Erodoto108 n°4

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ERODOTO108 4 • AUTUNNO 2013

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ERODOTO108 4 SOMMARIO 4 EDITORIALE

ELOGIO DELLA NORMALITÀ Andrea Semplici

7 IL RACCONTO

IL TRAGHETTO DEL MAR CASPIO

106 CRONACHE

ESCUELITA ZAPATISTA Valentina Valle Baroz Andalucìa Knoll

118 Torneremo sempre a tampenol per il Pozole Carlos Acosta

Tino Mantarro, Andrea Forlani

14 REPORTAGE

RUBRICHE

VOGLIO VIVERE ALLE VERGINI Andrea Semplici

48 UNA FOTO UNA STORIA SARAJEVO, LA RAGAZZA CHE CORRE Mario Boccia

32 REPORTAGE

AZZORRE, SULL’ORLO DELL’OCEANO

68 GLI OCCHI DI ERODOTO ERODOTO, UN FICCANASO Isabella Mancini intervista Eva Cantarella su Erodoto

Marcella Borghi

52 REPORTAGE

ALLA VELOCITÀ DI DIO. INSEGUENDO BOSONI A GINEVRA Paolo Magliocco, Giovanni Breschi

REPORTAGE FOTOGRAFICO 72 TERRA SANTA TERRA SANTA Cesare Dagliana

86 Invisibili nella “terra stretta” A. S.

QUADERNI A QUADRETTI 90 GIUSEPPE PALUMBO:

88 STORIE DI CIBO FIRENZE, LE TAGLIATELLE DI SABATINO Francesca Cappelli, Massimo D’Amato

104 STORIE DI CIMITERI TARANTO, VENITE A PASSEGGIARE NEL CIMITERO “SOPRA I TAMBURI” Andrea Semplici

120 STORIE DI ARTE “HOY ES HOY”, L’ULTIMO SGUARDO DI JAVIER MARIN Valentina Cabiale

122 OROSCOPO Letizia Sgalambro

MATERA, CHE TEATRO! a cura di Sergio Leone

94 LA STORIA DI DON BEPPE DIANA a cura di Sara Lozzi

www.erodoto108.com FOTO DI COPERTINA Andrea Semplici. Fondatore: Marco Turini • Direttore responsabile: Andrea Semplici • Redazione: Valentina Cabiale, Marco Turini, Giovanni Breschi, Elena Cerretelli, Isabella Mancini, Sara Lozzi Yuri Materassi, Sergio Leone, Andrea Semplici • Web designer: Allegra Adani • Progetto grafico:Giovanni Breschi /Casalta ERODOTO108 registrata al Tribunale di Firenze Stampa Periodica al n.5738 il 28/09/2009

La mia Palestina è una terra bellissima. Ho passato intere giornate nella fabbrica del sapone di Shakaa, appena fuori le mura di Nablus, a due passi dalla porta Occidentale. Il sapone aveva bollito per giorni in colossali ‘fosse’: soda e olio di oliva. Poi era stato disteso sul pavimento, lentamente si era asciugato, gli operai avevano tagliato una per una le saponette e avevano creato piccole pile e autentiche piramidi per far sì che il vento le essiccasse. Il sapone di Nablus è apprezzato nell’intero Medioriente.


E D I T O R I A L E

ELOGIO DELLA NORMALITÀ NUMERO QUATTRO DI ERODOTO108. Cinque se consideriamo anche il numero zero. La tentazione è di non scrivere niente. Questa volta ho scritto troppo nelle pagine che state per sfogliare. È andata così: questa rivista ha una sua casualità. Quattro è un numero strano: non ha la gloria di un tre, né lo slancio di un cinque. Non arriva alla perfezione del sette. Ma ha un pregio: premia una fatica quotidiana, vuol dire che si è scavalcata l’adrenalina che ci ha costretto a far uscire il primo numero e l’inerzia che ci ha condotto fino al terzo. Il quarto numero è una normalità. E una grande fatica. La fatica di fare qualcosa che va oltre le nostre possibilità. E che siamo riusciti a fare una volta di più. Complimenti a noi. E a voi che ci leggete o, come sempre mi dicono i nostri webmaster, ci cliccate. Erodoto108 si ostina a uscire. E lo vuole fare ancora per un bel po’ di tempo. Credo che nessuno di noi avrebbe scommesso di poter arrivare fino a qui. Qualcosa è accaduto, qualcosa si è messo in movimento. La rivista si arricchisce di nuovi collaboratori, il suo blog non riesce a stare fermo, crescono i ‘mi piace’ sulla pagina facebook. Dobbiamo essere contenti. Ne siamo contenti. Io rimango sempre stupito che ci vengano offerti articoli senza pretendere un compenso. Che amici ci dicano di sì quando gli chiediamo una collaborazione spiegando che in questa rivista non circola un solo centesimo. So che i nostri ‘redattori’ sono pronti a un rimprovero: ‘Parli sempre di soldi’. Hanno ragione, ma, su Nuovi Argomenti (www.nuoviargomenti.net/scrittura-e-denaro/), ho appena letto un articolo di Simona Vinci, meravigliosa scrittrice emiliana, amata fin dal suo primo libro ‘Dei bambini non si sa niente’. Simona racconta del suo rapporto con i soldi e con lo scrivere. In un suo libro-pugno-nello-stomaco (Stanza 411, edito più di due anni fa da Einaudi) scriveva: ‘Il denaro. I soldi. La pilla. I baiocc. Gli sghei. I ghell. I danee. La grana. Non c’è niente che mi faccia più orrore dei soldi. Toccarli. Parlarne. Pensarci. Li odio. Li odio perché fin da quando sono nata so che cosa sono i soldi: il diritto di disporre di un altro essere umano, di asservirlo, dominarlo, umiliarlo’ . Un’altra scrittrice aveva letto quella pagina e aveva aggiunto: ‘Senza soldi non fai nulla, non vai da nessuna parte, non hai possibilità, non hai futuro. Con i soldi la vita cambia, realizzi i tuoi desideri, stai con chi vuoi per quanto vuoi, non hai pensieri né preoccupazioni. Senza soldi sei disperato, con i soldi sei felice’. Adesso su Nuovi Argomenti, Simona racconta del suo scrivere: ‘Scriverei comunque, scrivo comunque, e niente che sia intimo: io scrivo per essere letta, e scrivo articoli, recensioni, lettere, racconti, frasi, poesie, status su Fb, regalerei e regalo pezzi, pagine, commenti e storie, la scrittura erutta da me, erompe, mi squassa e sa trapelare da pori, squame, abrasioni, mescolarsi ai liquidi organici in uscita e schizzar fuori anche se non voglio. Certo, è così, scrivo comunque e scriverò comunque, anche a gratis, come ora, ma quando mi pagano scrivo con più convinzione e dunque scrivo meglio’. Mi viene voglia di chiamare Simona e chiederle un pezzo gratis per Erodoto108. Ne saremmo più che orgogliosi. Allo stesso tempo, mi viene voglia di chiamare chi collabora con noi e dire che finalmente la loro fatica sarà pagata. Va bene, perdonatemi, ma i soldi sono una storia seria, un’ossessione e non devono essere un tabù. Se ne deve parlare. Io mi chiedo quanto potremo andare avanti senza porcene il problema. Fare una rivista senza

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E D I T O R I A L E

soldi da un lato ci inorgoglisce, dall’altro io sono certo di andare contro un’idea di giustizia e contro un mestiere che mi ha fatto vivere con intensità trent’anni di vita. Non scioglierò questa contraddizione. Non so come scioglierla. Devo dei ringraziamenti. La grafica di questo nuovo numero di Erodoto è cambiata. È cambiato il grafico. Ci lascia Benedetto Betto Papi. Appunto: Betto che ha fatto tre bellissimi numeri della rivista (e anche il numero zero) non riusciva più a conciliare il suo lavoro con l’impegno di Erodoto. Noi speriamo che rimanga vicino a questa storia. Che è sua. Abbiamo bisogno di ogni aiuto e competenza. Abbiamo trovato l’entusiasmo di Giovanni Breschi: la nuova grafica è figlia della sua storia, bravura ed esperienza. Questo quarto numero è un tentare, un esperimento. A noi piace. Diteci cosa ne pensate. E noi cercheremo di darvi ascolto. Sì, amiamo la parola ‘interattiva’: vorremmo che questa rivista fosse, almeno un po’, una storia collettiva. Intanto: con passione, Giovanni sale a bordo di questa strana e folle barca di Erodoto. Sul ponte di questa stessa nave, a godersi un sole mediterraneo, questa volta troviamo personaggi di prestigio: Giuseppe Palumbo, uno dei migliori disegnatori italiani, ci ha donato due splendide tavole su Matera, la sua città natale. Grazie: abbiamo trovato il coraggio di chiedergliene con il trucco di una indimenticabile colazione assieme al bar Tripoli di piazza Vittorio Veneto ai confini dei Sassi. Matera sta diventando una città importante per Erodoto108. Paolo Magliocco è uno dei più attenti giornalisti scientifici. Ha deciso di accompagnarci in visita ai laboratori del Cern di Ginevra proprio alla vigilia del premio Nobel a Peter Higgs l’Uomo del leggendario Bosone. Una visita molto particolare in un mondo che, a sorpresa, è molto colorato. Mario Boccia, grande fotoreporter, ci ha donato una delle sue foto più belle: la ragazza che corre per sfuggire alle prime bombe su Sarajevo. È una foto-anniversario. Una storia che non vogliamo dimenticare. Mario era sulla via Maresciallo Tito il 30 settembre del 1993: il centro della città fu colpito dalla vigliaccheria feroce di granate lanciate contro una città inerme. Non vogliamo dimenticare quella guerra. La gente dei Balcani ne paga ancor oggi le conseguenze. Gli anniversari sono importanti. È capitato questo: la nostra idea di ricordare quella tragedia con la foto di Mario scattata nel settembre del 1993 ha colpito anche Repubblica.it e l’Osservatorio dei Balcani e Caucaso: ci hanno chiesto di poter avere anche loro questa storia. Ne siamo felici.

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E poi Eva Cantarella, giurista e scrittrice di fama, ci racconta di noi stessi. Grazie alle domande della nostra Isabella Mancini, Eva ci narra la storia di quel ficcanaso di Erodoto. È come guardarsi allo specchio. Speriamo di fare tanta strada quanto i chilometri percorsi da quel viandante greco. È un numero che sa di mare, questo. Di isole. Di oceani e di mari chiusi. Tino Mantarro e Andrea Forlani, giornalisti con lunghe storie alle spalle, attraversano la grande pozzanghera del mar Caspio, mentre Marcella Borghi, giornalista milanese, ci parla di un impossibile (e possibile) incontro con Antonio Tabucchi alle Azzorre. Assieme vanno a trovare la Donna di Porto Pin. Io, invece, salto l’oceano e mi ritrovo, per caso, in un mondo che non è mio e che mi lascia senza fiato: le isole Vergini Britanniche, paradiso fiscale, cassaforte


di ogni ricchezza più o meno illegale, sorprendono per la bellezza e per questo universo di spudorato potere finanziario. Confesso: ci ho capito ben poco, provo lo stesso a raccontarvene. Partendo dalla minuzia di una scatolina con del basilico dentro. Come una legge di contrappasso: se io vado nell’arcipelago del denaro clandestino, della economia in nero delle Vergini, Valentina Valle Baroz, giornalista di Biella che vive in Messico, ha frequentato, lo scorso agosto, le escuelitas zapatiste in Chiapas, montagne del Sud-Est messicano. E ci racconta la storia di un altro mondo che non solo è possibile, ma ci prova a esistere. Gli zapatisti sfidano il silenzio occidentale: sono una delle storie più interessanti e profonde della nostra contemporaneità. Forse per questo ben pochi ne parlano. Infine Cesare Dagliana, fotografo fiorentino, ci fa conoscere, ancora una volta, le storie impietose che ci arrivano da Israele/Palestina. Le sue foto valgono più di mille parole. Conosciamo quella terra, ma ogni volta ne siamo stupiti e indignati. Non riusciamo a capire la follia di quell’angolo di Medioriente a cui tutti siamo appesi. Prendono forma, in questo numero, le rubriche. Ogni tre mesi (la rivista avrà, speriamo, un andamento stagionale. Noi la vorremmo mensile e di carta: non ci riuscirà) racconteremo di cibo, di luoghi dei libri, di arte, di cimiteri, di archeologia, di luoghi della musica. Racconteremo di quello che scopriremo e di quello che voi ci direte di raccontare. Le rubriche sono piccole storie di una resistenza tenace alle leggi di mercato: vogliamo, e lo abbiamo detto più volte, sapere di luoghi dove le relazioni contano più degli affari. Vorremmo costruirne una mappa, vorremmo mettere a punto un gps che ci conduca in questi posti. Negli anni ci riusciremo. Novità che ha mosso le nostre anime: Letizia Sgalambro (segno sagittario) ci regala l’oroscopo. Ognuno di noi è corso a leggere il proprio segno. Un oroscopo per chi sceglie di navigare con noi. Le pagine di Letizia sono fra le più importanti di questa rivista. Erodoto108 è la nostra idea del viaggio. Andare ci serve a scoprire il mondo. Restare ci serve a scoprire il mondo. Amiamo i nomadi e i sedentari. Vogliamo avere occhi aperti. Vogliamo che i vostri occhi guardino il mondo per noi. Per raccontarcelo. Fatelo. Raccontatecelo. Scrivete, fotografate, filmate, condividete. Erodoto è pronto ad ascoltarvi. È un megafono, un microfono, un registratore. La rivista uscirà ogni tre mesi (non ne siamo affatto sicuri: così vorremmo, accadrà solo se riusciremo a essere impresa collettiva), ma il blog e fb sono cronache di ogni giorno. Trasformatele nel diario delle vostre storie. Devono avere un aggancio con il viaggio. Viaggiare, anche senza uscire da una stanza, è la vita. Noi, come sempre, vorremmo venirvi a trovare nelle vostre città. Ci interessano. Ci sarà un’osteria nel vostro quartiere e nel vostro paese. Di fronte a un bicchiere di vino, ascolteremo le vostre storie per farle diventare un pezzo di una storia che, soprattutto, è la vostra storia.

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VI AUGURIAMO E CI AUGURIAMO BUONA FORTUNA. E BUONI VIAGGI.

E D I T O R I A L E


IL TRAGHETTO DEL MAR CASPIO di Tino Mantarro

IL RACCONTO

foto di Andrea Forlani

MAR CASPIO

AZERBAIJAN-KAZAKISTAN ASIA CENTRALE

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elle sere di agosto a Baku l’odore del Caspio non è dei migliori: un misto di puzzo di benzina, umidità stantia e plastica bruciata. Altro che brezza marina. Del resto questo non è un mare. Ma non è neanche un lago. È una immensa pozza di acqua attraversato da navi che potrebbero solcare l’oceano e invece sono intrappolate tra queste quattro coste, come fossero gazzelle destinate a girare eternamente in tondo. Una di queste, la Kompositor Kara Karayev, un cargo di epoca sovietica ridipinto di nero e battente bandiera azera dovrebbe traghettarci da Baku ad Aktau, in Kazakistan.


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ovrebbe, perché essendo un cargo riservato agli autotreni non ha partenze fisse né tantomeno orari: parte quando è piena, attracca in porto quando la banchina è libera, ci mette il tempo che ci mette, segue le necessità del capitano, non quelle dei passeggeri. Anche perché, a rigore di legge, di passeggeri non ce ne dovrebbero essere. Non è un traghetto convenzionale: trasporta tir e autisti, non viaggiatori occidentali in cerca di avventure in Asia Centrale. Così per comprare i biglietti, o quel che serve per imbarcarsi non si può andare al porto e chiedere, ci si deve affidare a un mediatore. Il nostro si chiama Ismail, avrà trent’anni e dice di fare questo lavoro da tre. Se fossimo in Libia diremmo che è un passeur: un tipo losco che traffica in persone da un lato all’altro di un confine. Ma siamo in Azerbaijan e gli aspiranti passeggeri sono tutti turisti in cerca di emozioni neanche troppo forti da raccontare una volta tornati a casa, dunque Ismail da trafficante assurge al ruolo di traffichino: uno che ha trovato un modo redditizio di campare inventandosi il business dell’assistenza ai viaggiatori che vogliono portare la propria macchina in Kazakistan o Turkmenistan. “Quest’anno ho portato 185 persone del Mongol Rally in Turkmenistan” dice quasi a voler rassicurare sulla bontà dei suoi servizi. “In Kazakistan molti meno, perché meno gente vuole andare. Ma voi questa volta siete già 15” spiega. Con noi, che siamo quattro, ci sono altri due equipaggi italiani che partecipano alla Silk Road race (il rally benefico da Milano a Dushanbe) e una macchina di ragazzotti del midwest americano che partecipa al Mongol Rally.

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smail l’hanno trovato gli altri italiani al porto, finiva di imbarcare degli inglesi per il Turkmenistan. A noi ci ha trovato dopo un sms: “Ship Aktau needeed. 4 person, one car. Room 502, hotel Serin”. Il giorno dopo Ismail arriva inaspettatamente. Ha mezz’ora di anticipo e non si fa annunciare dalla reception, ce lo troviamo in corridoio sorridente che cerca la stanza 502, la nostra. “Ship, Aktau. Yes?”. “Yes, eccoci, siamo noi”. Dalla faccia sembra affidabile, indossa una maglietta di un rally Londra-Dushanbe, parla bene inglese e promette di farci imbarcare oggi stesso. Ma dobbiamo fare alla svelta per andare al porto: alle 13 chiude e tocca aspettare. Quanto? "Tre, quattro giorni, dipende". Dei biglietti o quel che sono si incarica lui, i suoi servizi costano quindici dollari a testa. Lui fa sdoganare la macchina, si prende cura dei documenti, tratta con i doganieri, asseconda gli inservienti del porto, stringe le mani ai poliziotti, saluta calorosamente le burocratiche signore della casa, dispensa “no problem”, insomma: il ragazzo si dà da fare. La partenza dice, è alle sei. Che poi diventano le sette, le otto, e infine le nove. Tramonta quando in colonna entriamo da un ingresso assai secondario del porto domandandoci se sarà legale quel che stiamo facendo. Ismail prende prende altri 155 euro a testa e li richiude nel passaporto di ognuno. Servono a pagare il capitano e la sua quota di intermediazione, dice. Ovviamente servono contanti e precisi. Il comandante non dà resto.

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onostante si chiami come un compositore azero così a prima vista la Kara Karayes è difficile che canti, al massimo tossirà. Sta ancorata a un molo dove

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scaricano senza posa camion da costruzione cinesi, accanto a un bacino di carenaggio arrugginito e fuori uso. Sullo sfondo i tank per lo stoccaggio del petrolio e in lontananza il profilo illuminato del centro di Baku. Nell’aria si respira nafta. Le pratiche doganali si fanno a bordo, tutti stipati (camionisti e turisti che hanno preso un passaggio) in una sala dove mangia l’equipaggio. Mentre un poliziotto distratto timbra i passaporti, Ismail con accanto il primo ufficiale a fargli da corazziere ci spiega che questo è l’anno contro la corruzione in Azerbaijan, chi l’avrebbe mai detto. E quindi per nessun motivo dobbiamo dare soldi all’equipaggio. "Avete già pagato il biglietto" dice. Peccato che per ancorare la macchina in stiva l’incorruttibile equipaggio abbia chiesto dieci dollari trattabili e due minuti dopo il discorso un marinaio o forse un mozzo ci propone l’upgrade della nostra cabina. Da fetida e vicina al bagno, a fetida e basta: per soli 50 dollari. Trattabili, ovvio.

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passata mezzanotte quando finalmente salpiamo, sedici ore di navigazione e dovremmo essere ad Aktau. Forse diciotto dice Ismail prima di scomparire stringendo mani a destra e a manca. Mentre i i rimorchiatori fanno le acrobazie per farci uscire dal porto, accanto a noi sfila senza far rumore una bettolina da trasporto che pare stare a galla per forza. Ancora un metro e sarebbe sott’acqua. Si chiama Monolite ed è un blocco unico di ruggine. A poppa le luci sono fioche come quelle delle case di campagna di una volta, dentro qualcuno armeggia ai fornelli, mentre lenta la Monolite si va ad appoggiare a un molo. Assomiglia a un cane che cerca una cuccia dove passare la notte. E invece è il nostro primo incontro sul Caspio.

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alba del primo giorno sulla Compositor Kara Karaiev è una sorpresa sgradevole dietro l’altra. La latrina inizia a puzzare, la cuoca dai denti d’oro vuole dieci manat per una colazione di uova e burro, più burro che uova. Nella cabina da sei letti, madidi di sudore, si è dormito poco e male. Si sarebbe dovuto prendere esempio dai camionisti turchi e stare fuori. Dormire sul ponte arrugginito, buttati a terra su una coperta, o facendosi prestare un bel tappeto da uno di loro, che riposano guardando le stelle e sorseggiando thé. Niente, sarà per la prossima notte, se mai ci sarà. Il gps dice che in sette ore abbiamo fatto forse un quarto del cammino. Si sbaglierà di certo: Ismail aveva detto 16 ore. Ne sono passate già sei, non potremo essere così indietro. Tra un traffichino azero e il gps di chi ti fidi?


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isto dalle sponde di una nave il Caspio sembra avere la stessa densità dell’olio e lo stesso odore del gasolio. Dicono sia salato in base alla longitudine: molto di più in alto, verso le coste kazake dove è profondo una decina di metri; molto meno in basso, tra l’Iran e l’Azerbaijan, quando diventa appetibile per i bagnanti come una spiaggia di Rimini nell’anno della mucillagine. Visto da dentro il Caspio è solo acqua e ancora acqua: zero navi, zero onde, neanche quelle che facciamo noi perché andiamo troppo piano. Lasciata Baku si erano viste in lontananza alcune piattaforme petrolifere e le luci di qualche nave, ora all’orizzonte non c’è niente. Più il sole sale, più la vita a bordo si spegne. La nave va così lenta che non si alza nessuna brezza. A quanto pare dei due motori ne va uno solo. Si viaggia a sette nodi e le 16 ore di navigazione previste diventeranno trenta, se va bene. Le 253 miglia da Baku ad Aktau si dilatano senza prospettiva. Fa caldo in cabina. Fa caldo fuori, al sole. Fa caldo nella sala comune dove la tv trasmette in diretta da Londra incontri di lotta libera femminile che hanno le stesse righe sbilenche della tv anni Settanta. Ci si sbatte per terra sui ponti, cercando ombra. Sembra di stare in piena estate un paesino del Sud Italia appena dopo pranzo: in giro non c’è nessuno e non si sente rumore. I camionisti, beati loro, si chiudono nelle cabine del camion e accendo l’aria condizionata, l’equipaggio scartavetra gli infissi, i turisti guardano il mare, in plancia si direbbe non ci sia nessuno. Solo un uomo con la camicia aperta, liso e sudato: forse è il primo ufficiale, forse è il capitano, forse è solo uno che si trova lì. Spiega che oramai si arriverà domani, non certo questa sera. “Maibi seven, tumorrov. Maibe ten, if port open”. E “if port close?” “Wait. Uan day, tu day, ueit” dice. “Normally?” “Normally 24, 25 hours Aktau”. Come è dura l’avventura.

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on rimane che aspettare e mettersi ad osservare la strana fauna umana che popolo un traghetto azero in mezzo al Caspio. Una dozzina di ragazzi italiani in gita avventura, una terzina di ragazzi americani silenziosi che leggono assorti, una manciata di camionisti turchi con i loro tappeti, qualche kazako rilassato che sta per tornare a casa, un tedesco immenso che cerca compagni di dama nella sala comune. Ci sono anche due camionisti moldavi che hanno vissuto per un po’in Italia. Trasportano un carico di carne ad Astana, ma il rimorchio frigo ha dei problemi e non riesocno a tenere la temperatura a meno ventinove gradi. Il carico è andato e loro pure: per non pensarci si sono strafatti di vodka per tutta la notte e ora aspettano che passi la sbronza dentro una scialuppa di salvataggio. Quando il sole cala e l’aria si rinfresca la nave sembra ria-

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nimarsi. Forse la rassegnazione ha preso il sopravvento sulla delusione, tutti si rilassano guardando l’orizzonte e solidarizzando con il prossimo. Mai come questa volta è vero: siamo tutti sulla stessa barca. Un camionista turco di Trebisonda offre noccioline a destra e a manca e si fa fotografare con tutti gli occidentali che trova. Forse non è consapevole che da queste parti è un occidentale anche lui. Trasporta parabole che deve scaricare ad Aktau, poi torna indietro, in nave. Altri vogliono sapere dove andiamo e perché lo facciamo: per loro è lavoro, ma per noi? Vacanza? Impossibile, in vacanza si va ad Antalya, nei posti belli. Non qui. Raccontano che oltre le strade sono davvero pessime e tutti vogliono sempre soldi. Quando il giorno diventa notte e all’orizzonte non si vede nulla un autista russo tira fuori uno strumento che pare un mandolino, ma ha lo stesso suono di un ukulele. Si mette a prua, seduto su una panca, suona e canta mentre il sole scompare. Con delle manine enormi pizzica le corde con leggerezza e intona ballate russe dall’aria tristissima. Trova anche il modo di fare una versione piacevole di O’ sole mio. Nel castello di prua si raduna un piccolo pubblico di turisti e camionisti che applaude convinto. Si mangia pane e miele, si beve birra calda e Coca Cola. Di mano in mano passano noccioline turche e scatolette Riomare. Scende il buio e l’anarchia che già regnava esplode. La nave è uno spazio extraterritoriale dove vigono regole altre, o forse non vigono regole. Punto. Il ponte


si copre di materassi, tutti dormono dove capita, qualcuno tra i ragazzi americani monta un’amaca. I camionisti kazaki iniziano a proporre il cambio al mercato nero. Nessuno li capisce, nessuno ci casca. Meglio guardare il cielo stellato sopra di noi, ascoltare il suono della Kara Karayev che scivola sulla superficie piatta del Caspio e fare finta di dormire senza sudare. Domani è un altro giorno. E forse questa volta arriviamo.

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alba arriva lesta e misericordiosa: all’orizzonte si vede terra. Sono passate trentadue ore da quando abbiamo lasciato Baku e la Compositor Kara Karievic per quel che può viaggia avanti tutta verso il porto di Aktau. Alle spalle si lascia una scia sinuosa di fumo denso e nero: sembra un filo di Arianna da riavvolgere per ritrovare la strada per Baku. A bordo, il personale cerca di darsi un tono dopo lo svacco delle ore precedenti. Indossa le divise sbiadite e macchiate e cerca di dimostrasi equipaggio. La signora delle cucine dai denti d’oro con fare perentorio rivuole le sue lenzuola, pulisce le cabine con il mocio che aveva preventivamente inzuppato nel Caspio e fa sloggiare tutti dalle stanze comuni. I marinai preparano le cime d’attracco e fanno finta di voler rispettare anche le norme di sicurezza: si mettono i guanti nuovi, bianchi e cacciano chiunque dalle zone di manovra. La terra è lì, il porto di Aktau sembra un tempio esotico dove attraccare e ristorarsi. Ci siamo, tra poco scendiamo. Ora anche l’odore del Caspio non sembra poi così male. Tino Mantarro, 37 anni, nato a Milano, cresciuto in provincia di Sondrio, ma di sangue siciliano. Fa discendere da questo girovagare in tenera età la sua passione per il viaggio. Raccontano i suoi che a 40 giorni si ritrovò sul treno MilanoMessina e da allora la voglia per i viaggi scomodi, non l’ha mai abbandonato. Per coltivarla è finito a fare il redattore di Qui Touring, il mensile del Touring club italiano.

Andrea Forlani, 42 anni, girovago professionista e batterista mancato, non ha trovato di meglio che imbrattare i giornali di tutto il globo con foto e racconti di viaggio, che sta raccogliendo in un libro. Quando non scrive legge, quando non cammina corre, quando non fotografa guarda serie tv neozelandesi e film polacchi degli anni Cinquanta. Si nutre di musica e di app per iPhone, e si diverte a cambiare queste note biografiche. Documenterà il viaggio per immagini. Se volete vedere le foto che fa iniziate a guardare qui: www.andreaforlani.com.

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VOGLIO VIVERE ALLE VERGINI R E P O R TA G E

andrea semplici

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ISOLE VERGINI BRITANNICHE CARAIBI OCEANO ATLANTICO

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o visto le isole dei ricchi. Dei grandi ricchi. Dei ricchi veri. Per una settimana sono andato di isola in isola, di resort in resort, di lusso in lusso, navigando nell’arcipelago delle Vergini Britanniche, territorio autonomo di Sua Maestà, la regina di Inghilterra. Trentasei isole a meno di duemila chilometri a sud della Florida. A sessantaquattro chilometri da Puerto Rico. Ho visto le isole dei ricchi: Virgin Gorda, la Vergine Grassa, Peter Island, Scrub Island, ho scalato e ridisceso le ripide strade di Tortola, aggrovigliate come in un otto volante. Ho dormito in una villa da novemila dollari a notte.

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Ho sfiorato un vecchio ambasciatore della Persia dello Scià che aveva appena festeggiato un compleanno da 48mila dollari con una grande cena sulla spiaggia. Ho assaporato, con grande piacere e dolcezza perditempo, un cocktail al rum che si chiama painkiller, ‘ammazzapene’. E posso giurarvi che così è: ero trasognato dopo averne bevuti due. Così mi sono portato via una bottiglia da un resort con l’idea di prepararmene uno ogni sera. Ho fatto tutto questo (e molto altro ancora) in un viaggio-stampa. Omaggio gentile e interessato dell’ufficio del turismo di quelle isole caraibiche. Ero partito diffidente. Andavo in uno dei più ermetici paradisi fiscali del mondo, avevo in mente le parole di un avvocato milanese, Gaetano Bellavia: ‘Quelle isole


sono il top dell’anonimato’, il cuore dell’evasione fiscale mondiale. Gli economisti della McKinsey, colosso delle consulenze societarie, calcolano che l’economia offshore ammonti a una cifra che oscilla fra i 21 e 32mila miliardi di dollari all’anno. Come dire: è tutta la ricchezza prodotta da Stati Uniti e Giappone assieme. Questo è il buco nero in cui si annida uno dei meccanismi più opachi (e più conosciuti) del capitalismo. I motori della ricchezza mondiale contemporanea (Amazon, Google, Starbucks, Apple, Microsoft) incrociano, con abilità prodigiosa (e grazie alle consulenze di uffici-multinazionali di consulenza finanziaria), il loro destini di potere con queste terre, con questi arcipelaghi dove il denaro è anonimo, senza volto, conservato in inesistenti casseforti protette dalla ri-

sacca di uno dei mari più belli del mondo. Mi chiedo: a mesi di distanza da questo breve viaggio (durato una settimana, un frammento di tempo ridicolo), come è possibile raccontarvi di queste isole dove mai tornerò? E come vorrei che così non fosse: Dio mi perdoni, si vive bene nelle isole dei ricchi. Questa volta non potrò avere la clemenza degli dei ribelli delle Americhe, vivrei alle Vergini seppellendo inutili sensi di colpa. Su questo arcipelago, ho scritto un articolo per una importante rivista italiana. Poi ho racchiuso tutto il materiale in una delle mie solite scatole bianche e ho dimenticato. Ma alcune storie sono rimaste fuori. Dettagli che mi riconducono alle Isole Vergini.

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Le isole dei nuovi ricchi: Eustasia Island, a sinistra, appartiene a Larry Page (Google), Necker, a destra è di Richard Branson (Virgin)

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• IL BASILICO Provo a dirvi allora del basilico. I pontili di Trellis Bay, a Beef Island, appendice di Tortola, la più grande isola dell’arcipelago, hanno un’aria scalcinata. I legni sono corrosi dal salmastro, le panchine sconnesse. Ma qui attraccano i ferry privati diretti ai più celebri resort di questi isole. Scatoloni di provviste aspettano di essere caricati. Uno è destinato a Richard, all’isola di Necker, isola privata, la più lontana dell’arcipelago. Non so se Richard sia davvero Richard Branson, il miliardario hippie, il fondatore della Virgin Records, proprietario di Necker, ma so che nello scatolone ci sono alcune confezioni di basilico fresco. Queste isole sono una contraddizione ambientale: nei resort l’attenzione all’ambiente è maniacale, energia autoprodotta, riciclaggio di rifiuti, materiali eco-sostenibili, case a impatto-zero. È ‘il mondo come dovrebbe essere’. Bellezza ed ecologia. Peccato che, da queste parti, quasi nessuno coltivi un pezzo di terra. E pochissimi vadano a pesca come lavoro. Così il basilico arriva dalla Florida, come i pomodori o le melanzane, si beve acqua minerale San Pellegrino o si importano raffinate bot-

tigliette dalle isole Figi. I maiali (piatto nazionale, assieme al pollo) provengono dall’Argentina, il tonno dalle Filippine. Le mele sono un frutto esotico: arrivano dalle nostre Alpi. Solo le aragoste, per fortuna, sono di Anegada, isola piatta e disabitata dell’arcipelago. Alla fine gli uomini di Necker Island arrivano a prendersi gli scatoloni. Stasera Richard mangerà spaghetti con pomodoro e basilico. Una delizia anche ai Caraibi.


• IL BILIARDINO Grande villa a Peter Island, isola a quattro miglia a Sud di Tortola. La più grande fra le isole private dell’arcipelago. Ha una curiosa forma a ‘elle’. È vasta 720 ettari. La Lonely Planet è senza pudore: gli anni in cui qui si coltivavano cotone e tabacco sono bollati come ‘anonimi’. Lo sfolgorio, a leggere la guida, arriva solo quando, negli anni ’60, un miliardario norvegese, Torloff Smedwig, industriale delle sardine, se la comprò e trasformò il vecchio scoglio da pirati in un’isola-resort. Negli anni ’70 l’isola passò di mano: Torloff era morto e i suoi eredi erano disinteressati a quella proprietà caraibica. Un aneddoto racconta che Jay Van Andel e Richard De Vos, due miliardari statunitensi (oggi gli eredi Van Andel sono una multinazionale

degli integratori, dei cosmetici e dei prodotti detergenti) attraccarono all’isola durante una battuta di pesca. Vollero giocare a tennis nel campo del resort. Niente da fare, era riservato agli ospiti dell’albergo. I due si risentirono e decisero che si sarebbero comprati l’isola solo per licenziare quell’irrispettoso maestro di tennis. Nessuno, a Peter Island, conferma questo gossip dei Caraibi: rimane il fatto che l’isola appartiene ancor oggi alla famiglia Van Andel e che, per due volte, Conde Nast Traveler ha definito il suo resort come ‘il miglior posto al

mondo dove soggiornare’. Accadde uno psicodramma quando il New York Times osò criticare la cucina dei suoi ristoranti. Entro nella villa di Peter Island che domina la baia dell’Uomo Morto, la Dead Man Bay. Costa oltre 10mila dollari a notte. È di un’eleganza avvolgente e raffinata. Ma rimango sorpreso da un biliardino. Sta in mezzo al salone. È fuori posto. Non c’entra niente con l’arredamento. So che i clienti dei resort delle isole Vergini debbono essere accontentati in ogni loro capriccio. Soprattutto chi affitta le ville. Mi chiedo: il biliardino è parte del mobilio della villa oppure è stata una bizzarria degli ospiti che se ne sono appena andati? Mi piace l’idea di un milionario con la passione italiana di un biliardino. Si diventa un po’ stupidi in questo arcipelago, me ne rendo conto.

Me ne sono andato via da Peter Island con un intero set di creme da bagno, shampoo di marca e lozioni da beauty-center holliwoodiano.

• O FF- S H O R E Il turismo è uno dei due pilastri dell’economia, ma il business ‘vero’, qui, è l’economia off-shore. Questo è un paradiso fiscale. I costi di registrazione di società anonime rappresentano il 60% degli introiti di queste terre. Le isole Vergini sono un arcipelago da sogno esotico (un paradiso, appunto), ma molto concreto nella

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sua autonomia finanziaria da Londra. Quello che conta qui è l’assenza, quasi totale, di tasse. Le isole Vergini sono uno dei mille Tax-haven della Terra. Uno dei più apprezzati dai pescecani del capitalismo globalizzato. ‘E noi siamo qui per aiutare a crearsi un proprio paradiso personale’, sostiene Keiyia Jackson-George, responsabile della comunicazione della National Bank di Tortola. Da prendere in parola: ogni mese, nel 2012, sono sorte cinquemila nuove società di diritto locale. A settembre dello scorso

anno, ne erano registrate oltre 475mila. È il 41% delle società di incorporation business del mondo. ‘Siamo il luogo migliore sulla Terra dove creare una società’, rivendica, con orgoglio, Orlando Smith, il primo ministro dell’arcipelago. In un giorno, via internet, è possibile registrare una nuova società. Come documento di identità basta la bolletta della luce. Gli isolani, eredi di antichi pirati, accolgono con gioia i nuovi corsari contemporanei. A marzo del 2012, a Tortola, l’isola-capi-


Il pirata Barbanera abbandonò i suoi uomini nella Baia dell’Uomo Morto. L’isolotto è conosciuto come Dead Chest, la Cassa da Morto

tale, operavano 2525 fondi di investimento. ‘Noi garantiamo riservatezza assoluta e neutralità’, mi dice, assaggiando vini sudafricani, un avvocato inglese che lavora qui da sette anni. Si può aprire una società nominando un direttore locale che agirà per conto dei veri investitori. Nessuno potrà mai conoscere l’identità dei veri proprietari. È reato penale divulgarne i nomi. Se volete una società a ‘bullet proof’, a ‘prova di pallottola’, la consulenza e la registrazione costano poco meno di 2500 dollari. E poi ri-

mane un balzello annuale di 350 dollari. Costa molto di più dormire in un resort. L’economia delle isole, così, gira a mille. Reddito pro-capite di oltre 38mila dollari. Ventottomila abitanti. 34 società per isolano, calcolando solo quelle di incorporation business. ‘Il 70% dei nostri clienti sono cinesi’, mi rivela ancora l’avvocato inglese. Le Isole Vergini sono state il rifugio prediletto dei capitali di Hong-Kong, quando la città passò sotto il controllo di Pechino. Hanno tracciato la rotta per il nuovo capi-

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talismo finanziario cinese. Di qua transitano gli investimenti cinesi diretti in Africa. Queste isole sono un hub finanziario della potenza asiatica. Passano da qui anche i soldi delle compagnie petrolifere dei paesi asiatici dell’ex-Urss. E, per paradosso, in giro non si vede un solo cinese, né sembra esistere un ristorante cinese. Questa è l’economia oscura come un castello della Transilvania. Tutto questo denaro è anonimo, opaco, ambiguo. Un recente rapporto dell’Economist rivela come su 817 casi di grande corruzione degli ultimi anni, 91 abbiamo avuto come sfondo le Isole Vergini. A Tortola sono transitati i soldi dei più grandi scandali italiani (Cragnotti, Tanzi, Ligresti). E, in fondo, ancora la scorsa estate il clan Ligresti se ne voleva fuggire poco lontano da qui, alla Cayman, isole sorelle e rivali dell’arcipelago delle Vergini.

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Qualche incrinatura nella cortina di segretezza che circonda l’economia off-shore delle isole Vergini si è sorprendentemente aperta ad aprile di quest’anno. Il Consorzio Internazionale dei Giornalisti d’Inchiesta (www.icij.org) ha decrittato due milioni e mezzo di documenti riservati che rivelavano l’identità di 130mila conti cifrati parcheggiati nei paradisi fiscali del mondo. Fra di loro, sono stati resi noti duecento nomi di businnes-men italiani. Si scorrono gli elenchi dell’Icij e viene fuori una fotografia dell’economia in nero. Vi sono ‘dentisti e medici statunitensi, la middle class della Grecia, i furfanti di Wall Street, despoti, oligarchi, manager, trafficanti di armi’. E ancora ‘commercianti di diamanti indiani, dirigenti di Gazprom, ultramilionari inglesi, tedeschi e francesi, funzionari governativi del Canada, dell’Azerbaigian, del Pakistan, della Filippine…’. Oltre a commercialisti, gioiellieri, professionisti e imprenditori italiani. Strano, questa inchiesta-bomba avrebbe dovuto far tremare il mondo degli affari e, invece, in Italia, a parte una copertina dell’Espresso, è passata come acqua sul vetro attraverso il mondo dei media.

Sarà un caso o disattenzione, ma il sospetto che l’off-shore sia un tabù dell’economia (e del mondo pubblicitario che sorregge i media del mondo) è quasi una certezza. Sono isole strane, le Vergini. Passeggio per Road Town, microcapitale dell’arcipelago: le sue architetture sono dimesse. Hanno colori sbiaditi, un’aria quasi precaria, le insegne sono invisibili. Certo, gli uffici del financial business sono solo recapiti. Semplici caselle postali. Dentro, al più, lavorano un paio di avvocati e una segretaria (più qualcuno che conosce bene il cinese). Niente di più. Il Register of Corporate Affairs è in un periferico quartiere artigianale. La potenza economica non ha sfarzi. Road Town è un deserto alla domenica. Nei fine settimana gli uomini della finanza lasciano le isole. Vanno a Miami o a Portorico. Vogliono città e shopping. Non ne possono più della natura. Sarà un caso: dopo il mio viaggio alle isole Vergini, ricevo messaggi promozionali di uffici di consulenze che mi chiedono se voglio aprire un conto cifrato a Tortola.

•I RICCHI

I nuovi ricchi (oramai già un po’ invecchiati) sono entusiasti di questo arcipelago. Si comprano le sue isole: Larry Page (Google) fronteggia, con la sua Eustasia Island, il regno marino di Branson. Richard Branson affitta Necker per 53mila dollari a notte (pensate: il giovane magnate inglese, nel 1978, comprò l’isola per appena 325mila dollari). Jim Clark, fondatore di Netscape, ancora il suo veliero a tre alberi nelle acque tranquille di North Sound. La famiglia Van Andel, abbiamo visto, possiede, oltre il canale dedicato al pirata Francis Drake, l’eleganza caraibica di Peter Island. I Rockfeller furono i primi ad arrivare qua, negli anni ’60 del secolo scorso, e costruirono il più celebre fra i resort, il Little Dix Bay, a Virgin Gorda, la Vergine Grassa. L’Aga Khan ha scelto una baia lontana della stessa isola per ricrearvi lo Yacht Club Costa Smeralda, ri-


fugio invernale dei cinquecento soci dello storico circolo di Porto Cervo. David Johnson, immobiliarista del Michigan, costruttore green, sogna ville che rispettino ogni regola dell’ambiente: anche lui ha trovato riparo nella penisola più solitaria di Virgin Gorda. Ed è qui che ci accoglie con uno squillante: ‘Welcome to the future’. Già, il futuro visto dalla bellezza di questa isola. Dormire in una delle ville di Johnson costa 18mila dollari a notte. Mi sento un po’ provinciale a pensare sempre ai soldi.

•PIRATI Non credo che i ricchi turisti di Peter Island si interroghino, se non con disattenzione, su la baia dell’Uomo Morto, la Dead Man Bay, dove sorseggiano i loro cocktail. Tre secoli fa, su uno scoglio arido, a poco meno di mezzo miglio dalla spiaggia di questa baia, Edward Teach, il celebre pirata Barbanera, abbandonò gli uomini che si erano ribellati al suo comando. Quell’isolotto inabitabile era già conosciuto come Dead Chest, la ‘cassa del morto’. Barbanera si limitò, come gesto di generosità, a lasciare una bottiglia di rum a quei marinai che condannò a morte. Ripassò molte settimane dopo e fu sorpreso nel trovare che quindici uomini era sopravvissuti: avevano danzato sulla ‘cassa da morto’. I pirati oggi sono storie romantiche. Walt Disney se ne è impossessato. Robert Luis Stevenson, probabilmente, ha ambientato la sua Isola del Tesoro a Norman Island, scoglio a Sud di Peter Island. Oggi uno schooner da cento metri, la Willy T, alza bandiera pirata e offre grigliate di pesce davanti alla caverna dove era nascosta la fortuna narrata da Stevenson. In realtà, qui, la guerra da corsa, fra francesi, inglesi e olandesi per il possesso di queste isole fu spietata. Per oltre due secoli, fra la fine del ‘500 e i primi anni del ‘700, i privateers, con relative lettere di marca, una sorta di autorizzazione ad attaccare navi nemiche, si combatterono all’ultimo sangue. Erano i pirati, avventurieri celebri come Francis Drake, Henry Morgan ‘Calico’, Jack Rackham e Jack


Davide Pugliese, cuoco fiorentino

Jarret il vetraio Sopra: il Bomba Shack Bar

Mario Musoni, cuoco di Pavia

Suonatrice di Still Band Sopra: Beverly


Hawkins. Questi mari furono teatro delle scorribanda anche di due donne-pirata: Anne Bonny e Mary Read. Fu una guerra infinita per il controllo delle rotte caraibiche. E le Isole Vergini erano il rifugio perfetto, con i loro approdi sicuri, dei navigli dei pirati. I corsari contemporanei non battono più i mari (se non a bordo di yachts lussuosi o di motoscafi per la pesca d’altura), ma questo arcipelago non ha smesso di essere un luogo sicuro per nascondersi dopo razzie sui mercati finanziari.

•JARRETT Si fanno anche incontri inattesi a Tortola. Alle spalle della popolare spiaggia di Cane Garden scambio due parole con un ragazzo di 31 anni dall’aria simpatica. Si chiama Jarret. E ha un sorriso che hai voglia di passarci un giorno assieme solo per non perderti la sua voglia di vivere. Ti sorprende: perché, a trenta metri dal mare, con il caldo che fa, se ne sta mettere schegge di vetro dentro un forno. Fa il vetraio, Jarret. Era la sua passione da ragazzo. Ha girato il mondo inseguendo riciclatori di vetro. Scopre che sono italiano e allora mi parla, con occhi di sogno, di un'altra isola lontanissima. Si chiama Murano. Il sogno della sua vita: ‘Murano è la Mecca del vetro’. Jarret è qui da due anni. Ha ‘formato’ quattro ragazzi rasta come fonditori. Va di bar in bar a recuperare bottiglie. Spezza e fonde. E crea oggetti da rivendere ai turisti. E un progetto sociale. Si chiama: GreenGlass, www. facebook.com/greenvi" www. facebook. com/greenvi ). Sono contento: allora, in queste isole, vi è anche chi non pensa solo ai soldi e al mare. Mi regala dieci minuti di serenità, Jarret. Un giorno ci ritroveremo a Murano. • B O MBA SHACK BAR Trenta anni fa, Bomba scoprì che i ragazzi che venivano dagli States amavano il surf. E non solo: le Isole Vergini erano la loro libertà assoluta. Allora, Bomba era un giovane rasta dagli occhi troppo furbi. Non si rivolse ad architetti celebri e non si mascherò. A

modo suo, ebbe coraggio. Queste isole sono puritane e lui si inventò una sua facile trasgressione. Costruì un bar con legname malridotto, pezzi di lamiera, targhe di automobili, rottami di naufragi. Inchiodò assi su assi in maniera sghangherata. Ne ricavò un bar da spiaggia dove potevi ubriacarti, fumare mariuijana, godere del sesso. Lo agghindò con reggiseni e mutande che i suoi ospiti abbandonavano sulla spiaggia. Si inventò un tè a base di funghi allucinogeni e, ogni plenilunio, organizzò feste orgiastiche. Tappezzò le travi del suo locale con foto di donne a seno nudo. Il successo di Bomba fu garantito. Qua si beve, ci si droga un po’, si scopa e ci si porta via la memoria di una notte. Oggi il vecchio rasta ha gli occhi colmi di acqua e un’aria languida. I turisti delle crociere vengono portati fin qui per poter sfiorare una innocua ribellione. Una cameriera dalle forme abbondanti offre rum di cattiva qualità. È un’attrazione per turisti, questo bar. Bomba aggiorna le sue tecniche e offre feste contro la recessione e la depressione. La prima notte di luna piena, ogni mese, è affollata come un concerto di una stella del rock. Come è strano il mondo: Bomba Shack, ad Apple Bay, costa nord-occidentale di Tortola, sta a pochi chilometri da West End, punta estrema dell’isola principale dell’arcipelago. Un tempo, questo angolo da sogno esotico, era un rifugio di delinquenti del mare. Oggi è uno dei luoghi preferiti dai vacanzieri tranquilli. Tutto è perfetto a West End. Non c’è niente fuori posto. È un villaggio lindo. Le Isole Vergini accontentano chiunque. E cambiano pelle con il passare delle storie.

• I C U O C H I Se siete dei bravi camerieri e dei cuochi affermati (e volete una nuova vita), provate a venire alle Isole Vergini. Camerieri e cuochi italiani, qua sono ben voluti e ricercati. Amati e apprezzati. Non fanno come Richard Branson, coltivano piantine di basilico e pomodori nei propri

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Il Bomba Schack Bar a Apple Bay sulla costa nord dell’isola di Tortola

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orti alle spalle delle cucine dei resort. I loro cibi, lo ammetto, hanno un sapore diverso. Sono buoni. Mario Musoni, chef stellato di Pavia, ha cucinato per noi giornalisti un risotto degno di un re al Club Nautico dell’Aga Khan a Virgin Gorda. È felice, Mario. Aveva un locale di fama a Montescano. Aveva la stella della guida Michelin. ‘Ma il mondo mi stava stretto – confessa – Burocrazie e tasse mi sfinivano’. E così, da giramondo, oggi si ritrova alle Isole Vergini. Pirotecnica la carriera di Davide Pugliese, 59 anni, fiorentino, emigrato negli Stati Uniti qualche decennio fa. Allora era un affermato fotografo di moda. Cambiò vita dopo aver navigato attorno alle Isole Vergini. Da ventotto anni è cuoco apprezzatissimo in questo arcipelago. Chef a Scrub Island. Racconta: ‘Qui si vive benissimo. I servizi sociali funzionano. E si paga solo l’8% di tasse’. Vive in una casa senza pareti aperta al sole, ai venti, al salmastro. È un uomo felice e sorridente. Capace di arrostire fette di anguria e di sistemare capesante sulla carne di maialino. Ho guardato i suoi piatti con diffidenza, ma poi me ne sono innamorato. E ho chiesto: ‘Posso rimanere qui?’. Mi ha guardato, non ha risposto. Voglio ancora vivere alle Vergini? Le mie compagne di viaggio dicono che qua si annoierebbero. Uno skipper mi dice che dopo un po’ ci si stufa di navigare per spiagge sempre uguali e sogna il Mediterraneo. Ma il cuoco e i ragazzi dello Yacht Club Costa Smeralda mi sono sembrati felici oltre ogni 28

cortesia per giornalisti. Ho provato una piccola invidia verso di loro. I ricchi mi piacciono per davvero? Una cameriera nera, in una di queste stanze da mille euro a notte, mi sorprese seduto in terrazza in una giornata perfetta per starsene in spiaggia. Trovò il modo di dirmi: ‘Ma lei è sempre così triste?’. Davanti a me avevo una baia incantata, palme e sabbie color dello zucchero di canna, ma non mi decidevo ad andare a tuffarmi in acqua. Avevo pensieri che non riuscivo a mettere a fuoco. Ero triste, sì. E lei se ne era accorta: i ricchi non sono tristi alle isole Vergini. Non so come finire un articolo che non è un reportage. Con le statue di Aragorn Dick Read, immagino. È uno scultore di Tortola (www.aragornsstudio.com). Il suo studio sta a Trellis Bay. Le sue opere escono dal mare. Nelle notti, le incendia. Falò caraibici con sottofondo della brezza notturna dell’oceano. Non so se, al pari di Bomba, Aragorn si sia solo inventato una maniera per sopravvivere con piacevolezza in questo arcipelago. Mi siedo sulla spiaggia e guardo le sue grandi creature di ferro. Mi piacciono. Mi lasciano senza pensieri e oramai non chiedo niente di più alla vita. Dimentico l’economia off-shore e l’articolo da scrivere perché questo è stato il mio mestiere. Nella notte, una piccola imbarcazione, mi porterà via dalle isole e io, colpevole innocente, ne ho già nostalgia.

Le statue di Aragorn Dick Read escono dal mare a Trellis Bay

ANDREA SEMPLICI, 60 anni. Vorrebbe fare il fotografo, ma al festival di Perpignan si è ritrovato un badge con su scritto ‘presse’. Ama il mestiere di giornalista. Oggi ancor di più perché è certo che non esista più. I suoi ultimi libri sono ‘Dancalia’ e ‘Gli anfibi slacciati di Ernesto Guevara’, entrambi editi da Terre di Mezzo. Non si vive con i diritti d’autore di questi libri. Il libro che gli è più caro è nato per caso ed ha trenta pagine: ‘In viaggio con Riszard Kapuściński. Dialoghi sull’arte di partire’. Sempre edito da Terre di Mezzo.


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AZZORRE PORTOGALLO OCEANO ATLANTICO

R E P O R TA G E

E che cosa accade quando di fronte a te, su una panchina di lava, si siede Antonio Tabucchi? Un sogno nel mezzo dell'Atlantico. Una storia di balenieri, uomini che cantano, terre che emergono dal mare e migrazioni‌

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Isola di Faial, un cratere vulcanico invaso dall'oceano


AZZORRE, SULL’ORLO DELL’OCEANO Marcella Borghi

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apevo che ci saremmo incontrati. Lo sapevo dal primo viaggio nelle Azzorre, quello del 1999. Ora sono al terzo. Ma non potevo immaginare che l’incontro avvenisse in un posto così bello. Tabucchi e io siamo seduti su un muretto di Porto Pim, nell’isola di Faial.

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A Porto Pim, e nei paesi rivieraschi dell’arcipelago meno esposti alle furie dell’Atlantico, la barriera che separa l’abitato da scogli e mare è costituita da muretti bassi e larghi, neri di rocce laviche, in tutto o in parte dipinti di bianco. A intervalli regolari, i muretti si dimezzano. Il lato a mare resta a proteggere, quello verso terra si abbassa e s'interrompe, per trasformarsi in due sedili che si fronteggiano. Poltrone di sasso fatte apposta per chiacchierare vis a vis, sbirciando l’oceano e le nuvole. “La aspettavo. Si accomodi e si rilassi.” Mi ha accolto così Tabucchi, indicando il sedile di fronte. “Per comunicare, bisogna rinunciare a proteggersi. Almeno un po’. Questo muretto lo dice chiaro”. Difesa e accoglienza. Il più superficiale dei binomi delle Azzorre, che non sfugge nemmeno al turista più distratto. Difesa del territorio, accoglienza dell’ospite. I parchi naturali salvaguardano larga parte dell’arcipelago. Tre isole su nove sono riserve della biosfera (Corvo, Flores e Graciosa). Altre due sono parte del patrimonio

mondiale dell’Unesco (Terceira e Pico). L’energia elettrica viene dal vento o dalle maree. Le strade sono giardini bordati di ortensie e agapanti, dove il profumo della Roca de Velha, inebriante fiore giallo, sovrasta del tutto la puzza delle poche automobili. E poi, l’ospitalità è attenta e premurosa sia per il carattere discreto ma comunicativo degli isolani sia per i piaceri della tavola, accompagnati dall’ottimo vino di Pico. “Basta!”, interrompe Tabucchi, spazientito. “Tutto vero. Ma non siamo all’ufficio del turismo. Questo è un paradiso e un inferno. Un giardino dell’Eden che sobbalza per i terremoti ed è violentato dai vulcani. L’ultimo cataclisma è stato nel 1998. Lo sa che una parte di Faial, di questa stessa isola, è più giovane di me?” Capelinhos è più giovane anche di me. Lo so. È emersa dal settembre 1957 all’ottobre 1958. Un’area di due chilometri quadrati e mezzo che si è imposta con oltre trecento eventi sismici. Ci sono stata ieri. Ho camminato lungo i sentieri per un’intera gior-


In alto: Porto Pim, i sedili che interrompono il muretto di lava. A destra: Scialuppa baleniera conservata al Museo di Lajes do Pico. Pagina precedente: Faial, lungomare di Porto Pim. Osso di balena inciso, forma d'arte baleniera chiamata scrimshow.

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Capelinhos, un'area di oltre due chilometri quadrati nell'isola di Faial, emersa nel 1958.

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nata, immersa in un paesaggio lunare di sabbia nera, rocce rosse e pinnacoli lucidi di ossidiana. E non son potuta restare seduta sul primo sasso che avevo scelto per la mia pausa pranzo: da una spaccatura usciva fumo bollente. “Capelinhos è una terra primordiale. Il faro è struggente: mezzo sepolto dalla sabbia e non più sulla costa. E il museo, tutto sotto terra, è una gran bella sorpresa. Ma la stessa Capelinhos che incanta i turisti, è stata causa dell’esodo di oltre 12mila persone. Partite nel 1958, tutte insieme. Quasi la metà degli abitanti di Faial, in due o tre mesi, ha abbandonato l’isola per andare in America. L’ha reso possibile John Fitzgerard Kennedy. Proprio lui. Non ancora presidente degli Stati Uniti, ma senatore del Massachusetts. E anche in questa faccenda c’entrano le balene.” Già le balene, leitmotiv delle Azzorre. Tutti vengono per vederle. Anch’io. E ci sono riuscita: due volte, a Faial e a Pico. Incontri che restano sorprendenti, anche se a lungo immaginati e preparati, persino rileggendo Melville... “Nella Donna di Porto Pim, cito Moby Dick (nella traduzione di Pavese): ‘Non pochi di questi balenieri provengono dalle Azzorre, dove le navi di Nantucket approdano sovente per aumentare gli equipaggi con i coraggiosi contadini di queste coste rocciose. Non si sa bene perché, ma di fatto gli isolani sono i balenieri migliori’. Vede come si arriva in fretta a John Fitzgerard Kennedy? No? Dal suo sguardo, capisco che le serve una spiegazione. Nantucket l’isola dei balenieri, da cui salpa il Pequod, la nave di Moby Dick è nel Massachusetts. Nell’elettorato del senatore Kennedy ci sono di sicuro tanti originari delle Azzorre, sensibili alle sorti dei loro sfortunati parenti di Faial. Per questo JFK propone e fa approvare leggi che facilitano l’ingresso negli States. Una volta in America, la maggior parte delle famiglie va a lavorare nelle fattorie della California. È dagli inizi del Novecento che a Nantucket i balenieri non servono più a gran che.”

Isola di Pico, nelle sue strade interne s'incontrano spesso mucche, molto raramente pastori.


A destra dall’alto: Sao Jorge, piscina protetta da rocce vulcaniche. Muri di ortensie dividono le proprietà in tutte le isole dell'arcipelago. Strada verso il Pico, la montagna più alta (2351m) delle Azzorre, che dà nome all'isola. Pico, una sponda del Lagoa do Caiado, cratere vulcanico diventato lago.


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La caccia azzorreana ai capodogli invece dura fino al 1987, quando viene proibita, in accordo con la moratoria internazionale. In tanti paesi costieri di tutte le isole ho visto le eleganti strutture delle industrie di trasformazione: lunghi e bassi edifici con alte ciminiere, simili a quelle delle tonnare. Tutti abbandonati, salvo quelli trasformati in musei. La proibizione della caccia al capodoglio deve aver provocato un terremoto sociale. Che cos'è successo nell’ultimo decennio del Novecento? Un’altra migrazione di massa? “Nient'affatto. Gli azzorreani sono flessibili. È la loro caratteristica principale. Tanto è vero che non sono mai stati solo balenieri, ma balenieri e contadini. Capaci di sfruttare sia la fertile terra vulcanica sia le risorse dell’oceano. Qualcuno sta ai posti di vedetta, al riparo, in apposite torrette, le vigia. Quando avvista la balena, dà l’allarme. Parte dei contadini diventano pescatori e imbracciano gli arpioni. La ragione dell’abilità dei balenieri azzorreani, quella che Melville lascia senza spiegazioni, sta nell’allenamento continuo, che rende capaci di cambiare mestiere, quando serve. No, non è stato difficile trasformare la caccia in whale watching. Usano le stesse vigia per avvistare i capodogli. La vedetta è in collegamento radio con il timoniere e indica la rotta. Una volta, il timoniere era a bordo delle scialuppe baleniere, barche sottili di una quindicina di metri. Oggi, manovra gommoni dai motori potenti, di analoghe dimensioni, dove i turisti, estasiati, avvistano le balene o, quando proprio va male, i delfini, che vengono a giocare con le scie delle imbarcazioni.” Sarà anche grazie alla loro duttilità, azzardo, che gli isolani sanno accogliere così bene turisti di tante diverse nazionalità, dai silenziosi e supersportivi europei del Nord alle chiassose famiglie spagnole. “Sì, certo, questo tratto del loro carattere ha conseguenze positive anche per il turismo. Ma l’origine vera della loro disponibilità al cambiamento è il meteo imprevedibile.


Spiaggia di Capelinhos, nata da eruzioni marine e terremoti iniziati nel settembre 1957 e durati tredici mesi.

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Sempre di più, con i cambiamenti climatici del pianeta. Parlo della buona stagione, s’intende. In inverno piove, sempre. Come dice David, un amico inglese che sa tutto delle Azzorre: ‘The weather is a gamble.' Un gioco d’azzardo. Chi è in vacanza farà bene a considerarlo parte del divertimento. Per gli isolani invece non è che l’ennesimo cambiamento. Sereno, ventoso, nebbioso per le nuvole basse, leggermente piovoso (quasi vapore nebulizzato), scrosciante... E poi, di nuovo sereno. È normale che avvenga nello stesso giorno. Ed è altrettanto normale cambiare i programmi di conseguenza. Lo fanno tutti, serenamente e senza strepiti. A proposito di meteorologia, ha visto l’osservatorio di Alberto I di Monaco?” Ci sono passata davanti velocemente. È proprio un osservatorio meteorologico? So del principe oceanografo, ma non pensavo fosse anche meteorologo. “Non lo era, infatti. Ma studiando l’Atlantico ha fatto una scoperta meteorologica di un certo rilievo. Almeno per lui. Questa è 42

A sinistra, dall’alto: Sao Jorge, ruderi di case distrutte dai terremoti. Pico, la chiesa di Prainha


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Il faro di Capelinhos, semi sommerso dall'eruzione, ospita un museo sotterraneo geologico e interattivo.


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una storia dell’età d’oro di Faial, con il centro principale, Horta, quasi cosmopolita. Grazie alla sua posizione, al centro dell’Atlantico, tra Europa e America, è luogo ideale per la posa dei cavi sottomarini, che, fino ai satelliti, garantivano le comunicazioni fra i continenti. Nel 1866 viene posato il primo cavo. Nel 1969 è già tutto finito, superato dall’evoluzione tecnologica. Ma a Horta, nei primi decenni del Novecento, vive un’agiata e gaudente comunità di inglesi, tedeschi, americani e portoghesi. Sono gli stessi anni del baleniere innamorato di Yeborath, la Donna di Porto Pim, quello che con il suo canto ammalia tutti, perfino le murene... In ogni modo, Alberto I di Monaco arriva nelle Azzorre sia perché amico di Manuele di Braganza, ultimo re del Portogallo e celebre bon vivant (infatti regna due anni, poi viene deposto e proclamata la repubblica) sia per la sua passione oceanografica. E si accorge della relazione costante fra il tempo nell’arcipelago (all’epoca più stabile) e quello che, pochi giorni dopo, arriva nel Principato. Così, nel 1901, finanzia la costruzione dell’osservatorio meteorologico. Ufficialmente in onore della scienza, in realtà per prevedere il tempo a casa sua. E fissare la data delle feste, perché potessero riuscire al meglio. Del resto, anche il Rally di Montecarlo è una sua invenzione”. Un video del museo di Capelinhos sull’evoluzione geologica fa capire bene la posizione geografica centrale delle Azzorre. Si vede l’unico continente originario che si spacca in Europa, America e Africa, lasciando delle briciole, che corrispondono alle nove isole dell’arcipelago. “Siamo nell’ombelico del mondo. La canzone ci ha rubato la possibilità di dirlo, ma è così. Lo sapeva persino Cristoforo Colombo. Lo racconta il figlio. Fra le prove esibite per sostenere la tesi della sfericità della Terra, ha un’importanza decisiva una cronaca dell’isola di Flores. La cronaca narra dello scalpore suscitato dal ritrovamento dei corpi di “selvaggi” portati dal mare su una spiaggia. Naturalmente si teme siano creature demo-

Sao Jorge, l'isola più coltivata dell'arcipelago. Il mais arriva all'oceano, protetto dai sassi di lava.

niache e ci si affretta a benedirle in tutti i modi possibili. Grazie a questo terrore, la notizia arriva a Colombo, che la usa per sostenere che si tratta in realtà di indiani (proprio abitanti delle Indie, nelle sue convinzioni) e ottenere l’appoggio di Isabella di Castiglia e il finanziamento della spedizione. Le Azzorre sono cruciali per Colombo, anche sulla via del ritorno. Nel 1493, sempre sbagliando rotta, attracca a Santa Maria. Una


sosta provvidenziale che gli consente di trovare acqua e cibi freschi, senza dei quali non è detto che sarebbe riuscito a raccontarcela la sua avventura. Però devo dirle che la centralità delle Azzorre a me piace pensarla non solo da un punto di vista geografico. Ma in termini quasi filosofici. Siamo in un centro instabile e precario - tra paradiso e inferno, tra natura fertile e terremoti - che nel suo fragile punto

di equilibrio esprime armonia come pochi altri al mondo. Ma lo conosce lei un altro luogo che per delimitare le proprietà terriere usa muri di ortensie? C’è una bellezza e una gentilezza in questa scelta che non ha confronti. Dove avrei mai potuto collocare, se non in questo gentile centro del mondo, i templi degli dei dell’animo, del sentimento e delle passioni?” Riconosco l’allusione a “Esperidi. Sogno in forma di lettera”, il mio racconto preferito. Estraggo al volo dallo zainetto Donna di Porto Pim e leggo ad alta voce: “Il loro Panteon non è abitato da dèi come i nostri... Sono invece dèi dell’animo, del sentimento e delle passioni; i principali sono in numero di nove, come le isole, e ciascuno ha il suo tempio in un’isola differente... Ho reso omaggio anch’io al dio dell’Amore... E l’immagine del dio non è un idolo né qualcosa di visibile, ma un suono, il puro suono dell’acqua marina che viene fatta entrare nel tempio attraverso un canale scavato nella roccia e che si frange in una vasca segreta: e quivi, per la forma delle pareti e l’ampiezza della costruzione, il suono si riproduce in un’eco infinita che rapisce chi lo sente e dà una sorta di ebbrezza o di intontimento. E a molti e strani effetti si espone chi onora questo dio, perché il suo principio comanda la vita, ma è un principio bizzarro e capriccioso; e se è vero che esso è l’anima e la concordia degli elementi, può anche produrre illusioni, vaneggiamenti e visioni.” Alzo gli occhi dalla pagina, Tabucchi non è più seduto di fronte a me. Cammina verso la casa di Yeborath, “dall’altra parte del golfo, dove termina il promontorio, isolata tra le rocce, fra un canneto e una palma.”

MARCELLA BORGHI, 63 anni, giornalista di viaggi per qualche decennio, pensionata, aspirante vagabonda. Dopo averle visitate per tre volte, vorrebbe provare a vivere alle Azzorre. Almeno per un'intera estate, prima o poi.

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UNA FOTO UNA STORIA ACCADEVA IL 30 SETTEMBRE DEL 1993, VENT’ANNI FA A SARAJEVO, IN VIA MARESCIALLO TITO MARIO BOCCIA

“ HO IN TESTA LO

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SGUARDO DELLA RAGAZZA CHE CORRE. PENSO CHE UNO SCATTO BUONO FORSE L’HO FATTO, POI LO STOMACO SI CONTRAE DI NUOVO, PER UN’ESPLOSIONE PIÙ VICINA. PASSANO ALCUNI MINUTI. ORA C’È SILENZIO. NON HO MAI SMESSO DI CAMMINARE, DI GUARDARMI INTORNO. NON HO VISTO FERITI, PER FORTUNA. MI SONO SEMPRE SENTITO UNO SCIACALLO, DOPO QUELLE FOTO. “


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LA RAGAZZA CHE CORRE Seduti fuori un piccolo bar, in via Radojka Lakic (partigiana nata nel 1917 e fucilata nel 1941) io e Edoardo aspettiamo il caffè. Qui, in piena guerra, ho gustato il miglior Nescafè della mia vita, preparato con cura maniacale, con lo zucchero sbattuto a mano, per mascherarlo da espresso con la crema. Per noi giornalisti, costa tre marchi tedeschi. Troppi, ma ben spesi. Una giornata di lavoro sta per finire. La tregua sulla città regge. Dalle loro postazioni sulle montagne, i militari serbi non stanno sparando. La guerra sembra lontana anche se, a pochi chilometri da qui, gli ex-alleati croati e musulmani si combattono aspramente. Mostar est è allo stremo, assediata da soldati che pregano a Medjugorje. La pulizia etnica è spietata e reciproca ovunque. Nemmeno i villaggi più sperduti sono risparmiati. Perfino Počitelj, sulla strada che costeggia la Neretva verso il mare, è rasa al suolo. Era il villaggio degli artisti e dei pittori. Hanno piantato una croce bianca alta cinque metri davanti alla moschea bruciata. Per intimidire, non per pregare.

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L’altro ieri il “Bošnjački Sabor”, un parlamento autoproclamato, tutto musulmano, ha respinto l’ennesima proposta di cessate il fuoco della diplomazia internazionale, basata sulla partizione su base etnica del paese. Oggi il parlamento bosniaco ufficiale ha ratificato quella decisione. L’arrivo del caffè coincide con un sibilo agghiacciante sopra di noi, seguito da un’esplosione che fa male. Prendo le macchine fotografiche e corro dov’è caduta la granata, in via Maresciallo Tito (partigiano, presidente Jugoslavo e fondatore del movimento dei non allineati, nel 1961). Un altro sibilo mi paralizza le gambe. Sento vibrare il muro sul quale mi sono appiattito. Il secondo colpo ha colpito l’altro lato dell’edificio. Mi affaccio dall’angolo: la strada è deserta. Metto il ventotto e misuro la luce, piatta e senza ombre. Mi avvicino, ma un muro scheggiato e un po’ di calcinacci non significano niente. La foto non c’è. Penso ai feriti che ho visto. Non ai morti, ma alle urla dei feriti leggeri, con le schegge in corpo e le ossa fratturate. Un uomo grida di mettermi al riparo. Vicino la “vječna vatra” (la fiamma eterna di Sarajevo che dal 6 aprile 1946, anniversario della liberazione, ricorda i caduti nella guerra contro i nazisti), sull’altro lato della strada, c’è un androne. Una decina di persone sono lì dentro, strette in silenzio. “Rimani qui”, dice. Occhi che mi guardano, espressioni tese di gente dignitosa. Questa è la foto. Stringo la macchina, l’obiettivo è giusto, ma esito. Un’altra esplosione. Scappo fuori, senza avere avuto la forza di scattare. Lo rimpiango. Non ho retto quegli sguardi. Mi sentivo un estraneo. Privilegiato e giudicato per aver scelto di essere lì (forse sono arrossito). Almeno ora sono sotto tiro, come gli altri. Guardo quello che succede attraverso una lente. La macchina è uno scudo che protegge e tiene a distanza. Un altro sibilo, meno forte, l’esplosione tarda (un paio di secondi?), è più lontana. Vedo movimento verso il mercato. Mi avvicino, monto il duecento,


seleziono un tempo veloce, controllo la luce. Una ragazza mi corre incontro. Inquadro, scatto e maledico di non avere impostato il motore sullo scatto continuo (per non sprecare pellicola). Troppo tardi, ormai mi è addosso e mi supera, ignorandomi. È finita. Scatto ancora. Una coppia che corre, una donna dall’altro lato della strada, ma tutto sembra di meno. Ho in testa lo sguardo della ragazza che corre. Quella ragazza non correva per paura, ma per rabbia. Essere entrambi sotto tiro non ci mette sullo stesso piano. La sua rabbia la posso intuire, ma non condividere. Lei è a casa sua e stanno sparando sulla sua città, le sue abitudini, la sua vita. Io sono un ospite volontario (e retribuito). Parte della sua rabbia deve essere anche per me, che ho rubato l’intimità di quella corsa. Che ci faccio qui? “Dovere di cronaca”, certo, ma ripeterselo non è sufficiente. Lo stomaco si contrae di nuovo per un’esplosione più vicina, e i pensieri spariscono. Passano alcuni minuti. Ora c’è silenzio. Penso che uno scatto buono forse l’ho fatto. Non ho mai smesso di camminare, di guardarmi intorno. Non ho visto feriti, per fortuna. Mi sono sempre sentito uno sciacallo, dopo quelle foto. Cerco di ragionare. Pochi giorni fa il primo ministro serbo bosniaco Vladimir Lukic, a Pale, ci aveva rilasciato un’intervista rassicurante. Sembrava estraneo a quello che succedeva nel resto della Bosnia. Per lui la guerra era una storia residua di terre contese tra croati e musulmani, poi si sarebbe ufficializzata la divisione del paese. E adesso? Perché hanno ripreso a sparare su Sarajevo? Volevano contestare la decisione del “Bošnjački Sabor”? Qualcuno scriverà che queste granate sono solo un monito. Si può morire per un “monito”? Che pensava la ragazza che correva? Perché non intervistare lei, piuttosto che i soliti tromboni? Non devo pensarci adesso, sono qui per scattare foto e raccontare fatti. Torno verso il bar. I caffè sono ancora sul tavolo. Edoardo mi chiama urlando e insultandomi. Per sdrammatizzare, faccio un piccolo coup de théâtre: prima di entrare prendo i piattini con le tazzine piene. Voglio dire che va tutto bene con un gesto. Anche nel bar è pieno di gente, come nell’androne. Entro e le mani iniziano a tremare forte, non posso farci niente. Il caffè, ormai freddo, schizza fuori. Tutti ridono. Almeno è servito a questo. Edo mi abbraccia (sento ancora quella stretta). Una ragazza con un occhio bendato mi offre una grappa. Si chiama Amra. Sorride. Poi saprò che il padre le è morto davanti pochi mesi fa, proteggendola con il corpo, quando una granata esplose mentre uscivano di casa, in via Mehmed Pascià Sokolovic (Gran Visir ottomano che fece costruire il ponte sulla Drina a Visegrad, nel 1571. Suo fratello era Makarije Sokolovič, Patriarca cristiano ortodosso di Peć). Le targhe stradali, color rosso bruno, raccontano storie di resistenza e inclusione. Non potrebbe essere altrimenti. Siamo a Sarajevo MARIO BOCCIA, 58 anni, romano (e romanista), è uno dei migliori fotoreporter italiani. I Balcani sono la sua vita. Ricorda che vi andò per la prima volta a sette anni. La guerra ha lasciato dentro di lui storie che mai dimenticherà.

UNA FOTO UNA STORIA

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GINEVRA SVIZZERA

Paolo Magliocco

R E P O R TA G E

fotografie di Giovanni Breschi

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ALLA VELOCITÀ DI DIO 51

INSEGUENDO BOSONI A GINEVRA


oi ci sono anche le persone, i loro sogni, le loro storie, i loro cammini lunghi o brevi che li hanno portati qui. Ma a questo ci arrivi dopo, di solito. Prima devi penetrare in questa specie di città santa della scienza, un formicaio che brulica di vita in ogni angolo e che non si ferma mai, non dorme mai, non spegne mai le proprie macchine. Un luogo che ha qualcosa in comune con le grandi fabbriche fordiste, come la Mirafiori di cinquant'anni fa, per gli spazi dilatati, le sue dimensioni spropositate, le strade interne, il recinto che separa il dentro e il fuori, il fatto di essere quasi autosufficiente, perché qui dentro si ripara ciò che si usa; ma che sa anche di campus universitario, per il caos organizzato, i riti del caffè, l'attività frenetica e l'ozio apparente che convivono gomito a gomito, l'improvvisa decorazione degli spazi con biciclette travolte da un imprevisto turbine di creatività che le ha strappate alla strada per conficcarle sui muri di un edificio da cui si affacciano senza senso apparente, qui dove tutto dovrebbe avere un senso. Prima di avvicinarti agli esseri umani ci sono di solito molte rotte da percorrere e luoghi da vedere. Quando arrivi, per qualunque motivo tu sia qui (un'intervista, un evento, una tesi di dottorato, una borsa di studio con la quale ti sembra di aver quasi vinto il Nobel, o magari solo perché devi consegnare un pacco) è difficile sottrarti al fascino e al potere di attrazione di tutto quello che hai intorno. Questo è il Cern, la sede dell'Organizzazione europea per la ricerca nucleare. Cento metri sotto i tuoi piedi gira

P

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Per vedere le particelle minuscole degli esperimenti del Cern occorrono apparecchi giganteschi, che sono il cuore del sistema, il luogo in cui l'esperimento succede davvero: il tubo che corre al centro è quello in cui andranno a scontrarsi i protoni in arrivo a enorme velocità ed energia da direzioni opposte, tutto ciò che si vede attorno è l'insieme dei rivelatori che dovranno dire che particelle sono nate in quegli scontri, dove si sono dirette, quanta energia avevano, quanto hanno vissuto...

il tunnel più tecnologico del mondo, dove corrono miliardi di protoni alla velocità della luce e si producono eventi che nessuno ha mai visto prima. Attorno c'è un'intera cittadella popolata di scienziati. Io ci sono arrivato perché, sì, mi sono detto, questa volta lo faccio davvero, questa volta un libro lo scrivo. Addio allo snobismo supremo di produrre solo cose effimere. Qui c'è un bel miscuglio di cose da spiegare, persone da raccontare, luoghi da vedere. Qui c'è la scienza nel momento stesso in cui si fa. Dunque ho preso e sono partito per vederlo davvero, il luogo in cui la scienza avviene, il tempio del dio bosone, l'esperimento più grande del mondo, il gigante sepolto che ha persino generato la paura apocalittica del buco nero che avrebbe inghiottito l'intero pianeta (bufala serissima, valutata da team di esperti prima di essere archiviata come evento con possibilità quasi nulla, ma non nulla, di verificarsi). E ho trovato palazzi pieni di gente con gli occhi incollati sui computer che non rie-

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LHC è una immensa fabbrica che si estende per 27 chilometri sottoterra e che sbuca in superficie attraverso i pozzi di accesso, le officine di riparazione e manutenzione, le sale controllo: il tempio della fisica dell'invisibile è in realtà un gigantesco apparato colorato, una sorta di astronave terrestre, in gran parte sepolta cento metri sotto terra.



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scono ad assomigliare in nulla a impiegati chiusi in un ufficio, uffici allegri, balconi affacciati su un grande cavedio colorato, oppure tristi e persino un po' squallidi, persi in corridoi bui e semideserti, ma in entrambi la gente lavora con l'energia dell'agricoltore che ha colto il momento buono per la raccolta, si scrivono equazioni che quasi nessuno saprà decifrare e che però meritano che qualcuno provi a scriverle (e questo qualcuno è felice di farlo, anche per noi). Ho trovato hangar in cui si monta e si smonta di tutto, pezzi grandi e pezzi piccoli, meccanica di precisione ed elettronica. Ho trovato una sala di controllo che sembra davvero uscita da un film, in cui viene tenuto sempre d'occhio un mostro lungo 27 chilometri che spara minuscoli oggetti alla velocità della luce e li fa scontrare per vedere che cosa succede e che è in mano a un pugno di persone che si danno il cambio senza sosta. Ho trovato una fabbrica che mette insieme e ripara tubi lunghi 15 metri e pesanti tonnellate, che sembrano dritti ma in realtà curvano appena appena, in modo impercettibile, in modo da poter coprire, tutti insieme, l'anello di 27 chilometri e che, dentro, sono capaci di far viaggiare nel vuoto più vuoto che l'uomo conosca e alla temperatura vicina allo zero assoluto minuscoli treni di protoni stracarichi di energia pronti a schiantarsi tra loro per aprirci le porte dell'invisibile, incommensurabile, inimmaginabile mondo in cui le particelle non hanno dimensione e vivono tempi così brevi che non si possono calcolare. Ho trovato questo e tanto altro, che meriterebbe un vero reportage di viaggio, scritto per bene, in modo da prendere per mano chi legge e portarlo a spasso su questo pianeta fantastico e reale, che un po' sembra anche il parco giochi della scienza, dove ci si emoziona come bambini. E poi ho trovato le persone, tante, normali, sorridenti, indaffarate. Mamme che protestano per il poco tempo che resta per i figli e per quanta attenzione in meno ci sia qui rispetto ai laboratori di Chicago, scienziati

I due tubi più piccoli al centro, a destra e a sinistra, sono le piste nelle quali corrono alla velocità della luce i pacchetti di protoni destinati a scontrarsi gli uni con gli altri. La struttura intorno ospita due potentissimi magneti di materiale superconduttore che creano fortissimi capi magnetici che tengono in strada le particelle. Se il tubo non fosse costruito per essere estremamente resistente, si spaccherebbe subito in mille pezzi. Lo spazio vuoto tra il tubo interno e quello esterno viene riempito completamente di elio liquido appena due gradi sopra lo zero assoluto: solo a quella temperatura i superconduttori utilizzati funzionano davvero. Se la temperatura cambia, anche di poco, il sistema salta.


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Vista da fuori, l'autostrada costruita per far correre le particelle elementari è solo un bel tubo azzurro: in realtà questi magneti superconduttori sono una sofisticatissima macchina capace di far curvare di pochissimo i protoni senza che possano scappare via. Per costruire tutti i 1232 magneti di questo tipo, tutti identici, ci sono voluti oltre 10 anni. che paiono usciti da un libro e quelli che semplicemente non hanno tempo per me, l'amico ricercatore che farà tardi stanotte per avermi accompagnato ovunque, quello che i tubi supertecnologici (che in realtà sono magneti superconduttori, ovvero uno straordinario successo tecnologico) li ha pensati e creati quasi pezzo per pezzo e quello che invece pensava all'apparecchio che serve a vedere le particelle invisibili quando si scontrano, un aggeggio che è alto come un palazzo e lungo come un treno e che è stato montato direttamente sottoterra. Tutta gente straordinariamente normale, solo mediamente più appassionata di ciò che fa. Una di queste persone è Rino Castaldi, un ricercatore pisano arrivato qui quasi mezzo secolo fa.

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«Quando sono arrivato qui la prima volta era il 1967 e stavo per laurearmi a Pisa. Anzi, pensavo di fare la tesi sull'esperimento che avrei svolto al Cern. I gruppi di lavoro allora erano di poche persone e si faceva un po' di tutto, dai calcoli alla messa a punto delle macchine e alla presa dati. Tutto diverso dalle collaborazioni di oggi, che hanno migliaia di scienziati sparsi in tutto il mondo e in cui anche i ragazzi sono già specializzati a fare una cosa. Questo è un danno, per loro». Rino Castaldi ne ha e ne avrebbe di cose da raccontare sul laboratorio per lo studio della fisica delle particelle più grande del mondo che ha cominciato a frequentare a ventidue anni e continua a frequentare adesso, quarantasei anni dopo. A lui che allora non era mai uscito dal-

l'Italia sembrava un luogo enorme, e gigantesco era l'acceleratore di particelle chiamato PS che aveva un diametro di 600 metri, una volta e mezza una pista di atletica. Un nano rispetto a LHC, il gigante lungo 27 chilometri che ha portato gli scienziati a scovare persino l'imprendibile bosone di Higgs. Il gruppo di edifici prefabbricati è diventato una specie di piccola città, con le strade e le piazze e in cui mancano solo i negozi. E la città si è poi sdoppiata e sdoppiata ancora, come le cellule di un organismo che cresce, perché le sedi del Cern adesso sono tre e il Centro è diventato internazionale in senso ancora più stretto, visto che è un po’ in Svizzera e un po' in Francia, con gli scienziati, i tecnici e tutti gli altri che passano la frontiera in continuazione in un senso e nell'altro. Castaldi nel frattempo è diventato professore, ha lavorato in Germania, all'acceleratore Desy di Amburgo, e negli Stati Uniti, allo Slc di Stanford, ha messo in piedi un proprio gruppo di ricerca, ha studiato come può aumentare il numero di scontri tra le particelle (un progresso fondamentale per avere buoni risultati: provate a immaginare quante probabilità ci sono di far scontrare oggetti che hanno il diametro di un milionesimo di milionesimo di millimetro), ha avuto maestri troppo timidi e altri troppo aggressivi, è diventato a sua volta maestro di molti, si è lanciato in belle avventure che sono finite senza risultati e ha dato una mano, senza quasi rendersene conto, ad avventure che hanno portato a un premio Nobel. Tutto questo prima di tornare a col-


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laborare con il Cern, che resta per lui la sua seconda casa (dopo l'Infn di Pisa), quello che chiama con semplicità «il nostro laboratorio». Ci è tornato per realizzare proprio LHC, anzi uno dei rivelatori per questo acceleratore, quello chiamato "esperimento CMS"; anzi un pezzo di questo esperimento, il suo cuore, la parte più interna, quella più vicina alle folli collisioni tra particelle che svelano di che cosa è fatta la materia, uno degli occhi che vedono quali particelle saltano fuori dagli scontri tra i protoni accelerati da LHC. «Si era nel 1992, e ormai avevo capito, avevamo capito un po' tutti, che il Modello Standard della fisica funzionava benissimo, ma si doveva completarlo con il bosone di Higgs, che non si riusciva a trovare. Stava partendo il progetto di LHC, che avrebbe sostituito l'acceleratore che si chiamava LEP. Il LEP aveva studiato benissimo le particelle W e Z, quelle scoperte da Rubbia, ma con le energie che riusciva a raggiungere sembrava che non si

potessero vedere altre particelle». Solo questa ultima avventura ha occupato vent'anni della sua vita. Vent'anni spesi a inseguire sempre un unico risultato che poi da solo non sarà neanche un vero risultato, perché ci vogliono tanti, tanti altri gruppi di ricerca fatti da tante, tante altre persone, capaci di centrare ciascuno il proprio obiettivo. Se uno solo non ce la fa, il lavoro di tutti gli altri rischia di essere stato inutile. Anni in cui si è dovuto trovare il modo per molti strati di sensori di silicio, uno attorno all'altro, con tre tecnologie diverse, e renderli abbastanza resistenti perché potessero durare: quando due protoni si scontrano alle energie raggiunte da LHC, quello che ne esce è una sorta di Big Bang in miniatura, con particelle e radiazioni che schizzano da tutte le parti: e l'evento si ripete milioni di volte; non è facile costruire qualcosa che stia proprio lì e sia abbastanza sensibile da cogliere quello che succede e abbastanza resistente da non farsi buche-

Nella sala controllo di LHC vengono conservate, esposte in bella evidenza, tutte le bottiglie stappate per festeggiare un traguardo raggiunto. Una tradizione che al Cern resiste dal 1957, da quando entrò in funzione il primo sincrociclotrone: tutta la macchina occupava meno spazio della sola sala controllo di LHC.


Gialli, bianchi, rossi, arancioni, blu: i caschetti del Cern, utilizzati quando si scende nel tunnel che ospita LHC, sono un must. Li hanno indossati Peter Higgs e Stephen Hawkings, ministri e capi di stato. Ciascuno ha tenuto con sĂŠ il proprio.

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rellare. Sono stati anni in cui a Castaldi è toccato anche dire a qualcuno che tutto il suo lavoro era stato inutile. « Fu un dramma, anche umano: per otto anni un gruppo di scienziati aveva lavorato su una tecnologia diversa da quella del silicio, che prevedeva piccole camere riempite di gas, dimostrando che funzionava benissimo. Solo che poi il silicio all'improvviso fece un balzo tecnologico e poi io dovetti dire che delle loro camere non se ne faceva più nulla». Adesso LHC è fermo: dopo la grande scoperta del bosone di Higgs, annunciata luglio dell'anno scorso, per sei mesi ha continuato a lavorare e poi è arrivato lo stop per una

manutenzione straordinaria che dovrà renderlo ancora più potente. In gergo l'hanno chiamato ls1, long shutdown 1, perché già si sa che ce ne sarà un secondo. I sensori al silicio di Castaldi e dei suoi hanno retto bene, e anche se il suo nome non finirà nei libri di storia della fisica, la scoperta del bosone di Higgs è dipesa anche dal lavoro del suo gruppo. La prossima volta, però, toccherà rimetterci mano. « In realtà c'è già un gruppo al lavoro che pensa a quello che si dovrà fare nel 2020. Non toccherà a noi, certo, ma bisogna avere il coraggio di spingere i giovani a pensare alle cose che si faranno allora». Non c'è niente, in un ufficio dei ricercatori del Cern, che dica che siamo nel più grande laboratorio di fisica del mondo. Per la maggior parte del tempo, la vita di uno scienziato è fatta di routine quotidiana, piccoli problemi da risolvere, calcoli, aggiornamento. Il Cern è una piccola città, con edifici bellissimi come il building 40, quello dei ricercatori che hanno trovato il bosone di Higgs, una specie di cattedrale in cui tutti i piani sono affacciati su un grande cavedio interno, e banalissimi prefabbricati di calcestruzzo con uffici tutti uguali allineati su lunghi corridoi.

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PAOLO MAGLIOCCO, 48 anni, giornalista per curiosità, si è occupato un po' di tutto, dalla politica al gossip. Quando ha scoperto il giornalismo scientifico ha capito che era bello come tornare a scuola, con la possibilità di cambiare materia ad ogni articolo (o quasi). Considera la vita, di ciascuno, il più interessante esperimento.

GIOVANNI BRESCHI, 61 anni, grafico poi anche fotografo. Ogni viaggio, anche piccolo diventa un motivo per trovare una storia. Poi la racconta con la grafica o la fotografia, anche mescolandole.



GLI OCCHI DI ERODOTO

Antropologo o reporter? Erodoto regala storie di vita, di mondi scomparsi, di animali fantastici. Senza giudizi e pregiudizi. Ancor oggi racconta la Storia delle Storie.

A COLLOQUIO CON EVA CANTARELLA

ERODOTO, UN FICCANASO di Isabella Mancini

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e e regine, amori e delitti, omicidi di fratelli e cugini, guerre, fiducia data e rubata, inganni e sotterfugi. Ci sono tutti gli ingredienti per la narrazione, per raccontare storie o meglio Storie. Erodoto di Alicarnasso già nel proemio dichiara i suoi intenti: esporre “il risultato delle ricerche da lui condotte, a fine che il ricordo di tanti avvenimenti umani non sia cancellato dal tempo, non rimangano oscure le grandi e mirabili gesta dei Greci e dei Barbari e si conoscano inoltre le cause per cui questi vennero a guerra fra loro”. Nel V secolo avanti Cristo, un intellettuale greco riconosceva ai Barbari di aver compiuto gesta “grandi e mirabili”. Erodoto era un uomo straordinario. Ne abbiamo parlato con Eva Cantarella, grande esperta del mondo greco e romano e figlia d’arte. Suo padre, Raffaele, era un raffinato grecista e bizantinista.

Erodoto, il “padre” della Storia, fu un viaggiatore instancabile: da Babilonia alla Scizia, dalla Colchide alla Macedonia, alla Siria, Libia, Egitto. Quest'uomo, certo di nobili origini, di madre greca e padre persiano, dedicò la propria vita al viaggio con 66 una curiosità del tutto contemporanea. Ovunque, Erodoto ‘ficcava il naso’. Si interessava a come si seppellivano i defunti o a come si pregassero gli Dei, oppure come ci si sposasse, o ancora, come si costruissero città e fortificazioni e quali piante si coltivassero e quali animali abitassero terre tanto lontane. Erodoto, a leggere lo scrittore polacco, Ryszard Kapu ci ski, era un reporter. Per Eva Cantarella, invece, era pre-antropologo. “Pensando al viaggio non si può non pensare a Erodoto, ancor prima che a Omero, perché Erodoto ha in sé alcuni tratti di


contemporaneità che emergono prepotenti nei suoi racconti. Quello che si capisce subito è che la sua passione per il viaggio è una forma di bevanda per lenire la sete di conoscenza e l'enorme curiosità verso gli altri. Erodoto ha lo sguardo dell'antropologo, dell'etnografo, usa la scusa del racconto delle guerre per parlarci di questi popoli barbari, persiani, egiziani, medi, sciti, per descriverne la vita quotidiana, per intrattenerci con storie su di loro, su come affrontavano la vita e la morte”. Uno dei suoi ultimi lavori è dedicato a Itaca e Ulisse, all'Odissea di Omero e ai racconti confluiti nel poema a cui si affidava il compito di trasmettere il patrimonio culturale dei Greci. Anche Erodoto segue questa modalità narrativa? “I poemi omerici avevano il compito di trasmettere, di generazione in generazione, il patrimonio greco: valori, istituzioni religiose, meccanismi di controllo sociale, la vita familiare. Le narrazioni orali erano i “mass media” dell'epoca: garantivano una continuità sociale. L’Odissea ha una funzione prevalentemente didattica e, per far questo, usa uno schema semplice in cui si contrappongono due modelli. Uno positivo e uno negativo. Penelope e Clitennestra. Ulisse incontra anche il Ciclope e Circe. E sono, chiaramente, degli anti-modelli. Rappresentano ciò che non si deve fare. Quindi Ulisse viaggia, sì, ma le popolazioni che incontra sono funzionali alla struttura educativa dell'Odissea, di loro non si raccontano usi e tradizioni e non si descrive l'ambiente circostante. L' ‘altro’ è uno

EVA CANTARELLA Ha svolto attività accademica in Italia e all'estero insegnando Diritto greco antico all'Università di Milano. Ha pubblicato numerosi saggi sul diritto greco-romano ma anche su abitudini e costumi del periodo come: Nascere, vivere e morire a Pompei (con L.Jacobelli, Mondadori Electa, 2011), Non commettere adulterio (con P.Ricca, Il Mulino 2011). Alla quarta edizione dei Dialoghi sull’uomo di Pistoia, Eva Cantarella ha raccontato il suo viaggio dentro le Storie di Erodoto. Sul sito www.dialoghisulluomo.it si può riascoltare il suo intervento.

strumento, un oggetto, funzionale alla struttura greco-centrica. Con Erodoto questo non accade. Gli occhi con cui guarda alle popolazioni di cui ci narra sono privi di pregiudizi. Sarà stata la sua origine, l'avere un padre persiano e la madre greca, comunque sia si può dire che il modo in cui guardava agli altri popoli è molto simile allo sguardo con cui gli antropologi, dall'Ottocento in poi si sono aperti ai viaggi e alla conoscenza di 'nuove' culture”. Da dove emerge questa caratteristica di Erodoto, questo spirito da pre-antropologo? “Nel suo Secondo Libro, Erodoto, dopo un breve preambolo sulla guerra, parla di abitudini e storia dell'Egitto. Ci racconta come si comportano i sacerdoti, ci dice della religiosità degli egizi e del loro amore per la pulizia personale. Ci racconta del loro comportamento sociale e della sepoltura dei loro morti. È attento a far emergere le differenze tra classi sociali, quelle tra donne e uomini. Ed è proprio in questo capitolo che emerge il carattere di Erodoto, assolutamente imparziale nel raccontare ciò che vede. 'Dall'Egitto vennero all'Ellade i nomi degli Dei', scrive. Quando mai un greco avrebbe

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riconosciuto che le origini di alcuni loro culti derivassero da tradizioni di popoli barbari? 'Questo, dunque, e altro che verrò dicendo, i Greci hanno derivato dall'Egitto' prosegue poco più avanti. Erodoto compie altre 'stranezze'. A esempio ha simpatia per le donne di potere: descrive Artemisia, vassalla del Re di Persia, come una condottiera valorosa nella guerra di Salamina; Erodoto elogia le capacità di governo di Semiramide, regina di Babilonia, donna astuta e retta.” Quanto sappiamo della vita di Erodoto? “Non molto. Se ne conosce la data di nascita e di morte in modo approssimativo: nasce nel 484 avanti Cristo e muore nel 425. Fu seppellito a Turi, odierna Sibari calabra, di cui fu cittadino e probabilmente fra i fondatori. Venne sepolto nell'Agorà, cuore politico della città, il che fa presupporre che fosse un personaggio di spicco. Si sa che la fondazione di Turi fu voluta da Pericle, alla cui corte si era recato Erodoto. Si sa che partì per Atene quando Alicarnasso (odierna Bodrum in Turchia) entrò a far parte della Lega ateniese. È stato il viaggio forse più importante per la sua formazione, perché arriva ad Atene nel periodo d’oro della città. Qui divenne amico di Sofocle” . Reporter, antropolgo, narratore, viaggiatore: chi era Erodoto? “Viaggiatore sicuramente. Per passione, curiosità e sete. Tra l'altro ha viaggiato in un periodo assolutamente pericoloso: nei mari c'erano i pirati, sulle strade i briganti, anche trovare un posto dove passare la notte non era cosa da poco. Ma è stato sicuramente anche un 'preantropologo' nel senso che nelle Storie emerge il suo interesse per i temi centrali dello studio antropologico: il sistema familiare e quello matrimoniale, la struttura 68 sociale. Sono gli stessi argomenti a cui si appassionano i grandi viaggiatori dell'Ottocento, come Livingstone. Dei Gindani ci racconta che le loro donne hanno tanti anelli alle caviglie quanti sono gli uomini con cui si sono coricate; ci parla della poligamia dei Massageti e della promiscuità dei Nasamoni; della loro usanza di aspettare tre mesi prima di assegnare, per somiglianza, la paternità a un figlio. La scrittura di Erodoto è fortemente legata alla narrazione orale e dei logografi, i precursori degli storici, cronologisti e cronisti grazie ai quali si potè, pian piano, uscire dal limbo in cui mito e

storia erano inseparabili, grazie all'esigenza di ordinare in modo cronologico le discendenze dei vari re e sovrani. Le Storie hanno una struttura molto particolare dove a fianco delle gesta di eroi e guerrieri ci sono descrizioni geografiche, miti, leggende e descrizioni urbanistiche. Il che ci porta alle fonti di Erodoto: prevalentemente i suoi occhi, i suoi viaggi. Tra l'altro è lui stesso che ci tiene a sottolineare quando le cose di cui scrive sono di sua diretta osservazione o quando gli sono state raccontate. Quindi nelle Storie ci sono anche i suoi diari di viaggio. È un cronista moderno, Erodoto”. Che cosa la affascina di più di questo scrittore? “Proprio la scrittura. Oltre al fatto che le sue descrizioni sono realmente curiose e


divertenti. Pensi che parlando dei coccodrilli dice che non hanno la lingua. Questo per far capire fin dove si spingeva nei dettagli. Come quando descrive la mummificazione. Comunque la cosa che più mi affascina, a parte le sue capacità letterarie, è la sua innata apertura al mondo: Erodoto è un osservatore curioso senza diventare mai giudice. Da reporter, registra, annota, là dove ci sono più interpretazioni le riporta entrambe e lascia decidere il lettore. Un atteggiamento impensabile per la sua epoca, per il suo tempo: capisce ed accetta realtà diverse dalla sua con estrema tolleranza. È un importante precursore dell'antropologia contemporanea.”

ISABELLA MANCINI, 36 anni fiorentina. Blogger di vocazione. A 18 anni comincia a collaborare con giornali locali. Professionista dal 2006. Curiosa, appassionata, auto-ironica, ama gli esseri viventi e l'arte, la fotografia e l'etnobotanica.

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GLI OCCHI DI ERODOTO


Cesare Dagliana

R E P O R TA G E F O T O G R A F I C O

ISRAELE / PALESTINA

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TERRA SANTA! TERRA SANTA! Ebreo ortodosso, prega all’ingresso della parte araba del Muro del Pianto, città vecchia, Gerusalemme.


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Ebrei ortodossi alla porta di Damasco, Gerusalemme


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Gerusalemme, cittĂ vecchia, quartiere arabo


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Betlehem, Dheishe, all’interno del campo profughi palestinese

Betlehem, muro di separazione, Palestina territori occupati

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Gerusalemme, CittĂ Vecchia, quartiere arabo


Gerusalemme, Città Vecchia, Spianata delle Moschee

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Gerusalemme, Città Vecchia, quartierte arabo, pellegrini occidentali al Santo Sepolcro

Gerusalemme, Città Vecchia, al Muro del Pianto


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Gerusalemme, Città Vecchia, quartiere arabo

A sinistra dall’alto: Lapidi con immagini al cimitero dei Martiri, presso il Campo Profughi di Dheishe, Betlemme, Cisgiordana Vestiti da sposa e donne arabe nella via del centro a Ramallah, Cisgiordania Vetrina di abiti al suq di Nablus, Cisgiordania

CESARE DAGLIANA, 63 anni, fiorentino. Va in Afghanistan nel 1983: sono gli anni dell’occupazione sovietica. Pubblica su Stern, Actuel, El Mundo, e Frigidaire. Poi diventa fotografo pubblicitario. Per riscoprire il vecchio amore per il reportage. Da freelance realizza progetti di documentazione e comunicazione sociale.

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L

a mia Palestina (Israele/Palestina) sono immagini che, spesso, mi ricompaiono in testa all’improvviso. Non è possibile cancellare memoria, nostalgia, malinconia, gioia, dolore al pensiero di questa terra. Anni fa, siamo riusciti, con Mario Boccia, a scrivere un libro per turisti perfino sulla Palestina. Dovevamo varcare di continuo il Muro, affrontare i checkpoint dei giovanissimi soldati israeliani. È una esperienza da fare e rifare. A volte eravamo privilegiati: eravamo europei, una fila (vuota) riservata per noi e così non ci incastravamo nei corpi del palestinesi che nemmeno immaginavano quanto tempo avrebbero passato in quella coda di fronte ai cancelli. Non ho l’ironia di un Palestinese, né una Terra Promessa della quale impossessarmi: per questo, io che sostengo di essere capace di vivere ovunque, non vivrei mai qui. Non posso e non voglio essere all’erta ogni minuto del giorno. Non voglio vivere sentendomi, ogni giorno, accerchiato da un nemico.

INVISIBILI NELLA “TERRA STRETTA”

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Eppure ho ricordi dolci, dolcissimi, dei mesi passati in Palestina. Il caffè di Ahmed Oliyam, a Gerico, a esempio. Ahmed è un mukthar, un saggio del paese. Se ne sta seduto dietro a una piccola scrivania al fondo del locale. Qui si viene a fumare il narghilè dal tabacco aromatizzato, a giocare a carte, a bere caffè e limonata. Ecco, chi ha assaggiato la limonata zuccherata di Ahmed non può sapere cosa sia la bellezza di questa terra. Fa caldo a Gerico e la limonata, con una fogliolina di menta, salva la vita e l’anima. Ma poi il mio paesaggio diventa anche la mano molle di un soldato israeliano. Doveva avere vent’anni e imbracciava un fucile che mi appariva immenso. Aveva dei guanti neri dai quali spuntavano le dita. Era sudato, in apprensione. Ci aveva tenuto sequestrati in un appartamento di Nablus per una intera notte. Si combatteva nelle strade della città che ci ospitava. Una guerra a bassa intensità che a noi, quella notte, apparve di una violenza estrema. Al mattino, i soldati dovevano andarsene e noi, inopportuni giornalisti italiani, loro prigionieri, avremmo dovuto coprire con i nostri Nelle immagini il saponificio e il mercato di Nablus


corpi la loro ritirata. Ci costrinsero ad aprire la porta, ad uscire per primi, a proteggere la loro fuga. Lo feci perché altro non potevo fare. Non so chi poteva esserci di fronte alla porta. Aprii, con una lentezza esasperante. Ma, prima, volli dare la mano a quel ragazzo. E mi accorsi che le sue dita erano deboli, mosce, quasi tremanti. Non saprei riconoscere quel soldato se lo incontrassi nuovamente, ma davvero, quella stretta di mano mi dimostrò l’oscenità della storia di sangue che tinge le colline a olivi della Palestina. Ricordo la bontà infinita dell’humus, la crema di ceci. Attorno a un negozietto palestinese, in territorio israeliano, paese di Taybeh, si accatastano fuoristrada di abitanti di Tel Aviv. Gli israeliani sconfiggono la loro ostilità e mettono da parte i loro timori in nome del cibo: questo artigiano del più celebre fra i cibi del Medioriente è conosciuto oltre i confini del suo villaggio. Si fanno chilometri per assaporare il suo humus. Il cibo, a volte, riesce a compiere miracoli. Dovremmo mettere israeliani e palestinesi attorno a un grande piatto di humus e forse la pace avrebbe qualche possibilità. Le foto di Cesare Dagliana, fotografo fiorentino, raccontano l’assurdità di questa terra. Ebrei tradizionalisti varcano le mura di Gerusalemme e camminano, con la loro fretta sopra le righe, per le strade dei quartieri arabi. I palestinesi cercano di non vederli. Come non vedono le pattuglie dei soldati. Questa è una storia di invisibili. I chassadim non vedono gli arabi. I turisti sfiorano il conflitto, a volte non se ne accorgono, nell’affollamento della città più santa del mondo (che disgrazia!), toccano i corpi dei musulmani che vanno alla Spianata del Tempio, degli ebrei che si recano al Muro del Pianto, dei cristiani che baruffano per il ‘controllo’ del Santo Sepolcro. La Palestina/Israele è un labirinto del sacro. E mai sacro fu così maledetto e benedetto, allo stesso tempo. Scrive, con saggezza, Adriano Sofri: qui ‘tutto è troppo fitto, troppo gremito, il passato, il presente’. E suggerisce, quasi fa un invito: ‘Bisogna rifare un margine bianco, scostare, sgomberare un po', intromettersi nel corpo a corpo’. Già, intromettersi, mettersi in mezzo, fra palestinesi e israeliani. Creare uno spazio bianco, scrivere la storia di un futuro che appare impossibile, ma che, come tutte le storie umane, è possibile. A.S.

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STORIE DI CIBO

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er godere realmente una cena da Sabatino, trattoria e istituzione di Firenze, devi risvegliare prima i tuoi sensi. E allora: oltrepassa Ponte Vecchio per arrivare “di là d'Arno”, osserva la lentezza delle acque. Qui il fiume è dolce e disteso. Immagina, mentre cammini per le case ammucchiate, di salutare vecchie signore che, con la sedia davanti al portone, lavorano a maglia protette dai bastioni medicei. Immagina il popolare quartiere di San Frediano come se fosse il 1956 e allora sì, sarai pronto per oltrepassare l’immensa Porta alla fine del Borgo per entrare in quella altrettanto famosa, di vetro, bordata in legno, di Sabatino.

1956, appunto. Sabatino Buccioni, con la moglie Fidalma, rileva un locale e dà inizio a una storia familiare e lavorativa che attraversa tre generazioni per arrivare fino a oggi. È Ilaria infatti, la nipote, ad accogliermi nella sua trattoria con un sorriso, quando arrivo a metà mattinata. Mi presenta i suoi familiari già tutti a lavoro: il marito, la madre, la sorella, intenti e concentrati nella preparazione del pranzo. “Tutti i giorni apriamo alle 7.20. È presto, sì... ma sennò, quando li cuociamo i fagioli per farne il passato il giorno dopo? Non usiamo quelli in barattolo, noi.” 86

Comincia così Ilaria a raccontarmi la sua storia... ma già l'avevo capita al volo; dalla semplicità dei suoi occhi, dai suoi gesti fermi e orgogliosi, dalla sua cortesia... e dalle pareti. Sono soprattutto le pareti a parlare da Sabatino. Ilaria mi racconta che il padre Valerio abbandonò la scuola a dodici anni per servire ai tavoli di questa sorta di mensa popolare, dove il pomeDa sinistra: Letizia, la signora Laura, Ilaria e Massimo Pagina successiva: la macchina da scrivere: Olivetti linea 101.

Le tagliatelle di Sabatino Francesca Cappelli riggio si serviva la merenda e si mesceva vino, mentre i pensionati del rione si davano appuntamento per chiacchiere e giocare a carte. La trattoria vanta ancora il suo carattere popolare (nonostante sia frequentata da persone di tutte le estrazioni sociali, dal povero al personaggio famoso, dal cliente abituale al turista); con prezzi economici offre un posto a sedere e un buon pasto in tavoli comuni, per condividere la gioia del rito quotidiano del cibo. Qui la modernità è stata chiusa fuori dalla porta. Le tovaglie sono quelle cerate, così non si sporcano, con la stessa quadrettatura e gli stessi colori; i tovaglioli sono di stoffa; le sedie, scricchiolanti, e i tavoli con le gambe tornite, uno addirittura che apparteneva al bisnonno. Le piastrelle del bancone, nel 1956, erano tutte bianche, ma piano piano quelle che si rovinavano agli angoli venivano sostituite da altre nere... e così sono ancora oggi. La cucina, spaziosa, che si af-


faccia sulla sala, è sempre lei. Così come invariato è il colore delle pareti, di un verde indefinibile... semplicemente Verde Sabatino. Ilaria mi racconta che, una volta, suo padre Valerio osò ridipingere i muri di un altro colore... “di un beigiolino così per dare una ventata di novità”. Quelle pareti, deturpate, resistettero solo un mese a causa delle lamentele degli affezionatissimi clienti, che non potevano sopportare un cambiamento così netto, radicale e repentino dell'intonaco ormai amico. Le bottiglie d'acqua riposano nel frigorifero Stanzani anteguerra, che continuerà a funzionare per l'eternità, mentre il menù viene scritto a macchina tutte le mattine con la vecchia Olivetti e, quando un piatto è esaurito, vi si tira sopra un bel frego a penna. La casa continua a offrire la tradizione culinaria familiare e fiorentina: tutti i giorni antipasti toscani, almeno una zuppa, una pasta ripiena fatta dal loro pastificio, le famose tagliatelle al sugo di ragù o pomodoro, e ancora i secondi tra piatti in umido, fritti e arrosto che evocano il sapore dei pranzi domenicali, quando a cucinare per tutti i riuniti era la nonna. Dalle travi al soffitto pendono salumi di ogni tipo

e dimensione, che ben si sposano visivamente con i dolci del giorno e la frutta esposti sul bancone (con la scritta a pennarello “Non servirsi da soli”), con i vagli che, una volta, servivano a setacciare i legumi, appesi alle pareti, e i tanti quadri con nature morte, che portano ancora i segni dell'alluvione del 1966. Ancora foto di famiglia, poesie, filastrocche e ritratti lasciati dagli ospiti in segno di riconoscenza. Eh sì, i frequentatori di Sabatino non perdono occasione per dimostrare il loro affetto e sostegno. Sarà anche per questo che il tempo, alla trattoria, non solo si è fermato, ma ha anche sfidato e vinto lo sfratto del 1999 che l’obbligò a trasferirsi da San Frediano a Via Pisana. In fondo, non potevano certo essere cento metri di distanza a porre fine alla lunga storia della famiglia Buccioni: così, incassato il duro colpo della scacciata perentoria da parte del proprietario del vecchio stabile, approfittarono del loro usuale mese di ferie per fare il trasloco... ‘I clienti quasi non si accorsero neanche del cambiamento, fummo attenti, anche quella volta, a non stravolgere le loro abitudini: chiudemmo il locale come sempre il 31 luglio e riuscimmo a riaprire il primo settembre con un grande buffet d’inaugurazione, che non bastò benché fosse per mille persone’. Sono sempre stati grandi e instancabili lavoratori, ma sanno il valore della vita e della famiglia: il sabato e la domenica si riposa, si gode la casa, si vive.

Trattoria Sabatino Firenze, via Pisana 2 rosso (sotto la Porta di San Frediano) tel. 055 225955 aperto dal lunedì al venerdì FRANCESCA CAPPELLI 22 anni studentessa in Lettere Moderne, crede che un giorno farà la giornalista, che sarà una viaggiatrice e crede nelle coincidenze. MASSIMO D’AMATO 59 anni, fotografo impegnato nel sociale. Con Biancalisa Conti, Fotomorgana e Letizia Sgalambro ha costituito l’associazione Azzerokm per raccontare storie individuali e collettive.

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Non sapevamo come chiamare la sezione ‘disegni’ della nostra rivista. Avevamo bocciato, dopo una sana baruffa, l’idea di titolarla ‘graphic novel’. In nostro soccorso è arrivato proprio Giuseppe Palumbo. ‘Suggerisco: Racconti a quadretti’. Ci è sembrato meraviglioso. Giuseppe ci ha anche spiegato la ragione di questo suggerimento: ‘È vero, fa tanto Corriere dei Piccoli, ma parafrasa anche il ‘Quaderno a cancelli’ di Carlo Levi. In fondo noi che facciamo fumetti che raccontano la realtà, alla fine, siamo come lui che vediamo, immaginiamo, ricordiamo e poi, quasi ciechi, guidati da cancelli o gabbie, riempiamo i nostri quaderni di parole e di immagini. Troppo?’. No, Giuseppe non è troppo. Grazie.

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Quaderno a cancelli’ è l’ultimo libro di Carlo Levi. Lo scrittore era, oramai, quasi cieco: cominciò a scriverlo poco prima dell’intervento all’occhio destro che subì nel febbraio del 1973. L’ultima pagina fu scritta alla fine del maggio di quell’anno. Raccontano che per ‘poter scrivere, Levi si servì di una speciale intelaiatura di fili di ferro, una specie di quaderno di legno a cerniera, munito di cordicelle tese fra le due sponde per guidare la mano’ (il racconto è di Donato Sperduto). Ma, per il titolo, ‘Quaderno a cancelli’, Carlo Levi si ispirò a una poesia di Rocco Scotellaro, il sindaco-poeta di Tricarico: ‘Questo piccolo quaderno a cancelli/l’ho scritto per te di cui non parlo….’. È ‘Dedica a una bambina’. Giuseppe Palumbo ha ascoltato la storia dell’ultimo libro di Carlo Levi una notte di estate in una casa delle campagne materane.


GIUSEPPE PALUMBO

Giuseppe Palumbo è un fuoriclasse del panorama fumettistico italiano. Ha sempre scelto di mettersi alla prova e di mettersi in discussione. Trent’anni spesi con dedizione al disegno, alla ricerca continua di uno stile unico e curioso mai accademico pur restando fedele a quel linguaggio di regole precise e matematiche di questo difficile mestiere del fumettaro. Nasce a Matera nel 1964, si laurea in Lettere Antiche (Archeologia, per la precisione). Durante gli studi all’Università di Bari arrivano le prime amicizie importanti con le quali condivide i primi progetti, mostre, riviste e sogni di gloria. Dopo avere seguito a Bologna un corso di fumetto tenuto dagli artisti della Scuola di Feininger, tra i quali Andrea Pazienza, decide per passione di intraprendere quella strada che lo condurrà giovanissimo a collaborare a riviste tra le più importanti del fumetto underground come Frigidaire e Cyborg. Negli anni novanta comincia l’esperienza di illustratore per l’editoria scolastica e incontra il fumetto popolare nel personaggio di Martin Mystère per cui disegna, in particolare, storie fuori serie per la Bonelli. Capace come pochi di adattare il suo segno originale ai vari registri narrativi, per il quarantesimo compleanno di Diabolik ricostruisce il numero uno che viene pubblicato dalla Astorina, nel 2002, con il titolo Il Re del Terrore: il remake. Ha insegnato con regolarità presso la Scuola di Fumetto di Milano e la Scuola Internazionale di Comics di Firenze. Insegna ‘Illustrazione per l'editoria’ presso l'ISIA di Urbino. Collabora con le case editrici BD Edizioni, Comma 22 e Rizzoli. Di recente ha pubblicato per Comma 22 Eternartemisia e Aleametron, realizzati in collaborazione con Palazzo Strozzi di Firenze, e il primo saggio di critica storico letteraria a fumetti, su idea e testi di Luciano Curreri, L'elmo e la rivolta. È vincitore di numerosi premi in Italia, tra cui l'Attilio Micheluzzi come miglior disegnatore italiano. Vive a Bologna, dove dal 2000 coordina insieme a Barbara Ferri il lavoro dello studio Inventario. Con il collettivo Action30, formazione ibrida tra grafici, disegnatori, fotografi, video-maker, ricercatori, giornalisti e attivisti attraverso performance live, blog e il canale You Tube rimette in discussione i “format” abituali di un certo modo di raccontare la realtà cercando una dimensione comunicativa più universale andando a stimolare nuovi atteggiamenti critici e creativi. Quella che segue è una mini storia intima e inedita di un Giuseppe Palumbo ancora innamorato della sua Matera nonostante con il tempo le cose cambino perché succede che la terra che si lascia non è più quella dove si nasce e si cresce. Siti di riferimento: www.giuseppepalumbo.blogspot.com www.palumbo-troglodita.blogspot.com www.giuseppepalumbo.com

Sergio Leone

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MATERA, CHE TEATRO!

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racconti a quadretti

LA STORIA DI DON PEPPE DIANA Venti anni fa, venne ucciso don Peppe Diana…

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La camorra lo ha ammazzato il 19 marzo 1994 nella sagrestia della sua chiesa, San Nicola di Bari, a Casal di Principe. Questa è Terra di Lavoro, provincia di Caserta. Terra di clan, terra di camorra. Nell'ottobre di quello stesso anno gli venne conferita la Medaglia d'oro al valor civile perché “pur consapevole di esporsi a rischi mortali, non esitava a schierarsi nella lotta alla camorra, cadendo vittima di un proditorio agguato mentre si accingeva ad officiare la messa. Nobile esempio dei più alti ideali di giustizia e di solidarietà umana”. Don Peppino aveva dedicato il suo tempo e il suo impegno alla realizzazione di un centro di accoglienza per i primi migranti africani evitando così che la camorra li arruolasse nei suoi eserciti in borghese. Poi era andato avanti: nel Natale del 1991, assieme ai sacerdoti del vicariato di Casal di Principe, aveva sfidato le famiglie che da sempre gestiscono il destino delle terre campane. In quel giorno sacro, in tutte le chiese dell’agro avaersano, venne letto un documento straordinario: ‘Per amore del mio popolo non tacerò’. L'attacco era diretto, senza sconti, al Sistema. Al clan dei Casalesi. Don Peppino scelse le frasi dei profeti per incoraggiare la denuncia e la ribellione, per far nascere forza e desiderio di giustizia nel suo popolo. Sono parole che intimorirono i clan più di un blitz dell'Antimafia, scrive Roberto Saviano nel capitolo a lui dedicato in Gomorra. Nel gennaio 2003, Nunzio De Falco, il boss di camorra del cartello casalese, venne condannato all'ergastolo come mandante dell'omicidio di don Peppe Diana. A difenderlo in aula c'era Gaetano Pecorella. In quel momento era Presidente della Commissione Giustizia della Camera dei Deputati e oggi è Presidente della Commissione parlamentare d'inchiesta sulle attività illecite connesse al ciclo dei rifiuti. A Casal di Principe, oggi, non c'è un Sindaco, ma un Prefetto. Il Comune è stato sciolto per infiltrazioni mafiose nel 2012. Sara Lozzi


"Cercate di far aderire quanti più possibile alla nostra causa e state all'erta per trovarvi pronti’. Ne ‘La vera storia del pirata Long John Silver’ (scritto da Björn Larsson, Iperborea 1988) il comandante chiede ai suoi uomini di firmare un round robin. È un impegno che può costare la forca. È un gesto di coraggio. È una firma paritaria e circolare. Non c’è un capolista, non c’è un primo firmatario. Vi è uguaglianza in un round robin. Round Robin editrice è una piccola e coraggiosa casa editrice romana. La sua collana Libeccio, nata in collaborazione con l'associazione daSud onlus, racconta a fumetti le storie di Antonino Caponnetto e di Libero Grassi, di Giancarlo Siani e di Pippo Fava. Racconta di mafia e antimafia, di camorra e di chi ha pagato con la vita la propria resistenza alla criminalità. La storia di don Giuseppe Diana è stata la prima ad apparire grazie alla penna di giovani disegnatori. Il loro lavoro è futuro. 93

Noi di Erodoto108 siamo felici di firmare con la gente di Round Robin questo impegno ugualitario. Di cominciare una collaborazione priva di capolista. Le nostre storie sono le loro storie. Noi crediamo che i disegni, i racconti a quadretti, le graphic novel sono un modo straordinario ed efficace di raccontare quanto ci sta accadendo attorno. Le tavole che abbiamo scelto sono tratte da ‘Don Peppe Diana. Per amore del mio popolo’, un libro curato da Raffaele Luppoli e Francesco Matteuzzi e disegnato da Riccardo Innocenti, Luca Ferrara, Luca Cicchitti, Giovanni Ballati, Mauro Balloni, Anna Ciammitti, con la copertina di Valeria De Caterini. www.roundrobineditrice.it e-mail: info@roundrobineditrce.it


Nel giorno di Natale del 1991, nelle parrocchie del vicariato di Casal di Principe venne letto un coraggioso documento ispirato da don Peppe Diana. Era un manifesto che metteva a nudo lo Stato e la Camorra. I parroci delle chiese di quella terra lo lessero sull’altare. Era intitolato: ‘Per amore del mio popolo non tacerò’ Eccone un passaggio:

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...La Camorra rappresenta uno Stato deviante parallelo rispetto a quello ufficiale, privo però di burocrazia e d’intermediari che sono la piaga dello Stato legale. L’inefficienza delle politiche occupazionali, della sanità, ecc; non possono che creare sfiducia negli abitanti dei nostri paesi; un preoccupato senso di rischio che si va facendo più forte ogni giorno che passa, l’inadeguata tutela dei legittimi interessi e diritti dei liberi cittadini; le carenze anche della nostra azione pastorale ci devono convincere che l’Azione di tutta la Chiesa deve farsi più tagliente e meno neutrale per permettere alle parrocchie di riscoprire quegli spazi per una “ministerialità” di liberazione, di promozione umana e di servizio. Forse le nostre comunità avranno bisogno di nuovi modelli di comportamento: certamente di realtà, di testimonianze, di esempi, per essere credibili...


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••• I lenzuoli bianchi e la gente ai funerali di Don Diana


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••• L'omicidio di Don Diana


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••• Il depistaggio sulle indagini


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••• Il killer Giuseppe Quadrano


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••• La necessità di non tecere


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••• Per amore del mio popolo


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••• Il segreto di Don Diana: tifoso del Napoli con i suoi ragazzi


STORIE DI CIMITERI

‘VENITE A PASSEGGIARE NEL CIMITERO DI TARANTO’ Andrea Semplici on ho chiesto se Giuseppe sia stato sepolto nel cimitero di San Brunone. In Puglia i cimiteri sono più sontuosi delle case. Sono immensi, altezzosi, nobili, esagerati. I morti, in questo Sud, sono importanti. San Brunone è il cimitero di Taranto. Il quartiere di Tamburi è nato appena oltre il confine delle sue mura. Non so se prima abbiano costruito le ‘stecche’ delle case o se qua già seppellissero i morti: credo che il quartiere sia sorto accanto alla città dei morti. In fondo, qui avrebbero dovuto abitare i poveri di Taranto. La fabbrica, invece, è stata costruita, poco più di mezzo secolo fa, proprio a ridosso delle case e delle tombe. Non faceva differenza. Ingegneri scellerati hanno deciso che fra morti e vivi non vi fosse diversità. Così, le colline delle polveri di acciaio divennero il paesag102 gio di chi nasceva (e moriva) in questo quartiere. Chi cerca la verità su Taranto, scrive Adriano Sofri, deve venire qui, al cimitero ‘sopra i Tamburi’. Ha ragione. Non so cosa vi sia scritto sopra la lapide di Giuseppe, morto del marzo 2012. So cosa ha voluto fosse inciso sotto la finestra della sua casa in via de Vincentis. Appena sotto le finestre dalle quali si affacciava sta scritto: ‘Ennesimo morto per neoplasia polmonare’. Mi raccontano che avrebbe voluto indicare quanti sono stati, in questi decenni, i morti di veleni e di progresso, ma nessuno ha mai tenuto un censimento delle vittime dell’Ilva. Allora ha voluto che fosse scritto: ennesimo.

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Le ciminiere della fabbrica sono l’orizzonte del cimitero. Anche da morti, i tarantini sono costretti a convivere con i veleni. Cristi benedicenti (o maledicenti) alzano le braccia verso le ciminiere dipinte con colori sgargianti dell’Ilva. Dov’è la tomba di Giuseppe? Passo le dita sul marmo delle cappelle: il polverino grigio sporca la mia mano. ‘Pulisco al lunedì e, due giorni dopo, le tombe sono già coperte da un velo rossastro’, mi dice Vincenzo, 56 anni e un lavoro abusivo come uomo delle pulizie di questo cimitero. Dal tetto degli ossari si ha il panorama perfetto sulla modernità: ecco le montagne della polvere di ferro, i camini dei veleni, il cratere della fabbrica. Questa è una sovraeccitazione industriale. Il vento spira da Nord, quindi sto respirando il minerale, il ‘polverino’, invisibili miscele sfondapolmoni. So che i valori degli idrocarburi policiclici aromatici (che nome da gruppo hard-rock) sono ben oltre la soglia di livelli tollerabili (ci sono livelli accettabili?). Io, turista per qualche ora, ho paura. Provo disagio. Che cosa provano gli abitanti di Tamburi? Vengono in questo cimitero dove il marmo è diventato color porpora? ‘Io voglio vivere qua – mi dice un ragazzo – È bella la mia città. Ma vivere a Taranto significa morire’. A Tamburi la terra è inquinata. Lavorare qui (i marmi-


L’ILVA dal tetto degli ossari del cimitero di Tamburi

sti, i fiorai, gli operai) è una condanna. Per un certo tempo furono vietate perfino le inumazioni. I bambini non possono giocare nei giardinetti-sterpaglia del quartiere. Passeggio fra cappelle monumentali. Famiglie hanno alzato tempi dorici per la vita ultraterrena dei loro cari. Ma ci sono anche sfilate di croci in terra. Alcune tombe sono crollate. Palazzine mortuarie sembrano essere rimaste in piedi dopo un bombardamento. Vi sono condomini di ossa gestiti da congregazioni, associazioni, confraternite. Qui sembra che si abbia più attenzione ai morti che ai vivi. È imponente il cimitero di San Brunone. Dovrebbero organizzarvi visite notturne, far salire sul belvedere degli ossari: guardare la fabbrica quando manda lampi verso il cielo e poi girarsi per osservare il silenzio rossastro delle tombe. Qualcuno, allora e

forse, potrebbe fermare questa oscenità. Mi fermo davanti alla tomba di Altamura Gaetano di Luigi. È morto nel 1934. La fabbrica non c’era ancora, è la prova che quella che si chiamava Italsider 103 è stata consapevolmente costruita ‘sopra i Tamburi’. Aveva 21 anni, Gaetano. ‘Il lavoro gli stroncò la vita’, dice la lapide. Non è morto per i veleni delle ciminiere. Non so come sia morto, ma quella frase mi paralizza: il lavoro, a Taranto, ha ucciso e continua a uccidere. Ora uccide i bambini che ancora nulla sanno della fabbrica. Gaetano, morto di lavoro, non ha pace nemmeno ottanta anni dopo la sua sepoltura: il marmo della sua tomba è una velatura di minerale.

STORIE DI CIMITERI


CHIAPAS MESSICO SUD/EST CENTRO AMERICA

CRONACHE

Valentina Valle Baroz Andalucía Knoll

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rriviamo a Morelia a notte fonda, la carovana ha tardato, ci siamo fermati molte volte nel corso del viaggio. I votán (“guardiani”) ci aspettano all’entrata del Caracol, ordinati in due file, a sinistra gli uomini, a destra le donne. Uno per volta passiamo al banco

ESCUELITA ZAPATISTA ESPERIMENTI PER UN ALTRO MONDO

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Alba, Ejido 7 de Enero, Escuelita del Caracol di Morelia, foto di VVB

della registrazione, “nome cognome provenienza, questa è la tua guardiana, si prenderà cura di te”. Mi sporgo alle spalle della donna che mi precede per sbirciare chi mi tocca in sorte e incontro gli occhi di una ragazzina con un paliacate azzurro e un figlio appeso al collo; anche lei guarda da dietro alle spalle della donna che la precede chi le tocca in sorte.


Cooperativa femminile di ricamo, Ejido 7 de Enero, Escuelita del Caracol di Morelia, foto di VVB


smeralda ha ventitrè anni, è sposata da dieci e ha “solo” quattro figli perché con il marito ha deciso di non avere una famiglia numerosa, per non rischiare di non poterla mantenere. Il giorno che affrontiamo questo discorso resto in silenzio, ad ascoltare quella che per Esmeralda è una pianificazione familiare e per me la metà di una squadra di calcio. Saranno molte le volte che rimarrò muta alle sue affermazioni, cercando di pensare come lei pensa, di vedere come lei vede. Forse avrei dovuto parlare, spiegare anche a lei perché non voglio figli, perché non vivo a fianco di mia madre, perché sono finita nella sua terra, nella sua casa, nella sua vita. E invece taccio, e me ne vado senza la minima idea di cosa sia rimasto di me alla comunità 7 de Enero, se qualcosa è rimasto.

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La Escuelita zapatista non è stata un evento mediatico, un’iniziativa propagandistica e nemmeno un impegno politico. Quello

Scuola primaria zapatista, Ejido 7 de Enero, Escuelita del Caracol di Morelia, foto di VVB

semmai viene adesso, che le “lezioni” sono finite e siamo stati rispediti a casa con la consegna di diffondere ciò che abbiamo visto, ascoltato e vissuto. La Escuelita zapatista è stata piuttosto una gigantesca intromissione, seppur con invito, nell’intimità dell’EZLN, un’iniezione di corpi estranei effettuata, dietro ricetta medica, nelle vene di una delle organizzazioni più interessanti, sperimentali e innovative del secolo precedente, che non smette di sorprendere, avanzare e mutare in quello attuale. Vorrei aver raccolto la testimonianza degli altri milleseicentonovantanove alunni, ne sarebbero probabilmente uscite milleseicentonovantanove versioni diverse.


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Comida comunitaria, Escuelita del Caracol Roberto Barrios, foto di AndalucĂ­a Knoll



PRIMO GENNAIO 1994

Ricordo perfettamente quel tre gennaio del 1994. Sulla prima pagina del giornale, una foto mostrava il volto incappucciato di un uomo affacciato dal balcone di una piazza di San Cristobal de Las Casas, capoluogo del Chiapas, Messico del Sud-Est. Quella città era un pezzo del mio cuore, quell’articolo inatteso fu un’emozione. Il giornale raccontava quanto era successo due giorni prima in quella terra oltreoceano. Il primo gennaio di quel nuovo anno, gli zapatistisi rivelarono al mondo la loro esistenza. Il tempo della sottomissione del popolo maya era finito. Indigeni dimenticati uscirono dalla selva e dalle loro montagne e reclamarono, armati, dignità, rispetto, libertà per i popoli indigeni. Lo scrittore Pino Cacucci, anni dopo, scriverà in un romanzo di avere incontrato quegli uomini in quel primo giorno dell’anno. Gli spiegarono: ‘Noi non abbiamo risposte, siamo quelli che pongono domande’. Ho sempre sperato che l’incontro fra Pino e la gente zapatista sia sempre avvenuto come lui lo ha raccontato. In Europa, non lo capimmo subito, avremmo dovuto abituarci a un nuovo linguaggio, a un’altra storia.

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Sono passati venti anni da quel capodanno straordinario. La breve storia degli zapatisti (venti anni in confronto agli oltre cinquecento passati dalla ‘Conquista’ delle Americhe) è proseguita. Con l’andare certo di una lumaca. Nelle loro montagne sono stati capaci di provare a costruire una nuova società. È una storia irripetibile. È una delle vicende più importanti ed emozionanti della nostra contemporaneità. Non è un modello. È semplicemente un ‘mondo possibile’. Hanno tempi loro, le comunità zapatiste. Vanno avanti con i passi dell’ultimo. Per anni, dopo entusiasmi e discussioni, tutte occidentali, attorno al subcomandante Marcos, sono scomparsi nel silenzio. Per riapparire, im-

provvisamente, nel dicembre dello scorso anno con una sorprendente sfilata per le strade di San Cristobal. La scorsa primavera, poi, gli zapatisti hanno invitato nelle loro terre chi fosse interessato a conoscere la loro storia: volevano e vogliono mostrare a chi ha occhi per guardare quanto avevano costruito. Queste sono state, visto da questa parte del mondo, le escuelitas zapatistas. Mille e settecento persone, attorno allo scorso ferragosto, si sono sedute sui banchi ad ascoltare indigeni raccontare, mostrare, far conoscere. Professori californiani mischiati a giovanissimi ragazzi dei centri sociali italiani, intellettuali latinoamericani fianco a fianco a viandanti europei mossi solo dalla curiosità hanno passato una settimana nei caracoles, le municipalità zapatiste, ad ‘apprendere’. Ad ‘apprendere un nuovo modo di apprendere’. Un’esperienza eccezionale. Una ‘intromissione nell’intimità’ del popolo maya, come ha scritto nel suo articolo Valentina Valle Baroz.

Ora gli zapatisti ci hanno preso gusto: attorno a Natale e Capodanno, con i festeggiamenti per i venti anni della loro sollevazione, le escuelitas si ripeteranno in almeno due ‘sessioni’. La storia recente dello zapatismo, le parole degli zapatisti, il significato delle escuelitas si trovano, in spagnolo, sul sito www.enlacezapatista.ezln.org.mx Le sue pagine sono tradotte, in Italia, dal lavoro tenace del Comitato Chiapas Maribel di Bergamo: chiapasbg.wordpress.com (a.s.)


La sveglia del primo giorno di scuola suona all’alba, i nostri orologi arrancano inseguendo quelli del fronte, che corrono due ore in avanti. Qui anche l’orario è una forma di resistenza, un modo di difendersi da uno stato che vuol dominare anche il tempo. In Europa nemmeno ci facciamo più caso, qualcuno ha deciso che le giornate erano corte, che bisognava allungarle, e da allora tutti saltiamo dall’ora solare a quella legale senza battere ciglio. In Messico no, in Messico ci sono posti dove il tempo non va né avanti né indietro ma tiene il suo ritmo

per il pomeriggio, non avviene prima di notte. L’ejido 7 de enero è una manciata di case lanciata in un verdestagionepioggia. Si chiama così in onore ai caduti di Morelia che persero la vita in questa data, nel 1994, nel corso dell’insurrezione armata che permise il recupero di questa e altre terre, e che svelò al mondo l’esistenza dell’EZLN. I suoi abitanti sono cresciuti nel Caracol centrale e in seguito si sono spostati per creare la loro famiglia e comunità. Hanno costruito

Bandiere, Escuelita del Caracol Roberto Barrios, foto di Andalucía Knoll

costante, indifferente alle lancette appese alle pareti degli uffici pubblici. In questo tempo ci muoviamo, seguendo una “tabella di marcia” che tiene conto di tutto, dalla sicurezza agli svaghi. Si sono organizzati bene, gli zapatisti, sono stati capaci di non lasciare nulla al caso e di farlo in modo spontaneo. Hanno molto da dire, scalpitano per raccontare, condividere, rispondere, la lezione plenaria a cui assistiamo fa apparire sbrigativo un discorso di Fidel Castro. La partenza alla volta delle comunità, prevista

la scuola, la cappella/sala riunioni, la sala del promotore di salute, un alimentari. Hanno avviato progetti collettivi di allevamento di bestiame, coltivazione del caffé, produzione di miele, sartoria e ricamo. Le giornate cominciano alle quatttro del mattino, la legna si taglia nel bosco, l’acqua si prende al pozzo, mais, fagioli e zucchine si raccolgono nella milpa. Il piano di studio prevede che ogni allievo venga accolto, col suo guardiano, in una fa-

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A sinistra: riunione plenaria, Caracol di Morelia, foto di VVB A destra: Scuola primaria zapatista, Ejido 7 de Enero, Escuelita del Caracol di Morelia, foto di VVB Sotto: aspettando la pioggia, Ejido 7 de Enero, Escuelita del Caracol di Morelia, foto di VVB

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miglia della comunità, per assistere a tre giorni di lezioni pratiche e teoriche. Il breve incontro di benvenuto che teniamo nella sala riunioni mi conferma che, al di là del clima festoso che pervade le classi della Escuelita, questo non è un gioco, tutto quello che è avvenuto finora e che avverrà nei prossimi giorni è stato attentamente pianificato, gli zapatisti sanno quello che stanno facendo. L’unica variabile che non potranno controllare è costituita dalle emozioni, e anche questo me lo conferma la riunione di benvenuto perché, sconosciuta tra sconosciuti, in una terra recuperata del Caracol di Morelia, alla luce di torce e candele, inaspettatamente mi emoziono. E non sono l’unica, una carica emotiva corre in tutti i racconti che ho ascoltato finora, a prescindere dallo spirito con cui si è affrontata quest’esperienza e dallo sguardo che le si è rivolto. Questo è uno dei miracoli dell’Escuelita, non tanto che gli zapatisti siano riusciti a convocare e accogliere millesettecento persone quanto piuttosto che siano riusciti, per un motivo o un’altro, a emozionare ciascuna di loro. Molti se ne sono andati ringraziando, benedicendo, promettendo. Altri hanno lasciato che un po’ d’inquietudine s’infiltrasse nei loro rin-


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Attenti, Escuelita del Caracol Roberto Barrios, foto di Andalucía Knoll

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graziamenti, nelle benedizioni e nelle promesse. Pochi hanno ammesso di continuare a ignorare il significato ultimo dell’Escuelita, nonostante i comunicati pubblicati, i libri letti e le spiegazioni date. La versione ufficiale del perché è stata organizzata l’Escuelita ha a che vedere con la condivisione e la diffusione dei progressi dell’autonomia zapatista. E, in effetti, il livello di organizzazione raggiunto in questi dieci anni di vita dei Caracol è impressionante. Per essere sicuri che rimanessimo impressionati, al momento della registrazione ci hanno consegnato anche quattro libri, che abbiamo dovuto leggere scrupolosamente nel corso della settimana, e che trattano di governo autonomo, resistenza autonoma, partecipazione delle donne. Chi da sempre segue il movimento e già conosceva le comunità non smette di congratularsi per i traguardi raggiunti, chi dell’EZLN

aveva solo sentito parlare si sorprende nello scoprire che tutto questo lavoro è stato fatto da contadini, falegnami, maestri delle elementari, erboristi e ostetriche, e non da intellettuali incappucciati col mitra a tracolla. O almeno, non solo. Ma liberarsi dell’ombra di Marcos è impossibile, e la domanda se l’EZLN sarebbe quello che è senza di lui continua a non trovare risposta. Forse non vale nemmeno la pena di porsela, questa domanda, come non vale la pena dietrologizzare troppo sul perché alcune migliaia di indigeni chiapanechi abbiano deciso di aprire le porte di casa loro a degli sconosciuti in cerca di “modelli di vita alternativi”, dopo che da anni, seppur percuotendosi coscientemente il petto, usufruiscono dei benefici di uno sfruttamento che riguarda tutti i popoli originari, e quindi, anche gli zapatisti. La tentazione di chiederselo però è forte, perché forte è la consapevolezza tra le fila del-


sione la si vive sulla propria pelle, è difficile pensare che siamo davvero tutti uguali. La sofferenza è una per tutti, ma l’isolamento di un europeo che decide liberamente di trasferirsi in una delle ex-colonie più impattate dall’imperialismo per “vivere in un altro mondo possibile” non è uguale all’isolamento di un messicano che per sopravvivere emigra negli Stati Uniti, dove viene perseguitato, discriminato, criminalizzato e, se trovato, espulso. Assumere la contraddizione che soggiace al “siamo tutti uguali” non è sforzo da poco. E pare che gli zapatisti l’abbiano fatto, nonostante tra le motivazioni dell’Escuelita probabilmente ve ne siano alcune legate anche al “rilancio” dell’EZLN, che per poter mantenere questa sua autonomia ha bisogno del supporto internazionale. Supporto però, non carità. Anche per questo, forse, l’organizzazione lavora tanto duramente e invita i suoi sostenitori a conoscere i frutti di questo lavoro, restituendo alla parte di mondo che l’aiuta ciò di cui ha più bisogno, e che non può comprare. La speranza. l’EZLN che gran parte delle persone invitate vivono nell’abbondanza grazie ad altri che vivono nella privazione, e che si tratti di messicani sfruttati nelle piantagioni di caffé, di peruviani sottopagati nella produzione dell’organica quinoa o di congolesi che muoiono nelle miniere di diamanti fa poca differenza. Come non fa differenza che gli zapatisti sappiano o no ubicare Perù o Congo su una mappa, perché quel che contestano è un sistema-mondo, una contestazione che non a tutti gli alunni dell’Escuelita sembrava essere chiara, mentre pontificavano, cellulare ultimo modello alla mano, sull’elevato costo delle verdure biologiche. Ma gli zapatisti dicono che “un altro mondo è possibile”, dicono che accettano anche chi viene da questo mondo di sfruttati/sfruttanti perché nell’esclusione siamo tutti uguali. Eppure, anche quando quell’esclu-

VALENTINA VALLE BAROZ, 31 anni. Giornalista indipendente e scrittrice, vive in molti posti e in nessuno. Dall'inizio del 2013 è in Messico dove scrive di Movimenti Sociali e lotte in difesa dell'ambiente. ANDALUCÍA KNOLL, 30 anni. Newyorkese, giornalista multimediale, radialista (c'è una traduzione in italiano perché chi 'fa radio'), altermondista, ciclista e DJ. Vive in Messico e si occupa di Movimenti Sociali, Autonomia, Cumbia e Hip Hop. (twitter: @andalalucha)

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TAMAULIPAS MESSICO NORD OVEST CENTRO AMERICA

TORNEREMO SEMPRE A TAMPEMOL PER IL POZOLE di CARLOS ACOSTA (traduzione di Adriana Altamirano)

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rriva ottobre, il mese delle miti serate. L’alba è nuvolosa. A mezzogiorno piove e verso le cinque, si affaccia il sole. Inaspettatamente, sembra che la vita rallenti. L’autunno è nell’aria. Ancora non sono ancora cadute le foglie degli alberi, un fruscìo di nostalgia pare affacciarsi fra le frasche. Guardo dalla finestra: il canto di un uccello pijúi mi porta indietro nei ricordi. Mi vedo a casa dei nonni. Seduto a tavola con quasi tutta la famiglia. Anni fa, ci siamo dispersi per il mondo, ma in giornate come queste, ritorniamo. Sempre ritorniamo. Sempre ritorneremo. Io torno sempre. Oggi mangeremo pozole. Pozole rosso. C’è anche del pozole bianco. Per quelli che non possono, o non vogliono, mangiare peperoncino. Non mancherà il coriandolo, la cipolla e i rava116 nelli. Las tostadas1 e la salsa. Qualcosa deve avere il Messico, il mio paese, per farci sempre ritornare. Qualcosa ci deve pur essere in questo cortile dove un eucalipto quasi raggiunge le nuvole. Il pozzo di diciotto metri di profondità ci ha dato acqua per più di mezzo secolo. Il mulino macina il mais per il nixtamal2. Il mugnaio è al lavoro dalle cinque del mattino. Qualche segreto devono averlo anche gli alberi d’anona3, il ciliegio fosforescente e il profumo dell’arancio fiorito. La cena è una caciara. All’improvviso mio nonno dice qualcosa che già conosciamo:

sentite, voglio due minuti di baccano! E tutti – nipoti, figli, zii, zie, cognati, cugini e amici occasionali – parliamo, chiediamo o diciamo qualcosa solo per dire e si fa un gran guazzabuglio familiare che emoziona chi ci ha chiesto di farlo. Dopo tutti ridiamo. In realtà, è molto semplice essere felici. Arriva la notte e rimaniamo a chiacchierare. Beviamo birra e liquore. Ridiamo di tutto e di niente. C’è un cane silenzioso. Si chiama Poy, arriva e si butta sui piedi. Alcuni rumorosi pappagalli ridono per conto loro. La nostra casa è piena d’infanzia, parola, che se non sbaglio, vuole dire: questi sono i ricordi. Mio nonno Matteo se ne va a riposare. Mia nonna Cristina, seduta nella sua poltrona, con il suo fazzoletto fiorito in testa e i suoi cento anni, veglia fino alle tre del mattino. Zii e zie ci accompagnano, alcuni bambini dormono nel grembo delle mamme. È finito il pozole, dice qualcuno, con un sorriso malizioso. Silenzio. Se ne vanno le ore della notte. Dove vanno, non lo so. Forse in un abisso dove saranno semi di un orizzonte per un albero di luce. A quest’ora Tampemol4, il nostro paese, ritorna nebbioso. Sono già le cinque e mezza del mattino. L’alba annuncia il suo spuntare a oriente. L’alba vuole trovarci svegli. Mi piace l’albeggiare, mi piace aspettarla con le pupille avide. E, giusto in questo momento, quando la rugiada inumidisce i capelli e la stanchezza nelle palpebre si fa sentire, appare, come uscita dal capello a cilindro di un mago, una pentola di cibo. Venite ragazzi, venite!... vengono in fretta le zie, cercando un posto dove sistemare il pentolone caldo: qui c’è ancora pozole!... Guardo dalla finestra: il canto del pijúi mi sveglia. La sera è quiete. Quasi imbrunisce. 1Tostadas. Tortillas di mais (granoturco) cotte e fritte, leggermente salate in superficie 2 Anona. Conosciuta anche come chirimoya, frutto originario dagli altipiani andini. Si può trovare anche in alcune regione del Messico. 3 Nixtamal è un tipo di pasta di mais preparata mediante bollitura della granella con calce. Il termine deriva direttamente dal náhuatl nextli, (cenere o polvere di calce), e tamalli (pasta di mais). 4 Tampemol è il vecchio nome di Antiguo Morelos. La cittadina si trova nello stato di Tamaulipas, estremo Nord-ovest del Messico


I n lin gu a n h ua tl, P oz oli s ig nif ica sc h iuma . Quando cuociono, i chicchi più grandi e bianchi del mais si aprono come fiore e formano una schiuma. Il pozole è un piatto preispanico che si cucinava durante le feste in onore del dio Xipe. Nei nostri giorni è diventato un piatto molto diffuso in tutto il Messico, ma i più famosi sono quelli di Jalisco, Michoacán y Colima. Ci sono tantissime “pozolerías” dappertutto nelle città e nei paesini perché è diventato un mangiare molto popolare. Molto amato da quelli che fanno le ore piccole. Assicurano che è un rimedio infallibile per ‘la cruda’, i postumi dell’ubriachezza. E un classico servirlo dopo le grandi feste o matrimoni. Qui vi propongo una ricetta facile e veloce da fare se si trovano gli ingredienti: il pozole rosso di Jalisco

INGREDIENTI 1chilo di mais bianco per pozole precotto 1 pomodoro 1 testa d’aglio 1chilo di carne di maiale sale q.b. 1 cucchiaio di cumino 150g di peperoncino “ guajillo”* senza semi (è un peperoncino secco, rosso, lungo. Uno dei più popolari nella cucina messicana).

PREPARAZIONE mettere il mais in una grossa pentola, coprire con acqua, aggiungere l’aglio e il sale q.b. , cucinare a fuoco medio durante 2 ore. Dopo aggiungere la carne di maiale nella pentola a pezzetti e cucinare per 1 ora o finché la carne sia morbida. Nel frattempo cuocere il pomodoro, mettere a bagno i peperoncini in acqua calda per ammorbidirli, levare i semi e il picciolo e frullarli insieme al pomodoro, sale, origano, cumino e uno spicchio d’aglio. Poi filtrare il tutto. Quando la carne sarà morbida, levare dalla pentola e mettere da parte, lasciare freddare e sfilacciare. Mettere la salsa rossa dentro la pentola con il mais e farla bollire. Rimettere la carne sfilacciata nella pentola, assaggiare e regolare i condimenti, lasciare bollire piano per amalgamare tutti gli ingredienti e i sapori s’innamorino. Servire con la lattuga a julienne, la cipolla trita, i ravanelli a fettine e qualche goccia di limone. Accompagnare da croccanti “tostadas”.

Si serve con i seguenti ingredienti: lattuga tagliata a julienne (striscioline) cipolla bianca tagliata a pezzettini un pugno di ravanelli tagliati a fettine limoni origano, coriandolo a piacere tostadas salsa picante

CARLOS ACOSTA GUERRERO, 59 anni, messicano, medico pediatra e poeta (due gran bei mestieri). È nato ad Antiguo Morelos, cittadina dello stato di Tamaulipas, estremo nord-ovest del Messico. Un tempo il suo paese si chiamava Tampemol. Ha pubblicato numerose raccolte di poesia: Sucede a Diario, Escarbar, Espiral de Luz, Campanas en la Niebla, El Hombre de los Abrazos, Marotas, Décimas y El Zarzo de los Pemoles. Vive a Ciudad Mante.

ADRIANA ALTAMIRANO, 55 anni, è figlia del Nord Ovest del Messico. È nata a Ciudad Mante, nello stato di Tamaulipas. Negli anni ’70 e ’80 ha viaggiato per il mondo. Si fermò a Firenze, si sposò e adesso vive in questa città. Sorprese gli invitati al suo matrimonio cucinando pollo alle mandorle e peperoni e riso al vapore. Da alcuni anni, è una blogger: appassionata di cibo, di cucina e di storia del pensiero umano, ne racconta le avventure in saporisaperi.blogspot.it.

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STORIE DI ARTE

on è al centro ma relegata in un angolo, a bordo strada. Guarda verso il rettangolo centrale della piazza, dove ci sono le altre statue, quelle che stanno sui piedestalli in bella prospettiva tra le file degli alberi. È appoggiata quasi ad altezza piedi, su una base ovale dove si può salire. Appoggiata per un niente, un ricciolo dei capelli, un grumo di bronzo che si allarga verso l’alto e diventa una testa gigante, strabordante carne labbra occhi. Sembra appesa all’incontrario, viene voglia di prenderla per la base e capovolgerla – come un pipistrello. Le statue celebrative, quelle al centro, sono in scala umana e si guardano solo dal basso verso l’alto. La più appariscente è il bronzo equestre, dinamico ai limiti del ridicolo, che rappresenta Ferdinando di Savoia sul cavallo morente, i baffi tesi in orizzontale come la spada. Se si pianta la punta del compasso su Ferdinando di Savoia, il cerchio tracciato è uno spazio vuoto, verde, qualcuno che legge il giornale sulle panchine, bambini in bici, le automobili solo ai margini. Se punti il compasso sulla grande testa di bronzo di Javier Marin e provi a tracciare il cerchio, sbatti contro pa118 lazzi, balconi, impalcature, vieni travolto dalle automobili, dai pullman. Fuori dalle prospettive, fa capolino dietro un angolo; chi arriva camminando dal corso se lo ritrova lì sulla destra, quasi in agguato. Ma non incute timore, non si ferma chi la guarda per un attimo con quello sguardo che si destina ai parenti anziani che si preferisce non incontrare perché ormai parlano più soltanto di quand’erano giovani. D’altra parte lui non guarda nessuno. Il volto è girato di tre quarti come quello di Alessandro Magno, ma po-

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TORINO

“Hoy es hoy”, l’ultimo sguardo di Javier Marin Valentina Cabiale trebbe anche essere una Medusa o una di quelle figure femminili della tragedia greca terribili e ammirevoli anche se assassine. Le labbra africane, il naso da pugile, il volto graffiato, gli occhi, appesantiti da palpebre ferite con ciglia di ghiaccio, di una fierezza che appartiene a un altro mondo. I capelli arricciati, nodosi, sembrano tronchi o radici e sono coperti da fili di ragnatele (vere). Guarda oltre la strada, il viale alberato, le file dei palazzi. Se ne infischia delle automobili, dello smog, dei passanti distratti. Forse è lo sguardo che avrebbe un umano che guardasse la terra dall’ultimo piano del grattacielo più alto – sovrastante. Ma molto meno orgoglioso e sicuro di sé di


quanto non appaia Ferdinando di Savoia, o è una sicurezza di tipo diverso (eppure noi poco contemporanei a noi stessi continuiamo a preferire Ferdinando come sfondo fotografico per i servizi matrimoniali). Sulla fronte è inciso “Hoy es hoy”. Quel che doveva succedere è accaduto, la carne è ai limiti della decomposizione, un attimo prima di morire (uno sguardo fisso immutabile ormai*). Si avvicina l’inverno, e oggi si muore. JAVIER MARIN, scultore di fama internazionale, è nato a Uruapen, Michoacán, in Messico, nel 1962. Ha studiato presso la San Carlos Academy di Città del Messico, dove attualmente vive e lavora. Le sue opere sono state esposte in numerose mostre individuali e collettive in Messico, USA, Canada e in diversi paesi del Sud America, Europa ed Asia (www.javiermarin.com). La grande testa di bronzo (alt. 4 m) “Hoy es hoy” è esposta permanentemente in piazza Solferino a Torino dal novembre del 2008; una scultura gemella, uguale a quella torinese, si trova nell’aeroporto di Jacksonville, in Florida.

119 VALENTINA CABIALE, 31 anni, responsabile Letteratura di Viaggio. Valentina Cabiale è una grande “lettrice di viaggio” (quando non è a giro per il mondo), ma nella vita fa l’archeologa. La sua passione per il Medioriente, ed in particolare l’Iran, è seconda solo a quella per i gatti.

STORIE DI ARTE


oros ariete

cancro

21 Marzo - 19 Aprile È il momento in cui voi Arieti riceverete esattamente ciò che chiedete, quindi pensateci bene prima di compilare la vostra lista dei desideri. Se siete in viaggio in questo periodo assicuratevi di vivere tutto profondamente, e sperimentare il più possibile. Fare shopping insieme ai locali, tuffarvi nei mercatini, mangiare il cibo comprato per strada, questo tipo di esperienze vi darà la soddisfazione che state cercando. Lo stesso spirito di avventura lo potete applicare anche nel quotidiano, osservando le cose da punti di vista diversi dal solito. Per i single sono previsti incontri interessanti. Consiglio di stagione: le finanze, specie in viaggio, vanno pianificate correttamente.

21 Giugno - 22 Luglio Quest’ultima parte del 2013 sarà l’inizio del vostro periodo fortunato. È importante socializzare il più possibile per creare le opportunità che renderanno questo uno dei vostri anni migliori. La vostra intelligenza e creatività saranno amplificate dalle persone che incontrerete nei prossimi spostamenti; rimanete aperti e immaginate la vostra mente come una spugna che assorbe l'ambiente circostante. Per quanto riguarda l'amore, attenzione ad una vecchia fiamma che minaccia di rovinare i vostri nuovi orizzonti. Lasciate le vostre ali aperte per volare. Consiglio di stagione: sorridi e acquisterai energia.

toro 20 aprile - 20 maggio Siete finalmente pronti per realizzare quel sogno che coltivate da tanto tempo, dovete solo ricordarvi di rilassarvi per godervelo al meglio. Non esitate a dire dei sì che vi porteranno a fare esperienze insolite molto interessanti. Si sa che il Toro si può innamorare rapidamente e facilmente, in questo periodo ci saranno sicuramente nuovi incontri, che se non porteranno ad una vita di coppia, saranno occasione per nuove amicizie. Affrontate i problemi quando capitano, senza tergiversare, e sarete in grado di ottenere qualsiasi cosa. Consiglio di stagione: la tua creatività migliora con la calma.

gemelli 21 Maggio - 20 Giugno Giocare con nuove idee fa parte del vostro pane quotidiano, cari Gemelli. Siete sempre stati pieni 120 di talenti, ed è arrivato il momento di realizzare ciò che da tempo avete pianificato. La vostra energia cresce e vi permette di sorpassare vecchie costrizioni e raggiungere nuove mete. Ricordate che la memoria del passato può essere molto ingombrante e distruggere il momento presente. Fate della creatività il vostro cavallo di battaglia, ci saranno piacevoli sorprese per voi. La vita di coppia vi offrirà momenti memorabili. Consiglio di stagione: la gratitudine fa girare il mondo.

leone 23 Luglio - 22 Agosto Usate la vostra creatività a vostro vantaggio per tirare fuori quei progetti che una volta sembravano impossibili. I prossimi saranno mesi tranquilli in cui potrete raccogliere i frutti di ciò che avete seminato nel corso dell'anno. Ricordatevi di continuare a sorridere, il mondo sorriderà con voi e porterà con sé un bel pizzico di fortuna. La vita sociale sarà piena di nuove amicizie, uscite divertenti e capacità di attrarre ciò che cercate. Attenzione a non promettere ciò che non potete mantenere, qualcuno o qualcosa potrebbero poi chiedervi il conto. Consiglio di stagione: i tuoi pensieri creano il tuo destino. Mantienili positivi

vergine 23 Agosto - 22 Settembre Per voi, abituati all’organizzazione e alla precisione, viaggiare a volte può essere duro, ma imparare a farlo vi permetterà la realizzazione del vostro più vero sé. Se vi lasciate andare, godendo ogni secondo per quello che è, quando guarderete indietro a questo periodo lo ricorderete come uno migliori della vostra vita. Spesso rischiate di essere visti come nervosi o preoccupati, ma più si viaggia più si arriva a piacersi, fidarsi di noi e a lasciare indietro le proprie ansie. C'è una sorpresa che vi attende molto presto. Consiglio di stagione: la creatività aiuta a far passare la melanconia autunnale.


scopo bilancia

capricorno

23 settembre - 22 ottobre Non preoccupatevi se l’autunno ha un avvio lento e freddo, perché una volta partiti, tutti i settori della vostra vita sapranno riscaldarvi. Si preannuncia un periodo epico pieno di interessanti opportunità con la possibilità di sperimentare cose nuove. Qualcosa di imprevisto potrebbe spingervi a perdere l'equilibrio naturale, ma tutto sarà ripristinato al più presto se vi focalizzate sul vostro obiettivo. Ricordate che le situazioni di pericolo sono rare, e spesso sono il frutto della nostra immaginazione. Consiglio di stagione: lascia uno spazio vuoto per poter attrarre le novità.

22 Dicembre -19 Gennaio È stato un anno duro, ma non demordete, il vostro impegno e la vostra fatica saranno presto ripagati. Iniziate a pianificare momenti di relax, da un breve weekend in campagna ad un piccolo viaggio all’estero. Ogni nuova esperienza è un’opportunità per imparare, per vedere la vita da una prospettiva nuova e sviluppare nuovi punti di vista. Ritroverete vecchie amicizie che vi porteranno nuove emozioni, ma continuate a guardare avanti perché il meglio deve ancora venire. Consiglio di stagione: la dolcezza nel parlare e nell’agire apre molte porte

scorpione 23 ottobre - 21 novembre State per sperimentare un cambiamento spirituale. La spiritualità vi porterà a capire che ci sono diverse verità su questa terra. La vostra natura materialistica sarà frantumata e in cambio otterrete la pace della mente e la tranquillità che avete sempre desiderato. Attenzione per le nuove amicizie fatte per caso, non sono sempre quello che sembrano. Con Urano in Scorpione, sta per essere un periodo di passione riempito di piacere, sia che siate in un rapporto di coppia o meno. Consiglio di stagione: lasciare andare rende la vita più facile.

sagittario 22 novembre - 21 dicembre Un nuovo approccio mentale verso la vita ed il lavoro cambierà in positivo le vostre abitudini. Una mente aperta renderà i vostri spostamenti nei prossimi mesi ancor più eccitanti. Ciò che si ottiene fuori dai sentieri battuti può essere una straordinaria esperienza. L’unico rischio sarà quello di non voler più smettere di viaggiare, ma riuscirete anche a godere di piccoli spostamenti che vi permetteranno di imparare ad apprezzare la vita per quello che è. Tenete lo zaino pronto, potreste trovarvi ad accogliere anche proposte inaspettate. Consiglio di stagione: mantieni la calma in tutto ciò che fai.

acquario 20 gennaio - 18 febbraio Le persone che incontrerete in questo periodo avranno un effetto enorme sulla vostra carriera futura. Ricordate che l’unico modo per non avere più estranei intorno a sé è fare la loro conoscenza. Come Acquario siete un comunicatore nato e questo vi aiuterà molto in questa fine anno. I vostri nuovi compagni di viaggio sono naturalmente attratti dal vostro modo eccentrico che vi fa stare fuori dalla folla. Siete leali e intelligenti, dovete però ricordarvi di tenere la gelosia e testardaggine a bada per concludere alla grande il 2013. Consiglio di stagione: fidati di te, sei forte!

pesci 19 febbraio - 20 marzo Non accontentatevi del secondo posto, è giunto il momento di far brillare la vostra stella. Assicuratevi di tenere gli occhi sul cielo, vi potrebbe dare l'ispirazione di fare un cambiamento importante nella vostra vita. Si dice che se un pesce conosce solo l’acqua in cui è immerso, non farà troppa strada, ma non è questo il vostro caso in questo momento. Ignorate il trambusto delle grandi città 121 e cercate luoghi tranquilli per i vostri spostamenti. Ricordate che il contrario dell’amore è la paura, e se volete amare dovete prendere in mano la vostra vita con coraggio. Consiglio di stagione: la tua forza è nella tua serenità.

Letizia Sgalambro 52 anni, sagittario, counselor ed esperta di processi formativi. Crede che per ognuno sia già scritto il punto più alto dove possiamo arrivare in questa vita, e che il nostro libero arbitrio ci fa scegliere se raggiungere quel traguardo o meno. L'oroscopo? Uno strumento come altri per illuminare la strada.


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ERODOTO108 “Mare, dentro di te sta il mio amore. Hai preso la sua anima e il suo cuore. Mare, riportala a riva, fammi parlare di nuovo con lei. Cercala ovunque, trovala, fallo per me. Mare riportami l'amore della mia anima Insieme ai suoi compagni pellegrini di questo destino. Creature del mare, siete voi gli unici testimoni di questa storia E allora ditemi: quali sono state le sue ultime parole prima di partire Mare! Non sei tu il mare? E allora rispondimi!

Questo è il testo di una canzone di Tesfay Mehari, cantante eritreo.

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LAMPEDUSA IL 3 OTTOBRE DEL 2013


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