Io non sono come voi - Marco Boba

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~atropo romanzo~



~atropo 路 narrativa~ 14




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Collana Atropo Collana diretta da: Anna Matilde Sali Grafica: Gabriele Munafò, Sonny Partipilo Illustrazione di copertina: Rocco Lombardi © Copyright 2015, Eris (Ass. cult. Eris) via Reggio 15, 10153 Torino info@erisedizioni.org www.erisedizioni.org Prima edizione Ottobre 2015 ISBN 9788898644162




Ci sono troppe persone che meriterebbero una dedica per cui lo farò personalmente e a penna, però un pensiero va a chi non c’è più, per non dimenticare. A tutti quelli rinchiusi, che spariscano gabbie e galere.



Capitolo 1

17 sui – il seguire Il seguire ha sublime riuscita propizia è perseveranza. Nessuna macchia.

Autunno 2002 «E poi?» proprio come avrebbe detto Noemi… Poi sono salito su questo treno che ora corre veloce, verso dove? Non lo so ancora, non esattamente, il biglietto che ho è per Milazzo, comunque, per me l’importante è andar lontano! Salito sul treno ho subito sentito il rumore delle porte che si sono chiuse sbattendo, l’acuto del fischio del capotreno, il segnale dell’imminente partenza. I freni che si allentano mi hanno fatto perdere l’equilibrio, quasi cadevo, ho ancora il fiatone per la corsa fatta per arrivare in tempo e riuscire a partire. Un gran respiro per riprendere fiato e incomincio a cercare un posto libero in qualche scompartimento. Nel primo: un uomo di mezz’età con ’sta faccia noiosa, privo di personalità, certamente non interessante

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come compagnia, andiamo avanti. Minchia due suore, lasciamo perdere, anzi via! Queste due sono da evitare come la peste. Proseguiamo... Vediamo chi c’è qua... Una coppia sui venticinque anni, facce troppo pulite, probabilmente studenti, sicuramente di sinistra e certamente democratici…Via! Qui vuoto, bene! Dai Ciccio entra, liberiamoci le spalle dallo zaino, per ora lo lascio sul sedile, mi siedo di fronte e gli metto le gambe sopra, non si sa mai! Potrei addormentarmi. Chiudo gli occhi, tirando la testa all’indietro espirando, e mi tranquillizzo, anche il mio respiro si fa più calmo e regolare. Rimango così qualche minuto, col cervello spento, prestando attenzione solo allo sferragliare del treno sui binari, al rumore diverso che si sente passando sopra gli scambi. Nelle narici ho l’odore tipico dei treni, me ne riempio i polmoni con gusto. Mi è sempre piaciuto, sin dall’infanzia: mi ricordo viaggi lunghissimi, quanto mi piacevano i treni, come a tanti bambini del resto, ero proprio piccolo quando eravamo in vacanza e papà mi portava alla stazione di Siderno. Aspettavo con frenesia lo scampanellio che annunciava il treno, restavo incantato a guardare quei vecchi vagoni, alcuni avevano ancora i sedili di legno, li vedevo arrivare da lontano e li seguivo con lo sguardo mentre ripartivano per sparire lungo i binari, non volevo mai andare via ed erano sempre discussioni per tornare a casa. 12


Apro gli occhi, guardo oltre ’sto vetro sozzo e cerco di capire in quale punto della città mi trovo, di sicuro sto andando verso sud, il treno sta rallentando per fermarsi nell’altra stazione cittadina, l’ultima verso il mezzogiorno, Lingotto. Non è salito quasi nessuno, non che mi interessi e neanche stavo guardando, solo non voglio compagnia in questo momento. Il tempo di un’unghia rosicchiata e il treno è di nuovo in movimento, ha già preso velocità. Oltre il finestrino la città finisce, si allontanano anche i paesi dell’hinterland, adesso ci sono solo il buio e il nulla, qualche sporadica luce nella notte della pianura, con un po’ di foschia, forse sta segnando l’arrivo dell’autunno ma neanche questo mi interessa. Mi alzo ed esco dallo scompartimento per andare nel corridoio a guardare il buio dall’altro lato. Dopo un po’, stufo di quel nulla, mi giro iniziando a guardare nello scompartimento dove c’è la coppia. Li osservo. C’è differenza tra me e loro, potrò avere pochi anni in più, sei o sette al massimo, ma percepisco l’abisso che ho nei loro confronti e che me li rende totalmente distanti, veniamo da mondi diversi. Mi accorgo che la ragazza mi sta guardando, anzi mi sta proprio fissando, conosco bene quel tipo di sguardo. E io ricambio l’occhiata, hai visto com’è intenso il mio guardarti? Però mi volto e rientro nel mio scompartimento, sorrido 13


soddisfatto. Mi piace piacere. Sono consapevole di avere fascino, non so cosa di me piace alle donne. Non sono alto, non ho quel tipo di bellezza che colpisce al primo sguardo, un bel ragazzo ma niente di speciale. Così mi vedo. Guardo la mia faccia riflessa nel finestrino: lineamenti un po’ spigolosi, testa tonda e volto allungato con un mento sfuggente. Occhi chiari, azzurri… Come il cielo d’estate, così mi canzona spesso una mia amica... «Hai lo sguardo penetrante, intenso e che ti legge dentro quando ti guarda veramente» queste sono parole che mi sono sentito dire qualche volta, ovviamente non sempre identiche ma simili nel senso, pronunciate in momenti differenti e da più ragazze con cui sono stato. Ripenso allo sguardo della ragazza di pochi minuti prima, sorrido e scuoto il capo. Mia cara bella castana, ma sei castana? Non riesco a mettere a fuoco il colore dei suoi capelli. Ma, comunque non ce n’è, proprio non ce n’è per te, resta con quel gaggio che ti porti appresso perché cara mia stasera non ce n’è! E non perché stai già con qualcuno, non è mai stata una pregiudiziale per me, ma perché ho smesso di pensare con l’uccello! O quasi... Certo ogni tanto ho delle ricadute, sempre meno. Forse stare con Nicoletta è stata una di quelle cadute... Ma non stasera... Già me lo vedo questo film, una bella scena dove io e te, cara la mia vicina di scompartimento, trombiamo in treno. Mi ci immagino in que14


sto scompartimento semi buio, illuminato solo dalla piccola lampadina di servizio, le tendine verso il corridoio tirate e te sdraiata sui sedili a pancia sotto che ti fai prendere da dietro. Non mi è neanche venuto duro, zero eccitazione, manco un pochino eccitato, forse è un brutto segno, sarà lo specchio del mio stato d’animo. Quanti anni fa è stata? L’unica volta che ho scopato in treno, è stato davvero tanti tanti anni fa, stavamo tornando da Lione, era pure in pieno giorno, è stato tanto tempo indietro, prima di tante cose, parecchie vite prima, quando ero anche più giovane dei ragazzetti qua accanto e stavo con quella matta di Lea, chissà che fine ha fatto... Mi addormento, tenendo i piedi allungati sullo zaino. Quando riapro gli occhi lo vedo, qualcuno mi sta guardando: un ragazzone poco meno che trentenne, anche da seduto si intuisce la sua statura, spalle larghe, piuttosto tonico. Inarcando le sopracciglia lo fisso negli occhi con un mezzo sorriso e di rimando al mio sguardo scrutatore mi saluta. Sorpreso di quella voce contraccambio, subito dopo la mia preoccupazione va allo zaino, controllo con gli occhi che tutto sia a posto e che niente sia stato spostato né toccato. Ogni cosa è come l’ho lasciata e mi tranquillizzo. Com’è possibile che non mi sono accorto dell’arrivo di questo “nuovo compagno di viaggio” e come cazzo è che non l’ho proprio sentito en15


trare? Non riesco a rendermi conto in che punto dell’Italia siamo, guardo fuori per cercare di capirlo, non è molto che siamo partiti, almeno così mi sembra, invece non capisco! «Sai dove siamo?» gli chiedo, l’altro sempre con il suo mezzo sorriso e con faccia simpatica, mi risponde: «Quasi a Genova». «Grazie.» È del sud, calabrese o siculo, ha l’aria intelligente, potrebbe anche fare discorsi interessanti, però non ho voglia di parlare. Tengo gli occhi chiusi, faccio finta di continuare a dormire, magari riesco a riprendere sonno... Lo zaino è sempre lì... Non mi pare che debba preoccuparmi dello zaino, ma anche così, con gli occhi chiusi non riesco più a dormire. Dopo un po’ li riapro e guardo l’altro, ma quello sta dormendo beatamente, con la testa inclinata di lato, con un mezzo sorriso stampato sul viso. Mi alzo per spegnere la luce dello scompartimento chiudendo la porta scorrevole e tirando le tendine. Mi rimetto in posizione cercando di dormire, niente, non riesco più a prendere sonno, il treno nel frattempo è giunto a Genova Principe. Poco traffico: sento aprire e richiudersi le porte solo un paio di volte, non è periodo di grandi partenze e pochi scelgono quest’ora per mettersi in viaggio. Un lungo fischio e il treno è nuovamente in movimento, si rifermerà tra poco alla stazione Brignole. 16


Guardo fuori, sulle banchine c’è un po’ più di vita, guardando le facce cerco di indovinarne la provenienza: una coppia di sudamericani indios seduti sulla panchina di pietra di fronte a me, i loro occhi incuriositi si incrociano col mio sguardo, brevi istanti, poi tornano a occuparsi dei fatti loro. Tre neri enormi passeggiano sul marciapiede, potrebbero essere nigeriani sentendoli parlare in inglese con la cadenza tipica degli africani. Più in là due magrebini piuttosto malmessi discutono animatamente, probabilmente sono arrivati da poco in Europa. Il treno riparte. Devo constatare che non è salita neanche una donna, chiudo gli occhi, la testa buttata all’indietro. In un istante mi arriva come una fitta al cuore, dolorosa, un ricordo che mi assale con la forza di un calcio nello stomaco. Le viscere mi si contraggono, guardo me stesso dal di fuori e vedo un corpo ferito. Quel ricordo è ancora una cicatrice aperta, sanguinante: Genova è la città della madre di lei, spesso mi raccontava dei suoi lunghi soggiorni passati e quanto a lei fosse cara… E a luglio di un anno fa era da Genova che scappavo, lei era venuta a cercarmi e mi aveva raggiunto un po’ di paesi oltre. Quello era stato per me il vero inizio della nostra storia. È stata la percezione degli odori che arrivano dall’esterno, quello del mare, della frittura di pesce e del gasolio mischiati insieme, ad aver risvegliato 17


in me questo ricordo. Un vaffanculo mormorato a bassa voce, a denti stretti, e spalanco gli occhi: il mare è lì a pochi metri, è ottobre ma non dovrebbe fare ancora freddo. Ho voglia di sentire il mare nelle narici, aprendo un po’ il finestrino l’aria marina entra e inspirando profondamente un paio di volte mi calmo, o quasi… Tolgo il mio zaino dal sedile e finalmente lo poso sul portabagagli, i miei occhi vanno al corridoio, c’è la ragazza castana in piedi che guarda fuori dall’altro finestrino, mi dà le spalle così riesco a notarne il bel culo! Poi inizio a osservarla con più attenzione, partendo dai capelli a mezza spalla, si intuisce una bella schiena anche sotto la giacchetta di pelle scamosciata beige, porta i jeans blu, a me i jeans non piacciono, mi fanno proprio cagare, ma devo dire che le stanno bene, probabilmente meglio che se fossero neri, che comunque restano i miei preferiti. La rivaluto un po’, incomincia a sembrarmi una ragazza interessante. Mi risiedo continuando a osservarla fino a quando lei, sentendosi gli occhi addosso, non si volta e ci ritroviamo a parti invertite rispetto a poche ore prima, ora è lei che mi guarda dall’alto in basso e mi sorride, le ricambio un solo mezzo sorriso, le faccio un accenno di saluto col capo ma mi giro e chiudo gli occhi. Non ho voglia di parlare, né di pensare né di essere gentile o piacevole, meglio fare la figura del cretino. Lei rimane ancora qualche secondo a valutarmi, scuote 18


un paio di volte la testa stizzita e si rigira riprendendo a guardare fuori. Rimango con l’orecchio teso a cercare di capire cosa stia facendo, poi rientra nel suo scompartimento. Sento attraverso il divisorio la voce di lei che con tono dolce chiama «Giorgio, Giorgio», lui risponde mugugnando per essere stato svegliato, lei insiste, con voce suadente, anzi un po’ ruffianamente, gli dice «Abbracciami un pochino». Sono un coglione, proprio un gran coglione! Quando riapro gli occhi è giorno fatto, rivolgo gli occhi al mio bagaglio e subito dopo al mio compagno di viaggio che rispetto alla notte passata ha cambiato posizione: la testa reclinata dall’altro lato e le braccia conserte. C’è una bella luce fuori, è tutto limpido e sereno. Stiamo lasciando Napoli, siamo nel sud. Devo pisciare e voglio lavarmi la faccia... Lasciare lo zaino mi preoccupa, è già un po’ che sto resistendo… Basta me ne fotto altamente i coglioni e vado in bagno, all’interno degli altri scompartimenti vedo ancora tutti mezzi addormentati. Su ’sto treno non c’è nemmeno tanta gente... Spero di trovare il cesso libero e pulito. Libero lo è, mi stupisco che sia anche pulito, che sollievo svuotarsi! Ora mi sento risollevato, mi lavo le mani e mi sciacquo la faccia, dovrei radermi, ma mi tengo la barba ancora un giorno, mi guardo allo specchio e vedo un bel ragazzo, quanto tempo era che non sorridevo guardandomi ? 19


Continuo a sorridermi contento e con quel sorriso allegro me ne torno verso il mio posto. L’uomo dall’aria noiosa seduto nel primo scompartimento è sceso, si trovano al suo posto due uomini e una donna di mezza età che chiacchierano tranquillamente, dall’accento devono essere calabresi, in quello accanto non ci sono più le suore, quelle schifose saranno scese a Roma. Proseguendo guardo i due piccioncini: lui sveglio con gli occhi aperti e lei appoggiata sul suo petto che ancora dorme, i capelli le ricadono sul viso ricoprendolo. Sono di nuovo nel mio posto, il ragazzo che sta viaggiando nel mio stesso scompartimento nel frattempo si è svegliato. Ci guardiamo e il buon giorno arriva reciproco e spontaneo. Restiamo a guardarci quasi imbarazzati non sapendo cosa dirci, ci piacciamo istintivamente ma non troviamo le parole per iniziare un discorso, credo che in fondo a nessuno dei due piacciano le parole inutili, le frasi fatte o le banalità. Piuttosto che dire o sentire cazzate è meglio il silenzio. E questo silenzio fa in modo che ci si piaccia un po’ di più. Il treno intanto va sempre più a sud. Ai nostri occhi appare un mare azzurro ma torbido, mosso, con nessuno sulle spiagge. Onde alte e bianche si frangono a riva, dev’esserci il vento là fuori, ma c’è anche il sole, non era il sole che stavo inseguendo? Mentre sono perso con la mente a vagare in questi 20


pensieri il silenzio viene rotto dalla voce del ragazzo: «Dove stai andando?». «Al sud, in Sicilia, forse alle Eolie, ancora non lo so.» Restiamo ancora un po’ senza parlare fino a quando non mi è di rimando chiedere: «E tu?». «Dalla mia donna… Cioè… Dalla mia ragazza, a Palermo, anch’io sono di là, però negli ultimi tempi sono stato al nord: Milano, Genova, Alessandria… Fino a ieri sera». Mi sembra un po’ impacciato nel parlare. «Ah.» È la mia unica risposta, faccio trascorrere altri minuti prima di riaprire bocca: «Comunque mi chiamo Francesco». Allungo la mano, l’altro in un gesto simile la stringe nella sua, enorme. «Cosimo, piacere, ma se ti piace va bene Mino.» Per i gusti di entrambi per ora abbiamo già parlato molto. Ritorno con la mente a ieri, appena sveglio la prima cosa che avevo visto dalla finestra erano state cascate d’acqua in un cielo grigio e cupo, come il mio umore, e avevo deciso che quella sarebbe stata l’ultima giornata in quella città. Sono nato, vissuto e cresciuto in quella quasi metropoli che è Torino, città che ho amato e odiato, insomma nel bene e nel male lì sono stato “vi21


vo”, ma è soprattutto la città in cui ovunque aleggia il fantasma di Noemi. Al solo pensarci la fitta al cuore si rifà sentire, deglutisco con rabbia iniziando un mantra personale, parole che mi sono già detto tante volte: vaffanculo, meglio sofferente, dolorante ma vivo e sempre pronto a reagire, ferito, afflitto ma deciso a combattere… Ma combattere cosa? Che minchiate vai pensando? Coglione! Ora stai solo scappando!… Non sto fuggendo, sto cercando un nuovo futuro, al sole, al caldo, lontano… Quante minchiate! Solo tante minchiate. Non mi sono accorto di essere osservato da Mino che silenziosamente sembra possa sentire il casino dentro la mia testa, osserva il mio denegare col capo e mi legge sulle labbra i vaffanculo, i minchiate, gli idiota. Percepisco lo sguardo, la mente e il corpo si arrestano di colpo e ho quasi vergogna. Che cazzo vuole questo? Mi alzo ed esco nel corridoio, c’è anche la ragazza castana che si sta fumando una sigaretta, l’ennesimo incrociarsi di occhi, ma questa volta lei non mi sorride, il suo sguardo è duro, rancoroso. Un rifiuto è un rifiuto del resto. Provo a metterci una pezza sopra balbettando un goffo buongiorno, lei mi guarda con una punta di disprezzo, non mi risponde, si gira e getta fuori dal finestrino la sigaretta fumata solo per metà, rientra nel suo scompartimento. Sorrido indulgente verso 22


me stesso, caro Ciccio te lo sei meritato, e torno anch’io al mio posto. Mino continua a osservarmi. «Mica male la bimba.» «No niente male, forse è una abituata troppo bene.» «Mi sa che hai ragione.» Ha un ghigno benevolo stampato in faccia e negli occhi, poi quasi sentendosi indiscreto, un po’ in imbarazzo, mi chiede: «Ma che ci vai a fare alle Eolie in ottobre?». «Non ho niente da fare a Torino e tra un po’ comincia il freddo, non ho più voglia di inverni gelati, di grigio, di maltempo, di nuvole.» Mi rendo conto di stare scivolando nella più banale delle conversazioni, discorsi d’ascensore con gli sconosciuti: il tempo! Mi zittisco immediatamente. L’altro non ha capito subito quell’improvviso silenzio, è rimasto qualche secondo perplesso e ridendo mi chiede: «Ti sei zittito perché avevi iniziato a parlare del tempo?!». «Bravo!» e una risata comune riempie lo scompartimento, ci troviamo simpatici, a quanto pare ci intendiamo subito, probabilmente ci riconosciamo come simili. Dallo scompartimento accanto arriva la voce della ragazza: «Giorgio, Giorgio siamo in Calabria, stiamo iniziando ad attraversare la Calabria». 23


Mi sembra quasi una bambina tanto è eccitata, Giorgio biascica a malapena un sì. Dopo un po’ un laconico «È appena iniziata la Calabria». Mi massaggio istintivamente lo stomaco con una mano, inizio ad aver fame, sì sono decisamente affamato. Nel corso del tempo ho imparato a resistere e restare a digiuno almeno per un giorno: per un certo periodo avevo scelto di passare un giorno alla settima senza ingerire solidi, bevendo solo pura acqua, niente tè, caffè o succhi di frutta, l’inizio era stato molto faticoso, poi, una volta preso il ritmo, il corpo ci si era abituato ed era diventata una cosa facile, al contrario delle prime volte, in cui non riuscivo a fare nulla, riuscivo ad allenarmi a lavorare e a fare qualsiasi cosa, anche faticosa. Non penserò più al cibo fino a quando non scenderò dal treno, non importa per quanto tempo, pazienterò. Fuori, l’intensità del vento è decisamente diminuita, il mare appare più calmo, con onde basse, l’acqua è più limpida, mi piacerebbe fare un bagno. «Hai fame?» sembra che Mino continui a intuire tutti i miei pensieri. «Un poco, ma non importa.» «Pure io ho un po’ fame, ma stanotte, quando son partito, non ho avuto voglia di pensare a dove prendere del cibo, e poi, di sera ad Alessandria, che minchia avrei trovato?» 24


Emetto una specie di sorriso soffiando l’aria fuori dal naso con le labbra quasi immobili, laconico rispondo «C’hai raggione». Mi accorgo che sto raddoppiando le G come i truzzi, ho parlato proprio come i truzzi. «Neanch’io ho voglia di pensare al mangiare, quando ci fermeremo mangerò.» Sbadiglio e mi stiracchio, incomincio a essere stufo del treno. Ripenso ai soldi, ai miei soldi, mi basteranno per un bel po’ di tempo, sono ancora lì, nel mio zaino, dovrei toglierli, spostarli, imboscarmeli addosso. Ho sempre il timore che l’altro possa realmente leggermi nella mente, lo guado quasi torvo, ma quello se ne sta serenamente guardando il mare oltre il vetro, senza degnarsi di me, finché non si alza ed esce dallo scompartimento senza parlare. Lo seguo con lo sguardo allontanarsi verso il bagno. Al ritorno lo vedo fermarsi davanti alla coppietta chiedendo da accendere. Giorgio gli dice no, poi lo sento che chiama: «Elisa, Eli, sveglia, hai d’accendere per questo ragazzo?», smetto di ascoltarli e penso ai fatti miei. La ragazza si alza e va nel corridoio, prende dalla tasca il suo pacchetto di sigarette e guarda intensamente Mino offrendogliene una, «Ah ce l’hai già, tieni accendi». «Grazie», restituendo l’accendino e lo sguardo. 25


Resto perso nei miei pensieri, dopo un po’ non vedendo rientrare il mio compagno di viaggio metto la testa nel corridoio e vedo Mino parlare, ridere e scherzare con Elisa. Li osservo. Guarda come sono in perfetta armonia, sembra che si conoscano da anni. Sono proprio un bel coglione, in questo momento la fame sembra meno sopportabile rispetto ad altre volte. Cammino in direzione del bagno, passando in mezzo ai due, guardando nello scompartimento di lei, Giorgio dorme. In bagno mi sciacquo il viso con l’acqua fredda più volte, ho il gran il desiderio di una doccia, di abiti puliti e di cibo. Ritornando verso il mio scompartimento noto che Mino ed Elisa non sono più lì. Perplesso mi guardo intorno e cammino per il corridoio, li vedo che stanno parlando molto amichevolmente, dentro un paio di scomparti più in là, non mi stupirei nel vederli avvinghiati in un caldo bacio. Ignaro Giorgio, mentre tu beatamente dormi, sempre molto beatamente rischi di essere cornificato, vabe’, me ne torno al mio posto, maledizione a me che non ho portato niente da leggere. Non mi resta che guardare il mare, così mi aumenta la voglia di un tuffo, bene così mi metto a ricordare tutte le nuotate fatte con Noemi e mi intristisco! Con un sorriso da orecchio a orecchio, impetuosamente rientra Mino esclamando «Minchia!». «Minchia» rispondo, so di essere scuro in volto, non sopporto che lei possa cambiarmi l’umore così 26


repentinamente e che così frequentemente entri nei miei pensieri, Mino non mi dà il tempo di precipitare nella malinconia, con aria complice, avvicinandosi e parlando a bassa voce, ma con parole a raffica, mi dice: «Hai visto la tipa con cui stavo parlando», indicando con gli occhi verso lo scomparto vicino, noto che questo ragazzo si è espresso, in perfetto italiano, ha detto «Con cui stavo parlando» e non «La tipa che ci stavo parlando», ha studiato ed è abituato a parlare, abituato a farlo bene. Mi torna il sorriso, continuo a prestare attenzione alle parole di Mino: «Stavamo parlando del più e del meno, sai, ci eravamo appena conosciuti, una battutina, un sorriso, mi chiede – Ma tu sei stronzo come il tuo amico là – indicando te! Io ridendo le ho risposto alle volte di meno e alle volte di più… Abbiamo parlato ancora per un po’, poi ha fatto qualche passo e mi ha chiamato con la mano, io l’ho raggiunta e siamo entrati in uno scompartimento vuoto, abbiamo continuato a parlare, c’era sintonia, sembrava ci fosse cosa… E dire che sono pure accoppiato e che non ho mai tradito la mia compagna, non so che mi è preso, ero sicuro che ci sarebbe stata, sembrava non aspettasse altro, ho provato a baciarla, mi ha guardato gelida negli occhi e seria, ma proprio seria, mi ha detto – No, tu sei più stronzo – e se n’è uscita. Minchia mi ha lascito lì come uno stronzo!». Per l’appunto, ti ha proprio fatto fare la figura dello stronzo, ma non glielo dico. 27


Capitolo 2

25 u uang – l’innocenza (l’inaspettato) L’innocenza. Sublime riuscita. Propizia è perseveranza. Se qualcuno non è retto egli ha disgrazia. E non è propizio imprendere una cosa qualsiasi.

Mi sono nuovamente assopito, ho sonnecchiato qualche minuto, «Le Calabrie sono lunghe da attraversare» avevo sentito dire da bambino da un occasionale compagno di viaggio, non me la sono mai scordata quella frase e lo so bene quanto siano lunghe. Mio padre è calabrese e quella traversata da nord a sud nei vari anni della mia vita l’ho compiuta più volte, ora la sto affrontando con spirito diverso rispetto al passato: all’epoca andavo verso la vacanza, il divertimento, adesso non so neanche quale sia esattamente la mia meta, sto fuggendo, forse non è una vera fuga, sono alla ricerca di qualcosa di nuovo, qualcosa di cui non ho ancora consapevolezza. L’unica certezza è quella di pos-

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sedere dei soldi, non tantissimi, circa trentamila euro, ma per un po’ dovrebbero bastarmi, e sono lì nello zaino sul sedile. Placidamente continuo a sonnecchiare, il treno mi culla e mi porta in una dimensione ovattata. Come è già successo da quando sono in viaggio, il primo pensiero appena sveglio è per lo zaino con i soldi. Quei soldi. È un pensiero che mi rallegra, mi fa gongolare rivivermi ogni momento di tutte le varie fasi che mi hanno permesso di impossessarmi di quel denaro… Era un tardo pomeriggio, al crepuscolo ero in sella alla bici lungo il Po, avevo avuto l’ennesima discussione con Nicoletta, una ragazza molto più giovane di me, ci frequentavamo da alcuni mesi, da subito dopo che era finita la storia con Noemi; per me era un piacevole diversivo da frequentare ogni tanto, io per lei, purtroppo, ero – e credo ancora di essere – altro. La nostra discussione era stata proprio su quello che vedevamo nel nostro rapporto, se fossimo una coppia o solo amanti occasionali: io ero della seconda idea, lei ovviamente no e di questo ne soffriva. Non ero innamorato di lei e nella mia testa c’era Noemi. Stavo pedalando al Michelotti, un parco che si estende lungo il fiume, proprio ai piedi della collina, inizia dalla Gran Madre, arriva al ponte Regina Margherita e finisce a Sassi, dall’altro lato del fiume rispetto a Vanchiglietta, il quartiere dove so29


no cresciuto e in cui sono ritornato a vivere negli ultimi anni. Dopo il litigio ero andato a farmi un giro con la bici sino a piazza Vittorio, in centro, da lì avevo attraversato il ponte Vittorio Emanuele I, avevo legato la bici a un palo e mi ero inerpicato in cima alla scalinata della Gran Madre, guardavo la piazza che è considerata la più grande d’Europa, ammiravo l’architettura barocca e gli alti portici che le coronano i fianchi. Stetti qualche minuto e ridiscesi e mi addentrai nel parco, una piccola striscia di verde con alberi e prati larga in alcuni punti un centinaio di metri. Feci il primo tratto passando accanto all’ex giardino zoologico, ero separato dalle case, in mezzo c’era corso Casale, una strada a più corsie molto trafficata, superato il ponte Regina Margherita la strada si restringe e ci sono le case anche dal lato opposto, che si affacciano sul fiume e sul verde. Era lì che mi trovavo, pedalando tra persone che portavano a passeggio i propri cani, zigzagando tra i corridori, superando e venendo superato da altri ciclisti; guardandomi intorno e osservando ciò che mi circondava, la mia attenzione era andata a due tizi che si camminavano incontro, quando si erano incrociati si erano scambiati pochissime parole e avevano proseguito oltre. Mi ero fermato poco più in là per osservarli incuriosito. Uno dei due era arrivato dietro uno dei cartelli che indicano l’avio fauna presente sulle 30


rive del fiume, quali uccelli nidificano e quali sono stagionali, si era chinato per prendere uno zainetto semi nascosto ed era andato via. A circa 200 metri di distanza anche l’altro aveva fatto l’identica cosa. Il tutto era stato fatto con completa disinvoltura e naturalezza come se ognuno avesse recuperato il proprio zainetto. A me però era sembrato abbastanza lampante che i due si fossero scambiati qualcosa, il mio sesto senso, la mia abitudine alle persone, le loro facce, lo dicevano e indicavano anche che il contenuto fosse illegale. Cosa poteva esserci lì dentro? Non è qualcosa di piccolo, non possono essere “polveri”, troppo esagerato, sarebbe tanta cosa, troppo rischio e tanti tanti più soldi... Pastiglie non credo... Fumo! Fumo e soldi, compratore e venditore! Guarda che curiosità, hanno messo a far da guardia a ogni zainetto un cane... Con un semplice fischio, al momento opportuno, per poter fare lo scambio, ognuno dei soggetti aveva richiamato il proprio amico a quattro zampe, senza più dirsi nulla si erano allontanati in direzione opposta. Ho sempre avuto una mente osservatrice e analitica, sono anche consapevole che gli schemi con cui spesso ragiono mi avrebbero permesso una carriera da poliziotto o carabiniere, avrei potuto 31


essere uno sbirro perfetto. Osservare, analizzare, dedurre, spesso la realtà è nascosta goffamente per un buon occhio conoscitore dei comportamenti umani e un po’ per istinto, un po’ per esperienza, quelle due persone mi avevano subito incuriosito. Quelle facce qui nel parco lungo il fiume, il loro abbigliamento, il loro modo di muoversi, marcavano strano, erano due note stonate in mezzo a una sinfonia. Avrei proprio potuto fare lo sbirro con questa mia mania, approfittando di questa fortunata dote, comunque ho scelto di non farlo, non avrei mai potuto; non mi ci vedo con la divisa, andare a casa della gente, arrestarla, ficcare il naso nella vita intima degli altri... Bello schifo... Per empatia ho scelto l’altro lato della barricata. La mia simpatia è sempre andata al crimine e a certi criminali: ladri, rapinatori, rivoluzionari e non è solo ideologia politica, da sempre non mi sono mai piaciuti gli sbirri, né come singole figure, né per ciò che rappresentano o difendono. La vita fuori dalla legge mi sembra più interessante, divertente e meritevole di essere vissuta. Però comprendere come ragionano le forze dell’ordine a volte mi ha evitato dei guai. Continuavo a osservare i due in lontananza che raggiungevano le proprie auto. Il più vecchio dei due, quello vestito meglio, quasi elegante, automobile decisamente costosa, di “classe”, affidabile ma 32


non appariscente, quello era il gran pusher! Il più giovane si vestiva casual, jeans e scarpe di marca, nell’insieme anonimo senza pretese... Come la sua auto. Quello era il compratore, piccolo pusher. Così compiaciuto nel sentirmi un piccolo Sherlock Holmes avevo continuato ad andare a zonzo per i fatti miei. Solo dopo il rientro a casa avevo iniziato a riflettere sull’intuizione avuta, non avevo chiuso occhio per tutta la notte dal troppo rimuginare. Dal giorno seguente e per tutta la settimana mi ero aggirato in quei paraggi, abitando quasi di fronte al Michelotti mi era comodo, dal mattino alla sera restavo in quel tratto del lungo fiume, ogni giorno avevo rivisto il più giovane portare il proprio cane a passeggio, tranquillamente lo lasciava libero di scorazzare lì intorno e lungo l’argine, senza bisogno del guinzaglio. Sulla stradina il cane giocava con gli altri cani o prendeva coccole e carezze da chi passava, mentre il suo padrone restava seduto, quasi sempre sulla stessa panchina. A volte leggeva un libro, altre chiacchierava con altri proprietari di cani e altre ancora era arrivato con alcuni amici e parlava con loro. Il cane non si allontanava mai di molto, restava sempre in un raggio di 100 metri, malgrado l’aspetto feroce era una bestia socievole e affettuosa, un bastardino di taglia media, marrone scuro con striature grigie e nere e il pelo raso. Tendenzialmente non mi piac33


ciono i cani, quelli grossi o quelli potenzialmente pericolosi, come i pittbull, m’inquietano parecchio. Già nel primo giorno mi ero reso conto che invece il cane dello sconosciuto era un cane simpatico e intelligente, assolutamente non pericoloso, ai miei occhi risultava una bestia “potabile”, peccato che come tutti i cani sbavasse, leccasse le persone, perdesse i peli e odorasse di cane, già abbastanza per infastidirmi, ma questi sono solo alcuni dei motivi per cui non ho mai voluto avere animali. Quelli reali sono più profondi e seri. Far vivere un cane in città è crudele e soprattutto un atto d’egoismo, come andare contro natura. Possedere un altro essere vivente inoltre mi costringerebbe a prendermi cura a lui, mi basta avere la responsabilità di me stesso, in più c’è la questione del nutrimento: perché un cane o un gatto devono avere più diritto alla vita di un pollo, di un tacchino o di un manzo con cui saranno nutriti per tutta la vita? Polemicamente lo chiedo spesso ai miei amici vegetariani che convivono con qualche animale, li provoco spesso sull’argomento, ma il più delle volte finiamo col mandarci a quel paese... Era passata una settimana e non avevo più rivisto quello che ritenevo essere il gran pusher, poi un giorno all’ora di pranzo e qualche centinaio di metri spostati rispetto alla volta precedente, si era ripetuta la stessa identica scena. 34


Era un periodo in cui non stavo lavorando e avevo molto tempo a disposizione, con Nicoletta non ci si era più sentiti dopo l’ultima lite e anche dalla militanza politica mi ero preso una pausa, erano mesi che non andavo in un posto occupato, niente iniziative politiche, niente riunioni, solo, in compagnia dei libri e dei tormenti. Senza spiegarmene il motivo, dal giorno seguente avevo iniziato a seguire quel ragazzo col cane. Per pura curiosità avevo scoperto anche dove abitava, il giorno dopo ancora avevo avuto il primo approccio con il cane, iniziando un’amicizia. Ogni giorno mi facevo trovare sul lungo fiume, tanto ormai conoscevo le loro abitudini e i loro orari, senza farmi notare dal padrone, giocavo col cane, lo coccolavo, ogni tanto gli davo qualche cosina da mangiare: una crosta di formaggio, un biscottino per cani, anche un osso di bue un giorno, ma lo andò a seppellire! Sempre rimanendo in disparte. La settimana dopo era iniziata con la pioggia, tutto grigio e cascate d’acqua, umidità, buio e tristezza. Noemi mi mancava come l’aria, da quando ci eravamo separati capitava che ci frequentassimo come semplici amici, ma erano trascorse alcune settimane dall’ultima volta che l’avevo vista, continuavo a sentirne la lontananza, era il terzo mattino consecutivo che mi svegliavo con quello stato d’animo. Per farmi ulteriormente del male 35


stavo riguardando Blade Runner, erano anni che non l’avevo più fatto, ero a fine film: «Bella esperienza vivere nel terrore, vero? In questo consiste essere uno schiavo...». Mi stava salendo il magone, continuavo a seguire quelle scene viste decine di volte, conoscevo a memoria ogni parola e nonostante ciò continuavo a emozionarmi. La scena cult si concludeva, sotto una pioggia battente: «È tempo... Di morire». Struggente, doloroso con una musica ancora più malinconica, ad alta voce ho gridato basta. Basta con questa sofferenza, basta avere lo sguardo proiettato nel passato, basta! Avrei voluto essere un rasoio e nel dire basta recidere ogni cosa intorno, come il titolo di quel manifesto serigrafato di tanti anni fa: Un taglio al tutto. Era stato attacchinato sui muri delle città, c’era disegnato un coltello con alcune gocce di sangue e poche frasi che inneggiavano a tutti coloro che contribuivano a distruggere la pace sociale, un manifesto semplice ma che mi era sempre piaciuto e che in quell’istante stavo facendo mio, non tanto per il testo ma più per l’immagine: la lama che fende l’aria e recide tutto ciò che è nocivo e doloroso. Triste, ma come una tigre in gabbia che ritorna in libertà, ero uscito. Dopo tre giorni trascorsi chiuso in casa in compagnia della solitudine e della tristezza, della noia e dell’apatia, nonostante la pioggia ero 36


nuovamente fuori in strada, volevo dare una svolta alla mia vita. Meccanicamente, guidato dall’inconscio ero andato verso il fiume, camminando in lungo Po Antonelli fino al ponte di Sassi e l’avevo attraversato, avevo seguito lo scorrere dell’acqua e mi ero ritrovato nello stesso luogo dove, prima della pioggia, avevo trascorso intere giornate. Avevo visto che il ragazzo con il cane mi precedeva di una cinquantina di metri, a tracolla sulle spalle teneva lo zainetto e in quel momento mi è arrivata l’idea: l’ho seguito aumentando un po’ la distanza finché l’altro non si è fermato e ha posato lo zaino col cane a far da guardia. Riparandomi dietro gli alberi, mentre l’altro andava incontro al pusher, mi sono avvicinato al cane, per pochi istanti gli ho rivolto parole dolci e ho giocato ancora per un attimo, poi ho afferrato lo zainetto e sono sceso rapidamente lungo la riva del fiume. Le sterpaglie alte, gli alberi e la pioggia battente mi nascondevano bene, avevo proseguito rasente l’acqua per alcune centinaia di metri, camminando veloce e restando basso fino al ponte, poi ero risalito sull’argine e avevo ripercorso all’inverso il cammino di poco prima, sul ponte avevo incominciato a correre verso casa. Avevo fiato ed ero stato veloce, sono abituato a correre, lo faccio spesso, perché mi piace e perché così mi mantengo in forma e soprattutto mi aiuta a riprendermi e a calmarmi nei momenti di depressione o d’incazzatura. 37


La pioggia mi inzuppava ma non mi rallentava, ero velocissimo, l’adrenalina mi pompava nel sangue, avevo anche paura, ma nello stesso momento avevo la consapevolezza di potercela fare, avevo qualche minuto di vantaggio e in più prima che quei due capissero cosa fosse accaduto ne avrei avuti degli altri. Avevo anche il vantaggio che quelli non sapevano chi e dove cercare, questo mi aveva dato ulteriore fiducia, avevo accelerato ancora un po’ il passo dove iniziavano le case, da lì tutto sarebbe stato più semplice, finalmente ero arrivato nella via dove abitavo, casa mia era sempre più vicina, molto più vicina, ero quasi finito addosso al mio vicino che stava uscendo dal portone, avevo corso anche per le scale fino ad aprire la porta ed esausto avevo tirato il fiato, rimanendo immobile sulla soglia, calmando il respiro, facendo sgocciolare gli abiti fradici. Con calma ero entrato in casa, mi ero tolto lo zainetto dalla schiena e mi ero spogliato completamente. Nudo ero andato allo stereo e avevo messo sul piatto Il lago dei cigni di Tchaikovsky, avevo riempito una pentola d’acqua e l’avevo messa sul fuoco: avevo fame, tutto come se niente fosse, incurante dello zainetto che era rimasto a terra vicino alla porta. A quel punto l’avevo preso, avevo liberato il tavolo da tutto ciò che si trovava sopra e vi avevo rovesciato il contenuto dello zaino: soldi, tanti soldi! 38


Bingo! Avevo indovinato, l’avevo intuito che quello più giovane arrivava, lasciava i soldi e si prendeva il fumo, mentre il vecchio faceva l’inverso e tutto sto movimento una volta alla settimana. Avevo pensato a quante mazzette di soldi gli avevo tolto a quel poveretto, non mi ero dispiaciuto, forse un poco, ma non più di tanto, ero certo che in poco tempo se li sarebbe ritirati su. Fa parte dei rischi del mestiere, è un imprevisto, un incidente di percorso. Quando ti arrestano gli sbirri è anche peggio: ti sequestrano il fumo e i soldi se li fottono loro! Anche a me, quand’ero un ragazzino che fumava e vendeva il fumo, mi avevano rubato i soldi dall’imbosco. In dieci giorni li ho rifatti senza tanta fatica, certo era stato più semplice perché erano molti di meno. No, nessun scrupolo di coscienza, nessun rimorso. Con gli occhi fissi sul mucchio di mazzette camminavo intorno al tavolo ripetendo ad alta voce: bene! Bene! Dopo di che avevo sgomberato il tavolo e avevo sistemato i soldi ben in ordine, con calma li avevo contati e ricontati: trentamila euro, però, bravo il ragazzo, carica tanto, con i prezzi attuali si smazza 20 chili, ebbravo! Euforico avevo iniziato a pensare a Noemi, a parlarle come se fosse stata lì – cara signorina Noemi, certamente lei non approverebbe una cosa del genere, neanche immaginarla, non è nel suo dna, però io, in questo 39


momento di gioia, sto pensando a te, con te vorrei spendere tutti questi soldi: un viaggio, ristoranti, regali, magari usarli per progettare qualcosa insieme, di qualunque tipo, pur di farlo con te. Adesso ti chiamo, è una cazzata lo so, ma ti chiamo lo stesso – e l’avevo chiamata. «Ciao, sono io, sono Francesco, che fai?» «Sono al lavoro, sto litigando col mio capo da quando è arrivato, in più stamattina mentre uscivo ho anche litigato con mio padre, è una giornataccia, sono un po’ depressa.» «Bene! Di un invito a pranzo a mangiare pesce non se parla, vero?» «Ma perché continui? Prima mi dici che non ti devo cercare, che non ha senso vederci e che è ora di decidere da che parte devo andare e ora mi vuoi invitare a pranzo?… E poi ho poco tempo, devo rientrare presto in ufficio e non sono dell’umore migliore per vederti.» «Allora niente. Hai ragione, va bene così, scusami, sono un coglione… Sarà per un’altra volta… Però volevo anche dirti…» «Senti, guarda ora ho da fare, ti richiamo io… Più tardi, scusami tu, ciao.» «Ciao.» Quella conversazione breve e sconfortante mi aveva fatto pensare al suicidio come risoluzione definitiva ma guardare il tavolo con i soldi mi ave40


va dato lo stimolo per non cedere alla depressione, con rabbia avevo messo in una busta di nylon tutto il denaro tenendo solo qualche centinaio di euro. Questa amore mio è stata l’ultima chance che ti ho dato, ti amo e avrei vissuto la mia vita con te, avrei fatto per te tutto ciò che avresti voluto per renderti felice, solo per te! Il mio è un amore assoluto, ma io vengo sopra tutto, io uber alles, ora basta, vaffanculo! Avevo spento il fuoco sotto la pentola dell’acqua: detesto mangiare da solo, riesco a farlo solo quando sono veramente affamato o di ottimo umore, e non era certo quello il momento. Mi ero fatto una doccia rapida e bollente, mi ero vestito in fretta e ancora più rapidamente ero uscito percorrendo corso Belgio in direzione Vanchiglia. Ero quasi giunto in prossimità della trattoria, avevo voglia di compagnia e col cellulare avevo provato a chiamare una mia amica con cui alcuni anni prima avevo avuto una breve ma piacevole storia e l’avevo invitata a pranzo ma anche lei era presa dai suoi impegni di lavoro, ovvero “sbirro sociale” come amo definire il suo impiego di educatrice. Non mi ero demoralizzato e avevo camminato fino all’entrata del ristorante e lì mi ero ricordato che dietro l’angolo abita un mio caro amico col quale in tempi remoti avevo condiviso la casa, l’avevo cercato sul cellulare. 41


«Pronto Silvio sono Ciccio, sei a casa? Hai pranzato?» «Ciao mostro, si sono a casa e non ho ancora pranzato.» «E Roberta c’è?» «Roberta è a pranzo dai suoi.» «A te non ti volevano a pranzo perché sei un demente?… Senti, sono davanti alla trattoria Ala, dietro l’angolo di casa tua, ti invito a pranzo, ci vieni?» «Minchione non sapevo a che ora avrei smesso di lavorare, per questo non ci sono andato, lo sai che mi adorano! Comunque sì va bene, vengo. Cazzo è una vita che non ti vedo, arrivo, ti raggiungo subito.» «Non fare come il tuo solito, muoviti, ho fame, che se si fa tardi non ci danno più da mangiare e poi mi tocca di spaccarti le ossa, coglione!» «Ehi nanetto non t’allargare troppo, perché anche se hai fatto full contact mi puoi solo tirare le seghe dalla tua altezza, anzi bassezza!» «Muoviti minchione, piove!» «Arrivo, e tu entra, piciu, così non ti bagni.» «No ti aspetto fuori, sbrigati.» Ero col naso per aria, guardando i palazzi intorno, riflettevo sulla storia del quartiere, un tempo molto popolare, con case vecchie dell’Ottocento, palazzi col ballatoio che si affaccia sul cortile e da cui si accede agli appartamenti. Come per altri quartieri della stessa epoca e struttura sociale, ne42


gli ultimi anni era divenuto un rione di pregio e i prezzi degli alloggi erano rincarati, restava comunque un quartiere piacevole, ci si viveva bene, per la sua contiguità col centro città e con l’università era abitato da tanti giovani, studenti e non solo. Silvio è un caro amico, ci conosciamo da quasi vent’anni, è un gigante di quasi due metri che ha fatto il cazzone per una vita, poi ha iniziato a lavorare come manovale per un amico muratore e dopo un paio d’anni si è messo in proprio e poi, dopo altri anni, si è stufato di fare il muratore e ha iniziato a fare l’elettricista. Non ha né l’aspetto né i modi di un muratore e nemmeno da elettricista, la faccia da bambinone, da eterno studente, non l’ha mai persa. È arrivato di corsa, trafelato, con la solita cicca in bocca e gli occhi azzurri sorridenti. Ci eravamo accolti nella nostra solita maniera, insultandoci. «Sei sempre più un fenomeno, ma come cazzo ti sei combinato con ’sta barba...» «Ma guardati! Visto che non riesci a crescere in altezza ti allarghi di spalle, assomigli a un cubo… Ma dato che sei un nano direi un dado, ti mancano solo i pallini con i numeri!» Ci siamo guardati negli occhi e ci siamo abbracciati. «Com’è?» «E tu?» «Io bene, con Roberta va bene.» 43


«Entriamo? » «Sì dai, anch’io ho fame, ero a casa e non avevo un cazzo voglia di cucinare. Stavo giocando con la Play.» «Ma non dovevi lavorare oggi?» «Sì, avrei dovuto tutto il giorno, poi verso le 11 ho detto al cliente che mi mancava un pezzo e che non sarei tornato prima delle 3… Oggi con ’sta pioggia non c’avevo voglia.» «Dai entriamo cane morto, non cambi mai!» «Come te la passi Ciccio?» «Non so, non lo so, medio! Un po’ così… Un po’ scoglionato, un po’ che non so che fare della mia vita, non ho più voglia di abitare in città.» «Ma non avevi una donna?» «Avevo!» «Non riesci proprio a tenertele eh?» «Questa mi ha lasciato lei, e non ho fatto il cazzone, anzi mi sono sempre comportato bene.» Ero stato interrotto dalla cameriera, in un secondo avevo notato quanto fosse carina, una mora dal bel fisico e dal bel sorriso. Non le avevo dato il tempo di parlare che già stavo ordinando: «Triglie fritte, sarde spaccate alla piastra e insalata mista senza pomodori, grazie!». «E lei?» «... Uhuuum non so... Braciola ai ferri, patatine fritte e poi vediamo.» «Da bere?» 44


«Acqua e una bottiglia di rosso? Bianco?» «Beh, io con la carne rosso!» «Io col pesce bianco! Quindi due mezze bottiglie di rosso e di bianco!» «Va bene.» L’avevo guardata allontanarsi, mi dava l’idea di una persona dalla gentilezza spontanea, avrei voluto conoscerla meglio ma ero tornato a guardare Silvio. «Ti stavo dicendo… Non ho fatto cazzate e non ho dato di matto, ho usato il cervello, mi piaceva, aveva anche una bella testa, ma…» «Ma?» «Troppo diversi.» «In cosa?» «Arriviamo da mondi diversi, modi diversi di vedere la vita, ambizioni diverse, però... Per lei ero disposto a mettere in discussione parecchie cose di me, anche a cambiare un po’ la mia vita, figurati che agli inizi la gente diceva che era lei la vera “alternativa” perché stava con me! In realtà alla fine sono rimasto io l’alternativo... Che parola del cazzo! Senti per favore non parliamo di Noemi, mi si guasta l’appetito e non mi pare il caso!» «Ma dopo Noemi non stavi con quella ragazza giovane? Non mi ricordo come si chiama, vi ho visti insieme una volta al cinema.» «Stai parlando di Nicoletta, poveretta, che affare che ha fatto a incontrarmi, non sono mai riuscito 45


a considerarla la mia compagna, per tanti motivi, oltre Noemi, uno è la sua età, abbiamo tanti anni di differenza e spesso nei discorsi ma anche nelle esigenze, questa differenza la si sentiva molto, solo nel letto ci si trovava, ma a me bastava vedersi una volta alla settimana.» «Capisco... Dai arrivano i piatti, si mangia! Basta pensieri cupi!» Avevamo pranzato in allegria parlando e strafogandoci per un paio d’ore, perché non appagati di quel che avevamo ordinato ci eravamo fatti servire altro ancora. Poi Silvio è uscito per recarsi a lavoro, salutandomi con le solite frasi «Ti invito a cena una sera di queste, cazzo non ci becchiamo mai». Non era più riuscito a dire altro a parte un «Grazie del pranzo». Non avevamo bisogno di altre parole, l’amicizia che ci lega va ben oltre, sentivamo che l’affetto era sempre lì a unirci. Ero quasi di buon umore, sentivo solo una velata malinconia. Aveva smesso di piovere e la temperatura si era alzata un po’, avevo passeggiato verso il centro e avevo speso un po’ di soldi acquistando due paia di jeans neri, due felpe, un paio di scarpe e un bel giubbottino. Rientrato in casa mi ero ricordato di Noemi che non mi aveva richiamato e in quel momento aveva squillato il telefono, il display diceva che era lei. «Ciao sono Noemi.» 46


La voce era squillante, allegra e serena, al contrario della chiamata precedente e con un torrente di parole si scusava per prima, chiamava in causa il capo, il padre… Per me era una ripetizione di chiamate simili un bla bla bla insistente finché non l’avevo interrotta: «Senti, io parto me ne vado». Le avevo detto ciò senza nemmeno sapere il perché, mi rendevo conto che parlavo e decidevo in quel momento del mio futuro prossimo, era quella l’unica soluzione possibile ai nostri problemi e per chiudere finalmente una storia che nessuno dei due riusciva a troncare definitivamente. «Vado via… Per un po’, davvero, non so ancora dove ma non ce la faccio più, se continuo così mi impicco, seriamente, questa è un’agonia, è una situazione di stallo che non si sblocca mai. Non voglio vivere più così con te nel cervello magari ancora per degli anni, non riesco più a stare con altre donne, se mi scopo le altre mi sembra di tradirti, anche se sono mesi che non stiamo più insieme. Io voglio te ma tu non mi vuoi – dici! – però continui a cercarmi, facciamo tante cose insieme, andiamo fuori a cena, andiamo in montagna, al cinema, mi telefoni. Io ti telefono. Ogni tanto, due volte in sei mesi, facciamo l’amore insieme… Ma non ho sbocchi, sono diventato un misantropo, più di tre persone insieme sono già una folla, non riesco a stare più di due ore con gli amici, l’unico svago è il cine47


ma, che mi isola ancora di più. Finché tu esisti, qui non cambia nulla per me e visto che tu non vai via a questo giro me ne vado io.» «Ma dove vai? Quando parti? Che farai?» Il tono di lei era diventato serio, triste e preoccupato, c’era amore in quelle parole, lo sentivo, ma in lei c’era anche l’ostinazione, la convinzione della sua decisione che noi due non avessimo futuro insieme. «Non lo so, a sud, lontano.» Con voce rotta dall’emozione, col magone e con gli occhi lucidi ero ancora riuscito a dire: «Lontano… Ti amerei anche tra cento anni e dall’altra parte del mondo, ma amarti senza poterti amare non lo sopporto più, tu hai deciso e mi sta bene, però devo pensare anche a me stesso e alla mia salute psicofisica… Addio… Cazzo mi sembra di essere in un polpettone melodrammatico!». Avevo anche cercato di sdrammatizzare un po’ alla fine, poi più serio avevo ancora aggiunto: «Ciao stai bene, spero che non mi mancherai». Era rimasta quasi inebetita dal mare di parole, aveva le lacrime agli occhi, riuscivo a percepirle anche per telefono, lei era solo riuscita a dirmi ciao. Sul televideo c’era l’orario dei treni, ero stato molto combattuto se avvertire Nicoletta, in parte glielo dovevo ma avevo rinunciato, forse vigliaccheria, forse buon senso, non so, intanto scorrevo le pagine di quelli in partenza per il Meridione, dovevo muover48


mi a preparare lo zaino, mi dicevo che dovevo essere rapido, parlavo da solo ed era tutto un – cazzo – e una bestemmia, posseduto dall’ansia e dalla frenesia. In realtà avrei potuto fare tutto con calma, ma sapevo che se avessi rimandato al giorno dopo non sarei partito. Riempivo lo zaino, – non riuscirò a salutare nessuno! Neanche mamma e papà – uno sguardo generale alla ricerca di qualcosa che potesse servirmi, inutile, non avevo la lucidità necessaria. Un po’ di soldi in tasca e il resto nello zaino. Erano gradini scesi due a due e un’uscita furiosa dal portone – corri Ciccio corri la fermata è vicina – facevo avanti e indietro lungo la fermata guardando i binari in lontananza – eccolo laggiù ’sto cazzo di tram, muoviti dai, porco dio... Dai son già un po’ di minuti che sono qua, quanto ci metti, eccolo finalmente... Dai è mezzo vuoto riesco anche a sedermi, che coglione avrei potuto chiedere a papà di accompagnarmi così li avrei salutati, che idiota!... Avrei potuto anche prendere un taxi… Ma ormai... Le abitudini che brutta cosa! Dai pezzo di ferro muoviti, ci siamo quasi... – poi la corsa fino in stazione. Bene. La biglietteria era libera. «Un sola andata per Milazzo, seconda. Grazie.» «Ancora correre dio fa’, ecco il binario ecco il treno. Finalmente...!» e avevo sospirato. Tutto ciò è stato solo ieri sera… E ora ? Il cielo fuori è limpido e azzurro, il mare si è calmato completamente e io non so ancora cosa fare. 49


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