderato. Questa è quasi storia ormai. Lei appare però convinto che, nonostante l’incerta evoluzione, la necessità di una forte proiezione e azione europea verso il Mediterraneo rimanga tutta in piedi… Rimane perché è una nostra esigenza. È chiaro che bisogna far leva su quei Paesi e istituzioni che possano poi fare da traino agli altri: Marocco, Tunisia, Giordania sono nazioni dove avrebbe ancora senso fare investimenti a carattere europeo. Sottolineo europeo perché per esempio, in Tunisia, i francesi, che come e più di noi avevano qualche
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responsabilità nell’appoggio al regime precedente, dopo la Primavera araba hanno subito cercato di approfittare della situazione, intervenendo massicciamente, con l’unico scopo di togliere spazio e opportunità agli altri Paesi europei. Lei pensa a strumenti come InfraMed che, però, dopo gli entusiasmi iniziali, langue. Qual è il bilancio e quali le prospettive a tre anni dal suo lancio? InfraMed è stato il primo strumento operativo costituito nel quadro dell’Unione per il Mediterraneo, la quale come sappiamo ormai è in una situazione di stallo. La sua ambizione era di diventare il più grande fondo strutturale dell’area, coinvolgendo Algeria, Egitto, Israele, Libano, Giordania, Libia, Mauritania, Marocco, Palestina, Siria, Tunisia e Turchia. La grande novità consisteva nell’associare istituzioni finanziarie europee con almeno due istituzioni analoghe di Paesi dell’area, Marocco ed Egitto. Ma è chiaro che uno strumento come questo oggi incrocia un momento di grande difficoltà sul mercato internazionale per la raccolta di fondi per investimenti infrastrutturali, in particolare in aree politicamente instabili. Il risultato è che InfraMed è partito, ha cominciato a fare investimenti, alcuni anche di alto profilo: fra questi, la privatizzazione del porto di Iskenderun, il terzo in Turchia; un grande impianto eolico in Giordania con un elevatissimo tasso di redditività; una raffineria in Egitto e stiamo chiudendo per il lancio di un satellite televisivo geo-stazionario dal Marocco. Le dimensioni del fondo sono però rimaste piccole, InfraMed non ha al momento grandi capacità di fundraising, che abbiamo dovuto rimandare varie volte. Operiamo ancora con i fondi conferiti dai promotori, che erano circa 400 milioni di euro, di cui una parte rilevante già spesa. Come vede il futuro di InfraMed? Sono abbastanza preoccupato. La congiunzione delle varie circostanze rischia di rivelarsi paralizzante. C’è una grande liquidità sui mercati, che però si indirizza in massima parte su impieghi di breve termine e finanziari: il finanziamento di infrastrutture o quello industriale a medio e lungo termine è molto difficile. Inoltre, su quella parte di capitali ancora disponibili la competizione globale è durissima: Cina, India e Brasile sono molto aggressivi. Infine, l’instabilità politica dei Paesi del Mediterraneo che lei ha citato. 036
Esistono le chance di un rilancio e quale sarà la strada? Difficile dirlo. Non vedo ancora una svolta politica, che porti l’Europa a prendere atto della valenza strategica del Mediterraneo e della sua necessaria integrazione, quindi a dotarsi di strumenti e risorse che favoriscano l’effettiva cooperazione rafforzata. Per esempio, oggi InfraMed avrebbe molte opportunità d’investimento in Turchia, ma non possiamo anche per via di regole interne che impediscono di concentrare troppe risorse in un solo Paese. Io credo nella validità dell’approccio, anche perché InfraMed non è soltanto un’opportunità economica, con tassi di rendimento intorno al 12%, ma ha anche una grande valenza politica. E resto convinto che anche l’ipotesi parallela di una grande banca europea per il Mediterraneo sarebbe stata importante. È però difficile essere ottimisti in questo momento. Troppi interrogativi rimangono senza risposta. Certo, dalla crisi prima o poi usciremo, ma non è possibile oggi prevedere se l’Europa saprà ripensarsi in chiave mediterranea. E infine occorrerà vedere quali saranno gli sbocchi politici finali del processo avviato dalle primavere arabe.
I Paesi del Sud Mediterraneo hanno grande dinamismo demografico, popolazioni giovani, potenziale di crescita economica elevato e condizioni di sufficiente stabilitĂ politica. Mentre mancano di tecnologie, conoscenze e di capacitĂ organizzativa
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Al centro del mondo articolo di Donato Speroni Giornalista e professore di economia e statistica
Privilegiato da un fuso orario che lo pone al centro del mondo, chi vive nel Mediterraneo gode della possibilità di comunicare con tutti i continenti e di spostarsi senza difficoltà. Una risorsa per le attività commerciali, per i flussi di merci, per il turismo: una posizione geostrategica da valorizzare.
Qual è la collocazione migliore dal punto di vista geografico per la direzione centrale di un gruppo multinazionale? Non si deve pensare che una città valga l’altra perché siamo nell’era della globalizzazione, dei collegamenti 24 ore su 24, delle transazioni finanziarie senza vincolo d’orario. Il contatto diretto tra i dirigenti che stanno al centro e quelli che operano in periferia è spesso necessario. Non bastano le mail, ci vogliono i viaggi o le teleconferenze. Da questo punto di vista, la palla del mondo non è tutta uguale, perché le terre emerse sono distribuite in modo asimmetrico: il loro centro si colloca in Europa dal punto di vista della longitudine e nel Mediterraneo dal punto di vista della latitudine. Scrivono Hermann Simon e Danilo Zatta nel loro libro I trend economici del futuro (2011): «Le conseguenze di lungo termine della globalizzazione iniziano a cristallizzarsi. Siti produttivi e mercati verranno sempre più delocalizzati, e con essi cambieranno i flussi di merci, capitali e persone. Siti e intere regioni vanno rivalutati in termini geostrategici; con ciò non intendiamo le attuali regolamentazioni politiche o fiscali, quanto le immutabili caratteristiche geografiche della Terra. L’Europa, e in particolare l’Europa occidentale, ha un’eccezionale posizione geostrategica; da un punto di vista mondiale il “Regno di Mezzo” non è la Cina, ma l’Europa occidentale». L’analisi si può estendere al Mediterraneo. Prendiamo come esempio Roma, ma un discorso analogo con scarti massimi di un’ora si può applicare alla costa sud del Mare
Nostrum, dal Cairo ad Algeri. Nell’ambito del normale orario d’ufficio, diciamo tra le 9 e le 18, chi opera dalla capitale italiana può comunicare praticamente con tutto il mondo. Al mattino parlerà senza problemi con i colleghi asiatici: quando in Italia sono le 9 (orario estivo) a Singapore sono le 15, a Tokio le 16 e a Sidney le 17. Qualche problema solo con Auckland, in Nuova Zelanda, dove il collega dovrà fermarsi in ufficio fino alle 19. Al pomeriggio si potrà parlare con l’America: quando in Italia sono le 18 (orario estivo) a New York sono le 12, a San Paolo le 13 e a Los Angeles le 9 del mattino. Le altre grandi città del mondo non hanno una situazione altrettanto privilegiata. Da Singapore o Tokio, per esempio, tra le 9 e le 18 è impossibile raggiungere San Paolo o New York nelle ore d’ufficio. Da New York è off limits tutto l’estremo oriente. Da Los Angeles o San Francisco, non è possibile raggiungere Mosca, Dubai, Teheran o Nuova Delhi senza fermarsi fuori orario. Al vantaggio del fuso, il Mediterraneo aggiunge quello della centralità tra Nord e Sud del mondo, particolarmente importante per i viaggi aerei. Da Roma, Johannesburg si raggiunge in poco più di 10 ore, San Paolo in 12 ore e altrettante ce ne vogliono per andare a Singapore. Al confronto, un volo da New York a Singapore dura 18 ore (con costi almeno tripli), mentre per andare a Johannesburg ce ne vogliono 15. La centralità del Mediterraneo è importante anche per i flussi turistici, come si può vedere
mettendo a confronto le due aree di vacanze di mare più attraenti del mondo: il Mediterraneo e i Caraibi. Da Hong Kong, Tunisi si raggiunge in 14 ore effettive di volo, l’Avana in più di 20 e il costo dei voli per Cuba è almeno il triplo di quelli per la Tunisia. È dunque più facile che il grande flusso del futuro turismo cinese o indiano si diriga verso il Mare Nostrum. Un discorso analogo si può fare per il trasporto merci via nave. Il Mediterraneo perse la sua centralità nel Cinquecento, con lo sviluppo delle grandi navigazioni oceaniche. La scoperta dell’America e le rotte attorno all’Africa fecero perdere a Venezia il suo ruolo di grande potenza marinara, a vantaggio di Spagna, Portogallo e Gran Bretagna. La situazione si è però modificata dopo il 1869 con l’apertura del Canale di Suez che ha reso di nuovo convenienti e centrali le rotte attraverso il Mediterraneo. L’era del petrolio ha grandemente intensificato i traffici che passano per questo mare, verso le raffinerie situate in ogni parte d’Europa. Il grande sviluppo del porto di Gioia Tauro inaugurato negli anni Novanta è una dimostrazione del potenziale mediterraneo nel traffico merci, quando esistono infrastrutture adeguate. Ovviamente la geografia non è tutto. Per sfruttare appieno la favorevole posizione del Mediterraneo occorrono collegamenti efficienti: reti a banda larga, servizi aeroportuali rapidi e frequenti, condizioni favorevoli per investimenti. Ma la posizione geostrategica è comunque un bel vantaggio e sarebbe un peccato non sfruttarla.
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Infrastrutture che aprono orizzonti articolo di Andrea De Benedetti Giornalista e saggista progetto fotografico di White tramite Mappe Bing
I Paesi del Mediterraneo comunicano per mare, per terra, attraverso i gasdotti e con le “autostrade informatiche”. O almeno potrebbero. Sulle vie di comunicazione del bacino c’è molto da migliorare affinché il Mare Nostrum non appaia piuttosto come uno stagno.
«Stiamo intorno a un mare come rane o formiche intorno a uno stagno». Così, nel Fedone, Socrate descriveva la condizione dell’uomo di fronte alla vastità quasi insormontabile del mar Mediterraneo, oltre i cui confini si profilava la grandezza ancora più ostile e ineffabile dell’Oceano. Non poteva sospettare, Socrate, che a venticinque secoli di distanza il Mediterraneo sarebbe diventato effettivamente
uno stagno, nel senso di un bacino d’acque tutto sommato piccolo se comparato alla capacità tecnologica sviluppata nel frattempo per domarlo, ma anche nel senso di un pantano di economie ferme che poco per volta sta inghiottendo i lembi più meridionali d’Europa. Le formiche, naturalmente, non sono scomparse, e sono le migliaia di disperati che ogni giorno si giocano la vita sfidando le onde del Mare Nostrum su natanti malfermi e gremiti come la nave che, nell’inferno dantesco, traghettava i dannati oltre il fiume Stige. E tuttavia, in questo esordio di terzo millennio, appare chiaro come la vera priorità dei Paesi che si affacciano sul Mediterraneo non sia più quella di far viaggiare le formiche bensì quella di muovere merci ed energia, oltre a un bene immateriale destinato a diventare uno tra i più preziosi di tutti: l’informazione. Il tutto all’interno di un contesto geopolitico estremamente complesso e qua e là apertamente conflittuale in cui persino i Paesi mediterranei di area UE faticano a fare fronte comune e a ragionare collettivamente. Per quanto riguarda le infrastrutture ferroviarie, l’Europa mediterranea è – prendo a nolo l’efficace dicotomia utilizzata dall’Alliance for European Logistic della Commissione Europea – un patchwork ancora lontano dal diventare network.
La rete ferroviaria è estesa e articolata, ma non è, appunto, una rete. Il progetto dei dieci corridoi paneuropei definito nella conferenza di Creta del 1994 stenta a decollare, e in particolare langue il cosiddetto corridoio mediterraneo per il trasporto merci, che in origine avrebbe dovuto collegare la Penisola Iberica con l’Est europeo e che invece, allo stato attuale, è un collage di progetti non tutti coerenti e non tutti compatibili tra loro. Emblematico il caso della Spagna, che pur avendo in questi anni investito più di tutti in ferrovie, in particolare nell’alta velocità passeggeri (con oltre 2000 chilometri di binari è addirittura il secondo Paese al mondo dopo la Cina), si ritrova con un sistema non integrato a causa del diverso tipo di scartamento tra vecchi e nuovi binari, questi ultimi utilizzabili soltanto per il trasporto dei passeggeri ma non per quello delle merci. Molti Paesi hanno inoltre rinunciato al progetto (Portogallo) o ne hanno fortemente ridimensionato la portata (Slovenia), mentre la Corte dei Conti francese ha bocciato la sostenibilità economica del progetto e la Slovenia ha eretto una nuova cortina di ferro al confine con l’Italia, per raggiungere la quale, dal dicembre 2011, è necessario prendere l’autobus. In tutto questo c’è ancora
Per quanto riguarda le infrastrutture ferroviarie, l’Europa mediterranea è un patchwork ancora lontano dal diventare network
chi favoleggia di un collegamento ferroviario tra Europa e Nord Africa tramite tunnel sotterraneo tra Algeciras e Tangeri, che congiungerebbe la rete europea con quella marocchina (dove nel 2015 dovrebbe essere inaugurato il primo tratto di ferrovia ad alta velocità tra Tangeri e Casablanca), ma siamo appunto nel vastissimo territorio dei sogni e delle promesse senza impegno e a lunga gittata di cui tra cinquant’anni o cent’anni non si potrà chiedere conto a nessuno. Secondo il 041
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Regional Transport Action Plan 2007-2013, tra i vari progetti di reti di trasporto transeuropee, l’asse sud-occidentale (Spagna-Marocco) resta comunque il più avanzato dal punto di vista della realizzazione di un’effettiva integrazione tra reti europee e africane, mentre l’asse sud-orientale, che nei voti dovrebbe connettere, via terra, i Paesi UE con l’Egitto (passando per Turchia, Siria e Giordania) allo stato attuale costituisce poco più di un’ipotesi. Per il resto, nella porzione non europea di Mediterraneo, il trasporto su gomma copre tra il 90 e il 95% del totale del traffico terrestre, e la rete ferroviaria, fatti salvi Turchia e in parte Egitto, resta obsoleta, carente e sfilacciata, con binari per lo più non elettrificati, interi Paesi completamente privi di infrastrutture (Libano, Siria e soprattutto Libia, dove i pochi chilometri di ferrovie esistenti sono ancora quelli 042
risalenti all’epoca coloniale, inutilizzati dal ’65) e in generale lunghi tratti di discontinuità che si sovrappongono a situazioni geopolitiche già di per sé piuttosto critiche. Più ampio e capillare il sistema di trasporto navale, articolato su 57 porti e 25 corridoi marittimi, su cui si muovono intorno ai 50 milioni di tonnellate di merci all’anno e si concentra il 75% dell’intero volume di traffico tra il Sud e il Nord del Mediterraneo. A questo quadro vanno aggiunte le cosiddette “autostrade del mare”, inserite nel 2005 tra i progetti di reti transeuropee alternative al trasporto su terra e concepite con lo scopo di ridurre l’inquinamento atmosferico e collegare più strettamente la UE alle sue aree più periferiche e con i Paesi limitrofi. Quanto al trasporto aereo, lontana la prospettiva della creazione di un “cielo unico” esteso a tutti i Paesi dell’area mediterranea, la grave congiuntura economica ha messo in crisi un modello fondato prevalentemente sul turismo proveniente dai paesi UE e diretto verso le zone a sud del bacino, la cui voce nel 2008 rappresentava circa il 75% dell’intero traffico aereo dei Paesi del Maghreb e del Mashreq prima di registrare, dopo il 2010, un vistoso calo. Capitolo energia. Detto del petrolio, il cui trasporto non necessita di infrastrutture specifiche, un discorso più ampio va dedicato ai gasdotti provenienti dai Paesi nordafricani, che riforniscono l’Europa meridionale affrancandola, almeno in parte, dal monopolio russo in materia. Attualmente ne sono in funzione quattro – Transmed, Maghreb-Europa, Megdaz e Greenstream – mentre un quinto – il Galsi – dovrebbe entrare in servizio l’anno prossimo, unendo l’Algeria con la Toscana e la Sardegna, dove l’opera ha peraltro sollevato diverse proteste nei comitati locali
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per il forte impatto ambientale e per le scarse o nulle ricadute economiche per l’isola. Un altro gasdotto – il Nabucco – costituisce invece il progetto più ambizioso del corridoio energetico sudorientale, con i suoi oltre 3000 chilometri di lunghezza e una capacità di oltre 31 miliardi di metri cubi di gas all’anno. Scopo dell’opera, allacciare il principale hub europeo (quello di Baumgarten, Austria) ai giacimenti dell’Azerbaigian attraverso la Turchia e i Balcani (ma si sta valutando anche una variante del progetto che passerebbe dalla Grecia e dall’Italia), alleggerendo la dipendenza dell’UE dal gas russo e scongiurando il riproporsi di crisi come quella che a inizio 2006, a causa di una disputa sul prezzo del gas tra Russia e Ucraina, minacciò di lasciare al freddo mezza Europa. Altrettanto ambizioso, ma decisamente in alto mare, il programma di integrazione di tutte le reti
Le “autostrade del mare” sono state inserite nel 2005 tra i progetti di reti transeuropee per ridurre l’inquinamento atmosferico e collegare più strettamente la UE alle sue aree più periferiche
elettriche mediterranee tramite il Mediterranean Electric Ring, anello che dovrebbe circondare l’intero bacino, collegandone le sponde in un’unica grande rete transfrontaliera. Quanto alle autostrade informatiche, per il momento bisogna accontentarsi di una manciata di cavi sottomarini, sufficienti comunque a soddisfare il basso fabbisogno di Internet dei Paesi nordafricani e mediorientali. I quali stanno sì cominciando a investire cifre importanti per attenuare il digital divide (divario digitale) rispetto all’Europa, ma ne investono almeno altrettante in tecnologie di censura volte a impedire l’accesso degli utenti a pagine e servizi politicamente “scomodi”. Anche in questo il Mediterraneo è rimasto uno stagno. In cui, oltre alle formiche, rischia di rimanere impantanata anche la democrazia. 043
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passepartout
un mare di strade a cura di Oxygen Infografica Undesign
Il Mediterraneo – crocevia di strade, infrastrutture, vie di comunicazione – dimostra che il mare non separa, unisce. Quando si condivide uno spazio così importante, infatti, sono molti i mezzi, i canali attraverso i quali ci si mette in contatto, e anche le ragioni per farlo. Per spostarsi e commerciare, i treni uniscono fra loro i Paesi limitrofi europei e così quelli del Nord Africa. Dove finisce la ferrovia e comincia il mare, arrivano a supplire il collegamento mancante le
“autostrade del mare”, che toccano i porti maggiori e i porti minori, che portano merci e persone oltre i confini di terra, in giro per il Mediterraneo e poi fuori. Ma si comunica anche cercando e scambiando energia, trasportandola attraverso i gasdotti che segnano un percorso autonomo e molto importante, dal Nord Africa all’Europa, dal Nord Africa al Medio Oriente, per poi tornare in Europa. Una rete articolata e fitta, con dei vuoti che segnalano, invece, dove c’è ancora un dialogo da instaurare.
Principali canali di comunicazione Cavi internet Gasdotti Rotte navali Ferrovie costruite nel 2008/2009
Punti cruciali di congiunzione o di partenza di un impianto o di una rotta
Lo spessore della linea rappresenta l'importanza dell' impianto o della rotta
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opinioni
Il futuro dell’energia tra “mari” e “monti”
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articolo di Wim Thomas Chief Energy Advisor di Shell
Wim Thomas, Chief Energy Advisor della Shell, in questo articolo per Oxygen cerca di esplorare il futuro, cosĂŹ che quando arriverĂ non ci sia completamente ignoto. E per gli scenari energetici ci attendono due strade: la vittoria del gas, la vittoria del solare.
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La Shell costruisce da quarant’anni possibili scenari, così da esplorare le eventuali situazioni di domani e da contribuire alle decisioni strategiche, inserendo all’interno del dibattito pubblico i possibili modi per affrontare alcuni problemi a lungo termine della società. I nostri scenari partono sempre dal presente e si spingono nel futuro secondo vari percorsi plausibili. Tengono conto delle diverse tendenze e delle opinioni degli esperti, e usano la quantificazione per dipingere un quadro sul possibile futuro dell’energia. A questo scopo usiamo un “modello energetico mondiale” interno che copre ottanta Paesi e regioni e che si basa sulla storia e l’econometria – ma comprende anche molti strumenti politici lungimiranti in grado di determinare futuri alternativi, invece di limitarsi a estrapolare dal passato. È questa la differenza con gli altri modelli in circolazione. Una volta che avete uno scenario, siete in grado di esaminare in che modo i cambiamenti politici possono riflettersi sul sistema energetico. Di recente il nostro team ha diffuso due scenari sul mondo del XXI secolo. I New Lens Scenarios prendono in considerazione le tendenze dell’economia, della geopolitica, dei mutamenti sociali e dell’energia fino al 2100, evidenziando il ruolo fondamentale che le politiche governative potrebbero avere domani con le azioni intraprese oggi. Secondo il primo scenario (dei “monti”), il gas naturale, che è un combustibile più pulito, diventerà negli anni Trenta la principale fonte energetica del Pianeta e ci sarà un primo intervento per limitare le emissioni di anidride carbonica, grazie alla diffusione della tecnica di cattura e stoccaggio del carbonio (CCS). Nell’altro scenario (dei “mari”), sarà l’energia solare a prendere il sopravvento entro gli anni Settanta, ma contrasterà più lentamente il cambiamento climatico. Lo scenario dei “monti” immagina un mondo dallo sviluppo economico più moderato, dove la politica ha un ruolo importante nella definizione del sistema energetico mondiale e nel percorso ambientale del Pianeta. Il gas naturale diventa la spina dorsale del sistema energetico, sostituendo in molti luoghi il carbone nelle centrali elettriche e venendo usato come carburante per i trasporti. Un profondo cambiamento nel settore dei trasporti vede la domanda globale di petrolio raggiungere il picco intorno al 2035. Alla fine del secolo, automobili e camion elettrici o a idrogeno potrebbero dominare la strada. La tecnologia di cattura delle emissioni di anidride carbonica da centrali elettriche, raffinerie e altri impianti 048
Lo scenario dei “monti” immagina un mondo dallo sviluppo economico più moderato, dove la politica ha un ruolo importante nella definizione del sistema energetico mondiale e nel percorso ambientale del Pianeta
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industriali sarà usata in modo diffuso, e contribuirà a ridurre le emissioni di CO2 del settore energetico, che entro il 2060 scenderanno a zero. Un altro fattore è la crescita dell’energia nucleare nella produzione globale di elettricità: la sua quota di mercato aumenterà di circa il 25% da qui al 2060. Con questi cambiamenti, le emissioni di gas serra cominceranno a calare dal 2030, ma il loro andamento continua a non essere in linea con l’obiettivo di contenere l’aumento delle temperature globali a 2°C. Al contrario, lo scenario dei “mari” prevede un mondo più prospero e imprevedibile con un panorama energetico plasmato soprattutto dalle forze di mercato e dalla società civile, dove le politiche governative giocano un ruolo meno prominente. La resistenza del pubblico e la lenta adozione di politiche e tecnologie limitano lo sviluppo dell’energia nucleare e la diffusione del gas naturale. Il carbone continua a essere usato diffusamente nella produzione elettrica perlomeno fino alla metà del secolo. Senza un forte supporto dei policy-maker, la cattura e lo stoccaggio del carbonio faticano a prendere slancio. Infatti nello scenario dei “mari” la produzione elettrica diventa a emissioni zero con circa trent’anni di ritardo. Prezzi energetici più alti incoraggiano lo sviluppo di risorse petrolifere difficili da raggiungere e l’espansione della produzione dei biocarburanti. La domanda di petrolio continua a crescere, raggiungendo stabilità solo dopo il 2040. A metà del secolo, i carburanti liquidi rappresentano ancora circa il 70% del trasporto dei passeggeri su strada. Gli alti prezzi stimolano anche un netto miglioramento dell’efficienza e lo sviluppo dell’energia solare. Nel 2070 i pannelli solari fotovoltaici diventano la principale fonte energetica del mondo. L’energia eolica si espande a un ritmo più lento per l’opposizione popolare alle grosse installazioni di turbine eoliche. Tutto questo contribuisce a circa un 25% in più di emissioni cumulative totali di gas serra, rispetto allo scenario dei “monti”. «Questi scenari mostrano che le scelte operate nei prossimi anni dai governi, dalle imprese e dai singoli individui influiranno profondamente sulla direzione che imboccherà il futuro», dice Peter Voser, Chief Executive Officer della Shell. «Sottolineano quanto sia importante che imprese e governi trovino nuove forme di collaborazione reciproca, incoraggiando politiche a favore dello sviluppo e l’utilizzo di energie più pulite, e dell’efficienza energetica». Gli scenari si spingono molto più in là nel 049
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futuro rispetto alla maggior parte delle previsioni, e mettono in rilievo alcuni possibili sviluppi sorprendenti. Entrambi vedono scendere quasi a zero le emissioni di anidride carbonica (CO2) entro il 2100. Un fattore è il maggiore impiego della tecnologia che “cattura” la CO2 emessa nell’atmosfera, per esempio con la combustione delle biomasse per produrre elettricità, e che poi la immagazzina nel sottosuolo. Sebbene lo scenario dei “mari” veda un aumento radicale dell’energia solare, prevede anche, nel corso del secolo, un più ampio utilizzo di combustibili fossili e maggiori emissioni totali di CO2 rispetto allo scenario dei “monti”, con un impatto superiore sul clima. Il team di studio degli scenari tiene anche d’occhio il modo in cui i mercati e la politica possono mutare il mix energetico. Per esempio, se i governi decidono di introdurre una tassa sul carbonio, questa scoraggerà l’uso del carbone e renderà più appetibili gas e rinnovabili. Una possibile conseguenza, però, è che scenda il prezzo del carbone, e allora altri Paesi senza tassazioni sul carbonio limitino l’uso di gas e rinnovabili, vanificando i progressi compiuti altrove nella lotta al cambiamento climatico. Ecco perché è necessaria un’azione coerente a livello mondiale. Com’è successo l’anno scorso, quando negli Stati Uniti il gas è diventato più economico: siccome si usava meno carbone, lo si è esportato in Europa, e le emissioni di CO2 sono aumentate. La recente rivoluzione del gas di scisto negli Stati Uniti ha posto il gas naturale al centro dell’attuale dibattito energetico: gli Stati Uniti godono di un massiccio stimolo economico sotto forma di prezzi contenuti dell’energia; questo sta riportando in America le imprese manifatturiere e le aziende chimiche, invertendo la tendenza degli ultimi vent’anni. D’altro lato, le vecchie centrali elettriche dell’Europa alimentate a carbone lavorano più che mai, mentre le nuove centrali a gas, ultra efficienti, rischiano di finire in disuso o di chiudere. Molti Paesi europei, paralizzati dal debito, offrono sussidi per le rinnovabili che costano ben più di 100 dollari alla tonnellata, mentre gli attuali prezzi delle quote di emissione di CO2 languono al di sotto dei 10 dollari la tonnellata. I prezzi dell’energia non sono competiti050
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Sebbene lo scenario dei “mari” veda un aumento radicale dell’energia solare, prevede anche, nel corso del secolo, un più ampio utilizzo di combustibili fossili e maggiori emissioni totali di CO2
vi. L’Europa deve risolvere la complessità di alcune delle sue iniziative politiche offrendone di più chiare; deve decidere come rinvigorire la sua base industriale, rendendola un motore vitale della competenza tecnica, dell’innovazione e dell’occupazione. È chiaro che, nell’immediato futuro, il gas di scisto non darà all’Europa lo stesso vantaggio in termini di bassi costi energetici, tuttavia lo sviluppo degli idrocarburi e del gas naturale locale, in particolare per la produzione di elettricità, può tradursi in un immenso valore. È il caso, nel Mediterraneo, dell’Italia che, rispetto agli altri Paesi europei, ha l’opportunità di incrementare la produzione locale di idrocarburi, ridurre la dipendenza dalle importazioni e tagliare i costi energetici. «Lo sviluppo degli idrocarburi può avere un ruolo strategico per l’Italia, con vantaggi in termini di crescita, investimenti, occupazione e semplificazione», dice Marco Brun, Country Manager della Shell in Italia e nell’Adriatico. «Per concretizzare questi vantaggi, bisogna intervenire immediatamente con politiche semplificate, chiare e stabili, così da invertire il trend di contrazione degli investimenti nel settore». 051
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approfondimento
È tempo di rinnovare articolo di Houda Ben Jannet Allal Direttrice dell'Osservatorio mediterraneo dell'energia
Nel panorama di cambiamenti, crisi politica ed economica, si inserisce, nei Paesi a sud e a est del Mediterraneo, la necessità di promuovere misure di risparmio energetico e piani che sviluppino le energie rinnovabili. Se fino ad ora la biomassa, il solare termico e l’idrico erano stati i più utilizzati, ora sono il solare fotovoltaico e l’eolico che si fanno spazio.
Sul piano energetico, l’incremento della domanda, la distribuzione iniqua delle risorse e le crescenti problematiche ambientali pongono i Paesi del Sud e dell’Est del Mediterraneo (PSEM) di fronte a innumerevoli sfide. Secondo l’OME (Osservatorio mediterraneo dell’energia), in assenza di interventi, nei Paesi PSEM i consumi di energia raddoppieranno e il fabbisogno di elettricità triplicherà entro il 2030 (circa 200 GW in più di capacità). Queste proiezioni evidenziano la necessità di un’inversione di tendenza per sottrarsi a questo modello energetico difficile, costoso e rischioso. Peraltro, gli sconvolgimenti in atto in alcuni Paesi della regione uniti alla crisi economica e finanziaria testimoniano quanto l’aspirazione allo sviluppo socioeconomico sia legittima e sia il fulcro su cui debbano incentrarsi le politiche da attuare. A tale fine l’energia è indispensabile, 052
com’è essenziale promuovere misure di risparmio energetico e opportune soluzioni tecnologiche, ad alto rendimento sotto il profilo energetico e ambientale, che siano affidabili e con costi socioeconomici accettabili. È giocoforza constatare che qualcosa si sta già facendo, in particolare nel campo delle energie rinnovabili, un settore che ha notevoli potenzialità in questa area geografica. Malgrado la crescita sostenuta degli ultimi anni, le energie rinnovabili rappresentano soltanto una minima parte del consumo di energia primaria (5,3% nel 2009, idrica compresa e 2,3% idrica esclusa) e della produzione elettrica (grafico 01). Biomassa, solare termico e idrico (e il geotermico in Turchia) sono state
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Ripartizione della produzione di elettricità nei PSEM – anno 2010 (Fonte: OME)
Con lo sviluppo delle energie rinnovabili i gestori degli impianti elettrici si trovano ad affrontare problemi di nuova natura 100 90 80 70 60
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grafico 02 Ripartizione nel mix elettrico dell’elettricità prodotta da rinnovabili nel 2010 (Fonte: OME)
le energie rinnovabili più utilizzate nei PSEM. Negli ultimi anni, l’eolico e il solare fotovoltaico per la produzione di elettricità hanno fatto la loro comparsa nel mix elettrico, pur rimanendo ancora delle tecnologie marginali: nel 2010, le energie rinnovabili rappresentavano il 12% della produzione elettrica totale della regione, di cui l’11% era costituito dall’idrico (grafico 02). Nel 2008 è stato lanciato il Piano solare mediterraneo (PSM) con l’obiettivo di installare, entro il 2020, 20 GW di nuova capacità di generazione da rinnovabili e creare reti elettriche e interconnessioni nord/ sud e sud/sud. I progetti permetteranno di sviluppare non soltanto delle capacità industriali nel campo dell’eolico e del solare, ma anche dei centri di ricerca di supporto allo sviluppo tecnologico. Il lancio del PSM e di altre iniziative e progetti come DII, Medgrid, RES4Med, Med-TSOE coincidono con i profondi mutamenti socioeconomici e politici di molti Paesi, l’impennata dei prezzi degli idrocarburi e gli interrogativi sulla sicurezza di approvvigionamento e le problematiche ambientali e climatiche. In questo contesto, numerosi governi hanno predisposto dei piani nazionali ambiziosi. Il Marocco si è dotato di un piano per l’eolico da 2 GW entro il 2020 e di un piano per il solare da 2 GW; sta già sfruttando 280 MW d’eolico e 2 MW di solare e altri 750 MW d’eolico e 160 MW di solare sono in costruzione. L’Algeria nel 2011 ha adottato un programma specifico con l’obiettivo di diventare uno dei principali attori della filiera delle energie rinnovabili e sviluppare, entro il 2030, 12 GW per soddisfare il proprio fabbisogno (7,2 GW da CSP, Concentrating Solar Power, 2,8 GW di PV, fotovoltaico, e 2 GW dall’eolico), portando così al 40% la quota di produzione da rinnovabili. Altri 10 GW prodotti da rinnovabili saranno destinati all’esportazione. Il progetto consentirà di fabbricare in loco le attrezzature e gli impianti necessari e mira a realizzare, entro il 2020, un’integrazione industriale del 50% almeno, su tutta la catena del valore delle tecnologie solari (PV, CSP) e dell’eolico (grafico 03). In Tunisia, il Piano solare tunisino (PST) è stato stilato nel 2009, rivi053
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fasi Fase pilota Sviluppo del programma Sviluppo su scala industriale Sviluppo su vasta scala
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grafico 03 Le tappe principali del programma algerino di sviluppo di 12 GW da progetti ER (Fonte Sonelgaz, Comelec 2012)
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sto nel 2012 ed è attualmente in fase di validazione. Il piano prevede una capacità installata di 4100 MW entro il 2030. Una ripartizione nel tempo a seconda della filiera (grafico 04). Il PST sarà corredato dalla stesura di un quadro normativo specifico e dallo sviluppo di filiere locali di costruzione di componenti e attrezzature. L’Egitto nel 2008 ha definito una strategia di sviluppo delle energie rinnovabili, che si prefigge di raggiungere il 20% di elettricità prodotta da rinnovabili entro il 2020, secondo una ripartizione di 12% dall’eolico, 8% dall’idrico e 2% del solare, che porterà l’eolico a 7,2 GW. Nel mese di luglio 2012, il governo ha approvato un Piano Solare Egiziano che prevede l’installazione di 3,5 GW da impianti solari entro il 2027 (2,8 GW da CSP e 0,7 GW da PV). Il tasso di partecipazione dell’investimento privato è del 67%. Il Piano prevede, inoltre, il rafforzamento delle capacità industriali locali. La Turchia intende installare 20 GW da fonti rinnovabili che andranno a coprire entro il 2023 il 30% della sua produzione d’elettricità. Nel luglio 2012, una nuova normativa ha ridefinito le tariffe di riacquisto in funzione dell’utilizzo di componenti fabbricati in loco. Pertanto, la materia prima locale deve rappresentare almeno il 55% dell’intero impianto, per contro le attrezzature dovrebbero essere interamente fabbricate in loco. Con lo sviluppo delle energie rinnovabili i gestori delle reti e degli impianti elettrici si trovano ad affrontare molti problemi di nuova natura. L’afflusso di mezzi di produzione intermittenti, sia per numero di impianti sia in termini di capacità, nel mix energetico di Paesi che vantano interconnessioni minime, se non assenti, con altre reti elettriche a termine potrebbe compromettere l’equilibrio tra la produzione e il consumo di queste reti. Sarà necessario creare delle interconnessioni nord-sud per stabilizzare la rete e anche per favorire l’esportazione dell’elettricità verde dal sud verso il nord, in base all’articolo 9 della Direttiva Europea 2009/28/ CE sulla promozione dell’uso dell’energia da fonti rinnovabili. Attualmente MedGrid sta vagliando la fattibilità di alcuni corridoi terrestri e sottomarini: per questi ultimi
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Negli ultimi anni, l’eolico e il solare fotovoltaico per la produzione di elettricità hanno fatto la loro comparsa nel mix elettrico, pur rimanendo ancora delle tecnologie marginali
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sono possibili diversi tracciati e una delle criticità sarà proprio la posa dei cavi sui fondali a grande profondità. La forte penetrazione delle energie rinnovabili modifica le abitudini e il lavoro stesso dei gestori delle reti di distribuzione. Tuttavia, l’esperienza maturata soprattutto in Spagna dimostra che è possibile gestire adeguatamente l’immissione su una rete di una massiccia quantità di energia da rinnovabili a patto di approntare un follow-up e un controllo centralizzato in tempo reale dei parchi di rinnovabili installati, stilare le previsioni di produzione e operare un adeguamento dinamico delle riserve. L’immagazzinamento dell’energia nel bacino del Mediterraneo sarà determinante ai fini dello sviluppo delle energie rinnovabili, per compensarne il carattere intermittente e adeguarsi alla curva di carico della domanda di energia. Laddove negli ultimi anni i Paesi del Sud hanno compiuto passi avanti nella gestione dell’integrazione delle energie rinnovabili all’interno dei rispettivi sistemi energetici, la gestione della penetrazione su vasta scala delle rinnovabili e l’adozione di un approccio coordinato tra i vari Paesi sono ancora completamente da costruire.
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grafico 04 Capacità elettrica da rinnovabili installata in Tunisia ripartita per filiera (fonte: PST, 2012)
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LA VIA DEL GAS articolo di Marco Arcelli Direttore della divisione Upstream Gas, Enel
Le relazioni passate e future tra i Paesi del Nord Africa e l’Europa si basano sul gas, risorsa preziosa che rischia però di vedere crollare la sua domanda. La crisi europea, la crescita delle rinnovabili e l’evoluzione dei mercati globali mettono alla prova la posizione di leadership nell’esportazione di gas del Nord Africa. Vediamo quali sono le strategie da attuare.
Il Nord Africa è un partner storico e affidabile dell’Europa, per la fornitura di gas, grazie a importanti riserve (oltre 8000 miliardi di metri cubi), alla prossimità geografica e a infrastrutture di trasporto dirette (gasdotti da Algeria e Libia a Italia e Spagna, e impianti di LNG, gas naturale liquefatto, in Algeria ed Egitto) che normalmente riducono i rischi geopolitici. Oggi circa un terzo delle importazioni di gas in Europa proviene dal Nord Africa, e oltre il 90% delle esportazioni nordafricane va in Europa. Gli sviluppi degli ultimi 4-5 anni, tuttavia, hanno creato un nuovo contesto che potrebbe avere impatti significativi su questa consolidata relazione. In Europa, il profilo della domanda di gas è cambiato sostanzialmente, con un forte calo in termini assoluti e una maggiore volatilità dei volumi, a causa della crisi econo056
mica e dell’aumento della produzione elettrica da fonti rinnovabili e dell’efficienza energetica. Inoltre, le nuove regole di funzionamento dei mercati hanno portato a un graduale allineamento dei prezzi su tutto il Continente e alla competizione tra diverse formule di indicizzazione non sempre coerenti tra loro. In questo contesto, dove comunque per il declino della produzione europea di gas le importazioni dovranno aumentare di 100-150 miliardi di metri cubi nei prossimi vent’anni, i consumatori hanno bisogno di forniture più flessibili e più competitive, sia in termini assoluti – con prezzi del gas di 13-14 $/mmbtu la produzione da fonti rinnovabili è già competitiva senza sussidi in diverse regioni, e con tempi di realizzazione relativamente brevi, la domanda di gas potrebbe essere permanentemente distrutta – sia in termini relativi – i
Oggi circa un terzo delle importazioni di gas in Europa proviene dal Nord Africa, e oltre il 90% delle esportazioni nordafricane va in Europa
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Se non verranno adottati opportuni correttivi, giĂ in discussione in diversi Paesi, si prevede che la percentuale di gas prodotto sulla sponda sud del Mediterraneo che verrĂ esportata passerĂ dal 26% di oggi al 5% entro 20 anni
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contratti di fornitura a lungo termine, indicizzati al petrolio, sono troppo costosi rispetto ai prezzi del gas sulle borse liquide, per l’elevato prezzo del petrolio e per l’eccesso di gas sul mercato che viene venduto su queste borse per rispettare i vincoli di Take or Pay contenuti negli stessi contratti a lungo termine. Per contro, la domanda nei mercati della sponda meridionale del Mediterraneo continua a crescere a ritmi del 4-5% a causa dei sussidi forniti ai consumatori finali, che se da un lato sostengono la crescita economica dall’altro portano a un consumo energetico inefficiente. L’85% dei sussidi mondiali nel settore dell’energia riguarda combustibili fossili, non fonti rinnovabili, con una distorsione della domanda che ha portato Paesi come l’Egitto, dove questi incentivi impegnano oltre il 20% del bilancio statale, a diventare già da anni un importatore netto di petrolio e a interrompere nel 2012 le esportazioni di gas per ricorrere all’aiuto del Qatar che fornirà gratuitamente cinque navi di LNG. Se non verranno adottati opportuni correttivi, già in discussione in diversi Paesi, si prevede che la percentuale di gas prodotto sulla sponda sud del Mediterraneo che verrà esportato passerà dal 26% di oggi al 5% entro 20 anni. Questo potrebbe portare a crisi energetiche in Europa e sociali nei Paesi della sponda sud, con riflessi drammatici in tutta la regione. In parallelo, il costo di produzione del gas continua ad aumentare. Da un lato per motivi tecnologici, poiché le nuove risorse sono in bacini sempre più remoti, come Reggane in Algeria, o in formazioni profonde e complesse, come nel delta del Nilo. Dall’altro per la dipendenza di questi Paesi dalla produzione di idrocarburi, che richiede prezzi di vendita superiori ai 100 $ al barile per mantenere l’equilibrio fiscale. Considerato l’aumento dell’incertezza del mercato del gas in Europa e l’impossibilità di ridurre la tassazione della produzione di idrocarburi, gli investimenti in questi Paesi sono rallentati, e così la capacità di esportazione rispetto alle ottimistiche previsioni di 4-5 anni fa. Il risultato è una minore sicurezza di approvvigionamenti per l’Europa e un maggiore rischio economico per i Paesi produttori. Sebbene l’instabilità dovuta alla
Primavera araba non abbia avuto ripercussioni significative sulla produzione di gas, l’aggressione al sito produttivo di In Amenas, in Algeria, ha ricordato come ciascun Paese debba restare vigile per fronteggiare possibili attacchi terroristici. Tanto più che nel 2011 il gas liquefatto ha superato il petrolio in termini di traffico attraverso il Canale di Suez, uno dei choke points più importanti nel traffico marittimo mondiale attraverso il quale oggi transita circa il 50% della domanda di gas del Regno Unito e il 90% di quella del Belgio. Per questo alcuni Paesi europei hanno preso iniziative dirette per la stabilizzazione della regione del Sahel. A fronte di queste sfide, negli ultimi 4-5 anni si è sviluppato un nuovo potenziale bacino produttivo nella zona orientale del Mediterraneo. Nell’offshore di Cipro e di Israele sono stati scoperti più di 1000 miliardi di metri cubi di gas, e nuove gare per l’assegnazione di permessi esplorativi sono in corso a Cipro e in Libano. Queste scoperte hanno fatto salire il rating di Israele e sono state oggetto di discussione politica nell’ambito della discussione sul bail out bancario cipriota. Lo sviluppo di questa nuova regione produttiva contribuirà a consolidare la relazione con l’Europa se si realizzeranno tre condizioni. La prima è l’approvazione da parte di Israele di una politica di esportazione del gas. La seconda, essendo le riserve scoperte in Israele e a Cipro non sufficienti su base individuale a sviluppare un impianto di LNG, è un accordo per lo sviluppo congiunto di un tale impianto. La terza riguarda l’evoluzione dei mercati globali di LNG. Oggi i Paesi dell’Estremo Oriente pagano l’LNG circa il 30% più dell’Europa. In questo contesto il gas del Mediterraneo orientale potrebbe essere commercializzato in questi Paesi e non in Europa, a meno che, come alcuni prevedono, l’esportazione di gas di scisto dagli USA sotto forma di LNG non porti a una riduzione dei prezzi in Estremo Oriente. Nel bacino del Mediterraneo esiste anche un’altra opportunità. L’Italia, infatti, ha sufficienti riserve di gas per coprire il 20% della domanda per i prossimi vent’anni a costi del 20-30% inferiori rispetto ai prezzi di importazione,
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generando un extra-gettito fiscale di due miliardi di euro all’anno, riducendo la bilancia commerciale di sei miliardi di euro e creando oltre 25.000 posti di lavoro. Questo non solo in provincie geologiche mature come la pianura padana e l’offshore adriatico, ma anche in nuovi bacini come l’offshore dello Ionio che, come quello spagnolo, presenta analogie geologiche con il Mediterraneo orientale. L’atarassia amministrativa italiana, tuttavia, impedisce a oggi di valorizzare appieno questo tesoro. In conclusione, per consolidare la relazione tra i Paesi del Mediterraneo occorre affrontare cinque aspetti. Il primo è l’identificazione di nuove relazioni contrattuali tra produttori e clienti per affrontare strutturalmente una nuova situazione di mercato con una domanda debole, una volatilità in aumento e nuove modalità di competizione tra gas e altre fonti energetiche, eventualmente anche attraverso la partecipazione diretta dei clienti allo sviluppo di nuovi campi di produzione. Il secondo è la graduale rimozione dei sussidi energetici nei Paesi della sponda sud, eventualmente promuovendo lo sviluppo di efficienza energetica e di produzione da fonti rinnovabili. Il terzo è una costante attenzione alla stabilità sociale nei Paesi della sponda meridionale e alla prevenzione di possibili attacchi terroristici, anche con un eventuale coinvolgimento diretto di Paesi della sponda nord. Il quarto è lo sviluppo delle riserve scoperte nel bacino del Mediterraneo orientale. Il quinto, infine, è la riscoperta di quello spirito che è stato alla base del miracolo economico italiano degli anni Cinquanta e Sessanta per promuovere la produzione sostenibile di idrocarburi in Italia.
L’Italia ha sufficienti riserve di gas per coprire il 20% della domanda per i prossimi vent’anni a costi del 20-30% inferiori rispetto ai prezzi di importazione 059
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speciale enel foundation
L’energia mette in rete Europa e Africa articolo di Vera Mantengoli Giornalista del Gruppo Espresso
Un bacino energetico strategico, che possiede fonti continue e discontinue, che ospita il 7% della popolazione mondiale, che fa da corridoio per i mercati energetici globali. Il Mediterraneo è un luogo dove creare importanti relazioni. Le visioni di El-Salmawy, Boutarfa e Adam Brown da un convegno sul tema organizzato da Enel Foundation.
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Gli strumenti per raggiungere il successo ci sono tutti, ma per riconfigurare il paesaggio energetico dei Paesi che si affacciano sul Mediterraneo c’è bisogno di una strategia politica dallo sguardo lungimirante. Lo scorso maggio, nell’Isola di San Servolo a Venezia, si è tenuto un convegno a porte chiuse organizzato dalla Fondazione Enel, in collaborazione con l’IEA (International Energy Agency), a cui hanno partecipato i più grandi esperti di energia di 14 Paesi del Mediterraneo, tra i quali Hafez El-Salmawy (Vicepresidente MEDREG), Noureddine Boutarfa (Presidente dell’Associazione Med Tso) e Adam Brown dell’IEA. Lo scopo dei quattro giorni di brainstorming è stato quello di fare un punto sulla situazione energetica attuale e capire se ci siano i presupposti per una collaborazione che unisca le competenze raggiunte in Europa all’offerta di materia prima presente nel Nord Africa. Grazie alle fonti continue (energia solare termodinamica, geotermia) e a quelle discontinue (fotovoltaico, eolico) il Mediterraneo potrebbe infatti diventare autosufficiente e fronteggiare il bisogno di energia senza doverla acquistare, ma soprattutto potrebbe rientrare nei parametri indicati dall’Unione Europea per il “Piano 20 20 20” e la “Road Map”. Secondo i dati forniti dall’OME (Observatoire Méditerranéen de l’Energie) l’area interessata ospita il 7% della popolazione mondiale, pari a 500 milioni di persone, e produce il 10% del PIL mondiale (7,5 trilioni di dollari). Inoltre, il Medi-
terraneo possiede l’8% della richiesta dell’energia primaria (sole, vento, acqua in abbondanza) ed è considerato un corridoio strategico per i mercati energetici globali. L’OME ha provato a fare una fotografia del Mediterraneo con e senza investimenti nelle rinnovabili, dando delle chiavi di lettura che partono dalla constatazione che la situazione attuale del mercato non è sostenibile. A oggi le previsioni ipotizzano che nel 2030 in tutta l’area del Mediterraneo ci sarà una richiesta energetica del 40%, che le emissioni di CO2 saliranno dalle attuali 2200 milioni di tonnellate alle 3000 e che il mercato del fossile continuerà a dominare sulle altre energie (il gas prenderà il posto del petrolio). Inoltre si calcola che il bisogno di energia cresca di un 2,8% all’anno, e del 5% in Nord Africa dove si prevedono dei cambiamenti che modificheranno velocemente lo scenario attuale. Si pensi che, solo parlando di Nord Africa, nel 2030 la popolazione aumenterà di 80 milioni, con la conseguenza di un’impennata del PIL del 75%, del raddoppio della richiesta energetica e dell’emissione di CO2. Nello scenario alternativo, quello basato su interventi di politiche mirate all’aumento dell’efficienza e del potenziale di energie rinnovabili, si potrebbe ottenere un 10%
Grazie alle fonti continue e a quelle discontinue, il Mediterraneo potrebbe diventare autosufficiente e fronteggiare il bisogno di energia senza doverla acquistare
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di risparmio energetico, una riduzione del 20% di CO2 e una diminuzione del 50% della necessità dell’importazione di combustibile fossile, a favore di una cooperazione regionale di rinnovabili. In questo momento la situazione mondiale sta infatti cambiando. L’America sta sfruttando un nuovo metodo, il gas di scisto o shale gas, che potrebbe renderla, negli anni a venire, non solo autosufficiente ma anche esportatrice, trasformando gli equilibri commerciali esistenti. Si tratta di una tecnica che consiste nello scavare il sottosuolo, arrivando fino a 1000 metri, dove in genere si trovano le rocce di scisto, formate da materiale organico. Una volta fatte esplodere, le rocce emettono gas che viene catturato per produrre energia. Investendo nelle rinnovabili l’Europa non dovrebbe guardare il mercato estero, ma sarebbe a tutti gli effetti indipendente. «La questione è molto delicata – afferma Boutarfa, in accordo con gli altri relatori – in quanto attualmente il gas proviene dalla Russia, dall’Asia e dagli Stati Uniti, ma l’Europa si deve domandare se vuole continuare a investire sul gas, e a dipendere da altri Paesi, oppure se vuole avviare uno scambio che sia soddisfacente per entrambi gli attori in gioco: voi offrite la vostra tecnologia e noi le nostre materie prime». La cooperazione tra le due rive del Mediterra-
neo porterebbe anche molti vantaggi a livello sociale nei Paesi del Nord Africa, ma anche in quelli del sud dell'Europa, come nota acutamente Boutarfa: «Le migrazioni non sono soltanto verso l’Europa, ma anche all’interno dell’Africa. I benefici delle rinnovabili si sentirebbero anche in questo senso, in quanto darebbero più stabilità regionale nei nostri Paesi». Ma chi farebbe il primo passo? «Noi abbiamo bisogno che i Paesi del Sud ci prestino figure professionali che per noi sono carissime e non incentivano le aziende. Per esempio, un formatore mi può costare fino a 1000 euro al giorno, lo stesso prezzo che mi costano decine di lavoratori. Chi se lo può permettere?». Insomma, il progetto è grande e coinvolge tutti i settori della vita, incluso il cittadino che non ha ancora idea di quanto l’energia lo riguardi: «Se dovessi spiegare a un ragazzo che cos’è l’energia gli direi che è l’ossigeno dell’aria perché muove la comunicazione, che oggi è diventata un bisogno primario per tutti. Uno arriva sulla cima di una montagna e cosa vuole fare? Comunicarlo, con il telefono o via internet! E per questo c’è bisogno di energia. L’energia muove ogni cosa, ma c’è bisogno della tecnologia per questo. È invisibile agli occhi di tutti, ma si tratta di un processo che necessita la realizzazione di una struttura, come sap-
Un tempo pensare a una rete di energie rinnovabili che collegasse tutti i Paesi d’Europa era un sogno. Oggi invece sta diventando un progetto
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piamo bene noi che la trasportiamo». Un tempo pensare a una rete di energie rinnovabili che collegasse tutti i Paesi d’Europa era un sogno. Oggi invece sta diventando un progetto grazie anche al lavoro dell’IEA, che a Parigi sta mappando tutte le politiche che si stanno attuando nel campo delle rinnovabili in modo da studiare come si potrebbero collegare: «Ogni Paese – spiega Adam Brown – ha la sua risorsa naturale che potrebbe prestare al Paese vicino quando non è attiva. In questi anni le rinnovabili sono cresciute moltissimo, ma in quelli a venire ci aspettiamo che il picco cali perché bisogna pensare a come integrarle e perché finalmente diventeranno competitive iniziando a essere presenti dappertutto». Per quanto riguarda il carbone e il gas, in base alle proiezioni, Brown sostiene che, anche se i Paesi continueranno a produrlo e a utilizzarlo, arriverà un momento, attorno al 2035, in cui non sarà più conveniente comprare il gas rispetto alle rinnovabili. Insomma, le previsioni spingono per questa direzione, ma negli ultimi anni le politiche sono state influenzate dalla crisi che ha attraversato l’Europa e scosso il mondo arabo. Tutti concordano sul fatto che questo ha sicuramente rallentato gli investimenti in questo settore. Il problema è che, mancando i soldi, le imprese che sopravvivono vogliono vedere subito i risultati e hanno paura di investire su un fronte nuovo. Per questo molto dipende dalle scelte politiche che
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dovrebbero ragionare a lungo termine e trasmettere il messaggio che i costi sono iniziali, ma poi promettono stabilità. «Per sensibilizzare le persone – racconta l’egiziano Hafez El-Salmawy – stiamo attivando una campagna di informazione sul nostro territorio che parta dalla scuola e dall’opinione pubblica perché ci rendiamo conto di avere una ricchezza: il sole, come dimostra il progetto Desertec. Inizialmente i primi investitori sono stati i tedeschi, ma adesso l’idea è quella di coinvolgere anche le imprese locali». Un progetto da 400 miliardi di dollari che potrebbe risollevare l’economia di tutta l’Europa e il Nord Africa, ma che necessita una rivisitazione che tenga presente che l’energia è uno strumento che potrebbe dare beneficio in entrambe le rive e gettare le basi per un territorio che rompa i confini geografici in nome di una cooperazione collettiva.
«Se dovessi spiegare a un ragazzo che cos’è l’energia gli direi che è l’ossigeno dell’aria perché muove la comunicazione»
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Make the desert
bloom articolo di Luca Salvioli Giornalista e redattore del Sole 24 Ore
In Israele, università, incubatori e finanziamenti alla tecnologia danno forza alle start-up e consentono il loro sviluppo in tutto il mondo. Le risorse energetiche sono l’obiettivo della maggior parte delle aziende israeliane che si sono fatte strada all’estero, in particolare grazie alla gestione idrica, di cui il Paese è leader mondiale. Un deserto verde con industria ed energia come fiori all’occhiello. Israele, nel Medioriente, si distingue anche da un punto di vista energetico e industriale. La mutazione nel panorama degli incentivi nei confronti delle energie rinnovabili in Europa – e l’Italia in particolare con la fine del Quinto Conto Energia per il fotovoltaico – ha spostato l’attenzione delle imprese fuori dai confini nazionali e i Paesi arabi sono tra gli obiettivi: lì c’è domanda energetica, sole in abbondanza e politiche incentivanti. Il caso di Gerusalemme è diverso. Gli impianti fotovoltaici, alcuni con tecnologie all’avanguardia, ci sono e sono in progetto per i prossimi anni, ma per il momento il solare è soprattutto quello sopra il tetto delle case (solare termico) e mancano politiche incentivanti. «È un Paese piccolo, non c’è lo spazio per i grandi impianti – spiega l’israeliano Eran Efrat, area manager per l’Europa di VerDiesel, azienda specializzata nella produzione di biodiesel –. Lo stato incenti064
va quello di cui c’è bisogno, e cioè l’acqua». Israele spicca per due capacità: la produzione di start-up da un lato, lo sviluppo di tecnologie per la gestione e la razionalizzazione delle acque dall’altro. Sul primo fronte, il Paese è conosciuto in tutto il mondo per la capacità di far nascere imprese innovative che poi si estendono all’estero. In nessun altro posto c’è una tale concentrazione di start-up per numero di abitanti, senza dimenticare che al Nasdaq, il listino tecnologico di Wall Street, le aziende numericamente più rappresentate, dopo quelle americane, sono israeliane. La cronaca tecnologica internazionale è piena di esempi di questa presenza. Il primo è amaro: Better Place, l’azienda fondata dall’israeliano Shai Agassi che aveva avuto molta eco nel mondo con l’idea di favorire lo sviluppo dell’auto elettrica con un’infrastruttura automatizzata e veloce di sostituzione delle batterie, ha portato da poche
Israele spicca per due capacità : la produzione di start-up da un lato, lo sviluppo di tecnologie per la gestione e la razionalizzazione delle acque dall’altro
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Mar Morto Situato tra la Giordania e Israele, il Mar Morto si trova nella depressione più profonda della terra e ha un’importante concentrazione salina che aumenta in profondità (verso i 100 m è di 332 g per ogni chilo di acqua). La sua inospitalità alla vita, fatta eccezione per batteri e microorganismi, ne ha coniato il nome.
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Per avere successo, gli israeliani sanno che i brevetti che nascono a Tel Aviv, grazie all’ecosistema di università, incubatori e finanziamenti per il trasferimento tecnologico, devono uscire dai confini del Paese
settimane i libri al tribunale di Lod per la liquidazione giudiziaria e lo scioglimento. La decisione – si legge nel comunicato ufficiale di Better Place – è stata presa «dinanzi all’impossibilità di ottenere fondi supplementari e per l’assenza di risorse necessarie a proseguire nell’attività». L’ambizioso programma di network infrastrutturale, che vedeva anche una partnership con Renault, si è tradotto in “sole” 20 stazioni di ricarica rapida in Israele e 12 in Danimarca. Per avere successo, invece, gli israeliani sanno che i brevetti che nascono a Tel Aviv, grazie all’ecosistema di università, incubatori e finanziamenti per il trasferimento tecnologico, devono uscire dai confini del Paese. Un altro esempio recente ma virtuoso: Waze, l’applicazione per smartphone che funziona come mappa satellitare sociale, sfruttando le segnalazioni degli utenti, è nata in Israele e poche settimane fa è stata comprata da Google per oltre un miliardo di dollari battendo sul tempo l’interesse del rivale Facebook. La capacità di innovare arriva anche al settore energetico. Eran Efrat gira per il Vecchio Continente per stringere accordi e far conoscere Transbiodiesel: «Il mercato mondiale del biodiesel è crollato nel 2008-2009 perché la materia prima costava troppo – continua –. Le aziende acquistavano oli vegetali entrando in competizione con l’alimentare. Noi usiamo solo gli oli acidi derivanti dai rifiuti. In Italia abbiamo collaborazioni importanti e il business sta crescendo molto bene, peccato per la burocrazia». Il vero oro dei deserti israeliani è però l’acqua: basta attraversare il Paese, grande all’incirca come una regione italiana, per osservare i contrasti tra aree aride e ciuffi di erba verde, generalmente in corrispondenza dei kibbutz. Esistono centinaia di aziende attive nella depurazione e messa in sicurezza delle acque, poi ci sono i software per la gestione e il monitoraggio della rete idrica, desalinizzazione, irrigazione intelligente. L’emergenza idrica è una realtà da decenni e la gestione delle acque ha una lunga tradizione che ha seguito l’ambizio-
ne di “far fiorire il deserto” (make the desert bloom). Qui è nato uno dei sistemi di irrigazione più efficienti al mondo, noto come drip irrigation, che arriva alla singola pianta riducendo gli sprechi. È adottato in tutto il mondo grazie a Netafim, che commercializza i suoi prodotti dal 1965 e oggi è una multinazionale con sede nel kibbutz Hatzerim. Il Paese ricicla il 75% delle acque, riutilizzandole per l’agricoltura. «Quella di Israele nell’irrigazione è una leadership mondiale, per questo al prossimo Watec 2013 di ottobre (l’appuntamento annuale del settore nel Paese) presenteremo Alba: un impianto stand alone, che funziona anche in aree non connesse alla rete e funziona come sistema di accumulo» dice Angelo Pennacchi, area manager di Cadoppi srl, storica azienda di Montecavolo, in provincia di Reggio Emilia, che produce pompe. Gli impianti di irrigazione sono alimentati con energia elettrica e Alba consente la fornitura con pannelli fotovoltaici, solare a concentrazione e turbine microeoliche. «Per ora in Israele abbiamo messo una macchina dimostrativa in collaborazione con Metzerplas, finita questa fase entreremo nel mercato» conclude. Cadoppi esporta la propria soluzione anche in Centro e Sudamerica. Il fotovoltaico e l’eolico, per quando riguarda la domanda interna, sono una frontiera con ancora ampi margini di sperimentazione e molto dipenderà dalle politiche energetiche, per adesso decisamente prudenti. I capitali israeliani sono invece arrivati in Italia da tempo: Ellomay Capital ha rilevato a inizio 2013 due impianti fotovoltaici in Veneto da 12 megawatt, mentre la marchigiana Energy Resource ha di recente stretto un’importante partnership finanziaria con il fondo israeliano Helios: l’accordo prevede l’ingresso del fondo nella riqualificazione del porto di Ancona e nella nuove sede della fiorentina Arva. Due anni fa l’israeliana Friendly Energy è stata invece acquisita, secondo il procedimento inverso, dall’italiana Enerpoint diventando EnerPoint Israel. 067
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future tech
Le bussole della navigazione moderna articolo di Cecilia Toso Redazione di Oxygen
Quando la navigazione non è sola deriva romantica ma commercio, turismo, mezzo per scambi e affari, mappe e bussole non bastano più. Per garantire la riuscita di tutte le operazioni svolte in mare, ecco nascere, a partire dagli anni Novanta e prese in prestito dall’oceanografia, nuove tecnologie di mappazione, glocalizzazione, sicurezza, controllo dell’inquinamento.
È addirittura ridondante scomodare scrittori e pensatori dall’antichità per comprendere e spiegare come il mar Mediterraneo abbia svolto, e svolga tuttora, un ruolo centrale per le zone dell’Europa meridionale, del Medio Oriente e del Nord Africa. Il Mediterraneo ha significato, e significa, comunicazione e scambi, affari ma anche guerre, e poi navigazione turistica e commerciale, pesca, e migrazione. In questo senso si sono rivelate fondamentali le pratiche di “ricerca e sviluppo” tecnologico per il controllo e la sicurezza del mare. Tecnologie sviluppate per la navigazione, per il controllo dell’inquinamento (e analisi delle evidenti ricadute sulla flora e sulla fauna ittica), e inoltre per la sicurezza. Tecnologie in grado di affrontare la complessità degli spostamenti e dell’equilibrio dell’ecosistema di questo mare. Tecnologie che sono state prese in prestito da una disciplina scientifica già affermata come l’oceanografia. Si è iniziato ad applicare la scienza dell’oceanografia al mar Mediterraneo agli inizi degli anni Novanta, e non è difficile immaginare quali impellenze abbiano
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sollecitatato questo processo: le “carrette del mare” che arrivavano in Europa dal Nord Africa, e quelle dall’Albania sulle coste pugliesi, le guerre, e non ultima quella dell’ex-Jugoslavia, e poi le “questioni” libiche ed egiziane, quella israeliana, fino ad arrivare all’oggi delle primavere arabe. Nel 1998 la comunità di ricerca oceanografica inizia a progettare il Mediterranean Ocean Forecasting System (MFS), e di seguito viene istituito un nuovo consorzio, il Mediterranean Operational Oceanography Network (MOON): sistema operativo oceanografico del Mediterraneo, per coordinare l’MFS e le sue applicazioni. Tra i progetti più interessanti in questo ambito c’è sicuramente TESSA (Tecnologie per la Situational Sea Awareness) che, citando la “mission” del progetto, si occupa principalmente di: «messa a punto di modellistica previsionale che fornisca informazioni geospaziali per le aree marine, costiere e di mare aperto della Puglia, Calabria, Sicilia e Campania, ad alta e altissima risoluzione». «Predisposizione di piattaforme IT per l’erogazione delle informazioni geospaziali in tempo reale e
Tessa × Tessa si occupa della messa a punto di modellistica previsionale che fornisca informazioni geospaziali per le aree marine, costiere e di mare aperto della Puglia, Calabria, Sicilia e Campania.
alla massima risoluzione spaziotemporale ottenibile su web, dispositivi mobili, navigatori». E, infine, «realizzazione di strumenti in grado di supportare gli utenti nella gestione di situazioni di emergenza e nell’indirizzare le relative azioni di intervento in contesti quali la scelta della rotta delle navi, il monitoraggio dello stato di salute dell’ambiente marino e dell’inquinamento da sversamento di idrocarburi, la ricerca e il soccorso in mare». TESSA è parte di PARFAMAR (Potenziamento delle attività di ricerca e formazione sull’ambiente marino nel meridione d’Italia), una costellazione di cinque progetti di tecnologia e ricerca scientifica per il mare ammessi al finanziamento del Programma PON “Ricerca & Competitività 2007-2013”, un bando rivolto alle imprese e agli organismi scientifici localizzati nelle quattro Regioni della Convergenza (Calabria, Campania, Puglia, Sicilia). Gli altri progetti si muovono sempre nell’ambito di sviluppo di tecnologie per il mare: PITAM, la Piattaforma tecnologica innovativa per rilievi di parametri ambientali in mare e di supporto alla conoscenza), STIGEAC, Sistemi e tecnologie integrate per il rilevamento e monitoraggio avanzato di parametri geofisici e ambientali in aree marino costiere, AMICUS, Studio della riduzione degli inquinamenti e della salvaguardia in ambiente costiero in aree selezionate della Calabria e infine SIGIEC, Sistema di gestione integrato per l’erosione costiera. Con TESSA e i diversi progetti PARFAMAR, informatica, nuovi media, servizi Internet e di geolocalizzazione vengono messi al servizio della mappazione, elaborazione dati per la previsione e comunicazione, offrendo a quanti solcano, o a quanti devono controllare il mar Mediterraneo, un pacchetto di informazioni sempre aggiornato, schemi di previsione e un sistema di comunicazione rapido e ad altissima risoluzione... tutti elementi che risultano di vitale importanza sia nella gestione sia nella progettazione delle risorse di questo mare.
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approfondimento
Oltre Erdogan per tornare a crescere articolo di Pino Buongiorno Giornalista professionista fotografie di Mauro Guglielminotti
Il tramonto politico di Erdogan, in seguito alle rivolte di piazza Taksim, è un segnale del forte cambiamento della società turca, composta da giovani e donne consapevoli della propria vitalità. Perché la Turchia possa uscire dalla crisi registrando un’ulteriore crescita sarà cruciale la comprensione di questa nuova forza da parte del partito islamico. A Kayseri, l’antica Cesarea di Cappadocia, una metropoli di un milione e 100 mila abitanti, non si parla d’altro dopo le rivolte esplose in piazza Taksim a Istanbul contro una speculazione urbanistica per trasformare il parco Gezi in un centro commerciale, con tanto di moschea e caserma neoottomana. Qui, nel cuore dell’Anatolia centrale, dove quasi tutte le donne indossano il velo e la maggior parte dei ristoranti non serve vino, bacino di voti sicuri per il partito islamico al potere dal 2002 (l’AK Parti), l’imperativo ora è: «Salvare il partito anche a costo di sacrificare il nostro premier». Si dirà: è il tipico ragionamento di un’etica calvinista del lavoro che è nel DNA della Cappadocia e che prescinde dal destino degli uomini ingombranti. In questo caso, è il primo ministro Recep Tayyip Erdogan, 59 anni, il politico che ha creato il “fenomeno Turchia” proprio attraverso il miracolo delle Tigri dell’Anatolia: l’ascesa di una nuova classe di imprenditori, medi e piccoli, figli della borghesia musulmana che si sono per la prima volta imposti sulla scena turca a discapito dei soliti ricchi di Istanbul. Anche grazie a loro, il PIL turco dal 2001 al 2011 è cresciu070
to in media del 5,3% l’anno in termini reali. Ora Erdogan appare assediato nella sua torre d’avorio, circondato da una cricca di collaboratori yes men e da una casta di famelici costruttori, che vedono solo nella polizia, nei gas lacrimogeni, nei cannoni ad acqua e nei manganelli la speranza di sopravvivere e continuare a fare soldi. L’ottusa reazione alle proteste, il disprezzo per i manifestanti (“teppisti e rapinatori”), l’urlare al “complotto internazionale” di cui sarebbero responsabili i giornalisti stranieri e i social network, come Twitter e Facebook, hanno trasformato Erdogan nella vittima più illustre del proprio successo. C’è chi fra i suoi vecchi conoscenti lo giustifica, addebitando l’ira perenne alle cure da cavallo cui si sottoporrebbe da tempo per una grave malattia. Chi invece lo paragona a un principe ottomano, incapace di ascoltare le critiche, determinato solo a riformare la Turchia in senso presidenziale, in modo da candidarsi alla presidenza del Paese per essere in carica nel 2023 quando si celebrerà il centenario della Turchia. Meglio, molto meglio di lui – ragionano nella sede della Musiad, l’associazione
Ora la classe media scopre che la democrazia non si esaurisce nei risultati delle elezioni, ma impone il rispetto delle minoranze e l’ascolto dell’opinione pubblica nel suo complesso degli imprenditori musulmani – è il presidente Abdullah Gül, 62 anni, che, fra l’altro, è nato proprio a Kayseri. Se Erdogan appare anche in Cappadocia un “politico al tramonto”, Gül viene vissuto come il leader del futuro, non fosse altro perché è sembrato prendere le distanze dal suo vecchio compagno di partito nei giorni caldi dei moti di piazza, perorando la causa del dialogo con i giovani in sommossa. È così che la Turchia riprenderà la marcia trionfale che l’ha portata al 16° posto nella classifica mondiale delle 20 maggiori economie, con il PIL pro capite passato, in termini nominali, dai 3000 dollari del 2001 ai 10.000 del 2011? I notabili dell’AK Parti, i grandi gruppi industriali e bancari, come KOC e Sabanci, gli stessi generali, ma anche le potenze straniere (Stati Uniti, Russia, Cina e UE) s’interrogano proprio su quale strada imboccherà questo Paese fra i più strategici del mondo, che vive nel Mediterraneo la sua scommessa futura, sempre in bilico fra una vocazione europea e una asiatica, bastione della NATO e hub energetico mondiale. Quello che appare certo è che piazza Taksim
a Istanbul non ha prodotto una rivoluzione, come è successo in piazza Tahrir al Cairo, che ha detronizzato il “faraone” Hosni Mubarak. Si è trattato piuttosto di un moto di rigetto di un aspirante Sultano, diventato, con il passare degli anni, sempre più autoritario, arrogante e invadente fino a dettare legge sullo stile di vita, sulla libertà di parola e di scrittura, sul talamo delle famiglie turche. «Pregate e arricchitevi» è stato il motto in questo decennio di boom economico e anche geopolitico, con il modello turco a fare da esempio ai Paesi delle primavere arabe. Ora, soprattutto la classe media scopre che tutto questo non basta, che la democrazia non si esaurisce nei risultati delle elezioni, ma impone il rispetto delle minoranze e l’ascolto dell’opinione pubblica nel suo complesso. «La società civile che ha manifestato non solo a Istanbul, ma anche in una cinquantina di altre città turche, non ha bisogno di lei per sapere cosa deve mangiare e bere» ha scritto in un’accorata lettera aperta a Erdogan uno dei più noti scrittori turchi, Nedim Gürsel, autore del romanzo L’angelo rosso, che ha ottenuto il Prix Méditerranée. «Voglio sorseggiare il mio bicchiere di raki 071
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L’ottusa reazione alle proteste, il disprezzo per i manifestanti, l’urlare al “complotto internazionale” di cui sarebbero responsabili i giornalisti stranieri e i social network hanno trasformato Erdogan nella vittima più illustre del proprio successo
in riva al Bosforo e, se possibile, al tramonto. Lei non ha il diritto di privarmi di quel piacere, anche se è stato eletto con il 50% dei voti. Lei non può neppure costruire in piazza Taksim, uno dei simboli della Repubblica, una caserma ottomana, anche se trasformata in centro commerciale. Perché Istanbul non è Dubai, e la sua popolazione desidera che i siti storici e l’ambiente siano tutelati». Se così stanno le cose e se la sfida a Erdogan della parte vibrante del Paese, anche musulmana, sarà vinta, allora la crisi turca sarà solo un passaggio per un’ulteriore crescita della Turchia. Questa volta non solo economico-commerciale, non solo da potenza regionale a crocevia del triangolo mediorientale Siria-Iraq-Iran, ma soprattutto sociale. I liceali e universitari, le donne – molte delle quali appartenenti alla piccola borghesia – gli ambientalisti, gli ultranazionalisti, i gruppi per i diritti dei gay, i membri della comunità alevita, i separatisti curdi e i professionisti liberali che sono scesi in piazza sono la linfa vitale della Turchia contemporanea. Questa forza dirompente respinge i diktat dello Stato onnipresente e onnisciente, un tempo laico, oggi musulmano. I governanti e le forze di opposizione non possono prescindere dal 072
dato demografico peculiare di questo straordinario Paese. I 12 milioni di giovani fra i 15 e il 24 anni corrispondono al 18% della popolazione totale. Hanno accesso a Internet, usano i social network, vivono una vita digitale ancora più intensa dei loro coetanei europei. Anche le donne sono più istruite rispetto al passato, si sposano e fanno figli in più tarda età. Un numero consistente di donne lavora in settori prestigiosi, come quello accademico (39%), medico (34%), finanziario (32%) e giuridico-legale (28%). «Il vero motore dello sviluppo sociale del Paese è costituito dall’ottimismo che sprizza nei settori giovanili e dalla più moderna condizione femminile» sostiene Valeria Giannotta, una ricercatrice italiana che lavora alla Middle East Technical University di Ankara. Questi nuovi attori sociali non si sentono rappresentati dall’attuale governo di Erdogan e nemmeno dal principale partito di opposizione, il rigidissimo Chp di impronta kemalista. Finora sono stati “invisibili” alla sfera pubblica. Ora si sono mostrati in tutta la loro vitalità. Spetta alla classe politica e imprenditoriale più illuminata saperne cogliere le potenzialità. L’alternativa è un braccio di ferro che farebbe ripiombare la Turchia negli anni più bui della storia repubblicana.
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Rinascita Ellenica? articolo di Antonio Ferrari Editorialista del Corriere della Sera
Protagonista dei piÚ grandi timori europei negli ultimi anni, la Grecia sta vivendo un timido ma parziale rilancio economico. Nonostante una disoccupazione altissima e stipendi ridotti all’osso, la repubblica ellenica vede rinascere il turismo, la speculazione finanziaria che gira a suo favore e il riallacciare di importanti rapporti internazionali.
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È sempre difficile, dopo cinque anni vissuti nelle tenebre di una crisi che era diventata così grave da trasformarsi nel prologo di un sicuro fallimento, rivedere le stelle. Stelle assai poco luminose, d’accordo, ma comunque capaci di diffondere un po’ di luce – magari fioca ma pur sempre luce – sul prossimo futuro della Grecia. Da un anno, dopo la decisiva elezione politica del 17 giugno 2012, il Paese ha ritrovato una parvenza di stabilità governativa, formando un esecutivo guidato dal centro-destra di Nuova Democrazia, e sostenuto dai socialisti del dimagritissimo PASOK e dalla sinistra radicale e moderata (sembra quasi un ossimoro) di DIMAR. Adesso si comincia davvero a fare qualche progetto di rilancio. Il primo passo è stato compiuto con la Cina, e si può dire che il lucroso contratto abbia trasformato il Pireo, cioè lo storico porto di Atene, nella testa di ponte verso l’Europa e i suoi mercati. Un investimento importante: 3,3 miliardi di euro per un affitto della durata di 35 anni. E una ventata di salutare efficienza nel tessuto dello scalo marittimo, dove fa capo la seconda flotta mercantile del mondo. È poi bastato sfilare la Grecia dai primi posti delle hard news sui mass media e sul web per conseguire il primo importante contraccolpo psicologico: convincere la gente, quantomeno la maggioranza, che
i pesantissimi sacrifici imposti dalla troika (Banca centrale europea, Unione Europea e Fondo Monetario Internazionale) per ottenere gli aiuti necessari non sono stati, non sono e non saranno inutili: consentiranno, forse già nella seconda metà del prossimo anno, una vera ripartenza. Il turismo, proprio in questa stagione estiva gravida di attese, sta conoscendo un autentico boom: non soltanto nelle isole, politicamente periferiche quindi protette dai colpi di maglio della crisi, ma anche ad Atene e nelle altre città. Ha però fatto molto rumore l’acquisto – da privato a privato – dell’isola di Skorpios, il gioiello dello Ionio che apparteneva alla famiglia Onassis, da parte del discusso e opaco oligarca russo Dmitrij Rybolovlev, che voleva fare un “ragaluccio” da 117 milioni di euro alla figlia. È chiaro che vi è l’intenzione, anche da parte statale, di cedere qualche gioiello di famiglia. Molti ormai lo ritengono inevitabile. Come inevitabile è anche una rapida occhiata alla Borsa greca, che in un anno è cresciuta del 140%. Ma qui bisogna distinguere. L’interesse per la Grecia, come parcheggio finanziario, nasce soprattutto dai grandi speculatori internazionali che fino a qualche tempo fa puntavano decisi sul fallimento ellenico e scommettevano contro, mentre ora, virando di 180 gradi, puntano
Negli anni scorsi, quando la crisi mordeva sanguinosa, molte aziende italiane hanno deciso di ridurre il personale ma di non abbandonare la Grecia
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La disoccupazione generale non è lontana dal 30%, e quella giovanile sfiora il 60%. Migliaia di ragazzi cercano un’alternativa all’estero, magari per uno stage gratuito ma prezioso per arricchire il curriculum sulla rinascita del Paese, e a quanto pare stanno guadagnando molto bene. Ma se la finanza ride, il greco medio soffre e piange. La disoccupazione generale non è lontana dal 30%, e quella giovanile sfiora il 60%. Gli stipendi dei dipendenti pubblici, o meglio di quelli che sono riusciti a conservare il posto di lavoro, sono stati decurtati del 35%. Migliaia di ragazzi cercano un’alternativa all’estero, magari per uno stage gratuito ma prezioso per arricchire il curriculum, nella speranza che un giorno possa servire ad aprire uno spiraglio nel mondo del lavoro. Se guardiamo al Mediterraneo, possiamo dire che la crisi non ha sostanzialmente modificato le strategie della Grecia. Si nota soltanto un ridotto movimentismo soprattutto nel mondo arabo mediorientale e nordafricano, tradizionale sponda della diplomazia ateniese. Però si sono rafforzati i legami economici con Israele (anche nella prospettiva dello sfruttamento dei giacimenti di gas nel mare attorno a Cipro), ma soprattutto si punta a rinsaldare i legami con i Paesi europei mediterranei. L’Italia, ovviamente, è sempre il partner preferito. Neppure la sciagurata e infausta guerra voluta nel ’40 da Mussolini e Ciano per “spezzare le reni alla Grecia” ha lasciato rancorosi sedimenti. I due popoli si sono sempre reciprocamente specchiati. Gli intellettuali lo spiegano con l’eredità di una comune civiltà, la fantastica staffetta greco-romana. La gente, più prosaicamente, trova negli uni i pregi ma soprattutto i difetti degli altri, e viceversa. Del resto, un altro detto popolare recita: “Ci si ama non per i pregi ma per i difetti”. Negli anni scorsi, quando la crisi mordeva sanguinosa, e gli scambi stavano stagnando pericolosamente imponendo feroci tagli e ristrutturazioni, molte aziende italiane – le più grandi ma anche quelle medie e piccole – hanno deciso di ridurre il personale ma di non abbandonare la Grecia: per poterci essere quando le condizioni miglioreranno, e quando si potrà incassare anche il dividendo della lealtà. La Francia è stata sempre croce e delizia per i greci. Tuttavia, più che le tentazioni parigine, si guarda con maggior interesse a Londra. Non si riesce neppure a stabilire con buona approssimazione il numero dei ricchissimi greci che, in piena crisi, hanno dirottato parte dei loro capitali in Gran Bretagna, destinandoli all’acquisto di costosissime ville e appartamenti di lusso. Nella repubblica ellenica la corrente anglofila è molto consistente: favorita dalla storia, dall’amore di Byron, e dalle avventure (e recentemente disavventure) finanziarie della re076
pubblica greco-cipriota. L’isola, come si sa, era una colonia britannica. Fuori dall’Europa, l’Egitto rappresenta sempre lo zio mediterraneo più caro alla Grecia. Le ragioni dell’affetto sono tante: la gratitudine storica nei confronti di quella che fu la culla del sapere, la biblioteca di Alessandria; la riconoscenza nei confronti dei grandi studiosi arabi che prima salvarono dalla distruzione e dall’oblio le opere di Platone e di Aristotele, e poi amorevolmente ce le ritrasmisero; ancora gratitudine per l’ospitalità che da sempre l’Egitto ha offerto ai greci nei momenti più difficili e delicati della loro storia. Oggi c’è un valore aggiunto, che ha però un risvolto involontariamente cinico. Atene sta vivendo il boom turistico di cui si parlava anche perché numerosi visitatori, che solitamente puntavano sulla vacanza low cost di Sharm el Sheikh, adesso hanno scelto le isole dell’Egeo e dello Ionio. I timori per l’instabilità egiziana, le code di una “primavera” irrisolta, l’ambigua sorte del presidente Morsi e lo strapotere della Fratellanza musulmana stanno infatti aggravando la già devastante crisi economica del più grande Paese arabo. Curioso invece quanto sta accadendo, sulla sponda adriatica del Mediterraneo, con l’Albania. A partire dagli anni Novanta la corrente migratoria verso la Grecia è stata continua e costante. Sembrava che tutta la manovalanza immigrata nella repubblica ellenica fosse albanese. Oggi si sta assistendo al grande ritorno a casa. In Albania le condizioni di vita sono migliorate, l’economia è in crescita, e le opportunità di lavoro sono numerose. Anche perché, da molti Paesi, compresa l’Italia, sono tante le aziende mediopiccole che hanno deciso di trasferire la produzione nell’ex Paese comunista di obbedienza cinese. Infine la Turchia. Nessuno dimentica che, quando la crisi raggiunse il picco, il primo leader che scese ad Atene, accompagnato da ministri e uomini d’affari, fu proprio Recep Tayyip Erdogan, pronto a tendere la mano. Ecco perché i rapporti economici della Grecia con il potentissimo vicino sono diventati strettissimi: ben più forti del diffuso risentimento popolare nei confronti dell’impero ottomano, che occupò il Paese per 400 anni. Atene è stato il primo a sostenere il diritto ma soprattutto la necessità di accogliere la Turchia come membro dell’Unione Europea. Se Ankara fosse parte del club di Bruxelles, le gigantesche spese militari greche, che incidono quasi per il 7% di un PIL in grande sofferenza, non sarebbero più necessarie, quindi potrebbero venire drasticamente ridotte.
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Croazia: Europa a 28 articolo di Mara Gergolet Giornalista presso RCS
Troppo tardi per qualcuno, in un momento sbagliato per altri, la Croazia è diventata il ventottesimo stato dell’Unione Europea. Ma il Paese che molti credono essere l’ennesimo territorio problematico per la stabilità dell’Unione, potrebbe invece rivelarsi una risorsa e un buon interlocutore per i Balcani.
Se si fosse ancora potuto decidere la data, nessuno avrebbe scelto il 1° luglio 2013. Non i croati, che il loro ingresso in Europa avrebbero voluto celebrarlo anni prima. E neppure gli europei, molti dei quali invece avrebbero preferito spostarla in avanti, la data, tanto avanti da farla sembrare irreale. Perché che bisogno c’è, come ha scritto la Bild, in quest’Europa impoverita e in crisi d’identità, di un altro «Paese del Sud, indebitato, pieno di disoccupati e la cui principale industria è il turismo?». Invece, per rendere giustizia alla Croazia, basterebbe alzare lo sguardo. Pensare a Vukovar 1991, quando in città ancora attraccavano le chiatte del Danubio e poi arrivò, nell’incredulità di tutti, il vortice della guerra che spazzò i Balcani e lasciò, solo in Croazia, 20.000 vittime. Basterebbe ascoltare Vesna Bosanac, che dell’ospedale cittadino era direttrice, quando racconta come i serbi prelevarono 200 pazienti e li fucilarono (lei stessa è una sopravvissuta). Basterebbe tenere a mente la guerra, che gli stessi croati hanno rimosso, per riconoscere quanto qui si sia realizzato l’ideale europeo della pacificazione. Invece, nessuno oggi giudica la Croazia con i criteri della memoria. Da anni, la Croazia viene misurata a Bruxelles con un unico metro: quello della Bulgaria e della Romania. Più la data d’ingresso veniva rinviata (dal 2005 al 2007, e
poi al 2009 e 2013), più l’Europa dei vecchi membri chiedeva a Zagabria di dimostrare una sola cosa: di essere “matura”, non una replica di Budapest (“corrotta”) o di Bucarest (“esportatrice di immigrati”), come se il comunismo avesse per forza deformato tutto l’Est con un unico stampo. È vero, il limbo ha in parte portato consiglio. Zagabria entra nell’UE – caso unico – dopo aver messo in prigione per corruzione (10 anni) il suo ex premier, Ivo Sanader, gigante della politica nazionale; ha riformato la giustizia, processato alcuni manager, accettato l’idea di dover cambiare. Ma è altrettanto vero che l’irrigidimento europeo ha fatto perdere alla Croazia il vento benefico dell’allargamento. Il miracolo slovacco, la crescita del 10,4% nel 2005 (grazie al distretto dell’auto), non si ripeterà. La Croazia entra nell’Ue investita in pieno dalla crisi continentale, al quarto anno di recessione (il PIL a meno 12 rispetto al 2008), gli stipendi cresciuti nello stesso periodo del 20%, il 60% di stipendiati statali. Un troublemaker, un Paese problematico con i bond ridotti a livello “junk”. E se non dovrà chiedere il salvataggio, come ricorda il premier Milanovic, è perché «noi nell’euro non ci saremo». Quella croata, quindi, è semplicemente una scommessa a lungo termine. Sì, dovrebbero arrivare i fondi strutturali (fino a 14 miliardi
entro il 2020), purché il governo sia in grado di spenderli. Sì, sono stati liberalizzati i mercati dell’elettricità e dell’energia: però come si adatterà il Paese, dove la compagnia petrolifera semistatale l’Ina, calmierava i prezzi al punto da rivendere ai cittadini il gas a prezzi più bassi di quelli pagati all’estero (in uno dei pochi Paesi UE con consistenti risorse energetiche nazionali)? E ancora, quanto peseranno i nuovi dazi e la perdita dell’accesso privilegiato all’area di scambio balcanica, che vale il 21% dell’export nazionale? Domande che avranno risposta nei prossimi anni. Fin d’ora però è evidente che la Croazia non gioca solo per sé. Deve evitare di essere una “nuova Bulgaria”, quel cattivo esempio che preclude agli altri – come ha sperimentato sulla propria pelle – l’allargamento ottenuto per sé. O resterà l’ultima stella piantata sulla bandiera UE. Se invece l’integrazione riuscirà, il mercato comune europeo potrà finalmente allargarsi a Serbia, Bosnia, Macedonia. Sarà la Croazia, paradossalmente, a spianare la strada agli “altri”, ai musulmani e ortodossi che ha tentato in tutti i modi di allontanare da sé. E smetterà di essere quel antemurale christianitatis (baluardo della cristianità) su cui negli ultimi vent’anni di foga nazionalista ha riforgiato la propria identità. Insomma, avrà riunito i Balcani all’Europa.
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Il lungo autunno libico articolo di Gerardo Pelosi Inviato del Sole 24 Ore
Quella che segue la scomparsa di Gheddafi è per la Libia una lunga stagione di transizione e di ricostruzione di ruoli, nella quale stanno cercando di emergere le comunità locali, i diversi partiti ma anche le pericolose milizie. Una fase che può finire con successo se la comunità internazionale e soprattutto i principali partner commerciali della Libia offriranno il loro supporto. C’è un dato che, più di ogni altro, segnala quanta poca fiducia l’Italia, l’Europa e l’Occidente ripongano sulla possibilità che la rivoluzione libica, a due anni dall’eliminazione di Gheddafi dopo 42 anni di dittatura, possa produrre i primi effetti di stabilità e rinascita civile. Eni, il principale gruppo petrolifero italiano, due mesi fa ha pubblicamente reso noto che le sue strategie prevedono di ridurre la dipendenza dell’Italia dalle fonti energetiche libiche dal 24% al 16% in cinque anni. Insomma, Eni (in linea anche con altri grandi gruppi francesi e americani vittime, come gli italiani, di piccole e grandi estorsioni dei miliziani) dimostra di non credere affatto a una normalizzazione del Paese, soprattutto in tempi brevi. Se a questo si aggiunge che il governo presieduto da Enrico Letta, per finanziare il costo della cassa integrazione in deroga, sta decidendo di utilizzare fra le altre cose la rata annuale (250
milioni di dollari) che l’Italia si è impegnata a versare per venti anni al governo libico, in base al Trattato di amicizia e cooperazione firmato a Bengasi nell’agosto del 2008 da Silvio Berlusconi e Muammar Gheddafi, il quadro diventa più completo. Anche l’esecutivo, oltre al mondo imprenditoriale, ritiene che quella con la Libia non sia più una partnership strategica e prioritaria nelle relazioni tra l’Italia e la sponda sud del Mediterraneo. Restano solo dichiarazioni di buona intenzione, o poco più, quelle formulate dall’ex segretario del Pd, Pierluigi Bersani, volato a Tripoli poco prima delle elezioni su suggerimento del responsabile Esteri del partito, Lapo Pistelli, mentre la “Tripoli declaration” firmata dall’ex premier, Mario Monti, nel gennaio 2012 è rimasta un atto di buona volontà isolato. Tutti, dagli imprenditori ai responsabili della sicurezza, concordano sul fatto che la normalizzazione
Dopo Gheddafi. Democrazia e petrolio nella nuova Libia (Fazi Editore, 2012) Il libro di Gerardo Pelosi e Arturo Valvelli racconta una Libia di cambiamenti, transizioni e incognite. Se da un lato sembra essersi avviato nel Paese un promettente processo di democratizzazione – segnato dalle tappe del governo provvisorio, dalle prime elezioni libere e dalla nomina di Abu Shakour –, dall’altro le tensioni sono ancora una minaccia concreta (come dimostra l’uccisione dell’ambasciatore americano a Bengasi). Sono quindi molte le sfide che si prospettano per il futuro: costruire un’unità nazionale e un ruolo internazionale, il rapporto tra milizie ribelli ed esercito e quello tra Costituzione e Sharia.
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del Paese richiederà molto tempo. «Del resto – dice un alto dirigente della nostra intelligence – si sta producendo in Libia quello che abbiamo già visto nei Balcani e in Kossovo, dove c’è voluto molto tempo per trasformare i tagliagole della pulizia etnica in una specie di addetti alla protezione civile». Il clima di totale insicurezza è testimoniato dall’ultimo ordigno fatto esplodere qualche settima fa sotto un’auto dell’ambasciata italiana a Tripoli e dagli spari contro l’auto del console italiano di Bengasi, De Sanctis, all’inizio dell’anno. Ma chi sbarca a Tripoli in queste settimane si stupirà di trovare nella capitale libica un’apparente normalità, anche se fatta di caos e scarsa chiarezza su chi eserciti il monopolio della forza. Basta poco, tuttavia, per rendersi conto che delle milizie che hanno vinto la guerra con il decisivo contributo fornito dagli alleati (americani, europei o arabi), la Libia non se ne libererà presto. E rappresentano, queste milizie, l’elemento attuale di maggiore destabilizzazione del Paese. Come spiega bene il ricercatore dell’Ispi, Arturo Varvelli nelle sue analisi sul Paese, il governo centrale «non ha la forza necessaria per disarmarle, ma neppure la volontà politica. Ha piuttosto puntato a una loro assimilazione, come storicamente avvenuto dopo situazioni simili». L’ipotesi di un loro scioglimento e di un arruolamento dei singoli tuwwar (rivoluzionari) all’interno dell’esercito si è concretizzata in un più semplice “cambio di casacca” di parte delle milizie. A due anni dalla rivolta contro Gheddafi, la Libia attraversa insomma una complessa fase di transizione, destinata a perdurare mesi, se non anni. Il governo centrale cerca di evitare nuovi conflitti e intraprende la strada della riconciliazione, anche se la legge sull’epurazione rischia di escludere dai posti di maggiore responsabilità la classe dirigente più formata e tecnicamente preparata. In sostanza un’ipotesi di ampia “de-baathificazione”, che avvantaggerebbe il partito dei Fratelli, getterebbe ombre sulla capacità di governare la macchina pubblica ed escluderebbe Jibril, ma anche l’ex presidente del Consiglio Nazionale transitorio Abdel Jalil o l’attuale presidente del 082
Congresso Mohammed Magarief. Dal punto di vista politico il primo ministro Ali Zeidan, che è riuscito a imporsi come super partes tra i personalismi e le rivalità emergenti e il suo governo, retto da una maggioranza trasversale che comprende il partito della Fratellanza musulmana e l’Alleanza di Mahmud Jibril, sembra raccogliere il consenso di buona parte della popolazione e delle comunità locali. La Libia, scrive Varvelli, sembra lontana dal settarismo tipico di altri Paesi, come l’Iraq. Il governo è preso tra due fuochi. Da una parte le milizie esercitano una sorta di ricatto nei suoi confronti: la continua richiesta di fondi e mezzi per svolgere al meglio gli incarichi assegnati (il controllo di aree, istituzioni e infrastrutture) a cui si aggiungono le richieste di sussidi e pensioni per gli ex-combattenti (il cui numero, come alla fine di ogni guerra civile, è cresciuto a dismisura rispetto alla reale partecipazione). Dall’altra ci sono le pressioni statunitensi. All’interno della galassia delle mi-
il lungo autunno libico |
lizie vi sono gruppi salafiti composti di elementi qeadisti, che hanno combattuto sul fronte afghano, iracheno e ora siriano. Non solamente Ansar al-Sharia, la milizia alla quale è stato addebitato l’attentato ai danni dell’ambasciatore statunitense Chris Stevens e di altri tre americani a Bengasi l’11 settembre scorso, ma anche altre brigate che hanno dimostrato di agire indipendentemente ma tra loro connesse e, soprattutto, di condividere la medesima visione (milizia Rafallah alSahati, brigata Abu Salim, ecc.). Alcuni gruppi radicali della Cirenaica sono già entrati a far parte delle forze di sicurezza libiche che il governo sta cercando di riorganizzare. Inoltre, tre campi di addestramento di miliziani poco graditi sono chiaramente stati identificati in Cirenaica e sarebbero un facile obiettivo dei droni Usa. Ma a differenza di quanto accadde nell’86 con la guerra della Sirte, Washington, nonostante sia stata colpita direttamente con l’attacco a Stevens, intende stare alla larga da Tripoli senza che ciò escluda un monitoraggio attento sui possibili collegamenti con le formazioni di Al Qaeda nel Maghreb (AQIM). Mentre l’Europa timidamente si esercita nel suo tradizionale lavoro di institution building, resta aperto il nodo della Costituzione. Il punto più importante è quello legato alla disposizione della Sharia come principio fondante della legge in Libia. La discussione non riguarda tanto l’imposizione della legge islamica, ampiamente riconosciuta come fondamentale all’interno del Paese, ma su chi sarà preposto a decidere se una
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legge emanata dal Congresso sia in contraddizione con essa. L’errore peggiore, in questa situazione sarebbe abbandonare il Paese al suo destino. «I vicini – diceva Giulio Andreotti che con il colonnello Gheddafi, negli anni Settanta, trattò di tutto, dal terrorismo alle forniture militari – uno i vicini non se li può mica scegliere». Anche perché i primi segnali di cambiamento nel Paese, una volta esaurita l’incertezza del lungo autunno di Tripoli, sarà l’Italia, nel bene o nel male, a percepirli. Ma per una volta l’ottimismo non sembra fuori luogo perché dopo il G8 in Irlanda del Nord e la richiesta formale del presidente americano Barack Obama all’Italia di giocare un ruolo attivo nella rinascita della Libia, il premier Enrico Letta ha incontrato il premier libico Ali Zeidan a Roma il 4 luglio. L’Italia guiderà quindi l’azione dei principali Paesi UE (Francia, Germania e Regno Unito) e degli Stati Uniti, che si riuniranno a fine anno a Roma, in tema di institution building, ossia per la formazione delle forze di sicurezza in Libia e in Italia, consegna delle armi delle milizie, riforma delle amministrazioni. Toccherà anche all’Italia gestire il team internazionale che dovrà garantire la sicurezza dei pozzi petroliferi. Dalla base in Nigeria e da Sigonella le forze militari USA controlleranno il territorio con i droni. A quel punto forse anche l’Eni deciderà di rivedere i suoi piani e di investire ancora nel Paese come ha fatto fino ad oggi con risultati significativi dal punto di vista economico e con importanti ricadute geopolitiche per la stabilità di tutta la regione.
Il primo ministro Ali Zeidan è riuscito a imporsi come super partes tra i personalismi e le rivalità emergenti e il suo governo sembra raccogliere il consenso di buona parte della popolazione e delle comunità locali 083
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La monarchia illuminata del Marocco articolo di Giovanni Porzio Reporter
Diritti umani, trasporti, infrastrutture, riforme costituzionali e salute sono al centro delle riforme del giovane sovrano del Marocco: misure attuate per tempo che hanno scongiurato la primavera rivoluzionaria nel Paese. Condizioni diverse, anche se non ottime, che raccontano l’altra faccia del mondo arabo.
Re Mohammed VI può ritenersi soddisfatto: se anche l’anziano monarca saudita Abdullah ha deciso di trascorrere le vacanze estive nella sua villa in Marocco significa che il livello di sicurezza nel regno cherifiano non desta eccessive preoccupazioni. L’ondata di proteste che ha travolto i regimi in Tunisia, in Libia, in Egitto e in Yemen, innescando il bagno di sangue in Siria, ha infatti lambito solo di striscio l’estrema landa occidentale del mondo arabo. I germi della crisi sono ben presenti anche in Marocco: disoccupazione giovanile galoppante, tasso di analfabetismo superiore a quello egiziano e tunisino, crescente attività di cellule jihadiste (tra il 1994 e il 2011 in una serie di attentati terroristici sono morte oltre 60 persone, compresi numerosi stranieri). Eppure il Paese non è precipitato nel caos: merito che va in gran parte ascritto alla lungimiranza del suo cinquantenne sovrano. Subito dopo l’ascesa al trono, nel luglio 1999, il re ha avviato un nutrito programma di riforme. Il nuovo codice di famiglia (Mudawana) varato nel 2004, per quanto imperfetto, rappresenta un deciso passo avanti 084
sulla strada del pieno riconoscimento dei diritti delle donne. La commissione creata per indagare sulle violazioni dei diritti umani durante il regno del padre di Mohammed VI, Hassan II, ha analizzato 29.000 dossier e la maggior parte delle vittime è stata indennizzata. La lotta alla povertà è stata intrapresa con vigorosi investimenti in opere pubbliche e rilanciando il settore turistico. A Marrakech, nonostante il calo dei visitatori causato dalla recessione internazionale, sono in costruzione sei alberghi a 5 stelle e quattro campi da golf, mentre una nuova autostrada consente ormai di raggiungere Agadir in meno di due ore. Nella sonnolenta Tangeri la medina è stata restaurata e nel raggio di pochi chilometri stanno spuntando, con capitali arabi, spagnoli e italiani, complessi residenziali e stazioni balneari. Sulla costa mediterranea, in posizione strategica sullo Stretto di Gibilterra, è già decollato il mega porto Tanger-Med, il più grande in Africa, il cui raddoppio è quasi ultimato: entro il 2015 sarà in grado di smaltire 8 milioni di container, 7 milioni di passeggeri, 3 milioni di veicoli e 10 milioni
di tonnellate di prodotti petroliferi. Agli albori delle primavere arabe, nel marzo 2011, il re ha giocato d’anticipo annunciando la riforma della Costituzione, approvata in luglio con un referendum. Mohammed VI, discendente del Profeta, rimane l’Amir al-Muminin, il Comandante dei credenti, e resta il capo delle forze armate e dei servizi di sicurezza. Ma il primo ministro del Marocco, per la prima volta, non è più scelto dal re bensì designato dal partito di maggioranza, il potere giudiziario è indipendente dall’esecutivo e il tamazight, il berbero, è diventato lingua ufficiale assieme all’arabo. Non è ancora una monarchia costituzionale, ma è certamente l’inizio di un percorso di devoluzione che la dinastia alaouita sembra determinata a portare avanti. «Il mondo arabo sta cambiando» dice Wahid Khouja, membro del Partito dell’autenticità e della modernità. «Vogliamo dimostrare all’Occidente che il Marocco può approdare a una vera democrazia con una rivoluzione pacifica: un cammino che altri Paesi dell’area potrebbero seguire». Il ricambio delle classi dirigenti apre infatti incoraggianti prospet-
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Le riforme che molti descrivono come un’operazione di cosmesi istituzionale al solo scopo di salvaguardare la dinastia, potrebbero alla lunga rivelarsi insufficienti in un Paese dove gli squilibri sociali sono allarmanti 086
la monarchia illuminata del marocco
tive su scala internazionale. Una delle conseguenze delle primavere arabe e del crollo dei vecchi regimi è il rilancio dopo anni di stallo dell’UMA, l’Unione del Maghreb arabo, il progetto di integrazione economica tra gli stati della regione che ha nel Marocco uno dei cardini essenziali. E un disgelo tra Algeri e Rabat sulla questione del Sahara occidentale, non facile ma oggi meno improbabile, darebbe slancio alla cooperazione nel settore strategico della sicurezza nello spazio saheliano-sahariano, consentendo nuovi sviluppi negli ambiti del commercio, dei trasporti e dello sfruttamento delle risorse naturali, dal gas di scisto ai siti fotovoltaici. Il Marocco, con l’uscita di scena di Hosni Mubarak in Egitto, è diventato il principale alleato di Washington in Nord Africa: un elemento di stabilità e il baluardo contro un Islam fondamentalista che minaccia di espandersi in ampie zone del continente, dalla Nigeria all’Algeria, dal Mali alla Libia. Mentre l’Europa ha bisogno della collaborazione di Rabat sui fronti del narcotraffico e dell’immigrazione clandestina. La “transizione morbida” in atto nel regno è il risultato della volontà di Mohammed VI di legittimare il partito degli islamici moderati (Pjd, Par-
tito della giustizia e dello sviluppo) che a sua volta, invece di reclamare un cambio radicale di regime nelle piazze, ha accolto con favore il tentativo riformista del sovrano e ha poi vinto, nel novembre 2011, le elezioni legislative: il segretario del Pjd, Abdelilah Benkirane è stato nominato primo ministro. La cauta apertura alla democrazia ha finito per spiazzare i gruppi integralisti come il fuorilegge movimento Giustizia e carità, che pur opponendosi alla monarchia ha rinunciato a usare la violenza come strumento di lotta politica. Ciò non significa che il Marocco sia definitivamente al riparo dai contraccolpi delle rivolte arabe. Le riforme, che molti descrivono come un’operazione di cosmesi istituzionale al solo scopo di salvaguardare la dinastia, potrebbero alla lunga rivelarsi insufficienti in un Paese dove gli squilibri sociali sono allarmanti. Se la mortalità infantile è scesa del 30% in cinque anni, almeno 15.000 scuole elementari – sostiene la stampa d’opposizione – sono ancora prive di acqua potabile e di servizi igienici. Mentre la fortuna personale del re, che controlla banche, industrie e le miniere di fosfati, è quintuplicata in dieci anni: con 2,5 miliardi di dollari Mohamed VI è, secondo “Forbes”, più ricco della regina Elisabetta. Le redini del potere sono ancora nelle mani del makzhen, l’establi-
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shment reale, e del sovrano, al quale l’articolo 41 della nuova costituzione accorda la facoltà di abrogare con un semplice decreto (dahir) le leggi approvate in parlamento. Vecchie abitudini come la censura, gli arresti arbitrari e la diffusa corruzione sono dure a morire. E anche la modernizzazione e i piani di sviluppo delle infrastrutture, pur generando posti di lavoro, non sembrano in grado di colmare nel breve periodo il divario economico e sociale che affligge il Paese. Molti progetti appaiono sproporzionati e a beneficio degli investitori stranieri, dei turisti e dell’élite finanziaria marocchina. Come la contestata linea ferroviaria ad alta velocità Casablanca-Tangeri al costo di 2,8 miliardi di dollari: una cifra pari al 10% del bilancio dello stato, più di dieci volte del fondo agricolo annuale stanziato per i contadini, che rappresentano il 40% della manodopera del regno. Mentre la polizia ha ricominciato a smantellare gli oltre 50.000 edifici abusivi abitati dalla popolazione più povera. A Jorf Lasfar, dove stanno sorgendo un porto atlantico, una raffineria e un deposito di fosfati, i montoni pascolano tra le macerie delle case demolite. «Ci hanno detto che occupavamo una zona industriale» dice Tahar, 29 anni, disoccupato. «Costruiscono fabbriche sulla nostra terra. E poi distruggono le nostre case».
Una grande moschea Dopo la Mecca, la moschea di Hassan II di Casablanca è l’edificio religioso più grande del mondo islamico e il suo minareto quello più alto del mondo. La costruzione della moschea che può ospitare fino a 25.000 fedeli è stata conclusa nel 1993, su progetto dell’architetto francese Michel Pinseau.
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scenari
Africa: Il prossimo miracolo economico? articolo di Vittorio Da Rold Corrispondente del Sole 24 Ore
Nonostante l’instabilità politica, le sommosse di piazza e la diminuzione degli scambi commerciali con l’estero, il Continente africano sta uscendo dal lungo letargo. Tra Paesi più avanzati e altri meno, il Fondo Monetario Internazionale disegna un quadro generale di crescita, che interessa cinesi, americani ed europei.
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Africa in sviluppo Il deserto e le grandi cittĂ africane a confronto. Nella pagina precedente: Pretoria. In questa pagina: Durban e Cape Town. Nella pagina seguente: i grattacieli di Johannesburg.
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africa: il prossimo miracolo economico?
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Le economie dei Paesi del Nord Africa dovrebbero beneficiare nel 2013 di una cauta ripresa rispetto alla brusca frenata del 2012
«I “leoni” africani supereranno le “tigri” asiatiche?» si chiedeva provocatoriamente il settimanale britannico “The Economist” qualche tempo fa guardando alle stime di crescita del Fondo monetario internazionale. Forse occorrerà ancora tempo perché questa profezia si avveri, ma intanto le economie dei Paesi del Nord Africa dovrebbero beneficiare nel 2013 di una cauta ripresa rispetto alla brusca frenata del 2012. È quanto sottolinea il Fondo monetario internazionale nel suo rapporto sulle previsioni dell’economia mondiale, diffuso in aprile. «I Paesi MENA (Midle East-North Africa) importatori di petrolio – si sottolinea nel rapporto – dovrebbero godere di una crescita media del 2,7% nel 2013, rispetto all’1,9% del 2012, sebbene rimangano gravati dall’incertezza politica, dalla diminuzione degli scambi commerciali con l’Europa e dagli alti prezzi delle materie prime». La Tunisia dovrebbe registrare una crescita del 4%, rispetto al 3,6% dell’anno scorso, grazie a una ripresa del settore turistico. In Egitto la crescita economica dovrebbe rallentare dal 2,2% al 2%. Il rapporto del FMI sottolinea che l’aumento dei prezzi di cibo e carburanti potrebbe avere effetti negativi sulla produzione nei Paesi non produttori di petrolio e «peggiorare i loro già alti deficit fiscali ed esteri».
Anche la BERS, (Banca europea di ricostruzione e sviluppo) punta sul Nord Africa con l'apertura di uffici operativi al Cairo, Tunisi e Casablanca, con ruoli operativi e non solo rappresentanza. La banca ha iniziato a finanziarie operazioni con un credito per 300 milioni di euro complessivi tra cui un fondo private equity per tutta l’area del Maghreb, e crediti a imprese del manifatturiero in Egitto e imprese agroalimentari in Marocco. Inoltre ha preparato una lista di progetti per circa 1,2 miliardi di euro che da qui a sei, dieci mesi la Banca andrà a finanziare. Non solo il Nord Africa andrà bene. L’economia dell’Africa Subsahariana nel 2013 crescerà ancora sostenuta dalla domanda interna. La positiva previsione in questi tempi di crisi globale è contenuta sempre nell’ultimo rapporto economico del Fondo monetario internazionale. Che spiega: «Guidata dai consumi privati e dagli investimenti così come dall’export – mettono nero su bianco gli economisti del FMI – l’Africa Subsahariana, sulla base della notevole crescita del 2012, proseguirà lungo il trend di espansione interrotto solo nel 2009». Gli economisti del Fondo stimano che nell’area il PIL nel 2013 sarà in crescita del 5,5%, cifre da sogno per gli europei abituati a situazioni di recessione. «La crescita generalizzata – prosegue il rapporto – è basata sulla crescita significativa di massicci investimenti in infrastrutture 091
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e sulla capacità produttiva, sul sostegno dei consumi e sull’avvio di nuove capacità estrattive». Per il 2014 sarà maggiore, pari al 6%. Onde eliminare le perplessità, meglio dare uno sguardo al passato per comprendere ciò che sta avvenendo. Il Ghana ha corso dell’8,3% nel 2012 e dovrebbe crescere del 7,7% nel 2013. L’Etiopia passerà dal +7% al +7,7%, così come la Tanzania accelererà dal 6,8% al 7,3% e il Mozambico dal 7,5% al 7,9%. Ottima performance anche il Ruanda, chiamata la “Singapore del Continente Nero”, che nel 2011 è cresciuto dell’8,6%, mentre il Ghana ha visto crescere il suo PIL del 14%, record africano grazie alla recente produzione di petrolio. Ma attenzione, non ci sono pasti gratis in economia e i rischi sono sempre all’orizzonte. Secondo il rapporto, uno dei principali rischi per l’Africa arriva dall’eurozona. «Ci sono almeno due rischi che non dovrebbero essere sottovalutati – scrive il FMI – uno è lo scenario negativo di Eurolandia che potrebbe coinvolgere i Paesi a basso reddito, senza dimenticare la riduzione degli investimenti nei mercati emergenti che potrebbe far calare i prezzi delle materie prime e danneggiare così i produttori minerari». Quali sono i segreti di questo boom? A dare slancio alle economie di questa regione ancora molto arretrata del mondo è stato l’aumento dei prezzi delle commodity – che qui non mancano, ma che in passato si sono trasformate nella “maledizione delle risorse” – nonché la recente produzione di petrolio in alcuni stati. Ciò ha permesso di contrastare il calo della domanda globale proveniente dai mercati sviluppati, frenati dalle politiche di austerity per contrastare la crisi del debito sovrano in Eurolandia e dei mutui subprime negli Stati Uniti. Inoltre, per la prima volta a trainare la crescita di quest’area sono soprattutto i consumi interni e non le esportazioni: mentre l’Europa è in declino questi crescono a ritmi elevati e la classe media urbana sta diventando sempre più affluente. Spesso in passato hanno pesato su questi Paesi, come freni allo sviluppo, l’aumento demografico, i bassi livelli iniziali di istruzione, una governance carente basata su instabilità, guerre civili e corruzione e la vulnerabilità agli shock esterni come la volatilità dei prezzi dell’export. «Lo sviluppo dipende dal buon governo. Questo è l’ingrediente che è mancato in troppi posti e per troppo tempo. Questo è il cambiamento che può sbloccare il potenziale dell’Africa» (Barack Obama, discorso di Accra, luglio 2009). Ma le 092
infrastrutture restano inadeguate e la produzione di elettricità è scarsa (tutta la produzione dell’Africa Subsahariana, per esempio, è pari a quella della Gran Bretagna) e soprattutto costosa. Infine la Cina, oggi il primo partner commerciale dell’Africa con 160 miliardi di dollari di interscambio, desiderosa di sfidare gli Stati Uniti, la Francia e la Turchia e “affamata” di materie prime, sta investendo molti miliardi di dollari nel Continente Nero, ben 18 nel 2011, quasi il doppio della potente Banca Mondiale. Il resto lo potrebbe fare il Quantitative easing della FED (Federal Reserve System) e della Bank of Japan (BOJ) e il LTRO della Banca Europea, cioè le politiche monetarie accomodanti che potrebbero mettere in circolo miliardi di capitali, i quali per una volta potrebbero prendere più la via dell’Africa che dei BRICS.
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approfondimento
Quanta scienza al di lĂ del mare articolo di Davide Coero Borga Divulgatore scientifico
Basiamo la nostra conoscenza sul sistema di numerazione arabo, ma spesso ignoriamo la vera importanza che questa parte di mondo ha ricoperto in alcune delle rivelazioni che hanno plasmato la scienza: dalla prova del nove alla rifrazione della luce, dall’astronomia alla medicina. Una storia di scoperte e innovazioni che abbiamo ereditato e, in alcuni casi, fatto nostre.
Durante quello che, a scuola, ci hanno abituato a chiamare Medioevo europeo, la curiosità scientifica e l’attenzione naturalistica degli studiosi arabi ha prodotto conoscenze finissime che hanno gettato le basi di Rinascimento e rivoluzione scientifica. Sotto le buone stelle del califfato abbasside, a partire dal secolo VIII le scienze hanno conosciuto una stagione di recupero e sviluppo entusiastico del pensiero greco. I testi scientifici e la letteratura filosofica ellenica sono allora stati tradotti accuratamente per i lettori di lingua araba. Una circostanza che non si può attribuire a iniziative isolate di pochi studiosi, ma piuttosto a un desiderio largamente diffuso in quel fiorente mondo islamico che ha saputo farsi erede di un patrimonio culturale traducendo, condividendone i principi e sviluppando i problemi aperti. In questa età d’oro della scienza musulmana, sono stai raggiunti importanti risultati nella conoscenza scientifica. I primi passi di questo progresso scientifico e tecnologico sono stati mossi durante la seconda metà del VII secolo a Damasco, sotto gli ultimi Omayyadi, per poi svilupparsi a Baghdad con i primi Abbasidi. Proprio come avevano fatto i romani nei secoli precedenti, gli Abbasidi hanno saputo far proprio il pensiero delle culture assoggettate. Così, il relativamente povero mondo arabo ha assorbito e compreso la cultura copta, ebraica, persiana, greca, indiana e cinese. Se l’Europa ringrazia gli amanuensi per la loro instancabile opera di custodia delle culture greca e latina, al di là del mare sono stati i traduttori a proteggere le opere classiche dell’antichità. Tanto nel campo della fisica, quanto in quello delle discipline matematiche e astronomiche. Nella medicina come nelle scienze naturali (geografia, botanica, zoologia, mineralogia). Una nuova biblioteca, completamente fruibile in arabo, ha contribuito alla nascita di una cultura musulmana condivisa su cui ha potuto far crescere l’innesto della scienza araba. Un lavoro di ricerca che ha prodotto studiosi celebri nel mondo. E che getterà le basi di una scienza rinascimentale, debitrice al mondo arabo non solo per la conservazione del sapere, ma spesso per il suo incremento. Proprio come succede oggi, anche allora gli scienziati cercavano di conoscere i più avanzati risultati disponibili. E questi si trovavano negli scritti dei pensatori musulmani. Esiste, nei testi di Copernico, una difficile costruzione matematica che serve a spiegare i movimenti del pianeta Mercurio. Il livello di complessità è tale, che è improbabile possa essere stata concepita due
volte nello stesso modo. Ebbene, questa sequenza di calcoli compare anche negli scritti di Ibn al-Shatir, scienziato arabo vissuto nel secolo XIV. Con la differenza che Copernico inciampa in piccoli errori, forse dovuti a una sua scarsa comprensione dell’idea originale di Ibn al-Shatir. Questa e altre informazioni confermano un legame importante tra scienza e mondo arabo. D’altra parte, un impero che allora si estendeva da Samarcanda al Portogallo, aveva bisogno di bravi matematici per gestirne la complessa economia o, più banalmente, battere moneta con criterio. La religione, invece, chiedeva metodi certi per individuare l’esatta direzione della Mecca, in un nuovo mondo sferico: un complesso problema di trigonometria. Quando si dice scienza pratica…
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X secolo d.C. Jabir ibn Hayyan, alchimista apprendista scienziato. Descrive chiaramente i processi di riduzione e distillazione. Identifica diverse sostanze chimiche tra cui gli acidi solforico e nitrico.
Abu Ja’far Muhammad ibn Musa ibn Shakir, Ahmad ibn Musa ibn Shakir e AlHasan ibn Musa ibn Shakir, tre fratelli con il tarlo per la geometria. Si interessano di coni ed elissi, svolgendo complessi calcoli astronomici.
Al-Kindi, traduttore di testi dal greco antico all’arabo. Un migliaio d’anni in anticipo su Hedy Lamarr (attrice di rara bellezza e, pochi sanno, scienziata) si appassiona di crittografia e scrive un testo sullo spazio, il tempo e i moti relativi.
Hunayn ibn Ishaq, studioso di medicina. È autore di un importante trattato sull’occhio.
Abbas ibn Firnas, scienziato e inventore berbero. Mette a punto una particolare produzione di vetro, trasparente, utilizzato nei recipienti per bevande e per la fabbricazione di lenti d’ingrandimento, anche a scopo ottico. È conosciuto per un coraggioso tentativo di volo controllato, a cui è sopravvissuto.
Abu al-Qasim al-Zahrawi, è considerato il padre della chirurgia moderna. Una vita spesa nella sperimentazione e testimoniata nel trattato Al-Tasrif, che letteralmente significa “La condotta per colui che non sa comporre”, dove descrive strumenti e procedure chirurgiche.
Ibn al-Haytham, medico, filosofo, matematico, fisico e astronomo. Ha contribuito alle ricerche su astronomia e ottica, studiando gli effetti della rifrazione della luce.
Al-Zarqali, artigiano esperto nella lavorazione del metallo. È riuscito nella costruzione di macchinari sofisticati e complessi, come gli astrolabi e gli orologi ad acqua. Si è occupato anche di astronomia e matematica, svolgendo studi accurati sul movimento del Sole.
Ibn Khalaf al-Muradi, scienziato e ingegnere. È autore di un trattato di ingegneria meccanica (Libro dei segreti risultanti dai pensieri), dedicato alla descrizione di ingegnosi automi meccanici.
XI secolo d.C. Ibrahim ibn Sina, meglio conosciuto come Avicenna. Fisico, astronomo e matematico è l’autore del trattato Il canone della medicina. Ha dedicato molta parte del suo studio alle indagini circa le proprietà della luce e ha contribuito allo sviluppo di diverse tecniche matematiche, tra cui la prova del nove.
Thabit ibn Qurra, matematico, astronomo e cultore degli scacchi. Ha trovato la soluzione a un problema di gioco che implicava serie esponenziali.
Al-Khwarizmi, matematico, geografo e astronomo. È uno dei responsabili dell’adozione del sistema di numerazione arabo, in derivazione dal sistema di numerazione indiano. Interessante il suo contributo nello sviluppo dell’algebra e nell’introduzione di metodi di semplificazione nelle equazioni.
XII secolo d.C. Omar Khayyam, matematico e poeta. Ha calcolato la durata dell’anno solare con esattezza fino alla quinta cifra decimale. Anche in geometria ha fatto il suo, trovando soluzione geometrica a tutte le tredici forme di equazioni cubiche.
Al-Battani, matematico e astronomo. Ha calcolato in maniera piuttosto accurata la durata di un anno solare contribuendo alla scrittura di tavole astronomiche utili a prevedere la posizione degli astri nel cielo. Per calcolare la direzione della Mecca dalle diverse regioni dell’Islam, ha elaborato anche una serie di tavole numeriche.
Abu Bakr Zakariya al-Razi, scienziato persiano. Ha fornito grandi contributi in ambito filosofico, chimico e medico, identificando il vaiolo e il morbillo. Ha riconosciuto nella febbre un meccanismo di difesa del sistema immunitario.
XIII secolo d.C. Al-Idrisi, esploratore, cartografo e geografo. È stato invitato dal re Ruggero II di Sicilia a Palermo, dove ha realizzato una raccolta di carte geografiche nota come Tabula Rogeriana. In essa descrive le culture, le condizioni climatiche e le risorse di tutto il mondo conosciuto a quel tempo.
Ibn al-Nafis, fisico e medico. Ha operato all’ospedale al-Mansuri del Cairo. In un suo commentario descrive con dovizia di particolari la circolazione polmonare.
Al-Farabi, matematico e filosofo. Ha descritto dal punto di vista geometrico i motivi ornamentali che caratterizzano l’architettura islamica. Ordine rigoroso e gusto per i frattali!
XIV secolo d.C. Nasir al-Din alTusi, matematico e astronomo persiano. Con la sua opera, ha dato un contributo fondamentale agli studi di trigonometria, e ha compilato forse la più accurata tavola astronomica del tempo.
Ibn al-Shatir, un caso celebre. È l’autore de L’Intellezione delle Orbite, un trattato filosoficoscientifico che precede alcune fondamentali intuizioni di Galileo e Niccolò Copernico. Praticamente ignorate nel mondo musulmano, le sue teorie potrebbero essere state rielaborate in forma eliocentrica da Copernico.
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Nubi di Magellano Visibili a occhio nudo e avvistate e descritte dal navigatore Ferdinando Magellano da cui presero il nome, queste due galassie irregolari orbitano attorno alla Via Lattea come se fossero satelliti. Un secondo flusso di materia, chiamato Ponte Magellanico, le collega fra loro.
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Se l’Europa ringrazia gli amanuensi per la loro instancabile opera di custodia delle culture greca e latina, al di là del mare sono stati i traduttori a proteggere le opere classiche dell’antichità
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Un’identità,
tante identità articolo di Matteo Vegetti Professore di Estetica e di Cultura del Territorio
Tradizionalmente metafora dello spazio pubblico, il Mediterraneo riunisce sulle sue sponde un pluralismo culturale, politico ed economico che spesso si è cercato di unificare. Nonostante i tanti tentativi e le proposte per creare unità, la questione resta tutt’oggi aperta.
Per via della complicità di natura e storia, quando si nomina il Mediterraneo ci si riferisce allo stesso tempo a un mare e a una regione, a una superficie d’acqua e alle civiltà dei tre continenti che in essa si bagnano. La sola parola “Mediterraneo” – alla lettera, il mare tra le terre – sta a indicare una certa comunione del mare rispetto ai territori, alle civiltà, alle diverse culture ed etnie che ne condividono le acque. Che poi questa “comunione”, stratificata in un plurimillenario intreccio storico di relazioni, influenze, conflitti, risulti da sempre irriducibile a qualsiasi dimensione comunitaria e identitaria, a qualsivoglia rappresentazione politica, cioè in definitiva a un nomos, non deve sorprendere. Nel gergo del grande giurista Carl Schmitt, il concetto di nomos indica uno spazio sul quale una data comunità erige un ordinamento giuridico, un orientamento religioso, una forma politica propria. Perché ciò accada occorre l’atto originario che consiste nel tracciare un limite, un confine, una frontiera:
uno spazio chiuso e sovrano i cui limiti coincidono con la legittimità del nomos stesso. Ora, ciò che è comune alla regione mediterranea, l’elemento marittimo, non è evidentemente soggetto a questa logica. Il mare limita per definizione il diritto terrestre: sulle onde non si possono scrivere confini, soglie, appartenenze. Qui la logica che separa il “mio” dal “tuo” fallisce: in mare aperto si dischiude uno spazio politicamente neutro, libero, comune, contendibile, anomico. In altre parole, nell’acqua si sciolgono i vincoli che valgono sulla terraferma; nessuno può imporre la propria legge agli altri, nessuno può rivendicare sulla acque diritti di possesso esclusivo. Anche in virtù di questi caratteri il mare è da sempre l’elemento ideale per il commercio, lo scambio, la comunicazione e l’ibridazione, la conquista. Se attiro l’attenzione sull’idea schmittiana di nomos, questo è perché ci aiuta a capire l’identità mediterranea come il rovescio di quella logica territoriale, fondata
sul possesso e la divisione della terra, sull’omogeneità dei valori condivisi e sullo ius soli, nella quale siamo coattivamente portati a cercare il fattore identitario di una comunità politica. Il mare-tra-le-terre, mentre unisce le civiltà, le divide, mentre le avvicina le distanzia, le spazializza, lasciando a ciascuna la propria auto-nomia. Del resto, se il Mediterraneo è stato spesso pensato dalla nostra tradizione nella metafora dello spazio pubblico, come un foro, un anfiteatro, una grande agorà, lo si deve a un’omologia spaziale (data dalla sua conformazione circolare), cui però si aggiunge un’omologia strutturale: anche nel caso dello spazio pubblico si tratta di pensare a un vuoto, anziché a un pieno, a uno spazio per definizione inappropriabile, capace di articolare la pluralità, le dinamiche di relazione e scambio, senza sopprimere la libertà di nessuno a prendervi parte. Non a caso fu Mussolini a rinnegare quest’idea, rilanciando in chiave moderna, coloniale e imperialistica, l’antica espressione mare 101
nostrum. In più occasioni il duce dichiarò la sinistra intenzione di fare del Mediterraneo un “lago italiano” e dall’aprile 1941 incominciò a usare l’espressione Mare Nostrum italiano. La tentazione di assimilare il Mediterraneo a “uni-verso”, sopprimendone così l’essenza (che quella di esistere come un “pluriverso”), è in realtà tipica del pensiero moderno, il quale, al di là degli interessi politico-economici particolari, resta legato al paradigma della politica statale (spesso nazionalistica), alla sua intrinseca necessità di creare all’interno dei propri confini un’omogeneità culturale, la neutralizzazione delle differenze politiche, religiose, etniche. Di qui però sorge anche il grande problema relativo alla possibilità – che è anche una reale necessità geopolitica – di concepire l’area mediterranea come un soggetto autonomo, politicamente rappresentativo, economicamente interconnesso, e questo nonostante le differenze e le distanze cui si accennava. A che tipo di unità politica ed economica può dunque ambire il Mediterraneo senza che se ne sopprima il carattere “pluri-verso”, ovvero senza assumere un punto di vista statale ed eurocentrico (che lo identifica alternativamente con la tradizione greca, latina, romana, romanza o cristiana)? I tentativi che vanno in questa direzione sono in un modo o nell’altro debitori di due grandi teorie. La prima è quella delle “panidee-panregioni” articolata dal massimo esponente della geopolitica tedesca Karl Haushofer. Nella sua visione, le Panregioni costituiscono dei macrosistemi geopolitici che superano la ripartizione tra stati della superficie terrestre, mentre le Panidee incarnano i principi unificanti e aggregativi, di carattere sociale, economico e culturale, che agglomerano queste entità politiche in insiemi ordinati e legati tra loro da relazioni interne di varia natura. La seconda è quella dell’iconographie régionale teorizzata da Jean Gottmann, uno dei precursori della geografia antropica, ma anche uno dei migliori interpreti della tradizione francese della géopolitique. Il concetto di “iconografia regionale” consente di introdurre un paradigma euristico che ha il merito di mettere in risalto il fattore spazia102
le. Riconosciamo una iconografia in un territorio che ingloba al suo interno «ricordi storici, saghe, miti e leggende, simboli e tabù, abbreviazioni e segnali del sentimento, del pensiero e del linguaggio» di una specifica regione. Allo stesso tempo l’iconografia di un territorio non è per Gottmann un dato definito e immutabile: si tratta piuttosto di un fattore mobile, versatile, in grado di sovrapporsi o sostituirsi alle iconografie preesistenti. Erede di entrambe le tradizioni (non senza la mediazione della teoria dei Grandi spazi di Schmitt) il filosofo Alexandre Kojève tentò di delineare una iconografia regionale del Mediterraneo come premessa a una vera e propria unificazione politica ed economica. A discapito del suo nome, l’idea kojèviana di Impero latino – formulata nel 1945 –, avrebbe dovuto apparentare, per affinità di lingua, civiltà, mentalità, clima, oltre che per forti interessi economici in comune, non solo gli stati mediterranei europei (in particolare Francia, Italia e Spagna) ma anche, in una prospettiva postcoloniale, l’Islam arabo e il mondo mussulmano del nord Africa. «Nulla impedisce – scrive Kojève, con straordinaria lungimiranza – che in seno di un vero impero questa sintesi di opposti possa essere liberata dalle sue contraddizioni interne, irriducibili solo finché concernono interessi puramente nazionali». La proposta rimarrà ovviamente sulla carta, al pari di quella, avanzata da Sarkozy (forse tacitamente evoluta dall’intuizione di Kojève) di creare una “Unione per il Mediterraneo”: non uno stato né un impero, né un’iconografia, ma, più modestamente, un organo internazionale, simile all’Unione Europea, deputato a risolvere le problematiche comuni all’area marittima mediterranea (immigrazione, flussi economici, energia, ecc.). Considerando questi e altri fallimenti nel dotare il Mediterraneo di uno status politico, ci si chiede se non avesse ragione il genio visionario dell’architetto-filosofo Herman Sörgel,
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che riteneva la questione dell’unità politico-culturale del Mediterraneo subalterna alla questione energetica. Il suo progetto geopolitico, denominato “Atlantropa” (del 1932, ma rielaborato e perseguito fin dopo la seconda guerra mondiale) è una grandiosa utopia che affascinò i suoi contemporanei trovando numerosi sostenitori e seguaci. Per risolvere il problema energetico europeo, e insieme implementare l’economia africana, Sörgel immaginava di chiudere lo stretto di Gibilterra (e quello dei Dardanelli) con un’immensa diga, la quale, oltre a fornire una quantità di energia idroelettrica (110.000 megawatt) sufficiente a rendere il continente atlantropico autarchico rispetto al resto del mondo, avrebbe abbassato di molto il livello del mare, restituendo all’agricoltura immensi terreni fertili. L’Unione Mediterranea diviene in questa visione qualcosa di letterale: con il parziale asciugamento del Mediterraneo – ridotto a un lago artificiale – Sörgel mirava a ripristinare una situazione simile a quella di 50.000 anni fa, quando Africa ed Europa non erano ancora divise dal mare. Certo, se a colpire non è tanto l’utopia tecnico-industriale, lo è invece l’autentico e in fondo emblematico paradosso per il quale, al fine di creare una comunità di interesse e un incontro tra le civiltà mediterranee, si debba eliminare il mare, cioè il Mediterraneo. Ma se è vero che le utopie contengono sempre energie nascoste, vale la pena di riflettere su entrambi gli aspetti: da un lato la centralità della questione energetica, dall’altro l’erosione del mare. Sörgel è stato forse il primo a intuire la fisionomia che l’Europa potrebbe assumere scegliendo la sostenibilità energetica quale motore di un processo di integrazione che la proietta oltre lei stessa, in una prospettiva geopolitica centrata sull’intera aerea mediterranea, libera tanto dai logori argomenti delle “radici”, quanto dagli interessi particolaristici delle nazioni. Di più: per aggirare la questione delle identità territoriali e delle divisioni statali egli si serve della logica segmentale delle reti e dei supporti tecnici allo scambio, un paradigma che anticipa la contemporanea geografia dei flussi e che aiuta a superare l’obsoleta cartografia politica mediterra-
nea. Per altro verso però, a contraddire l’attualità di questa visione, vi è proprio la questione del mare, del Mediterraneo come spazio fluido e libero. Il mare non si è prosciugato nel senso indicato da Sörgel, ma si è piuttosto solidificato. Solid sea è il titolo di un’efficace ricerca multidisciplinare sullo stato del Mediterraneo condotta dal gruppo “Multiplicity”. Un mare “solido” è un mare solcato da rotte predeterminate e da confini insuperabili, suddiviso in bande d’acqua specializzate e rigidamente normate attraverso sistemi di sicurezza, aree protette e zone cuscinetto. Chi si avventura sulle sue acque deve accettare un’identità prestabilita: è pescatore, o turista, o militare, o tecnico di piattaforme. Oppure immigrato clandestino. Come gli uomini e le donne che quotidianamente rischiano la vita per raggiungere il territorio italiano, e a cui spesso nessun Paese offre soccorso in mare aperto. Nel tragico gioco dei respingimenti incrociati, del diniego delle responsabilità, dell’omissione consapevole, dell’oblio programmato, il Mediterraneo è un “nulla in comune” che inghiotte vite e identità. Come quelle dei 283 uomini vittime, nella notte di Natale del lontano 1996, del naufragio di un barcone clandestino diretto a Portopalo, e che ancora giacciono senza nome sul fondo del Mediterraneo. La questione geopolitica dei flussi (dei capitali, delle informazioni, dell’energia) non può eludere la questione della mobilità dei corpi. La scommessa resta squisitamente politica.
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contesti
Incontri o conflitti?
La parola agli artisti articolo di Ludovico Pratesi Critico d’arte
Documentare evoluzioni, cambiamenti, rivoluzioni attraverso l’arte contemporanea. È il compito che si sono date le nuove generazioni degli artisti del Mediterraneo, riprendendo folle in delirio, riflettendo sulle rovine, sull’immigrazione, sul rapporto fra le diverse religioni presenti in questo territorio di incontro. Una passione in crescita, grazie alle tecnologie e un punto di vista nuovo per esplorare l’attualità mediterranea. Una folla in delirio, ragazzi che ballano, performance di artisti che si susseguono una dopo l’altra in una piazza traboccante di vita. La video installazione di Ahmed Basiony, presentata nel padiglione egiziano alla Biennale di Venezia del 2011, documentava in diretta l’atmosfera febbrile di piazza Tahrir nel cuore del Cairo, durante la Primavera araba, che la telecamera di Basiony riprendeva nei suoi aspetti più caotici e festosi. In quegli incandescenti giorni di fine gennaio del 2011 – quando l’Egitto si era liberato da un regime repressivo e soffocante durato trent’anni – l’artista decide di scendere in piazza e documentare il grido di libertà di un intero popolo, nelle sue manifestazioni più gioiose. Ore di balli e danze di giovani che combattono per difendere una libertà riconquistata dopo decenni, resistendo con coraggio alle cariche della polizia, tra lanci di lacrimogeni e proiettili vaganti. Dopo quattro giorni di riprese, il 28 gennaio del 2011 uno di questi proiettili uccide l’artista trentenne, rivelando i 106
pericoli e le debolezze di un movimento che avrebbe cambiato per sempre il volto del Mediterraneo. «Da questo punto di vista l’esperienza di Basiony è stata esemplare» ha raccontato Shady El Noshokaty, curatore del padiglione e suo grande amico. «Ha riportato in primo piano le ambizioni di un artista in rivolta, ambizioni che lo hanno spinto a combattere e a scontrarsi giorno dopo giorno per vivere nel suo Paese con dignità, fino al punto di essere privato di tutto, perfino della vita». Ahmed Basiony è un valido esempio del ruolo che hanno assunto gli artisti internazionali delle ultime generazioni nell’interpretare i profondi cambiamenti che stanno trasformando il volto del Mare Nostrum, dai Balcani al Nord Africa, fino al Medio Oriente. A partire dagli anni Duemila, lo sviluppo delle nuove tecnologie ha permesso di documentare queste evoluzioni nel loro “farsi”, aprendo la strada a riflessioni profonde, in grado di rivelare rischi e contraddizioni di processi rapidi e non sempre del tutto
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positivi. Un caso emblematico in questo senso è l’artista algerino Kader Attia, che ha trascorso la sua infanzia tra la Francia, dove è nato nel 1970, e l’Algeria, sospeso tra l’Occidente cattolico e l’Islam: le sue installazioni riflettono sull’impatto culturale e politico del capitalismo nel mondo arabo, espresso in tutta la sua violenza. Opere come The Repair from Occident to Extra-Occident (2012), presentata a Documenta (13) mostrano la complessa trama di relazioni formali, concettuali e semantiche che collegano i danni di busti e maschere antiche con le cicatrici dei corpi umani feriti in guerra, all’interno di una sorta di laboratorio di restauro sospeso tra storia dell’arte e cronaca bellica. Un’indagine che unisce antropologia, sociologia e semiotica, e che ritroviamo nella ricerca di Adrian Paci (Scutari,1969) artista albanese che vive a Milano dal 2000. I video di Paci riflettono sulla perdita dell’identità e sul senso profondo della condizione di emigrante, in rapporto al valore simbolico delle tradizioni e alla possibilità di raccontarle attraverso il linguaggio dell’arte per renderle universali. Uno dei suoi lavori più recenti, The Encounter, girato il 23 agosto 2011 nella piazza barocca di Scicli, nel cuore della Sicilia, mostra l’artista vestito in abiti da cerimonia che stringe la mano ad una fila di centinaia di persone, mettendo l’accento su un gesto rituale che, dietro la sua apparente banalità, riveste significati ancestrali profondi, legati ai rapporti gerarchici sia pubblici sia privati. Anche il kosovaro Sislej Xhafa (Pec, 1970) punta il dito sulle condizioni 108
dei clandestini in maniera ironica e spesso dissacrante: per sottolineare la precarietà del suo Paese natale, diventato indipendente soltanto nel 2008, si propose come Padiglione Clandestino alla Biennale di Venezia nel 1997 quando, vestito da calciatore albanese, invitava i visitatori a giocare con lui. In un video più recente, Theatre Who Knows Everything (2009) Xhafa ha ripreso un concerto di musica tradizionale realizzato al buio da un’orchestra di musicisti sudanesi nomadi al Cairo: una metafora di una società repressiva che allora impediva agli artisti di diffondere a volto scoperto la propria voce. Con Letter to a Refusing Pilot (2013), l’installazione realizzata per il padiglione del Libano all’ultima Biennale di Venezia, l’artista libanese Akram Zaatari (Sidone, 1966) racconta la vicenda del pilota israeliano Hagai Tamir incaricato nel 1982 di bombardare la città di Saida, nel sud del Libano, e si rifiuta di farlo perché si accorge che si tratta di una scuola, diretta allora dal padre di Zaatari. Quali sono le conseguenze di un gesto di questo genere? Perché il pilota ha cambiato idea? Nel porre questi brucianti interrogativi, l’opera è un implicito gesto di denuncia dell’inutile crudeltà delle guerre in Medio Oriente. Nemmeno la politica economica dell’Unione Europea nell’area del Mediterraneo viene risparmiata dagli artisti: l’opera Perfect Lovers (2008) del turco Ahmet Ogut (Dyarbakir, 1981) consiste in una bacheca che custodisce due monete quasi identiche: il conio da 2 euro e 1 lira turca, che vale esattamente la metà della precedente. Anche in questo caso la metafora dell’amore perfetto si riferisce alle complesse relazioni tra l’Europa e la Turchia, fondamentali per l’equilibrio dell’intera area mediterranea. E in Italia? Un’opera rappresentativa della posizione del nostro Paese rispetto al Mediterraneo è il video L’Italia è una Repubblica fondata sul lavoro (2004) di Rossella Biscotti (Molfetta 1978) che si ispira ai documentari di propaganda degli anni Trenta e si riferisce all’idea del lavoro come ricostruzione della nuova società italiana del dopoguerra, attraverso immagini che ripropongono alcune attività primarie, in un racconto sospeso tra realtà e utopia. Per concludere si possono riprendere le parole di Predrag Matvejevic, «il Mediterraneo attende da tempo una grande opera sul proprio destino»: a loro modo, gli artisti di oggi ci invitano a riflettere sul presente attraverso denunce, metafore, simboli, racconti e utopie, in attesa di una nuova visione che riesca a unire in un progetto comune tutti i Paesi che si affacciano sul Mare Nostrum.
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approfondimento
Un suono di sponda articolo di Paolo Ferrari Critico musicale
La vocazione melodica che accomuna le musiche mediterranee dĂ luogo a contaminazioni e rimandi che compongono un universo sonoro che dialoga attraverso le sponde del mare. Artisti, festival e correnti di oggi in un viaggio musicale attraverso tre continenti.
Se gli ’80s hanno messo in circolo il suono arabo e il decennio successivo è stato travolto dai Balcani, la frontiera del nuovo millennio è stata varcata con Istanbul in testa al plotone del rinnovamento mediterraneo
La musica popolare che si mischia, rimbalza, affoga e risorge da una sponda all’altra del Mediterraneo non è soltanto figlia delle operazioni di addizione, sottrazione, divisione e, soprattutto, moltiplicazione tra quanto nasce nei Paesi che si affacciano direttamente sul mare. Essi non sono altro che porte attraverso le quali entrano in una casa comune tre continenti. Tre continenti di suoni si affacciano sul Mediterraneo: un’Europa oggi più che mai attenta alle proprie minoranze linguistiche e culturali; un’Africa dilaniata da conflitti e corruzione che proprio nella musica trova uno status di grande potenza; un’Asia sospesa tra sviluppo e tabù, dove rurale e digitale dialogano con diffusa naturalezza. È una mappa che prende corpo anche in manifestazioni di richiamo mondiale. Appuntamenti come l’annuale Babel Med di Marsiglia, fiera di suoni meticci e produzioni ardite; il Womex, convegno World Music Export che non a caso trova nelle sue edizioni in versione Mare Nostrum (Siviglia per tre anni, Salonicco nel 2012, Santiago de Compostela nel 2014) un valore aggiunto riconosciuto da operatori e artisti; la Fira Mediterrània de Manresa, crocevia catalano di musica e teatro. Lì si fermano nell’orecchio e nello spirito emozioni fresche come gocce di rugiada sulla lavanda di Provenza. Primo elemento in gioco nell’interazione tra le musiche mediterranee è la vocazione melodica. La mappa arriva da lontano: dalla contaminazione arabo andalusa nella penisola iberica all’arrivo dei gitani da Oriente, dal canto religioso cristiano a quello della tradizione yemenita. Fino ai moti ondosi più recenti. Si pensi all’irruzione a metà anni Ottanta del raï algerino nel pop europeo. La voce, i colori, il portamento della generazione Khaled non solo avrebbero segnato una generazione di gruppi alternativi come Almamegretta e Mau Mau, ma sarebbero tracimati mainstream attraverso Pino Daniele, il Massimo Ranieri targato Mauro Pagani, per certi versi addirittura Nino D’Angelo. Tutto nasceva da Orano, Algeria, città chiave per il miscuglio tra Oriente e Occidente: musica araba, vento iberico, basi americane, folta comunità ebraica. Nessuno ha eguagliato Maurice El Médioni nel farne un cocktail afrodisiaco. Pochi hanno saputo portare in alto lo “shaker” come Rachid Taha, che nella ricetta ha infilato pure Tarantino, i Clash e ’O Sole mio. Questo procedere per ondate avrebbe conosciuto un nuovo exploit dieci anni dopo, quando all’uragano raï seguì il ciclone dei Balcani scatenato dalla coppia Emir Kusturica – Goran Bregovic.
Lì, sotto i colpi delle fanfare scalcinate nutrite a patate dei Carpazi, cominciava davvero il dopo muro di Berlino in musica. In questo caso a fare la differenza erano le poderose sezioni fiati e i ritmi già frutto di precedenti mescole, roba tipo copertoni di Formula 1 dell’arte di arrangiarsi. E ancora una volta tutto rimbalza dappertutto, fino alle più recenti applicazioni: la Fanfara Tirana arriva in Italia, si trova immersa nel marasma delle serate “balkan beat” che la proietta negli studi londinesi dei Transglobal Underground, a loro volta collettivo di provenienza asiatica. Sembra l’inizio di una vecchia barzelletta: ci sono un albanese, un italiano e un indiano… Invece è tutto vero, e pulsa nei dischi, sui palchi, nella rete. Se gli ’80s hanno messo in circolo il suono arabo e il decennio successivo è stato travolto dai Balcani, la frontiera del nuovo millennio è stata varcata con Istanbul in testa al plotone del rinnovamento mediterraneo. Merito di una scena vivace e geniale, Baba Zula e Taksim Trio su tutti, nel trasformare il ponte sul Bosforo in metafora del dialogo tra Europa e Asia. È una realtà raccontata con efficacia da Fatih Akin in Crossing The Bridge, film in cui sfilano rap, dance, rock, musica tradizionale della metropoli turca, non a caso nuova mecca del popolo dei club dopo Berlino e Barcellona. Altre ondate, nel frattempo, hanno scatenato reazioni a catena. L’Italia ci ha messo il Sud, con epicentro la Notte della Taranta, ormai cult per migliaia di turisti, ma pure con tante collaborazioni meticcie. Capeggiate dagli azzardi pizzica – rom dei Masarimirì e da Rosapaeda, erede della cruciale esperienza barese Different Style – capirono per primi che il dub è un collante mediterraneo potente quanto la melodia. La Grecia ha messo sul piatto il rebetiko, saldo approdo libertario per Vinicio Capossela. L’Occitania, una fetta sterminata di Mediterraneo che va dalle vallate alpine italiane al Paese Basco, ha rovesciato sul piatto il propellente punk folk dei Lou Dalfin, il reggae consapevole dei Massilia Sound System, un Moussu T erede con Lei Jovents di Vincent Scotto. Lì a Marsiglia, città fondata dai Greci, il Watcha Clan vola tra dub (ancora lui), Balcani e suoni arabi, citando con gusto il mito israeliano yemenita di Ofra Haza. Israele che dal canto suo ha proiettato sul mare l’ombra di Idan Raichel, ambasciato-
Le ondate non viaggiano solo da Sud verso Nord. Anzi. Fino agli anni Settanta i modelli occidentali, discendenti scapestrati del colonialismo, dettavano legge ovunque
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re di una Tel Aviv underground in cui frullano suoni yiddish, tango, gipsy e (guarda un po’) dub. Ingrediente in gioco anche nel rinnovamento della rumba catalana imposto da Ojos de Brujo e Sergent García, in una Europa che trova appigli techno nella trance gnawa marocchina. Le ondate non viaggiano solo da Sud verso Nord. Anzi. Fino agli anni Settanta i modelli occidentali, discendenti scapestrati del colonialismo, dettavano legge ovunque. Lo stesso Khaled da ragazzo consumava i dischi dei Rolling Stones, l’afro belga Baloji è cresciuto con Marvin Gaye e via dicendo. Quel che conta è come quei modelli vengono assorbiti, rivoluzionati e impugnati come armi a proprio favore. È il segreto del rap. L’edizione 2012 del Babel Med si è svolta a marzo in una Marsiglia capitale europea della cultura in cerca di produzioni su misura affidate a personaggi di appeal internazionale. La più eccitante ha visto Imothep, produttore del gruppo locale IAM, basilare nella storia dell’hip hop europeo, chiamare a raccolta alcuni dei rapper più importan-
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ti del Maghreb. Ragazzi che con le loro rime hanno raccontato e fomentato la cosiddetta Primavera araba. Dopo un workshop di alcuni giorni, il progetto “Kheper Watt” è salito sul palco dei Dock Des Suds. Dove i Sud sono plurali. Come le voci della serata, il cui mirabile amalgama ha confermato quale immenso potenziale covi lungo le sponde del Mediterraneo. L’algerina Meryem Saci ha sposato dal vivo la melodia araba con quella soul di eco americana; Yassin Alsalman, per tutti The Narcysist, ha macchiato di groove e richiami mediorientali i beat dei dj di casa; palestinese nata in Inghilterra, Shadia Mansour ha scelto l’abito tradizionale per elargire raffiche di rime in arabo, in inglese e in francese, alla causa del suo popolo. Testacoda attitudinali che sulla schiuma del Mediterraneo spesso sono femminili: Natacha Atlas che canta Edith Piaf e la berbera Hindi Zara che affida al regista zingaro Tony Gatlif il video di una canzone intitolata Beautiful Tango sono sirene apolidi di un mare che ripudia il concetto di acque territoriali.
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Il potere semplice della dieta mediterranea articolo di Gabriele Riccardi Presidente della SocietĂ italiana di diabetologia
Quelle che per molto tempo sono state le abitudini dietetiche dei popoli mediterranei risultano oggi essere le piÚ coerenti con le linee guida nutrizionali prodotte da istituzioni e ricercatori scientifici. Olio di oliva, cereali, verdura, frutta, pesce, vino: sono gli ingredienti della dieta mediterranea, patrimonio culturale immateriale dell’UNESCO, quella che piÚ si avvicina a rendere perfetta la nostra alimentazione e la nostra salute.
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Non esiste – perché non può esistere – una dieta ideale. Il mondo è troppo ricco di abitudini, tradizioni, gusti e biodiversità per restringerli tra le mura di uno stile alimentare “perfetto”. Ma negli ultimi settant’anni – da quando il medico nutrizionista americano Ancel Keys, sbarcato nell’Italia meridionale al seguito delle truppe alleate durante la Seconda guerra mondiale, si accorse delle strette connessioni tra alimentazione e patologie cardiovascolari – numerose ricerche scientifiche hanno studiato l’alimentazione mediterranea, dimostrando come questa si avvicini molto, per gli ingredienti e la composizione, a una dieta ideale. È in particolare dagli anni Cinquanta – cominciando con Keys e il suo studio dei Sette Paesi e proseguendo negli anni Novanta con Trichopoulou e lo studio EPIC (European Prospective Investigation into Cancer and Nutrition) – che le ricerche cliniche ed epidemiologiche si sono infittite, dimostrando che l’alimentazione mediterranea produce benefici misurabili in termini di migliore salute. Quelle che per molto tempo sono state le abitudini dietetiche dei popoli mediterranei – e spesso delle persone meno abbienti, come notò Keys – risultano oggi essere le più coerenti con le linee guida nutrizionali prodotte da istituzioni e ricercatori scientifici: elevato consumo di verdura, legumi, frutta fresca e secca, olio di oliva e cereali, moderato consumo di pesce, prodotti caseari e vino; basso consumo di carne rossa e insaccati. In componenti nutritive, ciò si traduce, tra le altre cose, in assunzione di grassi monoinsaturi al posto di quelli saturi di origine animale, carboidrati complessi, a volte integrali, corretto introito di proteine, con predominanza di quelle di origine vegetale. Questo tipo di alimentazione rappresenta un vantaggio per la salute sotto molteplici aspetti: protezione contro le più diffuse malattie croniche e, in particolare, diminuzione dei casi di ipertensione, diabete e obesità, abbassamento del tasso di colesterolo, minore insorgenza di malattie cardiovascolari (del 10%), minore rischio d’infarto (meno 72%) e trombosi. 116
Inoltre, numerosi studi attestano il contributo dell’alimentazione mediterranea nella prevenzione delle malattie neurodegenerative, come il morbo di Alzheimer e il Parkinson, diminuendole del 13% e riuscendo a ritardare considerevolmente la loro manifestazione. Questi risultati sono molto importanti, soprattutto se si considera che l’aspettativa di vita, a livello mondiale, si sta allungando e che l’aumento del numero di persone anziane nella popolazione ha un forte impatto sulla spesa sanitaria. Ridurre lo scarto tra durata della vita e durata della vita in salute è quindi di fondamentale importanza, per le persone e per la società. L’alimentazione mediterranea è una risposta a molti problemi
della società contemporanea e preservarla risulta oggi più urgente che mai perché le giovani generazioni, e non solo, la stanno lentamente abbandonando – soprattutto in Spagna Grecia e Italia – con gravi conseguenze sulla salute della popolazione. Per questo non solo nei Paesi che si affacciano sul bacino del Mediterraneo ma anche presso i popoli del Nord Europa e del Nord America dovrebbero attribuire all’alimentazione mediterranea (patrimonio culturale immateriale dell’UNESCO dal 2010) il suo giusto valore nutrizionale, frutto di secoli di esperienza e delle conoscenze prodotte da centinaia di lavori scientifici.
Ăˆ in particolare dagli anni Cinquanta che le ricerche si sono infittite, dimostrando che l’alimentazione mediterranea produce benefici misurabili in termini di migliore salute
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approfondimento
Pesca:
risorsa rinnovabile del Mare Nostrum articolo di Silvio Greco Presidente del comitato scientifico di Slow Fish fotografie di White
Parlare di pesca nel Mediterraneo significa considerare molteplici aspetti, dal confronto tra i Paesi comunitari e non ai cambiamenti in atto in Nord Africa, sino alla varietà di regolamentazioni, flotte e tecniche. Ma alla base di queste valutazioni non deve mancare la consapevolezza che il mare è una risorsa esauribile e di tutti.
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I prodotti della pesca, nel Mediterraneo, sono in sofferenza. E i segnali sono essenzialmente due: il dato proveniente dal Comitato scientifico, tecnico ed economico della Commissione Pesca dell’UE, che nel report 2012 ha verificato come 32 su 36 degli stock ittici del Mediterraneo siano ormai sovrasfruttati, e l’immissione sul mercato di specie di pesci e crostacei che fino a pochi anni fa venivano ributtati in mare. Ma cosa è in termini numerici tutta la pesca mediterranea e qual è lo scenario geopolitico di riferimento? Sono solo sette per ora, i Paesi comunitari che operano nel Mediterraneo: Spagna, Francia, Italia, Grecia, Slovenia, Malta e Cipro. Si tratta di una filiera che dà lavoro a circa 105.000 pescatori (il 40% di tutti i pescatori comunitari) imbarcati su 47.000 pescherecci (il 48,5% delle flottiglie comunitarie). Storicamente l’Italia (che nel 2008 ha registrato una produzione di 3552 t), ha sempre avuto la più numerosa flottiglia comunitaria di pesca del Mare Nostrum, imbarcazioni che utilizzano dalle grandi reti a circuizione per la cattura dei tonni alle reti da posta per triglie e seppie, passando per la pesca a strascico, il sistema di pesca nazionale più importante. La Francia e la Spagna hanno al contrario una modesta flotta mediterranea e una grossa flotta atlantica, la Grecia la Slovenia, Cipro e Malta presentano una modesta flottiglia essenzialmente dedita alla pesca locale costiera. La novità è rappresentata dai Paesi che si affacciano sulla sponda nord africana e in particolare dall’Egitto (90.000 addetti per una produzione di 237.572 tonnellate), dall'Algeria (160.000 t con circa 1000 imbarcazioni delle quali 750 operative), segue la Turchia con una produzione di 41.011 t, il Marocco con 4440 t, la Siria con 3784 t e la Tunisia, quest'ultima nazione in particolare è passata da una piccola flottiglia di imbarcazioni adibite alla piccola pesca costiera a una numerosa e ben attrezzata flotta di pescherecci di altura e nel 2008 si stimano in 85.000 le persone coinvolte nella filiera con una produzione di 1096 t. Per ora sono invece poco sviluppate le attività di pesca dei Territori Autonomi Palestinesi, di Israele e del Libano. Tra l’altro da poco si aggira anche in questo bacino uno spettro, la ZEE (Zona economica esclusiva). Nel 1970 l’Assemblea generale dell’ONU decise di convocare una conferenza internazionale sul diritto del mare. Iniziò nel 1972 e si concluse nel 1982 a Montego Bay, in Giamaica, con la firma di una Convenzione internazionale sul diritto del mare (Unclos) che, di fatto, “abrogava” il vecchio principio della libertà di pesca, attribuendo allo stato costiero, oltre alla sovranità sul mare territoriale di 12 miglia, il diritto sovrano a sfruttare le risorse econo-
miche fino a 200 miglia dalla costa. Nella ZEE lo stato costiero doveva però anche assicurare la conservazione e la gestione razionale delle risorse biologiche. La convenzione sanciva inoltre l’obbligo per tutti gli stati di cooperare insieme per la conservazione e la gestione delle risorse viventi nell’alto mare (oltre le 200 miglia). La convenzione è entrata in vigore nel novembre del 1994. Nel Mediterraneo la convenzione di Montego Bay si limitava a suggerire ai Paesi rivieraschi di cooperare tra loro per coordinare la gestione delle risorse biologiche. Di fatto si tratta dell’unico mare al mondo in cui, in quasi totale assenza di ZEE nazionali e di una regolamentazione internazionale (salvo che per alcune specie), da un lato vige ancora il principio della libertà di pesca in alto mare oltre le 12 miglia, dall’altro non esiste nessuna politica concordata per la salvaguardia delle risorse. La Spagna ha, pochi anni fa, istituito una zona di pesca protetta di 49 miglia, mentre Malta ha istituito dal 1971 una zona di pesca esclusiva di 25 miglia. Francia e Italia hanno dichiarato territoriali le acque fino a 12 miglia, mentre in Grecia le acque territoriali sono di 6 miglia. L’Algeria l’ha formalmente introdotta, con estensione inferiore alle 200 miglia, la Libia di circa 50 miglia. Un bacino regionale complesso, dove la pesca viene esercitata in modi diversi e con regole diverse, anche se nella maggior parte dei casi gli stock di pesci sono gli stessi. La struttura artigianale della pesca mediterranea, la multispecificità delle risorse e il contesto produttivo in cui si articola richiede un diverso approccio, al cui interno non può che essere riconsiderata la dimensione socioeconomica. In particolare: occorre riconoscere la titolarità del diritto di pesca in favore di quanti esercitano l’attività lungo la fascia costiera, eventualmente attraverso la costituzione di Consorzi di gestione della fascia costiera o Distretti di Pesca entro cui poter realizzare programmi di investimento, ripopolamento, miglioramento della produzione dell’area di pesca anche attraverso la definizione di Piani di Pesca, oltre che realizzare collegamenti stabili, di tipo commerciale, produttivo e sociale, fra le diverse realtà di pesca nel Mediterraneo. Tale approccio ha dimostrato in più occasioni di saper meglio rispondere alle esigenze di riequilibrio fra sforzo e cattura, attraverso il coinvolgimento sistematico degli operatori del settore al processo decisionale. Ma è necessario definire per ciascun Paese mediterraneo gli obiettivi gestionali relativi alla pesca. Devono seguire le linee guida per una pesca responsabile fissate dalla FAO: la pesca deve essere sostenibile e, per raggiungere tale obiettivo, è necessario monitorare continuamente e conoscere i processi dinamici che caratterizzano le risorse della pesca. 119
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pesca: risorsa rinnovabile del mare nostrum |
La pesca è un’attività commerciale, ma deve essere concepita in maniera che sia compatibile con la conservazione di tutte le specie e dei loro habitat. E le problematiche ambientali, come il livello di inquinamento nell’ambiente marino, rivestono un ruolo non marginale nella gestione delle risorse rinnovabili. L’evoluzione dei principali agenti inquinanti (metalli, PCB, idrocarburi, diossine e diossine simili) nelle reti trofiche, nella colonna d’acqua e nei sedimenti, interviene da una parte aumentando la mortalità di uova e larve di pesci, crostacei e molluschi, e, dall’altra, parlando delle diossine, modificando o la struttura sessuale degli organismi marini (imposex, ermafroditismo) o modificando le finestre temporali riproduttive. C’è consenso unanime sul fatto che, date le caratteristiche peculiari della pesca demersale del Mediterraneo e visti i reali problemi di quantificazione delle catture totali, la limitazione dello sforzo di pesca costituisca la maniera migliore di gestire le attività di prelievo al fine di ottimizzare lo sfruttamento delle risorse. Ciò non esclude, tuttavia, che per alcune risorse e zone sia possibile sperimentare e utilizzare con successo altre misure, per esempio: la gestione dello sforzo di pesca sia nella capacità sia nell’attività (attraverso la gestione dei giorni di pesca e le interruzioni tecniche); l’istituzione di aree di rispetto (nurseries) e di aree marine protette; piani di riconversione di sistemi “sensibili” (draghe idrauliche, piccolo strascico); diversificazione delle attività delle imprese di pesca verso forme a minore impatto ecosistemico; sviluppo del sistema di controllo in mare attraverso le tecnologie satellitari. Malgrado ciò, è necessario definire molto bene, per ciascuna zona, quali siano le tecniche e i sistemi di pesca da promuovere per massimizzare gli
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utili in un contesto di cautela. Infine, i responsabili della gestione devono suddividere lo sforzo di pesca per zona, stagione e strumentazione. È necessario colmare l’attuale mancanza di conoscenze essenziali (massa critica) e di produzione di dati affidabili per tutti i settori della pesca, da parte degli esperti in materia di valutazione degli stock, delle amministrazioni della pesca e infine dei pescatori. Ed è necessario incoraggiare il potenziamento delle attività di ricerca, soprattutto nelle aree e per le risorse di cui non si ha una profonda conoscenza. Un ruolo importante dovrebbe essere attribuito al GFCM (General Council of Mediterranean Fisheries) della FAO, responsabile del rafforzamento delle attività del suo Comitato scientifico consultivo (SAC), della promozione della partecipazione di delegati e ricercatori provenienti da tutti i Paesi mediterranei e dello sviluppo delle attività di ricerca scientifica e di raccolta dati.
La pesca è un’attività commerciale, ma deve essere concepita in maniera che sia compatibile con la conservazione di tutte le specie e dei loro habitat
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# I social network in Paesi a democrazia limitata sono diventati un veicolo straordinario, e facilmente accessibile, per trasmettere informazioni e organizzarsi 122
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contesti
Il mondo arabo aperto a # articolo di Simone Arcagni Giornalista
tutti
Le recenti proteste nei Paesi arabi hanno determinato l’affermazione dei social network come creatori di community attive, in grado di sensibilizzare i media e superare le barriere dell’informazione, diventando un luogo di interesse anche dal punto di vista artistico. Recentemente i media hanno ricominciato a occuparsi di Primavera araba: una protesta locale nata a Istanbul si è infatti ingigantita e ora sta agitando l’intera Turchia, da sempre in equilibrio instabile tra Medio Oriente ed Europa. Si è parlato spesso del ruolo centrale giocato dai giovani, soprattutto universitari, e dalle nuove tecnologie e dal web e, più in particolare, dai social network, primo fra tutti Twitter. I social network hanno dimostrato di svolgere una funzione importantissima non solo per la comunicazione, ma anche per la creazione di community. Ma un altro loro ruolo chiave è stato quello di funzionare da agenzia di stampa, andando a sensibilizzare i media internazionali, fornendo interviste, reportage, testimonianze visive. I social network in Paesi a democrazia limitata sono diventati un veicolo straordinario, e facilmente accessibile, per trasmettere informazioni e organizzarsi. In qualche modo si può persino dire che le piattaforme sociali utilizzate dalle diverse proteste delle Primavera araba, come anche quelle degli Indignados spagnoli (per rimanere in ambito mediterraneo), i movimenti come il 5 stelle italiano, il Partito Pirata tedesco o Occupy Wall Street negli USA... queste piattaforme, si diceva, hanno dimostrato di essere un nuovo canale mediale, un giornale aperto e indipendente, partecipato, una web tv capace anche di far saltare le strette maglie del-
la censura. Queste aree del Mediterraneo sembrano in grado ora di contrapporre a modelli “pesanti” di comunicazione, a volte obsoleti e spesso controllati, piattaforme economiche, leggere, partecipate, inclusive. Nuove tecnologie per nuovi sistemi di comunicazione: non è un caso che proprio Paesi emergenti (si pensi alla Cina, all’India e al Brasile) o altri che vivono crisi più o meno sotterranee stiano lavorando sulle nuove tecnologie, sperimentando forme, pratiche e modi, attraverso scuole di formazione, accademie, festival, organizzando conferenze e workshop. E così un Paese come il Marocco, molto interessato allo sviluppo dei media (e con una tradizione cinematografica importante), promuove il Digital Marrakesch Festival (la seconda edizione è stata dal 6 all’8 dicembre 2012). Digital Marrakesch Festival promuove il cinema e il video digitale, performance multimediali, video installazioni, digital mapping, net art ecc. Il suo scopo fondamentale è quello di sviluppare le professionalità locali, mettendole a confronto con quelle internazionali, costruendo un modello formativo attraverso masterclass e workshop. In Turchia (come ci racconta Ekmel Ertan nel suo Brief History of New Media Art in Turkey pubblicato in “Rozenberg Quarterly”) la svolta avviene quando, nel 2005, l’Istanbul Technical University avvia un master in Information Technologies in Design. Prima di allora 123
si ha la pubblicazione della rivista “HAT” – Hybrid Arrested Translation (un solo numero pubblicato nel 1998), e nel 2002 un gruppo indipendente fonda NOMAD, diventato un’associazione nel 2006. Anno in cui Ekmel Ertan e Aylin Kalem, colleghi alla Bilgi University, organizzano TECHNE – Digital Performance Platform, un festival con eventi, incontri, conferenze e workshop, un’esperienza che poi si trasforma in BIS (Beden-Islemsel Sanatlar Dernegi / BodyProcess Arts Association) e l’ormai famoso AMBER – Art and Technology Festival (nato nel 2007). In Tunisia l’E_Fest promuove la multimedialità come forma artistica, ma anche come modello di comunicazione e informazione, e soprattutto come linguaggio. Per fare questo organizza non solo proiezioni e performance, ma anche workshop e technical training per i giovani tunisini. L’idea, anche in questo caso, è quella di mettere in contatto professionisti e artisti provenienti da tutto il mondo con giovani “alle prime armi” per creare un sistema virtuoso. I nuovi media si sposano con la cultura e la società locale e così l’ultima edizione dell’E_Fest ha proposto una sorta di triangolo artistico tra Tunisia, Egitto e Libano. E proprio l’Egitto – anch’esso, come il Marocco, con una storia e una cultura cinematografica significativa alle spalle – guarda ai nuovi media, non solo come un modello economico perseguibile, ma anche come una nuova frontiera della comunicazione e dell’informazione. Per capire cosa sta succedendo in questi Paesi si sono mosse Sabine, una giornalista, e Ophelia, una fotografa e videomaker, che stanno girando un webdocumentario dal titolo Les hackers dans la cité arabe. Il webdoc sarà pronto per l’estate ma intanto le due registe stanno raccogliendo i materiali su un blog che funziona con licenza Creative Commons. Si tratta di una serie di incontri, interviste e dichiarazioni con i giovani programmatori open source in alcuni Paesi arabi come Algeria, Egitto, Tunisia, Libano e Iraq: qui creatività, nuove tecnologie, e giovani stanno facendo fiorire hackerlab e makerspace. Come hanno spiegato le due registe al Forum Sociale Mondiale di Tunisi (dal 26 al 30 marzo) «l’hacking sull’altra sponda del Mediterraneo è considerato come un prodotto della rivoluzione, un impulso alle pratiche collaborative e alle innovazioni, uno spazio aperto a tutti». Tra i protagonisti del documentario c’è anche l’ingegnere egiziano Mahmoud ElSafty che si interessa alle pratiche del tinkering, del DIY (Do It Yourself) e della digital fabrication, e che promuove free software e hardware. Mahmoud El-Safty è cofondatore dell’hackerspace di Giza e di Fab Lab Egypt, ed è uno di quei giovani creativi che guardano al sogno californiano della Sili124
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con Valley. Secondo Mahmoud El-Safty intervistato in Les hackers dans la cité arabe la rivoluzione digitale dei paesi arabi significa «pensare una società e un sistema educativo nuovi». Senza dimenticare l’economia e il mercato: «Probabilmente, col passare del tempo, molti dei progetti che usciranno da questi spazi si trasformeranno in prodotti o start-up. In effetti, sul mercato ci sono già prodotti open source software e hardware provenienti da hackerspace e makerspace».
# Non è un caso che proprio Paesi emergenti o altri che vivono crisi più o meno sotterranee stiano lavorando sulle nuove tecnologie, sperimentando forme, pratiche e modi, attraverso scuole di formazione, accademie e festival
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Il contenuto d’acqua di un castello di sabbia stabile non supera l’1% in volume della struttura; quanto all’altezza massima che può raggiungere senza franare, il calcolo è pari alla radice cubica del quadrato del raggio della sua base
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la scienza dal giocattolaio
Ingegneria di un castello di sabbia articolo di Davide Coero Borga Divulgatore scientifico
Con la sabbia asciutta non si costruisce nulla, e neanche con quella troppo bagnata. È per questo che dalla ricerca, grazie alla necessità di dover assorbire il petrolio disperso in mare aperto, arriva anche un nuovo gioco, la sabbia magica: bagnata diventa una gelatina plasmabile, tolta dall’acqua è subito asciutta. Il sogno dei costruttori di castelli estivi.
Tempo d’estate. Scienza sotto l’ombrellone. Giocattoli da bagnasciuga. C’è da stupirsi? Il secchiello, il rastrello, la paletta sono strumenti fondamentali per chi dell’architettura da spiaggia ha fatto un lavoro serio e... scientifico. Dietro innocenti balocchi di mare e sabbia finissima si celano segrete formule di fisica e chimica. Parola di scienziato: il contenuto d’acqua di un castello di sabbia stabile – imponente! – non supera l’1% in volume della struttura; quanto all’altezza massima che può raggiungere senza franare, il calcolo è pari alla radice cubica del quadrato del raggio della sua base. È quanto ha pubblicato sul Nature Scientific Report un team di studiosi dell’Università di Amsterdam. Scherzi dell’afa estiva? Tutt’altro. Le ricerche sul tema hanno importanti ricadute nel campo dell’ingegneria civile e della meccanica del suolo: si stima che la movimentazione e il flusso di materiali granulari sia responsabile di quasi il 10% del consumo mondiale di energia. Ciononostante, a oggi, si sa ben poco delle proprietà meccaniche della sabbia bagnata. E se con la sabbia asciutta non si va da nessuna parte (lo sanno bene i bambini in costume che misurano le spiagge italiane in cerca di sassi e bastoncini di legno con cui armare il cemento effimero delle loro costruzioni), anche una sabbia troppo bagnata finisce col destabilizzare un cantiere, finendo per inghiottire le fatiche di un pomeriggio sotto il solleone. Gli scienziati spiegano che la solidi-
tà di un castello di sabbia è il risultato di ponti capillari di liquido che oscillano fra i granelli. La struttura chimica dell’acqua genera un’attrazione fra i granelli, spesso sufficiente a sostenere strutture complesse. Ma quando l’acqua supera la famosa soglia dell’1%, la curvatura dei ponti liquidi e la loro oscillazione viene compromessa rischiando di far collassare la struttura (e detonando la rabbia bambina). Per costruire castelli antisismici, se possiamo dire così, bisogna diminuire la densità effettiva della sabbia. E per farlo basta cambiare giocattolo: immergere l’intera struttura in acqua e utilizzare sabbia magica. Tranquilli, non si tratta di alchimia ma di sabbia magica: sabbia della Luna, sabbia di Marte, sabbia spaziale, sabbia acquatica, insomma la famosa sabbia giocattolo che non si bagna. All’apparenza semplice e banale come i granelli che popolano il lungomare, ma venduta in piccoli flaconi di plastica, tappo dosatore, brevi istruzioni per l’uso e tanti i colori a disposizione: giallo, rosso, rosa, verde e blu. Idrofobica. Impermeabile. Rivestita da un composto idrorepellente. Vi ricordate della sabbia magica? Quella che, versata in acqua, si raccoglieva in una gelatina plasmabile e, raccolta dal fondo della bacinella, tornava perfettamente asciutta non appena bucato il pelo dell’acqua. Costituita da comune biossido di silicio, colorata, mescolata a parti di silice pura e trattata chimicamente per renderla idrofoba, la sabbia magica è una sostanza chimica che ha,
appunto, paura dell’acqua. Come il petrolio o un olio vegetale, tende a non combinarsi con l’acqua ma il suo peso la fa precipitare a fondo. Il cappotto idrofobo di ogni singolo granello respinge le molecole d’acqua e non appena è fuori dall’acqua risulta perfettamente asciutto. In acqua la sabbia tende a compattarsi in una gelatina argentata. I granelli aderiscono l’un l’altro per minimizzare la superficie. Diventando materiale di costruzione buono per uno spericolato castello subacqueo. Il primo riferimento alla sabbia idrofoba si trova in un libro del 1915: The Boy Mechanic Book, pubblicato dai tipi della Popular Mechanics, evidenti precursori della scienza giocattolaia. Oggi la sabbia viene resa idrofoba industrialmente tramite vaporizzazione di trimetilsilano, un composto di silicio organico. Questa innovazione della chimica è originariamente dovuta a una serie di ricerche su sistemi di precipitazione del petrolio. La sabbia impermeabile doveva servire da flocculante, da utilizzare in caso di versamenti di petrolio in mare aperto: spruzzata sulle chiazze di combustibile galleggiante, si mescola alle particelle oleose che, appesantite, vengono trascinate a fondo. I costi di produzione troppo alti hanno fatto abbandonare il progetto. In seguito la sabbia è stata testata in zone artiche come basamento a terra, dal momento che non congela. Ed è stata impiegata come mezzo di aerazione nelle piante da vaso. E poi dicono che sono solo giocattoli…
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Leggere non è solo un atto tecnico, né solo un processo mentale. Leggere è soprattutto un progetto di costruzione del cervello.
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20 07.2013 Science for everyone Co cover
MEDITERRANEAN The rich and complex Mediterranean region, a meeting place of cultures, religions, and societies, has always been strategic for communication between Europe, Africa, and the Middle East. Today, as a result of the Arab Spring, there is a growing need for global energy resources and new media opportunities, and the centrality of this region has become strengthened and is taking on an important role in the world’s geopolitical balance. Current events are telling us what the “wealth” of the Mediterranean consists of, with the rise of new social demands, and likewise, the expanding economies, policy changes, and cultural agitation. This issue of Oxygen recounts a territory of growth, with an enormous potential that will find expression only if the Mediterranean countries, that are so very different from one another, can establish a lasting bridge of communication and collaboration.
Ed editorial
A more Mediterranean Europe by Antonio Tajani Vice President of the European Commission
The Mediterranean has always been an area of vital importance to the stability of the world and global trade: the cradle of Western civilization through the Greek and Latin civilizations, but at the same time, of the East and the expansion of its civilization. It is also the crossroads of religions, of different trade routes that already a long time ago led to Africa, Asia (the Silk Road), or to the Indian Ocean through the Suez Canal. Not
to mention the navigators who sailed from the Mediterranean to discover “the New World.” This region of immense cultural and economic wealth can only be of essential importance. As an Italian, I obviously cannot remain indifferent to the fate of this region. As Vice President of the European Commission responsible for business and industrial policy, one of my goals has been to strengthen relationships and cooperation with the Mediterranean region. Undoubtedly there were already strong ties uniting the Mediterranean with the European Union through the European Neighbourhood Policy, and prior to my arrival, we had a policy of Euro-Mediterranean industrial cooperation. The region is in constant evolution and change. With the Arab
Spring, the political systems of these countries and their economic priorities have to be redefined. These changes are still going on, and that is why I think Europe should be more present than ever and respond to requests from our Mediterranean partners. If we show ourselves to be friends in difficult times, we will be able to build strong relationships with them. If we evolve the partnership in the right direction, our Mediterranean partners will hopefully be grateful to Europe. That is why, in addition to our existing industrial cooperation, I still want to make further progress. While Europe itself is going through an unprecedented crisis and profound changes are still shaking up our partners, the
idea has blossomed of organiz ing European economic missions in the Mediterranean. The goal is to revitalize the bilateral trade ties and develop growth on the two shores of the Mediterranean. In 2012, these ideas came to fruition, much to my great joy, and economic missions called “Missions for Growth” were conducted in three countries of North Africa: in Egypt in May 2012, and in Morocco and Tunisia in November 2012. These missions have brought together high-level European entrepreneurs from small, medium, and large enterprises, as well as representatives of organizations active in the development of international business. The objective is to open the doors of the world of policy-makers to these delegations
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While Europe is going through an unprecedented crisis, the idea has blossomed of organizing European economic missions in the Mediterranean
of entrepreneurs. Especially in the Mediterranean, it is important that businessmen, politicians, and high-ranking decision-makers (ministers) be able to communicate with each other, seated around the same table. Partnerships and investments arise through business contacts, but also through the support and the guarantees offered by the politicians of these countries. In Europe, the success of these missions was immediate and we were able to put together a large number of delegations of entrepreneurs seeking to expand their activities in the Mediterranean. The message was received very positively by our Egyptian, Moroccan, and Tunisian counterparts, and for their part, great expectations have been created in order to continue our missions for growth with the same enthusiasm. For example, with the Tunisians, we have established an EU-Tunisia Council for Entrepre-
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neurship that will be responsible for conducting the mission of monitoring and for agreements signed with partners in areas such as small and medium-sized enterprises, raw materials, tourism, and standardization or cooperation in the space sector. My vision for the coming years will be to maintain the momentum of these missions for European economic growth on both sides of the Mediterranean. The organization of other missions in Mediterranean countries has been taken into account, while a mission in Russia was just accomplished and another is expected very soon in China. Furthermore, beyond the numerous action plans that have already been signed between the EU and its Mediterranean partners, the European Commission services have also started negotiations to reach free trade agreements between the EU and Morocco and Tunisia. I also hope that the discus-
sions that are in a very advanced stage with Jordan and Egypt will lead to similar negotiations very soon. Little by little, a large pan-European- Mediterranean market will be created and gradually put into operation: a market that will include the EU, the EFTA, the Western Balkans, Turkey, and the Mediterranean countries. I believe that the program for the growth of the European Union is essential for restoring the ability of European industry to access new markets, and at the same time, to renew and innovate in order to adapt to the new realities of an increasingly global and changing world. These missions for growth, these free trade agreements, and the progressive implementation of the next big “pan-Euro-Mediterranean” market clearly fall into this agenda for growth, the agreement to which is the highest priority. The goal is not only to put Europe back on the path of
prosperity, but also to stabilize the economic environment in its neighborhood and develop strong relationships with our partners so we become closer. Let us not forget that since ancient times, trade and commerce have been the best way to bring the peoples of the Mediterranean together. We need to bring trade to the center of the debate and do our best to encourage entrepreneurs who wish to be launched on the international scene, because it is they who will form new social ties and help our economies recover. Moreover, this is another challenge that we want to meet through the initiative of the “Internationalization of SMEs.” Today, we are living in a global and interconnected world, and political and decision-making structures must adapt to meet the aspirations of their people in order to bring more prosperity and democracy to the greatest number of people.
english version
Sc scenarios
New bearings for Mediterranean governance The Mediterranean governed by the West, that we have known since the end of the Cold War, is disappearing. New economies are emerging, other countries are appearing on the global stage, and new social and political orders are shaping the Mediterranean region. A look at the future of governance as it evolves. by Nathalie Tocci Deputy Director of the IAI
The Mediterranean and the Middle East are undergoing a profound transformation. While the destination of the region’s troubled journey into the 21st century cannot be deciphered today with any degree of clarity, far clearer is the point of departure that it irrevocably leaves behind. Put bluntly, the proverbial “West” led the 20th-century Mediterranean and Middle East. As the Ottoman empire crumbled at the dawn of the last century, European powers took the lead, externally – and artificially – designing the Sykes-Picot state order. With European colonialism on the wane in the aftermath of World War II, the bat was passed on to the United States, in competition with the Soviet Union in the emerging Cold War global architecture. By 1978, with the Camp David I accords, Western – and notably American – leadership of the region was reaffirmed. The region was politically divided between the “moderate” (read pro-Western) and radical or resistance (read anti-Western) camps, with the former generally winning the upper hand. As the Cold War came to a close, American involvement in the region deepened, first and foremost through two wars in Iraq and an extensive investment in the Middle East peace process. The Middle East just depicted is fast fading. Domestically and regionally, the Mediterranean and Middle East are gripped by what
is optimistically dubbed an Arab Spring. Most visibly, the Arab uprisings have led to regime changes in three countries – Tunisia, Egypt, and Libya – two of which had been staunch Western allies, and the third – Gaddafi’s Libya – in rapid rekindling with the West. Yet the underlying transformation is far deeper, stretching across the region from Mecca to Marrakech. It is a process driven by deep societal, economic, and technological transformations, leading to an enhanced role of individual agency which is mobilized to seek greater empowerment. It is at the same time a process in which communal – and sectarian – identities are (re)awakened. Individual agency and communal affiliations are in turn presenting a formidable challenge to the state system. In many respects, it can be viewed as a race against time. The “state” has had an initial edge, equipped with the institutions to continue ensuring a Weberian monopoly over the use of force. Yet, in the medium-tolong term, individual empowerment and communal dynamics may well take the upper hand. Some states will resist longer – the Gulf monarchies, Iran, Morocco. Others are crumbling before our eyes – Syria. Yet the risk of centrifugal forces gripping the wider Middle East and casting into question the state system and its alignments as we have known them over the last decades cannot be underplayed. Within this regional system in flux, the “West” is gradually retreating. Barack Obama’s euphemistic call for “leadership from behind” in Libya may not have been technically correct – it is difficult to imagine how NATO could have toppled the Gaddafi regime, going well beyond its mandate for the implementation of a no fly zone, without the U.S. firmly in the driver’s seat alongside France and the United Kingdom. But politically, Obama’s call signaled the U.S.’s intention to gradually downscale its presence in the region, first and foremost in North Africa but also more broadly in the Middle East as a whole. Add to this the
gradually declining American dependence on Gulf oil resources in light of the “shale revolution.” All this does not entail an American wholesale retreat from the Middle East. Iran and Israel will continue to preoccupy Washington for years to come. What it does mean is that America’s hegemonic role in the region may be slowly coming to an end. The same can be said for Europe. In retrospect, the EU’s golden days in the Mediterranean were those of the Barcelona process, when it embedded in a broad multilateral framework the promise of peace brought about by the Oslo peace process. Within the broader international context marked by the end of the Cold War and U.S. hegemony in the region, the EU stepped in as second fiddle, intent on fostering a common Euro-Mediterranean home. Today, with Oslo over and no credible peace effort to replace it, the region in flux, and the EU mired in its deepest existential crisis yet, European influence on the region is also on the decline. The decline of Western hegemony in the Mediterranean is not to be replaced, anytime soon, with other external powers. For all the talk about the decline of the “West” and the rise of the “rest,” the so-called BRICS (Brazil, Russia, India, China, and South Africa) are not making a bombastic entry into the Middle East. True, their presence is being increasingly felt. Chinese and Indian economic ties with North Africa and the Middle East are on the rise. With energy prices low in crisis-gripped Europe and energy-hungry emerging economies elsewhere, energy flows are shift-
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ing eastward. Security dynamics are also increasingly influenced by emerging countries. The United Nations Security Council’s Responsibility to Protect mandate in Libya was possible thanks to the support or abstention of the BRICS. To the contrary, a military intervention in Syria is – for the time being – ruled out due to the stark opposition of the Russians and the Chinese (and U.S. reluctance, of course). But while the BRICS play a greater role in the region, their replacement of Western hegemony is not in the offing. So who is to lead the Mediterranean? The bottom line answer to the question is that regional actors will increasingly be the masters of their own destiny, at least for the foreseeable future. The increasing influence of Turkey, Iran, and the Gulf Cooperation Council states (notably Qatar and Saudi Arabia) is evident to all. These countries are increasingly actors “in” and not simply “of” the Mediterranean and the Middle East. But it would be mistaken to view the evolution of the region simply through this Westphalian prism. As mentioned at the outset, the transformation underway is profound, giving rise to a rich variety of non-state, sub-regional, and transnational actors whose actions and interactions will increasingly call the shots in tomorrow’s Mediterranean and Middle East. The picture that emerges is far messier than the black-and white “with us or against us” Middle East we have known for years. Yet we had better come to grips with it soon, lest our declining influence be magnified further.
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Co contexts
The legacy of the Arab Spring The movements that gave rise to the acclaimed Arab Spring have created considerable expectations in the West, with concerns over the Islamic parties and great attention to the first free elections. The change in the Arab-Islamic world is not only driven by religious and cultural issues, but by new and binding social needs. by Gian Paolo Calchi Novati Professor of History and Institutions of Afro-Asian Countries
Many believe that the Arab Spring reflected a new updated edition of events that date back to the history of the Old Continent: the Bastille in 1789, the liberal-national movements in many European states in 1848, and the dissolution of the Soviet “empire” in 1989. Perhaps it is one last reckoning to be paid by Eurocentrism. Others have focused more attention on the “local” but in their interpretations have overused Orientalist clichés already stigmatized by Edward Said with his characteristic polemic force. Culture and religion (and philology, for analysis) are not the only factors of relevance for the ArabIslamic world. In this case, the themes that have emerged from an upheaval intended to mark a watershed between the “before” and “after” are, in a nutshell: the position of the classes and the placement of individuals in society, with reference to the level of education, employment, disparities between town and country (religious affiliation counts but is marked by crossings and overlapping, and is always at risk of exploitation, either for or against); the regional context, which has contributed variously to provoke crises and then has had an impact on the outcomes and the resulting adjustments (still in progress); and the reorganization of the relationship between North and
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South, which, for the occasion, has returned to a Mediterranean centrality that had been partly lost with the shift of focus of tensions toward the Eurasian landmass. If it is a “third wave,” after the transitions to democracy in Latin America and Southern Europe in the Seventies, and in Central and Eastern Europe at the end of the Eighties, priority is always given to the events in North Africa with its own specificities of individual states. And it is here that the Islamic component burst onto the scene: not only a reading of the facts but their actual evolution will have to judge whether Islam is the solution or the problem. The Arab Spring has seen the resurgence of societies that are apparently immobile, in spite of an accelerated population growth (with young people and children “overtaking” the adults), and a steady expansion of access to education and technological means of communication. The uprisings for freedom and justice have played a key role for many classes of age, vocational training, and expectations of social growth, who felt to be in credit with regard to an obsolete and repressive system of power. What in Tunisia and Egypt could be resolved by “grumbling” has emerged into the open. The demonstrations and riots in the major cities, largely without recourse to violence by demon-
strators, represented this explosion of anger and hope quite well. Among Libya’s many “diversities,” not at all secondary, is the fact that there is no physical or metaphorical location in Libya comparable to Cairo’s Tahrir Square. Moreover, protest against the Gaddafi regime came from Derna and Benghazi, and it was easy to pretend to mistake it for the usual semisecessionist phobias of the eastern province, which, after the fall of Idris, the ruler of Libya but in fact Emir of Cyrenaica, considers itself discriminated against. When the armies in Tunis and Cairo showed they wanted to dissociate themselves from their indefensible presidents, the change was clear. The unusual coalition between the young people and the armed forces had won. In the past, the regimes had resisted the social
The Arab Spring seems to be a bit of a second decolonization and a bit of a counterdecolonization, because it has been moving more from below than from above
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In the past, the regimes had resisted social protest fairly easily. This time, however, the dispute did not concern the economic conditions but the exercise of power protest in rural areas or in factories fairly easily. This time, however, the dispute did not concern the economic conditions but the exercise of power. Arguably, the exits of Ben Ali and Mubarak, after the initial impasse, had been authorized and probably encouraged by the United States and France. The army – and even before that, the state – in Egypt and Tunisia is strong enough to ensure a reliable endurance of the institutions in conjunction with a similar upheaval. Again, Libya was an exception. Gaddafi was not sufficiently “dependent” on a great power (in theory, Italy would have been entitled) to be forced to give up without a fight and, on the other hand, Libya, and even Gaddafi, lacked a “national” army. The fusion between Tripolitania and Cyrenaica has always been precari-
ous. It is no coincidence that after the collapse of the regimes, the army is more present than ever (albeit in the background) in Tunisia and Egypt, and Libya domineers with clan-based or sectarian militias. Islamic movements had not figured in the front row in the first days of the uprising. However, when they entered the field, they also brought their greater organization. And when the transition took the route of electoral monitoring, the Muslim Brotherhood asserted itself both in Tunisia and in Egypt, thanks to its establishment, the merits acquired with its long-standing opposition to the regimes in charge, and the work of Islamic charities. Maxime Rodinson had predicted back in 2004 that in every Arab country, the first free elections would have been won by Is-
lamic parties: a victory that has been more difficult to replicate in subsequent elections. This is why the pessimists fear that the slogan “One man, one vote” might become “One man, one vote, one time.” The Islamist parties have had too much power and too much responsibility. All together, they should have been reforming the state with a new constitution, restarting development, and satisfying the desire for social advancement and equality. Beyond the mistakes, the governments – monochrome Islamic in Cairo, the tripartite coalition in Tunis – have met with two formidable obstacles: on the one hand, their vulnerability to liberal or radical secularizing instances of the less advanced (in Egypt, there is talk of a “Cairo-centric” opposition), unable to establish itself in the ballot box but
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crucial to exercising the functions in cities and high levels of society (votes are counted but even more so, weighed), and on the other hand, the tendency of all opposition to indulge in what Olivier Roy calls the “culture of protest,” collaborating little with the government, or not at all, because they are waiting, who knows whether consciously or not, for its failure instead. The Islamist parties have a transversal representation, with peaks at both the top and the bottom. An aphorism states: “for the rich there are barracks, for the poor there is a mosque.” They do not have any magic formula to solve the weaknesses of the countries dependent on capitalism. In Tunisia more than in Egypt, Islamists have a managerial vocation but overall, a market policy to encourage investment and aid is lacking. International financial institutions have set conditions for loans that Morsi, for example, hesitates to accept in order not to penalize the poor and urban dwellers too much. Aid to Qatar seems to get there without too much difficulty, even though it conveys pressure oriented to the Islamization of society. Developments in North Africa have scored more points in favor of the Sunni bloc, in the dispute between the two currents of Islam now close to the breaking point (also due to the war in Syria). As expected, to the more or less disinterested West, the democratization processes must adapt to the spirit of movements, of the square or the palace, aspiring to regain their autonomy and traditional values. In this perspective, the Arab Spring seems to be a bit of a second decolonization and a bit of a counter-decolonization, because it has been moving more from below than from above. However, it would be out of place to expect a sacralization of secularism in these countries, in imitation of a modernity which does not even convince the West.
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Italy and Spain look to the Mediterranean Only 15 kilometers of water separate Spain from North Africa, and there are only about 70 kilometers between Pantelleria and Tunisia. Spain and Italy are so close to Africa, and yet so little “Mediterranean.” Both are still fairly reticent about belonging to an area that is so strategic for Europe’s economy. The opinion of two well-known newspaper directors.
Europe turns a deaf ear by Javier Moreno Director of “El País”
It is difficult to get a concrete idea of Spain’s strategy for the Mediterranean. And even more difficult to clearly understand whether Spain has any strategy at all concerning the Mediterranean, an area whose importance is so obviously manifest that it is not worth engaging in long arguments. Suffice it to mention the most elevated matters – such as peace or shared prosperity – and the most pragmatic ones, which undoubtedly include energy security, illegal immigration, and the threat of Islamic terrorism. I realize that the previous statement would raise a vigorous protest on the part of
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any officer of Spanish diplomacy, or even of the European Union, who would bring up testimony of their work and an endless list of programs, organizations, meetings, and conferences they have dealt with over the last twenty years, resorting to increasingly high-sounding titles of what was eventually called the Mediterranean Strategy in the European Union. None of these, taken individually or altogether, have served to identify, prevent, or even attenuate the main event of recent years: the outbreak of the Arab Spring and the political fragmentation, the instability, and the explosion of political Islamism which resulted. It should not seem strange. Spain and the main European countries of the Mediterranean – such as Italy, but also France – have been trapped for years in a spiral that is engulfing the “rich” part of the coast: the European crisis, the acceleration of globalization resulting in a loss of power, wealth, and well-being, and the displacement of the center of gravity toward Asia. Spain also has an Ibero-American appendix to deal with, and which lately has not been taken care of as it should. When Spain accumulates foreign policy tasks, its officers run to protect themselves in Europe, and only in this case does the European solution prove to be the correct one (but not in the case of Latin America, where Spain’s vocation must be deeper than Europe’s). Many a time these countries have believed that the construction of a European foreign policy would allow for articulating and developing a joint program for the Mediterranean; well, that has not worked – or has not begun to work yet – and we have seen that each European country has taken a different position, depending
on the problem being faced: from military intervention in Libya to the admission of Palestine to UNESCO, to mention only two cases. But still, the “rich coast” of the Mediterranean, aside from the declarations of good intentions for daily use and consumption by self-righteous souls, does not seem to have a plan to ensure a joint future – their own, and with the poorer coast – in order to stimulate and support economic growth, the reduction of inequality, the deepening of democracy, and the defense of human rights and freedoms. In return, Europe could achieve security of energy supplies, a more consistent control of migration flows, and a committed and united struggle against the Islamic terrorist threat. For years, Spain (and Europe) has been trying to get these benefits without committing to and investing in these efforts. Failure is now before everyone’s eyes, and its arrival was unfailingly predicted. But on this side of the coast, nobody wanted to listen to the warnings that intellectuals and politicians have addressed to Europe’s deaf ears. As the Chinese saying goes, there are two good moments for planting a tree: 30 years ago and today. To do all this, we need political will, intelligence, perseverance, and, undoubtedly, economic resources. But that, I am afraid, is where the strategies always fail.
Spain and the main European countries of the Mediterranean – such as Italy, but also France – have been trapped for years in a spiral that is engulfing the “rich” part of the coast
The chance for integration by Alessandro Barbano Director of “Il Mattino”
There is an issue that is likely to transform the relationship with the Mediterranean into an eternally unfinished matter. It concerns the lack of an integration model. It has become more serious after twenty years of diverse but equally inconclusive policies that have made Italy a country as permeable as it is inadequate with regard to immigration. With the effect today that the country has an immigrant population in excess of 4 million people, of which between 15 and 20 percent are living in clandestine conditions. There are two numbers that photograph our incompleteness. 44% of immigrant children leave school before the term prescribed by law, inflating the area of dispersion and the potential recruitment pool of organized crime. At the same time, there are almost 500,000 companies controlled by immigrants and they now represent 7.4% of the country’s total corporate assets, with peaks close to 20% in regions such as Lombardy. There is immigration that we can absorb and which is the bearer of wealth, and there is immigration which can worsen the delicate social cohesion of the country. To favor the first, anchoring it to full citizenship made up of rights and duties, and suppress the second, through the use of national legality and international relations, means hav-
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ing an idea of the good governance of immigration. So far, the opposite has occurred. But the urgent need to overcome this impasse in immigration policies is growing, along with the strategic importance of the Mediterranean: the democratic emancipation that started with the Arab Spring has liberalized the market, and the relaunching of renewable energy, along with the marine economy, have implemented the prospects for the economic differentiation of those countries previously considered as merely hydrocarbon reserves. Despite ongoing revolutionary unrest and political uncertainties that still weigh on central realities such as Egypt and Tunisia, almost all exchanges are on the rise. Italy, which plays the role of a corridor between Europe and North Africa, remains the number one trading partner of the Mediterranean area, recording an exchange in 2012 that amounted to 57.7 billion euros (higher than Germany’s 56.6 billion and France’s 46.8 billion). And the forecast for 2014 predicts a 50% increase by the end of 2014 (for a total of 74 billion euros). Nevertheless, it will not be diplomacy (which, in any case, has remained in the shadow during the last decade), energy, and economic interests, nor the cultural proximity between Italy and the countries of North Africa that will turn the Mediterranean into an opportunity, if the encounter between the different populations and cultures that inhabit the two shores of this great sea occurs without rules and driven by the harsh necessity of history, as has been the case so far. The Pope’s recent visit to Lampedusa has brought this political and civil contradiction to light, calling for the government and the parties to take responsibility. The idea that the relationship between Italy and immigration can now be resolved by the so-called Bossi-Fini law,
that since 2002 has regulated the access of foreigners to our country, is the equivalent of a repression of the problem. Yet no executive nor political force has taken on the creation of a model of integration as a fundamental axis of a government policy. Meanwhile, society equips itself with the means at its disposal. From being the basin of ports and transit, the South has become a point of arrival and the laboratory of new societies: the urban structure and social regeneration of cities and small towns of the Southern Mediterranean have favored a natural integration based on a pluralist modal, which first of all admits and tolerates otherness, so as to accept the coexistence of different cultures within the same society. Yet, at the same time, it activates processes of gradual inclusion of different ethnic groups that can still maintain their own mores and customs, provided they do not contradict or undermine the general values that hold the entire society together. But because of the lack of a legislative framework capable of recognizing and ensuring their rights and duties, the relationship of unequal forces between guest and host produces a social balance that is not always satisfactory. Thus, immigrants have replaced Italians in the most menial jobs in industry and agriculture, occupying the underground economy where the protection of the most basic rights is compromised. There is a growing frustration in immigrant populations caused by the imbalance between the culture that defines the goals and the established society regarding the actual distribution of opportunities. Second-generation immigrants have espoused the aims of the country where they were born without, however, being given any chance to achieve them. Will the widening gap in the distribution of wealth in the West make
this discrimination more dramatic? Is integration that disregards greater social justice even conceivable? These two questions go to the heart of the problem that the Pope’s message brought to the attention of Europe. Where, in the meantime, the concept of identity is being redefined on the basis of two factors, concomitant and yet differing as to characteristics and genesis, modifying the social and cognitive framework underpinning Western communities, and, at the same time, interacting with each other; namely, the increase of migration flows to Europe and the processes of breaking down the old sense of belonging that is inherent to Western culture, from which the crisis of the state and the intermediary bodies derives. By 2025, there will be many millions of African immigrants in Europe. The nature of this emigration is completely unprecedented in human history, at least in similar proportions. This is not only emigration by demand, caused by factors of attraction and the absorption capacity of the European labor market, such as that which led millions of Italians and Europeans to America in the late nineteenth and mid-twentieth centuries. Instead, it is also an emigration of supply, caused by driving factors present in the countries of origin. Therefore, the conditions of mutual benefit on which migration exchange are established are not entirely balanced. The history of modern societies of the past two centuries has been written in the contrast between a model of civic identity derived from the Enlightenment, based on a sense of belonging with regard to shared values, and another romantic derivation, based on birth and an alleged identity ethnically attributable to the individual. Then, at the end of the last century, identity in the West began to be perceived not as
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something “given once and for all,” but as the construction of an entire lifetime. In that it is based on multiple senses of belonging, some linked to ethnic history and some not, some linked to a religious tradition and others that are not, and it is always the result of relations of direct socialization among individuals, and between individuals and institutions. In the past decade, in the climate of fear over a clash of civilizations following the massacre of the Twin Towers, the West has begun to question the limit of tolerance as an exercise of civic virtue, for, once this limit has been crossed, the respect for alternative cultures appears to trample on the respect for the individual person. Then, with the specter of a clash of civilizations averted, or maybe just removed, the difficulty of finding a balance between the necessity of integration and the tolerance for fundamentalism that it may entail remains yet today. This is a challenge that Europe is facing and that touches the core of its identity. In each country, the population is made up of a sum of diasporas. The protagonists of miscegenation are the heirs and bearers of traditions that are deeply rooted and sometimes radical. How will Europe relate to them? Will they put their own identity in parentheses, in the name of some abstract and universal principles of freedom? Will an indifferent neutrality to values transform it into a “non-place” inhabited by enclaves that are constantly suspicious of one another? A clear model for integration, projected into the demographic and social future of the Italy that will be, will have to use the leverage of citizenship, choosing between the coordinates of ius sanguinis and ius soli, the meeting point of two civilizations. This is an indispensable challenge. One that is being played out in the Mediterranean. Just like it has so many times over the centuries.
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Op opinions
A surge of opportunity The twin crises of the Eurozone and the Arab Spring have intersected. European economic stagnation has reduced the growth prospects of the Arab countries, and the political and social instability caused by revolutions creates tensions in neighboring Europe. But these difficulties could bring a gust of positive changes. by Emiliano Alessandri Consultant for the IAI
In the Southern Mediterranean, societal change toward more modern societies has yet to find the necessary institutions and political culture for its energies to be channeled toward desirable results 136
Traditionally portrayed as the cradle of ancient civilizations or, alternatively, as the fault line cutting across the global North-South divide, in recent years the Mediterranean basin seems to have rather become a vortex bringing all surrounding societies to their knees. With their adverse impacts on Mediterranean Europe and the Arab Mediterranean, the Eurozone and post-Arab Spring crises risk plunging the whole region into deep instability. While Arab societies have embarked on uncertain political transitions and face dire economic challenges after the 2011-2012 uprisings (projected MENA region growth rates of 3.6% are hardly enough to contain already very high levels of unemployment), Southern members of the European Union have for their part tested how the explosion of economic imbalances threaten to reverse decades of “Europeanization.” The twin Eurozone and post-Arab Spring crises have intersected. European economic stagnation has depressed growth prospects of Arab neighbors through diminished demand. Difficult transitions in the Arab world may create failed states just steps away from Europe. While European tourists remain hesitant about spending their summers on the North African shores, Arab immigrants to Europe are seen even more as an intrusive presence by the underemployed local workforce. Lately, mass protests sweeping across Turkey – until recently depicted as the region’s new economic powerhouse, or a “Mediterranean China” – have closed the arc of crisis in the Eastern Mediterranean, as one more element of fluidity was added to a sub-region that already had plenty thanks to the Syrian civil war. Indeed, demonstrations of popular discontent have underpinned developments across the whole Mediterranean region, from the Indignados in Spain to the youth movements in the Arab world, all the way to the recent Turkish upheaval which seems to bridge demands for social justice and sustainable
development with fears about re-emerging authoritarian tendencies in that country. Although there can be no denying the ongoing “Mediterranean crisis,” present challenges should not be taken as synonymous with doom. The region’s prospects are currently bleak but the Mediterranean predicament may still not be one of inexorable decline. As opportunities always arise together with adversities, the region’s trajectory will hinge on its societies’ ability to correctly identify the former while minimizing the latter. Seen this way, current Mediterranean fluidity may be the flip side of the necessary dynamism which is crucial to finding a way out of the crisis. Indeed, much of the recent instability is due to processes that will have to be managed. In the Southern Mediterranean, societal change toward more modern societies (an indicator among all is the sharp and rapid decline of fertility rates among Arab women – the average number of children dropping from about seven in 1960 to three in 2006) has yet to find the necessary institutions and political culture for its energies to be channeled toward desirable results. By contrast, in the European Mediterranean, aging and largely stagnant societies have abused or distorted institutional incentives that came with being part of the developed nations’ club of the European Union. As the Southern Mediterranean will need stronger institutions at all levels – from more representative governments to better economic governance (in 2012, the MENA region spent over USD 200 billion in food and energy subsidies, half the world’s total) –, and the European Mediterranean will need younger, more dynamic societies, complementarities can be found across the region. The question is, therefore, whether necessary reform processes in the North and in the South can be effectively synchronized or if sub-regional tensions will only create negative spillovers, deepening a divide that is already present in terms of socio-economic development
and prejudice about religion and culture. To counter unfavorable demographic patterns with an adverse impact on growth and public finances, countries like Italy could see a resource in the youth-dominated Arab world. But as Southern Europe’s own youth has become largely unemployed and is fighting its own battle against older generations, an even more divided Mediterranean youth may be the outcome. Although the number of immigrants coming from destabilized Arab societies has not increased dramatically after the Arab Spring, public opinion in Europe seems to resent immigration even more in the present austerity context. Local politicians will keep waving specters of an “Arab invasion of Europe.” Solutions, however, are not lacking. EU-sponsored training programs tailored to local needs could help with the development of Arab societies while creating the conditions for more selective migration to Europe. Student exchange programs such as Erasmus Mundus are already being expanded to build bridges among Mediterranean societies. More can be done by leveraging
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on civil society organizations that are already active across the region. If consistently and carefully implemented, “mobility partnerships” such as the one recently signed between the EU and Morocco could lead over time to a more unconstrained movement of workers in the Mediterranean area. Moving from people to goods, a gradual opening of European markets to Arab ones could spur that economic transition away from traditional sectors and agriculture which Southern European countries will need to undergo in one form or another if they want to preserve their status as developed economies in today’s global competitive environment. It is, therefore, notable that the EU was able to agree to an agricultural trade deal with Morocco in 2012, covering over half of Moroccan products. Although not fully digested yet by European stakeholders, this deal will stand
as a test for the potential liberalization of other sensitive areas of trade in the larger region. Despite regional instability and fears of unfair competition, European countries are still deepening their ties with Mediterranean countries. As available studies show, Italy has expanded its Mediterranean interchange in recent years – total trade with the area rising from 37.2 billion in 2001 to 65.7 in 2012. Even though Germany’s Mediterranean trade only covers about 3% of the country’s total, its presence in the region is growing (Germany holds the second largest share of total trade with the Mediterranean area in value terms). And with a weaker Europe, but only if Germany will develop some interest in the Mediterranean economy, enough resources may be mobilized toward Mediterranean stabilization. In fact, worried as Germany is about laxity and underperformance in Europe’s South, it should be in its interest that the European Mediterranean not drift further. At the very least as an insurance policy, German political and business leaders should therefore aim at playing a more active role in creating conditions for a Mediterranean buffer, if not a Mediterranean platform, for European recovery. The question of German engagement underlines another new key Mediterranean reality, which is both a challenge and an element of opportunity: the growing plurality of actors in an increasingly globalized Mediterranean space whose dynamics no longer fit those of a regional basin. With extra regional powers gaining stakes in the region, contributors to Mediterranean prosperity have become many, from China to the Gulf countries, and in a not so distant future, emerging economies from the “Global South.” By the same token, competitors of Western regional influence will also have more say, from Russia to others. It will therefore be in the interest of European countries to leverage their remaining regional influence. While capital will flow to MENA countries from other
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areas of the world, strategic relationships could still be capitalized with the help of the United States. A stronger market for energy could be explored in this context. Recent Eastern Mediterranean gas finds are providing unprecedented opportunities for the region and offer prospects to politically re-align Cyprus, Turkey, and Israel. In the Western Mediterranean, traditional flows of oil and gas have resumed after the war in Libya. They will be complemented by greater availability of renewables in oil-importing countries that are closely integrated with the West, such as Morocco and Tunisia. In this evolving context, medium-term triangulations could see Europe helping MENA countries with infrastructure, innovation, and energy efficiency, while energy security is improved not only by strengthening fossil-fuel flows but by investing in projects such as a unified Mediterranean solar energy grid. It is with a constant awareness of the intolerable costs of Mediterranean fragmentation that the region may be able to find ways out of the current predicament of decline. In its present state, the Mediterranean basin faces highly challenging prospects, but its trajectory may not be a downward one if opportunities arising from still untapped complementarities and greater access to global connections are presciently seized.
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In interview
Investments to knock down the borders InfraMed, the equity investment fund for the south and east of the Mediterranean, is of vital importance as an operational tool for Europe, both from an economic and a political standpoint. But in order to make the most of its potential, Europe needs to recognize this region’s strategic value.
interview with franco bassanini President of the CDP and vice-president of InfraMed by Paolo Valentino Columnist for “Corriere della Sera”
“In the era of global competition, Europe is, in fact, a small continent. The new geo-political and economic scenarios of the world now see countries competing with each other that generally represent production and consumption markets numbering a billion people, with a purchasing power and technology that are increasingly comparable to those of our countries. Even the EU-27 is of insufficient size to stand up to this com-
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petition unless it acquires a critical mass, becoming the core of a wider regional system, open to countries in the Southern Mediterranean and the Near East on the one hand, and Eastern Europe and westcentral Asia, on the other.” The Mediterranean dream of Franco Bassanini resists winds and tides. Even now that the Arab Spring is a distant and confused memory, and even Turkey, which has always appeared to be a model of moderate Islam, is showing signs of instability amid protests, and authoritarian inclinations, the President of the Deposits and Loans Fund still indicates development and integration of the southern countries of the Mediterranean as “the key challenge for sustainable economic growth, competitiveness, and its political role in the new global scenario.” Moreover, Bassanini is convinced that the current crisis situation in the Mediterranean basin is also the consequence of inadequate European projection: “Over the past 15 years, the Union prevailed in the belief that the first frontier of the enlargement of economic policy was the one to the East. Even though mentioning the matter now may seem trivial, the truth is that we need both an expansion to the East and another
one, not necessarily political, toward the Mediterranean. And I remain of the opinion that it was a serious mistake not to confer Turkey with full membership when asked to do so. I think we would have been able to deal with a process of integration: today, that country is the area with the largest growth rate and it would have been a decisive factor in this period of crisis.” Well, President, it is not as if the Turks actually did all their assignments... That is true. But in cases of enlargement, the EU negotiates with the idea of using their application for membership to push for reforms. If the person who is on the European side shows skepticism about the final outcome and offers biblical time spans, Europe’s force of attraction will decrease. Furthermore, I should mention that, at the time of starting the negotiations, not all the countries welcomed were models of democracy. What dowry would the Mediterranean countries bring? The Southern Mediterranean countries have great demographic dynamism, young populations, high economic growth potential, and adequate conditions of political
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stability, but there is a lack of technologies, knowledge, and organizational capacity. In short, there are all the conditions for a virtuous integration, where our weaknesses are their wealth and vice versa. There is every reason to aim for the creation of a large economic-trade area. And I insist on saying that this does not mean they necessarily have to enter into a political union. But shouldn’t the current situation of instability in Egypt, Libya, and in Turkey itself, prompt us to be a bit more cautious toward the Mediterranean option? Let me ask you a question: at the outbreak of the Arab Spring, they spoke of the need for a Marshall Plan for those countries which demanded democracy. Resources and tools that could consolidate the democratic processes. What has been done? Little or nothing. But the Marshall Plan had clearly identified contact points. Here there was a problem of reliable partners. Would the Plan have been able to keep Egypt from falling to the Muslim Brotherhood? With strong Western intervention of support and assistance, it would have been possible to support the evolution and strengthening of moderate Islam. That is almost history by now. However, you seem convinced that, despite the uncertain evolution, the need for strong projection and action throughout the European Union for the Mediterranean still stands ‌ It remains because it is our need. It is clear that we need to incentivize those countries and institutions that can then stimulate others: Morocco, Tunisia, and Jordan are nations where it still makes sense to make investments of a European nature. I stress European because, for example, in Tunisia, the French who, like us and even more so, had some responsibility in supporting the previous regime, immediately tried to exploit the situation
after the Arab Spring, intervening massively with the sole purpose of removing space and opportunities for other European countries. However, you think that tools like InfraMed are languishing after the initial enthusiasm. Three years after its launch, what is the budget and what are its prospects? InfraMed was the first operational tool made by the EU for the Mediterranean, which, as we know, is now in a stalemate. Its ambition was to become the largest structural fund in the area, involving Algeria, Egypt, Israel, Lebanon, Jordan, Libya, Mauritania, Morocco, Palestine, Syria, Tunisia, and Turkey. The great novelty consisted in associating European financial institutions with at least two similar institutions of countries in the area, Morocco and Egypt. But it is clear that today a tool like this has come up against a period of great difficulty in the international market for raising funds for investments in infrastructures, particularly in politically unstable areas. The result is that InfraMed started up and began to make investments, some of these high profile: the privatization of the port of Iskenderun, the third largest in Turkey; a large wind power plant in Jordan with a very high rate of return; a refinery in Egypt; and we are closing an agreement for the launching of a geo-stationary TV satellite from Morocco. The size of the fund remains small, however, and InfraMed does not currently have a great capacity for fundraising, which we have had to postpone several times. We are still operating with the funds provided by the promoters, which were about 400 million euros, a significant part of which has already been spent. How do you see the future of InfraMed? I am quite concerned. The conjunction of various circumstances are likely to prove crippling. There is great market liquidity, but it is directed for the most part to short-term and finan-
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cial investments: the financing of infrastructures or the industrial sector in the medium and long term is very difficult. Moreover, global competition is tough concerning that part of capital which is still available: China, India, and Brazil are very aggressive. Finally, there is the political instability of the Mediterranean countries that you mentioned. Is there any chance of a revival and what path might it take? That is hard to say. I do not see any political change yet, leading Europe to take note of the strategic importance of the Mediterranean and its necessary integration, and thus, to equip itself with the tools and resources that promote effective strengthened cooperation. For example, today InfraMed would have many investment opportunities in Turkey, but we cannot make them, in part because of internal rules that prevent concentrating too many resources in a single country. I believe in the validity of its approach, because InfraMed is not only an economic opportunity, with return rates of around 12%, but it also has great political significance. And I am still convinced that the parallel hypothesis of a large European bank also for the Mediterranean countries would have been important. However, it is difficult to be optimistic at this time. Too many questions remain unanswered. Of course, sooner or later we will emerge from the crisis, but today it is not possible to predict whether Europe will be able to reinvent itself in a Mediterranean light. And finally, it will be necessary to see what the final political outcome of the process initiated by the Arab Spring will be.
There is great market liquidity, but it is directed for the most part to short-term and financial investments 139
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Infrastructures that broaden horizons Mediterranean countries communicate by sea, by land, by pipeline, and with “information superhighways.” Or at least they could. A lot can be improved regarding lines of communication, so that the Mediterranean no longer resembles a pond. by Andrea De Benedetti Journalist and essayist
“We live around a sea like ants or frogs around a pond.” Thus, in Phaedo, Socrates described the human condition in the face of the almost insurmountable vastness of the Mediterranean Sea, beyond whose boundaries loomed the even more hostile and ineffable vastness of the ocean. Socrates would never have suspected that, twenty-five centuries later, the Mediterranean would have effectively become a pond, in the sense of being a body of water that is, all in all, small compared to the technological capacity developed in the meantime to tame it, but also in the sense of a slew of stagnated economies that are gradually engulfing most of the southern margins of Europe. Naturally, the ants have not disappeared, and they are the thousands of desperate people
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who risk their life every day defying the waves of the Mediterranean on boats as rickety and crowded as the one that ferried the damned across the river Styx in Dante’s Inferno. And yet in this beginning of the third millennium, it is clear that the real priority of the countries bordering the Mediterranean is no longer that of the ants – to travel – but rather, to move goods, energy, and an intangible asset destined to become one of the most precious of all: information. All this within a geopolitical context that is extremely complex, and here and there openly confrontational when even the Mediterranean countries of the EU are struggling to pull together and think collectively. As for the railway infrastructure, Mediterranean Europe – borrowing the effective dichotomy used by the Alliance for European Logistic Commission – is a patchwork that is still a far cry from becoming a network. The railway system is extensive and complex, but it is not, in fact, a network. The project of the ten pan-European corridors defined in the Crete Conference of 1994 has had difficulty getting underway, and particularly languishing is the so-called Mediterranean corridor for freight, which was originally intended to link the Iberian peninsula with Eastern Europe and instead, at present, is a collage of projects that are not all consistent and not all compatible with each other. An emblematic case is Spain, which in recent years, despite having invested more than anyone in railways, especially in highspeed passenger trains (in fact, with over 2,000 miles of track, it rates second in the world after China), has ended up with a system that is not integrated because of the different types of gauge between old and new tracks, the latter used only for the transportation of passengers, but not for that of goods. Many countries have also given up the project (Portugal) or have greatly reduced the scope (Slovenia), while the French
Court of Auditors has rejected the economic sustainability of the project and Slovenia has erected a new Iron Curtain on its border with Italy, so that since December 2011, it has become necessary to take the bus to reach the country. In all this, there are still those fantasizing about a rail link between Europe and North Africa via an underground tunnel between Algeciras and Tangier, which would join the European network with the Moroccan one (where the first stretch of highspeed railway between Tangier and Casablanca is expected to be inaugurated in 2015). But we are in that vast territory of dreams and long-term promises without commitments for which, in fifty or a hundred years’ time, no one will be called to account. According to the 2007-2013 Regional Transport Action Plan, among the various projects of trans-European transport networks, the axis of southern-western Europe (Spain-Morocco) remains the most advanced in terms of the fruition of an effective integration between European and African networks, while the axis of southern-eastern Europe, which should connect EU countries with Egypt by land (via Turkey, Syria, and Jordan) is at present little more than a hypothesis. For the rest, in the non-European portion of the Mediterranean, road transport covers between 90 and 95% of the total land traffic, and the rail network – except in Turkey and, in part, Egypt – is obsolete, defective, and ramshackle, with mostly non-electrified tracks. Entire countries are completely devoid of infrastructures (Lebanon, Syria, and Libya in particular, where the few kilometers of existing railways are still those dating back to colonial times and unused since ’65) and, in general, long discontinuous sections overlap geo-political situations that are already rather critical. There is a broader and more comprehensive system of naval transport, with 57 ports and 25
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The “motorways of the sea” were inserted in 2005 among the projects of trans-European transport alternatives to land routes, designed to reduce air pollution and connect the EU more closely with its more peripheral areas
maritime corridors, moving about 50 million tons of cargo a year and which accounts for 75% of the volume of traffic between the South and the North of the Mediterranean. To this picture, we have to add the so-called “motorways of the sea,” inserted in 2005 among the projects of trans-European transport alternatives to land routes and designed to reduce air pollution and connect the EU more closely with its more peripheral areas, and with neighboring countries. With regard to air transport, far from the prospect of the creation of a “single sky” extended to all the countries of the Mediterranean area, the severe economic crisis has created a model based mainly on tourism coming from EU countries and directed to the southern areas of the Mediterranean, tourism which in 2008 accounted for about 75% of the air traffic in the countries of the Maghreb and the Mashriq, before registering a significant decline after 2010. Energy. Regarding oil, the transport of which does not require specific infrastructures, a broader discussion should be dedicated to the pipelines from the North African countries supplying Southern Europe and freeing it, at least in part, from the Russian monopoly in the sector. There are currently four in operation – Transmed, Maghreb-Europe, Megdaz, and GreenStream – while a fifth – Galsi – is expected to enter into service next year, linking Algeria with Tuscany and Sardinia, where the project has also raised a number of protests by local committees because of its strong environmental impact and little or no economic benefits to the island. Another pipeline – Nabucco – is instead the most ambitious project of the South East European Energy Corridor, with its length of more than 3,000 km and a capacity of more than 31 billion cubic meters of gas per year. The purpose of the pipeline, connecting the main
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European hub (in Baumgarten, Austria) to the gas fields of Azerbaijan through Turkey and the Balkans (but a variation of the project could pass through Greece and Italy), is to ease the EU’s dependence on Russian gas and prevent the recurrence of a crisis like the one in early 2006, caused by a dispute over gas prices between Russia and Ukraine, and which threatened to leave half of Europe in the cold. Equally ambitious, but definitely in high seas, is the program for the integration of all Mediterranean electrical networks through the Mediterranean Electric Ring, that should surround the entire Mediterranean by connecting the shores into one large cross-border network. With regard to the information highway, for now we have to settle for a handful of submarine cables, nevertheless enough to meet the low needs for the Internet of the countries of North Africa and the Middle East. Although these countries are beginning to invest large sums to mitigate the digital divide with regard to Europe, they are investing at least as much in censorship technologies designed to prevent user access to pages and services that are politically “inconvenient.”
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The “mountains” scenario imagines a world of more moderate economic development in which policy plays an important role in shaping the world’s energy system and environmental pathway
Op opinions
The future of energy, ‘twixt “oceans” and “mountains” In this article for Oxygen, Wim Thomas, Chief Energy Advisor of Shell, tries to explore the future, so that when it arrives it will not be completely unknown. The future of energy holds two scenarios in store: the victory of gas, and the victory of the sun. by Wim Thomas Shell Chief Energy Advisor
Shell has a 40-year history of using scenario planning to explore possible future landscapes and aid strategic decision-making by contributing to the public debate about possible ways to tackle some of society’s long-term challenges. Our scenarios always start from the present with plausible, multiple pathways into the future. They take into account various trends and expert views, and use quantification to paint a picture of how the energy future may evolve. To do this, we use an in-house “world energy model” that covers 80 countries and regions and is rooted in history and econometrics – but it also has many forward-looking policy levers capable of shaping alternative futures, rather than simply extrapolating the past. This is contrary to other models around. Once you have the scenario story, you can explore how policy changes can impact the energy system. Our team has recently released two different scenarios of how the world will develop in the 21st century. The New Lens Scenarios look at trends in the economy, geopolitics, social change, and energy as far ahead as 2100, underscoring the critical role that government policies could play in shaping
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the future by actions now. One scenario (“mountains”) sees cleaner-burning natural gas becoming the most important energy source globally by the 2030s and early action to limit carbon dioxide emissions by widespread employment of carbon capture and storage. The other (“oceans”) sees solar power becoming the top source by the 2070s, but with slower results in addressing the threat of climate change. The “mountains” scenario imagines a world of more moderate economic development in which policy plays an important role in shaping the world’s energy system and environmental pathway. Cleaner-burning natural gas becomes the backbone of the world’s energy system, in many places replacing coal as a fuel for power generation and seeing wider use in transport. A profound shift in the transportation sector sees global demand for oil peaking in about 2035. By the end of the century, cars and trucks powered by electricity and hydrogen could dominate the roads. Technology to capture carbon dioxide emissions from power stations, refineries, and other industrial installations becomes widely used, helping to reduce CO2 emissions from the power sector to zero by 2060. Another factor is the growth of nuclear power in global electricity generation. Its market share increases by around 25% in the period to 2060. With these changes to the energy system, greenhouse gas emissions begin to fall after 2030. Nevertheless, emissions remain on a trajectory to overshoot the target of limiting global temperatures rise to 2 degrees Celsius. In contrast, the “oceans” scenario predicts a more prosperous, volatile world with an energy landscape shaped mostly by market forces and civil society, with government policy playing a less prominent role. Public resistance
and the slow adoption of both policies and technology limit the development of nuclear power and restrict the growth of natural gas. Coal remains widely used in power generation until at least the middle of the century. Without strong support from policymakers, carbon capture and storage struggles to gain momentum. This slow uptake is the main reason electricity generation becomes carbonneutral some 30 years later in the “oceans” scenario than in the “mountains” scenario. Higher energy prices encourage the development of hardto-reach oil resources, as well as the expansion of biofuel production. Oil demand continues to grow through the 2020s and 2030s, reaching a plateau after 2040. Liquid fuels still account for about 70% of road passenger travel by mid-century. High prices also spur strong efficiency gains and the development of solar power. By 2070, solar photovoltaic panels become the world’s largest primary source of energy. Wind energy expands at a slower pace, due to public opposition to large installations of wind turbines. All this contributes to about 25% higher total cumulative greenhouse gas emissions compared to the “mountains” scenario. “These scenarios show how the choices made by governments, businesses, and individuals in the next few years will have a major impact on the way the future unfolds,” says Peter Voser, Shell’s Chief Executive Officer. “They highlight the need for business and government to find new ways to collaborate, fostering policies that promote the development and use of cleaner energy, and improve energy efficiency.” The scenarios look much further into the future than most other outlooks and highlight some surprising possible developments. Both see global emissions of carbon dioxide (CO2) dropping to near zero by 2100. One factor is increasing
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use of technology that takes CO2 out of the atmosphere, for instance by burning biomass to produce electricity, and then storing emissions underground. Although the “oceans” scenario sees a dramatic increase in solar power, it also envisions greater fossil fuel use and higher total CO2 emissions over the century than the “mountains” scenario, which will likely have more impact on the world’s climate. The scenario planning team also looks at how the markets and policy can change the energy mix. For example, if governments decide to bring in a carbon price, that will suppress coal use, and raise the relative attractiveness of gas and renewables. However, the price of coal may come down in response, and then other countries without carbon pricing could limit the use of gas and renewables, negating the Climate Change gains made elsewhere. This illustrates the requirement of a coherent worldwide action. This happened last year, gas became cheaper in the U.S. so people used less coal in the U.S. and shipped it to Europe instead and CO2 emissions rose. The recent shale gas revolution in the United States put natural gas at the center of the current energy debate: the U.S. is enjoying a massive economic stimulus in the form of lower energy prices; this is luring manufacturing and chemical companies back to the U.S., reversing the trend of the past two decades. On the other hand, Europe’s old coal-fired power stations are running harder than ever before, while brand new superefficient gas-fired power stations are being considered for mothballing or closure. Many countries in Europe, crippled with debt, offer subsidies for renewable energy costing well over $100/ton while current CO2 prices languish below $10/ton. Energy prices are not competitive. Europe has to address the complexity of some of its policy initiatives pro-
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viding clear and supportive ones; it must decide how to reinvigorate its own industrial base to ensure that it is a vital engine of technical expertise, innovation, and employment. It is clear that shale gas won’t provide Europe with the same cheap energy dividend in the near future; however, indigenous hydrocarbons development and natural gas, particularly for power generation, can contribute immense value. This is the case of Italy in the Mediterranean area: it enjoys a favorable position compared to most of the other European countries, having the unique opportunity to increase indigenous hydrocarbon production, reduce dependence on imports, and cut energy costs. “The development of hydrocarbons can play a strategic role for Italy, with benefits in terms of growth, investments, employment, and simplification,” says Marco Brun, Country Manager for Shell in Italy and the Adriatic. “To realize these benefits, it is necessary to promptly intervene with simplified, clear, and stable polices, to invert the trend of shrinking investments in this sector.”
The New Lens Scenarios look at trends in the economy, geopolitics, social change, and energy as far ahead as 2100, underscoring the critical role that government policies could play in shaping the future by actions now 143
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Id in-depth
It is time for new energy In view of changes, and political and economic crises, the need to promote energy-saving measures and plans to develop renewable energy has arisen in the countries to the south and east of the Mediterranean. If until now biomass, solar thermal, and water were the sources used the most, now solar photovoltaic and wind power are taking over. by Houda Ben Jannet Allal
General Director of Observatoire Méditerranéen de l’Energie
On the energy front, an increase in demand, inequitable distribution of resources, and growing environmental problems are presenting the countries of the Southern and Eastern Mediterranean Countries (SEMC) with many challenges. According to the MEO (Mediterranean Energy Observatory), in the absence of interventions, energy consumption will double in the SEMC countries and the demand for electricity generation will triple by 2030 (about 200 GW more capacity). These projections highlight the need for a turnaround to avoid this difficult, expensive, and risky energy model. Moreover, the upheavals taking place in some countries in the region, combined with the economic and financial crisis, testify to just how legitimate the aspiration for socio-economic development is and that it is the fulcrum on which policies to be implemented should be focused. To this end, energy is crucial, as is the promotion of energysaving measures and appropriate, high-performance, technological solutions in energy and environmental terms that are reliable and at acceptable socio-economic costs. It is clear that something is already being done, particularly in the field of renewable energy,
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a sector that has great potential in this geographical area. Despite strong growth in recent years, renewable energy accounts for only a fraction of the primary energy consumption (5.3% in 2009 including water, and 2.3% excluding water) and electricity production (Figure 1). Biomass, solar thermal, and water (and geothermal energy in Turkey) were the most widely used sources of renewable energy in the SEMC. In recent years, wind and solar photovoltaics for electricity production have made their appearance in the electricity mix, although they are still marginal technologies: in 2010, renewable energy accounted for 12% of total electricity production in the region, of which 11% was generated by water power. In 2008, the Mediterranean Solar Plan (MSP) was launched with the goal of installing 20 GW of new generation capacity from renewable sources and creating electricity grids and north/south and south/south interconnections by 2020. The plan will not only help develop industrial capacities in the wind and solar energy sectors, but also research centers to support technological development. The launching of the MSP and other initiatives, and projects such as DII, Medgrid, RES4MED, and Med-TSOE coincide with the profound socioeconomic and political changes occurring in many countries, the surge in oil prices, questions about the security of supply, and environmental and climate problems. In this context, many governments have prepared ambitious national plans. Morocco has adopted a plan for 2 GW of wind farms by 2020 and a 2 GW solar plan; it is already taking advantage of wind for 280 MW and 2 MW of solar energy, while an additional 750 MW of wind power and another 160 MW of solar power are under construction. In 2011, Algeria adopted a specific program with the goal of becoming one of the leading players in the sector of renew-
able energy and to develop 12 GW by 2030 to meet its own needs (7.2 GW of CSP, Concentrating Solar Power; 2.8 GW of PV, photovoltaic; and 2 GW from wind), bringing the share of production from renewable sources to 40%. Another 10 GW of renewable products will be exported. The project will construct the equipment and facilities required, and by 2020 aims to achieve at least 50% of the industrial integration on the whole value chain of solar technologies (PV, CSP) and wind power. The Tunisian Solar Plan (PST) was drafted in Tunisia in 2009, revised in 2012, and is currently being validated. The plan calls for an installed capacity of 4,100 MW by 2030. A breakdown over time per chain is illustrated in Figure 5. The PST will be equipped with a specific regulatory framework, and local supply chains of building components and equipment will be developed. In 2008, Egypt defined a strategy for renewable energy development which aims to achieve 20% of electricity produced from renewable sources by 2020: according to a breakdown, 12% is from wind, 8% from water, and 2% from solar energy, which brings wind power to 7.2 GW. In July 2012, the government approved an Egyptian Solar Plan providing for the installation of 3.5 GW from solar energy by 2027 (2.8 GW from CSP, and 0.7 GW from PV).The participation rate of private investment is 67%. The Plan also provides for the strengthening of local industrial capacity. Turkey intends to install 20 GW from renewable sources by 2023, which will cover 30% of its electricity production. In July 2012, a new law redefined the tariffs of repurchase depending on the use of components manufactured on-site. Therefore, local raw materials must represent at least 55% of the entire system; on the other hand, equipment has to be made entirely on-site. With the development of renewable energy, operators of
networks and electrical installations are facing many new kinds of problems. The influx of the means of intermittent production, both as to the number of plants and in terms of capacity, in the energy mix of countries that have minimal, if not absent, interconnections with other fixed electrical networks could affect the balance between the production and consumption of these networks. It will be necessary to create north-south linkages to stabilize the network and also to encourage the export of green electricity from the south to the north, in accordance with Article 9 of the European Directive 2009/28/EC on the promotion of the use of energy from renewable sources. Currently, MedGrid is exploring the feasibility of some of the land and submarine corridors: the latter present several possible paths and one of the critical issues will be precisely that of laying cables on the seabed at great depths. The strong penetration of renewable energies is changing the habits and the work itself of the distribution networks. Nevertheless, experience gained mainly in Spain shows that it is possible to properly manage the input of a massive amount of energy from renewables in a network, provided that one prepares a follow-up and a realtime centralized control of the installed renewables, draws up estimates of production, and operates a dynamic adjustment of reserves. Energy storage in the Mediterranean will be crucial to the development of renewable energy, to compensate for its intermittent nature and adapt to the load curve of the energy demand. Where in recent years the countries of the South have made strides in managing the integration of renewable energies in their respective energy systems, the management of large-scale penetration of renewables and the adoption of a coordinated approach between countries have yet to be fully achieved.
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figure 01
250
Breakdown of electricity production in the SEMC - 2010 (Source: MEO)
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other renewables and waste solar
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Turkey
Tunisia
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Palestine
Morocco
Libya
Lebanon
Jordan
Israel
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50
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0
figure 02
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Breakdown of the mix of electricity produced from renewable sources in 2010 (Source: MEO)
90 80 70 60 50
Region
Turkey
Tunisia
Syria
Palestine
Morocco
Lebanon
Jordan
Israel
20
Egypt
30
Algeria
40
other renewables and waste solar wind water
10 0
stage
figure 03 The main stages of the Algerian development program for 12 GW from RE projects (Source: Sonelgaz, Comelec 2012)
Pilot stage Program development Industrial development Wide-scale development
capacity
2011/2013 2014/2015 2016/2020 2021/2030
110 MW 540 MW 1950 MW 9400 MW
figure 04 MW
4500 4000
. . . .
period
600
3500
Electricity from renewable energy installed in Tunisia broken down by chain (source: PST, 2012)
3000 1930
2500 2000
500 0
2020
2016
1000
200 385
630
2030
180
1500
wind solar PV
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Co contexts
The gas route Past, and future, relationships between the countries of North Africa and Europe are based on gas, a precious resource that, however, risks seeing a collapse in demand. Europe’s crises, the growth of renewable energy sources, and the evolution of the global markets are putting North Africa’s leadership position in gas exports to the test. A rundown of the strategies that must be implemented. by Marco Arcelli Director of the Upstream Gas division, Enel
North Africa has been a historic and trusted partner of Europe for the supply of gas, thanks to its substantial reserves (more than 8,000 billion cubic meters), geographical proximity, and direct transport infrastructures (gas pipelines from Algeria and Libya to Italy and Spain, and LNG [liquefied natural gas] plants in Algeria and Egypt) that normally reduce geo-political risks. Today, roughly a third of the gas to Europe comes from North Africa, and more than 90% of North African exports goes to Europe. However, developments over the past 4-5 years have created a new environment that could have a significant impact on this consolidated relationship. In Europe, the demand for gas has changed substantially, with a sharp decline in absolute terms and increased volatility in volume, due to the economic crisis and the increase in electricity production from renewable sources, plus energy efficiency. In addition, the new rules of the functioning of markets has led to a gradual alignment of prices all over Europe, and the competition between different indexing formulas are not always consistent with each other. However, in this context, because of the decline of European gas production,
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imports will have to increase by 100-150 billion cubic meters in the next two decades. Consumers need a more flexible and more competitive supply, both in absolute terms (with gas prices of $13-14/mmbtu, production from renewable sources is already competitive without subsidies in different regions, and with relatively short times of fruition, the gas demand could be permanently destroyed) and in relative terms (long-term supply contracts, indexed to oil, are too expensive compared to gas prices on stock equivalents for the high price of oil and for the excess gas that is sold on these markets to meet the constraints of Take or Pay contents in the same long-term contracts).
By contrast, demand in the markets of the southern shores of the Mediterranean continues to grow at a rate of 4-5% because of subsidies provided to final consumers that, on the one hand, support economic growth, and on the other hand, lead to inefficient energy consumption. 85% of global subsidies in the energy sector regards fossil fuels, not renewable sources, with a distortion in demand that for years has led countries such as Egypt, where these incentives account for more than 20% of the state budget, to become net oil importers and to terminate gas exports in 2012 and enlist the help of Qatar, which will provide five shiploads of LNG for free. If the appropriate
corrections, already under discussion in several countries, are not adopted, it is expected that the proportion of gas earmarked for export and produced on the southern shores of the Mediterranean will go from 26% today to 5% within 20 years. This could lead to energy crises in Europe and social crises in countries of the South, with dramatic repercussions throughout the region. In parallel, the cost of gas production continues to increase. On the one hand, this is due to technological reasons, since the new resources are found in increasingly remote basins, such as Reggane in Algeria, or in deep and complex formations, such as in the Nile Delta. On the other hand, it is also
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If the appropriate corrections, already under discussion in several countries, are not adopted, it is expected that the proportion of gas earmarked for export and produced on the southern shores of the Mediterranean will go from 26% today to 5% within 20 years
due to the dependence of these countries on the production of hydrocarbons, which require selling prices higher than $100 a barrel to maintain a fiscal balance. Given the increased uncertainty of the gas market in Europe and the impossibility of reducing the taxation of oil and gas production, investment in these countries has slowed, and as a result, so has the ability to export these commodities compared to the optimistic forecasts of 4-5 years ago. The result is reduced security of supply for Europe and higher economic risk for the producing countries. Although the instability caused by the Arab Spring has not had a significant impact on the production of gas, the attack
on the production site in Amenas, Algeria, was a reminder that each country should remain vigilant to possible terrorist attacks. All the more so because in 2011, liquefied gas exceeded oil in terms of traffic through the Suez Canal, one of the most important choke points in the world’s maritime traffic, through which about 50% of the gas demand of the United Kingdom and 90% of that of Belgium travels today. For this reason, some European countries have taken direct initiatives for the stabilization of the Sahel region. In the face of these challenges, in the last 4-5 years, a new potential production area has developed in the eastern part of the Mediterranean. More than 1,000 billion cubic meters of gas have been discovered offshore Cyprus and Israel, and new tenders for the allocation of exploration permits are in progress in Cyprus and Lebanon. These findings have increased the rating of Israel and were the subject of political discussion in the debate on the Cypriot banking bail out. The development of this new region will contribute to a productive relationship with Europe if three conditions are fulfilled. The first is Israel’s approval of a policy of exporting gas. The second, since the reserves discovered in Israel and Cyprus are not sufficient on an individual basis to develop an LNG plant, is an agreement for the joint development of such a facility. The third concerns the evolution of global markets for LNG. Today, countries of the Far East pay about 30% more for LNG than Europe. In this context, the East Mediterranean gas could be marketed in these countries and not in Europe, unless, as some predict, the export of shale gas in the form of LNG from the U.S. does not lead to a reduction in prices in the Far East. There is yet another opportunity in the Mediterranean basin. Italy actually has sufficient gas reserves to cover
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20% of its demand for the next twenty years at costs that are 20-30% lower than the import prices, resulting in a non-taxable revenue of two billion euros per year, reducing the trade balance by six billion euros and creating more than 25,000 jobs. This is not only in mature geological provinces such as the Po Valley and off the Adriatic coast, but also in new offshore basins such as the Ionian region which, like a region in Spain, present geological similarities with the eastern Mediterranean. However, Italian administrative impassivity today prevents this treasure from being fully exploited. In conclusion, five aspects need to be addressed in order to consolidate relations among the Mediterranean countries. The first is the identification of new contractual relations between producers and customers to address a structurally new market situation with a weak demand, volatility on the rise, and new forms of competition between gas and other energy sources, including the direct participation of customers in the development of new production fields. The second is the gradual removal of energy subsidies in the countries along the southern shores, possibly promoting the development of energy efficiency Italy has sufficient and renewable energy production. gas reserves to The third is paying cover 20% of its constant attention demand for the to the social stabilnext twenty years at ity in the countries on the southern costs that are shores and the 20-30% lower than prevention of pothe import prices tential terrorist attacks, even through a possible direct involvement of countries of the North. The fourth is the development of reserves discovered in the eastern Mediterranean basin. Finally, the fifth is the rediscovery of the spirit that was at the basis of the Italian economic miracle of the Fifties and Sixties, to promote the sustainable production of hydrocarbons in Italy.
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Ef enel foundation
Energy puts Europe and Africa online A strategic energy basin, which possesses continuous and discontinuous sources, which is home to 7% of the world’s population, and which acts as a corridor for global energy markets. The Mediterranean is a place where important relationships can be created. These are the visions El-Salmawy, Boutarfa, and Adam Brown presented at the meeting of the Enel Foundation. by Vera Mantengoli Journalist for the Espresso Group
The tools for success are all there, but to reconfigure the energy landscape of the countries bordering on the Mediterranean, there is a need for a farsighted political strategy. On the island of San Servolo in Venice, last May a closed-door meeting took place that was organized by the Enel Foundation, in collaboration with the IEA (International Energy Agency), and was attended by the greatest energy experts from 14 countries of the Mediterranean, including Hafez El-Salmawy (Vice President of MEDREG), Noureddine Boutarfa (President of Med Tso), and Adam Brown of the IEA. The purpose of the four days of brainstorming was to analyze the current energy situation and see if there were grounds
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for a collaboration that could million, and the market of fossil combine the skills achieved in fuels will continue to dominate Europe with the provision of raw over other energies (gas will material present in North Africa. take the place of oil). In addiThanks to continuous sources tion, it has been estimated that (solar thermal and geo-thermal the need for energy will grow by energy) and discontinuous ones 2.8% a year, 5% for North Africa, (solar, wind), the Mediterranean where the expected changes will area could, in fact, become selfquickly alter the current scesufficient and meet the need for nario. Consider that, regarding energy without having to buy it; North Africa alone, in 2030, the but above all, it could meet the population will have increased parameters set by the EU for the by 80 million, resulting in a 75% “Plan 20 20 20” and its “Road surge in the GDP, and a douMap.” According to data probling of the energy demand and vided by the OME (Observatoire CO2 emissions. The alternative Méditerranéen de scenario, based l’Energie), the area on policy interFormerly, the idea involved is home to ventions aimed at of a network of 500 million people, increasing energy renewable energy or 7% of the world efficiency and repopulation, and newable energy pothat would link all produces 10% of the tential, could lead the countries of world’s GDP (7.5 to a 10% energy Europe was a dream. savings, a reductrillion dollars). In Today, however, it is addition, the Medition of 20% of CO2 terranean has 8% emissions, and a becoming a project of the primary en50% decrease in ergy requirements (sun, wind, the need to import fossil fuel in and water in abundance) and is favor of regional cooperation in considered a strategic corridor renewable energy. for global energy markets. The At this time, the world situation OME has tried to picture the is, in fact, changing. America is Mediterranean with and withusing a new method, shale gas, out investments in renewables, which could make it not only giving interpretations that start self-sufficient for years to come, from the ascertainment that but also an exporter, thus transthe current market situation forming the existing balance of is not sustainable. To date, the trade. This technique consists forecasts suggest that, by 2030, in digging into the ground, as throughout the Mediterranean deep as 1,000 meters, where area there will be a 40% increase shale rock formed from organin the demand for energy, CO2 ic material is typically found. emissions will rise from the curOnce detonated, the shale rent 2,200 million tons to 3,000 emits a gas that is captured for
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energy. By investing in renewable sources, Europe would not have to look to the foreign market, but would effectively be independent. “The issue is very delicate,” Boutarfa states, in agreement with the other speakers, “in that the gas currently comes from Russia, Asia, and the United States, but Europe must ask itself if it wants to continue to invest in gas and depend on other countries, or if it wants to start an exchange that is satisfactory for both players in the game: you offer your technology and we offer our raw materials.” Cooperation between the two shores of the Mediterranean would also lead to many advantages in the societies of the North African countries, as well as in those of Southern Europe, as Boutarfa perceptively observes. “There is migration not only to Europe but also within Africa. The benefits of renewables would also be felt in this sense, as it would give more regional stability to our countries.” But who should take the first step? “We need the countries of Southern Europe to lend us professional experts, who are very expensive here and do not stimulate the businesses. For example, a trainer can cost me up to 1,000 euros per day, the same figure that a dozen workers cost. Who can afford it?” In short, the project is large and involves all areas of life, including the citizens who have no idea how much energy concerns them. “If I had to ex-
plain to somebody what energy is, I would say that it is the oxygen in the air because it moves communication, which has become a basic need for everyone today. Someone gets to the top of a mountain and what do they want to do? Communicate it, by using their phone or internet! And for this, we need energy. Energy moves everything, but technology is needed for this. It is invisible to the eyes of all, but it is a process that requires the creation of a structure, as we who transport it know very well.” Formerly, the idea of a network of renewable energy that would link all the countries of Europe was a dream. Today, however, it is becoming a project thanks to the work of the IEA, which in Paris is mapping all the policies that are being implemented in the field of renewable energy in order to study how they could connect. “Every country,” says Adam Brown, “has its own natural resource that it could lend to a neighboring country when it is not active. In these years, renewables have grown a lot, but in the coming years, we expect the peak to decrease because we have to think about how to integrate them and to finally become competitive, as they begin to be present everywhere.” With regard to coal and gas, Brown argues that, according to projections, even if the countries continue to produce and use it, a time will come, around 2035, when it will no
longer be cheaper to buy gas, in comparison to the renewables. In short, the forecasts are pushing in this direction, but in recent years policies have been influenced by the crisis that has spread across Europe and shaken the Arab world. Everyone agrees that this has definitely slowed down investments in this sector. The problem is that, lacking money, the businesses that are surviving want to see results right away and are afraid to invest in a new front. This is why much depends on the political choices that should be thought of in the long-term and convey the message that, although there are initial costs, they will eventually allow for stability. “To educate people,” says the Egyptian Hafez El-Salmawy, “we are activating an information campaign in our country, starting with the schools and public opinion, because we realize that we have a great asset, the sun, as demonstrated by the Desertec project. Initially, the first investors were Germans, but now the idea is to involve local businesses.” A $400 billion project that could revive the economy of the whole of Europe and North Africa, but which needs a revision that takes into account the fact that energy is a tool that could benefit both shores and lay the foundation for a territory that breaks down geographical boundaries in the name of collective cooperation.
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Thanks to continuous sources and discontinuous ones, the Mediterranean area could, in fact, become self-sufficient and meet the need for energy without having to buy it
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Make the desert bloom Universities, incubators, and funding for technology are the forces that have created startups in Israel and then exported them all over the world. Energy resources are the objective of most of the Israeli companies that have made their way abroad, and in particular, water management, in which this country is a world leader. A green desert with industry and energy as its flagships. by Luca Salvioli Journalist and editor of “Il Sole 24 Ore”
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In the Middle East, Israel is also distinctive from an energy and industrial standpoint. With the end of the Fifth Energy Bill for photovoltaics, within the panorama of incentives toward renewable energy in Europe – and Italy, in particular – the focus has shifted to companies outside the national borders and the Arab countries are among its goals: the demand for energy, abundant sunshine, and incentive policies can all be found there. The case of Jerusalem is different. There are photovoltaic systems, some with advanced technology, and others have been planned for the coming years, but for the time being, solar energy (solar thermal)
is above all what can be found on the roofs of houses and there is a lack of incentive policies. “It is a small country, there is no space for large plants,” said the Israeli Eran Efrat, area manager for Europe of VerDiesel, a company specializing in the production of biodiesel. “The state provides incentives for what is needed, and that is water.” Therefore, Israel stands out for two capacities: the production of start-ups on the one hand, and the development of technologies for the management and rationalization of water, on the other. On the first front, the country is known worldwide for its ability to give birth to innovative companies that
The Israelis know that to be successful, the patents that are born in Tel Aviv, thanks to the ecosystem of universities, incubators, and funding for technology transfer, must leave the confines of the country
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then expand abroad. Nowhere else is there such a concentration of start-ups per number of inhabitants, without forgetting that on NASDAQ, Wall Street’s technological stock exchange, after the American companies, the most companies represented numerically are Israeli. International technology news is full of examples of this presence. The first is bitter: Better Place, the company founded by the Israeli Shai Agassi, who has had a lot of resonance around the world thanks to his idea of encouraging the development of an electric car with an automated infrastructure and easy battery replacement. A few weeks ago, he brought the books to the court in Lod for its judicial liquidation and dissolution. As stated in the Better Place press release: “The decision was made due to the impossibility of obtaining additional funds and the lack of resources needed to continue activity.” The ambitious program of an infrastructure network, which also foresaw a partnership with Renault, has resulted in “only” 20 fastcharging stations in Israel and 12 in Denmark. However, the Israelis know that to be successful, the patents that are born in Tel Aviv, thanks to the ecosystem of universities, incubators, and funding for technology transfer, must leave the confines of the country. Another recent virtuous example: Waze, an application for smartphones that functions as a social satellite map by exploiting users’ reports, was created in Israel and bought for over a billion dollars a few weeks ago by Google, which beat out the other interested party and rival, Facebook. The ability to innovate has also come to the energy sector. Eran Efrat travels around Europe to enter into agreements and make Transbiodiesel known: “The world market for biodiesel collapsed in 2008-2009 because the raw material cost too much. Companies were buying vegetable oils, thus
competing with edible oils. We only use acid oils from waste. We have collaborations in Italy and the business is growing very well, so it is a shame about all the bureaucracy.” However, the true gold of the Israeli deserts is water: just travel across the country, about the size of an Italian region, and observe the contrasts between the arid areas and the tufts of green grass, generally corresponding to the kibbutzim. There are hundreds of companies operating in the sector of water treatment and safety, then there are the software programs for the management and the monitoring of the water supply, desalination, and intelligent irrigation. The water crisis has been a reality for decades and water management has a long tradition that follows the ambition of “making the desert bloom.” This was the birthplace of one of the most efficient irrigation systems in the world, drip irrigation, which reduces waste by reaching the single plant. It is being used all over the world thanks to Netafim, which has been marketing its products since 1965 and is now a multi-
national corporation based in Kibbutz Hatzerim. The country recycles 75% of its water, reusing it for agriculture. “Israel is a world leader in irrigation, so at the next Watec in October 2013 (the annual meeting of the sector in the country) we will present Alba: a standalone system, which also works in areas not connected to the network and works as an accumulation system,” says Angelo Pennacchi, the area manager of Cadoppi srl, the historic company that produces pumps in Montecavolo, in the province of Reggio Emilia. The irrigation systems are powered by electricity and Alba enables the supply with photovoltaic panels, concentrated solar panels, and micro-wind turbines. “In Israel, for now we have put out a demonstration machine in collaboration with Metzerplas, and after this phase is finished, we will enter the market,” he concludes. Cadoppi also exports its solution to Central and South America. When it relates to domestic demand, photovoltaic and wind energy present a frontier that still has plenty of room for experimentation and will
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depend on energy policies, which for now, are very cautious. Instead, Israeli capital has already arrived: at the beginning of 2013, Ellomay Capital took over two 12-megawatt photovoltaic plants in the region of Veneto, while in the Marche region, Energy Resource recently formed an important financial partnership with the Israeli fund Helios: their agreement provides for the entry of the fund in the redevelopment of the port of Ancona and the new headquarters of the Florentine Arva. Inversely, the Israeli company Friendly Energy was purchased two years ago by Italy’s Enerpoint, becoming Enerpoint Israel.
Israel stands out for two capacities: the production of start-ups on the one hand, and the development of technologies for the management and rationalization of water, on the other
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Now the middle class has realized that democracy does not end merely with the election results, but requires respect for the minorities and listening to public opinion in its entirety
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Return to growth after Erdogan The political sunset of Erdogan following the riots in Taksim Square is a signal of the significant change in Turkish society, composed of young people and women well aware of their own vitality. It is crucial that the Islamic party understand this new force in order for Turkey to overcome the crisis and record further growth. by Pino Buongiorno Professional journalist
In Kayseri, the ancient Caesarea in Cappadocia, a metropolis of 1.1 million inhabitants, people have been talking about nothing else, after the riots erupted in Taksim Square in Istanbul against urban speculation to turn Gezi park into a shopping center, with even a mosque and neo-Ottoman barracks. Here in the heart of central Anatolia, where almost all the women
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wear a veil and most restaurants do not serve wine, a sure pool of votes for the Islamic party in power since 2002 (the AK Party), the imperative now is: “Save the party, even at the cost of sacrificing our prime minister.” You could say that this is the typical reasoning of the Calvinist work ethic that is in the DNA of Cappadocia, regardless of the fate of some troublesome men. In this case, it is the Prime Minister Recep Tayyip Erdogan, 59, the politician who created the “Turkish phenomenon” precisely through the miracle of the Anatolian tigers: the rise of a new class of small and medium entrepreneurs, the offspring of the Muslim bourgeoisie who imposed themselves on the Turkish scene for the first time, at the expense of the usual rich people in Istanbul. Thanks to them, from 2001 to 2011, the Turkish GDP grew on average by 5.3% per year in real terms. Now Erdogan appears besieged in his ivory tower, surrounded by a clique of collaborators and yes-men and by a caste of
hungry contractors who consider the police, tear gas, water cannons, and billy clubs as their only hope for survival and increasing affluence. His obtuse reaction to the protests, his contempt for the protesters (“thugs and thieves”), his cries of “international conspiracy,” for which foreign journalists and social networks such as Twitter and Facebook were held responsible, have turned Erdogan into the most illustrious victim of his own success. Some of his old acquaintances justify him, claiming that his constant wrath is due to the heavy treatment to which he has been subjected for a long time to combat a serious illness. There are those who compare him to an Ottoman prince, unable to listen to criticism, determined only to reform Turkey in a presidential sense, in order to run for the presidency of the country and to be in charge in 2023, when the centenary of Turkey will be celebrated. The headquarters of the Musiad, the Association of Muslim
entrepreneurs, reasons that President Abdullah Gül, 62, who, among other things, was born in Kayseri, is better, much better than him. If Erdogan also appears to be undergoing a “political sunset” in Cappadocia, Gül is seen as the leader of the future, if only because he seemed to distance himself from his old party comrade in the incendiary days of street riots by advocating dialog with the youth in revolt. Is this how Turkey will resume the triumphal march that brought it to 16th place in the world ranking of the 20 largest economies, with a GDP per capita, in nominal terms, that went from $3,000 in 2001 to $10,000 in 2011? The leaders of the AK Party, the major industrial and banking groups, such as KOC and Sabanci, the generals themselves, but also the foreign powers (the United States, Russia, China, and the EU) are wondering which path this country, one of the most strategic in the world, is going to take, placing its bet for the future on
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the Mediterranean, poised between a European and an Asian vocation, a bastion of NATO and a global energy hub. What seems certain is that Taksim Square in Istanbul did not produce a revolution, as occurred in Tahrir Square in Cairo, which dethroned the “pharaoh” Hosni Mubarak. It was more of a movement that rejected an aspiring Sultan, who has become more and more authoritarian, arrogant, and pushy over the years, laying down the law on lifestyle, freedom of speech and writing, and on the marriage bed in Turkish families. “Pray and get rich” has been his motto in this decade of economic and even geo-political boom, with the Turkish model as an example to the countries of the Arab Spring. Now, the middle class in particular has realized that all this is not enough, that democracy does not end merely with the election results, but requires respect for minorities and listening to public opinion in its entirety. “Civil society has dem-
onstrated, not only in Istanbul but also in fifty other Turkish cities, that it does not need you to know what to eat and drink,” one of the most famous Turkish writers, Nedim Gürsel, author of the novel The Devil, the Angel and the Communist, which won the Prix Méditérranée, wrote in a heartfelt open letter to Erdogan. “I want to sip my glass of raki on the shores of the Bosporus, and if possible, at sunset. You have no right to deprive me of that pleasure, even if you were elected with 50% of the votes. Nor can you build your Ottoman barracks in Taksim Square, one of the symbols of the Republic, even if it were to be transformed into a shopping mall. Because Istanbul is not Dubai, and its population wants its historical sites and the environment to be protected.” If this is how things stand, and if the challenge to Erdogan by the vibrant portion, also Muslim, of the country will win, then the Turkish crisis will only be a step to further growth in Turkey. This time, not only eco-
nomic and commercial growth, not only as a regional power in the Middle East crossroads of the Syria-Iraq-Iran triangle, but above all, social growth. High school and college students, women, many of whom belong to the lower middle class, environmentalists, ultra-nationalists, groups for gay rights, members of the Alevi community, Kurdish separatists, and liberal professionals: all those who took to the streets are the lifeblood of contemporary Turkey. This explosive force rejects the dictates of the omnipresent and omniscient State, once secular and today Muslim. The rulers and the opposition forces cannot be separated from the given demographic characteristic of this extraordinary country. The 12 million young people between 15 and 24 years of age equal 18% of the total population. They have access to the Internet, use social networks, and are living a digital life even more intense than that of their peers in Europe. Women are also more educated than
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in the past; they get married and have children at a later age. A substantial number of women are working in prestigious areas, such as the academic (39%), medical (34%), financial (32%), and legal-juridical (28%) sectors. “The true engine of social development of the country consists of the optimism energizing the young and the modern female condition,” states Valeria Giannotta, an Italian researcher who works at the Middle East Technical University in Ankara. These new social actors do not feel represented by the current government of Erdogan nor by the main opposition party, the very rigid CHP of Kemalist mold. Until now, they have been “invisible” to the public sphere. Now they have shown themselves in all their vitality. It is up to the more enlightened political and entrepreneurial classes to grasp its potential. The alternative is a tug of war that could cause Turkey to slip back into the darkest years of the Republic’s history.
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Hellenic revival? The protagonist of Europe’s greatest fears in recent years, Greece is experiencing a timid but partially reassuring economic recovery. Despite very high unemployment and salaries cut to the bone, after the 2012 elections the Hellenic Republic is experiencing the revival of tourism, financial speculation in its favor, and above all, important international relations. by Antonio Ferrari Columnist for “Corriere della Sera”
After five years of living in the darkness of a crisis that had become so severe it seemed to be the prologue of a certain failure, it is always difficult to see the stars. Granted, stars that are not very bright, but which are still capable of shining a little light – perhaps dim, but still light – on the future of Greece. A year after the decisive political elec-
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tion on June 17, 2012, the country has regained a semblance of governmental stability, forming a government led by the centerright New Democracy and supported by the Socialists of Pasok, who have become very scarce, and the radical and moderate left (it almost seems like an oxymoron) of DIMAR. Now it can truly begin to undertake some revival projects. The first step was taken with China, and you could say that the lucrative contract has turned Piraeus, the historic port of Athens, into the bridgehead to Europe and its markets. An important investment: 3.3 billion for a rental period of 35 years. And a breath of healthy efficiency in the makeup of the seaport, where the second largest merchant fleet in the world is anchored. Then, all it took was to pull Greece from the headlines of the hard news in the media and on the Internet in order to achieve the very first important psychological effect: convincing people, at least the majority, that the heavy sacrifices imposed by the troika (ECB, European Union, and Interna-
tional Monetary Fund) to obtain the necessary aid had not been, are not, and will not be useless. These sacrifices might allow for a real reboot already in the second half of the coming year. In this summer season fraught with expectations, tourism is experiencing a boom, not only in the islands (politically peripheral and therefore protected from the hammer blows of the crisis) but also in Athens and other cities. However, a clamor has arisen about the purchase – between private parties – of the island of Skorpios, the jewel of the Ionian which belonged to the Onassis family, by the controversial and opaque Russian oligarch Dmitri Rybolovlev, who wanted give a “little gift” worth 117 million to his daughter. It is clear that the state, too, intends to sell some of the family jewels. Many now consider it inevitable. As is a cursory glance at the Greek Stock Exchange, which has grown by 140% in one year. But here we must make a distinction. The interest in Greece as a financial parking lot has come mainly from large international specu-
lators who, until a few years ago, had decidedly wagered on Greek bankruptcy and bet against the country. But now, with an 180° about-face, they are betting on the rebirth of Greece, and apparently are earning very well. But if Finance laughs, the average Greek suffers and sobs. The overall unemployment rate is not far from 30%, and youth unemployment is almost 60%. The salaries of civil servants, or better yet, those who have managed to preserve their jobs, have been reduced by 35%. Thousands of young people are looking for alternatives abroad, even an internship that is unpaid but which would be valuable for enriching their curriculum, in the hope that one day it might be used for opening a door into the work world. Looking at the Mediterranean, we can say that the crisis has not substantially changed the strategies of Greece. Only a reduced movementism is noticeable, especially in the Arab Middle East and the North African world, the traditional shores of Athenian diplomacy. However, there are
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stronger economic ties with Israel (also in view of the exploitation of gas fields in the sea around Cyprus), but above all, Greece aims to strengthen ties with the European Mediterranean countries. Italy, of course, has always been the preferred partner. Not even the wretched and unfortunate war in the ’40s, when Mussolini and Ciano sought to “break Greece’s back,” left resentful residues. The two populations have always mirrored each other. Intellectuals explain it with the legacy of a common civilization, the fantastic Greek-Roman relay. More prosaically, people find in the one the strengths but also the defects of the other, and vice versa. Moreover, as another popular saying states: “Love is not for the merits but for the defects.” In the past years, gripped in the savage jaws of the crisis and with exchanges stagnating dangerously, forcing drastic cuts and restructuring, many Italian companies – the very large but also medium and small ones – decided to reduce their staff but not to leave Greece: in order to be there when the conditions improve, and when they might
also be able to cash in their dividend of loyalty. France has always represented a mixed blessing for the Greeks. But rather than eyeing the temptations of Paris, Greece is looking with greater interest to London. It would be hard to make a reliable estimate of the number of wealthy Greeks who, in the midst of the crisis, diverted part of their assets in Britain and redirected them to purchase expensive villas and luxury apartments. In the Hellenic Republic, the Anglophile current is very substantial: favored by history, by a love of Byron, and the financial adventures (and more recently, misadventures) of the Greek-Cypriot Republic. As we know, the island was formerly a British colony. Outside Europe, Egypt has always been the Mediterranean Uncle that is dearest to Greece. There are many reasons for this affection: historic gratitude toward what was once the cradle of knowledge, the library of Alexandria; gratitude toward the great Arab scholars who first saved the works of Plato and Aristotle from destruction and oblivion, and then lovingly
imparted them once again; gratitude also for the hospitality that Egypt has always offered to the Greeks in the most difficult and delicate times in their history. Today, there is an added value, which, however, has an unintentionally cynical implication. Athens is experiencing the above-mentioned tourism boom because many visitors who usually aim for a low-cost holiday in Sharm el Sheikh have now chosen the Aegean and the Ionian Seas. Fear of Egyptian instability, the repercussions of an unresolved “Spring,” the ambiguous leadership of President Morsi, and the excessive power of the Muslim Brotherhood are, in fact, exacerbating the already devastating economic crisis of the largest Arab country. Instead, something unexpected is happening on the Adriatic shore of the Mediterranean Sea, in Albania. Since the ’90s, the current migration to Greece had been continuous and steady. It seemed as if all the immigrant laborers in the Hellenic Republic were Albanian. Today, we are witnessing the big homecoming. In Albania, the living conditions
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have improved, the economy is growing, and job opportunities are numerous. This is also because many small and medium businesses from many countries, including Italy, have decided to relocate their production in the former communist country of Chinese-like obedience. Finally, Turkey. No one should forget that, when the crisis reached its peak, the first leader who went to Athens was Recep Tayyip Erdogan, accompanied by ministers and businessmen, ready to give a helping hand. That is why the economic relations of Greece with their powerful neighbor have become very close: much stronger than the widespread popular resentment against the Ottoman Empire, which occupied the country for 400 years. Athens was the first to support the right, but also the need, to accept Turkey as a member of the European Union. If Ankara were part of the club in Brussels, the huge Greek military expenses (which account for almost 7% of its greatly suffering GDP) would no longer be necessary and could be drastically reduced.
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The long Libyan autumn After the death of Gaddafi, Libya has been going through a long season of transition and reconstruction of roles, in which local communities, the various parties, and even dangerous militias are trying to find their place. This phase could conclude successfully if the international community and, above all, Libya’s main commercial partners offer their support. by Gerardo Pelosi Correspondent for “Il Sole 24 Ore”
There is one fact, more than any other, that indicates how little confidence Italy, Europe, and the Western world place in the possibility that, two years after the elimination of Gaddafi and his 42 years of dictatorship, the Libyan revolution will be able to produce the first effects of stability and civil renewal. Two months ago, Eni, the largest Italian oil group, publicly announced that its strategies plan on reducing Italy’s dependence on Libyan energy sources from 24% to 16% in five years. In short, Eni (also in line with other large French and American companies, victims, like the Italians, of small and large extortions by militants) has demonstrated it does not believe in a normalization of the country, especially in the short term. The picture becomes more complete if you add to this the fact that, in order to finance the cost of layoffs in derogation, the government headed by Enrico Letta has decided, among other things, to use the annual installment ($250 million) that Italy is committed to paying for twenty years to the Libyan government, according to the Treaty of Friendship and Cooperation signed in Benghazi in August 2008 by Silvio Berlusconi and Muammar Gad-
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dafi. The executive branch, in addition to the business world, believes that Libya is no longer a strategic partnership and a priority in relations between Italy and the southern shores of the Mediterranean. There are simply statements of good intent, or little more, such as those made by the former secretary of the Democratic Party, Pierluigi Bersani, who flew to Tripoli shortly before the elections at the suggestion of the party’s Director of Foreign Affairs, Lapo Pistelli, while the “Tripoli declaration” signed by former Prime Minister Mario Monti in January 2012, remained an isolated act of good will. Everyone, from businessmen to security managers, agrees that the normalization of the country will take a long time. “Besides,” says a senior Intelligence officer, “what is happening in Libya is what we have seen in the Balkans and
in Kosovo, where it took a long time to turn the cutthroats of the ethnic cleansing into some kind of keepers of Civil Protection.” The climate of total insecurity is evidenced by the latest bomb that exploded under a car belonging to the Italian embassy in Tripoli a few weeks ago, and by the shooting incident involving the car of the Italian consul in Benghazi, De Sanctis, at the beginning of the year. But those who come to Tripoli in this period will be surprised to find apparent normality in the Libyan capital, although there is some chaos and a lack of clarity about who exercises the monopoly of force. However, it does not take long to realize that Libya will not be liberated anytime soon from the militias that have won the war, with the decisive contribution provided by their Allies (Americans, Europeans, or Arabs). These militia represent
the current element of greater destabilization in the country. As the ISPI researcher Arturo Varvelli explained well in his analysis of the country, the central government “does not have the necessary strength to disarm, nor even the political will. Instead, it aims at their assimilation, as has historically occurred after similar situations.” The hypothesis of their dissolution and of an enlistment of individual tuwwars (“revolutionaries”) into the army has resulted in a more simple “change of team” of the militias. In short, two years after the uprising against Gaddafi, Libya is going through a complex transition destined to last months, if not years. The central government is trying to avoid new conflicts and embark on the path of reconciliation, even though the law on purging is likely to exclude the better educated and more technically prepared ruling class from positions of greater responsibility. Basically, it is a case of extensive “de-Baathification” that would benefit the party of the Brethren, would cast shadows on the ability to govern the public machine, and would exclude Jibril, but also the former chairman of the National Transitional Council, Abdel Jalil, or the current President of the Congress, Mohammed Magarief. From the political point of view, Prime Minister Ali Zeidan, who has managed to establish himself as a nonpartisan among the personalities and emerging rivalries and his government, governed by a cross-party majority that includes the party of the Muslim Brotherhood and the Alliance of Mahmud Jibril, seems to gather the consensus of a large part of the population and local communities. As Varvelli writes, Libya seems far from the sectarianism that is typical of other countries, such as Iraq. The government is caught between two fires. On the one hand, there are the militias engaged in a kind of
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Prime Minister Ali Zeidan, who has managed to establish himself as a nonpartisan among the personalities and emerging rivalries and his government, seems to gather the consensus of a large part of the population and local communities
blackmail against it: continued demands for funds and means for them to perform the tasks assigned (control of areas, institutions, and infrastructures), in addition to requests for benefits and pensions for ex-combatants (the number of which, as at the end of every civil war, has soared compared to the actual participation). On the other hand, there is pressure from the U.S. Within the galaxy of the militias, there are Salafist groups composed of Al-Qaeda elements who have fought in Afghanistan, Iraq, and now, Syria. Not just Answar al-Sharia, the militia charged with the attack against U.S. ambassador Chris Stevens and three other Americans in Benghazi on September 11th, but also other brigades that have been shown to act independently yet are inter-connected and, above all, share the same vision (Rafallah al-Sahati mili-
tia, Abu Salim brigade, etc.). Some radical groups in Cyrenaica have already become part of the Libyan security forces that the government is trying to reorganize. In addition, three undesirable training camps for militants have clearly been identified in Cyrenaica and would be an easy target for U.S. drones. But, unlike what happened in ’86 in the war of Sirte, despite the direct hit from the attack on Stevens, Washington intends to stay away from Tripoli, but without precluding careful monitoring of possible connections with the Al-Qaeda formations in the Maghreb (AQIM). While Europe timidly carries out its traditional work of institution building, the problem of the Constitution remains unresolved. The most important point is related to the disposition of Sharia as a founding principle of the law in Libya. The discussion is not
so much on the imposition of Islamic law, widely recognized as fundamental in the country, but on who will be in charge of deciding if a law passed by Congress is in contradiction with it. The worst mistake in this situation would be to abandon the country to its fate. As Giulio Andreotti, who in the Seventies negotiated everything from terrorism to military supplies with Colonel Gaddafi, once said, “You cannot choose your neighbors.” Also because once the uncertainty of Tripoli’s long fall has dissipated, the first signs of change in the country will be perceived by Italy, for better or for worse. But for once the optimism does not seem out of place, because after the G8 summit in Northern Ireland and the formal request of U.S. President Barack Obama for Italy to play an active role in the rebirth of Libya, Prime Minister Enrico
Letta met with Libyan Prime Minister Ali Zeidan and several of his ministers in Rome on July 4th. Thus, Italy will guide the action of the main EU countries (France, Germany, and the UK) and the United States on the issue of institution building, i.e., the training of security forces in Libya and in Italy, surrender of weapons by the militias, and reform of public administrations. Italy will also manage the international team that must ensure the safety of the oil wells. U.S. military forces will control the territory with drones from their base in Nigeria and from the one in Sigonella. At that point, perhaps even Eni will decide to revise their plans and once again invest in the country, just as it has until now, with significant results in economic terms and important geo-political implications for the stability of the entire region.
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Morocco’s illuminated monarchy Human rights, transport, infrastructures, constitutional reforms, and health are pivot points of the young King of Morocco’s reforms: measures promptly implemented that warded off a revolutionary spring in the country. Different conditions, albeit not particularly good, that depict the other face of the Arab world. by Giovanni Porzio Reporter
King Mohamed VI can be satisfied: even though the elderly Saudi monarch Abdullah has decided to spend the summer holidays at his villa in Morocco, it means that the level of security in the Cherifian Kingdom does not cause undue concern. The wave of protests that swept over the regimes in Tunisia, Libya, Egypt, and Yemen, and triggered bloodshed in Syria, have only skimmed the extreme western land of the Arab world. The seeds of crisis are also very present in Morocco: rampant youth unemployment, an illiteracy rate higher than that of Egypt and Tunisia, increasing activity of jihadist cells (between 1994 and 2011, a series of terrorist attacks killed more than 60 people, including several foreigners). Yet the country has not been plunged into chaos: merit that should largely be attributed to the foresight of its fifty-year-old sovereign. Soon after his accession to the throne in July 1999, the king initiated a substantial program of reform. The new Family Code (Mudawana) launched in 2004, however imperfect, represented a decisive step forward on the road to the full recognition of women’s rights. The commission that was created to investigate human rights
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violations during the reign of Mohamed VI’s father, Hassan II, analyzed 29,000 files and most of the victims were compensated. The fight against poverty has been undertaken with vigorous investments in public works and has boosted the tourism sector. Despite the decrease in visitors caused by the international recession, six 5-star hotels and four golf courses are being built in Marrakech, and there is a new highway that now allows you to reach Agadir in less than two hours. In sleepy Tangier, the medina was restored and residential complexes and resorts are popping up within a radius of a few kilometers, built with Arab, Spanish, and Italian capital. On the Mediterranean coast, strategically located on the Strait of Gibraltar, the doubling in size of the mega Tanger-Med port, the largest in Africa, has almost been completed: by 2015, it will be able to handle 8 million containers, 7 million passengers, 3 million vehicles, and 10 million tons of petroleum products. At the dawning of the Arab Spring in March 2011, the king moved ahead by announcing the reform of the Constitution, approved by a referendum in July. Mohamed VI, a descendant of the Prophet, is still the Amir al-Muminin, the Commander of the Faithful, and remains the head of the armed forces and security services. But for the first time, the Prime Minister of Morocco is no longer chosen by the king, but is appointed by the majority party; the judiciary power is independent from the executive power; and Tamazight, Berber, has become an official language along with Arabic. It is not yet a constitutional monarchy, but it is certainly the beginning of a process of devolution that the Alaouite dynasty seems determined to carry forward. “The Arab world is changing,” says Wahid Khouja, a member of the
Authenticity and Modernity Party. “We want to demonstrate to the West that Morocco can arrive at a true democracy with a peaceful revolution: a journey that could be followed by other countries in the area.” The replacement of the ruling classes has opened up encouraging prospects on an international scale. One of the consequences of the Arab Spring and the collapse of the old regimes is the revival, after years of stalemate, of the AMU, the Arab Maghreb Union, the project of economic integration among the countries of the region, of which Morocco is one of the essential cornerstones. And a thawing between Algiers and Rabat on the question of Western Sahara, not easy but now less improbable, would give impetus to cooperation in the field of strategic security in the Sahelian-Saharan region, allowing new developments in the areas of trade, transport, and the exploitation of natural resources, from shale gas to photovoltaic sites. With Hosni Mubarak’s departure from the scene in Egypt, Morocco has become the main ally of Washington in North Africa: an element of stability and a bulwark against fundamentalist Islam that threatens to spread to large areas of the continent, from Nigeria to Algeria, from Mali to Libya. While Europe needs the collaboration of Rabat on the fronts of drug trafficking and illegal immigration. The “soft transition” underway in the kingdom is the result of Mohamed VI’s desire to legitimize the party of moderate Islamists (PJD, the Party of Justice and Development) which, in turn, instead of claiming a radical change of regime in the streets, welcomed the reformist attempt of the sovereign and went on to win the legislative elections in November 2011. The secretary of the PJD, Abdeli-
lah Benkirane, was appointed prime minister. The cautious opening to democracy has come to displace fundamentalist groups such as the outlaw movement Justice and Charity which, despite opposing the monarchy, has renounced the use of violence as an instrument of political struggle. This does not mean that Morocco is permanently protected from the repercussions of the Arab uprisings. The reforms, which many describe as institutional cosmetics aimed solely at preserving the dynasty, may prove to be insufficient in the long run in a country where the social imbalances are alarming. Although the infant mortality rate has dropped by 30% in five years, at least 15,000 elementary schools – or so the opposition press claims – are still without safe water and sanitation. At the same time, the personal fortune of the king, who controls banks, industries, and phosphate mines, has increased fivefold in ten years: with $2.5 billion, according to “Forbes,” Mohamed VI is wealthier than Queen Elizabeth. The reins of power are still in the hands of the makzhen, the royal establishment, and the sovereign, to whom Article 41 of the new constitution grants the right to repeal any laws passed in parliament by a simple decree (Dahir). Old habits such as censorship, arbitrary arrests, and widespread corruption are diehard. And also, modernization and plans for infrastructure development, while generating jobs, do not seem able in the short term to fill the economic and social gap that plagues the country. Many projects seem disproportionate and only for the benefit of foreign investors, tourists, and the Moroccan financial elite. Such as the contested high-speed Casablanca-Tangier rail line at a cost of $2.8 billion, a figure equal to 10% of the national
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budget, more than ten times the annual agricultural fund earmarked for farmers, who account for 40% of the workforce in the kingdom. While the police have begun to dismantle the more than 50,000 illegal buildings inhabited by the poorest people. Such as in Jorf Lasfar, an Atlantic port, where a phosphate refinery and deposit are being built and sheep graze in the rubble of demolished houses. “They told us we occupied an industrial area,” says Tahar, 29, unemployed. “They build factories on our land. And then they destroy our homes.”
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Sc scenarios
Africa: the next economic miracle? Despite political instability, popular uprisings, and the reduction of trade with foreign countries, the African continent is awakening from its long hibernation. In the more advanced countries, as in the less advanced ones, the IMF paints an overall picture of growth which is awakening European, Chinese, and American interest. by Vittorio Da Rold Correspondent for “Il Sole 24 Ore”
“Will the African ‘lions’ surpass the ‘tigers’ of Asia?,” the British weekly “The Economist” defiantly asked some time ago, looking at the growth estimates of the International Monetary Fund. Maybe it will take more time before this prophecy comes true, but in the meantime, the economies of the countries of North Africa should benefit from a cautious recovery in 2013, compared to the sharp slowdown in 2012. This is what the International Monetary Fund pointed out in its report on the forecasts of the world economy, released in April. “The oil-importing MEMA countries” – it stressed in the report – “should enjoy an average growth of 2.7% in 2013, compared with 1.9% in 2012, although they remain burdened by political uncertainty, the reduction of trade with Europe, and the high prices of raw materials.” Tunisia is expected to grow by 4% compared to 3.6% last year, thanks to a recovery in the tourism sector. In Egypt, economic growth is expected to slow from 2.2% to 2%. The IMF report points out that the rise in the prices of food and fuel could have an adverse effect on production in the non-oil producing countries and “worsen their already high fiscal and foreign deficits.” The EBRD (European Bank for
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Reconstruction and Development) is focusing on North Africa with a settlement in the countries where it has opened offices operating in Cairo, Tunis, and Casablanca, offices that actually do something and are not just representational. The bank has begun financial transactions with a credit for a total of 300 million euros, including a private equity fund for the whole area of the Maghreb, and loans to companies in the manufacturing sector in Egypt and to agri-food businesses in Morocco. It has also prepared a list of projects totaling approximately 1.2 billion euros that the Bank will finance in six to ten months from now. North Africa is not the only area which will do fine. The economy of sub-Saharan Africa will grow again in 2013, driven by domestic demand. The positive forecast in these
times of global crisis is once again contained in the latest economic report of the International Monetary Fund. “Guided by private consumption and investments as well as by exports,” – the economists of the IMF wrote – SubSaharan Africa, “on the basis of the substantial growth in 2012, will continue along the trend of expansion interrupted only in 2009.” Economists of the Fund estimate that growth in its GDP in 2013 will be up 5.5%, unimaginable figures for Europeans accustomed to situations of recession. “Overall growth” – the report says – “is based on the significant growth of massive investments in infrastructures and productive capacity, in sustaining consumption, and the launch of new extractive capabilities.” In 2014, it will be even greater, equal to 6%. To eliminate the confusion,
What has given a boost to this region’s economies, that are still lagging far behind, is the rise in commodity prices, as well as recent oil production in some states
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it would be better to take a look at the past so as to understand what is happening. Ghana recorded over 8.3% in 2012, and is expected to grow by 7.7% in 2013. Ethiopia will increase from 7% to 7.7%; Tanzania will accelerate from 6.8% to 7.3%, and Mozambique from 7.5% to 7.9%. An excellent performance has also been recorded by Rwanda, called the “Singapore of the Dark Continent,” which grew by 8.6% in 2011, while Ghana has seen its GDP grow by 14%, an African record, thanks to its recent oil production. But beware, there are no free lunches in economics and risks are always on the horizon. According to the report, one of the main risks for Africa comes from the eurozone. “There are at least two risks that should not be underestimated,” – writes the
IMF – “one is the negative scenario of the eurozone that could involve low-income countries, not to mention the reduction in investments in emerging markets that could bring down the prices of raw materials, thus damaging the mining manufacturers.” What are the secrets of this boom? What has given a boost to this region’s economies, that are still lagging far behind, is the rise in commodity prices – which are not lacking here, but which in the past had turned into the “curse of resources” – and recent oil production in some states. This has helped offset the decline in the global demand coming from developed markets, held back by austerity policies to counter the sovereign debt crisis in the eurozone and the subprime mortgages in the United States. Furthermore, for the
first time, what is driving the growth of this area are mainly domestic consumption and exports. While Europe is on the decline, these are growing at a fast pace and the urban middle class is becoming more and more affluent. In the past, these countries have had to face obstacles to their development such as population growth, low levels of initial education, poor governance due to instability, civil wars and corruption, and vulnerability to external shocks such as the volatility of the prices of exports. “Development depends on good governance. This is the ingredient that has been missing in far too many places for too long. This is the change that can unlock Africa’s potential” (Barack Obama, speech in Accra, July 2009). But the infrastructures remains inadequate and the production
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of electricity is poor (the total production in sub-Saharan Africa, for example, is equal to that of Great Britain) and, above all, costly. Finally, China, currently the leading trading partner with $160 billion of interchange, eager to challenge the United States, France, and Turkey and “hungry” for raw materials, is investing many billions of dollars in the Dark Continent, as many as 18 billion in 2011, almost double the powerful World Bank. The rest could be done with Quantitative easing by the Fed (Federal Reserve System) and the Bank of Japan (BOJ) and the LTRO of the European Bank, that is to say, the accommodative monetary policies that could put into circulation billions in capital, which, for once, could be routed more toward Africa than to the BRICS.
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The Arab world is open to everyone The recent protests in Arab countries have brought social networks to the fore as creators of active communities, able to raise the awareness of the media, overcome news barriers, and become a place of interest for new artistic forms, as well. by Simone Arcagni Journalist
#It is no coincidence that emerging countries or others which are experiencing more or less underground crises are working on new technologies, experimenting with forms, practices, and methods, through training schools, academies, and festivals
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The media have recently begun to deal once again with the Arab Spring: a local protest that arose in Istanbul has in fact become gigantic, and is now shaking down all of Turkey, which has always been in precarious balance between the Middle East and Europe. There has often been talk of the central role played by young people, especially university students, the new technologies, and the Internet, more specifically, the social networks, and most notably, Twitter. Social networks showed that they can play a major role, not only for communication but also for the creation of community. But another key role was also that of acting as a news agency, raising the awareness of the international media, giving interviews, reports, visual evidence, and more. In countries with limited democracy, social networks have become remarkable and easily accessible vehicles for getting information and communications, and for organizing. To a certain extent, we can even say that the social platforms organized by the various protests of the Arab Spring, as well as those of the Spanish Indignados (to name one in the Mediterranean area), and movements such as the Italian 5-star party, the German Pirate Party or Occupy Wall Street in the USA, have also proven to be a new media channel, an open and actively involved independent newspaper, a web TV able to escape strict censor-
ship. These areas of the Mediterranean now seem to be able to oppose the “heavy” communication models, that are sometimes outdated and often controlled, with cost-effective platforms that are light, participatory, and inclusive. New technologies for new systems of communication: it is no coincidence that emerging countries (China, India, and Brazil), or others which are experiencing more or less underground crises, are working on new technologies, experimenting with forms, practices, and methods, through training schools, academies, and festivals, organizing conferences and workshops. And so a country like Morocco, very interested in the development of the media (and with an important film tradition), promotes the Digital Marrakech Festival (the last edition, the second, was held December 6-8, 2012). The Digital Marrakech Festival promotes film and digital videos, multimedia performances, video installations, digital mapping, net art, etc. Its fundamental purpose is to develop local professionals, comparing them with international figures, and to construct a training model through master classes and workshops. In Turkey (as Ekmel Ertan tells us in his Brief History of New Media Art in Turkey published in the “Rozenberg Quarterly”), the turning point came in 2005 at the Istanbul Technical University, when he started a Master’s degree in Information Technologies in Design. Before then, there had been the publication of the magazine “HAT” – Hybrid Arrested Translation (one issue published in 1998), and in 2002, an independent group founded NOMAD, which became an association in 2006. That same year, Ekmel Ertan and Aylin Kalem, colleagues at Bilgi University, organized TECHNE – Digital Performance Platform, a festival with events, meetings, conferences, and workshops, an experience which then turned into BIS (Beden-lemsel Sanatlar Dernegi/ Body-Process Arts Association)
and the now famous AMBER – Art and Technology Festival (created in 2007). The E_Fest in Tunisia promotes multimedia as an art form, but also as a model of communication and information, and above all, as a language. To do so, not only were screenings and performances organized, but also workshops and technical training for young Tunisians. In this case, the idea was to bring together professionals and artists from all over the world with the young “novices” to create a virtuous system. The new media are combined with the local culture and society, and so the latest edition of the E_Fest has proposed a kind of artistic triangle between Tunisia, Egypt, and Lebanon. And precisely Egypt – again, like Morocco, with its history and significant film culture – looks to new media, not only as a viable economic model, but also as a new frontier of communication and
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information. To understand what is happening in these countries, Sabine, a journalist, and Ophelia, a photographer and video-maker, are making a web-documentary entitled Les hackers dans la cité arabe. The web-doc will be ready in June but in the meantime, the two directors are collecting material on a blog that works with the Creative Commons license. It regards a series of meetings, interviews, and statements with young, open source programmers in Arab countries such as Algeria, Egypt, Tunisia, Lebanon, and Iraq. Here, creativity, new technologies, and young people are making hackerlabs and makerspaces thrive. As the two directors explained to the World Social Forum in Tunis (March 26-30), “hacking on the other side of the Mediterranean is seen as a product of the revolution, a boost to collaborative practices and innovations, a space that is open to everyone.”
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Among the protagonists of the documentary, there is also an Egyptian engineer, Mahmoud El-Safty, who is interested in the practice of tinkering, of DIY (Do It Yourself) and digital fabrication, and who promotes free software and hardware. Mahmoud El-Safty is co-founder of Giza Hackerspace and Fab Lab Egypt, and he is one of those creative young people who look to the California dream of Silicon Valley. According to Mahmoud El-Safty interviewed in Les hackers dans la cité arabe, the digital revolution of the Arab countries means “thinking of a new society and a new educational system.” Not to mention the economy and the market. “Probably, over time, many of the projects that come out from these spaces will be transformed into products or start-ups. In fact, there already are open source software and hardware products on the market that have come from hackerspace and makerspace.”
#In countries with limited democracy, social networks have become remarkable and easily accessible vehicles for getting information and communications, and for organizing
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Oxygen 2007/2013 Andrio Abero Giuseppe Accorinti Nerio Alessandri Zhores Alferov Enrico Alleva Colin Anderson Martin Angioni Ignacio A. Antoñanzas Paola Antonelli Antonio Badini Roberto Bagnoli Andrea Bajani Pablo Balbontin Philip Ball Ugo Bardi Paolo Barelli Vincenzo Balzani Roberto Battiston Enrico Bellone Mikhail Belyaev Massimo Bergami Carlo Bernardini Tobias Bernhard Michael Bevan Piero Bevilacqua Ettore Bernabei Nick Bilton Andrew Blum Gilda Bojardi Aldo Bonomi Borja Prado Eulate Albino Claudio Bosio Stewart Brand Franco Bruni Luigino Bruni Giuseppe Bruzzaniti Massimiano Bucchi Pino Buongiorno Tania Cagnotto Michele Calcaterra Davide Canavesio Paola Capatano Maurizio Caprara Carlo Carraro Federico Casalegno Stefano Caserini Valerio Castronovo Ilaria Catastini Marco Cattaneo Pier Luigi Celli Silvia Ceriani Marco Ciurcina Corrado Clini Co+Life/Stine Norden & Søren Rud
Elena Comelli Ashley Cooper Paolo Costa Manlio F. Coviello George Coyne Paul Crutzen Brunello Cucinelli Partha Dasgupta Marta Dassù Mario De Caro Giulio De Leo Gabriele Del Grande Michele De Lucchi Ron Dembo Gennaro De Michele Andrea Di Benedetto Gianluca Diegoli Dario Di Vico Fabrizio Dragosei Peter Droege Freeman Dyson Magdalena Echeverría Daniel Egnéus John Elkington Richard Ernst Daniel Esty Monica Fabris Carlo Falciola Alessandro Farruggia Francesco Ferrari Paolo Ferri Tim Flach Danielle Fong Stephen Frink Antonio Galdo Attilio Geroni Enrico Giovannini Marcos Gonzàlez Julia Goumen Aldo Grasso David Gross Sergei Guriev Julia Guther Søren Hermansen Thomas P. Hughes Jeffrey Inaba Christian Kaiser Sergei A. Karaganov George Kell Parag Khanna Sir David King Mervyn E. King Tom Kington Hans Jurgen Köch Charles Landry
David Lane Karel Lannoo Manuela Lehnus Johan Lehrer Giovanni Lelli François Lenoir Jean Marc Lévy-Leblond Ignazio Licata Armin Linke Giuseppe Longo Arturo Lorenzoni L. Hunter Lovins Mindy Lubber Remo Lucchi Riccardo Luna Tommaso Maccararo Paolo Magri Kishore Mahbubani Giovanni Malagò Renato Mannheimer Vittorio Marchis Carlo Marroni Peter Marsh Jeremy M. Martin Paolo Martinello Massimiliano Mascolo Mark Maslin Ian McEwan John McNeill Daniela Mecenate Lorena Medel Joel Meyerowitz Stefano Micelli Paddy Mills Giovanni Minoli Marcella Miriello Antonio Moccaldi Renata Molho Maurizio Molinari Carmen Monforte Patrick Moore Luca Morena Luis Alberto Moreno Leonardo Morlino Richard A. Muller Teresina Muñoz-Nájar Giorgio Napolitano Edoardo Nesi Ugo Nespolo Vanni Nisticò Nicola Nosengo Helga Nowotny Alexander Ochs Robert Oerter Alberto Oliverio
Sheila Olmstead Vanessa Orco James Osborne Rajendra K. Pachauri Mario Pagliaro Francesco Paresce Vittorio Emanuele Parsi Claudio Pasqualetto Corrado Passera Alberto Pastore Federica Pellegrini Shimon Peres Ignacio J. Pérez-Arriaga Matteo Pericoli Emanuele Perugini Carlo Petrini Telmo Pievani Tommaso Pincio Michelangelo Pistoletto Viviana Poletti Stefania Prestigiacomo Giovanni Previdi Antonio Preziosi Filippo Preziosi Vladimir Putin Alberto Quadrio Curzio Marco Rainò Federico Rampini Jorgen Randers Carlo Ratti Henri Revol Marco Ricotti Gianni Riotta Sergio Risaliti Roberto Rizzo Kevin Roberts Lew Robertson Kim Stanley Robinson Alexis Rosenfeld John Ross Marina Rossi Bunker Roy Jeffrey D. Sachs Paul Saffo Gerge Saliba Juan Manuel Santos Giulio Sapelli Tomàs Saraceno Saskia Sassen Antonella Scott Lucia Sgueglia Steven Shapin Clay Shirky Konstantin Simonov Uberto Siola
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