Novelle crudeli. Dall'orrore e dal grottesco quotidiani - Francesco Cusa

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~atropo 路 narrativa~ 10



francesco cusa

novelle crudeli dall’orrore e dal grottesco quotidiani

illustr ato da daniele la placa


Questo libro è rilasciato con la licenza Creative Commons: "Attribuzione − Non commerciale − Non opere derivate, 3.0" consultabile in rete sul sito www.creativecommons.org Tu sei libero di condividere e riprodurre questo libro, a condizione di citarne sempre la paternità, e non a scopi commerciali. Per trarne opere derivate, l’editore rimane a disposizione.

Collana Atropo Collana diretta da: Anna Matilde Sali Grafica: Gabriele Munafò, Sonny Partipilo Illustrazione di copertina: Daniele La Placa © Copyright 2014, Ass. cult. Eris via Reggio 15, 10153 Torino info@erisedizioni.org www.erisedizioni.org Prima edizione maggio 2014 ISBN 9788898644032


novelle crudeli



Zio Carmelo

Zio Carmelo era il classico uomo paffuto e con lo sguardo beota che ognuno di noi avrà incontrato almeno una volta nella vita. Uno di quelli con le guance sempre rosse e screziate da sottili venuzze blu cobalto, due fessure tra le borse al posto degli occhi in uno scintillare di celeste maligno e i piedi gonfi dentro scarpe di cuoio logore dalla suola consunta. Uno di quelli che non parlano mai, con il risolino-ghigno appena accennato che risucchia di quel po’ la mandibola. Uno di quegli uomini-gallina: pappagorgia paonazza e microscopico naso aquilino. Uno di quelli con l’acquetta perenne agli angoli della bocca. Uno di quelli che sudano, non si lavano e non usano il deodorante perché tanto lavorano e appartengono alla generazione di quelli che si svegliavano presto e che hanno da fare in campagna, che tanto oggi non la si lavora più. Uno di quelli che scoreggiano a ogni minimo sforzo, senza vergogna e per pantaloni dal cavallo troppo basso. Zio Carmelo: ovvero l’emblema di uno che ti sta proprio sui coglioni. 7


Una specie morfologica di quelle che non comprendi bene come possa ancora essere zoologicamente attiva, se non come giacenza o scoria di umanità aberrata. Quando incontravo Zio Carmelo, non succedeva assolutamente nulla. Cioè, abitando noi negli stessi villini di famiglia, serie di terrificanti villette a schiera frutto di eredità di famiglia erette a baluardo del microcosmo dei Vinciguerra, sorta di villaggio nel villaggio, di imbarazzante ordito familiare e “mattonifero”, posto a mo’ di contrafforte o casamatta di pazzi, per l’appunto, ovvero mono-nuclei di nuclei familiari (leggasi anche agglomerati-di-gente-estranea-che-si-odia-mache-si-ostina-a-stare-insieme-per-ragioni-legatealla-maledizione-degli-antenati) noi, dico, io e lo Zio Carmelo, vivendo a un tiro di schioppetto, era pure possibile che ci si incontrasse, nostro malgrado, per quell’ordito di cotto argilloso e lampade a funghetto, gergalmente conosciuto dalla comunità come “vialetto”. «Ciaozio» / «Ehwspfs». In quei frangenti, quando ci si imbatteva l’un l’altro, si generava per osmosi il pattern: Ciaozio/ Ehwspfs. Una spremuta disinfettante di Galateo del Fonema originata dall’imbarazzo del contatto: Ciaozio testa bassa la mia, Ehwspfs impercettibile ammiccamento il suo, seguito peraltro dagli im8


mancabili ghigno di bavetta - occhi celeste iguana che roteano al mio passaggio tutt’assieme al suo corpo, come il bambolotto rancido e pingue di una giostra al Carosello dei Moncherini. Permutazioni da giardino, un canovaccio striminzito ma seriale, l’unica attività di Zio Carmelo essendo quella di dare l’acqua alle piante. Piante che annaffiava con quel suo profilo da arancia venuta male, o meglio da Hitchcock scemo, lui, quel padre di Agatina e Santa, ovvero delle due cugine stangone semi-deficienti (una santabarbara da togliere il fiato, con dei nomi così, mah!). Zio Carmelo annaffiava le piante di prima, di sempre, di oggi, di ieri e di domani. Annaffiava le piante e guardava un punto fisso sul muro; non le piantine del cazzo, quelle che annaffiava. No. Un punto sul muro. Con il collo che si torceva di quel poco (immaginate una sorta zio-Carmelo-istallazione calibrato con la rotazione del moto terrestre tramite una complessa trama di orologi subatomici), di quel tantinello, tirato da un ipotetico filo invisibile, a sua volta secreto da un baco al centro della sua fronte e da un altro baco in movimento da qualche parte in quel fottutissimo muro. Sembrava qualcosa di vivente morto vivente Zio Carmelo. Uno che potrebbe stare a origliare senza apparato uditivo. Un prototipo venuto male, che origlia male perché ancora difettoso, o comunque 9


in fase Beta; un uomo macchina di carne che origlia in maniera sconnessa, in seguito a interferenze nel soma-androne-dendrite, e in definitiva del circuito neuronale. Comunque origliava, ’sto agglomerato di carni. «… Secondo me quand’era piccolo gli hanno spaccato il salvadanaio a forma di porco. Gliel’ha rotto col mattarello la mamma, con gli occhi iniettati di sangue: “I tuoi 4/5 di risparmi, i tuoi soldini... Non ci son più... Hahahah”, gli ha detto a quel coglione di Piero, “... Ti piace la pasta fatta in casa da Mamy eh? Maledetto! Ti odio! Io non volevo un figlio ma una pelliccia! Hahaha”.» Ridevamo come dei pazzi, io e Giampiero, un mio amico affetto da una incontenibile forma di odio per il prossimo e quindi per Piero e per sua madre Luisa, rei d’essere troppo espansivi in casa loro durante i pomeriggi deputati ai compiti, oltre che: disponibili, gioviali, prudenti, effemminati entrambi, col tè e i biscotti (tè e biscotti???), affabili, manierati, educati, generosi, pieni di cure, e ancora sorridenti, coccolosi amorosi, morbidosi, pantofolosi, e infine al contempo severi, retti (la voce baritonale), in ottima forma, e le scarpiere chiuse, rigorosamente chiuse. Non ci eravamo accorti che Zio Carmelo stava lì davanti al cancello, rimanendoci ancora qualche istante per poi salutarci con quel viso da gallina al tramonto mentre con le ma10


ni si sbucciava un’arancia. Lui, arancia marcia che sbuccia arancia buona. Ma andiamo al punto. Una volta, in un mattino torrido, mentre Zio Carmelo stava seduto con il sole a picco sulle nostre orribili panchinette verdi, volute fortissimamente dalla zia Lucia per via delle sue vene varicose (piazzate in punti assurdi in funzione dello spazio angusto, del tipo che una era sparata in diagonale tra il vialetto e il muro di cemento, talmente irrelata da fare invidia a uno scolabottiglie di Duchamp senza museo) mi venne di sparargli in faccia il sogno che mi aveva accompagnato al risveglio, così, su due piedi, d’emblée, senza pensarci. «Zio!... Stanotte sognavo un ragazzo che pettinava una mucca-cane. Aveva gli occhi color nocciola, ruminava ma si accucciava come un cane. E questo ragazzo non si vedeva mai in volto, era lì immerso fra i lunghi peli rilucenti, e pettinava l’animale.» Una roba che lì per lì mi aveva fatto inorridire per quanta blasfemia fosse riposta in quella confidenza intima. L’aver reso partecipe del mio intimo vissuto quell’essere così distante dal mio ciclo sonno-veglia-universo ctonio pareva cosa folle. Una roba del tipo “ho fatto un origami di otto chili” (mi dava particolarmente fastidio quell’avergli parlato del colore nocciola). Talmente irrelata e avulsa da 11


una concreta pertinenza da farmi venire la nausea. Poi però, pian piano, mentre stavo a guardare per qualche istante la sua reazione espletarsi in: bavetta, bavetta, naso da gallina, sudore, jeans dal cavallo basso, jeans dal cavallo basso, scarpe di cuoio sporche di terra (con il nuovo devastante particolare dei pedalini grigi), pappagorgia paonazza, paonazza pappagorgia, dopo tutta questa mise en abyme insomma, cominciarono a delinearsi i contorni della prospettiva di un trip molto intrigante. Amici, questo Zio Carmelo poteva rivelarsi un vero e proprio oggetto d’indagine e perversione estrema! Cominciai così da quel giorno a utilizzarlo quale terminale dei miei esperimenti confidenziali: quale test delle cose folli e sconce che fanno parte del mio background di riferimento e di tutta un’altra mia serie di cazzi che non sto qui a dire. Un esperimento metodico, come può esserlo quello del tirare l’osso al cane: ci si attende che il cane si rompa le palle di tutto ’sto andirivieni. Le reazioni di Zio Carmelo implicavano un ristretto numero di variabili. Prima un «Eheh». Indi un «Ihih». E poi fessure degli occhi e celeste malato. E pappagorgia. E gallo di carne. E poi acqua dal tubo sulle piante. E vai che innaffiamo! Si andava da cazzate del tipo: «Quando la mia ragazza mi voleva dare un bacino virtuale… Nel senso di diga». 12


Attesa… «Eheh». Indi un «Ihih». Fessure degli occhi e celeste malato a intermittenza. E pappagorgia. E gallo di carne. Piante innaffiate. Casa. Porta socchiusa. A leggende metropolitane improntate alla carlona: «Le bustine di idrolitina in culo fanno passare le emorroidi?… Zio… Zio… Che dici eh? Le fanno passare?…». Attesa… «Eheh». Indi un «Ihih». Fessure degli occhi e celeste malato. E pappagorgia. E gallo di carne. Piante innaffiate. Casa. Porta chiusa. E così via. «Ma Vitellozzo era realmente così grasso?» «Un buddista relativista guida solo un Piccolo Veicolo? Patente B latente C.» «La teoria delle stringhe risponde all’impulso di piacere?» «Il prolasso della valvola mitralica nel medico condotto al pronto soccorso è un limite sondabile?» «Il magistrato-donna che si masturba con i canti di lavoro registrati da Lomax nell’aria caraibica può generare turbative d’asta nel giovane sperimentatore italiano?» «Tra i Lifetime (band jazz-rock) e le assicurazioni per la vita potrebbe intercorrere un rapporto estetizzante volto al soddisfacimento pulsionale?» «L’eventuale titolo di un romanzo non scritto quale il Tramonto dell’albino potrebbe recare in nuce elementi di xenofobia?» 13


«Il Tremonti dell’alpino potrebbe viceversa essere contemplato come prontuario montano delle accise?» «Quanta ipocrita insofferenza si cela nel pornojazzerotomane alla parola “respect”?» «Non amare i racconti di Léon Bloy dà licenza al proto-genitore di decidere se lasciare o meno aperta la porta nella stanza dei bambini?» «Tra il “non mi piace” e il “cattiva musica”, quante scopate della post-adolescenza sono necessarie a colmare lo iato delle seghe sotto le lenzuola dell’età post-puberale?» «Zio Carmelo ti inculeresti una scrofa?» Attesa… «Eheh». Indi un «Ihih». Fessure degli occhi e celeste malato. E pappagorgia. E gallo di carne. Piante innaffiate. Casa. Porta aperta. Tre variabili in tutto, come riportato dai miei appunti registrati con “Memo Vocali” del mio iPhone4. Le mie caratteristiche mercuriali trovavano nella fissità apparente di Zio Carmelo una finalità. Egli era il terminale tronco delle mie fibrillazioni, il vicolo cieco in cui implodeva la speranza di una prospettiva. Il fatto stesso che lui esistesse a quel modo, simboleggiava una quintessenza immanente di processo variabile, un ancoraggio tipologico che rassicurava subliminalmente nel contrasto. Zio Carmelo era il corpo spugnoso in cui si riassorbiva 14


il pensiero, il diorama della nostra specie, il callo cieco della storia, il panorama monodimensionale, il punto illimitato, la spirale schiacciata nel cerchio energetico abdotto da vecchi barbuti di Cina in tempi remotissimi. Procedere con le mie speculazioni era impantanarsi. Impantanarsi era procedere. Seguivo l’odore del suo acido urico, forte nelle giornate estive, come fossi l’Urologo di Odino, tra un «Pressappoco nella monade di Leibniz c’è una cagata di piccione?» e un «Quell’Assurbanipal di Sardanapalo! Come cazzo si facevano a chiamare così un tempo, zio? Che nomi eh? Zio… Zio, che dici?», e stavo annaspando sempre più, in preda a un delirio catartico, mentre cominciavo a intravedere una luce in quel ripetersi monocorde di gallinaceo, di «Eheh» e «Ihih», e di odore di piscio, e di scorregge a mo’ di interpunzione, e di celeste cristico malevolo. Ma erano spiragli di un attimo, squarci e barlumi sull’Indicibile che si cicatrizzavano nell’istante. Una sorta di zen rinzai casareccio che mi urtava da un canto, mentre dall’altro continuava a far germogliare ventagli di prospettive che non riuscivo a fissare e a catalogare una buona volta per tutte. L’impermeabilità di Zio Carmelo era la buccia di un frutto senza polpa. Tutto si riduceva irrimediabilmente all’osso: portachiusa - porta semichiusa porta aperta. Un trittico che conduceva nel vicolo 15


cieco del suo Peto, o nel celeste infernale delle sue feritoie, o nella patta pisciata del suo cavallo bolso. Era come voler assassinare un budino. Per me divenne una droga. Passavo ormai tutto il mio tempo a tempestare di domande Zio Carmelo e a registrare le sue reazioni in attesa di una miracolosa variabile. Che non arrivava. Un giorno però il mio amico Giampiero mi raccontò una barzelletta. «Sai perché le scoregge puzzano? Per i sordi.» Riferii come sempre a Zio Carmelo, che nel frangente era diventata la pattumiera in cui confluiva oramai la quasi totalità dei miei pensieri; mi ricordo che la inserii nel repertorio “Freddure”. Tra un «Pierino hai preso tu la molla. Noownnnnnn…» e un «Sai come chiamava suo padre il figlio del Generale Custer? Papàà papààà papà’ppapà’ppapàààà!». Dovetti interrompermi sull’ “ààà”, proprio nell’istante in cui Zio Carmelo pronunciò la Formula, ovvero quella che poi definii la “Variabile 0”, la risposta-codice: «Apollinaire-Su Larga Scala-Allitterazioni-Mesmerismo-Retrodatazione-Red ShiftSingolarità-Amen». Da quando schiattò, un bel giorno, così all’improvviso sulla panchinetta allucinante, sto a spremermi e a scervellarmi, nel tentativo di decriptare la “Variabile 0”. Morì come muore molta gente d’u16


na certa tipologia (che adesso non saprei ben definirvi ma statene pur certi che è una tipologia che muore con una certa modalità), con gli occhi aperti e la faccia viva e pulsante, ancora tutto bavetta, rossore e azzurro tipo romanzo di Tolkien. Di quelle morti silenti. Di quelle morti di cui ci si accorge solo a sera. Di quelle morti-non-morti che sanno di paesaggio, di lava bagnata, di foglia caduta, di autunno incombente. Stava là seduto all’ombra dal primo pomeriggio. Parte dell’orografia. Inezia incistata. Fotografato magari da un satellite. Parte della nuova Google Map. Eppure avrà scopato. Due figlie… Due cugine… Red shift… Pappagorgia… Apollinaire… Celeste di gallo… Mesmerismo… Patta pisciata… Allitterazione… Porta semichiusa… Su larga scala… Varici di zia e panchina sparata in direzione X… Singolarità… Piante innaffiate… Amen.

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Virgen 45

Quando mi ha sorriso ho perso la speranza. Non subito. Ma quasi. Riconoscevo quegli occhi, li avevo già visti troppe volte addosso a facce identiche alla sua. Persino le sue labbra piegate all’insù mi erano familiari. E il tono della voce, quasi incrinato dalla spasmodica ricerca di una personalità che, alla resa dei conti, poteva dirsi originale come l’annuncio di un’offerta speciale ripetuto dagli altoparlanti del supermercato. Ecco, proprio quella era l’unica cosa che le mancava. Un’etichetta con il codice a barre stampata sulla fronte: in alto il prezzo e, subito sotto, le istruzioni per l’uso del corpo. Un corpo talmente abituato a piegare le sue emozioni alla convenienza del momento da conservare ben poco di umano. Non ne potevo più di Virgen. A Phoenix sono ancora richiestissime e rappresentano una vera e propria manna dal cielo per tutti gli sfigati in cerca di calore umano. Vanno ancora per la maggiore, soprattutto per i cuori affranti che le prediligono 18


alle Vulvarex. Con una photomovie e una discreta afflizione dell’animo puoi sempre garantirti un’esperienza straziante. Avevo accuratamente scelto questa Virgen 45, e gli occhi color nocciola erano quelli della mia Loren. Non fosse per quell’odore sintetico, per le agghiaccianti espressioni vitree e i microscatti (Adam Eva sostiene che il problema sarà definitivamente eliminato nell’arco di due semestri beta), sarei potuto già sciogliermi in lacrime e cadere in ginocchio ai suoi piedi. Una pacca sul collo con il dorso del palmo. Samuel. «Hai finito con i lacrimoni? Cazzo è uguale a Loren! Identica! Cazzo fammela scopare!» «Piantala, andiamo.» Samuel guida con le mani impiastricciate di burro d’arachidi e lo sguardo perso nel vuoto del parabrezza. Si succhia le dita di tanto in tanto con uno schiocco davvero sgradevole. La mano oscilla tra il volante e la patta dei pantaloni. Il suo ghigno perenne reso spettrale dall’intermittenza delle luci del traffico è quello di uno Joker mansueto nel silenzio irreale della viabilità elettrica. «Fai ricarica che vado a prendermi della cioccolata. Ne vuoi? Ho bisogno di cioccolata, sono totalmente strafatto.» Mentre infilo quella dannata presa nella centralina della Mustang fvo, sto a guardare il giaguaro 19


sulla schiena di Samuel che pare acquattarsi a ogni sobbalzo della sua andatura ciondolante, facendosi piccolo, piccolo come un gattino. Devo reagire. Stasera è una buona occasione per sballarmi e dimenticare. «Sei pronto coglione?» «Amico, sono in tiro come poche volte!» Si riesuma il vecchio gioco della bottiglia. A me non tocca mai. Samuel è già seminudo con le mutande Disney. Il volto di Mickey Mouse presenta connotati stravolti per via di un certo turgore nelle zone della pavimentazione orbitale destra. Simpatiche allegorie da festicciola: qualcuno urla «Ehi Samuel, il tuo topo ha un ascesso!». Sono le otto e siamo già tutti strafatti. Mi ritrovo con una lingua in bocca mentre con la mano cerco a tentoni di far leva su quella che dovrebbe essere la trasfigurazione sinusoidale di una tazza del cesso. Lo specchio restituisce la schiena nuda di una donna tarchiata dal capello a caschetto. Io non posso, non posso, non posso. Esco e barcollo lungo le scale finendo in soggiorno dove butto giù tre tequile di seguito. Dallo specchio stile “Chelsea”, sbuca fuori un nano in tweed. Tippy Badolato. Un metro e cinquanta di pasticche. Lo afferro per il colletto e lo sbatto contro il muro. Le sue scarpine di vernice non toccano terra. 20


«Figlio di puttana perché le hai dato quella roba piena di virus? Come hai potuto farlo. La conoscevi fin da bambina. Figlio di puttana». «Ehi ehi ehi… Amico… Calma… Io non ne sapevo un cazzo. Ma sai cosa vuol dire la Contingenza 16? Periodo di merda amico. Pensi che mi diano il tempo di controllare eh? Dimmi? Lo pensi davvero? La Contingenza 16? Eh? Eh? Lo sai cos’è?» «Tu sei un figlio di puttana. Tu l’hai uccisa. Io ti rompo il culo, ti ammazzo. Adesso ti denuncio figlio di troia, quanti ne hai uccisi con quella partita di cranax? Eh? Quanti!» «Fratello, ehi. Calmati, non vedi che non ti reggi in piedi? Ehi mettiamo tutto a posto. Ho della roba con me. Pulita. Dai facciamo due passi.» Quei due sotto una luna sgorbia siamo io e Tippy. Camminiamo abbracciati a zig zag lungo i viali del giardino di casa Pills. La notte è fresca e il profumo della flora desertica rende inebriante quello sputo di vita, in un conato di pace liberatorio. L’essere che ha ucciso la mia Loren, un nano sfrafottente e corrotto, sta qui sotto la mia ascella. Potrei spezzargli l’osso del collo; ma c’è questa ebrezza nell’aria che mi commuove e fa vibrare il diaframma. Mi sento come una pianta che mette radici in barba ai parassiti. Sono nell’esplosione della mia post-adolescenza e la vita mi prende alla gola, soffocando il dolore delle cose perdute. 21


È una miscela biologica e chimica, un tripudio di Fratellanza e di Comunione: fiori che sbocciano, frinire di invertebrati, mitosi di cellule. Una specie di nettare vitale che esala da ogni poro, foro, squarcio e pertugio e che assaporo seguendo imperscrutabili disegni di mimesi inalatoria. La mente danza in sincronia con i giochi d’acqua e gli spruzzi rilucenti degli innaffiatoi automatici. Una fotosintesi musicale. «Zitizìc, zitizìc, zitizìc.» È questo respiro della terra riarsa dal fuoco diurno, questo nutrimento, che mi riconcilia alla bellezza di questo mio essere qui. Perfino questo rimestare di coltello, giù sul mio fianco sinistro ha un che di zuccherino; osservo Tippy che si dà da fare martoriando la mia polpa dolce, come stesse intagliando un ananas. Non posso che ammirare il blu cobalto dei capillari delle sue narici. Le mie dita si artigliano al fusto di una maestosa Magnolia Officinalis e Tippy continua ad accanirsi al mio fianco come un sepolto vivo in cerca di una via d’uscita attraverso le mie viscere. Il rosso rubino del sangue e il canto della sua lama sul mio costato sono i colori pastello del mio orgasmo mistico, la luce bianca poi, guizzante nelle sue sclerotiche spalancate, mi appare come una Rivelazione, un punto d’origine da cui contemplare lo stupore del Creato. 22


Il regale scarabeo muove le antenne in segno di empatia; poi ritorna a seguire le tracce di antichi percorsi lungo il fusto nodoso del possente albero. Sorrido alla mia Virgen 45, che adesso appare ancor più radiosa della vera Loren. In un’esplosione di Gioia Sintetica, quella creatura artificiale è la sola cosa che sento d’amare. Poi come una punta di un ago, un’inezia sospesa che tremola lungo una curvatura siderale. Tutto si spegne in un soffio. La mia gola è un’immensa cascata nera di bianco.

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Chiamami Alfredo

Una camicia a quadretti arancioni e rossi. Dei jeans. Una bella giacca leggera. Poi delle scarpe affusolate marroni, altre sportive; dei sandali da uomo. Alcuni metri più avanti tappeti dai colori vivi e sgargianti, esposti con grazia e voluttuosità sinuosa. È un giovedì afoso di luglio. Mi chiamo Alfredo. E sto morendo. Sono in Viale Salvemini e sono la solita ombra di mia moglie. La sua treccia nera come un pendolo oscilla falciando grani di tempo mentre le scarpe griffate col tacco disegnano una “x” di polpacci. Sono secondi in meno di ciò che mi resta da vivere, scanditi da una maieutica dello charme. Mi cammina avanti, a due metri, come sempre. La nostra relazione dura ormai da quattro anni, e il senso di questo trascorso m’è alquanto arcano nei rispetti di alcune cicche sparse e di una carta da gelato azzurro cobalto che paiono vivacchiare 24


nell’animismo cittadino di chissà quale pastiche di senso. Oggi le ho lasciato un bigliettino sul comodino. Avevo scritto nella notte: «Nella tua indifferenza c’è uno scarto d’affetto. Tu non mi sopporti, ma questo è solo un albeggiare qualunque. Le ciliegie maturano in frigo. Dunque mi ami». Lo avevo scritto su un pezzo di giornale. Poi ne avevo strappato con cura il frammento e lo avevo riposto sotto la sveglia, facendo bene attenzione a che quantomeno le ultime frasi fossero bene in vista: «… Le ciliegie maturano in frigo. Dunque mi ami». Avevo atteso che si svegliasse osservando l’insinuarsi dei raggi del sole sulle cose di casa: il tavolo lucido, poi la spalliera del divano, e infine il primo ripiano degli scaffali della libreria. Era sabato, dunque era la giornata dello shopping; quel che avevo scritto nella notte adesso pareva della stessa consistenza dei corn flakes dentro la mia tazza bollente. Uscimmo dunque, in qualità di coppia, e “sgasammo” come due freschi sposi dentro a un’auto che ancora profuma di nuovo. Adesso stiamo, come animali che fingano di non vedersi, immobili in una danza “butho”, perenni, davanti a una fioreria, gli occhi ficcati su dalie e primule indecentemente accese, nel sudore idealmente 25


verde, da post-chemioterapizzato, io, lei nell’algida freschezza dei profumi d’Asia. Repentina, una folata di brezza, ci sorprende nella torrenziale calura, temerariamente ardita in questo sacrificio inane, perforando di quei pochi istanti la cappa plumbea di adusta bonaccia. Una folata di brezza che è già evaporata. Istintivamente volgo lo sguardo in direzione del suo profilo. Non è bella, ma è altera e affascinante. E soprattutto pullula di vita. «Prenderei quelle dalie per il soggiorno» sussurra in una nebulosa di sé. «Perché no?» le rispondo raccattando i miei cocci. Nella possenza delle sue caviglie abbronzate e del maestoso polpaccio, che paiono sovraintendere allo spettacolo delle sue dita smaltate e al piccolo trionfo dell’anello incastonato sul secondo dito, si sfrangono e sfilacciano le nostre soggettività, quali postulati mal posti di un intertesto avente come oggetto il nostro ménage. La mia imminente fine fa a cazzotti con questa mia giornata di forma e salute, e ogni mio respiro concepisce monadi di speranza, irrelate, come un presepe ferragostano con la Madonna in costume e San Giuseppe bagnino. È questo suo brulicare di tonicità, nella rotondità del gluteo, soporosa nel rigonfiamento della sua 26


gonna, questo richiamarmi a una arcana Legge del Desiderio che ancor mi prostra, nella vessazione della chimica napalmizzante, mentre ansimo per negozi. Come negoziare con la Morte questo desiderio quando il vicolo cieco reca il nome di “Vicolo Donna Polpaccio”? Vano desiderare questa donna cattiva, che è fin troppo altera nel suo pascersi, femminina, indifferente alla mia cagionevolezza, inconciliabile alle metastasi dei miei corridoi infiorettati di flebo. Donna io ti detesto! E al contempo bramo la tua “cellularità”! Alieno, abitante in prestito di questo accidenti intersoggetivo, io non riconosco le tue leggi e aborro la tua naturalezza! Infine non compriamo poi nulla, e ci dirigiamo verso navate inondate di luce, costeggiando le ombre. Lei mi precede, ritagliando inesorabilmente a ogni passo i piccoli lembi della mia figurina, strabordando nell’incedere trionfale a ogni sbrago di nitore. Nei riflessi delle vetrine mi vedo svanire, e sempre meno comprendo questo edificare certosino e barbarico, di strade, chiese, casupole e monumenti. Adesso camminiamo fianco a fianco, nel suo “adeguamento” un ulteriore scarto che mi mortifica, come un soffocamento. 27


Nitida e priva di cromatismi, Luisa implode nel mio stomaco debilitato, fiaccando ogni mio singulto e ricacciando la mia stirpe in un’era lemurica, di molte glaciazioni fa. Esautorato, come un generale con la giacca lisa e privato d’alamari, le apro la portiera digrignando i denti. Altrove, per questo meriggiare elettrostatico, delle rondini di metallo spiccano voli.

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Il Bugiardo

Osvaldo era un bugiardo. Sparava tante cazzate. Troppe cazzate. Fece una fine di merda. Nelle zigrinature del cielo, arabeschi di nuvole silenti, mute coreografie che scorrono veloci e leggere. Il cemento è ruvido e rovente. L’eterno andirivieni del mare sui bastioni del porto è una cantilena spezzata. Dalla gola, tagliata all’altezza del pomo d’Adamo, zampilli d’un rosso rubino. Convulsione ritmica nella luce del mezzogiorno. Un leggero vento di maestrale, aspro e salubre, pare farsi breccia nella canicola, portando alle narici il profumo della salsedine. Strano a dirsi, ma c’è in Osvaldo un’intermittenza di fastidio per quella costosa giacca che sta lì a sfregarsi nelle contorsioni del corpo. Per non dire dei tacchi delle belle scarpe, nere e lucide, che grattano sul pontile come croste di parmigiano sulla grattugia di un cassintegrato. Osvaldo vorrebbe fermarsi, vorrebbe smetterla di agitarsi, di rovinare quei capi costosi. Il rumore del cuoio sul cemento, irregolare e fre29


netico, sembra quello di un topo chiuso dentro la scatola di un gioco da tavola. Manuel, il cileno che lo ha appena sgozzato senza una titubanza, si è come volatilizzato. Osvaldo ricorda l’odore forte di sudore, come di limone avariato. Rammenta quel gomito possente e il puzzo acre delle ascelle, mentre comincia ad annebbiarsi il significato di tutto ciò che è appena successo, i nessi della frode a squagliarsi come Fate Morgane nel deserto sinaptico. Appare anche una gigantesca lima che comincia a smussare gli addentellati di quello che sembrava essere un piano mattutino perfetto. Nel cielo terso c’è un filmato che continua a scorrere. La retina di Osvaldo come un dispositivo elettronico in costante focalizzazione, zumma tra cielo e cabina elettrica, tra indistinto nitido e particolare sfuocato. Un gabbiano si posa, caga e poi riprende il volo. Osvaldo non ricorda bene quanto successo nelle ultime ore, ma certamente è aggrappato con tutte le forze agli odori di Manuel, al cemento, alla giacca e ai tacchi delle scarpe che si vanno scorticando. Non c’è dolore, solo una specie di mancamento zuccherino che sa di lecca lecca lasciato in spiaggia. I rumori del corpo che si contorce sono i silenzi di una marionetta in un film di Méliès. Qualcosa in lui comincia a separarsi: l’Osvaldo A, è in lotta tra la vita e la morte, sperimenta l’angoscia della fine e ha il corpo scosso dalle convulsioni; 30


l’Osvaldo B, vive una sorta di delirio cazzone, una sequenza velocissima di freddure e nonsense che scorrono a mitraglia lungo una sorta di schermo fotonico a forma di spazio curvato. «Affare Fato: patto tra Ulisse e alcune divinità.» «Precipuzio: caduta negli Abissi susseguente a circoncisione.» «Il mattino ha l’horror in bocca.» «menta verde, sapore ingannatorio che rimanda allo zuccherino, mente, ingegno, mento, inganno, sono bugiardo, ma anche affetto da prognatismo, monta la cavalla, pecorina, vacca, munta la mucca che dà il latte, che ha pascolato sul monte, da scalare, la vetta, gli uccelli, le ali, come la manta che apre maestosa le sue pinne nelle acque oceaniche...» «La pastina col dadaismo si dà a dei bambini morti con le magliette con le pipe che non sono pipe.» «Concentriamoci, il termine “asporto”. Pizza d’asporto. Asporto si usa solo per pizza. Sfido chiunque ad affermare il contrario. Vostra madre vi ha mai detto “Costantino eccoti le polpette da asporto per la tua cena a casa”? Penso sia una in quelle parole chiave con cui la cia controlla l’Italia.» «Mi dia un’angoscia di pollo (… Roba di membra strappate)» «Pubertà: pube, erta, la fatica della scalata, della conquista…» 31


… Un infinito campionario di stronzate, squadernate come un libro tridimensionale aperto su un tesseract: pulsanti, luminescenti, carnose. È come un viaggio, è come partire. Appare chiaro. Lapalissiano. Evidente. Osvaldo assiste a questo suo sdoppiamento indolore, lascia quel sé agonizzante alla contorsione scomposta e penetra nella carne del linguaggio, in senso mitico: con tanto di valigia eterica. Si ficca dentro un treno di parole, come un pendolare al regionale dell’ora di pranzo, e schizza via come un quasar. Ora è esattamente quell’altro e dal finestrino interstiziale tondeggiante della vocale “O”, un fotogramma sull’orizzonte illimitato degli eventi, restituisce le ultime contorsioni sul molo dell’Osvaldo A. Eternamente. Il treno composto da un locomotore a sei carrozze corre da una dimensione all’altra. La testa del locomotore è una O, la coda, l’ultima carrozza dove si trova Osvaldo B, è un’altra O. Il treno è dunque così composto. O-S-V-A-L-D-O. Osvaldo B osserva quel sé che si dimena sul pontile. È un dimenarsi continuo e senza soluzioni; purtuttavia non c’è nulla di ripetitivo in quel delirio permanente; una sorta di fissità permutante pare sciogliersi in canto, al contempo distante, lontanissima, ma anche prossima e tangibile. Le lacrime sul volto di quel viaggiatore siderale indicano pentimento e amore di sé. Osvaldo B 32


comprende di aver sbagliato, realizza di aver vissuto una vita indecorosa, fatta di piccoli, squallidi espedienti, passata a fottere il prossimo per motivi spesso futili e inconsistenti, con pochi sprazzi di generosità e altruismo. Il tormento di quella povera figura, dannata eternamente alla contorsione di uno spasmo indicibile, ha la leggerezza dei gesti semplici, di un fiore posto su una lapide. Ha il valore della testimonianza. Osvaldo B piange adesso a dirotto e non fa che ripetere tra i singhiozzi una sorta di nenia cantilenata. Dice scusa, scusa, scusatemi tutti. Lo dice a se stesso a e tutti gli altri, a quelli cui ha recato danno. Vorrebbe abbassare le tapparelle del “finestrino”, far calare il sipario su quella straziante, tenera visione… Ma tutto è come scarnificato su un piano ultrasensoriale. Il treno-Osvaldo è un punto mobile non osservabile né commensurabile. La dualità espressa è solo apparentemente un coacervo di ossimori. È uno sciogliersi, un colare mieloso verso feritoie di antimateria, una sorte di Redenzione in fieri. Un processo denso, immenso ma al contempo fluido e leggero come il battito d’ali di una farfalla fantasma. Un’allegoria espressa non verbalmente e al contempo posta, come scolpita sulle sette lettere del nome, edificata sul riverbero di quell’uomo colto nell’atto del suo indefinito morire. 33


Osvaldo B si ficca dentro uno spazio morbido, sente le sue molecole (non sa perché usa il termine molecole, ma non riuscirebbe a descrivere altrimenti quelle sue particelle) ingrassare, crescere a dismisura, guadagnare spazio a spazio, dilatarsi per velocità e direzioni antitetiche. Tutto pare sfilacciarsi, ricomporsi, addensarsi, svanire, crescere, ridursi. L’intera gamma sensoriale sembra implodere in un unico immenso punto viola, come un dentro che si rovescia, uno squarcio che si risucchia. Entità energetiche paiono deglutire l’osvaldità, accogliendo l’espansione con fauci non figurate. Un sorriso appare sul retro di un’amigdala non raffigurabile, cosmica. È come prendere a scalpellate il concetto di iconoclastia. Deframmentazione. … o… l… v… s… a… o… d… Il non dicibile. Il Verbo pulsante.

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