~atropo romanzo~
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Collana Atropo Collana diretta da: Anna Matilde Sali Grafica: Gabriele Munafò, Sonny Partipilo Illustrazione di copertina: Paolo Castaldi © Copyright 2016, Eris (Ass. cult. Eris) © Domenico Mungo Eris (Ass. cult. Eris) via Reggio 15, 10153 Torino info@erisedizioni.org www.erisedizioni.org Prima edizione Giugno 2016 ISBN 9788898644261
genova (2001) per me…
… È stato uno dei momenti più significativi e intensi della mia esistenza. Avevo 25 anni e dopo una lunga parentesi nichilista e costruttivamente autodistruttiva, era nata in me una nuova energia politica. Sentivo la necessità di buttarmi nella società per capirla maggiormente e per provare a cambiarla. Dopo il “Punk” e la “Tekno”, iniziai a frequentare prima un collettivo universitario e dopo il Tpo (centro sociale bolognese), e questo fece scattare in me l’esigenza di attivarmi socialmente attraverso la mia passione: il video. Il contesto politico mondiale fu determinante: la crociata ottusa del neoliberismo, le multinazionali e i loro soprusi in nome del profitto, disegnavano una fine millennio non incoraggiante. Come critica a tutto ciò nacque quello che venne definito “il movimento no global”. Un movimento eterogeneo e variegato che cresceva ogni giorno di più. È strano pensare a quanto fossero lungimiranti le critiche che il movimento portava, soprattutto in
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materia economica, allora venivano derise ed etichettate come utopistiche o estremiste. Anche io all’epoca mi appassionai alle istanze di quel movimento e, passando per le chiacchierate con Alberto Grifi, l’entusiasmo per le nuove possibilità che la diffusione di internet offriva, approdai al progetto Indymendia. È con una fortissima voglia di essere testimone del mio tempo che andai a Genova, certo del fatto che ognuno doveva e poteva cambiare le cose partendo dalle proprie passioni. Evidentemente quella massa di persone che dicevano No!, fece paura a molti e qualcuno decise che a Genova si doveva dare un segnale forte. È stato un massacro, scioccante, che mi rimarrà dentro per sempre. Era oltre 10 anni fa e portavo con me la forza giovane di chi vuole cambiare le cose, tanta ingenuità e incoscienza. Quando ripenso a quei giorni di luglio mi sento quasi un miracolato. Sono passato indenne attraverso terribili avvenimenti, molto spesso sfiorandoli inconsapevolmente. Io, con una Sony Video8, mi trovavo davanti al carcere Marassi quando il blocco nero tentò di assaltarlo, una situazione potenzialmente pericolosissima qualora la Polizia avesse deciso di difendere il carcere (cosa che non accadde). Precedentemente sempre il blocco nero aveva tentato di assaltare un commissariato di Polizia e
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vidi un poliziotto all’ultimo piano dell’edificio puntarci la pistola addosso, non sparò. Dopo la carica di piazza Manin finii nella zona dove venne bruciata la camionetta dei Carabinieri e decisi di tornare alla sede del Genoa Social Forum, non sapendo che a pochi metri da me veniva ucciso Carlo. Il giorno dopo, sabato, sul lungomare le violentissime cariche della Polizia stavano spezzando il gigantesco corteo in due, io mi trovavo nella parte che poi sarebbe rimasta sul lungomare. Dopo essere finito in una nuvola di quei lacrimogeni fuorilegge sparati a grappolo, provai a farmi largo per scappare ma non vedevo niente, e la calca mi fece rimanere praticamente fermo. Qualche minuto dopo riuscii ad aprire gli occhi e vidi il fronte della Polizia, tra la nebbia, avanzare a pochi metri da me. A quel punto avevo due scelte: o arretrare, oppure infilarmi in un cespuglio che dava sulla spiaggia. Sembrava un ottimo nascondiglio… Tentennai per un attimo e poi decisi di arretrare. Qualcun altro pensò di nascondersi in quel cespuglio, fu massacrato di manganellate… Quando, i giorni dopo, vidi quello che la Polizia era riuscita a combinare su quel lungomare, mi si gelò il sangue. E ancora, dopo questa carica decisi di tornare alla sede del Genoa Social Forum che si trovava di fronte alla famigerata scuola Diaz. Dopo aver fatto
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due chiacchiere con alcuni amici, mi addormentai sul marciapiede della via tra le due scuole, stordito dai lacrimogeni. Nel cortile della Diaz c’era una cassa con la musica e vedevo gente con i sacchi a pelo entrare… Per un attimo mi sfiorò l’idea di andare a prendere il mio sacco e sistemarmi in quel posto che appariva molto accogliente. Poco dopo, vedendo andare via altri amici mi unii a loro per andare verso Brignole a prendere il treno: in viaggio ci arrivò la notizia del massacro che stava avvenendo alla Diaz. È sconcertante pensare come una decisione o un cambio di programma fortuito possano incidere sulla tua vita. Molti, moltissimi non sono stati fortunati come me e voglio raccontare una delle loro storie. Genova 2001 per me rappresenta la disillusione, la fine della “giovinezza”, il mondo che ti dice: svegliati! Smetti di sognare! E lo fa con uno schiaffone fortissimo… Oggi a distanza di 10 anni voglio raccontare l’esperienza di chi è tornato da Genova con delle ferite ancora non rimarginate, per capire un po’ di più, per metabolizzare e per ricominciare a sognare. Danilo Monte ottobre 2011
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Ottopunti è un documentario su Timothy Ormezzano, una delle tante vittime del G8 di Genova 2001. Timothy, insieme al regista Danilo Monte, 11 anni dopo il G8 torna a Genova per raccontare la sua vicenda. È la storia di un ragazzo che vuole cambiare il mondo e per questo viene massacrato di botte. Ma è anche la storia del rapporto con un padre che attraverso un trauma scopre un figlio che forse ancora non conosceva. Entrambi incontrano i genitori di Carlo Giuliani, il giovane ragazzo ucciso a Genova durante la manifestazione, e capiscono l’importanza del “fare memoria”.
Danilo Monte è nato a Casoria, Napoli, e vive a Torino. Lavora come regista nella società di produzione VideoTank di cui è socio. Autodidatta, sensibile alle tematiche politiche e sociali, utilizza il mezzo audiovisivo per interpretare la realtà e tessere relazioni. È regista, direttore della fotografia e montatore. Ha realizzato numerosi film, tra cui: Siamo fatti così di aa. vv. (2004), distribuito dalla Manifesto Libri, documentario sul proibizionismo in materia di stupefacenti, con la partecipazione di “Roberto Freak Antoni”; Gara de Nord (2006) di Antonio Martino, di cui ha curato il montaggio, documentario sulla situazione dei bambini di strada di Bucarest vincitore del Premio Ilaria Alpi nel 2007; Provini d’amore (2008) di Danilo Monte e Zucco, divertente rivisitazione aggiornata di Comizi d’amore di Pierpaolo Pasolini; Heroes and Heroines (2011) di Danilo Monte e Filippo Papini, una giornata nella moderna metropoli medievale, Kathmandu, vincitore del premio Italia.doc al Salinadocfest 2011.
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luoghi di oggi, suoni di ieri, parole per domani Pensieri e parole di Timothy e Giampaolo Ormezzano, Danilo Monte, Haidi e Giuliano Giuliani genitori di Carlo
Danilo: «... Ricordo una frase di Terzani a proposito dei suoi viaggi nei luoghi più caldi dell’Asia... Diceva che quando andava in questi posti sentiva la “storia”, anche noi siamo andati a Genova per fare la “storia”, c’era un’energia che avvolgeva tutti e tutti pensavano che attraverso la critica si potessero cambiare le cose...». Timothy: «Mi sembrano un po’ cristallizzati quegli eventi... Però c’è appunto sempre quest’aria pesante, sembra questa difficoltà a respirare e a sorridere in questa città per me... E non me la toglierò mai...». Giampaolo Ormezzano (padre di Timothy): «... Dopo di quello noi ci siamo, se è possibile, legati ancora di più... Direi che ci vogliamo più bene dopo il G8... Se tecnicamente è possibile incrementare questo bene...».
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Giuliano Giuliani (padre di Carlo): «... “Memoria” è non rinunciare a riconoscere i granelli, è raccoglierli uno a uno per ricomporli in un puzzle, “memoria” è non rassegnarsi al presente, è ricominciare a pensare globale e agire locale, è raccontare le moltitudini con le voci dei singoli, “memoria” è nominare la morte in tutta la sua enormità e dare spazio al lutto individuale, incancellabile e nudo...». Haidi Giuliani (madre di Carlo): «L’energia di cambiamento la dovete trovare dentro di voi e in quelli che vengono dopo... Spesso incontriamo ragazzi e ragazze che nel 2001 non avevano ancora 10 anni… È a loro che dobbiamo parlare!».
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A mio Padre a mia Madre a Eva a Carlo e a tutti i ragazzi di strada.
«Ci sono uomini che lottano un giorno e sono bravi, altri che lottano un anno e sono più bravi, ci sono quelli che lottano più anni e sono ancora più bravi, però ci sono quelli che lottano tutta la vita: essi sono gli indispensabili.» Vita di Galileo, Bertolt Brecht
Genova sembra non finire mai. Ma è un’illusione. Genova, come ben sanno i viaggiatori di Baudelaire, che viaggiano per il viaggio e non per la meta, ha un inizio e una fine. Indeterminate, confuse, incastonate l’una nell’altra dopo aver disciolto il cielo e la roccia dentro il mare. All’improvviso. Dal nulla. Nel nulla. Come il nulla da cui arrivano le storie che ho sentito e che ho visto. Che ho vissuto. Sì, lo confesso. Che ho vissuto. E che vi racconto. Storie che tracciano un confine netto. Fra la verità e l’oblio. Fra la giustizia e il resto. Fra la vergogna. E la vergogna. Indignerò qualcuno, e molti farò ritornare all’incubo. Io stesso l’ho fatto. Riemergendo da me stesso con un respiro profondo per non morire d’embolia. Sono storie vere, semplici. Storie di lacrime, sangue, cicatrici, limoni, obitori e macellerie.
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rivolta di spiaggia Né con lo Stato, né con le tute bianche a cura degli Anarco ciclisti
Alla società anticivilizzatrice; al Comitato interNazionale per il disOrdine e il Kaos; al Ministero della Difesa e salvaguardia delle tute bianche – Capo di Stato Maggiore: Casarini Luca; a chi lotta quotidianamente contro il potere; a chi viaggia senza biglietto; a chi mangia & fuma ciò che coltiva; a tutti i detenuti nei campi di sterminio statali; a chi vuol divertirsi senza pagare; a chi non ha una casa; a chi non ci ha voglia di lavorare; a chi colora i muri i vagoni i bus; a chi libera gli amici-animali dagli allevamenti; ai giocolieri innamorati; a tutti quelli che vogliono autogestirsi giocare ballare pulsare puzzare; gridare ridere baciare creare rotolarsi desiderare cercare & muoversi come gli pare & piace. Dichiarazione di guerra alle tute bianche e alla loro inutilità. Apprendiamo da fonti giornalistiche italiane che le tute bianche hanno deciso in una riunione svoltasi il 26 maggio 2001 a Genova, Italia, Pianeta Terra,
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di dichiarare formalmente guerra alle moltitudini di fratelli e sorelle che confluiranno a Genova durante il vertice del G8 previsto per luglio. La scelta di usare le vostre forze armate e i corpi tutati contro l’umanità, vi rende più vicini ai vostri alleati (sbirri, digos, giornalisti) che dal Sud al Nord del mondo quotidianamente uccidono, affamano, perseguitano chi non accetta lo sfruttamento del neoliberismo. In ogni parte di questo pianeta i vostri militanti intervengono con arroganza contro le idee e i sogni di un mondo diverso, un mondo che contenga molti mondi. Il mondo che voi volete imporre nella vostra riunione di Genova è un mondo unico, dove esiste un pensiero unico, dove l’unica ideologia sia quella del tutto, dei media, del marketing e dell’immagine. Il vostro mondo è un impero, voi gli imperatori, miliardi di esseri viventi semplici sudditi. Dalle fogne di questo impero, dai molti mondi che resistono e crescono con il sogno di una esistenza migliore per tutti, oggi, noi, piccoli sudditi ribelli, vi dichiariamo formalmente guerra. Una scelta che voi avete provocato, perché noi preferiamo colpire il potere, è una decisione che per noi significa sfidare la vostra arroganza e la vostra stupidità, ma siamo obbligati a farlo. Un obbligo tentare di fermarvi, perché finisca l’ingiustizia.
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Un obbligo dare voce ai fratelli e sorelle che in tutto il pianeta soffrono a causa vostra. Un obbligo non cedere alla paura dei vostri pigiamini e alzare la testa. Un obbligo perché solo per obbligo noi dichiariamo le guerre. Ma se dobbiamo scegliere tra lo scontro con le vostre truppe in pigiama bianco e la rassegnazione, non abbiamo dubbi: ci scontreremo. Vi annunciamo formalmente che anche noi siamo scesi sul piede di guerra. non saremo a Genova, e il nostro esercito di sognatori, di poveri e bambini, di indios del mondo, di donne e uomini, di gay e lesbiche, di artisti e operai, di giovani e anziani, di bianchi, neri, gialli e rossi, disobbedirà alle vostre imposizioni. Noi siamo l’esercito nato per sciogliervi, ma solo dopo avervi sputato in faccia. Oggi noi diciamo «Ya Basta Cazzate!», Genova è solo l’ennesimo evento mediatico, un adesivo da attaccare sull’auto del prete, un viaggio gratis sul global express, una foto col passamontagna per l’album dei ricordi, vecchi slogans del cazzo da urlare a squarciagola; praticamente un raduno di boy-scout!!! La manifestazione contro il G8 non sarà di alcun disturbo ai potenti, che dall’alto dei loro blindatissimi palazzi si sentiranno ancora più intoccabili e godranno nel vederci massacrati dai loro
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servi. Proponiamo ai Rivoluzionari e Libertari di non andare a Genova, ma di protestare contro il G8 nelle province, città, paesi, colpendo i simboli del potere che più vi stan sul cazzo, nelle modalità che più vi aggradano! Noi ce la prenderemo con prefetture, questure, comuni, vigili urbani, sedi di partito, chiese, mcdonaldz, banche, campi di coltivazioni transgeniche, allevamenti e quant’altro ci provochi repulsione. Speriamo che i tuti bianchi si trovino da soli a Genova ad affrontare, in diretta televisiva, la loro guerra. Costellazione di Okuto, 6 – VI – 001 Comitato interNazionale per il disOrdine e il KAoS Come entità a/narco-ciclabili aggiungiamo e ri/ lanciamo: noi sottoscritti (un sacco di bestie) in numero (un fottio), contro la logica del muro contro muro; contro la grande Zona Temporaneamente Autonoma Repressiva che verrà costruita a Genova; contro “i Potenti della Terra” che decidono e per decidere si barricano e barricando soffocano tutta la città; contro il delirio positivista del controllo che vuole bloccare il tempo fissando lo spazio; contro le auto e i carriarmati; contro gli autobus dei celerini, contro i tailleur delle first lady che non possono venire perché la merda (rigorosamente umana) sul rosa confetto stona; contro radio/tele/giornalisti che
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non riescono a vivere i loro desideri e li sublimano in incubi di plasma-infetto; contro i servizi segreti (che tutti sanno cosa fanno ma poi tutti li ascoltano lo stesso); contro la Logica del Fare, stakanovisti bianchi rossi neri azzurri o a pois; Decretiamo lo stato di felicità permanente: per un (a)normale svolgimento del flusso spazio/tempo; per noi; per voi; per migliaia di Zone Temporaneamente Autonome di creatività; per la sovversione semiotica; per le nostre allucinazioni; per le nostre biciclette; per le vostre biciclette; per dada; per i varchi dimensionali; per l’inattività; per i Tempi e gli Spazi che ci prendiamo; Decretiamo lo stato di felicità permanente: aggiungendo: contro il G8 di Genova per decretare lo stato di felicità permanente. Considerando: che abbiamo già ottenuto il nostro scopo, cioè quello di far rinchiudere i potenti del mondo in una galera (la zona rossa, con tanto di sbirri che controllano chi entra e chi esce); che abbiamo già bloccato la città, mettendola nel caos più completo; che abbiamo fatto spendere al governo dimissionario e a quello che a breve entrerà in carica, più soldi che se avessero dovuto sfamare tutta l’Africa nera;
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Proponiamo: non andiamo a Genova, bensì a Varazze, in spiaggia, tutt’e 100.000, a fare la più grande festa/taz/indianata della recente storia italiana; portando, dichiaratamente, tutte le sostanze psicotrope conosciute (e magari qualcuna sconosciuta); portando ettolitri di vino e quant’altro di alcolico; portando tutti i prodotti bio/logici pro(e)dotti dalle comuni/tà di compagni sparse per il paese (Urupia ecc.); portando chitarre, bonghi, violini, fisarmoniche, tamburi, zampogne, pianoforti, grancasse, sound-system e quant’altro si voglia portare che faccia rumore di felicità. Per decretare lo stato di felicità permanente: la più grande festa orgiastico-freackettona di inizio millennio, alla faccia dei grigi potenti della terra, in galera, l’unica galera che noi approviamo.
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g1: italia premiata macelleria diaz
I ragazzi della scuola
Soundtrack: Psyco Killer, Talking Heads, 77, Sire Records, 1977. Via Battisti 21, Genova, sabato 21 luglio 2001, notte.
La polizia arriva al Media center, fa irruzione. Picchia, distrugge, porta via persone trascinandole per terra, sequestra tutto quello che trova. Decine i fermati e i feriti. «Un massacro», dicono al telefono i primi giornalisti accorsi. «Un massacro», confermano dal Genoa social forum. «Un massacro», dicono i parlamentari. Ritirata dal media center: dentro restano i manifestanti, fuori la polizia ad assediarli e gli elicotteri che volteggiano. Sul media center come sulla scuola Diaz: il complesso dove alloggiano i manifestanti, dove hanno sede le associazioni del Genoa social forum. Fuori dalla scuola ci sono un pullman e sette blindati dei Carabinieri, dentro ci sono un centinaio di poliziotti 25
che mettono tutto a ferro e fuoco. Perciò servono le ambulanze che arrivano a ripetizione, a sirene spiegate. Le prime, anzi, erano già appostate in silenzio. Alle ore 1:30 ne saranno partite una ventina. È tutto finito, cortei e contestazioni. Perché l’attacco proprio ora? Perché le vendette si organizzano a freddo. Anzi le mattanze. Quelli a cui è andata peggio escono in barella: una ventina al primo giro. Ce n’è uno che ha un pezzo di legno piantato nel braccio, altri con teste fracassate, i nasi rotti non si contano. Tutte le vie di uscita dalla zona sono sbarrate. Centinaia di agenti presidiano chi si stava dirigendo verso la stazione, per non farlo tornare indietro. Sopra la zona del media center e delle scuole Diaz l’elicottero continua a indicare il rastrellamento cileno. Ormai la zona è assiepata di giornalisti e parlamentari che si trovavano ancora a Genova. Nessuno viene fatto passare: una parte dei manifestanti è ancora nelle aule, atterrita, mentre la polizia le dà la caccia. Una vecchia scuola, inscatolata da un’arrugginita cancellata verde. Una palazzina bianca come un sudario, anche di notte, al buio. Probabilmente è il buio che la fa risaltare, ancora più vitrea e surreale, asettica e onirica come il bagliore intermittente che si riflette sulla facciata.
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Ma non è un sogno. È solo il preambolo dell’incubo della democrazia. Sinistro il blu cobalto che sgorga dai lampeggianti, prima dei cellulari sopraggiunti sul luogo per scortare i legionari di Stato e poi delle ambulanze, giunte per recuperare i massacrati e i sommersi. Le pale degli elicotteri fendono l’aria. Illuminano e squarciano il ventre del cielo. Perseverando in quel sottofondo continuo e onnipresente delle giornate che avevano condotto fino al cancello delle scuole Diaz. Un giardino spoglio, qualche albero che delinea il confine con delle ville private, una casa di cura e le palazzine bianche con le persiane verdi. Quelle palazzine che a Genova vedi ovunque. La scuola è ornata dalle impalcature dei lavori di ristrutturazione. Uno scheletro illuminato. Spettrale. Inerte e indifeso. Erano arrivati così, alla spicciolata. Erano circa le 11. Sagome scure. Terrificanti. Battaglioni interi di aguzzini. Hanno incominciato a fare rumore, a vociare. Urlavano impazziti, rabbiosi, furibondi. A decine e decine. Come un fiume che tracima
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schiuma e rabbia inarrestabile. Blu e neri. Con caschi di granito e bastoni di marmo. Da un lato gli spettatori allibiti, increduli. Decine di testimoni irrigiditi. Videocamere e macchine fotografiche spianate. Ci sono anche i registi popolari, i programmatori della cultura di RaiTre, i documentatori dello sgomento di domani. Telefonini che chiamano altri a vedere. A ricordare. A registrare. Ma che non possono fermare lo scempio. Possono solo testimoniare. Da un lato testimoni, si diceva. Dall’altro mattanza. Tonnara di carne umana. Macelleria a basso prezzo. Capi dell’antiterrorismo, della Digos, dei servizi operativi centrali con i loro radioloni impugnati come antichi corni a fiato dal timbro più grave di un oscuro oboe, che gracchiano ordini e comunicazioni, con le orgogliose fasce tricolori indossate a tracolla, coordinano, indirizzano, decidono, avallano. La strada, via Battisti, è stata chiusa da due ali di automezzi pesanti, lugubri, con i fari spenti, pronti a ricevere chilogrammi di carne maciullata. Disossata. Dilaniata. Corollario all’omertosa coscienza di casta. Reparti di Carabinieri, Celere di Roma, reparti speciali, Digos, dirigenti e manovalanza assortita da tutta Italia.
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Hanno sfondato il cancello con una camionetta. Con la violenza che un manganello fa quando sfonda un cranio impaurito. Con lo stesso rumore secco e privo di espiazione. Caschi blu e protezioni da guerra di piazza. Saranno duecento. Forse di più. Scudi imbracciati e manganelli a ruotare affamati di carne umana. Fazzoletti sul viso a celare, occhi che tracimano smania omicida da dietro le visiere. Si vedono solo gli occhi, infatti. Ma non tradiscono emozione. Volti coperti che urlano e fremono eccitati. La preda è lì, a pochi metri. Protetta solo da un portone che cede sotto la pressione. I vetri si polverizzano in migliaia di frammenti nel fragore che esplode. Hanno scalato i tre gradini. Hanno sfondato la porta urlando tre volte «Polizia!!!». Dentro. Il capo davanti. Tutti quanti gli altri dietro. Nel buio. L’atrio della scuola, abituato a essere calpestato e attraversato da giovani corpi in cerca d’istruzione, di sapere, di conoscenza, di civiltà e cultura, ora è il passaggio di un esercito di anfibi pesanti che calpestano e scalciano di nuovo, come qualche ora
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prima scalciavano e calpestavano corpi lungo la sciarada di lacrime sull’asfalto rovente di Genova. Un’anabasi verso l’orrore. Alcuni sono ancora insozzati dal sangue che non ha fatto in tempo ad asciugarsi, a raggrumarsi, per potersi dire stantio. Alcuni irrigano di nuova linfa rubra il dolore che ancora sfiatava dal cuoio aguzzo come una lama. I tabelloni con gli elenchi degli scrutini riflettono dalle teche la marmaglia in divisa che maramaldeggia sui deboli ignari. E ancora non si placano. Avanzano inseguendo le scale che conducono verso improvvisati bivacchi notturni. Di sacchi a pelo accovacciati che contengono ragazzi da smembrare. Non sono le body bags! Sono sacchi a pelo! Contengono i vivi, non i morti che volevate! Un altro morto ancora e ancora e ancora, ancora di più di quello che fu venerdì! Ricordate? Quel burattino di carne? Quello che fu venerdì. In piazza Alimonda! Quanti di voi che correte rabbiosi su per le rampe, svaligiando le stanze, irrompendo nell’anima prima che nel corpo di vergini e infanti dai capelli colorati, osservavano il cadavere venerdì? Quanti di voi?
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Smettete! Fermatevi! Le urla agghiacciate di chi vede dall’altro lato della strada, dalle finestre inviolate del Media Center. Non sono body bags, sono solo dei sacchi a pelo! Servono per dormire, non per morire! Smettetela ancora e ancora! Forse in molti non se lo ricordano, ma a Genova, oltre il buio, c’è il mare. Erano già tutti e 93 sdraiati per terra. Alcuni ancora trafficavano con i computer e i fax. C’era da dire, documentare e raccontare su quello che era appena stato. Sui giorni dell’ira solcati dai lacrimogeni e dall’acido citrico di inutili limoni da ipermercato. Hard disk gravidi di voci, immagini, parole, per non dimenticare nulla. Per non minimizzare, per non seppellire nell’oblio revisionista del poi. Bisognava dire. La carica è infame. Travolge e sommerge come il fango di un’alluvione. Ma è più dolorosa. Non uccide in silenzio. Lo fa mentre urla di violenza e disprezzo. Alcuni fra i martiri ignari con i telefonini gridano «Help!». Verso il mondo là fuori. prensa! prensa!
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Invano. Ma il grido si strozza nell’etere. Urla di guerra. Gutturali come ululati primordiali. Le divise non frenano il cattivo selvaggio. Anzi lo aizzano come si fa coi cani da guardia liberati dal giogo. Vi ammazziamo tutti! Comunisti e anarchici di merda! Vi ammazziamo tutti! Terroristi di merda! Puzzate, schifosi, puzzate come bestie da macero. Polmoni perforati dalle loro stesse costole spezzate come fiammiferi di peltro. Milze spappolate. Denti che volano in aria o mordono la pietra. Teste spaccate che penzolano. Il pavimento di pietra con le mattonelle a chiazze si ingombra di sangue rappreso, grumi di cervello che escono dal naso. È una scuola. Sembra un mattatoio. È una palestra. Sembra un inferno dantesco. È un laboratorio. Sembra un obitorio di vivi. È una latrina. Qualcuno ci ficca la testa di altri con forza e violenza fino a farla rimbalzare sul termosifone di ferro battuto. Nel lavandino un rivolo di sangue gorgheggia e scompare.
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L’elicottero fa cerchi concentrici illuminando il massacro. Sembra quasi che voglia avvisare tutta la città di ciò che sta accadendo. Ma ormai lo sapranno tutti, di sicuro. Di là della strada si vede ciò che si riesce. Le finestre illuminate, lasciate spalancate per sconfiggere il caldo di un luglio che arde anche se piove, consentono di vedere intermittenti, interminabili, eterni, fotogrammi d’orrore. Una donna urla, lunghissimo e lancinante stridere. Era lì per dormire. Una giovane tedesca. Domani c’è il treno. È domenica, si torna a casa. Pensava prima del primo colpo furioso. I vetri delle finestre vengono infranti dall’interno. Qualcosa vola giù nell’aria buia, lievi come i coriandoli a Natale o simili alla cenere dopo un’eruzione vulcanica. Oggetti comuni, intimi, privati. Pacchetti di sigarette. Magliette. Penne biro. Libri di filosofia e di poesia. Sacchi a pelo violati. Strappati. Svuotati. Esanimi. Tutto si accumula in un lago di sangue. Marmellata cerebrale impiastricciata sulle mattonelle, sui sifoni, negli angoli più improbabili. Scie
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di sangue disegnano percorsi di fughe mai terminate. Come le tracce lasciate dalla selvaggina braccata dai lupi. Senza speranza se non la disperazione. Quattro poliziotti fra i cento del branco, due con cintura bianca e gli altri in borghese, infierendo su esseri umani inermi a terra, continuano la mattanza anche all’ultimo piano. Al buio flebile di una torcia elettrica. Sembra una macelleria messicana. Nella sala dei computer, per terra, una ragazza con la testa rotta in una pozza di sangue. «Ma perché lo avete fatto?» chiese un lustro dopo un magistrato ripresosi dal torpore a un funzionario di Polizia presente all’assalto. «Io so solo che quella notte dovevamo fare qualche cosa, dovevamo reagire a quella cosa che era durata tre giorni nelle strade di Genova. Avevamo una strana euforia selvaggia nella testa. Eravamo un poco pressati, eravamo, come dire, condizionati. E decidemmo di intervenire, e così operammo». Semplice, no? «Il cancello si apriva in continuazione» racconta il poliziotto «Dai furgoni scendevano quei ragazzi e giù botte. Li hanno fatti stare in piedi contro i muri. Una volta all’interno gli sbattevano la testa contro
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il muro. A qualcuno hanno pisciato addosso, altri colpi se non cantavano Faccetta nera. Una ragazza vomitava sangue e le kapò dei Gom la stavano a guardare. Alle ragazze le minacciavano di stuprarle con i manganelli.
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