INDECIFRABILE .. -. -.. .
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Appartenevi alla categoria umana degli indecifrabili. Ma nonostante non capissi, nonostante non sapessi, io volevo tutto di te. Io che alle parole preferivo il silenzio, tu che al mio silenzio preferivi riderci sopra, nel mezzo, catturando magnetico l’attenzione di ogni particella d’universo. Riso contagioso, caldo, curativo, cullante. Ridevi e io avevo riso con te due ore di fila. Il tempo minimo per dare avvio a una dipendenza. In questo avevamo un punto in comune, diversi strumenti per uno stesso obiettivo, per schermarsi vivendo in difesa.
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La tua risata, come il mio linguaggio di concessioni e corpo libero – centimetri esposti di pelle parlante –, erano la nostra via di fuga: potevamo conoscerci senza metterci a nudo, senza fastidio, senza il dovere di dimostrare a noi stessi e all’altro chi volessimo diventare da grandi. Rendersi indecifrabili, a nostro modo, mi aveva permesso di ricordarti piÚ a lungo,
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di ricamare, di metterti in cornice e poi in scatole e poi in scatole ancora. Mi aveva permesso di leggerti dentro ciò che volevo – io abile interprete di vaghezze e fantasia, deformante decoratrice di pensiero. Avevo impiegato tutta l’estate per riuscirci, il tempo dilatato di un’attesa, per costruire intorno a te porzioni di irrealtà immaginifica – che credo sia immaginazione e magnifico insieme, quella roba per pochissimi.
Mentre ti aspettavo, avevo reso la mia vita una domenica eterna, una giostra di rituali in divenire, facendo le prove, inscenando da sola gestualità di coppia. Non avrei mai voluto ritrovarmi impreparata al tuo ritorno. CosÏ, ogni mattina aspettavo che la vasca si riempisse di sapone per andare alla ricerca della nostra bolla biposto, entrarci e rimanerci a mollo. Nel sapone. Primaria sostanza della tua essenza, il sapone, alta percentuale di sfuggevolezza, sempre in grado di scivolare via, di scivolarmi tra le mani, il sapone, anche quando ti abbracciavo nel vuoto dell’accappatoio appeso, animato da un alito: forse il mio ricordo.
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Mi vestivo comoda, il che voleva dire comunque compiere una scelta prolungata davanti all’armadio. Ho bruciato parecchie moke quell’estate per colpa delle mie capricciose indecisioni adolescenziali. Ero solamente sicura sul paio di jeans, i più bucati – centimetri esposti di pelle parlante – li avremmo contati uno ad uno, aggrovigliati sul divano, discorsi tra noi e gli strappi.
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Ho bruciato parecchie moke quell’estate, anche se a volte penso che la mia non fosse affatto una convulsa distrazione, piuttosto un’inconscia speranza: saresti potuto risalire all’improvviso insieme al caffè. Così aspettavo, ingiallita come una fotografia scattata sotto una luce d’abbandono, un’immagine che si secca e s’accartoccia. Allora provavo a cercarti nelle tazzine sporche, mescolando quel che credevo essere il tuo segreto, sciogliendo zucchero ed enigma, mettendo in scena l’assenza.
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Era stato molto più facile conoscerti per evocazione, per concatenazione di segni da decifrare, prigioniera in un impenetrabile caffè, sgusciante bolla di sapone. Appartenevi alla categoria umana degli indecifrabili. Eppure io ti sto ancora aspettando. Perché esisti e perché arriverai, vero?
C R E D I T S Story by Cecilia Cestari Photography Cristina Altieri Layout Cristina Mainardi Stylist Angelica Cristin Assistant Stylist Elettra Simos MUA Sara Busan Location La Cattedrale Studio
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