Nostalgia tradimento amore

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NOSTALGIA TRADIMENTO AMORE Rosa Ucci Viaggio all’Interno del Tango Presentazione di Vincenzo Centorame


A mio figlio Francesco


NOSTALGIA TRADIMENTO AMORE edizione stampata: [ISBN-978-88-7475-225-6] edizione ebook ISBN 978-1-312-01230-1 Massetti-Publishing prodotti di Tango: www.tango-dancers.com


NOSTALGIA TRADIMENTO AMORE Rosa Ucci Copyright Rosa Ucci 2011 Published by Enrico Massetti at Smashword All Rights Reserved


INTRODUZIONE Ha ragione Carlos Vega, quando sostiene che il tango è espressione di istinti forti e primitivi che reclamano cittadinanza, oppure José Gobello il quale, con un ragionamento colto e complesso, lo paragona all’Impero romano che non si costituisce per espansione ma per incorporazione di collettività diverse in un’unità superiore? Questo libro, pur rendendo conto di interpretazioni e letture apparentemente lontane tra loro, ha scelto una sua strada che, sotto molti aspetti, fa della novità di prospettiva e della sintesi originale i suoi punti di forza. Negli ultimi anni il tango ha vissuto una sorta di seconda giovinezza. È stato protagonista di uno stupefacente fenomeno di globalizzazione che lo ha visto diffondersi e affermarsi nei paesi più lontani, non solo geograficamente, ma anche culturalmente rispetto alla sua matrice originaria. Appareevidente che, quello che si può considerare ormai un rito, possiede una sua forza misteriosa che ha un carattere universale e trascende l’ambito spaziotemporale latino americano. Gli aspetti più reconditi, e nello stesso tempo più forti, le componenti misteriose che fanno del tango quasi un rito iniziatico, sono al centro, in queste pagine, di una vera indagine. In questi ultimi anni sono stati editi, in vari paesi, molti libri su questo tema decisamente accattivante: saggi storici, riflessioni poetiche, raccolte di suggestioni e innamoramenti, profili dei maggiori protagonisti di una vicenda complessa. Nostalgia, tradimento e amore (viaggio all’interno del tango) non vuole essere una illustrazione oleografica, neppure delle innumerevoli “storie” di questo fenomeno; non intende descrivere una “geografia” del Tango, neppure intende raccontare l’ennesima vicenda delle origini o rivendicare primati. L’ambizione che anima e costituisce il senso di queste pagine, è quella di tentare di compiere un atto di disvelamento e di ascolto: mettere a nudo quelle passioni elementari che fanno la forza del tango e cercare di ascoltare quel linguaggio recondito e misterioso che fluisce dalle viscere di un mondo di emozioni, come una sorgente di vita. Il tango è ormai una avventura planetaria, un rito legato da duplice filo rosso che ne rappresenta l’essenza più profonda: la passione e il sentimento delle cose perdute, quella nostalgia che fa da sottofondo a ogni nota e al fluire magico dei movimenti. Il grido e il silenzio, nella loro dialettica sempre incompiuta, come in una sorta di eterno ritorno di una magia, sono le componenti esemplari di un rituale coinvolgente e appassionante. Un florilegio di protagonisti popola questa vicenda dell’eterno ritorno del tango; sono gli interpreti di vecchie e nuove generazioni. Custodi e icone delle origini e protagonisti di una nuova classicità. La guardia veja e la guardia nueva, la guardia del cuarenta, in un succedersi ininterrotto e coinvolgente di formule magiche e spontanee. Simboli assoluti, personalità vicine e lontane, come Homero Manzi e Astor Piazzolla, che hanno, come palcoscenico, per riti antichi e sempre nuovi, il mondo intero. Uno dei punti basilari, su cui si fonda questo libro, è rappresentato dalla decodificazione, con gli strumenti della psicologia contemporanea, dei riti e dei miti del tango e della sua misteriosa forza di fascinazione. Particolarmente importante il capitolo dedicato all’uomo, la donna e l’avventura della danza. Un duplice punto di vista complementare e conflittuale; una vicenda guerresca ed erotica che non può che nascere da un conflitto viscerale che genera una attrazione magnetica.


Un racconto interiore, un viaggio e una esperienza di conoscenza che ha al centro una magia musicale che è il figlio bastardo di una tradizione musicale eterogenea, complessa e, per molti aspetti, sor prendente. Non solo la forza oscura dei ritmi e del magnetismo tellurico di provenienza africana, ma anche l’eleganza e l’armonia dell’opera lirica. Nella parte conclusiva, il libro cerca di proporre alcune considerazioni che possano aiutare il lettore a decodificare quanto preannunciato fin dal titolo. Il sentimento della nostalgia letto in questo caso, come sindrome mortale alla pari dell’ebbrezza, del momento più alto della passione amorosa. C’è una forza misteriosa di perdizione e di ritrovamento, di abbandono e di seduzione che è il fondamento della storia dell’uomo e della donna: si avvinghiano e si respingono fino a generare un vortice nel quale sono fatalmente imprigionati. L’uomo e la donna finiscono per amare il proprio destino, si lasciano andare sedotti dalla voce delle onde musicali e trovano i passi e i gesti naturali che li proiettano in una complicità egoistica ed esclusiva. Il libro racconta certamente la storia di una suggestione e di una fascinazione ma contiene molto di più. Parla, e non è un’anomalia, di una forza “taumaturgica” del tango, quella che porta alla riscoperta di un corpo trascurato e umiliato dai riti banali e affliggenti del mondo contemporaneo. Un clima di omologazione e di sofferenza banale al quale il tango non appartiene. Vincenzo Centorame


I - LE RADICI DI UNA PASSIONE L’origine rioplatense e l’avventura planetaria Il filo rosso della passione Il fenomeno Tango è oggi una realtà. Si aprono ovunque Scuole di Tango, giovani e meno giovani si riversano nelle milonghe. Alcuni ne fanno una forma di vita, altri vogliono discuterne come fenomeno sociale, altri ancora ne vogliono approfondire le origini. Molti, attraverso il Tango, vogliono ampliare i loro orizzonti sociali. Il Tango, quello argentino, che rispetta le sue origini musicali è sentimento e comunicazione. Il Tango è una danza, una musica, un modo di espressione dei sentimenti. È una poesia, è una letteratura. È un clima, un ambiente nel quale il linguaggio ha un posto tutto particolare. In ultima analisi il Tango è un fenomeno culturale complesso; non può essere considerato solo ed esclusivamente una danza. Gli autori dei testi di Tango partecipano al suo sviluppo allo stesso modo dei ballerini e dei musicisti. C’è interazione tra loro. Il Tango, nato tra la fine del XIX e l’inizio del XX secolo nel Rio della Plata, si impone, oggi, al villaggio globale, coinvolgendo tutti i ceti sociali in almeno tre continenti: l’Asia, l’America e l’Europa. Assistiamo a un “recupero” soprattutto del Tango ballato, dall’Argentina alla Francia, in tutta Europa, in paesi lontani come la Svezia e la Finlandia e ancora più lontani come la Cina e il Giappone. Sociologi, antropologi, psicologi si interrogano sul senso di questo recupero. Personalmente spesso mi viene chiesto “Perché il tango piace tanto?”. Ho cercato in questo libro di dare una risposta. Già dall’analisi delle origini del Tango si evince che esso contiene la forza di risvegliare i sentimenti, l’aspetto emotivo dell’essere umano. Ed è proprio l’aspetto emotivo che oggi va recuperato. L’uomo postmoderno sente il bisogno di questo recupero, perché è disorientato di fronte alle radicali trasformazioni dell’attuale processo tecnologico. Un processo che ha liberato l’uomo dalla fatica fisica, ma ha sovvertito ogni aspetto della vita dell’individuo. Per la prima volta, nella storia dell’umanità una nuova tecnologia svolge funzioni mentali sovvertendo ogni legge economica, politica e sociale dell’intera collettività. Un aspetto dell’uomo in particolare viene stravolto, quello relazionale. Il postmoderno, si afferma, è relazionale. Solo un secolo fa, l’individuo aveva la possibilità di relazionarsi, nell’arco della sua vita, con un centinaio di persone. Oggi invece questa possibilità può verificarsi nell’arco di una settimana. Modalità diverse di comunicazione hanno cambiato la dimensione temporale — si va al nano secondo — e spaziale dell’uomo — si vive nel villaggio globale. Il Sé è proteiforme, è in continuo adattamento alla diversità ed è in continua ricerca di identità. Ma le molteplici relazioni che caratterizzano l’era contemporanea sono per lo più superficiali. C’è esigenza di una comunicazione profonda. In tale contesto di disorientamento lo sviluppo emotivo diventa difficile, quando non è bloccato. L’uomo, tuttavia, in maniera più o meno consapevole reagisce a queste difficoltà e cerca stimoli per vivere la sua dimensione emotiva, comunicativa e creativa.


In fondo ogni espressione artistica è fondamentalmente un processo comunicativo, un tentativo di esprimere qualcosa che è nascosto, soffocato, potenziale. E il Tango può essere letto come una forma artistica fortunata della storia, un fenomeno di intercultura che si realizza spontaneamente, un’attività artistica che nasce dall’incontro di diversi che sentono il bisogno di capirsi ed esprimersi. E oggi l’interazione di culture diverse è uno dei temi più dibattuti. Ritengo che il Tango vada vissuto, analizzato e capito in questa luce, che non vada banalizzato nei termini: sessuale, peccaminoso, trasgressivo. Occorre andare oltre, verso vie più capillari e sotterranee. Il Tango danza è un’espressione artistica che risveglia emozioni e sentimenti, evoca fantasie e nei suoi movimenti comunica appartenenza e rispetto. Nei tre minuti che dura un Tango ballato si sperimenta una possibilità d’intesa, quasi un premio simbolico per una comunicazione profonda, oggi così ardua nella coppia umana. Ma per capire il Tango bisogna analizzarlo dalle sue origini, come per ogni genere musicale. Da questa analisi ci renderemo conto come questo ballo è così diverso dagli altri balli di coppia, dove i ballerini sono totalmente staccati nel petto. Nel Tango i ballerini sono appoggiati in alto, l’uno sull’altro, componendo un insieme armonioso e sensuale frutto di creatività e d’intesa tra i ballerini.

Il sentimento perduto Il Tango si sviluppa verso la fine del secolo scorso nei sobborghi di Buenos Aires. I personaggi che inventano il Tango non possono essere compresi fuori dai luoghi in cui questo fenomeno, profondamente popolare, ebbe inizio. Nel 1853 il governo federale emana un editto con il quale si dichiara di favorire l’emigrazione europea. Nell’intenzionalità della classe dominante l’apertura delle frontiere celava la speranza di accogliere professionisti, scienziati ed esperti. In realtà le classi che risposero all’appello furono solo quelle in stato di indigenza nel paese di origine che partirono verso il suolo straniero con l’unico obiettivo di un miglioramento materiale e con la speranza di comperare la terra a prezzi bassissimi, così come recitava la propaganda argentina. In realtà la proprietà terriera era stata già divisa tra i pochi notabili argentini. Inoltre non erano previste misure effettive di colonizzazione che assicurassero il radicamento degli stranieri nelle zone rurali. La terra, foriera di promesse, lavoro e benessere diventa la terra dell’anonimato. Uno spazio mutevole, degradato, quartieri periferici di Buenos Aires, attraversati da fiumiciattoli e riachelos piene di acque fangose dove gli immigranti finivano per radicarsi cercando di arrangiarsi con i diversi mestieri per poter sopravvivere. L’origine degli immigrati era estremamente varia, prevalentemente europea, ma con presenze anche asiatiche e medio orientali. Le componenti più presenti numericamente erano però quella spagnola e quella italiana, provenienti dal meridione in genere e dalla Liguria, Friuli e Piemonte. Essi avrebbero triplicato la popolazione della capitale. Si verificò un caso unico nella storia dell’immigrazione americana: 1 su 2 erano immigrati, contro 1 su 8 degli USA. In questa Buenos Aires di fine secolo, in un processo di modernizzazione e di crescita, non arrivavano solo immigrati europei, ma anche el gaucho, il contadino del Rio de la Plata, che


approda in città. Il gaucho è il pittoresco personaggio argentino che sorvegliava le mandrie nelle sterminate distese della Pampa. Anch’egli si trovò senza lavoro quando furono istituite fattorie o “estancias” che introdussero forme di allevamento più stanziali, con il bestiame racchiuso nei recinti. Il gaucho è il personaggio che esprime una connessione tra l’essere umano e la natura, cultore dell’istinto vive un profondo e solitario rapporto con se stesso. Melanconico, riservato e selvaggio si accompagna sempre con la chitarra per lenire l’aridità della sua esistenza. Trovandosi egli stesso forzatamente trapiantato nella realtà dei bassifondi urbani e costretto a rinunciare al suo dialogo intimo con la natura si sentì profondamente solo. L’immigrante, il gaucho, i marinai, i macellatori dei mattatoi, e anche alcuni gruppi etnici afro americani che avevano di recente avuto l’affrancamento dopo secoli di schiavitù, si installavano nei conventillos, abitazioni povere, fatte a budello con servizi igienici comuni, potenziando il risentimento delle aspettative deluse, la tristezza, la nostalgia. Erano uomini soli, senza affetti, con difficoltà di integrazione e comunicazione. Da questa contaminazione di razze diverse accalcate nei cortili dei conventillos con un tasso di mascolinità molto alto, si cominciò a profilare un tipo di musica eterogenea, un genere musicale che esprimeva un mondo incredibilmente vario, fatto di memorie, storie, enigmi, mentalità, in cui si piangeva la perdita e si suonava per non piangere. Era una musica che nasceva spontanea dai numerosi musicisti itineranti che si spostavano da un cortile all’altro, da una baracca all’altra, interpretando gusti e sensazioni, modificando ritmi, toccando stati d’animo ed emozioni. Questi musicisti, senza saperlo, stavano dando origine al fenomeno più originale della cultura popolare argentina: il Tango. Il Tango scavalcando barriere sociali, culturali e linguistiche contribuì a creare una nuova comunità “un linguaggio non verbale portatore d’identità rioplatese”. Una massa anonima ed emarginata, istintivamente e nel modo più naturale possibile, creava note e passi esprimendo un suo sentire, un soffrire autentico. Questo fenomeno ha transitato in ambienti malfamati, si è affermato in ambienti più raffinati, si è trasferito in altre realtà sociali e storiche che lo hanno adattato, trasformato, a volte snaturato. Oggi si ripropone in questo villaggio globale in cui si è tutti viandanti in cerca d’identità, riportando a galla quelle radici che gli hanno dato vita e che rimangono perenni perché solo esse danno vitalità, forza, espressività e sentimento a questa danza. Il Tango tallona gli emigranti di ieri e gli esiliati di oggi. Oggi come allora esprime una nostalgia allo stato puro, da “nostos” (ritorno) e “algia” (dolore). È il dolore che ogni emigrante sperimenta quando lascia luoghi carichi di affetto e di senso. La storia dell’umanità è sempre stata caratterizzata da flussi migratori. Ma oggi se diamo lo sguardo al fenomeno della globalizzazione, allo sviluppo della telematica, delle telecomunicazioni, delle interconnessioni economiche e finanziarie, il flusso migratorio, pur cambiando connotazione riguarda un numero più alto di individui. Sempre più spesso capita di studiare, lavorare, vivere all’estero per periodi non brevi della propria vita. Tale fenomeno è una componente della forma di vita del nostro tempo e per quanto si cerchi di attenuarne le conseguenze esso rimane un serio problema personale per tutti coloro che vivono questa esperienza, vuoi che essa sia temporanea, o che sia definitiva, vuoi che sia motivata dalla mobilità di lavoro o dalla necessità di seguire un marito in carriera. Senza dubbio i vissuti di uno studente o di un dirigente di oggi sono profondamente diversi da quelli degli emigranti tradizionali che fuggono dalla miseria con la speranza di trovare un posto che permetterà loro di salvarsi, ma a livello emozionale molti sono i punti in comune.


Tali sono il sentimento della mancanza che morde la gola, l’intimo disagio dovuto al passaggio da un universo conosciuto a un universo sconosciuto, dal mondo rassicurante entro confini familiari a un mondo dominato da nuove categorie spazio temporali dai contorni sfumati e ignoti. La fine di questa era è un evento di portata planetaria che vede un uomo impegnato in una dimensione temporale complessa e interdipendente fatta di reti e di nodi, letteralmente sommerso dalle relazioni, alcune virtuali altre reali. Telefoni, cellulari, segreterie telefoniche, fax, email bruciano gli spazi di riflessione, riducono all’insignificanza la comunicazione e soprattutto inaridiscono il cuore che è l’organo attraverso il quale si sente intimamente la vita. Al cuore, oggi, sono riservate solo passioncelle superficiali che sfiorano anime assopite, ma non le risvegliano. Non ne hanno la forza. Il Tango possiede questa forza. È una musica che “si sente”, come si sentono i gesti di amore che incidono nella carne, che sfiorano per penetrare. Nel regno del Tango non abita il linguaggio, né il pensiero né la riflessione, qui risuona solo la voce elementare della passione, il gioco dei desideri, qui si gode un abbraccio che sa di eterno e che cura la malattia di un’anima che non sa resistere nella gabbia dell’intelletto. Nel Tango il corpo abbandona i gesti abituali, esprime la sua emotività, ciò che lo muove, seguendo una grammatica rigorosa che, una volta appresa, dà la possibilità completa e totale a ognuno di esprimere se stesso ovunque si trovi.

L’essenza del tango José Gobello in un suo articolo sull’essenza del Tango parte da una riflessione sulla storia di Roma. Tutta la nazione latina è un vasto sistema d’incorporazione. L’impero romano non si costituisce per espansione, ma per incorporazione di collettività diverse in unità superiore. Si può pensare al Tango come un sistema d’incorporazione, l’unione di varie unità diverse in un’unità superiore, aperta sempre al cambiamento e che sempre commuove, dà piacere e conquista. Il Tango nasce nel Rio della Plata, ma pianta le sue bandiere lontano dal suo luogo di nascita. L’accoglie Parigi, poi Londra, Berlino, Roma. Ma il portegno non si sente rappresentato in queste espressioni di tango straniere, anche se si sente orgoglioso che la sua musica si diffonde ovunque. Il portegno è l’immigrante che sperava di sentirsi libero acquistando la terra. Ormai, deluso, senza potere e controllo, segni tipicamente maschili, sviluppa un complesso materno in cui la donna diventa il vero bene prezioso e cade in un complesso di inferiorità che trasla nella figura del compadrito. Il corpo è l’inconscio e si esprime. Il compadrito parla con il suo corpo. Gli istinti del compadrito reclamano una cittadinanza. Egli crea un repertorio di figure coreografiche affinché i suoi gesti, il suo movimento esprimano i suoi istinti forti e primitivi. Inizialmente egli incorpora per le sue coreografie la struttura musicale dell’habanera, della polka e della mazurca per dare voce al suo essere audace, coraggioso leale e felice nonostante la sua emarginazione. L’embrione del tango dunque risiede in un repertorio di figure coreografiche semplice e aperto a un sistema di incorporazione; esso non ha una struttura musicale, la incorpora, prima dall’habanera, polka e mazurca e poi dalla milonga. È dunque impreciso affermare che la milonga è la madre del tango. La milonga ha fornito un supporto musicale stabile che prima era stato dato da altri balli. Il compadrito non fa altro che adeguare la sua musica ai suoi passi, alle sue contorsioni scivolate, alle sue pause ai suoi arresti, tutti gesti che esprimono la sua interiorità. Tratti e nomi di balli si sono confusi creando un miscuglio che dà origine al tango.


La seconda incorporazione è quella dei versi. I primi versi improvvisati da musicisti itineranti, che frequentavano i lupanari del centro furono osceni. Era una vasta sub letteratura, che fu subito migliorata per poter accedere al varietà. Con Contursi il tango incorpora la forma letteraria della canzonetta, quella tripartita. Il portegno è cambiato, si è arricchito di italianità, i versi parlano di amori tristi. Il tango per esprimere il popolo portegno aveva bisogno di uno strumento caratteristico. Si era servito prima del violino e della chitarra, poi del pianoforte, non aveva mai disdegnato la fisarmonica, l’arpa india, i clarinetti soffiati degli immigrati italiani. Erano questi tutti gli strumenti della musica convenzionale. Ma il tango non era una musica convenzionale, era una musica esclusiva del popolo portegno tipica di quella Buenos Aires che cresceva con la coscienza del dolore esistenziale. Ad un certo punto appare, provvidenzialmente, il bandoneon e il tango non ha alcun dubbio a incorporarlo. Con il bandoneon il tango definisce la sua identità, come appare da uno scritto di Antonio Soldìas: Con Luigino andavo per la riviera con la fisarmonica. Suonavamo e cantavamo. Luigino mi accompagnava con il mandolino. Ci fermavamo alle cantine e alle osterie. Lì trovavamo ragazzi argentini che suonavano la chitarra, insieme suonavamo e improvvisavamo canzonette. Sai gli argentini non ci davano annotazioni, era tutto ad orecchio. Un giorno ho detto a Luigino: “Eh Luigino che ti sembra se suoniamo la milonga?” “Ma la milonga non è italiana” mi dice Luigino. “Che importa? Noi non viviamo in Italia, caro fratello.” Io ero un filosofo, sai? Un giorno abbiamo deciso di suonare la milonga. Siamo andati sulla riviera. La milonga, suonata con la fisarmonica, piaceva a tutti. Si commuovevano sai? Sembrava che facesse male? Sai? Cantava la tristezza. Piaceva. Allora io ho pensato che la fisarmonica fosse lo strumento che esprimesse la milonga. Quando si affermò il tango Il Choclo io continuavo a suonare tango con la fisarmonica. Un giorno è venuto un tizio piccolo piccolo, con i capelli duri e la faccia spigolosa. Portava una fisarmonica quadrata per la Madonna! Suonava il basso che era un dio. Era proprio bello sai? Non potevo fare altro che lasciargli il mio posto. “Continua tu mio amico,” dissi. Ho messo da parte la mia fisarmonica. Mi sono comprato uno scafo e basta. E ancora si legge in una pagina di Crispin: ... continua ad andare avanti, non si fermi. Lei ha uno splendido futuro. Non importa che non conosce la musica. Ha orecchio? Va bene, come me. Senti una musica, la suoni ed hai fatto una compadrada. Quando vuoi fare un buon tango che ha successo mi chiami. Io suono con la fisarmonica una canzonetta napoletana vecchia vecchia che nessuno ricorda. La fai, ma piano piano, le metti tre o quattro ferolete, una cosa criolla. Certo amico è triste, ma la musica popolare è melanconica in tutto il mondo. E la musica di questo paese è fatta di ricordi che provengono da tante nazionalità italiana, francese, spagnola. Qui nessuno sa niente, ma tutti vogliono sapere tutto. Colui che sa qualcosa veramente protesta perché tutto va male. Mentre protesta perde tempo perché gli altri lo calpestano.


Dunque all’inizio un tango poteva essere una vecchia e dimenticata canzone napoletana, un valzer francese, una melodia criolla, un’aria campagnola. Era una musica che si adattava alla compadrada. Nel 1914 Firpo compone Alma di Bohemia. Firpo incorpora il romanticismo e questa incorporazione è così travolgente che il tango come “compadrada” e “ferolete” scompare dietro la sua forza. Il tango fino ad allora si componeva e si eseguiva per i piedi, sede degli impulsi. Firpo comincia a scrivere il tango per il cuore e Contursi nel 1915, come diceva Augustin Rena, portò il tango “dai piedi alle labbra”. Creò con Gardel un nuovo stile musicale “il tango canzone”, che avrebbe definito Enrique Delfino nel 1920. Il tango a Parigi aveva assunto un ritmo più sostenuto. Il rallentamento del ritmo non permetteva la ginnastica sfacciata del compadrito. Il tango a Parigi compie la sua rivoluzione romantica, già silenziosamente iniziata da Firpo che lo aveva portato sul piano dei sentimenti. Il tango diventa triste. Una tristezza magistralmente espressa da Contursi. La incorporazione di questo stile eliminò le radici impulsive del tango. Esso comincia ad andare a braccetto con la lirica. Nel 1920 rimangono solo poche tracce della compadrada, comunque sentiamo che i tanghi di De Caro non sono meno tanghi di quelli del negro Casimiro. Ogni autore, secondo le proprie attitudini e temperamento cercava la bellezza come espressione autentica dell’anima, un suono capace di risonanze. La loro era una ricerca consapevole e tenace. Con i musicisti di conservatorio il tango incorpora la tecnica della “musica di scuola” che è una espressione più precisa di musica classica colta o musica erudita. Costoro conoscono le tecniche della composizione dei suoni come i barman conoscono le tecniche della composizione dei sapori, non creano solo una bella musica, l’arricchiscono, l’affinano, affinché quelle frasi arrivino, mormorino all’anima. Allorché il tango incorpora la “concertation instrumental” le composizioni diventano più pregiate. Ci fu un momento in cui il tango cercò di incorporare la sinfonia. Ci provò Julio De Caro. Il tango sentì la sinfonia come un corpo estraneo. Con Piazzola il tango incorpora la sincope, sia nel senso tecnico, sia nel senso di spostamento della melodia sul ritmo. Si potrebbe pensare che le incorporazioni del tango siano concluse. Indubbiamente no. Il tango è un sistema aperto e vive per la sua capacità di attualizzarsi sempre. Dopo il suo primo secolo di vita presenta diverse forme. Ognuno può scegliere tra queste quella che più si adegua alla sua sensibilità. Come gli uomini anche i portegni non sono sempre uguali. E, se il tango è l’espressione dei portegni, esso non può essere unico e immutabile. I tempi cambiano, le circostanze mutano, ma il tango dà sempre la possibilità di esprimere la propria interiorità, interpretandola con il corpo in libertà. Il linguaggio del corpo, come quello del mito e del sogno, ha un valore metaforico. Il tango offre la possibilità di fare metafora. Ci permette di portare all’esterno molti aspetti della nostra vita che richiedono un loro posto, una loro espressione. Esso ci allontana dalle contaminazioni di quelle informazioni e comunicazioni che ci impediscono la ricerca interiore, l’intimità. Il tango danza ci consente l’espressione della nostra individuazione che reclama la sua soddisfazione, un rifugio del sentimento che si svela in una nuova comunicazione: quella del contatto pieno con l’abbraccio. È un ritorno al primitivo: il contatto, la carezza, la gioia rispettosa, e la ricerca di una connessione animica (animus-anima ) che affonda le sue radici nello stesso fondamento del mito. Ed è questa la causa della sua potenza.


Tanguedad Cosa s’intende per tanguedad? José Gobello ci aiuta a far luce su questa espressione di cui si sente spesso parlare. La tanguedad, afferma Gobello, è la condizione di essere tango, come la libertà è la condizione di essere libero, la vedovanza la condizione di essere vedovo. La tanguedad è ciò che fa in modo che qualcosa sia tango e non un’altra cosa. Se mancasse, il tango non sarebbe tango. In ultima analisi la tanguedad è l’essenza del tango. Ma cos’è l’essenza del Tango? Prima di rispondere a questo interrogativo bisogna chiarire cos’è l’essenza? In senso aristotelico la parola essenza è la sostanza prima, ciò che i latini esprimevano con la frase: «Quod qui erat esse.» San Tommaso d’Aquino parlava di quidditas, quella forma che unita alla sostanza determina l’essenza di ciò che è, ovvero ciò che situa una realtà dentro il suo genere o la sua specie. La quiddità è la forma propria di una specie. In quanto al Tango si può affermare che l’idea di tango sia inseparabile dall’idea di musica. Perciò, parlando dell’essenza del Tango, ci si può riferire alla forma specifica di una materia chiamata musica. La forma che corrisponde alla specie Tango, la forma per la quale una musica è Tango e non è altro che Tango. Per andare avanti occorre tornare sempre alle origini. Quando nasceva il Tango si poteva intendere per essenza del Tango “la compadrada” che era un modo di ballare “dei compadriti”. Non aveva ancora una forma definita. Quando i compadriti, cultori degli istinti, disegnavano con i piedi sul pavimento una coreografia utilizzando l’habanera, la milonga o la mazurca, questi balli si convertivano in Tango. All’inizio non li chiamavano Tango, li chiamavano milonga, Non li chiamavano tango, ma erano già Tango. È in quell’essere cosa propria dei compadriti, in quella loro espressione istintuale che bisogna cercare l’essenza del Tango, in ciò che faceva in modo che una musica, che era un’altra cosa e non tango, si trasformasse in Tango, era l’espressione istintuale dei compadriti. Essi esprimevano la fachenda, una vanità, il gesto di uno che conta qualcosa. Il compadrito esprime qualcosa che ha o che non ha, ma che desidera avere: eleganza, portamento, soldi, classe. Con il corte e la quebrada egli esprimeva destrezza, coraggio, un senso della vita alieno da preoccupazioni, la ricerca e il dominio sulla donna. Quando ballando una mazurca il compadrito sfodera il primo corte e inventa il Tango sta comunicando la sua forza, sta affermando la sua capacità di conquistare la donna, sta esprimendo la sua interiorità. Quando il pianista Firpo compone Anima di Bohemia, non c’è niente che assomigli alla compadrada, al corte, alla quebrada. Esso è un brano sentimentale, esprime il romanticismo di quelli che si chiamano i boemi, persone che non attribuiscono alto valore ai beni materiali, che vivono in libertà e danno priorità ai sentimenti. Il boemo è romantico, il compadrito è spavaldo. Quando Delfino inaugura la prima composizione, chiamata Griseta, nel 1924, non rimane niente del tango primitivo. Eppure quando s’interpreta quel tango si sente la sorgente del tango. Il Tango è un fiume che avanza e trascina nel suo fluire i resti della fachenda compadrida, del romanticismo, della canzonetta, senza mai negare la sua condizione di Tango. La condizione di tante popolazioni alla ricerca di una identità, che parte da ciò che i tanghi descrivono, perdita, allontanamento, ritrovamento dell’interiorità e rafforzamento dell’individuo di fronte alle sue debolezze e alle sue insicurezze. È il vivere portegno. Il fiume tango incorpora materia nel suo corso conservando il sapore dell’acqua della sua sorgente. Il fiume tango è arrivato a Piazzola, dove il vero portegno,


nonostante le contestazioni, si riconosce. Il Tango nel suo lungo processo di raffinamento, non ancora concluso, non ha perso la sua essenza, la sua quidditas perché la sua essenza non è l’oscenità, come diceva Lugones, né la lussuria, né la languidezza erotica, come credono gli europei. L’essenza, la quidditas del tango, la forma che unita alla materia musica fa che quella musica sia tango è la portegnità. La portegnità nasce con il compadrito che, una volta in città, represso nei conventillos, vede degradati gli attributi del gaucho, libertà, indipendenza, coraggio e sente l’esigenza di esprimere la sua degradazione, il suo esilio. Di seguito queste espressioni si fondono e si confondono con quelle che contraddistinguono l’immigrazione: la nostalgia, la laboriosità, la solitudine. Gli immigranti, con la dominanza di italiani, si affrettano a mettere le radici, vogliono accriollarsi il prima possibile vogliono sentirsi compadriti. Si comincia così insieme a ballare Tango e coloro che conoscono un po’ di musica cominciano a comporre tanghi e a eseguirli. In un batter d’occhio cambia la portegnità. Il portegno non è più un criollo, il portegno è soprattutto figlio di gringos. Cambia la portegnità e cambia il Tango. La portegnità è la forma che, unita alla materia musica, fa che quella musica sia tango. Alla fachenda segue la nostalgia, alla nostalgia segue lo stress, la tensione che caratterizza, ai giorni nostri, la vita delle grandi città. La perdita della libertà del compadrito, la perdita dei propri luoghi dell’immigrante, la perdita d’identità e di valori dei nostri giovani trovano possibilità di espressione autentica nel tango, in una musica che riesce ad abreagire il dolore, a fare accettare la perdita, a far capire la vita, a cercare un adattamento a nuovi valori e nuove misure. Fachenda, romanticismo, ansietà sono espressioni dell’anima portegna che si sono succedute nel tempo. Il Tango ha espresso musicalmente questa portegnità. I primi portegni avevano un mondo molto piccolo e semplice. Successivamente arrivarono quelli nel cui mondo era presente il Conservatorio con Chopin, Listz, Schuman. Poi quelli che si aprirono all’influenza del jazz. sono tanghi: in quelle parole e in quelle musiche c’è il pianto dell’Eroe, il lamento incessante e instancabile non del portegno, non dell’uomo, ma della specie umana, mirabile espressione di quella acuta tensione, di quella sete di un altrove lontano, di quell’urgenza intima, che appartiene all’anima universale, che chiamiamo “metafisica nostalgia dell’Essere”.


II - IL GRIDO E IL SILENZIO I protagonisti di una storia non conclusa Le generazioni del tango Della storia del Tango hanno parlato in tanti, ancora di più sono quelli che si sono dilungati sulle grandi orchestre, ancora oggi protagoniste indiscusse nelle milonghe di tutto il mondo. Il mio intento è quello di far conoscere l’enorme apporto dato dagli artisti d’origine italiana alla nascita e allo sviluppo del Tango, un genere musicale che vive, si afferma e si impone, nonostante le molteplici trasformazioni sociali e culturali, capace di adattarsi ed evolvere a fenomeno culturale di valore universale senza perdere la sua identità. Molti forse ignorano che il 62% degli attuali abitanti dell’Argentina è italiano e/o figlio di italiani. Quando l’Argentina duplicò la sua popolazione alla fine del secolo XIX più dei due terzi dei nuovi arrivati erano italiani e spagnoli. Una “alluvione migratoria” in cui c’erano anche molti francesi, russi, tedeschi, polacchi, ma in numero assai minore. Gli italiani erano in gran parte meridionali, soprattutto siciliani, calabresi e campani. L’appello americano fu raccolto anche da molti genovesi. In realtà dall’Italia settentrionale si emigrava molto meno. Anche lì i poveri erano parecchi, ma non tanto come nel mezzogiorno. Gli italiani, assieme alla solita valigetta di cartone legata con lo spago, in moltissimi casi si portavano dietro anche qualche strumento musicale che probabilmente costituiva l’unico divertimento di questa povera, ma nobile gente. Una virtù, quella della musica, che nessuno può negare agli italiani. La canzone napoletana era così destinata a trovare, anche sulle rive del Plata, una sua continuità nel Tango, decisamente meno allegro, ma altrettanto umano e col tempo altrettanto famoso “che ni si po’ scurdà”. La storia del Tango inizia con questa pacifica invasione di Buenos Aires, che mostra in quegli anni una costante e decisa trasformazione. Il massiccio afflusso di immigrati indusse le famiglie più importanti di Buenos Aires a cambiare quartiere, a trasferirsi verso il Nord della città. La zona Sud divenne un enorme rione popolare dove sorgevano come funghi le case operaie a un solo piano, i già descritti “conventillos”. La gente che vi abitava era povera, ma per bene. Gente che lavorava da mattina a sera, il cui unico divertimento era quello di mettere al mondo i figli. La radio e la televisione erano lontane. Gli sport un lusso riservato ai ricchi. Gli immigrati, di varia provenienza, quando tornavano dal lavoro si riunivano nel cortile per una suonatina. Quando poi a suonare erano tre o quattro, subito nasceva una piccola orchestra. La maggior parte degli italiani sapeva strimpellare qualche strumento. Loro non conoscevano il pentagramma, ma erano dotati naturalmente di buon orecchio. Man mano che cresceva Buenos Aires crescevano gli immigrati e con loro prendeva forma questo nuovo genere musicale. Questi luoghi popolari poveri danno alla luce i segreti del tango, i moti del silenzio dell’anima, le note del tango che i bambini succhiano dal sangue materno, una musica che come un grido sale dai bassifondi cercando il cielo. Quei bassifondi si trasformano in grandi uteri dove i geni italiani vengono concepiti con il comando interiore di regalare una musica che cerca il cielo, una musica senza storia e senza confini. Gli autori di tanghi composti tra il 1880 e il 1890 restano sconosciuti. Sono tanghi primitivi di autori intuitivi. Essi conoscevano la tonalità semplice, come veniva chiamata a quei tempi. Il punto di partenza era l’improvvisazione. Lo sfondo del nascente genere musicale era la strada, erano i cortili dove i ballerini improvvisati erano coppie di uomini.


Nell’evoluzione delle cose la coppia di ballerini fu formata da una donna e da un uomo e gli scenari divennero oltre i cortili dei conventillos i caffè e i cabaret. Il tango, con uno sforzo immane, cercava di sottrarsi allo squallore dei bassifondi per approdare a lidi più puliti. Il processo di elevazione sociale era irto di scogli e i suoi protagonisti, i musicisti intuitivi, capirono che per stare in una bella casa dovevano mettersi un bel vestito, tenere un comportamento adeguato all’ambiente, adattarsi a nuove circostanze, modificare alcuni costumi. Compresero anche che i loro figli avrebbero dovuto studiare. Horacio Ferrer rintracciava, nella storia del Tango, generazioni della durata di quindici anni. In verità la maggior parte degli studiosi del Tango parla di quattro momenti del Tango che chiamano Guardie. La Guardia Veja, caratterizzata dall’improvvisazione, dall’empirismo, dalla ricerca di una identità. La Guardia Nueva, in cui il Tango raggiunse la sua perfetta armonia nelle differenti espressioni di ballo, musica, canto. La Guardia del Cuarenta, che si distingue per la erudizione, raffinamento e stilizzazione. La Vanguardia del secondo mezzo secolo, nel quale il Tango cerca una sua nuova identità. Le Guardie sono aperte. Costituiscono il percorso del fiume Tango, che avanza, che trascina e incorpora materia nel suo fluire, conservando sempre il sapore della sorgente.

La Guardia Veja e la Guardia Nueva La Vecchia Guardia è l’epoca considerata più autentica. I suoi protagonisti erano tutti musicisti “a orecchio”. Essi seguivano gli insegnamenti lasciati da amici e parenti, quasi sempre italiani, sfruttando la loro abilità naturale e la ricca invenzione musicale. Non sapendo leggere la musica ogni interprete suonava uno stesso brano in modi differenti modificandolo e arricchendolo. Sono creatori che non avevano fatto studi musicali, non possedevano, quindi, conoscenze tecniche, ma le sostituivano egregiamente con ispirazione e talento. Il simbolo di questa generazione è Gregorio Villoldo (Buenos Aires, 1869-1919). Egli fu un payador e chitarrista, vale a dire poeta e musicista. Il payador era un poeta capace d’improvvisare le sue canzoni in versi. Compositore di uno dei tanghi più famosi che ancora oggi si balla nel mondo, el choclo (la pannocchia), e autore dei versi la marocha, considerato il primo tango cantato. L’ispirazione di Villoldo resta sempre contadina e i suoi temi sono divertenti. Egli sviluppa una serie di critiche della vita quotidiana della capitale. Intorno a lui si raggruppa un numero di personaggi che hanno segnato quest’epoca e formato la vecchia guardia. Si ricordano Arturo Herman Bernstein, Genaro Esposito, Eduardo Arolas. In realtà i protagonisti di questa prima tappa musicale del Tango sono tantissimi, ma nessun nome si può mettere in evidenza. Si tratta di un vero e proprio movimento. Le prime orchestre, costituite da chitarra, violino e flauto erano mobili. Al tramonto, nei cortili e nelle strade battute, questi musicisti itineranti, tutti maschi, provavano ritmi e passi insieme a ballerini tutti maschi.


Il tango è un’invenzione maschile. Questi ragazzoni, che si esercitavano tra di loro, nei giorni festivi si recavano nei caffè di quartiere in attesa che la fortuna li mettesse di fronte a una donna. In questi luoghi le ballerine, pagate a serata dai gestori, erano disponibili per sei minuti, a condizione che gli uomini pagassero “un real”. Questi uomini facevano ressa, si contendevano le ballerine. Dai caffè, contemporaneamente, il tango entra nelle accademie, luoghi dedicati alla danza, non erano luoghi di prostituzione, ma, in epoca in cui le donne portavano ancora abiti lunghi, qui le ragazze si permettevano gonne corte e potevano essere considerate “facili”. Successivamente il tango entra nei bordelli. Le orchestre si spostavano facilmente da una casa chiusa all’altra, dove le ballerine esaltavano la loro sessualità, in questo modo la danza venne legata alla prostituzione, suscitando rigetto da parte della borghesia, che temeva che i loro giovani si compromettessero in questi luoghi di malaffare. Nel 1905 il Tango sbarca a Parigi. A Parigi, per quanto riguarda la danza sociale, l’epoca è caratterizzata dal Valzer e dalla Quadriglia. Il Tango sarà accolto come elemento innovatore della danza, giacché ogni anno Parigi ha bisogno di una nuova danza. Più generalmente, sul piano culturale, ci si interessa a ciò che è esotico. C’è un infatuazione per l’esotismo: danze nere, blues, danze orientali; ma il gusto dell’esotismo non implica una ricerca dell’autentico. Il fenomeno Tango, intriso di elementi erotici, diventa di grande interesse e, per farlo accettare alle classi più elevate della società, i ballerini ne smorzano la sensualità originaria, in quanto sconveniente al contesto. Nonostante le critiche e i pregiudizi la danza si diffonde in tutta Parigi invadendo saloni, teatri, bar e locali notturni. Nascono i caffé-tango, thè-tango, esposizioni tango, tango conferenze. Gli anni che vanno dal 1912 al 1913 sono quelli di frattura sotto il segno del Tango. Tutto si alleggerisce. La diabolica danza di cui tutti parlano si inserisce in diversi settori di tutta la società europea, italiana, britannica, tedesca. L’Europa passa dal Valzer al Tango, ma un Tango che perde il suo paradigma. In breve, il primo elemento di falsificazione è ignorare due caratteristiche del Tango argentino: la sofferenza e l’improvvisazione. I francesi “scrivono” il Tango, lo fanno entrare immediatamente nei manuali, mentre è evidente che una delle caratteristiche di questa danza è che non si può descrivere con i concetti disponibili all’epoca — passi e figure — pertanto questa scrittura non è solo approssimativa, ma è un controsenso. In questa forma impoverita il Tango, a partire da Parigi, si diffonde in tutto il mondo e in tutti gli strati sociali. Il successo mondiale del Tango suscita anche in Argentina nuovi sviluppi. La società portegna lo accetta come prodotto consumabile anche dalla gente perbene, secondo un processo che gli argentini definiscono proceso de adecentamiento (rendere decente). Nascono così i cabaret, sul modello omonimo parigino, sostituendo, in un certo senso, i vecchi bordelli. Il primo cabaret si chiama l’Armenonville ed è qui che si presentano due personaggi ancora sconosciuti, Gardel e Razzano. Protagonisti indiscussi di questa scalata del Tango negli ambienti borghesi sono il violinista Francesco Canaro e il pianista Roberto Firpo. Francisco Canaro era nato a San Fosa de Mayo in Uruguay il 16 novembre 1888. I suoi genitori erano immigrati italiani. Il padre, un bravo uomo senza però un mestiere e con una famiglia


numerosa alle spalle, si prestava a fare qualsiasi cosa, sempre che fosse lecita. Francisco si spostò con la famiglia dall’Uruguay a Buenos Aires quando aveva dieci anni. Quando era ancora ragazzino, attratto dalla musica, approfittando del fatto di lavorare in una fabbrica di lamiere, si costruì un violino che utilizzò sino a quando ebbe i soldi per comprare uno strumento vero. Musicalmente crebbe a fianco del suo amico Vicente Greco e il Tano Gennaro Esposito. Nei primi anni di vita fece la fame ma, poiché lavorava instancabilmente ed era sorretto da una ferrea volontà e da una notevole intelligenza, il successo battè presto alle sue porte. Nel 1925, fece il suo primo viaggio a Parigi. Fu tanto il successo nella villa Lumière che Scarpino e Caldarella gli dedicarono il famosissimo tango “Canaro en Paris”. Poi realizzò tournée in quasi tutti i paesi dell’America latina, in Europa, Stati Uniti e Giappone. Forse nessuno ha contribuito come lui a far conoscere il tango nel mondo. Oltre trecento partiture portano la sua firma e molte di queste sono considerate fra le migliori che siano state composte. Impresse alla sua personalissima maniera d’interpretare un’accentuazione ritmica molto marcata, una modalità essenzialmente ballabile che fu sempre al centro della sua inquietudine interpretativa. Fu tra i fondatori della SADAIC l’organo creato per proteggere gli autori di tango. Roberto Firpo era nato nella località bonaerense di Las Flores il 10 maggio 1884. La sua famiglia di origine italiana, aveva avuto fortuna con il commercio ed egli giovanissimo volle tentare la grande avventura cittadina. Fece diversi mestieri. In una fonderia conobbe un tal Bacicca D’Ambrogio, sempre figlio di italiani, che faceva il fabbro ferraio e aveva una grande passione per la musica. Lo portò a casa sua per fargli ascoltare le lezioni di musica che gli dava il maestro Alfredo Bevilacqua, tra l’altro un ottimo pianista. Non passò molto tempo e Firpo prese la decisione più importante della sua vita: «Imparare la musica.» Aveva allora diciannove anni, Bevilacqua scoprì subito in questo ragazzo di poche parole un mirato talento musicale. A ventuno anni Firpo suonava già discretamente il pianoforte. Si esercitava molte ore al giorno dopo il lavoro. Cominciò a suonare nel quartiere della Boca, il quartiere dei genovesi e degli italiani in genere: erano tutti poveri, ma tutti amanti della musica. Non essendoci ancora né radio, né cinema, né tanto meno la televisione, la visita nei casini e nei caffè era quasi d’obbligo. Non era fatto raro che quei locali venissero frequentati anche da noti esponenti della malavita e che volassero coltellate e proiettili di vario calibro. È proprio in questa zona, dove Firpo strimpellava il piano, che erano di scena le orchestre di Canaro, Castriota, El Tano Gennaro, Greco e Villoldo. Quella era la culla del tango. Fu qui che Roberto Firpo studiò tango e iniziò le sue prime composizioni, fino a quando vinse un concorso e ottenne la direzione orchestrale del complesso stabile dell’Armenoville, il locale più alla moda, dove si suonava il tango. Era molto severo ed esigente nella scelta dei membri della propria orchestra. Fu con lui che il pianoforte diventò uno strumento indispensabile per ogni orchestra tipica. Con l’andar del tempo egli purificò notevolmente il proprio bagaglio musicale sino ad accostarlo a quello sinfonico. Ci ha lasciato dei tanghi stupendi come Sentimento creolo, Alma de bohemia, Toda la vida, Honda tristeza. Le due orchestre di Roberto Firpo e di Francisco Canaro furono per quasi mezzo secolo la scuola di riferimento del tango. In essa si formò la maggior parte dei migliori strumentisti. Oltre al loro immenso talento di compositori e di imprenditori si deve riconoscere a queste formazioni di avere assestato definitivamente la combinazione strumentale di questa manifestazione artistica che ancora oggi si distingue con vigore nella musica popolare universale.


Antonio De Marchi, mecenate, era un italiano di Pallanza nato il 25 agosto 1875. Non fu interprete né compositore, ma era innamorato del tango e non voleva che esso rimanesse prerogativa dei bassifondi. Voleva che la gente perbene lo conoscesse e imparasse ad apprezzarlo come esso meritava. La prima grande mano al tango De Marchi la diede durante una serata al Palais de Glace, malgrado i consigli contrari di alcuni amici. In tal modo la borghesia locale potè ammirare “de visu” quel ballo chiamato tango, che a Parigi già stava facendo furore. Un anno dopo De Marchi tornò alla carica e questa volta lo scenario fu un lussuoso luogo di Via Corrientes, il Palace Theatre. A Buenos Aires erano di moda i nomi francesi. In questa occasione era presente il fior fiore dell’alta società a cominciare dalla signora Esther Lavallac in Roca, suocera di De Marchi. Fu una serata indimenticabile nella storia del tango. Fu un successo strepitoso per le orchestre di Vicente Greco e di Francisco Canaro, i due figli d’italiani che da allora ebbero la porta aperta ai balli organizzati nei palazzi delle più facoltose famiglie della capitale argentina. Gobello dice al riguardo: «Il tango si era messo in tasca la cosiddetta Buenos Aires perbene, passando dal prostribolo alla garçonnière, dalla garçonnière a Parigi e da Parigi al Palace Theatre. E tutto questo grazie a un generoso e brillante italiano: il barone Antonio De Marchi.» La Guardia Nueva copre gli anni che vanno dal 1920 al 1940. Sono gli anni “dell’epoca d’oro del tango”. In quell’epoca i cabaret si moltiplicarono. I musicisti indossavano lo smoking e acquisivano una solida preparazione musicale che consentì loro di produrre una musica raffinata. Non solo in Argentina e in Uruguay, ma in molti altri paesi era il ballo alla moda. Le orchestrine di tango espatriate dall’Argentina cominciavano “a fare l’America”. La maniera di ballarlo eccitava la gente, e la gente continuava a ballarlo, a dispetto delle ondate di protesta di quasi tutte le corti europee e di tutti i centri di influenza religiosa del paese, perché immorale nei testi e surreale nel ballo. Il tango continuò a imporsi coinvolgendo persone di ogni genere. Enrico Caruso e Tito Schipa, due grandi tenori italiani, cominciarono a sentirsi attratti da questa musica e cominciarono a cantare tango. Loro chiedevano di farsi accompagnare sempre da musicisti italiani o di origine italiana. In più di un’opportunità Caruso disse che per lui il tango rappresentava la continuazione della canzonetta napoletana oltre oceano. Anche se melodicamente differente, si trattava di due generi malinconici nei quali il suolo natio, la madre, la donna amata sono motivi ricorrenti. Tra il ’20 e il ’30 continuò il processo di perfezionamento del tango principalmente sotto il profilo orchestrale. Già chi suonava a orecchio non era ammesso da nessuna parte. Fu in questo periodo che si definirono i tre pilastri del Tango: il ballo, il canto e la musica. Fu il momento in cui il Tango incontrò il poeta e la sua voce, trasformandosi in Tango canzone. Fu l’espressione della metropoli, i cui abitanti venivano alfabetizzati dalla scuola pubblica, che accettò che il Tango si affacciasse al Colon con l’orchestra di Pedro Maffia e l’adorabile voce di Rosita Montemar. Gli italiani furono i protagonisti assoluti sulla scena tanghera. Si affermarono le grandi orchestre. Direttori di orchestra, compositori oltre che virtuosi dello strumento furono Juan D’Arienzo, Edgardo Donato, Francesco Lomuto, Riccardo Tanturi, Angel D’Agostino, Carlos Di Sarli, Anibal Troilo, Osvaldo Pugliese e tanti altri, tutti nomi intramontabili della Grande Musica del Tango. Un nome a cui si lega una rivoluzione nella storia del tango è quello di Julio De Caro. Julio de Caro dette completa attuazione alle spinte innovative che già in precedenza erano state espresse da Osvaldo Fresedo, Enrique Delfino e Juan Carlos Cobian. Uno dei fattori per cui


l’opera di questo musicista ha assunto una valenza così determinante è stato la sua preparazione musicale realizzata attraverso severi studi accademici in conservatorio grazie a suo padre don José de Caro De Sica (lontano parente del nostro Vittorio De Sica). Egli era stato direttore del Conservatorio della Scala di Milano e si era poi stabilito nella capitale argentina, dove aveva avviato alcuni suoi figli allo studio della musica. Julio De Caro dette vita alla “escuela decariana”, che tracciava una linea di demarcazione tra la tendenza tradizionalista, chiamata anche Guardia Veja, e quella evoluzionistica o Guardia Nueva, la prima legata a schemi semplici di concezione musicale e di realizzazione strumentale, la seconda carica di fermenti innovativi destinata ad arricchirsi e a produrre i grandi capolavori orchestrali della seconda metà del Novecento fino a Piazzolla. Anche tra i poeti del tango che vedremo in avanti risaltano nomi italiani come Homero Manzi, Enrique Santos Discépolo, Homero Esposito, Enrique Cadicamo, José Maria Contursi. In effetti questa italianità rispecchiava la composizione della società argentina che per tre quarti era di origine italiana. Noto fra i protagonisti cantanti del tango fu Ignacio Corsini, idolatrato dai fan del tango, nato nella provincia di Catania. Erano i tempi di Augustin Magaldi, Alberto Castillo, il cui vero nome era Alberto De Lucca. Angel Vergas, la cui vera identità era José Lomio, Hugo del Carril, per l’anagrafe Piero Bruno Ugo Fontana, Susanna Rinaldi (la tana) Ada Falcon (Ada Falcone). La lista continuerebbe a lungo, tanto che tra i fan del tango si diceva “parece que el tango ye es solo ne asunto de Tanos” — sembra che il tango sia diventato appannaggio esclusivo degli italiani. Il tango arriva allo Zenit con il cantante Carlos Gardel. Carlos Gardel è un mito, il mito con il quale può identificarsi ogni argentino medio. È l’uomo che è riuscito malgrado le sue origini oscure. È colui che ignora da quale ceppo origina, la cui nascita resta misteriosa come succede per tutti gli eroi leggendari. Si potrebbe dire che la Guardia Nueva comincia con la prima incisione del sestetto di Julio De Caro e si conclude con la morte di Gardel.

La Guardia del Cuarenta e la Vanguardia Sul finire della seconda guerra mondiale fece capolino il jazz americano. Il jazz era già da alcuni lustri sulla scena argentina, ma divenne alla moda allorché rappresentò la voce della vittoria degli statunitensi nel secondo conflitto mondiale. Dopo aver pianto milioni di morti la gente voleva dimenticare tristezza e malinconia. Il jazz non era malinconico e triste e riscuoteva l’incondizionato favore della gioventù. Il tango sembrava relegato alle cantine. Erano in molti a osservare che la vivace musica statunitense stava mettendo la parola fine alla musica di Buenos Aires. Ma fortunatamente non fu così. Lentamente ma inesorabilmente il tango riemerse. La Guardia del Cuarenta si caratterizzò come una Guardia particolarmente creativa. Furono anni di instancabile ricerca, anni di grande ispirazione, lunghi periodi di gestazione che ci hanno lasciato sublimi creazioni: “i classici” della storia del tango. In questi anni, nelle grandi capitali che si affacciano sul Rio della Plata, Buenos Aires e Montevideo, si contano addirittura seicento orchestre. La rassegna dei grossi calibri di questi anni diventerebbe interminabile. Ci si limita a


coloro che hanno portato il tango al settimo cielo. Portano tutti un nome italiano. Juan D’Arienzo el rey del compas, il re del ritmo, gioca la carta del ritorno alle origini non dando spazio alle parole, ma privilegiando la massima ballabilità. A contribuire allo sviluppo di questa modalità ritmica era stato il pianista Rodolfo Biagi, a sua volta direttore d’orchestra e noto con il suo soprannome “manos brujas” (mani magiche). Quella di D’Arienzo fu in un certo senso l’orchestra stabile della baite Chantecler, una delle più famose di Buenos Aires negli anni Cinquanta. Le sue incisioni discografiche andavano a ruba. Carlos Di Sarli, el senior del tango, nasceva a Bahia Blanca il 7 gennaio del 1903. Il suo vero nome era Cayetano. Suo padre Michele, rimasto vedovo con quattro figli, lasciò l’Italia e approdò verso la fine dell’ottocento in Uruguay dove si sposò nuovamente ed ebbe altri tre figli. Si era trasferito a Bahia Blanca in Argentina quando nacque Cayetano. Fu il fratello maggiore a impartirgli le prime lezioni di musica. Studiò poi pianoforte al Conservatorio Williams della città natale. Fece la gavetta in alcune località dell’interno del paese, poi arrivò a Buenos Aires all’età di venti anni. Formò varie orchestre ma quella veramente importante cominciò a dirigerla nel 1949. Giunse così il successo a tal punto che in uno degli articoli dedicatogli dalla stampa il titolo era “Anima di tango, orecchio d’opera”. Da allora fino alla sua morte, Di Sarli non conobbe che successi; tutti lo volevano e lui faceva tutto: direttore d’orchestra, arrangiatore e pianista. Provò anche con la composizione lasciandoci due partiture stupende: Milonguero Vejo ballerino da sempre e Bahia Blanca dedicata alla città del cuore. Alfredo De Angeli e Angel D’Agostino: le orchestre che non conoscono flessioni. Alfredo De Angelis, musicista eccezionale, seppe interpretare come pochi il gusto del pubblico. Fu criticato dai cosiddetti gourmet del tango che lo ritennero troppo elementare nel suo fraseggio, ma fu idolatrato dal grande pubblico. Dove suonava la sua orchestra si registrava sempre il tutto esaurito. Anche durante gli anni quaranta quando la musica straniera prendeva piede l’orchestra De Angelis non perse mai popolarità, impose ai suoi pezzi una semplicità armonica che tutti capivano e apprezzavano. Angel D’Agostino nasce a Buenos Aires il 25 gennaio del 1900 e muore il 15 gennaio 1999. La sua lunga esistenza gli permise di seguire da vicino le varie epoche del tango: praticamente da Villoldo a Piazzolla. A soli tredici anni era già un esperto musicista e formò un trio con D’Arienzo e un certo Bianchi. Il suo percorso artistico si è intrecciato con musicisti di prima grandezza come Juan D’Arienzo, Anibal Troilo, Ciriaco Ortiz. Ma il maggior successo lo ottenne quando nella sua orchestra cantò Angel Vergas: un binomio che raggiunse il massimo della popolarità. Nel 1943 in un famoso concorso indetto da Radio El Mundo, a quel tempo la più importante d’Argentina, D’Agostino prese il primo premio superando le orchestre di Anibal Troilo, Juan D’Arienzo, Carlos Di Sarli, Lucio Demare, Osvaldo Fresedo, vale a dire “i mostri sacri”. Anibal Troilo: El bandoneon mayor de Buenos Aires Egli fu sinonimo di tango, di tango ben suonato. Fu uno dei musicisti più amati di Buenos Aires. Il padre, d’origine italiana, Anibal Carmelo Troilo suonava la chitarra e cantava. Rimasto orfano di padre giovanissimo ricevette da sua madre Feliza Bagnolo in regalo un bandoneon. Fu mandato giovanissimo a lezioni di bandoneon da un certo Juan Amandolaro. Le lezioni non durarono più di sei mesi perché dopo poco il maestro non aveva più nulla da insegnare. Sta di fatto che a soli undici anni e ancora con i


pantaloni corti Troilo iniziò la sua cinquantenaria carriera. Fece parte di numerosi complessi. All’età di ventitré anni, nel 1937, cominciò a dirigere la propria orchestra, che assieme a quella di Osvaldo Pugliese, fu la più importante nella storia del tango. L’orchestra da lui diretta dal 1937 e sino alla sua morte, che avvenne nel 1975, fu una vera e propria università del tango. Ne fecero parte i migliori interpreti in assoluto. Troilo fu un mito, forse l’ultimo. Oltre un artista eccezionale fu un uomo buono e generoso. La sua morte avvolse di dolore tutta Buenos Aires. Nel 1952 fu insignito del Microfono d’oro di Radio Badeurantes, in Brasile un premio per orchestre di elevatura internazionale, che aveva ricevuto in precedenza Maurice Chevalier. Immensa è la sua opera discografica. Fu un grande interprete, ma anche un grande compositore. Le sue partiture continuano a essere tra le più apprezzate e ricercate dagli amanti del tango. Sono considerate pezzi di antologia. Il grande merito di “Pichuco”, questo è il suo soprannome, fu quello di circondarsi di musicisti di valore. In verità lui seppe coordinarli, guidarli, plasmarli secondo la sua sensibilità e il suo gusto. Ha saputo coltivare sia il tango-cancion che quello strumentale con risultati altrettanto validi, sapendo contemperare le esigenze della musica con quelle dei ballerini. Il suo ruolo di intelligente guida musicale si è espresso con successo anche nei confronti dei cantanti che hanno lavorato con lui. Molto attento all’importanza della letra (il testo), come componente essenziale del tango, predisponeva per i cantanti un accompagnamento musicale per ottenere il meglio delle loro doti vocali. Osvaldo Pugliese: L’integrità totale Nasce a Buenos Aires nel 1905 e qui muore nel 1995. La sua lunga vita attraversa l’intero secolo. Fu suo padre Adolfo Pugliese, che arrotondava il suo magro salario suonando il flauto in un quartetto della vecchia guardia, a insegnargli i primi elementi di solfeggio e ad aprirgli quella strada che lo avrebbe portato al successo. Il giovane Osvaldo, taciturno, introverso e riservato mise subito in mostra le sue doti di pianista sotto la guida di due grandi maestri Vicente Scaramuza e Pedro Rubbione. Ancora ragazzino e come quasi tutti i principianti, suonò il pianoforte in accompagnamento alle scene dei primi film. A soli diciannove anni compose quello che è forse il suo capolavoro “Recuerdo”. Fece una lunga gavetta che lo vide collaborare in gioventù con Roberto Firpo, Pedro Maffia, Alfredo Gobbi, Anibal Troilo, Miguel Calò e Elvino Valdaro, da molti considerato il più grande violinista che il tango abbia avuto. Giunse tardi a formare la sua orchestra stabile, quando aveva circa trentacinque anni e aveva accumulato un’esperienza preziosissima. Nel 1939 con la sua orchestra tipica, inizia la grande carriera di Don Osvaldo, che finalmente può liberare la sua creatività e dare anche concretezza alle sue idee politiche; essendo di fede comunista, organizza l’orchestra come una cooperativa e come una cooperativa distribuisce i proventi del lavoro comune. È famoso l’aneddoto secondo il quale quando era costretto a subire il carcere, a causa delle sue idee politiche nei periodi più bui della storia politica argentina, i componenti della sua orchestra invece di sostituirlo si limitavano, durante i concerti, a posare un fiore rosso sulla tastiera del pianoforte. Fu il primo a portare il tango in Unione Sovietica e nella Repubblica Popolare Cinese. Osvaldo Pugliese può essere considerato insieme a Piazzolla, da lui fortemente influenzato, la punta di diamante della cosiddetta corrente “evoluzionistica”, iniziata dai fratelli De Caro. Francisco De Caro lo considerò portatore di una insospettata ricchezza musicale e il grande critico Sierra lo considerò il pianista creativamente e stilisticamente più importante in assoluto. Il Colon, il tempio sudamericano della musica classica e dell’opera lirica, vedrà l’apoteosi del tango con la straordinaria performance di Osvaldo Pugliese e la sua orchestra, il cui album sarà un’orma


memorabile nella storia del tango. Gli anni Quaranta si caratterizzano per una intensa collaborazione tra musicisti, poeti, cantanti, ballerini professionisti, impresari, una collaborazione che portò il tango a un livello di integrazione e di perfezione tecnica mai visti prima. I musicisti si distinsero per la solida preparazione, per lo spessore umano in un’attività di produzione, trasformazione, reinterpretazione di brani, che aprì alla musica del Tango possibilità infinite di evoluzione e di ricerca.

La Vanguardia si personifica con Astor Piazzola Nel decennio peronista il Tango diventa di nuovo il simbolo delle masse popolari. Ma con la caduta di Peron, nel 1955, il Tango viene messo da parte. La produzione artistica si arresta. Il Tango cerca una nuova identità. Nasce così la Vanguardia, un movimento che fomenterà polemiche e rifiuti. Astor Piazzolla fu, tra gli interpreti di tutta la storia del Tango, il più discusso e contrastato dai suoi connazionali. Piazzolla opera nella musica del Tango una rivoluzione: spinge più lontano l’autonomia della musica, che stacca volontariamente dalla danza elevando il Tango a livello della “grande musica”. Le orchestre di Tango preservarono la ballabilità del Tango, tuttavia esse cercarono sempre di equilibrare ballo musica e verso. Molta gente andava ad ascoltare musica del Tango nei caffè e nelle pasticcerie, dove non si ballava. È risaputo che nei club sociali, dove si ballava, i ballerini solevano fermare la danza per permettere l’ascolto strumentale. I tratti del Tango del ’40 segnalavano una continuità con il Tango precedente, quello della guardia vecchia e nuova e permisero un’interpretazione di continuità alla Vanguardia che non ruppe con il passato. La rivoluzione di Piazzola non va intesa come una crepa nella storia del Tango. La Vanguardia è caratterizzata “dall’arrangiamento”, cioè il trattamento musicale delle composizioni include non solo la concertazione degli strumenti, ma aggiunte e mutilazioni, con il risultato di una creatività che si serve di una musica di Scuola. Piazzola è un uomo di Tango. Egli esprime il nuovo portegno, il figlio e il nipote di quell’immigrato che si sentiva capito dai versi di Contursi. È probabile che le nuove generazioni dei portegni non si sentano capiti dalla musica di Piazzola, tuttavia siamo certi che di fronte a essa sperimentano non solo un piacere estetico ma anche quella vibrazione intima, quella dolce commozione, quella ferita gioiosa che producevano nell’anima dei portegni i tanghi di Arolas e di Grieco. Un musicista quasi quarantenne, Sebastian Piana, uomo della vecchia guardia che attraversa con disinvoltura la guardia nueva con le sue milonghe, s’impone nel 1940 con “Tinta roja” (1941): un brano che esprime l’essenza del Tango e la sua evoluzione, un compendio di tutto quello che il Tango è stato, dove impercettibilmente si accoglie un vecchio sapore assimilato da quei vecchi tanghi di suo padre, il tano don Sebastian, che suonava con fervore la sua chitarra nel 1908. Il Rio della Plata accoglieva i padri di questi insuperabili menzionati artisti del Tango, tutti di origine italiana. Buenos Aires accoglieva i geni dei loro figli, che trovano in questa città il fertile humus che darà vita ai capolavori immortali del Tango.


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