A N IM E
Massimo Spadetto, Il Grande Mazziere © 2012 by Massimo Spadetto © 2012 by Enjoy Edizioni Enjoy Edizioni Srl Strada Comunale Corti, 56 31100 – Treviso (TV) – IT www.enjoyedizioni.it Prodotto da Spazio Sputnik Redazione: Genny Biondo (revisione) Progetto grafico e impaginazione: Mirko Visentin www.spaziosputnik.it In copertina: illustrazione di Celine Rossi. Prima edizione: maggio 2012 Prima ristampa: agosto 2012 Tutti i diritti riservati – All rights reserved ISBN: 978-88-96900-06-2
Massimo Spadetto
IL GRANDE MAZZIERE
enjoyedizioni
A mia figlia
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Domande
Leggo da qualche parte: se hai risposto a tutte le tue domande, significa che le domande che ti sei posto erano sbagliate. Fa più male infliggere dolore o riceverne? Ognuno avrà la sua risposta e ognuno la darà diversa dagli altri, mascherandola. Se uccidi – qualsiasi cosa tu uccida – è la preparazione all’uccisione a caricarti di adrenalina. Quando prepari un lungo viaggio e poi arrivi dove eri diretto, tutto finisce lì. Alla stessa maniera, se muori sono gli attimi che precedono la morte quelli che senti, rivivendo in un lampo tutta la tua vita; ma poi la tua vita non c’è più e tu con lei. Il dolore è un’altra cosa e non confina nemmeno di un universo con la morte. Il continuo stillicidio che puoi procurare o ricevere può non avere mai fine e puoi scappare ovunque ma il dolore verrà con te anche fino in Patagonia… Dove attualmente vivo. Esiliato da me stesso per aver creduto nella verità che supponevo tale. a presto
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Il sogno
Vent’anni fa era diverso. Fresco di laurea in ingegneria edile stavo per diventare cittadino del mondo grazie, oltre che a me stesso, a una tesi avveniristica, quasi fantascientifica. Un fabbricato completamente autosufficiente e costruito con materiali e tecnologie totalmente ecocompatibili. Il mio relatore, a un primo sguardo, rise. Poi la lesse meglio, poi la studiò e infine se ne appassionò a tal punto da spingere la commissione a farmi avere la lode. Allora non potevo certo immaginare che in seguito il bastardo avrebbe usato la mia tesi per fondare una multinazionale su tecnologie avanzate edili, finendo per diventare milionario. Alla consegna della laurea mi disse che era un lavoro interessante ma all’atto pratico avrei fatto poca strada, visto l’alto costo dei materiali impiegati e la scarsa disponibilità di manodopera qualificata nel settore. Mi stava scoraggiando. Ma avevo deciso che quello sarebbe comunque stato il mio sogno nel cassetto. La terra di mio padre, la Sicilia, e quella di mia madre, l’Olanda, mi ispirarono. Ero convinto che presto il sole e il vento avrebbero mosso l’intera umanità a un cambiamento radicale in tema di energie alternative al petrolio. Nel frattempo un impegnativo tirocinio mi mise in luce e il mio titolare, onesto ed esperto costruttore edile, mi assunse prima ancora di finire il periodo concordato, ovviamente a stipendio zero. Per oggi vi lascio: ho un appuntamento in una piccola baia qui vicino ad Ushuaia, con il mio ottuagenario amico Alvaro, per andare a vedere un nuovo insediamento di pinguini di Magellano. a presto
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The fabulous eighties
Qui almeno per una manciata di pesos ti portano una colazione che ti permette tranquillamente di saltare il pranzo e arrivare fino alle sei di sera solo con un leggero languorino. In Italia i favolosi anni ’80 sono stati per molti una miniera d’oro dalla quale estrarre a piene mani lingotti già belli che pronti e impilati uno sull’altro. C’era spazio per tutti e tutti approfittavano, chi più chi meno, delle proficue situazioni che si venivano a creare quasi senza cercarle. Alcuni inventavano nuovi mestieri, altri sfruttavano nuove tecnologie per riciclarne di vecchi, ma il minimo comune denominatore per tutti era fare soldi a palate. Certo, alle volte si fregava palesemente il prossimo… Ma solo alle volte però. Comunque, alla fine dei conti era ladro chi fregava ma anche allocco chi si faceva fregare un deca per una t-shirt bianca con un bel sorrisone giallo stampato sopra. Tutto andava bene per tutti, me compreso che, per volere del mio primo datore di lavoro dal quale ero stimato e voluto bene come un figlio, iniziavo, seppur giovanissimo, a firmare i primi progetti e a guadagnare i primi milioni (di lire). A meno di trent’anni avevo già la mia bella Golf GTI, pagata in toto, e un bell’attico in centro, metà mio e metà della banca, ma solo per pochi anni. Effettivamente il boom dell’edilizia aveva agevolato non poco i miei inizi ma posso dire con malcelato orgoglio che ero proprio bravino, preciso, ordinato, onesto e con idee fulminanti che facevano restare a bocca aperta il mio capo. E così, in poco tempo ero arrivato ad essere valutato al di sopra di ingegneri che avevano molta più esperienza di me. Non male per essere un ragazzino. a presto
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Campioni del mondo
Neanche a dirlo, il clima che si respirava era quello dell’Italia del Bernabéu, campione del mondo… Rossi, Tardelli e Altobelli! Se prima dei Mondiali di Spagna c’era qualcosa che non andava bene, dopo la notte del mitico 11 luglio 1982 tutto iniziò a tingersi d’azzurro e un alone di convinto ottimismo si sparse in tutta la penisola, inarrestabile e accecante come un’esplosione atomica. Perfino i tirolesi di confine si iscrissero in massa a corsi di italiano parlato e scritto, dimenticandosi di essere incazzati neri per non essere stati annessi all’Austria. Chi poteva biasimare un eccesso di felicità simile in un paese in cui il calcio è lo sport nazionale? Perfino le donne, quelle che ladomenica-mi-lasci-sempre-sola-per-andare-a-vedere-la-partita-dipallone, si entusiasmarono così tanto da soppiantare alcuni poster dei Duran Duran con una foto in azzurro del bell’Antonio (Cabrini), se non addirittura della squadra intera. Io stesso, che non ho mai amato il calcio, quella notte ero in piazza avvolto in una bandiera tricolore, sudato, completamente afono dopo il gol di Tardelli, e pieno zeppo di orgoglio, certo che da quel momento in poi saremmo stati ricordati in eterno come eroi. Cenerentole criticate e partite in sordina, divenute regine del mondo. Mai avrei potuto prevedere che il mese successivo una parte del mondo mi sarebbe caduta addosso. In quella che è stata la prima grande batosta sentimentale della mia vita, la fidanzata mi ha lasciato con la più scontata delle motivazioni: “Pensi solo al lavoro e mi dedichi troppo poco tempo”. … ma vaffanculo va’. a presto
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Amore… Morte
Checcossèl’amor, è un sasso nella scarpa mi ricorda il buon Capossela. Eppure, non ho mai capito il perché molti vorrebbero avere due Samsonite da 80 litri al posto delle scarpe per metterci dentro tutti i sassi di Carrara. Io pensavo che l’amore, anzi, l’AMORE, fosse qualcosa di talmente spirituale da essere fuori dalla portata di qualsiasi essere vivente. Nella mia ignoranza avrei potuto dargli nomi del tipo: forte complicità, profonda amicizia, intesa sessuale, istinto protettivo e cose di questo genere. Ma mai avrei pensato che si potesse morire per amore. Il mio amico Francisco, per me e solo per me Cisco, dice che l’unico amore eterno è quello delle onde per la scogliera e viceversa: a volte calmo, a volte burrascoso, ma in cui nessuno dei due elementi potrebbe mai staccarsi dall’altro (detto in spagnolo vi assicuro che suona molto meglio). Comunque mi dovevo liberare da questo malessere al più presto, così, dopo che ero stato mollato, ho iniziato a frequentare le leggendarie e goliardiche feste universitarie dove ho ritrovato amici “fuori corso che fa figo”, come dicono loro, che mi hanno fatto divertire e schiattare dalle risate. … Ma io ho ucciso… ho ucciso sedici bambini tra gli otto e gli undici anni più due loro maestre di cui una sposata da due giorni… intendiamoci, non con armi convenzionali, nessun mitra o coltello tra i denti alla Rambo… una penna… una stupida e semplice Parker d’argento… perché è successo? perché proprio a me? perché bambini? Cosa ho fatto per meritarmi una punizione tanto grande?… Domande, solo domande, niente risposte! Piango ancora, adesso, come ogni giorno quando passo davanti alla scuola Maria Asunciòn per andare a prendere le esche da pesca al mercato. Unica strada, quasi la prosecuzione meritata dell’espiazione.
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Il generatore… che tutto move
Ushuaia La notte appena passata è caduta una spolveratina di neve, fa freddo ma non esageratamente; forse essendoci poca umidità lo si sente meno. Non ti penetra tra i vestiti fin dentro le ossa come farebbe in una nebbiosa giornata in pianura padana. Xavier, il mio meccanico di fiducia, dice che il generatore è una bomba… ma nel vero senso della parola: perde qualche goccia di benzina dal carburatore e se non sostituisco presto la guarnizione, la casa salterà in aria insieme a lui… Xavier è il solito esagerato perché qualsiasi malanno abbia la tua macchina, lui lo trasforma in un potenziale evento apocalittico. Per fortuna c’è lui, il generatore intendo, altrimenti, in queste notti sottozero batterei i denti come Willy il coyote a caccia di pinguini. Certo, di mattina, non ancora del tutto sveglio, accendo il caminetto, ma durante la notte non mi fido a lasciarlo acceso; ho legno praticamente ovunque, perfino in bagno, e non vorrei svegliarmi tra le fiamme dell’inferno, che comunque vedrei dopo il mio trapasso, quindi preferisco non anticipare quel momento. Tuttavia non mi dispiacerebbe avere un generatore nuovo di zecca, magari di marca Honda, che qui dicono essere i più affidabili. Di quelli con gli snorkel di aspirazione e di scarico alti alti, che anche se scende un metro di neve continuano imperterriti a lavorare nel loro sgabuzzino fonoassorbente. Invece il mio scassato e singhiozzante Briggs & Stratton se solo capisse che sto parlando male di lui, la notte successiva me la farebbe pagare amaramente. Probabilmente con una semplice revisione potrebbe superare agevolmente un altro inverno, ma ho speso tutti i miei risparmi per comprarmi il Packard Bell dal quale vi sto scrivendo e dovrò
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costruire circa altre venti o venticinque casette prima di potermi permettere qualche pazza spesa. Forse è meglio che chiarisca cosa sono le casette: costruzioni in legno che contengono qualsiasi cosa, dalle cassette per la posta a quelle per generatori, cucce per cani, botti, gabbie destinate a qualsiasi tipo di animale. Qui mi son fatto un sacco di amici grazie a questa passione, amici veri! Qualcuno mi dà il legno e una volta finito il lavoro mi invita a cena a casa sua per una settimana, ma la maggior parte mi paga di buon grado. a presto
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Capodanno
Bologna Galeotto fu San Silvestro 1982. C’erano almeno tre buoni motivi per cui non volevo andare a quel veglione. Primo: ero uscito dall’ufficio alle sette, stanco morto; secondo: dopo una giornata così pesante non avevo proprio voglia di sciropparmi più di duecento chilometri per andare a Bologna; terzo: l’ultimo San Silvestro, meraviglioso e indimenticabile, l’avevo passato con Paola a Vienna. Mi metteva tristezza non essere a Vienna e soprattutto essere senza di lei. Ma, come si sa, tira più un pelo di fica che un carro di buoi. Alle sette e quaranta era squillato il telefono: – Coglione! mica vorrai abbandonarmi a questa festa da solo con tutte queste gnocche, vero?! – Era Beppe, compagno di università fuori corso da una vita che con poche parole ma ben piazzate era riuscito a tirarmi su dal divano e, dopo una doccia veloce, farmi mettere in strada verso il capoluogo felsineo. Guido tranquillo in autostrada con sottofondo a manetta di Animals dei Pink Floyd e a seguire di Zenyatta Mondatta dei Police, giusto per caricarmi quel minimo per non presentarmi con la faccia da pesce lesso. Bello il posto, bella la gente, bella la musica e tante le gnocche, anche se un pelo fuori dalla mia portata. Così quando Silvia, la madrina della festa, inizia a ballare sui tavoli ammiccando a quella dozzina di lupi ululanti e sbavanti che le stavano intorno come tanti Achille all’assedio di Troia, io giro i tacchi e batto in ritirata verso il bar. – Gin tonic, grazie.
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Ne sorseggio meno di mezzo bicchiere e mi accendo una bella Camel. – Ma tu sei il matto?! Era Silvia. Cosa ci faceva lì con me? C’era almeno una decina di ragazzi molto più fighi di me che avrebbero pagato pur di scambiare quattro chiacchiere con lei. Un tantino emozionato, ma senza darlo troppo a vedere, le chiedo: – È una domanda o un’affermazione? – Sì sì sei proprio il matto, altrimenti non mi avresti risposto con una domanda… Non avevo capito bene il motivo per cui uno che risponde con una domanda debba per forza essere preso per pazzo, comunque, non sapendo che altri argomenti affrontare con la supergnocca della festa, continuo il mio show da Jack Nicholson… bevo… fumo e guardando altrove dico: – Però, si è sparsa velocemente la notizia! Quattro battute, otto risate e finiamo al piano di sopra a dar ragione al proverbio “chi non scopa a Capodanno non scopa più per tutto l’anno”. Oggi posso dire che sarebbe stato meglio che quella sera me ne fossi stato spaparanzato sul divano di casa mia a cuccarmi gli Abba in tivù per tutta la notte… La mia vita era a una svolta, ma io non sono mago Merlino con la sfera di cristallo, il cono blu stellato in testa e la capacità di vedere nel futuro, perciò in quel momento non potevo averlo già capito. … Silvia, rimembro ancor gli occhi tuoi ridenti e fuggitivi… a presto
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Sensi
Bologna Capodanno ’83. Ore tredici e trenta. Mi sveglio in un letto non mio, ci metto qualche secondo a realizzare dove sono. Lenzuola fresche, odorano di lei, di noi. Sopra la mia testa un’enorme stampa di due amorini. Ai miei piedi una poltrona con sopra, li riconosco, i miei vestiti. Libreria enorme laccata bianca, libri perfettamente in scala e ordinati come soldatini pronti per essere passati in rassegna dal capitano… trooooppi! Mica li avrà letti tutti?! Anche l’armadio è laccato bianco ma con sei, dico sei, ante in vetro satinato. La ragazza ha del gusto, devo ammetterlo, anche se tutto quel bianco mi fa venire in mente qualcosa di più simile a uno studio medico piuttosto che a una camera da letto. Ma in quel letto sono solo, lei dov’è? Conto fino a tre e mi alzo… uno… due… si apre la porta. Cazzo! non me la ricordavo così bella. Accappatoio, asciugamano a turbante intorno alla testa, vassoio e un sorriso che… Dio grazie! – Buongiorno e buon capodanno al mio matto. – Buongiorno Silvia. Sorrido cercando comunque di alzarmi dal letto e pronunciare meno parole possibili. Prima di addormentarmi non mi sono lavato i denti e non devo avere un alito proprio fresco. – Ehi, non ti muovere di lì. – Mi redarguisce puntando un indice minaccioso. – La colazione è per tutti e due e forse tu ne hai più bisogno di me. A proposito, o te ne vai appena finita la colazione o resti con me fino all’Epifania! Minchia che piglio! Odio essere messo con le spalle al muro, ma solo un pazzo scriteriato a un invito simile avrebbe risposto:
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– Mentre mangio ci penso, posso? Il suo sorriso un po’ si spegne e forse sta pensando che davvero non ho tutte le rotelle al loro posto. Sorseggio una spremuta fresca fatta con le sue mani e do un primo morso a una brioche calda e profumata mentre lei, a sguardo basso, cincischia con la cintura dell’accappatoio. – Lo sai che fuori sta nevicando? Prendo la palla al balzo prima che si insinui in lei il pensiero di essersi portata a letto un mentecatto e me ne esco con: – Allora penso che starò qui fino alla Befana. Guidare nella neve è da imprudenti. E senza guardarla negli occhi continuo a mangiare la mia brioche. Devo dire che la sua reazione va oltre le mie aspettative. Si lancia sopra di me rovesciando parte del contenuto del vassoio – fortuna che avevo appoggiato la spremuta sul comodino – e mi bacia ovunque ridendo felice. Impossibile resistere: butto la brioche a terra e parto con lei per un nuovo viaggio tra i sentieri del sesso mattutino. Silvia. Non ho mai più visto una donna bella come lei. Dicono di me che sono un tipo interessante, non certo un figo della madonna: come potevo essere sotto le sue lenzuola, tra le sue gambe, dentro di lei, nei suoi pensieri? Mi dico: “Fotti e zitto, imbecille. Quando ti ricapita un’occasione del genere?”. Ovviamente la nostra storia non finisce all’Epifania, ma quello è il giorno in cui me ne devo andare entro mezzogiorno, perché i suoi tornano da Malindi. a presto
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Men at work
Milano – Walking back from your house, walking on the moon… – torno a lavoro canticchiando i Police. Che sorriso beota devo aver stampato in faccia stamattina. Quasi mi vergogno, ma il lavoro chiama e il dovere, si sa, viene prima del piacere. Peccato! Saranno mesi che non prendo l’ascensore per arrivare in studio, perché di solito faccio gli scalini dei quattro piani a due a due, ma questa mattina ho le gambe molli (emozione? troppa attività sessuale?), quindi scelgo la comodità. Slang!… Katang!… Skàtaklang!… che casino fa il vecchio ascensore! Questo condominio è un covo di geni e ancora abbiamo ’sto reperto archeologico per alzarci di venti metri… bzzzzzz… Ma, pensandoci bene, la mente umana deve sempre vincere sulla macchina, quindi gemi pure sotto i miei piedi ascensore di merda!… Stàklang!… Sospiro, arrivato sano e salvo. Appena varcata la soglia dell’ufficio il primo a salutarmi, per la verità senza troppo calore, è Martino. È un architetto che lavora nel nostro studio ed è il classico esempio di genio e sregolatezza. Ci parlo volentieri, di qualsiasi argomento, perché è una persona che sa sempre cosa dire e la dice sempre con parole giuste, senza sembrare un saccente presuntuoso come tanti suoi colleghi. Subito mi apostrofa: – Cazzo Max, hai finito di far la bella vita? Abbiamo diversi casini da risolvere entro oggi, per cui vedi di metterti in carreggiata all’istante e aspettami nel tuo ufficio che arrivo con i caffè. Cattivissimo, vero?! Ma mi porta il caffè. – Senti Martino, non sono stato a cazzeggiare come pensi tu. Sono andato a trovare mia madre in Olanda e siccome non stava
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molto bene mi sono fermato qualche giorno a farle compagnia e il capo lo sa, tutto qui. Sono proprio un bastardo, lo prendo sempre dal suo lato debole; lui soffre del complesso di Edipo, anche se non a sfondo sessuale, e quando devo chiedergli favori o farmi perdonare qualcosa gli parlo sempre di mia madre in tono melodrammatico e lui si scioglie come un gelato al sole. In realtà il mio boss sapeva la verità, è un uomo di mondo, mi ha capito e mi ha dato la sua benedizione. Per la cronaca questa fu la mia telefonata di Capodanno: – Buongiorno geometra, scusi il disturbo ma volevo dirle che sono a Bologna e sto scopando come un riccio una gnocca che sembra uscita dal paginone centrale di «Playboy», mi posso fermare qualche giorno? La sua frase fatta che ha sempre in tasca è: “Tutti sono necessari e nessuno è indispensabile”, da cui la sua risposta: – Uhè belin! – è un genovese purosangue – pensi che lo studio non vada avanti senza di te? Stai ben lì dove sei e fanne una anche per me. Ciao ingegnere, ci vediamo dopo la Befana. Gran capo, non c’è che dire. Mi siedo alla mia scrivania e tre, due, uno… entra Martino con il caffè: – Scusami Max, non sapevo che tua madre stesse male, spero anzi si riprenda presto, salutala da parte mia quando la senti. Sto per rispondergli di non preoccuparsi ma suona il mio telefono: – Ingegnere, le posso passare l’architetto Girolamo? – Era Silvia… porc… e adesso che faccia mi metto addosso con Martino davanti? – Ciao Silvia, sono appena entrato in ufficio in questo istante, ti posso chiamare io più tardi? – Ok, non preoccuparti, volevo solo dirti che già mi manchi, ciao e buon lavoro. Click. Come fa una donna a riempirti la giornata con due sole parole? Sono proprio fatto come un caco maturo. – Che bello che sei oggi Martino, ti riempirei di baci. – Oh, scemo, mica sono tua madre! –… eccolo che ci ricasca… – Togliti quel sorriso e sotto col lavoro! Ancora oggi non so se si chiamasse amore, ma non mi ero mai
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sentito a un metro da terra come in questa circostanza. E questa sensazione mi faceva stare un gran bene. Mi mancava anche lei‌ mi manca ancora. a presto
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My town
Ushuaia Ushuaia è una bella città; tutto, o quasi, fa ricordare una specie di Amsterdam spagnola, forse un po’ più provinciale. La cosa che fa più impressione è l’atmosfera: sembra di essere in un altro pianeta. Tutti i suoni sono stranamente più attutiti che in qualsiasi altra parte del mondo. Mi spiego: vivo qui da 10 mesi circa e mi sembra di essere sempre in montagna dopo che ha appena nevicato. Tutto è ovattato. La gente sembra parlare sottovoce, il motore delle automobili pare dotato di una specie di silenziatore e il vento muove le cose come se fosse al rallentatore. Ogni tanto al mercato sento qualche voce a me familiare, turisti italiani che, sicuramente presi dalla foga vacanziera, esclamano frasi tra le più disparate e insulse: “Che bello, vorrei venirci a vivere!”… Pazzi… Oppure al contrario: “Ma come farà ’sta gente a vivere qui?!”… Presuntuosi… Io la considero, semplicemente, l’anima del mondo, lì dove risiede anche la mia, e mi piace. Sia chiaro: non sono scappato dall’Italia perseguitato dalla giustizia, anzi, ho tolto il disturbo dopo aver pagato il mio fio. Infatti, a tal proposito, tutti gli amici del posto mi fanno sempre la stessa, patetica domanda: – Ehi loco! Ma perché sei venuto qui, in questo posto dimenticato da Dio e non sei invece scappato in Brasile o in Kenya come tutti i tuoi connazionali? Già ho poche risposte di mio, ma in questo caso proprio non saprei cosa inventarmi per soddisfare la loro curiosità. Certo, nelle giornate fredde e piovose penso ai miei amici in Italia alle prese con gli ultimi preparativi per le ferie agostane: Sardegna, Rimini o Ric-
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cione, Croazia, Gargano o Calabria, e un po’ il magone mi monta… ma io sono qui, e non mi muovo! Sono pazzo o son savio? Domanda decisamente retorica. Eppure basterebbe poco per indovinare, ho il cinquanta per cento delle possibilità di fare centro; o forse sono entrambe le cose, una sorta di Dr. Jekyll e Mr. Hyde… Mah! Riflessioni marzulliane che non giovano certo alla salute dei miei quattro neuroni, lasciamo perdere. Stasera sono a cena da Juan, il pescatore al quale ho restaurato la cabina della sua carretta, che è stato così soddisfatto del lavoro che, oltre a pagarmi, mi ha regalato un quintale di legna da ardere – che dovrò però caricare da solo sul carrello del mio Nissan Patrol GR – e due salmoni da tre chili ciascuno che sua moglie cucinerà in mio onore. Magari a chi si sta preparando per le ferie sembrerà poco ma per me, ve l’assicuro, es la vida! a presto P.s.: il pescado di ieri sera è stato un vero trionfo!… Un po’ meno il quintale di legna che mi sono caricato, un tantino brillo, sul carrello del fuoristrada…
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Paralipomeni
Milano Paralipomeni… Reminiscenza di studi classici circa le cose non dette. Non ho mai detto a Silvia che l’amavo, o almeno non con cognizione di causa. Non conosco ora l’esatto significato di questa parola, figuriamoci allora. Ero sicuramente coinvolto emotivamente dalla nostra storia, davo dei segni tangibili del mio trasporto nei suoi confronti, facevo cose per lei che non ho mai più fatto per nessun’altra donna; la stupivo di continuo, non ero per niente prevedibile, come non lo sono ora, e questo lato di me la faceva letteralmente impazzire. Sesso occhi negli occhi e coccole a non finire! Ma non le ho mai detto: “Silvia io ti amo”. Tuttavia la nostra era una bella storia; ci vedevamo quasi tutti i fine settimana, vacanze insieme in Sardegna nella casa dei suoi, ovviamente quando loro non c’erano, e qualche volta, a sorpresa, me la trovavo sotto casa al ritorno dall’ufficio. Importanti e lunghe chiacchierate passeggiando per Bologna o per Milano. Parlavamo di tutto. Mi confidava, ad esempio, il suo rammarico per aver dovuto scegliere una facoltà a lei non congeniale; dopo aver frequentato il liceo scientifico, avrebbe voluto intraprendere psicologia con conseguente specializzazione in pedagogia però, per non contrastare il volere di suo padre, che la desiderava al suo fianco nella conduzione dell’azienda di costruzioni di famiglia, aveva dovuto iscriversi ad architettura. E poi parlavamo dei miei castelli in aria, del sogno di riuscire a realizzare un fabbricato autosufficiente in tutto. Della sua altalenante tristezza quando, spesso, pensava al fratellino più piccolo mancato a otto anni a causa di una brutta malattia. Delle mie urla da pazzo
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quando gridavo dalla finestra di casa che l’Italia era un paese di falsi democratici e di veri “magnamagna” e che Milano mi stava stretta come il vestito della prima comunione… Insomma, a parte che di matrimonio e di procreazione, parlavamo di qualsiasi cosa ci passasse per la testa. Suo padre era un rompicazzo di prima categoria, morbosamente e furiosamente geloso della figlia. Per lui non esisteva al mondo un uomo alla sua altezza, un uomo degno di poter starle accanto. Quando arrivava in qualsiasi posto, Silvia doveva chiamarlo per dirgli che andava tutto bene sennò, in capo a qualche ora, lui avrebbe ingaggiato i migliori investigatori per andare a cercarla. Figuratevi quanto la prendevo in giro ogni volta che lei arrivava a casa mia e, senza quasi salutarmi, si tuffava letteralmente sul divano per raggiungere il telefono che stava sull’altra sponda, sopra una vecchia cassa di munizioni della seconda guerra mondiale che gli faceva da appoggio. – Silvia, basta ti prego. Stacca questo cazzo di cordone che ti lega a tuo padre!! O si fida di te, oppure un giorno non sarai nemmeno libera di sceglierti un marito! … Detto?… Fatto! Scatta il gioco del secolo: – Vediamo se piaci a mio padre; finora tutti i miei fidanzati (compreso un giocatore di calcio del Bologna) sono stati da lui considerati dei debosciati scansafatiche in cerca solo di fichetta fresca. Ti va di conoscerlo? Presuntuoso quasi come un dio in terra, accetto la stuzzicante sfida. Sicché vengo invitato da suo padre, tramite una patetica lettera scritta a macchina, a passare la vigilia di Natale con tutta la famiglia. E accetto, come un agnello inconsapevole di essere condotto al patibolo. a presto
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Jingle Bells
Bologna La casa dei Girolamo è appena fuori Bologna e arrivarci, se uno non conosce la strada, è piuttosto difficile. Ricordo che la prima volta, quella dell’ormai famoso e galeotto San Silvestro, ho dovuto chiedere a Beppe di venirmi a prendere all’università e, svolta di qua e svolta di là, mi ero comunque perso quando ancora mancavano più di cinque chilometri alla meta. Fino a prima della sera della vigilia, di quella casa conoscevo poco: la camera e il bagno (personale) di Silvia, la cucina, il corridoio disseminato di porte tutte chiuse, il garage dove nascondevo la mia Golf e l’entrata di servizio. Così, quando ho fatto la mia prima entrata ufficiale, almeno non ho dovuto fingere di restare sorpreso dalla bellezza e dalla cura con cui era disposta e arredata quella che il capo famiglia, di lì a poco, avrebbe chiamato “la mia modesta dimora”. Ora, di veri modesti ne ho conosciuti, ma questa fu tutt’altro che modestia; la sua fu una vera ostentazione di fierezza: questo quadro è di tizio, quest’altro è di caio, questo tappeto ha duecento anni, questo vaso è della dinastia vattelappesca, insomma, prima ancora di aver conosciuto tutti i componenti della famiglia, sapevo già cosa avrei potuto rubare in quella casa se fossi stato un ladro. La cena fu squisita. La madre di Silvia si rivelò una perfetta padrona di casa, sempre in piedi a mettere il suo tocco sulle portate che, con aplomb principesco, ci venivano servite dal fedele e silenzioso maggiordomo. La sorella, più piccola di Silvia ma altrettanto carina, mentre mangiava disegnava distrattamente quelli che potevano sembrare a un primo sguardo dei geroglifici e canticchiava sottovoce canzo-
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ni dei Tears for Fears, non senza venir continuamente ripresa con sguardi arcigni dal padre, che la facevano smettere ma solo per pochi minuti. I due nonni, silenziosi ma attenti, non perdevano mai l’occasione per sorridermi ogni volta che rivolgevo loro lo sguardo. Silvia in compenso sembrava la più agitata di tutta l’allegra brigata: – Perché? – le chiesi io in seguito. – Conosco mio padre e questa è la sua quiete prima della tempesta – mi rispose lei. Eppure non ci avevo trovato nulla di tendenzioso nella conversazione conviviale. Sì, insomma, i soliti discorsi: tempo, lavoro, battute varie e piccoli aneddoti del padre su quando, da ragazzino, emigrato dalla Calabria, era venuto al nord, se nord può essere definita Bologna, a cercar fortuna. In fin dei conti un self-made man va fiero del suo passato di garzone… quando e se fa i soldi… e io ho trovato più che rispettoso almeno stare ad ascoltarlo. Ma la mia ingenuità era enorme tanto quanto l’esperienza di Silvia. L’attacco alla mia autostima è iniziato dopo cena in un tête-àtête col capofamiglia, fumando una cicca e sorseggiando un amaro davanti al caminetto: quanti anni hai, quanto guadagni al mese, come si chiama l’impresa per cui lavori, vivi da solo, sei in affitto o tua è la casa dove vivi, la macchina te la sei comprata a rate o in contanti la pagasti?… E, dulcis in fundo: – Che intenzioni hai con mia figlia? Stordito da tutte quelle domande stavo quasi per gridare: “Ma sei scemo?” quando provvidenzialmente arriva la madre di Silvia: – Basta parlare, caffè e torrone sono in tavola. Tra poco è mezzanotte e si scartano i regali! Sospiro e penso a Silvia, se ha passato la sua vita come io ho passato gli ultimi dieci minuti… a presto
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Cisco e vino
Ushuaia Oggi è il terzo giorno consecutivo che qui nevica, poi piove, poi nevica ancora e in queste situazioni meteorologiche un po’ mi perdo. A queste latitudini quando sorge il sole la quantità di luce è sempre la stessa per tutto l’arco della giornata. Non c’è aurora, alba, mattino, pomeriggio, crepuscolo o sera, ma piuttosto è come se qualcuno verso le nove del mattino accendesse il sole di colpo e poi alle cinque del pomeriggio, tac! fine della luce. Se il cielo è sereno un po’ di differenza tra il buio e la luce e viceversa la vedi. L’aurora, anche se per pochi minuti, ha dei colori strani, evanescenti, impossibili da dipingere anche per un provetto pittore con a disposizione una tavolozza di colori di due metri per due. Viceversa, il tramonto ha tonalità forti, calde, riconoscibilissime, che attraversano tutte le sfumature del rosso. Probabilmente la luce, presa di rimbalzo dal Polo, viene riverberata e amplificata dai ghiacci poco distanti da qui… mah! Il trenta luglio scorso c’è stata una bella nevicata, di quelle con i fiocchi che sembrano canovacci. Io adoro la neve e per me è stata una bella giornata, passata in casa con il naso incollato alla finestra a guardare le case e le cose che pian piano cambiavano colore e forma. In questa città i rumori si sentono sempre poco, figuratevi dopo una nevicata… Perfino i cani smettono di abbaiare, quasi come se anche loro capissero che non è il caso di interrompere una delle sinfonie più belle che siano mai state scritte: il silenzio. Le strade principali vengono immediatamente pulite e cosparse di sabbia e sale, ma la Salida blanda, che è la stradina di circa un chilometro e mezzo che devo fare appena lasciata la statale per arrivare a casa mia, è percorribile solo da me e dai pochi come me
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che possiedono un fuoristrada attrezzato con pneumatici invernali e, soprattutto, quattro ruote motrici. Questa sera ho invitato a casa mia Cisco che mi deve presentare un nuovo amico (io sono avido di nuove conoscenze). Pablo, questo è il suo nome, ha un banco di pesce al mercato e vuole sottopormi un suo progetto per rendere amovibili i banconi del pesce senza dover tutte le sere e le mattine fare la fatica boia di portare dentro e fuori tutte le cassette. Per non far brutta figura ho preparato degli stuzzichini di aringa affumicata fatti da me come antipasto, e butto sulle braci il salmone di tre chili avanzo della serata da Juan. Cisco è un signore, almeno spero, e arriverà sicuramente con un paio di bottiglie di Malbec, il suo vino preferito, e una bottiglia di Liquor De Oro: un miscuglio fruttato abbastanza alcolico che sembra andar giù come il rosolio ma se non lo controlli lui prende il sopravvento e per Pablo e Cisco sarà ben difficile ripercorrere la stradina innevata in discesa in meno di trenta, trentacinque minuti… a presto
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Giochino
Milano All’epoca con Silvia tutto bene, grazie. Passano gli anni e sicuramente il vantaggio che ci dà il tempo è quello di conoscerci meglio. Pregi e difetti di un uomo e una donna che, principalmente per motivi dovuti al diverso dna, sono diametralmente opposti e devono cercare di rafforzare quei piccoli anelli di unione per poter stare insieme in pacifico accordo. Da parte mia devo ammettere di non avere un carattere portato alla convivenza. Sono stato abituato fin dalla nascita a badare a me stesso e la capacità che ho acquisito affonda le sue radici su di un sano e solido egoismo. Lei, molto più altruista di me, è portata a pensare solo ai miei bisogni ed è praticamente condiscendente in tutto, retaggio di una sottomissione paterna fin dal concepimento. Ovviamente, dopo quasi tre anni insieme, la mia esuberante pretesa di libertà l’ha un po’ contagiata, modificandone pian piano alcuni atteggiamenti. Così, sempre più spesso la sento mormorare, prima piano e poi sempre più forte, fino ad imitare il mio urlo tarzanesco, “Me ne frego!”. Non posso dire di essere stato fiero di aver plagiato la mia donna, ma questo leggero senso di potenza mi faceva sentire, chissà perché, un vero uomo. Pagammo lo scotto con moneta sonante. Lei investiva sicuramente più tempo ed energie nella nostra storia di quanto facessi io, che invece la stavo dando per scontata, definita e non meritevole di ulteriori modifiche o miglioramenti. Per me essere insieme a lei era già un traguardo. Perché non abbiamo affrontato tutto con coraggio? Perché non
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siamo stati attenti ai piccoli segnali che il nostro ego inconsciamente faceva affiorare? Forse a volte è stato per pigrizia, altre volte per eccesso di sicurezza… oppure solamente a causa dell’ennesima domanda rimasta ancora senza risposta. Eppure il desiderio di stare insieme non era mai scemato; anzi, lei continuava ad eccitarsi anche solo baciandomi, come se ogni volta stesse per appoggiare le sue labbra su di una nuova bocca. Il nostro sesso non ha mai conosciuto crisi, che fosse una sveltina in ufficio da me o in cucina da lei mentre i suoi erano impegnati con ospiti nel salotto padronale, o che fossero ore di preliminari al limite di un crampo alla lingua per me e alla mandibola per lei… il sesso, appunto, era il collante che rendeva praticamente indissolubile il nostro rapporto. In una delle sue tante sorprese – ormai le avevo già da tempo concesso il secondo mazzo di chiavi di casa mia – arrivò a farmi realizzare il sogno di ogni uomo. Pomeriggio di fine giugno: torno dall’ufficio tirandomi dietro lo strascico delle cose da portare a termine e i progetti in via di sviluppo. La chiave nella toppa fa solo mezzo giro, segno che lei è entrata prima di me. Sospiro, felice per questa cosa. Lei non è sola, ma appena sente aprire la porta mi si fionda addosso con il solito sorriso contagioso, ma questa volta con un respiro stranamente corto. Da sopra le sue spalle vedo Cinzia, una sua vecchia amica dei tempi del liceo, comodamente seduta sul mio divano con un sorriso diverso da quello di Silvia. – Ciao Cinzia! È un po’ che non ci si vede, che ci fai da queste parti? Lei, occhi azzurri e capelli biondo platino, l’esatto opposto di Silvia, con l’aria di una gatta che ne sa una più del diavolo: – Ciao Max, io e Silvia ci siamo trovate per caso in stazione a Milano e mi ha invitato a bere qualcosa a casa tua, spero non ti dispiaccia… Non la conosco bene, ma quel poco che so di lei mi spinge ad invitarla anche a cena e… – Se ti va puoi anche fermarti a dormire, il divano è quasi più comodo del mio letto! Risultato: tre secondi di silenzio tra lei e Silvia, occhi negli occhi e poi una risata di complicità che mi illude e mi stordisce. – Grazie Max, accetto più che volentieri – e rivolgendosi questa
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volta a Silvia: – Non vorrei approfittare, ma prima di cena avrei bisogno di una doccia, il caldo di oggi mi ha reso appiccicosa e non mi sento a mio agio. “A suo agio per cosa – penso io – per una cena tra amici? Mah… valle a capire ’ste donne!”. Silvia, che nel frattempo non si era mai divincolata dal mio abbraccio, mi schiocca un bacio in bocca e finta seria mi redarguisce seguendo Cinzia in bagno: – Ingegnere, conto sulla sua arte culinaria per far bella figura con questa nostra illustre ospite e, per non essere scortesi, le terrò compagnia in bagno. Tutti e tre ridiamo, e mentre i miei quattro neuroni si sbattono in chissà quali pensieri, mi tolgo la giacca e mi appresto a cucinare le mie famose (modesto, vero?!) strisce di pollo al limone. Questo piatto è veloce da cucinare come è veloce la mia mente, per cui di lì a poco le chiamo: – Signore la cena è servita! Trafelate e ancora in accappatoio (Silvia indossa il mio e Cinzia quello di Silvia) si siedono a tavola proprio mentre sto per arrivare con una fresca bottiglia di Pinot grigio. Ricevo elogi per la speciale pietanza e dopo uno, due, tre bicchieri di vino a testa, la prima bottiglia è già bella che finita. A quella ne segue un’altra e, tra discorsi seri e semiseri, planiamo come brilli adolescenti su questioni un po’ più piccanti. Cinzia è, di natura, molto più disinibita della mia dolce donna ed è proprio lei che su invito – poi saprò essere in preventivo accordo – di Silvia, inizia a raccontarci alcune delle sue mille storie di sesso. Il tavolo riesce ben a mascherare una mia evidente erezione e i suoi racconti, veri o inventati che fossero, iniziano ad avere un certo effetto anche su Silvia, che di tanto in tanto sposta il suo sguardo su di me per vedere il mio grado di cottura. Quando Cinzia vuole farci vedere la strana maniera con la quale un suo focoso amante siciliano le mordeva le labbra mentre scopavano e usa la bocca di una condiscendente Silvia come cavia, io capisco la piacevole e setosa rete tramata alle mie spalle e, sorridendo a Silvia, mi unisco al loro saffico bacio. In meno di un minuto mi ritrovo con il mio fratellino tra le fauci della famelica Cinzia (brava!) e la mia lingua dentro Silvia, i miei occhi nei suoi. Ancora oggi ripenso a quei momenti come a una
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scena vista in un film a luci rosse e non sono del tutto convinto che sia successa veramente. Io e Silvia ritornammo a lungo a ricordare divertiti quella notte, ma io non ricambiai mai il suo altruista regalo‌ a presto
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