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Santa Croce: storia di una canzone Alessio Lega

Santa Croce: storia di una canzone

Alessio Lega

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Nato e cresciuto a Lecce vivo a Milano dal settembre del 1990. Fanno trent’anni, si allargano ben oltre la metà della mia vita, dato che ora ne ho 48. Lecce non ho mai smesso di frequentarla: feste comandate (come si dice), estati intere dapprima, poi sempre più spizzichi e bocconi di sole e di mare. Infine, col mio mestiere di cantore, ho preso a scendere ogni qual volta c’era occasione di suonare, non troppo per la verità, per l’adagio sacrosanto nemo propheta in patria credo di essere fra i pochissimi salentini insigniti di una Targa del Premio Tenco (per quel che riguarda la canzone d’autore, più o meno il Nobel), di sicuro l’unico ad averla ricevuta due volte. Ma Lecce non sa che io esisto, e forse ha ragione, sono pur sempre un emigrato, e di essere stati emigranti è necessario dimenticarsi. Io però non l’ho dimenticata, sicché ogni volta che passo da Lecce rovisto ansiosamente nelle librerie il reparto della letteratura e della storia locale. È così che mi ricostruisco una mia “patria” (no, non è una brutta parola, se non la si vuole imporre agli altri). Fu proprio in una di quelle occasioni - sarà stato il 2007 - che incorsi in uno smilzo librettino, poco più di un opuscolo, “Quei morti per pane e lavoro”. Ora - nel magno casino della mia libreria - non lo ritrovo, ma quel libretto raccontava - sulla base delle cronache dell’epoca - una storia che mi folgorò. Nel settembre del 1945, a pochi mesi dal 25 aprile 1945 (per convenzione il giorno della Liberazione) Lecce fu teatro di un eccidio di lavoratori, forse il primo (ahimè di molti) del dopoguerra. Tristissima premessa a Melissa, Portella, Avola, Battipaglia, ai numerosi omicidi mafiosi a danno di sindacalisti del sud… tutti rei di chiedere che la liberazione toccasse alfine ai grandi reietti dell’Unità: i lavoratori e i contadini del sud. Sappiamo come andò alla fine quella storia, che toccò ancora la provincia di Lecce con le lotte dell’Arneide: malissimo, e così si avviò la fase più intensa dell’emigrazione e l’abbandono del meridione al fatalismo e alla malavita organizzata. Ma io volevo e voglio dirlo a fronte alta: il mio popolo ha lottato e forse ha perduto, ma non si è arreso. La vera resa la vedo semmai oggi, che il torno di una sola generazione ha trasformato un popolo di emigranti in uno di razzisti. Ecco cosa volevo ricostruire, la storia di un orgoglio che oltre la pizzica e la puccia, oltre il barocco ed il mare, conosce il sangue e la passione, la sete di giustizia. Nessuno a Lecce mi sapeva dire nulla di quella storia, niente ne sapeva mio padre, mai ne avevo sentito nemmeno accennare dai miei nonni. Quei morti “per pane e lavoro” erano spariti, emigrati dalla vita, sommersi nel mare dell’oblio. I monumenti sublimi che avevano raccolto il loro ultimo rantolo - la facciata di Santa Croce che fa male per quanto è bella, e il più austero Palazzo dei Celestini col suo chiostro - tacevano ai turisti la verità profonda di quando la storia era passata di lì, rubando la vita ai cittadini affamati. Volevo scrivere una canzone che li ricordasse, e volevo che contenesse tutto il mio amore per la città, amore animato di coscienza. Ci ho messo anni ed anni, quasi dieci. Sapevo che avrei giocato tutto il testo incrociando la descrizione dei monumenti e la storia di quella tragedia. Avevo in testa l’ultimo verso “quanto sangue e quanto splendore hanno impastato la mia città”. Un giorno ascoltavo una canzone su un leader sindacale irlandese - James Larkin - e senza capirne una parola decisi che avrei modellato la melodia su quella. Dopo anni che quella storia mi girava in testa, alla fine i versi mi uscirono tutti insieme mentre cenavo da solo in un bistrot notturno a Aix-en-Provance, nel sud della Francia, dove ero arrivato in piena notte per cantarvi il giorno dopo. Pioveva freddo, ero lontano al buio e nessun odore o sapore mi ricordava il Salento… e forse fu quella la chiave per aprirmi un passaggio nell’anima e incontrare quei miei lontani concittadini, morti tanti anni prima, per la mia libertà.

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