PALUDE
ERIS EDIZIONI
ILLUSTRATO DA DARIO PANZERI
PALUDE
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Collana Atropo
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© Copyright 2022, Eris (Ass. cult. Eris)
© Copyright 2022, Uduvicio Atanagi
Eris (Ass. cult. Eris)
piazza Crispi 60, 10155 Torino info@erisedizioni.org www.erisedizioni.org
Prima edizione Novembre 2022
ISBN 9791280495228
Teresio Lucenti è uno spettro e sua sorella una puttana.
Vivono come maiali in quella casa vicino alle fosse. L’ho visto una volta, il ragazzino dico, l’ho visto camminare con la testa china, aveva i capelli sudici che gli cadevano in faccia, i vestiti rovinati e terrosi e le unghie nere di fango.
Giuro che un giorno lo riempirò di botte, giuro che lo distruggerò, che lo farò piangere e poi lo ammazzerò, oppure lo prenderò e lo bacerò, e succhierò fortissimo fino a ingollargli la lingua, lo bacerò così forte che negli sputi gli verranno via anche l’anima e il cuore.
Urla, butta fuori l’aria, è sudato, la fronte è bollente, ondeggia, calmati, gli dice il babbo. Urla ancora. Poggia la mano sulla fronte della donna, gli occhi della donna sono rossissimi, sembra che sanguinino. Il ragazzino piange, ma piange in un modo diverso da come piangono le persone, tipo che gli colano le lacrime come se non avessero fine, poi gli cadono addosso e nella bocca e nel naso, gli impregnano tutti i vestiti, bagnano il pavimento.
Babbo, dice la ragazzina, babbo fermalo, sta male. Shhhh, dice il babbo allungando un braccio per tenerla lontana.
Nella stanza c’è una vecchia, poi c’è un signore vestito povero, il ragazzino mette le mani sulla fronte della donna sdraiata sul letto, le lenzuola sono fradice, la donna boccheggia, le manca l’aria.
Si sente un urlo, il ragazzino le poggia la bocca sul cuore, e allora succhia, succhia fortissimo, si irrigidisce, si incurva, la donna trema, spalanca la bocca e sgrana gli occhi, le dita delle mani e dei piedi magrissimi si contraggono dure, il sesso peloso sbuca come una macchia scura dalla sottoveste bianchissima. Improvvisamente il ragazzino si stacca, casca all’indietro come se una forza
lo avesse respinto o una cosa gli fosse entrata in bocca così forte da farlo schizzare via. Cade a terra in preda alle convulsioni, ribalta gli occhi e dalla bocca gli comincia a colare qualcosa.
Babbo, grida la ragazzina, ha i capelli tinti di nero, il rossetto nero, la maglietta nera, le maniche sono tutte sfilacciate, si intravede il profilo di un seno, una piega rosa, un filo di saliva le collega le labbra mentre grida, si colora del rosso della stanza, le pareti sono umide, i vetri lentamente si stanno appannando, poi gelano facendo diventare il mondo di fuori una cosa tutta fatta di fantasmi.
Arrivarono a Palude nell’aprile del 1998, mentre la primavera cambiava volto, diventava più arida e dura. Ce li aveva chiamati il cugino di Roberto Fiumani, aveva detto che c’era un posto dove potevano dormire e c’era del lavoro per Roberto, c’erano dei progetti e dei campi da coltivare, lo avrebbero preso subito, era questione di andare lì, aspettare un po’, conoscere la gente e poi le cose si sarebbero sistemate.
È un posto di merda, è un buco del culo, un inferno galleggiante o una cosa del genere, gli aveva detto, però c’è del lavoro, c’è da prendere a vergate quella terra, c’è da guardare gli animali, non potete andare in giro come zingari tutto il tempo. Devi mandare i ragazzi a scuola, Palude fa schifo, però almeno c’è una scuola e non dovete più dormire in macchina tutte le notti.
In macchina ci avevano dormito lo stesso, la casa era completamente inagibile, a vederla sembrava che le muffe che la riempivano si fossero fuse col suolo e l’avessero ingoiata, pulirla era come scolpirla, strapparne la forma dal vuoto, darle una nuova esistenza.
Le mura erano marce, così come il pavimento. Le fondamenta avevano ceduto, si erano fatte molli e nere, erano diventate parte dell’acquitrino dal quale parevano tentare di emergere, mentre la casa ci sprofondava sempre più dentro.
Provarono a lavorarci, provarono a sistemarla spaccandosi le unghie e le mani, passandosi le braccia luride sulla fronte sudata, ne uscirono sfiniti, sconfitti, con addosso un odore che non sarebbe mai più andato via, simile a quello dell’inizio del mondo, l’odore di un utero erboso e bagnato come la pancia gravida della terra.
Prima di arrivare, l’uomo, il ragazzino e la ragazza, che all’epoca doveva avere diciassette anni, avevano vagato per la Tosca-
na. Roberto era riuscito a trovare dei lavoretti, seguiva il mercato della manovalanza al nero, anche se principalmente era roba degli albanesi e dei rumeni e una volta l’avevano anche pestato.
Andando in giro, in quelle notti a guardare fuori dal vetro dell’auto, con l’odore forte dei loro corpi che li abbracciava salendo nelle narici, per poi mischiarsi in particelle umide dentro ai polmoni come una specie di amore, avevano finito per iniziare a vendere le cose che faceva Teresio, ed era buffo perché in un altro tempo quelle cose lì che faceva erano state in qualche modo mal viste e proibite, ma adesso erano diventate necessarie, perché loro avevano fame e la gente pagava, e la gente soffriva e il dolore non finiva mai.
Era stato così che in quei primi mesi, sotto infiniti cieli traboccanti di stelle che delle volte dalle parti di Siena sembravano come le prime luci del mondo, oppure in certe gole buissime, circondati dalle lucciole che si accendevano nel verde fortissimo, Teresio era diventato un incrocio tra un fenomeno da baraccone e una specie di guaritore.
Ti fa male?
Gli aveva chiesto Luisa una sera d’estate di tre anni prima. Era un’estate caldissima e strana dove sembrava che la natura ribollisse di vita in modo violento, quasi stesse per sbocciare qualcosa di nuovo, di più primordiale, poi però il caldo aveva bruciato tutto, un po’ come fa la brina d’inverno.
Lui comunque l’aveva guardata, non lo so, sì forse, le aveva risposto.
Sì, più che altro li sento, mi sembra che rimangano dentro di me, che non se ne vadano mai.
C’era stato un attimo di silenzio, Roberto dormiva, loro invece stavano seduti sul cofano dell’auto, le lucciole che balenavano illuminando il bosco, i prati che scintillavano argentei sotto alla luce morente della luna.
Forse sono io che faccio male a loro.
Il ragazzino respirò forte, come volesse ingoiare tutta l’aria del mondo, poi la buttò fuori.
Secondo te che gli succede? Secondo te cosa rimane? Domandò.
Luisa non aveva risposto, però ci aveva pensato, iniziò a pensarci ogni volta che succedeva. Per lei era tutto così strano e malato e anche tragico, ma era il mondo a essere così, infatti mamma era morta e quindi era così ogni cosa e lo sarebbe stata per sempre.
Per un certo periodo, agli inizi dell’attività, si erano presentati un po’ in sordina, trovavano clienti in certi ambienti particolari, poi c’era il passaparola, e dopo erano i clienti a venire da loro. Dopo aver ottenuto i primi successi, Roberto aveva pensato di fare le cose in grande, allora erano passati ai volantini e ai costumi di scena. Luisa si era incazzata e si era vergognata, però era stata al gioco e i soldi per vivere erano arrivati.
C’erano state varie versioni e varie mitologie legate alla loro attività, la famiglia spettrale, i tre guaritori, il bambino prodigio, los curanderos e altri nomi altisonanti di cui la più infelice incarnazione era stata la falsa origine bulgara o armena che aveva portato inevitabilmente a dialetti inventati e a una serie di altre macchinazioni, che alla fine erano collassate su loro stesse.
Il metodo migliore per trovare clienti era risultato comunque quello dei classici annunci, sia su riviste locali che su fogli appesi alle pareti di bagni e lavanderie, la frequentazione di certi ambienti esoterici, le amicizie fugaci con indovini e cartomanti che conoscevano nei campi rom dove si accampavano per passare la notte.
Erano finiti così, senza nemmeno rendersene conto, all’interno di un mondo fatto di roulotte e strade sterrate, un mondo marginale dove il loro tetto era stato il cielo, filtrato da quella patina di polvere sporca che si accumulava incessante sul parabrezza dell’auto.
Avevano vissuto in movimento, fermandosi solo per periodi limitati nei luoghi più oscuri ed esotici della regione. Paesini dimenticati, depressioni nella terra popolate da poche decine di anime che sembravano gli spettri di chi lì, tra quelle strade polverose, in un tempo lontano, ci aveva vissuto davvero.
A Teresio era rimasto impresso il giallo. La Toscana non è verde, è gialla, è il giallo ardente dei campi di grano dove il sole sembra vomitare una luce accecante e cupa che poi tende a tonalità
più scure. Colori impossibili che gli occhi non riescono nemmeno a vedere, desolazioni che si possono percepire solo con il cuore o con lo stomaco, con sensi nuovi e abissali che si annidano nell’anima nera dell’uomo.
Poi avevano visto le ville, le società che ammiccavano a rituali esoterici o scimmiottavano antichi misteri, avevano visto i colletti degradarsi, riempirsi di vermi, un senso di sporco nascosto da una lucentezza apparente. I corpi degli omicidi rituali dei mostri, ancora lì, carie, fantasmi, spiriti inquieti che vagavano per i boschi, l’inferno accecante di Fiesole, l’esoterismo storpio di certe aree suburbane o profondamente urbane fatte di arcate e di forme, architetture ecclesiastiche che parevano ambire a qualcosa d’altro, come se guardando un rosone, il rosone potesse cominciare a girare e con lui a girare anche lo spirito, come quei mostri messi fuori dalle chiese, a spaventare, a dissuadere, state lontani, scappate, oppure entrate, guardate l’orrore negli occhi, scopritene la polpa più morbida, la nudità segreta.
Era così anche Palude. Il territorio di Palude si estendeva in aree che sfumavano, si mischiavano tra i campi di grano, le dolci colline, poi i ribollenti stagni paludosi, la vegetazione fitta dei boschi neri che la circondavano.
I suoi primi abitanti avevano vagato nudi dentro un’oscurità gorgogliante, terrorizzati dal mondo che si plasmava sotto ai loro occhi e nello stesso tempo affamati, bramosi di prendere e di mangiare.
Con i corpi ossuti divorati dalla fame, e le barbe incolte che sfioravano la terra, avevano vagato nella fanghiglia ravanando nel fango con ossa e bastoni, catturando cose piccole e molli, straziandole con i loro denti grossi, colpendo, arraffando, per rifugiarsi poi in antri profondi e bui, a tremare stringendosi l’uno con l’altro, guardando il mondo diventare il mondo, crescergli addosso, prendere la forma di un’anima dentro allo stomaco, infreddoliti, gelati ma troppo terrorizzati dal fuoco per sceglierne il calore.
Erano stati quegli stessi abitanti che avevano poi costruito la prima struttura della città, una prima forma rudimentale fatta di palafitte storte, di pezzi di legno e di nodi che ciondolavano sopra quel verde gracidante. Si erano nutriti di quella terra, riempien-
dosene la carne, lo stomaco e i polmoni fino ad adattarsi, a diventare anche loro simili ad alghe o piante acquatiche o cose nere e curve che scandagliavano profondità melmose, tastando con le dita ossute un buio che si attaccava alle loro anime rozze.
Palude, con il suo acquitrino, era sopravvissuta a ogni tentativo di bonifica, gli antichi Romani avevano dovuto ritirarsi stremati, i loro corpi infettati, le loro ferite purulente e incancrenite.
Avevano detto che in quel luogo, in mezzo a quegli uomini che dovevano per forza essere bestie, vivevano certi diavoli e certi altri dèi, cose gorgoglianti e incomprensibili, cose che facevano uscire il male anche dal bene. I sacerdoti avevano segnato il confine di quegli acquitrini con stecchi e con pietre, centurioni e soldati erano battuti in ritirata, evitando quella terra tacciata come dannata, cercando di dimenticarne il verde accecante, la piattezza nera delle acque putride, l’odore acre e dolciastro che saliva nei vapori sulfurei di interminabili notti.
Nel 1923 erano arrivate le bonifiche fasciste, e ancora una volta gli uomini avevano dovuto ritirarsi di fronte alla potenza di quella fanghiglia, dei corsi d’acqua verde che parevano far diventare verdi anche i cuori.
Il comando fascista aveva ordinato di continuare, ostinato, anche quando gli uomini avevano cercato di ammutinarsi. C’erano state fucilazioni e perdite. Si dice che alcuni corpi si persero nella melma, si dice che Palude sia lastricata dei cadaveri di tutti coloro che avevano tentato invano di far arretrare quel marciume.
Poi, sul finire del ’24, il progetto di bonifica fascista era fallito. Gli uomini se ne erano andati, così come erano arrivati, alcuni di loro ammalati, colpiti dalla sifilide e dalle febbri della malaria, altri deliranti, accecati, coperti di pustole e segni che li facevano sembrare più delle piante che degli esseri umani.
Avevano camminato grigi e svuotati come in una triste parata, marciando con le loro macchine drenanti, sfilando sotto i cupi occhi degli abitanti di Palude, creature che parevano uscite da quelle acque, nate su quelle terre, muschi e funghi con denti e bocche che si incancrenivano sopra una corteccia marcia o sulla pelle crostosa di un qualche animale.
Alla fine era rimasta quella terra immensa, l’acquitrino che pareva la radice da cui crescevano le ramificazioni dei campi, l’enormità della distesa di fattorie, l’area industriale che si estendeva ragniforme fino alle colline, e poi il bosco, la vegetazione fittissima e nera a macchiare col suo colore quella terra stagnante.
Nel 1998, mentre le strade e i campi si mostravano agli occhi di Teresio e Luisa, Palude era un abitato immenso che conservava però ancora la sua forma contadina, lo stesso sangue, la tempra di quegli stessi uomini che prima, molto prima, avevano spalancato i loro occhi ciechi e cominciato a leccare.
Non ci volle molto perché la gente iniziasse a parlare di Teresio. Sono arrivati quei forestieri, sì, il cugino di Fiumani, gente di città. Quel ragazzino è un diavolo, vadano via loro e le loro diavolerie. Giovanna però, magari si potrebbe provare... c’ha già provato lo strizzacervelli e non è servito a nulla… e cose così che si dicevano nei bar, nelle case, tra i vicoli e davanti alla chiesa, tra le vecchie.
E alla fine i clienti erano arrivati, erano scesi con passi lenti nell’acquitrino, si erano guardati sperduti di fronte a quel costante scrosciare, di fronte a quella natura nera e buia che di lì iniziava cancellando il ricordo delle loro case, le loro auto, i televisori davanti ai tavoli da cucina, come voci lontane, ricordi di un mondo che adesso scompariva, dove la natura riprendeva il controllo, imponeva la sua oscurità brulicante.
Avevano bussato alla porta e siccome nessuno rispondeva avevano bussato ai finestrini dell’auto e allora tutto era cominciato di nuovo.
Oltre ai vecchi, oltre a quell’umanità spettrale che abitava Palude, c’era un mondo sotterraneo, una realtà feroce e silvana che era quella dei ragazzini e dei ragazzi più grandi, delle bambine e delle ragazze dalle labbra grandi e grosse e dai capelli chiarissimi che sembravano paglia o grano o quel giallo che Teresio aveva visto accecarlo durante gli interminabili viaggi in auto, quando la desolazione, la terra sconfinata dove non si vedeva più un orizzonte, sembrava diventare un mare capace di farti dimenticare chi eri, capace di portarti via dentro quel giallo e quel nulla infinito.
I gruppetti di ragazzi si dividevano e si associavano seguendo occulti magnetismi e istinti animali, c’erano quelli più deboli e
mansueti che vantavano un’accozzaglia di individui di varie età, bambini stranieri e italiani uniti dalla passione per i videogiochi e i fumetti e i giochi di ruolo e tutte quelle cose che li definivano come sfigati agli occhi del resto di quella fauna selvaggia, poi c’erano i ragazzi più grandi che stavano ai margini del paese, il loro capo era Elia, che era biondissimo e lungo, che spesso lo potevi vedere a torso nudo nei boschi, con una bandana rossa in testa e i jeans stretti e strappati.
I ragazzi selvaggi giravano con le loro moto e delle volte si scontravano con gente delle città vicine, in qualche modo controllavano Palude ed erano temuti anche dagli adulti, spaventati da quel loro bruciare, dalla facilità con cui un sorriso poteva trasformarsi in un ghigno crudele, far sbucare la luce tagliente di un coltello.
Poi c’erano i bambini della periferia, di cui nessuno sapeva praticamente niente, si sapeva solo che erano sporchi e delle volte erano anche pericolosi, non avevano genitori o erano figli delle prostitute straniere che li lasciavano alle vecchie megere, e poi finivano per crescere per strada, o nei boschi, simili a bestie, sviluppando un loro linguaggio, custodendo i loro strani segreti.
C’erano anche altri ragazzi, i figli ricchi dei proprietari terrieri e dei padroni delle fabbriche, oppure quelli che uscivano poco perché avevano paura, che li vedevi a scuola e poi correre a casa, oppure con i genitori che li venivano a prendere e li vedevi correre dalle loro mamme, guardando quel mondo vibrante dai finestrini delle loro auto, sotto la protezione delle loro famiglie, terrorizzati dalla violenza, da quel sistema che poteva entrare con la forza, buttare giù le loro difese illusorie e riempirgli la faccia di pugni e gli zaini di sputi.
E poi c’era la banda di Sebastian Barsoldi.
Sebastian Barsoldi era il figlio di Giulio Barsoldi, discendente della famiglia Barsoldi e proprietario della villa Barsoldi e di praticamente tutta Palude e di infinite ramificazioni che uscivano fuori Palude.
I Barsoldi avevano sempre vissuto a Palude, la loro storia, la loro intera dinastia si era intrecciata indissolubilmente con quel-
la terra, con quelle acque, con il verde, col giallo, col nero accecante che gli si era come appiccicato anche all’anima e al cuore e gli aveva fatto cambiare colore.
Dei Barsoldi si sapeva il giusto, si raccontavano storie ma solo in segreto, sicuri che nessuno ti avrebbe sentito. E delle volte si ascoltavano le grida provenire dalla villa e poi i grandi silenzi, assordanti, lunari, che ricoprivano la città, la terra, come farebbe la polvere grigia e biancastra caduta dai capelli rinsecchiti di un morto.
A Sebastian Barsoldi, Teresio non era piaciuto dal primo momento. Non gli piaceva quella famiglia cenciosa, quei derelitti che erano entrati nel paese, quell’uomo che sembrava più che altro un corpo che si ostina a muoversi come quei polli che corrono senza la testa facendo finta di non essere morti. Non gli piaceva quella ragazza con i capelli neri e tutto nero e la pelle bianca che sembrava una strega o una specie di strega, e non gli piaceva in generale vedere gente nuova e pensare che quella gente nuova avrebbe parlato e sentito parlare dei Barsoldi, avrebbe sentito le urla e quel suono costante, acuto e selvaggio che tagliava la pelle lasciando lividi precisi, esatti, come quelli che voleva lasciare lui, quando sognava, immaginava, pensava intensamente a certe cose e certe fantasie che lo facevano sentire vivo e morto contemporaneamente.