Lezioni di tango raccontate da una principiante

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Lezioni di tango raccontate da una principiante

Anna Mallamo “manginobrioches”

© Città del Sole Edizioni di Franco Arcidiaco Via Ravagnese Sup., n.60/A 89131 Reggio Calabria Tel 0965 644464 - fax 0965 630176 e-mail: info@cittadelsoledizioni.it www.cittadelsoledizioni.it Stampa: Tipolitografia Antonino Trischitta - Messina Novembre 2010 Prima edizione ebook Enrico Massetti Publishing Gennaio 2014 Libri, ebook, DVD e CD/mp3 rari di Tango http://tango-dancers.com


Premessa piccola piccola Certe cose si possono dire con le parole, altre con i movimenti. Ci sono anche dei momenti in cui si rimane senza parole, completamente perduti e disorientati, non si sa più che cosa fare. A questo punto comincia la danza. Pina Bausch

Un libro sul tango, un libro di tango certamente è un paradosso, forse un ossimoro: il tango non si parla, si fa. E il corpo ha un modo tutto suo di sbarazzarsi delle parole. Ma c’è anche un modo delle parole d’inseguire certi miracoli del corpo, di cercare di comprenderli e raccontarli. E questo spiega la fame di tango raccontato che prende tanti di noi tangueri, bulimici che non siamo altro. Queste “lezioni” alla rovescia, raccontate da chi impara, sono nate assieme al mio tango. Tornata a casa da quell’abisso che erano le prime lezioni e soprattutto le prime milonghe – si spalancavano mondi, e sembravano tutti irraggiungibili, o raggiungibili solo con cammini lunghissimi, di otto passi in otto passi, verso l’infinito e oltre – dovevo travasare l’eccesso di cuore, raccapezzarmi nell’alfabeto muto che il corpo stava imparando a mia insaputa, e spiarlo con l’unico mezzo a me noto, le parole. Ho chiamato qui “lezioni” anche cose che lezioni non sembrano, ma lo sono: il tango è un pedagogo illimitato, non la smette d’insegnarci cose, anche fuori dalle lezioni e persino fuori dalle milonghe. Così come i suoi migliori maestri insegnano soprattutto ballando, prima di parlare o senza nemmeno parlare. E ci sono ballerini modesti che possono insegnarti anche più d’un maestro blasonato, e tanghi modesti che possono darti quello che tutti noi, indistintamente – principianti e avanzati, principesse e prestatori d’opera, artigiani e michelangeli, prìncipi e ranocchi, cesellatori e guastatori, adoni e sarchiaponi, caballeros e seguidore – continuiamo a cercare: frammenti di tango perfetto, frammenti di felicità. Non troverete traccia, in queste pagine, delle “gallerie degli orrori tangueri”, i tipi da milonga, i bestiari che pure sono così divertenti, a bordopista. È una scelta etica, equa e solidale: siamo tutti principianti irrimediabili, faremo tutti prima o poi un passo falso che ci farà sembrare gorilla o betoniere, azzarderemo un gancho che andrà a buon fine dentro l’abbraccio di qualcun altro, colgheremo e volcheremo con sprezzo del pericolo e pure dell’estetica. È il modo del tango di farci umani, troppo umani. Ridiamo tutti, dei “tipi tangueri”, che è cosa innocente ma a volte può seminare davvero esclusione e discordia, creare quelle barriere etniche tra avanzanti e arretranti che non sono belle né giuste e sono una malapianta del tango (il famigerato nazitango che alligna in tanti luoghi).


Sì, sono un’idealista e voglio la pace nel mondo. Cominciando dalla ronda. Infine, queste parole, già sparse nel mio blog – manginobrioches.splinder.com – e in altri luoghi della Rete, sono state talora una ronda virtuale da cui sono entrati e usciti molti ballerini, molti abbracci, molte mirade, molti cabecei. Spero di incontrarli tutti, di nuovo. E sono quasi certa che sarà possibile: tra le tante cose che il tango m’ha insegnato, c’è la certezza che nulla si crea, nulla si distrugge ma tutto prima o poi si ritrova in una ronda. Questo libro è per mio padre Pino, ballerino d’altri secoli e altri mondi, e per mio figlio Axel, che ha avuto molta, molta pazienza e m’ha insegnato il potere dei flores del alma. Anna “brioscia”


Lezione uno: PRINCIPIANTE IN OTTO MOSSE è semplice, ma non è facile - Carlos Gavito

Che una ci va con la testa piena di cose false: «il tango è un pensiero triste che si balla», «Piazzolla odia i ballerini perché ha un difetto a un piede», «il tango è maschilista», «attenti al tango, perché divide le coppie e ne riunisce di altre». Che una poi arriva alla palestra, che è una palestra con odore di palestra – gomma, sudore, spugna, caucciù – e rumori di palestra, ma non si sente precisamente in una palestra (anche perché in nessun luogo vai senza portarti dietro quello che hai letto e immaginato, e andiamo in giro carichi come muli di tavolini, sale di specchi, orchestre a plettro, vasi di gardenie, scorci di Buenos Aires. Anche nelle palestre seminterrate sulle colline dello scirocco). Che una poi entra titubante, e si domanda cosa la stia portando lì, anche se lo sa benissimo, perché c’è scritto, nero su bianco, lì nel bigliettino «cose da fare per la vecchiaia»: «Tango argentino, tagliatelle, greco antico, rose», e dunque meglio pensarci per tempo. Che una pensa proprio le cose che pensa nella vita, la vita là fuori, fuori dalla palestra: non ho un partner, forse non ho le scarpe adatte, forse inciamperò davanti a tutti, non conosco nessuno, non avevo niente da mettermi. E poi, invece. E poi invece il maestro sembra quasi argentino, anche se è di Faro Superiore, e ha le scarpe più luccicanti che io abbia mai visto, e in quegli otto passi – sono otto passi base, «imparateli bene, che poi li dovrete dimenticare» – ti fa balenare un intero alfabeto delle passioni: cortes y quebradas, salidas, mordida, ocho adelante, medialuna… L’hai sempre saputo, che si vive di pause, trasalimenti, comandi impercettibili, impartiti con gesti che nessuno vede, parole mai pronunciate. Lo sapevi già, ma qui ne hai la prova. Di più: qui lo sanno tutti. Otto passi, e c’è tutto: lui ti guida, e tu lo capisci soprattutto dalle pause; lui invade il tuo spazio, ti costringe a fare passi, o ti ferma; lui ti fa indietreggiare. Lui si frappone, prende decisioni, ti spinge lungo la salida senza che tu possa opporre altro che la tua assoluta, elastica arrendevolezza, i tuoi incroci obbligati per libera scelta. La principiante assoluta non riesce a non guardarsi le scarpe, non riesce a


non guardarsi in tutti gli specchi, perché si sente storta, trasportata e sbilenca, e lui – che è un principiante assoluto però è maschio, e, si capisce, anche lui porta lì dentro il fatto che si sente stupido e impedito, e più responsabile del solito, perché quello è tango, mica vita, che uno si può nascondere dietro mamme, gonnelle e presunzioni – lui si fa la sua salida tutto sudato, e ti dà pure la colpa: sei tu che mi anticipi, fai i passi corti, mi confondi. Intanto gli altri ci urtano, persi ciascuno nella propria traiettoria, e gli otto passi – «imparateli, mi raccomando, che poi devono sparire» (ma è possibile? dovrò dimenticarli o solo esserli, e dunque perderne memoria?) – si mescolano, e sono diciotto, ottantaquattro o milleotto. La salida è lunga chilometri, usciamo tutti dalla palestra, arriviamo al porto, passiamo lo Stretto e ancora continuiamo ad arrampicarci, di otto passi in otto passi, e forse faremo il giro della Terra e arriveremo a Buenos Aires, e l’otto sarà chiuso. Il principiante assoluto ha caviglie di legno massello, responsabilità che non riesce a governare: hai sbagliato tu, dice a lei col fiato corto, questa volta hai sbagliato tu. La principiante assoluta sorride, ma lo vorrebbe picchiare, e allora fa i passi lunghissimi, così lui s’arrangia, con quelle gambette storte. Tanto, lui è ancora principiante, non sa vendicarsi con una pausa lunga un passo, tre battute o anche una vita intera. Chi vi guarda non immagina nemmeno la feroce lotta di contrappesi che c’è tra voi, le intenzioni che strusciano sul parquet, lungo le punte, risalgono le caviglie – «accostate ogni volta, quello che si apre si chiude». Sì, quel che si apre prima o poi viene chiuso, anche se non lo vuoi ammettere: le intenzioni, le relazioni, le connessioni. È che oggi siamo tutti qui, e non ci è chiaro se siamo aperti o chiusi, se il tango deve spalancarci qualcosa o chiuderci dentro qualcosa. Forse tutti e due: dobbiamo imparare ad aprirci chiudendoci in un abbraccio, che è un modo per chiudere fuori i linguaggi a cui siamo abituati ed aprirci a un modo diverso di comunicare. Tale e quale a fuori, questo dentro, col suo sistema di pesi e valori e spinte e controspinte e ideali e miserie. Allora tu ripassi tutto quello che sai della vita e, cavolo, funziona. L’unico problema è che non puoi dirlo. Devi imparare a camminarlo.


Lezione due: PENTIMENTO la vita non è sempre una milonga; il ricordo è sempre un tango

Insomma, qui funziona così: a ogni lezione dimentichi qualcosa. E il fatto che dimentichi è segno che stai imparando. Abbiamo già dimenticato il primo passo, quello che l’uomo fa indietro e la donna avanti. Il passo contraddittorio, ingannevole, bugiardo, perché la donna è per destino seguidora. «Lui ti porta sull’orlo del precipizio? E tu lo segui, lo assecondi». Nessuna novità, in effetti. Anzi, con gli anni hai imparato a gettare un’occhiata di sbieco al precipizio, sapere quanto è fondo, quanto è scosceso, quanto ti ci vorrà per arrivare in fondo, quanto per risalire. Ci sono uomini da burrone, uomini da forra, uomini da timpa, uomini d’abisso (rari). Uomini che cadi solo tu, e lui ti guarda da sopra e stringe le spalle: non lo sapevo, non ho potuto evitarlo. Uomini che cadete assieme ma lui si salva, con la giacchetta agganciata a un ramo pietoso e materno. Uomini che nella caduta spariscono, e nemmeno sei sicura che c’erano, prima. Un’invenzione per cadere. Uomini che mentre cadete ti dicono: è colpa tua. E il tango ce li ha tutti, i vizi degli uomini e delle donne. Ora abbiamo una nuova cosa da imparare e dimenticare, consegnare al corpo e alle sue grammatiche di gesti, pesi, direzioni. «Io arrivo qui e mi pento, torno indietro». Il maestro esegue un passo di pentimento, così esatto e lucido sull’impiantito che mi sembra di riconoscerlo, d’averlo già letto. Che scema, ma certo che ho già letto tutto: pentimenti, direzioni sbagliate, precipizi, passi indietro. Questo è solo un riassunto a uso del corpo, una traduzione con pochissimo testo a fronte, un bignamino in otto passi. «Mi pento» continua a ripetere il maestro, che nella vita – nella vita fuori, sbiadita e immersa nel caos delle parole – è comandante di navi traghetto nello Stretto, comandante di andirivieni e pentimenti in un braccio di mare cortissimo e insidioso, dove il tempo è fermo quasi come in un tango, fermo e pieno di accelerazioni e correnti e vortici e soprattutto ritorni. Lui si pente, si tira indietro, si volta da un’altra parte, lei lo insegue, gli si piazza davanti («Guardami, guardami, portami ancora»), ché il tango è obliquo ma frontale, sbieco ma diritto, opposto ma coincidente: lei gli si piazza di nuovo davanti, poi deve espiare – la memoria ancestrale le dice che sì, va bene così, è giusto così, ed è fuori da ogni discorso – torna indietro, incrocia i tacchi, si sottomette di nuovo. Si chiama ocho cortado o milonguero, l’otto tagliato che si


disegna di continuo tra loro, l’infinito pieno di sponde che ritornano, come uno Stretto da navigare avanti e indietro, come un nastro di Penrose, come un pentimento, come un tango. Perché, accidenti, è pure magnifico, questo breve percorso di pentimento, questo dramma in otto passi tagliati che interrompe la salida, cambia le direzioni e poi le ricomincia, perché le ferite si chiudono ogni otto passi, e il mondo ricomincia. Io lo sapevo che il pentimento mi veniva bene, e ho tentato una cosa: l’ho ballato a occhi chiusi, come sempre nella vita. Sentivo solo la musica e il peso, e i comandi del corpo dell’altro, che mi spiegava senza dirmelo che si stava pentendo, e preferiva tornare indietro, e cambiare direzione, andare dall’altra parte dello Stretto – dove c’era ancora la neve, una neve estiva e salata che si dissolveva nell’acqua, una neve calcarea e sabbiosa, una neve ostinata a occhi chiusi – e io potevo solo seguirlo, supplicare per tutti i suoi 120 gradi di pentimento, incrociare indietro i miei passi, mostrargli la solita, feroce mansuetudine. M’ha persuasa, così cieca com’ero, così affacciata sugli otto che disegnavano di neve lo Stretto, il parquet, le intenzioni. Così caparbia, così salata. Sono uscita felice – la neve s’era sciolta ma aveva lasciato intenzioni gelide nell’aria – e quando m’hanno chiesto: «Cos’hai fatto?» io ho risposto senza esitare: «Non mi sono pentita».


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