Erodoto108 n°14

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ERODOTO108 14 • PRIMAVERA 2016


Sommario 2 editoriale 3 Le foto che farete, Lucia Perrotta, antonio mancuso, andrea Semplici, alessio Duranti 12 il racconto WRITING COACH? di Elisabetta rondinone 16 reportage fotografico IL FAVOLOSO MONDO DI AMELIA ED ENRICO di Zaira mantovan 30 storie di fotografe Lisetta Carmi ‘E NEMMENO uN RIMpIANTO’ di Francesca Cappelli 34 reportage fotografico Nepal un anno dopo, LA MEMORIA FRAGILE, foto e testo di Giovanni mereghetti 48 storie di libri Castel di Sangro, VOGLIO ESSERE FELICE, testo di alberto Spicciolato, foto di arduino Capanna

SToriE Di SCUoLa

52 Palermo, Quelli che non ci vanno, Foto di Francesco Faraci, testo di Silvia La Ferrara 56 Nord del Kenya, Non so quante capre ho, ma mi accorgo se ne manca una, testo e foto di Greta Semplici 60 italia Camerette, Foto di annarita Lamacchia 68 italia Sottobanco, di miche Crivaro, Claudia Fabris,Chiara Gubbio 70 india, La divisa di juta, testo e foto di Lorenzo rosato 73 italia, Alfabeto bilingue, Testo e foto di antonella Bukovaz 76 USa, per un pugno di libri,Testo di Laura Salvarani 79 mongolia, ‘Vorrei poter leggere il mio nome’ testo e foto di matthias Canapini 82 Palestina Resilienza/la scuola invisibile 84 gli occhi di Erodoto, incontro con Girolamo De michele E se studiassomo The Wire?, intervista di Sandro abruzzese 88 italia Quaderni aperti Quando fa freddo la gente e io indossa abiti pesanti 90 italia memoria di adriano,di Letizia Sgalambro 94 quaderni a quadretti Cosimo Miorelli SCHWEINEHuND, in cerca di casa a Berlino

SToriE Di aLBEri

102 i riti degli alberi fra Lucania e Calabria, SE pASSATE FRA CENT’ANNI NOI SAREMO ANCORA QuI, testo e foto di andrea Semplici 120 una storia una foto ESSERI  SupREMI, racconto e foto di marco Paoli raccolto da arturo Valle 124 DORMIRE CON ETTORE E TERESA. CHE SONO DuE QuERCE. Testo di Lucia Zambelli foto di matteo Cortigiani e Lucia Zambelli

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128 storie di cibo IL SENSO DELLA FRATTAGLIA, testo di irene russo, foto di ornella mazzola 130 i riti crematori dei maharaja di Bundi NON FIA RISTORO AI Dì pERDuTI uN SASSO Testo di Silvia La Ferrara, foto d marco Bascheri 136 storie di poeti LA pOETESSA DI pITIGLIANO,Testo e foto di arturo Valle 138 oroscopo di Letizia Sgalambro

ERODOTO108 • Fondatore: Marco Turini • Direttore responsabile: Andrea Semplici • Redazione Giovanni Breschi, Vittore Buzzi, Valentina Cabiale, Francesca Cappelli, Silvia La Ferrara, Massimo D’Amato, Isabella Mancini, Andrea Semplici, Letizia Sgalambro, Marco Turini • Designer Giovanni Breschi • Web designer Allegra Adani

In copertina: Antonio e l’albero di Accettura Foto di Andrea Semplici

Registrata al Tribunale di Firenze Stampa Periodica al n.5738 il 28/09/2009


La danza immobile

Scrivo questa paginetta da lontano. Da oltre oceano. Dal Nicaragua. Isabella, in questo stesso momento, è in Vietnam. È che Erodoto è rimasto in Italia. Non ha voluto seguirci. Oppure è con noi e non ce ne accorgiamo. La rivista è nata per raccontare il viaggio. Un’amica, qui, a fianco a me, in un rancho delle colline del Nicaragua, rivendica ‘il diritto al viaggio’. Sfoglio (virtualmente) questo numero: le sue pagine sono immobili, stanziali, alcune molto belle, altre meno, ma ferme come un albero (per questo vi sono articoli sugli alberi). Mi chiedo: cosa abbiamo fatto? Abbiamo ingannato le ragioni per le quali siamo nati? Noi viaggiamo, ma abbiamo lasciato a casa Erodoto? No, non credo che sia così. Penso a Bruce Chatwin, scrittore del nomadismo, capace di darci un bellissimo libro immobile come Utz, tre lettere per un titolo e colline del centroeuropa come paesaggio. Abbiamo sempre sostenuto che il viaggio è un alibi. Uno strumento. Per conoscere il mondo, per raccontarlo, per mostrarlo. Non è semplicemente l’andare, non è un collezione di luoghi, non è lo scacciapensieri dell’esotismo. Non esistono luoghi da confinare nell’esotismo, non ci interessano i diari di viaggio, ma le storie del viaggio. Vi è una maniera di guardare che è sempre viaggio. Vi sono danze immobili. Il movimento e lo stare. Un immobilismo che non è tale: i tuoi piedi sono fermi, ma ogni tuo senso è all’erta per catturare quanto passo dentro di te e appena fuori di te. In fondo, noi non vogliamo più cambiare il mondo (oh, sì, che lo vogliamo), ma cambiare i cinque metri attorno a noi, sì, questo sì. Per questo abbiamo deciso e scelto di pubblicare il racconto di Elisabetta Rondinone, story-teller (ma lei non sa di esserlo) materana, e di Zàira Mantovan, fotografa veneta (ci piace definire queste due donne con i loro ‘mestieri’, non con quelli con i quali sopravvivono: vedete i soldi hanno importanza decisiva. Nelle loro vite e nelle nostre). Ci hanno donato due racconti perfetti. Senza trucchi. Hanno messo i piedi a terra e hanno guardato (Elisabetta per una mattina, Zàira per molti anni) il mondo attorno a loro. E sono riusciti, per un momento, a farci entrare nelle loro storie. Gliene siamo grati. Per questo abbiamo voluto parlare di alberi. Una meraviglia che sta lì, sconfigge la forza della gravità, va verso l’alto, ma gli alberi non viaggiano. Aspettano i viaggiatori. Hanno atteso Lucia Zambelli, giornalista fiorentina, e, per lei e per i suoi amici, hanno trasformato i rami in letti. I sicomori e le acacie dell’Etiopia hanno aspettato per anni e anni che passasse Marco Paoli, fotografo fiorentino, per donargli la loro ombra e la loro bellezza. Questa volta siamo grati agli alberi.

Due parole sulla scuola. Non so cosa scriverà Silvia nella presentazione del dossier. È lei ad aver curato il dossier Scuola al centro della rivista. Faccio solo una notazione: è stato difficile trovare autori (scrittori e fotografi) per raccontare della scuola. L’educazione, la formazione, l’istruzione sono, diciamo, capisaldi di un mondo più giusto. Ma non siamo capaci di raccontarlo: troppi degli articoli e delle fotografie che abbiamo ricevuto trasmettevano solo immagini stereotipate dell’universo della scuola. Abbiamo bisogno di maestri e professioni (e di ragazzi e studenti) capaci di raccontare questo universo. Di farlo bene. Con profondità. Fuori da parole abusate. Altrimenti rimane un mondo a parte, mentre la scuola è la base sulla quale costruire le nostre vite. Andrea Semplici

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EDITORIALE



LE FOTO CHE FARETE Giovedi Santo. Processione dei misteri, marsala, Sicilia Foto di Lucia perrotta


LE FOTO CHE FARETE Venerdi Santo. i Vattienti di Nocera Terinese, Calabria Foto di Antonio Mancuso



LE FOTO CHE FARETE Domenica di Pasqua. Botiza, maramureş, romania Foto di Andrea Semplici

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LE FOTO CHE FARETE il 25 aprile. milano Foto di Alessio Duranti

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il racconto di Elisabetta Rondinone Un corso di scrittura creativa

WriTiNG CoaCh?

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Una giovane scrittrice materana va fino a Padova per una lezione sullo ‘scrivere’. incontra e smarrisce Jack London. Si sofferma di fronte alla Casa degli Specchi. E confonde l’insegnate, web editor (?) di un una multinazionale, con il custode. Si distrae, alla fine si smarrisce e se ne va. Con addosso la domanda senza risposta ‘si può imparare a scrivere’?

ercavo una buona scusa per uscire dalle mie abitudini troppo sedentarie. Chiacchiero con una ragazza conosciuta alla fermata dell'autobus, m'incuriosisce la sua minuziosa descrizione degli oggetti e mi confessa che è solo merito delle lezioni seguite in una prestigiosa scuola di scrittura italiana. Perplessa, ma incuriosita dalle tecniche di scrittura di cui mi parla, mi lascio contagiare dal suo entusiasmo e decido di frequentare un breve corso anch'io. Sfoglio diversi annunci online e scopro decine di scuole: corsi di scrittura di ogni genere, brevi, immediati o accademici. Ma cosa significa imparare a scrivere? Con nessuna aspettativa particolare, ma con voglia d'imparare qualcosa di utile, prenoto il mio corso di scrittura creativa a Padova. Un giorno di viaggio, da Matera, dove abito. E quando arrivo, guardo il cielo: non vi erano nuvole, il sole rifletteva sulle vetrate dei palazzi, passo davanti alla famosa Casa degli specchi, per me è la Casa del cammeo per via di quei tondi marmorei sparsi sulla facciata. In borsa ho perfino un registratore. Arrivo all’Istituto Vescovile Barbarigo. E’ qui che si tiene il corso. Scopro che si tratta di una lezione sulle tecniche di costruzione del racconto. Sei ore di corso e due libri di riferimento di Jack London. L'insegnante si presenta come writing coach e web editor per una multinazionale che produce pneumatici (ignoro il significato di questi termini, mi chiedo cos'avrà mai a che vedere la scrittura creativa con un testo per una multinazionale). Chiedo indicazioni in segreteria, i miei compagni di corso sono dispersi per il palazzo. Il docente è in ritardo. Passeggio e rimango folgorata dal marmo bianco e rosa che mi circonda e turbata dalle espressioni raffigurate nei quadri che ricoprono buona parte delle pareti.


Siedo al primo banco sul lato estremo dell'aula e cerco tra i volti dei tre uomini presenti l'espressione di un insegnante di scrittura. Gli iscritti sono poco più di dieci. Non vi sono giovani fanciulle e neanche uomini, ma donne sulla quarantina con vestiti sfarzosi e valigette dai profili importanti. Dopo una lunga attesa, spunta fuori l'autentico insegnante. Gli altri due erano un fotografo e un custode del palazzo. Eppure ero certa che il custode fosse l'uomo creativo e che il fotografo fosse un importante dirigente d’azienda smarritosi nel palazzo sbagliato. L’insegnante si presenta con poco fiato. Dice di venire da Pordenone, dal suo accento, capisco subito che è pugliese. Assume una postura sbilenca quasi a indicare uno squilibrio emotivo. I piedi e le gambe tendono verso l'interno e le braccia massicce sotto le spalle strette ingigantiscono le proporzioni. Le oscilla distrattamente, come se si tenesse in bilico, così come fanno gli autisti degli autobus durante l'attesa di una sosta in autostrada, o come i datori di lavoro affaticati dal loro stesso respiro.


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Era buffo, le sue narici si dilatavano ogni volta che tirava su un respiro, roteava gli occhi nel vuoto cercando parole di un discorso lasciato a metà, smarrito tra battute e metafore fuori tema. Poi riprendeva a leggere i due libri. A che punto della lezione siamo? Cosa c'entrano le sue imprese di vita con il racconto di London?. Mi sono distratta, la mia attenzione si è spostata sulle altre scolare: perfettamente incastrate tra i banchi e rapide a trascrivere le parole del docente, lo guardavano enfatizzate. Alcune di loro lo avevano seguito in altre città per diverse lezioni, molte altre lo ascoltavano per la prima volta e ne erano ipnotizzate. Avevano fiducia in tutta questa impresa goliardica, dicevano di essere certe di trovarsi nel posto giusto per imparare a scrivere. Mi ripropongo la domanda: cosa significa imparare a scrivere? La mia attenzione su di lui ,invece, si interrompeva di continuo. Così comincia a scrivere per riempire il tempo e dare un senso al denaro speso per questa lezione. Così ho scritto le righe che state leggendo. Ho immaginato di avere di fronte una sorta di cabarettista meridionale, di quelli che legano il loro sarcasmo alle proprie radici portando per scontato che lo posseggono come se fosse innato. Usava parole ed espressioni come ‘diciamo che, è solo così, sembra brutto ma non so come spiegare’. Voleva tirar fuori qualcosa di prezioso, ma tutto si banalizzava proprio nel momento in cui lo diceva. Era banale perché nelle sue parole non vi era nulla, o quasi nulla, che io non conoscessi già. E io ho solo un semplice diploma di un liceo fatto male, qualche libro letto e mezzo anno di università alle spalle. La lezione si era spostata su una serie di frasi virgolettate, estrapolate da un’enciclopedia, affiancate ad illustrazioni che ne avrebbero dovuto riassumerne il concetto. Il maestro si limitava a leggerle con qualche breve commento finale. Immagini d'importanti letterati del XIX secolo proiettate sul muro, scorrevano alle sue spalle, mentre ci parlava di qualcosa che non riuscivo a comprendere. Le sue metafore facevano spesso riferimento a scene di sesso fuori tema. Allora tirava su un grosso respiro, era stanco e sperava di trovare le parole che cercava, perdendo a volte il filo del discorso e sforzandosi di non essere volgare. Ero irrimediabilmente indispettita dal suo tono di voce, leggeva velocemente e senza espressione. Pensai che il fotografo


forse avrebbe trovato un modo per immortalare in una o più immagini in sequenza quella fuga di parole. Pensai anche a quel che potevo sapere sulla scrittura creativa e ricordai che in sostanza si fonda s'un viaggio mentale sconfinato all'interno di mondi immaginari o reali e che in un secondo momento tali idee sarebbero state raccolte, scelte, analizzate e selezionate. A questo proposito non riuscivo a individuare in tutte quelle parole ascoltate qualcosa che si avvicinasse a un’idea creativa. Lessi un articolo che racconta della possibile chiusura della scuola Holden. Era la fine del tentativo di creare dei tecnici della scrittura? Il pedagogista Dewey, nel secolo scorso, ipotizzava la formazione educativa degli aspiranti scrittori. Ma è davvero necessaria la presenza di un individuo di riferimento affinché uno scrittore diventi tale? Cosa significa diventare scrittore? Molti scrivono, forse tutti scrivono, ma è davvero scrittore colui che dopo aver sborsato fior di soldi per una o più lezioni torna a casa a sedersi sulla sua poltrona cercando ore e ore la famosa ispirazione? Ci si abitua in fretta all'idea che se qualcuno può insegnarti a scrivere, è possibile farlo con dimestichezza, senza reali sacrifici e predisposizioni. E, per conseguenza, tutti penseranno che scrivere ‘non fa guadagnare e che quindi non è affatto un lavoro’, ma un'attività praticata nel tempo libero, fatta con piacere o addirittura per divertimento. Per questo molti autopubblicano i loro libri e si mettono in competizione con altri aspiranti scrittori pur di guadagnarsi un posto per essere letti su qualsiasi rivista online o in qualche vetrina editoriale. Ma io ho esigenza di scrivere, non ho mai smesso di farlo da quando, a sei anni, mi è stato regalato il primo diario. Non penso che sia sbagliato avere dei riferimenti, fosse solo per mettere ordine alle parole che affollate e scomposte vagano nella nostra mente, ma credo che si trovino nel mondo attorno a noi. Basta tenere attivi tutti e cinque i nostri sensi.

GuIDO SCARAbOTTOLO pER GLI AMICI bAu. Nasce a Sesto San Giovanni nel 1947 e si laurea in architettura al politecnico di milano. Dal 1973 fa parte dello studio arcoquattro. Collabora con i principali editori italiani. Per 12 anni è stato art director di Guanda. Progetta libri per Topipittori e Vanvere.

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ELISAbETTA RONDINONE, materana, scrive questo come biografia: “Solitamente scrivere assicura una certa riservatezza, da spazio a un flusso di parole che a volte neanche la punteggiatura può fermare. Poi mi viene chiesto di definirmi in tre righe indicando la mia età (ventitrè anni). intimidita e un po’ impacciata rispetto le regole dei giochi di ‘scrittura di dovere’ anche se sforo di un rigo e alla fine scrivo qualche parola in più”


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REPORTAGE

FOTOGRAFICO

ZAIRA MANTOVAN


IL FAVOLOSO MONDO DI AMELIA ED ENRICO

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A mio padre e mia nonna.

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na notte del 1998, nella periferia di Como, Enrico stava guardando, come tutte le notti, una partita di calcio o un film di Sergio Leone alla tivù; sua madre Amelia, come tutte le notti, era andata a letto presto. La mattina seguente, all'alba, Amelia trovò suo figlio a terra in coma. La tivù era ancora accesa. Nel silenzio della notte Enrico aveva avuto un ictus. Dopo ventidue giorni di coma, nonostante lo scetticismo dei dottori, si svegliò, secondo me grazie alle canzoni di Lucio Battisti (il suo cantante preferito) che gli avevo fatto ascoltare con il walkman. Da allora Enrico ha la parte destra del corpo paralizzata e fatica a parlare. Da allora Amelia (classe 1918), aiutata dalla sorella di Enrico, si prende cura di lui. Posso assicurare che non è affar facile, non solo a causa della malattia ma soprattutto a causa della sua testardaggine. Tutti i giorni Enrico copia gli articoli di Famiglia Cristiana al computer, contemporaneamente guarda un film in streaming, ascolta la musica e segue i risultati sportivi con il televideo, insomma camera sua è come Wall Street. Ogni tanto esce di casa per fare le scale del condominio e si innervosisce perché non è facile come una volta, prima dell'ictus, poi torna con la mente al passato, a quando era giovane e bello, sano e felice. Da quando si è separato da mia madre è tornato da sua madre e non ha più riconquistato un'autonomia. Ogni giorno Amelia cucina, ascolta la messa alla radio, guarda le telenovelas alla tv, va a bere il caffè dalla sua amica del piano di sotto, pensa al passato, al suo Nino. Mamma e figlio si sostengono a vicenda, si fanno compagnia, dopo tanti anni di vita in simbiosi sono diventati inseparabili. Quando vado a trovarli, dopo varie minacce riesco a caricare in macchina mio padre e a portarlo al Lago; la nonna me lo affida, ma se torniamo in ritardo si preoccupa. Da anni scatto loro foto, spesso di nascosto perché quando vengo colta in flagrante si lamentano e mi sgridano, però poi vogliono vedersi. Fotografarli è il mio modo per farli uscire dalle mura di quell'appartamento e per farli sentire delle star.







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Zàira Montovan, nata a Como nel 1975, vive a rovigo. ‘Ho fatto tanti lavori, l'ultimo è stato il meno creativo di tutti : facevo 'bip' nel cuore della notte nei supermercati per gli inventari. tutti mi hanno stufato, la fotografia invece mai. Da almeno vent’anni osservo e fotografo gli alberi, le nuvole, i gatti, i cani, la nebbia, me, mio padre e mia nonna’.



STORIE

DI FOTOGRAFE • I NOVANTADUE ANNI DI LISETTA CARMI Pianista, fotografa ‘senza preavviso’ perché la fotografia incarna la musica. Dà scandalo nell’italia degli anni ’60. Fotografa Pound e i camalli genovesi. Smette di fotografare: ‘C’è un tempo per ogni cosa’.

‘E NEMMENO UN RIMPIANTO’

Lisetta Carmi

Testo di Francesca Cappelli

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Lisetta Carmi è oggi un’anziana signora, nobile e soave. Tuniche orientali ne ricoprono la schiena curva. Le mani plasmate dal tempo e gli occhi chiari racchiudono tutta la sua vitalità. Ha compiuto novantuno anni Lisetta, la sua quinta vita, l’epoca della libertà, come la definisce lei. Senza opporsi alle vocazioni, senza rimpiangere le esperienze passate, in una continua ricerca di se stessa, si è lasciata trasportare dall’esistenza come una barchetta sull’acqua, realizzando i compiti che la vita le ha proposto. Questa rubrica da spazio alla sua seconda vita, quella di donna carismatica e singolare, attenta e sensibile, instancabile viaggiatrice e sorprendente fotografa.

Lisetta Carmi nasce a Genova, in via Sturla numero 15, il 15 febbraio 1924. Per le sue origini ebraiche viene espulsa a quattordici anni dalla scuola italiana. I due fratelli vengono mandati in collegio in Svizzera

e lei rimane nella casa di famiglia per volontà del maestro di pianoforte, Alfredo They, discepolo di Ferruccio Busoni, preoccupato di non perdere la sua allieva migliore. Le insegna a «toccare il piano come fosse una cosa viva». Lisetta studia e suona in completa solitudine.

Quando sfolla con la famiglia ad Alessandria, il pesante strumento viene trasportato su un carro trainato da buoi. Sotto il braccio tiene i volumi del Clavicembalo ben temperato di Bach. Capisce che avrebbe fatto la concertista. Il suo talento la porta a girare gran parte del mondo, i risultati sono eccellenti, la fama cresce, ma lei inizia a chiedersi se è quella la vita che veramente desidera. Nel 1960 la prima frattura, partecipa alle manifestazioni di piazza contro i fascisti, e al suo insegnante, che le vieta di prendere parte ai nervosi cortei che avrebbero potuto mettere a repentaglio salute e carriera, ri-


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Ezra Pound


1965-1971

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(Le fotografie qui presentate, nel rispetto del diritto d’autore, vengono riprodotte per finalità di critica e discussione aisensi degli artt. 65 comma 2, 70 comma 1 bis e 101 comma 1 Legge 633/1941.)

sponde indignata chese le sue mani sono più importanti della sofferenza degli altri allora non ha senso che continui a suonare. Inizia così la sua seconda vita, in compagnia della macchina fotografica, senza preavviso, senza avere mai scattato. Lo fa perché, dichiara in un’intervista: «se sai suonare uno strumento puoi fare qualsiasi cosa nella vita. Perché la musica ti dà un’anima. E la fotografia fu il corpo in cui l’incarnai».

Con la macchina fotografica, strumento per capire se stessa e il mistero dell’umano, viaggia tra le favelas venezuelane, in Messico, in Irlanda, in Afghanistan e nel Sud Italia, con l’indefesso obiettivo di dare voce ai poveri, ai diseredati della terra, a quella parte di umanità emarginata e invisibile. Tanti la conoscono come la fotografa dei travestiti, per il reportage che documenta i luoghi nascosti di Genova, fotografie che rimar-

ranno per anni proibite e clandestine. Nel 1965 Lisetta entra nell’ambiente dei trans per caso, accettando l’invito a una loro festa. Li vede ballare e divertirsi, ma non le sfugge la grande sofferenza, il macerato desiderio di essere donne e per questo perseguitati da una società che li considera malati di disturbi d’identità. Inizia a frequentarli, «nella convinzione che anche loro vivevano, posso dirlo? come gli ebrei, in un ghetto». Tra fotografa e fotografati si instaura un’amicizia: c’è la Gitana, che era stata l’amante di De Pisis, la Morena, che aveva ispirato la Bocca di Rosa di Faber, la Novia. Lisetta Carmi crede che questa assonanza che l’ha unita per tanti anni a loro non sia casuale. Anche lei è alle prese con la necessità di rifiutare il ruolo classico che le viene imposto, con la difficile accettazione della sua esigenza di libertà d’espressione, di viaggio, di incontro. La reazione a quelle immagini è di grandissimo scandalo. Il libro avrebbe dovuto essere pubblicato da un editore comunista ma è un’epoca troppo moralista e si tira indietro, i negozi non lo espongono, gli intellettuali si rifiutano di presentarlo. Altri reportage di Lisetta Carmi scuotono l’opinione pubblica e sollevano il velo di silenzio e disinteresse. Nel 1964 l’attrazione sconfinata per il mare la porta a documentare la vita dei camalli nel lavoro “Il porto di


foto a Ezra Pound, cercato a Sant’Ambrogio di Rapallo, dove viveva. Si incontrano per pochi minuti. Il poeta apre la porta di casa ed esce con la sua vecchiaia, i capelli irti, la sua magrezza. Si ferma davanti a lei per il tempo di soli venti scatti, che però bastano a racchiudere la drammaticità di quegli occhi rivolti all’infinito, l’indicibile grandezza e terrore delle sue poesie, lo sdegno e l’aggressività della sua reazione. Il fotografo Uliano Lucas definisce le immagini: «dolenti e insieme intime, crude e al tempo stesso misteriose e sfuggenti, proprio perché in esse il poeta consegnato dai suoi versi all’eternità lascia il posto all’uomo, solo davanti alla morte». Con questo reportage vince il prestigioso premio Niépce, e Umberto Eco, membro della giuria, dichiara che le foto di Lisetta parlano del poeta con un’intensità e una verità mai espresse in nessun articolo scritto su di lui.

Nel 1977 Lisetta Carmi smette di fotografare perché, come dice lei, «c’è un tempo per ogni cosa». È stata fotografa per vent’anni e la sua

arte le è servita come strumento per attuare una rivoluzione personale che coinvolgesse gli esseri umani davanti a lei, a cui dedica un rispetto e una comprensione profonda che mantiene vivi e immutati nonostante le sue reincarnazioni. Oggi vive a Cisternino, nella Valle d’Itria, dove per volere del suo maestro spirituale Babaji ha fondato il primo Ashram occidentale. Dichiara Lisetta:

«Bisogna distaccarsi dal possesso come dal passato. Non rimpiango quello che ho fatto e se è stato fatto bene qualcuno ne avrà gioito». Oggi vive studiando e dipingendo la calligrafia cinese, aspettando serenamente di lasciare il corpo, ma come sia arrivata a questo è un’altra storia. Anzi, almeno altre tre.

'Questo articolo è apparso sulla rivista: RIOTVAN www.riotvan.net magazine on-line di attualità e cultura urbana, degli studenti fiorentini di giornalismo.

FranCESCa CaPPELLi 24 anni, i, pistoiese, vive a Roma dove studia fotografia. è alta un metro e settanta, pesa 75 chili. Scatta vinili e sviluppa piscine acquatiche.

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Genova. Città nella città”. Dopo la poesia, il senso di avventura e l’evocazione che questo mestiere suscita, rimangono nel bianco e nero la fatica, la pericolosità, le condizioni spaventose degli operai. Il lavoro diventa una mostra-denuncia del sindacato. Nel cimitero monumentale della sua città, Staglieno, luogo di passioni pietrificate, la fotografa supera l’estasi della perfezione scultorea e la dolcezza del dolore che il luogo suscita e vi scopre l’ipocrisia borghese fatta a monumento, i pregiudizi di classe, la subordinazione della donna, la repressione sessuale, la rispettabilità, l’affermazione di uno status sociale, la ricchezza. Questo è “Erotismo e Autoritarismo a Staglieno”, ma, anche questa volta, nessuno si prende la responsabilità di farne un libro. Uno schiaffo ai pudori e al perbenismo viene dato dalla sequenza di fotografie che documentano il parto di una ragazza ventenne. Il suo volto non si vede mai, solo il momento crudo e magico dello sconvolgente esplodere della vita. Del 1966 sono invece le


NEPAL UN ANNO DOPO

REPORTAGE

FOTOGRAFICO

TESTO E FOTO DI GIOVANNI MEREGHETTI

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LA MEMORIA FRAGILE

DuE SCoSSE Di tErrEMoto aLLE 6 E 11 Minuti DEL Mattino. un tErrEMoto vioLEnto, 25 aPriLE DEL 2015 E iL tEtto DEL MonDo CroLLò. ottoMiLa Morti. noi riCorDiaMo LE iMMagini DEgLi aLPiniSti travoLti DaLLE vaLangHE SuLL’EvErESt. DiMEntiCHiaMo iL PaESE, La Sua gEntE. un FotograFo itaLiano è tornato a KatHManDu. PEr SCoPrirE CHE, Da SEi MESi, non vi è Più bEnZina.

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patan, murales riportante le fotografie dei volontari che maggiormente si sono attivati alla ricostruzione della città e negli aiuti umanitari

Distretto di Nuwakot, un numero riportato sulla mano in attesa del proprio turno per il ritiro degli aiuti economici distribuiti dalle oNG pagine precedenti Kathmandu, coppia di anziani in un campo profughi

il Nepal non si è rialzato. E il mondo sembra non avere né memo-

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ria, né pietà. L’india, da cinque mesi, ha imposto un embargo non ufficiale sui carburanti. E’ una rappresaglia decisa dopo l’approvazione della nuova costituzione nepalese che, secondo Nuova Delhi, viola diritti delle minoranze di origine indiana. a Kathmandu non circolano auto private, per pochi litri di benzina si fanno code di tre giorni. Dall’india arrivava il 90% dei beni importati dal Nepal: oggi questo commercio è crollato al 5%. i nepalesi, costretti a cucinare e riscaldarsi con la legna, sono allo stremo.

è passato un anno da quel 25 aprile, quando la terra ha

cominciato a tremare provocando uno dei terremoti più devastanti della storia in tutta l'aerea himalayana. Sono morte circa ottomila persone, i senzatetto non si contano. Le più colpite sono state le zone rurali a sud-est di Lamjung, ma anche la capitale non è stata risparmiata. i principali monumenti storici di Kathmandu, patrimonio dell'umanità dell'Unesco, sono andati completamente distrutti e i pochi rimasti sono quasi tutti inagibili e pericolanti.



oggi camminare a Thamel, centro storico della capitale, fa un

certo effetto. il sisma ha lasciato voragini ancora aperte. Le macerie non sono state rimosse. i volti della gente appaiono disperati e rassegnati. Non c’è elettricità per almeno sedici ore al giorno. il turismo, una delle poche risorse del paese, è quasi scomparso. Gli aerei in partenza dall'aeroporto Tribhuvan di Kathmandu hanno solo qualche ora di autonomia. Devo fare scalo a Delhi per fare rifornimento.

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La capitale è assediata dalle tendopoli create dalle or-

ganizzazioni internazionali. E’ gente fuggita dalle campagne: hanno perso tutto, sono in ‘attesa’, forse vi rimarranno per sempre. E vivere da profughi ai margini della città è difficile. in inverno il freddo è immenso, d'estate invece arriva il monsone e gli accampamenti diventano un acquitrino. Gli aiuti umanitari arrivano col contagocce. Voglio darmi una speranza: la forza del popolo della montagna. i nepalesi possono contare solo su di loro per risorgere.


a sinistra Kathmandu, ragazzini al campo profughi di Chhuchmepati situato in una zona residenziale della capitale

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Simutar nel distretto di Nuwakot, tendopoli del campo profughi

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Kathmandu, La distruzione degli edifici storici a Durbar square



Kathmandu, donna in una tenda del campo profughi di Chhuchmepati situato in una zona residenziale della capitale in alto bhaktapur, anziana donna impegnata nella ricostruzione della propria abitazione

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bhaktapur, le fasi della ricostruzione a quasi un anno dal sisma


Kathmandu, giovane donna nel luogo dove sorgeva la propria casa nel cuore del quartiere di Thamel

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bhaktapur, la ricostruzione di una casa completamente distrutta dal terremoto 46

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a destra: Kathmandu, un edificio crollato ormai abitato solo da scimmie

giovanni MErEgHEtti 52 anni, fotogiornalista milanese. Free-lance dal 1980. Ama i reportage geografici e sociali. Ha viaggiato dalla Cambogia al Sahara. Ha documentato l’immigrazione a Milano negli anni ’80 e il lavoro minorile in Malawi. Autore di numerosi libri. Fra gli altri: ‘Nuba’ per Bertelli; ‘Da Capo Nord a Tombuctou…passando per il modo’ sempre per Bertelli e ‘Veli’ per Les Cultures.



STORIE

DI LIBRI

castel di sangro, Abruzzo ‘Nel bosco delle storie’

‘VOGLIO ESSERE FELICE’ Testodi alberto Spicciolato, foto di arduino Capanna

Giordana ha coraggio e vuole la felicità ‘tutti i giorni’: per questo, nove anni fa, ha deciso di aprire una libreria nelle montagne abruzzesi. ogni libro è un albero e racconta storie. i bambini sono i lettori prediletti: ‘a undici anni puoi leggere qualsiasi cosa…’. Poi cresci e diventi lettore occasionale, appassionato, in vacanza. il piccolo grande esempio della Neo Edizioni.

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erché aprire una libreria indipendente oggi? ‘Perché è un sogno che si realizza’, risponde Giordana con disarmante candore. ‘Quando ho finito l'università mi sono fatta una domanda: cosa vuoi fare? La risposta era, ed è: voglio essere felice. Io faccio la libraia perché voglio essere felice tutti i giorni di aprire il mio negozio e lavorare col sorriso’.

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Il Bosco Delle Storie apre nel 2006 a Castel di Sangro, piccola cittadina fra le montagne abruzzesi. La decisione di aprire una nuova libreria, con una concezione diversa, è frutto di idee comuni email: boscodellesto- tra Piergiorgio e Giordana. Un posto

Il bosco delle storIe Via Umberto I, 4 Castel di sangro tel. 3484310717 rie@hotmail.it

dove stare con il libro, dove si può giocare con il libro. Sfogliarlo, farlo proprio ancor prima di acquistarlo, cosa mai banale per un Lettore.

Il nome è stato scelto con cura, il legame col territorio è indissolubile e di boschi gli appennini sono pieni. Ma ha alla base la concezione di una libreria che sia proprio così, aperta a tutti ma intima allo stesso tempo, in cui ogni albero è una storia a sé stante, dove ogni libro può mettere le sue radici e far sbocciare la sua storia.

‘Quando hai undici anni puoi leggere qualsiasi cosa’. Questa è probabilmente una delle frasi più pregnanti della chiacchierata con Giordana. È quella la linea di confine tra un mondo di letture ‘per bambini’ e quello di letture più complesse, non per forza astruse, linea che si può varcare solo se c'è stata una crescita come piccolo lettore. Il bosco è anche un luogo di fermento, mai realmente sopito, seppure pacifico. Un luogo dove si forma sempre qualcosa di nuovo e non a caso Giordana e Piergiorgio hanno particolare attenzione verso quelli che saranno i lettori del futuro. La varietà di libri per bambini e ragazzi, presente in quella che rimane comunque una piccola libreria, è impressionante. In un angolo dedicato, frequentemente vengono organizzate letture di gruppo e collaborazioni con le varie scuole per stimolare l'amore per la lettura, per la carta stampata, per la cultura in una società più multimediale.

Poi si cresce. E il lettore diventa adolescente, ragazzo, adulto. Diventa lettore occasionale, lettore appassionato, lettore


in vacanza. I nostri librai devono fronteggiare una varietà di clienti che difficilmente potrebbe essere accontentata senza la giusta passione, il giusto amore per il proprio sogno di bambino divenuto realtà. Questo si traduce in un'attività curata, attenta alle proposte, personale e sempre cordiale. È fondamentale creare una sintonia con il cliente, anzi, con il lettore, per consigliare non semplicemente un libro ma tutto il mondo emozionale che può zampillare dalle pagine giuste. Non è forse vero, almeno in parte, che i libri che amiamo non sono che specchi di noi stessi? Le parole lette, riverberi di ciò che già sentiamo?

arrivare all'attenzione dei giudici del Premio Strega “XXI Secolo”, romanzo di Paolo Zardi da loro edito, finalista nell'edizione 2015. Ma questa è un'altra storia. Indovinate, però, qual è il bosco in cui sono cresciuti?

aLbErto SPiCCioLato, 27 anni eterno studente. Abruzzese, di Castel di Sangro. Studia lingue straniere, legge più di quanto dovrebbe e meno di quanto vorrebbe. arDuino "DuCCio" CaPanna, 52 anni, abruzzese di Castel di Sangro, ama leggere e ogni tanto scribacchia pure qualcosa. A ottobre fa il vino e gli piace cucinare per gli amici che, ovviamente, apprezzano la cosa. L'altra sua passione è la fotografia, alla quale ha dedicato un sito.

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Come giustamente osserva Giordana, una libreria indipendente non deve essere uguale alle grandi catene. Le esigenze sono diverse, le persone entrano con spiriti differenti, a volte molto differenti, nelle grandi e nelle piccole librerie. Un po' come andare all'ipermercato o andare in enoteca. La selezione dei libri non ignora, ovviamente, le uscite più in voga del momento, ma la vetrina non si basa su queste. Chi lavora nel Bosco Delle Storie conosce perfettamente tutti i titoli che propone, riesce a individuare le trame solo vedendo le coste dei libri. Da una parte, il lavoro consiste anche in un continuo corso di aggiornamento, nel non essere mai sazio di letture nuove, con l'attenzione rivolta anche alle pubblicazioni di case editrici minori. Esempio lampante è il caso della Neo Edizioni, editori locali che sono riusciti, nonostante un numero relativamente esiguo di pubblicazioni, a far


Silvia La Ferrara

STORIE DI SCUOLA

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Quando le cose non vanno come vorremmo che possiamo fare? a volte funziona tirare su la testa e guardare attorno, fuori e lontano da sé, chiedersi com’era prima e provare a immaginare il dopo, e questo è quello che pensavo quando ho proposto un piccolo dossier sulla scuola. niente di programmatico né di critico, solo un viaggio, un’erranza nella scuola che c’era, che c’è e che forse ci sarà. Scriveva nietzsche che racconta meno bene chi non pensa tanto alla cosa quanto a se stesso. Forse per questo è stato difficile trovare buone storie: chi ci sta dentro non riesce a raccontare la scuola e anche chi ormai è uscito da un po’ non trova le parole perché la scuola è un po’ di noi, persino se sono decine di anni che non ci mettiamo piede. Così questo piccolo dossier si apre con gli occhi al cielo di quelli che a scuola non ci vanno, e zaini, alfabeti, compiti e riflessioni, si mescolano al pallottoliere di capre dei bimbi turkana, alle baracche-aula del Wyoming dell’ottocento, alla rivoluzione visionaria di un Milani che si chiama adriano e non Lorenzo. un po’ senza filo, senza discorso, un viaggio svagato che può riportarci alla sorprendente origine della parola, a quella skholé che per i greci antichi era uno spazio aperto di ozio, tempo libero, discussione in amata compagnia.


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ITALIA

PALERMO, QUARTIERE SPERONE

QUELLI CHE NON CI VANNO

DiSPErSi Tra iL DENTro E iL FUori, SDraiaTi a GUarDarE iL CiELo

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o Sperone era un borgo marinaro che all’inizio del Novecento è diventato zona di villeggiatura e poi, a partire dagli anni Sessanta, si è separato dalla città a causa dell’intensa attività di edilizia popolare. Una storia simile a quella dello Zen o del CEP o di Borgo Nuovo. il mare c’è ma non si vede, nascosto dai palazzoni, lo spaccio è la principale attività economica. Si sa che qua i bambini non vanno a scuola, soprattutto i maschi, e lo scorso anno andava forte su Facebook un video che li presentava alle prese con sangue e pistole. Sui giornali però fa notizia l'istituto comprensivo SperonePertini che dal più alto tasso di dispersione della città, 27,08%, è passato al 3,57% in due soli anni. La preside parla di alleanza forte con il quartiere e dice che sono piaciute le attività pomeridiane come gli scacchi, la musica e lo sport.


Foto di Francesco Faraci Testo di Silvia La Ferrara


Però a vedere le foto di Francesco Faraci a me è venuta voglia di andarmi a sdraiare con i ragazzini su quel cerchio di cemento con dietro i palazzoni. è un posto che sembra ci stia per atterrare un’astronave e io vorrei starci con loro a guardare in su. andare fuori con loro, invece di fare di tutto per tenerli dentro. E non è un’utopia buonista romantica, Cesare moreno e i maestri di strada di Napoli lo fanno da anni e con lietezza vanno in giro con i ‘dispersi’ a cercare qualcosa di meglio di quello che c’è. è vero, non possiamo perderli, perché sanno qualcosa del mondo che noi nemmeno ce lo immaginiamo.

Silvia La Ferrara, 48 anni, irpina, romagnola e da più di vent’anni emiliana. insegna, viaggia e quando può canta il gregoriano.


Francesco Faraci, 30 anni, scrittore e fotografo siciliano, vive e lavora a Palermo, realtĂ che quotidianamente ritrae fuori dagli itinerari turistici per evidenziarne contrasti e contraddizioni. Studioso di etnografia e antropologia documenta riti e tradizioni della sua terra e del mediterraneo con un occhio particolare alle minoranze.

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NORD DEL KENYA

LA TERRA DEI TURKANA

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ammino in un deserto piatto e polveroso. Cespugli spinosi e sassi. a volte, spesso in realtà, appare, quasi all’orizzonte, una scuoletta di cemento, costruita con qualche finanziamento internazionale, con le grate alle finestre e la sabbia che vola nelle stanze rendendo opaco il colore dei raggi del sole. mentre mi avvicino, mi chiedo: cos’è la scuola? Cos’è la scuola per una comunità di pastori turkana del Nord del Kenya? ammesso che siano ancora pastori. in questa scuola di cemento e sabbia insegnano matematica. ma cos’è la matematica, se non ci sono numeri? Se i numeri per un pastore turkana non hanno né valore, né interesse. La relazione con le capre, per esempio, non è una relazione quantitativa. Le capre si conoscono. è l’effetto cane pastore: non sai quante capre hai, ma ti accorgi subito se ne manca una. Esiste un cromatismo delle capre. Si conoscono le capre per

colore, per le tracce delle orme sulla terra secca, ma non per numero. anche la povertà non è una dimensione quantitativa. La povertà, dice alberto Salza, antropologo torinese, è una povertà relazionale. Non si è poveri economicamente, ma si è poveri se mancano le relazioni. allora a cosa serve saper contare? Contare cosa? Ci sono dei numeri importanti. Sono quelli dei giorni che separano le piogge dalla siccità. Sono quelli del numero di mucche da donare per i matrimoni. Sono il numero delle mogli, o il numero di perline intorno al collo. E ci sono numeri che sono diventanti importanti. Come gli anni di una persona o quelli che ti permettono di sapere i giorni della settimana e dei mesi. a scuola insegnano religione. ma cos’è la religione se la fede è una negoziazione con i bianchi come riconoscimento della


Testo e foto di Greta Semplici

i numeri non hanno importanza per questa popolazione della savana. Forse sono ancora pastori. Forse no, ma non sanno quanto sono grandi i loro greggi. ma si accorgono subito se una capra è sparita. Non conoscono la loro età, ma ora è diventato ‘importante’ perché il governo vuole sapere quanti anni hai? Quale è la scuola giusta sulle sponde del lago Turkana? Vi sono due scuole…

NON SO QUANTE CAPRE HO, MA MI ACCORGO SE NE MANCA UNA


IN TuKRKANA IL SISTEMA EDuCATIVO fa parte di un processo di decentra-

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lizzazione avviato nel 2010 dalla nuova Costituzione kenyota. Nel 2013, 47 nuove Contee hanno sostituito le vecchie otto province coloniali. il Turkana è la più vasta, la meno densamente popolata. Nairobi è ottocento chilometri più a Sud, questa provincia è sempre stata considerata marginale. i Turkana sono un popolo prevalentemente di pastori nomadi, allevatori di mucche e capre, senza confini e senza sosta. inseguivano le piogge. inseguivano le praterie. il loro unico amore sono sempre state le mucche. Poi è arrivata la siccità. Forse gli anni ’70 sono stati davvero i più drammatici, o, forse, ce ne accorgemmo noi, i bianchi. Così sono nati i ‘maskini camps’. i campi di coloro che avevano perso tutto: poveri (parola di etimologia importata dal mondo arabo che si ritrova in diverse regione dell’africa Sub-Sahariana, sostiene alberto Salza). Così i nomadi hanno cominciato a fermarsi, a diventare stanziali, in un processo che appare irreversibile. Sono arrivati i missionari. Sono arrivati gli aiuti. hanno subito costruito pozzi e scuole. Nel 1964, alcuni missionari hanno costruito la prima scuola. oggi vi sono: 364 scuole pubbliche primarie, venti private. Trenatesei scuole secondarie pubbliche e tre private. 74 scuole ‘mobili’. Dai villaggi ci si muove sempre meno. il nucleo familiare si decompone con le piogge, quando gli animali devono essere divisi e portati a pascolare, ma poi si torna sempre a casa. Le case si avvicinano, si formano villaggi che diventano ‘case di riposo’ per anziani che non migrano più e ‘training ground’ per i bambini che vanno all’altra scuola, quella della vita. Vecchi e bambini attirano l’attenzione, sono loro a catalizzare gli aiuti. il motore è stato accesso. E non si fermerà.

divinità tradizionale? La religione diventa un baratto di credenze: monoteismo verso poligamia. ogni domenica si va a messa. La gente di questa comunità è cattolica e quasi tutti gli uomini hanno più mogli. a scuola insegnano inglese. ma le capre, gli alberi, i fiumi non parlano inglese. Cos’è la scuola per i pastori? Si creano due scuole. C’è la scuola che i bianchi capiscono. Della quale sono soddisfatti. Quella dalle classi troppe piccole per il numero degli studenti. Quella degli insegnanti frustrati perché costretti a vivere persi nel deserto. Quella del cibo offerto dal World Food Program. Questa scuola è importante: serve a diversificare le opportunità. Serve per coloro che, con le capre, non ci sanno fare. Serve se le capre muoiono durante una delle ripetute siccità. Si tratta pur sempre di strategie di sopravvivenza. Quindi, a scuola si prova ad andare. ho cercato di capire cos’è ‘resilienza’ per un pastore turkana. ho cercato di capirlo anche mentre ero seduta per terra in un’aula senza banchi e ascoltavo una donna: ‘I nostri bambini vanno a scuola affamati, senza soldi, molti senza un posto dove stare. Allora dormono nelle classi’. La scuola è diventata un modo per imparare ciò che importa ai bianchi. La scuola è entrata nel portafoglio delle scelte di una famiglia di pastori. Una mamma mi ha parlato di come vengono scelti fra i diversi figli quali mandare a una scuola o all’altra.


L’altra scuola è quella delle taniche gialle per prendere l’acqua ai fiumi.

GRETA SEMpLICI, 27 anni, fiorentina. Una laurea in Development economics all’Università di Firenze. Un anno di lavoro alla Fao a Nairobi. Da sette mesi vive a Lodwar, nel Nord del Kenya, per una tesi di dottorato sul popolo Turkana.

L’altra scuola è quella della geometria della fatica, dei corpi piegati a novanta gradi per smuovere merda di capra, per cucinare la polentina chiamata ugali, per pulire i fagioli, per andare al pozzo almeno una volta al giorno. L’altra scuola è quella lineiforme delle spine dorsali delle donne che portano legna, acqua e ceste sulla testa. L’altra scuola è quella fatta di capre e dromedari e ore ed ore di silenzio all’ombra di acacie ombrellifere. L’altra scuola è quella che insegna a leggere le nuvole, il rilievo e il colore della sabbia, la forza del vento,

le tracce di animali e uomini sulla terra. L’altra scuola ti aiuta a conoscere l’importanza dei vicini e della famiglia, anche quella lontana, ma che può sempre arrivare un giorno con un fagotto vuoto per chiedere aiuto. L’altra scuola è fatta di alberi e rispetto per gli anziani le cui rughe testimoniano il passare del tempo e

sono templi di conoscenza in questa savana. Questa seconda scuola è quella che un antropologo di cui non 59 mi sono mai scritta il nome, ma di cui ho riportato le parole più belle sulla porta di camera mia a Firenze, riassume così ‘the knowledge is in the making’.

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Perché vi è un’altra scuola. Nessuno dei genitori con cui ho parlato si è seduto in un banco, ma tutti ora mandano uno o due figli a scuola. è una donna con sette figli che mi aiuta a capire. mi spiega l’altra scuola.


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CAMERETTE Foto di annarita Lamacchia


annarita ha18 anni. Vive a matera. Della fotografia dice: “mi ha aperto un mondo”. in realtà lei ci ha raccontato il luogo più intimo dei ragazzi


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uesta volta abbiamo commesso un errore. abbiamo chiesto ad adulti di raccontarci dei ragazzi di queste foto. Ci abbiamo provato anche noi. E non ci siamo riusciti. Da alcuni mesi, nei computer della redazione di Erodoto, ci sono queste foto. abbiamo avuto il tempo di avere familiarità. ma non siamo stati capaci di scriverci attorno. Ci difendiamo così: queste foto raccontano più delle parole. raffigurato un universo costruito dai ragazzi. Ci sono i pelouche, i colori, i letti a volte disfatti, a volte ben ordinati. C’è chi si nasconde dietro un manuale per prendere la patente. Chi invece appare indifferente all’obiettivo di annarita. Chi sa bene della sua presenza e finge un atteggiamento naturale e in realtà cerca una posa. Chi invece non si fa distrarre dalla Canon di annarita. ma queste foto hanno in comune qualcosa di molto 62 importante: sono sincere. ‘Sono il mio punto di vista sul luogo più intimo della vita dei miei amici. Quello nel quale passano più tempo’, dice annarita. Le abbiamo viste una prima volta, lo scorso anno, in una piccola mostra. Era il giorno finale del corso ‘handle with care – indagine sulla società segreta dei ragazzi’, un progetto curato da Nadia Casamassima, an-


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drea Santantonio e il fotografo raffaele Petralla, organizzato dallo iac, dal centro arti integrate, con il sostegno dell’ufficio del servizio sociale per i minorenni della città lucana e la collaborazione dell’istituto professionale ‘isabella morra’. i corsi hanno coinvolto in due anni, quaranta ragazzi fra i 12 e i 18 anni. Dicono andrea e Nadia: ‘abbiamo cercato di far emergere i desideri dei ragazzi, volevamo attraversare assieme a loro il vuoto’. raffaele ha chiesto a questi ragazzi di raccontare le loro storie. E annarita ha esplorato un mondo che conosce molto bene. Non occorre andare lontano per narrare una storia. Basta cercare guardare, magari con altri occhi. in quelle camerette i ragazzi entrano ogni giorno, è un rifugio, a volte un luogo segreto. annarita le conosce bene, le vede da sempre. E in questo mondo ha voluto portare chi si ferma davanti alle sue foto. ha vo63 luto condividere una intimità. Ci ha colpito il dono che ci ha fatto: ha aperto molte porte che, in realtà, nonostante i cartelli di divieto di accesso non sono chiuse, ma i nostri occhi non sono in grado di vedere i sogni, i desideri, il malstare e il benstare dei ragazzi. E allora lasciamo queste foto senza parole. Noi non siamo riusciti a trovarle e abbiamo sbagliato grandemente a non chiederle a loro.




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ANNARITA LAMACCHIA,18 anni, studentessa, è attratta fortemente da culture e realtà diverse. Ama l'avventura e la fotografia che le ha aperto un mondo.


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Testo di Chiara Gubbio Foto di michele Crivaro e Claudia Fabris

Guarda, sono venuta stamattina solo perché mi hai scritto quella cosa

SOTTOBANCO Probabilmente non si può non comunicare, qualcosa passa comunque, il vento non si vede Di stare a letto alla fine mi ero rotta Chia, facciamo il video dell'ammiccamento col ditino morto e poi lo mettiamo su dopo da casa tua che c’è internet buono? Guarda, sono venuta stamattina solo perché mi hai scritto quella cosa ‘hai mezzo puzzle dentro, qualcuno ha il tuo’. Probabilmente non si può non comunicare, qualcosa passa comunque, il vento non si vede. La prof di fisica lei dice che a forza di dai e dai secondo lei poi qualcosa ci resta. il corpo scade, ma l'anima…, l’anima niente, muore pulsante

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ahahaah bellissima sta cosa ahahahahahah non so perché ma ogni volta che leggo un tuo mess mi viene da dire della roba intelligente. Che lo dica ancora mordini che sono un’ignorante cretina… Dai Chia, fregatene. ormai la gente vive tra stereotipi e le proprie convinzioni, ognuno si fa i suoi. Sono messi male a regola ma quindi domani entriamo o usciamo prima?

oh, la Sara mi ha mandata una foto di lui. Dio quanto mi manca. Neppure Eli è così bello, e poi passa il tempo a fare videogame e non mi caga. ma LE LaCrimE FiNiSCoNo Prima o Poi? Domani la vedo critica, storia ce l'ho sotto nel primo quadrimestre, dio. E poi mi ha puntato, è chiaro. a me fotte sega però non è giusto discriminare così, si instaura un circolo vizioso Dice Edo che si è fatto un tatuaggio maori. ma che maori, è un tribale, come ce l’hanno tutti. ‘Non scordarti mai che tutte le parole si trovano nel tuo intorno’ mi ha scritto. ma che voleva dire? Tipo che prima o poi mi verrà voglia di qualcosa, di fare qualcosa di preciso, tipo una passione, una fissa? Boh, magari Comunque mi irritano le persone che non sanno farsi i cazzi loro e vivono per conoscere la vita degli altri, invece di preoccuparsi dello schifo che c'è nella loro. Tanto a me, te e la Sara nessuno ci separa, siamo tre persone in una. Figurati se ci riesce uno che dice che si è tatuato un maori e invece si è fatto solo un tribale, che lo dice perché io ho il dilatatore e l’equazione della bel-


lezza di Dirac e allora lui voleva fare quello che anche lui di tatuaggi ci capisce. No beh, ciao. Che poi ieri all’intervallo si è mangiato tre pacchetti di Fonzies di fila, è un maiale, e poi viene lì e fa ‘No, perché io Fast 8 io pagherei miliardi per vederlo’. Fa te, che a me piacciono dei film tipo Codice genesi

Gianlu si mette a fare il poeta con le cuffie a guardare fuori, ma secondo teeeeeeeeeeee???? andiamo nel corridoio delle terze c’è il ciccione che parla solo con dei versi di animale

ahahahahahahahahahahahah sto moma poi si vede che è uno che se c’hai rendo giuro ahahahahahahahahahahabisogno poi non ti sostiene hah ahah

Bella parola, ‘sostenere’. Tipo che si Si crede di essere al Chiringuito, è sostiene un amico che realizza uno dei troppo carico suoi traguardi. Che le parole sono importanti, ricordiamolo. No però dai, a me mi fa ridere mica poco Eh cazzo, sono importanti sì, quelle che ti ha detto lui te le ricordi ancora tutte e oh, vado in bagno a fumare, poi chi stai sempre lì a pensarci cazzo se ne frega se mi becca, tanto mia madre al telefono della scuola neNo beh, ma mi scasso troppo, hai ra- anche risponde. PErÒ Chia io Ti gione, devo dimenticarle. Stressssss!!!!! amo, Lo GiUro, SEi La mia romPi CaZZo, NoNoSTaNTE TUTTo LoNBasta che non decidi di dimenticarle TaNa Da TE NoN riUSCirEi a col Tavernello, vecchia, lo dico per il STarCi tuo bene oh ma io nell’intervallo non ci resto in classe che giocano a carte oppure quelle là indiane si fanno le trecce o

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CHIARA GUBBIO, 18 anni, va a scuola perché ora come ora non saprebbe che altro fare. Le piace guardare quello che fanno gli altri, parlare con i bidelli, darsi lo smalto. MICHELE CRIVARO, 18 anni, talvolta ama dedicarsi alla fotografia. Fanatico per i dettagli li rende significativi all'interno dei suoi ritratti fotografici. CLAUDIA FABRIS ha 43 anni ma ultimamente gli anni li dimentica spesso. Progetta spazi, installazioni ed eventi performativi che creano relazioni e sinergie tra la fotografia, gli abiti, la parola e il cibo in un percorso di ricerca artistica che trova nel corpo il proprio fulcro, coinvolgendo gli spettatori su differenti piani percettivi per sciogliere la linea di confine tra chi fa arte e chi la guarda.


india

uttar Pradesh, la scuola degli ultimi

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LA DIVISA DI JUTA Testo e foto di Lorenzo rosato

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el pentolone ribollono patate e un grezzo impasto di soia. i bambini corrono nel cortile alzando polvere e sabbia, facendo tintinnare bicchieri e scodelle di latta creando piccoli giochi di luce sotto il sole. in un’aula vuota, senza banchi, numeri da uno a dieci disegnati sul muro, siedo su una sedia di plastica. Davanti a me, la loro insegnante, una donna giovane e fiera di nome anja, si aspetta una domanda per cui ha già pronta la risposta. Nelle mie mani cerco con difficoltà di riordinare i fogli che quei giovani studenti, dai sei ai dodici anni, mi avevano consegnato poco prima. Guardiamo i ragazzini se-


Gli intoccabili sono sporchi e trasandati, i loro zainetti scuciti e vuoti. Sono soli. il destino è prendere una bicicletta e andare in cerca di lavoro in città. Nessuna fiducia negli insegnanti (con qualche torto e molte ragioni). ‘La sola cosa che possiamo fare è dare da mangiare ai bambini. Quando non c’è niente a casa, vengono qui’.

dersi a terra uno dopo l’altro mentre aspettano pazientemente la loro razione di cibo giornaliera. Non distogliendo da loro lo sguardo, ancora assorta nei suoi pensieri, anja risponde al mio interrogativo con una punta di rassegnazione: ‘Se questi bambini non hanno un futuro è solo colpa dei genitori’. Gli studenti della scuola primaria pubblica del piccolo villaggio di Singhpur, stato indiano dell’Uttar Pradesh, sono gli ultimi. La divisa di juta sembra essere il loro unico vestito. La mattina li vedi sbucare, a piccoli passi decisi, dalle piantagioni di riso, dopo aver percorso uno dei tanti piccoli sentieri che tagliano i campi. Gli ultimi vivono fuori dal villaggio, sono gli intoccabili,

sono sporchi, trasandati e soli. all’alba i loro padri salgono in bicicletta per andare verso l’orizzonte, verso la città, mentre le madri indossano un copricapo per proteggersi durante il lavoro nei campi, sono già chinate e hanno le mani nella terra prima ancora che il sole sorga. alcuni di loro hanno uno zaino scucito, senza penne, né matite. Qualche libro, forse un quaderno. i piccoli ultimi sono in tanti, ma in quella scuola non se ne vedono poi molti. Lo sguardo rassegnato dell’insegnante mi fa ritornare in mente la frase di un signore incrociato sulla riva del Gange, una volta, a Varanasi: aveva detto, mentre guardava il suo fiume sacro, che l’unica cosa che andava insegnata a scuola era il non aspet-


LA COSTITuzIONE INDIANA prevede come obiettivo l’educazione primaria universale (dai 6 ai 14 anni). il 95% dei bambini in età scolastica è iscritto in una scuola. La scuola primaria pubblica è gratuita. Dal 2001 il governo indiano ha investito oltre un miliardo di dollari nel settore dell’educazione pubblica. il midday meal Scheme (2001) prevede che nelle scuole primarie pubbliche sia servito un pasto a ogni studente. Secondo i dati del ministero delle risorse umane, il 40% dei bambini abbandona la scuola dopo i 13 anni. Nell’india rurale un bambino su cinque non frequenta la scuola primaria (aSEr). Nel 2003 una ricerca condotta da Desai ha scoperto che durante visite casuali presso scuole pubbliche indiane il 25% degli insegnanti non era presente, mentre il 50% dei presenti non era impegnato in attività di insegnamento.

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LORENzO ROSATO, 26 anni, abruzzese di Castel di Sangro. in india ha svolto la sua tesi di ricerca sulla qualità dell’educazione in relazione a dinamiche familiari.

tarsi nulla dalla vita. Gli ultimi resteranno gli ultimi, per loro non c’è spazio, non ci sono aspettative. L’uomo mi aveva parlato dei suoi figli. Stranamente non riponeva tutta la sua fiducia in Shiva. Diceva di averne tanti. Sapeva cosa voleva dire andare a scuola, o perlomeno cosa avrebbe dovuto significare. Non aveva studiato, ma i suoi figli a scuola ci andavano, ogni tanto. Se avesse potuto avrebbe investito qualcosa per loro, per iscriverli magari presso una delle tante scuole private, ma non poteva, non ci riusciva. a scuola almeno gli danno da mangiare, diceva. Degli insegnanti non si fidava: mangioni, pigri e incapaci. Non aveva nessuna fiducia nei loro confronti perché non aveva mai visto un bambino che uscito da

scuola avesse preso una strada diversa da quella di tutti gli altri: senza basi e senza mezzi, anche loro saliranno su una bicicletta che li porterà verso l’orizzonte, accompagnati dall’ombra lunga del mattino. anja non sorride quando mi parla dei suoi colleghi. Dice che una volta c’era più impegno, che si andava porta per porta a chiedere di poter portare i bambini a scuola. Le porte si chiudevano non appena ci si presentava. La reputazione degli insegnanti della scuola pubblica è pessima. Cercare di convincere i genitori era come dare testate a un muro, e col tempo ci si è abbandonati a un disinteressato lassismo. Lo ammette lei stessa quando le mostro i fogli che avevo riordinato: studenti di quinta non riescono a completare esercizi di prima, semplici somme o sottrazioni. Un bambino si avvicina verso la pompa della scuola e comincia a lavorare per far uscire l’acqua, mentre chi ha finito il pasto si avvicina per sciacquare le scodelle. Una ragazza ne poggia una appena pulita sulle scale, poco lontano da me. anja indica la latta vuota e umida: ‘è questa l’unica cosa che possiamo fare. Quando non hanno da mangiare vengono qui’.


friuli, la scuola italo-slovena di san Pietro al natisone

ALFABETO BILINGUE La faccenda dell'identità è tutta una questione di lingua. Ci pensa lei a definirti Testo e foto di antonella Bukovaz

cambiano per uscire a ricreazione, si ricambiano per rientrare in classe. Si cambiano per uscire a pranzo. Si ricambiano per rientrare a lezione e si rimettono le scarpe prima di andare a casa alle quattro. Faticaccia! ma diventano bravissimi ad allacciarsi le scarpe. Č come Čaj. a ricreazione ci si spina il te da un grande thermos arancione sotto l'occhio vigile di Giacomo. La merenda viene fornita dalla scuola, a tutti uguale. Yogurt o frutta o pane alle noci o... polistirolo, lo spacciano per gallette di riso. D come Duale. oltre al singolare e al plurale, la lingua slovena ha una declinazione particolare per riferirsi a tutto ciò che è due, doppio, coppia. Due gatti, due amici, due donne, due scarpe, due fatti, due alberi, due gelati... Vale anche per gli aggettivi e anche per i verbi. in questa lingua è fantastico essere innamorati: c'è un luogo grammaticale, ma non solo, tutto speciale per ciò che è due, finché lo è.

A come Antonella. io mi chiamo antonella, a scuola siamo tre antonelle. Così i bambini mi chiamano la Bukovaz. Quando cominciai, più di trent'anni fa, durante le ore di formazione nelle scuole di un paesino vicino a Nova Gorica, i bambini mi chiamavano tovarišica učiteljica. Ero compagna maestra. b come banana. Kevin a scuola non vuole mangiare niente. mangia solo, ma non sempre, banane. Un giorno ne ha mangiate sei. C come Copate, pantofole. La C in sloveno, si legge come il suono zz di tazza. La mattina i bambini si mettono le copate prima di andare in classe. Si

E come Educazione. impossibile non pensarla almeno bilingue in un luogo che è confine e incontro di culture. La flessibilità cognitiva sviluppata dai bambini passando continuamente da una 73 lingua all'altra fa pensare che possa succedere qualcosa di sorprendente da un momento all'altro con il rischio di diventare flessibili in molti altri campi dell'agire e del sapere umano.

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italia

F come Fajna banda. è il coro delle voci adulte della scuola: insegnanti, genitori, ex alunni, personale non docente. Ci troviamo una volta alla settimana. Cantare fa bene. Non è un impegno, non si deve discutere, si respira.


G come Giacomo e come gigante, bidello e angelo custode... presenza miracolosa! H come H. in sloveno la h non è muta e ha il suono leggero del respiro spinto lontano, come quando si vuole imitare il vento o un gatto incazzato. I come Ivan Trinko. Poeta, musicista, traduttore, teologo, scrittore, monsignor ivan Trinko (1863-1954) è il padre spirituale degli sloveni della Benečija o Slavia Veneta. Lottò tutta la vita per mantenere l'uso della lingua materna, cioè quella slovena, nelle chiese e nella comunità delle Valli del Natisone. La situazione linguistica attuale gli deve molto. J come Jezik, lingua. La lingua slovena si parla in Slovenija e nelle comunità di minoranza degli stati limitrofi. Circa due milioni di persone. in italia la comunità slovena è riconosciuta e tutelata dalla legge 38 del 2001 per la quale si è a lungo combattuto. La faccenda dell'identità è tutta una questione di lingua. Ci pensa lei a definirti.

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K come Kako se počutiš? ogni mattina il capoclasse registra su un cartellone come si sente ognuno dei suoi compagni e delle sue compagne. 1: molto male, 2: male, 3: così così, 4: bene, 5: molto bene. Se vogliono posso anche dire perché, ma non è obbligatorio. Con i dati raccolti quotidianamente possiamo poi creare dei grafici del nostro andamento emotivo e sentimentale, calcolare moda, media e mediana. L come Lipa. Significa Tiglio, è l'albero simbolo del mondo slavo. al centro del paese, intorno al fusto, al riparo della sua chioma, la comunità si riuniva per decidere sul bene comune. ha foglie a forma di cuore e le sue infiorescenze profumate vengono usate per preparare ottimi infusi curativi.

ANTONELLA buKOVAz, 53 anni, di Topolò-Topolove, borgo sul confine italo-sloveno, nelle valli del Natisone dove ogni estate si tiene un festival che tocca vari campi dell’arte e della comunicazione. Dal 2005 si dedica alla poesia e alle interazioni tra parola, suono e immagine in forma di lettura, videopoesia e video-audio-installazione. ha vinto il Premio antonio Delfini 2009 e pubblicato su riviste web e cartacee (il Verri, alfabeta, Pensiero), presso Le Lettere, Ellerani editore e nell’antologia Einaudi Nuovi poeti italiani 6. insegna, in lingua slovena, nella scuola bilingue M come Mali Lujeri. è il coro dei bambini della scuola. il maestro è Davide. di San Pietro al Natisone.

Le prove sono il lunedì. Si canta in piedi

ma ci si può anche sedere, fare due passi durante il ritornello, raccontarsi qualcosa tra una canzone e l'altra, smangiucchiare una cioccolata, guardare fuori dalla finestra. N come Natisone/Nediža. Nasce in italia, per un tratto fa un po' l'indeciso tra italia e Slovenija, poi scende lungo la Valle a cui da il nome. è un fiume verdissimo dove io ho imparato a nuotare. O come Odmor. Che significa ricreazione. Le dedico due lettere perché è la componente più importante della vita scolastica. a meno che non piova, con qualsiasi altro tempo e temperatura si va fuori e si sta fuori nel prato. Nel prato non ci sono giochi strutturati se escludiamo due canestri ai lati di un vecchio campo di pallacanestro in cemento. Però c'è l'erba e il fango, ci sono i sassi, le foglie, i rametti caduti dai platani... p come pranzo. alle 12.00 pranza la scuola dell'infanzia, alle 12.30 pranza la primaria, alle 13.00 pranza la media. Siamo tanti, 275, e la mensa è piccola. La regola è che si assaggia tutto, ma ci sono un sacco di trucchi: dal tentativo di impietosire gli insegnanti con sguardo lacrimoso al nascondere i bocconi nel tovagliolo di carta. Tutto inutile! Si assaggia, e basta! ognuno prende il proprio cibo e sparecchia il proprio posto. il capoclasse ripulisce i tavoli. Q come Quaderno. in sloveno è zvezek. il suono della Z è sottile come la s di casa. i quaderni dei bambini sono favole, sono origami, mandala colorati o in bianco e nero sui quali meditare riguardo la loro reale necessità. Sono un canto, un ruggito, il volo di un ippopotamo, sono pensieri pieni di pieghe e di buchi. R come Ricreazione. Se piove è un disastro perché bisogna stare nelle aule e nel corridoio, che nonostante si chiami corridoio, è un luogo dove è vietato correre. infatti in sloveno si dice


hodnik da hoditi = camminare, molto più coerente, no? C'è anche un'aula relax, con divani e poltrone. Lì la regola principale è fare giochi tranquilli, tipo guardare la collezione di insetti, ragni, scorpioni sotto plexiglas. S come Scacchi. Gli scacchi si studiano il giovedì con matjaž dalle 16 alle 17. Da anni arriviamo primi ai campionati provinciali (Udine). Tra i 20 iscritti molte sono le ragazze, una vera rarità in questo campo. Š come Šola, scuola. Dvojezična Šola/Scuola Bilingue. (la š si legge sc). Nasce dalle mani e dai pensieri di Pavel Petricig nel 1986. Scuola unica nel suo genere prevede che i bambini apprendano le due lingue in modo paritario. metà giornata le lezioni si svolgono in una lingua e metà giornata nell'altra.

significa tempo per riposare e fa da contrappeso semantico a tempo per lavorare. L'etimo latino da cui origina vacanza si riferisce invece all'essere senza occupazione, libero, vacuo, mancante. Come se in vacanza potesse mancar qualcosa!! z come zaino. Una volta nello zaino di ilenia, prima elementare, ci ho trovato un gelato. Ž come Žerjav, gru. i bambini di quinta si stanno cimentando nell'arte dell'origami. Fare 1000 gru, uccello simbolo di lunga vita, è la loro sfida attuale. Durante il lavoro di piegatura i ragazzi chiacchierano e si aiutano spontaneamente. Li accompagna la storia di Sadako Sasaki grazie alla quale la gru è diventata simbolo di pace in tutto il mondo.

T come Tutti insieme appassionatamente. La scuola ha una storia costellata di ostacoli di ordine normativo, politico, economico, culturale. abbiamo superato prove di ogni genere e ciò ha creato una comunità scolastica forte e molto, molto motivata!

V come Vacanze. Le vacanze non sono parte specifica della Scuola Bilingue, quindi dovrei trovare un'altra parola, ma le vacanze sono parte essenziale dello stato di salute di tutti, e la salute è trasversale alle culture, alle lingue, alle geografie! Vacanza in sloveno si dice počitnice ed ha solo il plurale,

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u come una lingua-una persona. è il modello di insegnamento bilingue adottato dalla scuola. ogni classe ha 4 insegnanti, due per la lingua slovena, due per la lingua italiana. i bambini usano una lingua o l'altra a seconda dell'insegnante a cui si rivolgono. Le forme più riuscite sono il risultato di un gioco linguistico spontaneo molto frequentato dai bambini che prevede l'italianizzazione di parole slovene o la slovenizzazione di parole italiane. il plurilinguismo è prima di tutto un gioco. Uno spasso verbale.


usa

un viaggio nel Wyoming dell’ottocento

PER UN PUGNO DI LIBRI

Testo di Luana Salvarani FoTo National archives and records administration, USa

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Laramie, Wyoming (lo Stato meno popolato di tutti gli USa e il meno denso dopo l’alaska), la sterminata pianura solcata da una striscia di asfalto drittissima, sotto il cielo blu, è in realtà un altopiano: siamo a 2200 mt. di altitudine, e c’è più che fresco, anche se i locali stanno in canottiera perché è estate. ‘Can i visit a Sunday School?’ chiedo a uno storico locale. ‘of course! Which one?’ Ce ne sono diverse, tutte in attività: dalla Living Shepherd Lutheran Church alla Grace Baptist Church, alla Laramie Valley Chapel, e sicuramente altre. Fanno ogni domenica formazione religiosa e morale per tutti i membri della congregazione, divisi in fasce d’età. Sono pallide eredi delle Sunday Schools dell’ottocento, dove religione e morale sottendevano l’obiettivo principale: alfabetizzare bambini e adulti della Frontiera privi di altre occasioni (e di altro tempo) per acquisire quelle abilità così necessarie per leggere la Bibbia (e sal-

varsi l’anima dopo), ma anche per sapersela cavare nei commerci e come cittadini della repubblica (e quindi salvarsi le chiappe qui e ora). a Laramie purtroppo non ci sono vestigia delle antiche Schools, ma lo spirito che le animava è ben vivo: intraprendenza personale, carisma e capacità organizzative erano la forza di maestri e pastori a cui non servivano abilitazioni, certificati o concorsi per diventare insegnanti e guide morali di una comunità. Visito lo Sherman Townsite, il luogo dove sorgeva, negli anni sessanta dell’ottocento, l’omonimo villaggio. ora non c’è più niente, solo minime tracce e fondamenta. ma io lo vedo. Vedo un reverendo Brown o hoffman o hamill arrivare sul suo cavallo, con una bisaccia di Bibbie sporche e il fucile, come James Stewart ne L’uomo di Laramie, epico film in Cinemascope di anthony mann. Lo vedo entrare in paese, circondato dalla diffidenza o


le sunday schools alla conquista del West

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dal fastidio degli abitanti. Prende una cassa di legno, la capovolge, ci sale sopra e inizia a cantare o a predicare. L’iniziativa pubblicitaria, ripetuta sera dopo sera, ha successo e una domenica mattina la Sunday School apre, in una baracca per gli attrezzi messa a disposizione da un farmer devoto. La prima volta sono soprattutto ragazze desiderose di mostrarsi

perbene, ragazzini spediti lì a calci o a frustate mentre facevano danni davanti al saloon ancora chiuso, un paio di anziani con la voglia di raccontare storie e farsi valere. Nessuno sa scrivere, pochi sanno leggere. Tutti sono lì per mettere alla prova il reverendo. il maestro ha due ore in tutto: due ore per capire chi ha davanti, scegliere un passo della Bibbia adatto al loro livello, leggerlo, commentarne il contenuto morale e iniziare, da lì, l’insegnamento della lettura e della scrittura. Per imitazione, con pazienza, 77 imparando a memoria ogni settimana una frase ed esercitandosi a riportarla sulla carta, quando la carta c’è. Qualche ragazzino smette, ma altri ne arrivano. Se il reverendo ha carisma e si dimostra buon consigliere e mediatore in paese, arrivano altri adulti. La coesistenza tra bambini di cinque anni – bambini della Frontiera però, non i mocciosi frignanti di oggi – e sessantenni induriti dalla fatica non spaventa il maestro, o se lo spaventa non deve


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darlo a vedere. Si recita l’alfabeto tutti insieme, si leggono numeri, si fanno somme e sottrazioni. Più avanti verranno i racconti (quelli dove il cattivo perde e il buono vince; e il cattivo in realtà spesso ha solo la colpa di alzare il gomito al saloon o sprecare i cents avanzati in caramelle, mentre il buono è un duro, e usa il fucile quando è giusto farlo), i brevi componimenti degli allievi, i racconti di vita vissuta (gli anziani che hanno resistito tengono banco), le discussioni etiche. Cosa si può imparare con due ore di scuola alla settimana? molto, in realtà, se la scuola la si è scelta perché è tenuta da qualcuno di cui ci si fida – e che spesso, in quanto pastore, è garantito dal suo rapporto personale con l’altissimo. moltissimo, se ci si arriva freschi e non stressati da infinite settimane di scolarizzazione coatta. Certo, le Sunday Schools dell’ottocento sono anche alla radice di alcune rigidezze culturali dell’america 78 moderna: moralismo esasperato, controllo sociale strettissimo, imperialismo culturale senza remore e un filo di darwinismo sociale teologicamente motivato (se Dio ha deciso che stai nella fossa dei non salvati, un motivo ci sarà, anche se non lo sai: e se continui a dibatterti nella povertà la colpa è sicuramente tua). ma rimangono un esperimento pedagogico e umano da cui si può imparare moltissimo, leggendo i molti trattati, narrazioni e libri di testo che ne immorta-

lano le prassi. Per dirne una, le Sunday Schools furono determinanti nel portare il tasso di alfabetizzazione degli americani bianchi, negli ultimi decenni dell’ottocento, a cifre tra il 92 e il 95%, ivi comprese le zone rurali. Nello stesso periodo, in italia, gli alfabetizzati erano poco oltre il 20%. E non avevamo le distanze del Wyoming, quelle pianure infinite dove il cammino si misura in ore-cavallo, spesso in giorni-cavallo, e andare a scuola voleva dire farsene parecchie, di ore-cavallo, la domenica mattina nell’aria gelida dell’altopiano. Poi, se era inverno, si doveva raccogliere la legna attorno alla scuola e aiutare l’insegnante ad accendere il fuoco. Se era estate, si doveva andare a prendere l’acqua per lavarsi e per pulire banchi e aula a fine lezione. E anche questo era schooling.

Luana SaLvarani, reggiana, 44 anni, exfilologa, ex-insegnante ed ex-musicista praticante, per ora storica dell’educazione, ove ha trovato il modo di gabellare la sua fissazione per il western per una cosa seria. In attesa del prossimo prefisso ex-, nuota, non beve alcoolici e va a letto presto.


UNa ‘SCUoLa’ NELLa DiSCariCa

ULAN BATOR

‘VORREI POTER LEGGERE IL MIO NOME’

Le piccole storie di avgan, onon, Naran, Tseren e amlagan. Sopravvivere nella pioggia, nel freddo, fra ciminiere e smog. i genitori sono fuggiti dalla campagna. La sfida all’analfabetismo e alla miseria. Nella solitudine di un paese di ghiaccio. Foto e testo di matthias Canapini

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lla stazione vecchie babu?ke, giovani innamorati, operai tagiki, uzbeki e kazaki. Lentamente, oscillando, il treno parte, macinando chilometri di foresta e di steppa. a bordo i controllori si improvvisano cuochi, tagliando pesce fresco con spesse mannaie e farcendo con carne aromatizzata succulenti ravioli fatti a mano. il cielo è grigio, non traspare nulla. ai lati dei binari, carcasse arrugginite di pulmini sovietici, strade fangose e umili casette in legno. Jin, diretto a Pechino, continua a bere birra, sgranocchiare cipolla e offrirmi fette di carne. Nel vagone ristorante invece, una grassa cuoca dai capelli rossi continua a versare vodka a due ragazzi svedesi ormai semi svenuti sul tavolino. Tutto è fermo. Dopo circa seimila chilometri e cinque fusi orari varchiamo il confine. Spuntano le prime gher, poi sempre più edifici e fabbriche, di un

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mongolia


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MATTHIAS CANApINI, 24 anni, di Fano, lavora come scrittore, fotografo e illustratore. ha viaggiato per Balcani, Caucaso, Est Europa, vicino medio oriente e asia raccontando storie e progetti di associazioni sparse lungo il cammino. Localmente porta avanti attività legate all'infanzia dando vita a libri, mostre, e-book o libricini illustrati. Si divide tra viaggi, reportage e campi da rugby.

intenso colore grigio. Cavalli al galoppo, nuvole basse e violacee. è l’alba. Con un fischio stridente, il treno si ferma: Ulan Bator. Quando piove, le stradine del sobborgo di Songinorhairkhan, a pochi chilometri dalla capitale, si trasformano in fiumiciattoli colmi di fango e spazzatura. Tra le staccionate e i cortili malandati c'è un centro diurno di colore marroncino, costruito anni fa dall'associazione Bayasgalan. Qui vengono accolti decine di bambini provenienti dalle condizioni più disperate. Povertà o genitori violenti con gravi problemi d'alcolismo. o che lavorano incessantemente in discariche abusive o in cantieri pericolanti, a ridosso della grande città, ma ben nascosti da occhi troppo curiosi. Dentro le mura del centro i bambini hanno l'opportunità di giocare, sfogarsi e studiare, prima di tornare nelle loro abitazioni umide che sanno di cacca e latte scaduto. il primo giorno arrivo

che è quasi ora di pranzo. Due silenziosi bambini riempiono i bicchieri di tè salato e portano i piatti colmi di riso e patate ai loro amici seduti sulle panche in legno. Con una cantilena collettiva ringraziano le cuoche e si gettano a capofitto sulle pietanze ancora calde. al piano superiore, imperterriti, il piccolo onon e il robusto avgan si sfidano giocando a lotta libera, sport nazionale mongolo. La suddetta disciplina richiede forza e astuzia per ribaltare cinicamente l’avversario a terra, ma il più delle volte questi puerili incontri terminano con pianti e faccione arrossate. Basta però un goccio di latte di yak per alleviare gli acciacchi dei piccoli guerrieri. Naran invece pettina i lunghi capelli neri di Tseren, prima di tuffarsi sotto la pioggia e tornare insieme verso casa, saltellando tra fanghiglia e rade carcasse di capre abbandonate sul selciato. amgalan ha undici anni e gli occhi


scuri e profondi. Lo incontriamo in una radura invasa da elettrodomestici marci, gomme, materassi, bottiglie vuote di vodka e ossa logore. Scava e riscava, cercando preziosi oggetti da rivendere alle grandi industrie della capitale. La maggior parte delle persone presenti sono analfabete, malate, scappate dalle ostili e fredde campagne dopo aver perso la casa e pure il gregge. ora vivono qui, tra spazzatura e sofferenza. anche la

leggere e scrivere il proprio nome. a Ulan Bator vecchie ciminiere stanche vomitano incessantemente denso fumo nero. Lo smog si confonde con le nuvole ma basta allontanarsi di pochi chilometri per poter respirare e sentirsi leggeri. in meno che non si dica ti ritrovi tra spazi eterni e pascoli infiniti. Un occhio umano forse non è capace di cogliere tutta questa vastità. Pecore, yak, cavalli e mucche. Casa, famiglia, animali, cibo, acqua.

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mamma di amgalan è malata. il babbo invece lavora saltuariamente in città; c’è pure una sorella, ma nessuno sa dov’è, né tanto meno ricordano il suo nome. amgalan sorride e mangia il suo buuz, pasta farciti di carne, seduto nel baule di un camioncino bianco. il suo turno di lavoro è finito. Ci confida che gli piacerebbe molto trasferirsi in una piccola gher, magari vicino al centro diurno dell’associazione, in modo da imparare a


Palestina

UNA foto è AppArsA sUI NostrI moNItor

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Una foto appare all’improvviso su Facebook. Di solito la nostra attenzione è superficiale, le immagini del web scivolano via in un solo istante. Sono un’illusione distratta. ma a volte, solo a volte, qualcosa si impiglia. il nostro sguardo si impiglia. Torniamo indietro, vogliamo rivedere quella foto, vorremmo non dimenticarla. Siamo in Palestina. Non sappiano dove. Nei territori attorno a Gerusalemme, immaginiamo. Non sappiamo cosa è accaduto. La foto è geometrica, ha un’eccellente composizione: racchiude un rettangolo, una stanza della quale è rimasto solo il pavimento (o, forse, nemmeno quello). Non c’è una cattedra, non ci sono banchi, fa freddo, è inverno di medioriente. Ci sono dodici bambini infreddoliti e una maestra avvolta in un velo. i bambini sono piccoli, i loro piedi non toccano terra. Una classe primaria. alle loro spalle, la bandiera della Palestina. Non conosciamo il fotografo (e spesso noi non ci fidiamo delle foto, anche questa volta un pensiero dubbioso ci attraversa). 82 Questa foto è stata postata da Sulaiman, un uomo di Palestina che oggi vive a Cagliari. è tutto quello che sappiamo, ma decidiamo che non è importante. Ci è solo sembrato qualcosa più di una resistenza. Con banalità, questa foto, per l’istante della nostra attenzione, raffigura la voglia di esistere di uomini, donne, di dodici bambini e di una maestra. Tutto qui e per questo abbiamo deciso di metterla anche nelle nostre pagine: questa è la Scuola.


LA SCUOLA INVISIBILE Non c’è una cattedra, non ci sono banchi, fa freddo, è inverno di medioriente. Ci sono dodici bambini infreddoliti e una maestra avvolta in un velo.

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GLI OCCHI DI ERODOTO

INCONTRO CON GIROLAMO DE MICHELE intervista di Sandro Abruzzese

E SE STUDIASSIMO THE WIRE? Partire dai testi,

dalla viva parola dei filosofi e dei poeti, in culo a quelli che leggono o recitano a memoria il manuale senza metterlo in discussione. ERODOTO108 • 14

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I corpi docili della scuola italiana e l’opposizione al reale.

Girolamo De Michele è nato a Taranto ma vive e lavora a Ferrara. Qualche tempo fa per Minimum fax ha scritto un saggio intitolato “La scuola è di tutti”. Insegnante, giornalista e scrittore, da anni si batte per una istruzione pubblica capace di fornire basi per ‘decostruire e smascherare’ le ingiustizie del nostro tempo e della società. Affinché i ragazzi abbiano non solo la capacità di aderire al nostro sistema di vita, ma anche la consapevolezza e la forza per rivoluzionarlo. È a lui che chiedo di un periodo difficile per la scuola, fatto di divisioni e profonde fratture tra politica e mondo della conoscenza. Cosa farai dei 500 euro di bonusper la formazione dell'insegnante che la Legge 107, la Buona scuola, prevede a partire da quest'anno? Quello che avrei fatto senza: con 40 euro al mese non c'è da fare programmi, comprerò i libri che avrei comprato, andrò a teatro, dove comunque andavo anche prima: cose così. Con l'umiliazione di dover certificare ogni singolo euro speso, perché della mia parola non si fidano. E viene da chiedere – e lo chiederò: se non si fidano di me su 40 euro al mese, come possono fidarsi nel lasciarmi in consegna gli studenti?

A proposito delle riforme Gelmini e Brunetta hai scritto: ‘hanno trasformato il consiglio di presidenza in un consiglio della corona nella quale è incentivato quel desiderio di ottenere e amare il potere che Foucault chiama microfascismo’. È possibile che negli ultimi quarant'anni non ci sia stata una riforma che abbia trovato il plauso del mondo della scuola? Esprimi un giudizio sui tentativi di riforme dall'autonomia alla Legge 107. Metodo inaccettabile sotto ogni profilo di democrazia e di rispetto della Costituzione, capovolgimento delle promesse elettorali, autoritarismo, mancanza di fondi adeguati e certi, precarizzazione, meritocrazia ad hoc non per premiare i presunti migliori, ma i più accondiscendenti, allargamento del divario fra scuole di serie A (licei, scuole del centro, scuole della città e del nord) e di serie B (tecnicoprofessionali, scuole di periferia, della provincia e del sud), trasformazione della scuola in un vivaio di Confindustria (parole di De Mauro), abbattimento della qualità


della didattica con la valutazione quantitativa a test e quiz. Di aspetti positivi non ne vedo alcuno, se non un'infarinatura di organico funzionale, forse...

Se fossi il ministro dell'Istruzione: tre provvedimenti, quali? Cosa cambieresti? Non sono il ministro dell'Istruzione, non intendo esserlo, e non sta a me indicare come governare: il mio diritto, come cittadino che

desidera essere libero piuttosto che governato, è di dire la verità in faccia al potere senza nulla nascondere, senza furbizie e sottintesi. Bisogna sfuggire alla trappola logica del ‘se tu fossi al posto mio’, perché chi ci cade sta già cominciando a trattare la propria resa. Se questo governo cadesse io non chiederei di entrare nel successivo governo: chiederei l'indizione di Stati Generali dell'Istruzione e della Conoscenza, a partire dai singoli Collegi docenti, che redigano

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illustrazione di Bonaria Steffetta


stessa di Keating: partire dai testi, dalla viva parola dei filosofi e dei poeti, in culo (scusa il francesismo) a quelli che leggono o recitano a memoria il manuale senza metterlo in discussione, e poi pretendono che lo studente ripeta a menadito quello che ha imparato a memoria. Se poi riesco a fare quello che mi ripropongo, non devo dirlo io.

giroLaMo DE MiCHELE, 55 anni, tarantino, vive a Ferrara, insegnando nei licei. Ha pubblicato romanzi per Einaudi e per Edizioni Ambiente. Ha scritto diverse opere di filosofia e storia delle idee e, insieme a Umberto Eco, Storia della bellezza.

i Cahiers de doléances della scuola per preparare l'assalto alla Bastiglia e la ghigliottina per il re – che è ciò che Kant chiamava ‘uscita dell'uomo dallo stato di minorità’.

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Custodisco un tuo articolo scritto per Nuova rivista letteraria dove sostieni che ‘non c'è vera pedagogia che non sia libertaria, perché una pratica scolastica può solo essere o una pedagogia o una disciplina, un prendersi cura (paidéia) o una pratica disciplinare e disciplinante’. In quell'articolo scrivi che ‘la scuola può rendere liberi ma anche incatenare’. Mi chiedo che tipo di insegnante sia De Michele. Insegno filosofia e storia in un liceo che un tempo è stato all'avanguardia nel pensare un'istruzione degna di essere impartita e ricevuta. La mia didattica si riassume nelle due frasi che metto in esergo alle mie programmazioni ogni anno: ‘Una scuola in cui la vita si annoia educa solo alla barbarie’ di Raoul Vaneigem – una lettura imprescindibile, il suo Avviso agli studenti; e ‘Sentinella, quanto resta della notte?’ del profeta Isaia. Dal punto di vista dei miei studenti, credo mi vedano come una versione postpunk del John Keating de L'attimo fuggente, il che non mi dispiace, perché la mia idea di didattica è la

Insegnare, avere a che fare con i ragazzi, è ancora un privilegio o, come film e vulgate popolari mostrano, è diventata una condanna? Insegnare è un lavoro, e il lavoro non è mai un privilegio, è sempre una fatica imposta, il furto di una parte del suo valore nella truffa del salario, e una svendita della propria essenza vivente nella sua trasformazione in forza- lavoro. Poi, certo, negli anni in cui la scuola non assumeva, e uno come me non era reclutabile dalle scuole private per intuibili ragioni, ho fatto mestieri più faticosi sul piano fisico, e meno remunerativi (ma anche qualcuno più divertente): non per questo mi metto a fare le classifiche fra lavori più o meno privilegiati. Il punto non è se io sia meno o più privilegiato, il punto è che non devono esistere lavori privilegiati perché non devono esistere lavoratori di serie A e di serie B, né esseri umani costretti a farsi sfruttare per poter guadagnare un salario sufficiente a farti arrivare a sera, ma non a impedirti di alzarti al mattino successivo per farti sfruttare un'altra giornata. La crescente precarizzazione del lavoro – compreso quello scolastico – sta passando anche e soprattutto perché questo i lavoratori, e gli insegnanti fra loro, non lo capiscono: come dire, non hanno coscienza di classe, ma solo del proprio particulare. Detto questo, è indubbio che l'egemonia di una cultura di destra melmosa, che schiuma sui bordi e trascina nel fiume ogni sorta di rifiuto, si basa anche sull'irrisione di qualsiasi cosa assomigli a cultura, intelligenza, libro, critica, periodo ipotetico, sintassi, ortografia...

A volte mi sembra un mondo sospeso, un po' uguale a se stesso nei decenni, quello scolastico, che risponde a regole interne e molto lentamente alla società. C'è distanza tra scuola e realtà esterna o corrispondenza? La cosiddetta realtà esterna è una costruzione fondata sulle nostre percezioni, passioni e azioni,


Come giudichi uno stato che ci paga per educare, e attraverso la riproduzione del mondo nelle sue tv e radio finisce per annullare i nostri sforzi o quasi? Uno Stato che merita di essere sovvertito, e dal quale dobbiamo cominciare a prendere le distanze.

Se non fossi De Michele, quale scrittore vorresti essere? Una volta ho sognato di essere Kareem Abdul Jabbar (da piccolo ero piuttosto bravo nel basket, poi mi hanno fermato i centimetri che non avevo), a parte questo sto bene come sto: ci ho messo 54 anni per diventare quello che sono, perché dovrei desiderare essere un altro?

Cosa rende tale uno scrittore? Carver, correggendo uno scrittore che diceva ‘Niente trucchi da quattro soldi’, a sua volta sosteneva: ‘Niente trucchi’ – punto. Ci potrei aggiungere quello che Lenin assegnava come dovere ai comunisti, avendo capito che dopo di lui sarebbe arrivato Stalin: ‘primo studiare, in secondo luogo studiare, e in terzo luogo studiare, e infine controllare che lo studio non resti a lettera morta o una semplice moda’. E una buona grammatica e un buon dizionario sempre a portata di mano, anche quelli aiutano.

Il ruolo dell'intellettuale, oggi che ha sempre meno visibilità e attenzione, esiste ancora? Se sì, qual è? Quello di dire la verità, e quello di mostrare nuove e impensate connessioni fra cose e cose, fra cose e parole, fra parole e immagini.

Tempo fa scrivesti un saggio: ‘La scuola è di tutti. Ripensarla, costruirla, difenderla’. È utile

alla scuola che si scriva di lei? Quel mio libro è di informazione e critica (un tempo si sarebbe detto controinformazione). Di libri che forniscono informazioni, strumenti, chiavi di lettura sulla scuola ce n'è un estremo bisogno; peraltro non mi sembra che ne manchino, o ne siano mai mancati: che poi l'informazione mainstream li ignori e parli di una scuola che sa solo dire no, è un altro paio di maniche. Sulla fiction scolastica, a stampa o cinetelevisiva, sono molto più scettico, perché chi ne scrive deve sapere che esiste un frame dominante che rappresenta il mondo della scuola come un luogo popolato da macchiette lodoliane e mastrocoliane – che fanno da pendant a una generale ivancotroneizzazione (se ti accontenti del paneesalame), o francescopiccolizzazione o rullipetraglizzazione (se hai il palato fino e vuoi atteggiarti a radicalsalottiero), delle vite e delle relazioni – che vengono scambiate per la ‘vera’ scuola, la ‘vera’ famiglia, la ‘vera’ società. In Italia siamo anniluce lontani da una fiction come The Wire, che fra l'altro dava una rappresentazione nuda e cruda della scuola che i nostri sceneggiatori dovrebbero studiare e ristudiare. Ora, se hai la capacità di imporre un frame diverso (sulla scuola), benissimo: scrittori- insegnanti come Sandro Onofri, Caliceti, Visitilli ci sono riusciti. Altrimenti, credendo di ‘rovesciare il frame’, finisci per reiterarlo, consapevolmente o meno. Trovo molto più significative delle produzioni visuali brut, come le videolettere degli insegnanti qualunque in risposta a Renzi o i video delle #CattiveMaestre, che hanno saputo bucare il muro di gomma del frame scolastico col linguaggio scarno e senza trucchi della vita reale. SanDro abruZZESE, 37 anni, irpino. Insegna italiano a Ferrara. Scrittore e blogger, cura il progetto raccontiviandanti. bonaria StaFFEtta, 39 anni, è siciliana ma ha un nome sardo: ‘Bonaria’ è infatti a Cagliari la Madonna protettrice dei naviganti. La nostra Bonaria però ha paura del mare e infatti, dopo una lunga tappa a Torino lontano dai flutti, ora vive a Barcellona. Fa la web designer e, lavoro che sognava dall’età di 6 anni, l’illustratrice, coltivando anche una tenace fissazione per il cinema.

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non è un oggetto immobile che si erge davanti a noi. La scuola fa, e non può non fare, due azioni contemporanee: da un lato fa da cinghia di trasmissione della cultura e della rappresentazione dominante, e nel farlo ovviamente si fa specchio della rappresentazione dominante del mondo; dall'altro, fornisce agli studenti gli strumenti per decostruire, criticare e se possibile sovvertire, o almeno sostituire la rappresentazione dominante: e in questo, si oppone al cosiddetto ‘reale’.


italia

Quaderni aperti e le pagine della scuola che fu

‘QUANDO FA FREDDO LA GENTE E IO INDOSSA ABITI PESANTI’

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il Fredy Taberna di Luis Sepùlveda ‘aveva un quaderno con la copertina di cartone e vi annotava coscienziosamente le meraviglie del mondo, che erano più di sette: erano infinite e continuavano a moltiplicarsi’. anche se lo abbiamo odiato, stropicciato, dimenticato e non lo abbiamo riempito di meraviglie, tutti abbiamo avuto un quaderno. il tema è da libro Cuore, odora di zucchero e mina di matita e porta il ricordo dolce o terribile di qualche maestra o maestrina. C’è un sito internet che dà pane alle nostre nostalgie e pagine aggiornate di Tumblr, Facebook e Twitter sulle quali sospirare. Le cura l’associazione no profit ‘Quaderni aperti’ di milano che lavora dal 2005 alla digitalizzazione e catalogazione di qua-


www.quaderniaperti.it

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derni di scuola poi condivisi in rete e utilizzati per reading, mostre, laboratori e seminari. La collezione conta oggi circa 700 quaderni da fine ottocento a oggi ed è una delle più ricche e varie in italia. E la cartiera arbos stampa anche una serie di quaderni nuovi con copertine ricavate da pagine di quelli vecchi. Dai quali è possibile apprendere notizie interessanti e istruttive; come ad esempio che il 5 dicembre ‘Balilla tirò un sasso ai soldati tedesci che tiravano il canone’ e che ‘milano è un Barbera benefico. Fa e dà.’


italia

FIRENZE DA DISABILI A CITTADINI La sconosciuta rivoluzione dell’altro milani di un paese di ghiaccio.

MEMORIA DI ADRIANO Testo di Letizia Sgalambro Foto archivio Famiglia milani Comparetti

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a

volte i viaggi si fanno in un salotto, piccolo e ingombro di carte e libri, con la padrona di casa sdraiata sul divano. E la conversazione verte sull’argomento di solito più noioso, sui parenti. rannicchiata sul lato opposto del divano ascolto. Parenti così non son facili da proteggere, mi dice. E, strano a dirsi, si tratta di difenderli dal giudizio ‘buono’. Valeria la conosco da tanto tempo, ha il carattere dei milani Comparetti; suo padre adriano era il fratello di don milani e lui stesso un personaggio. Vengono descritti ambedue come buoni, per il prete c’è addirittura chi lo vuole santo; Valeria è convinta che sia perché adesso vanno di moda i ‘santi subito’ e don milani è perfetto. Crepato bello e giovane, non può controbattere. Sì, Valeria usa il termine ‘crepato’ e lo fa apposta, è una citazione di suo zio che così definiva la propria morte. adriano invece era medico, pediatra, neuropsichiatra, fisiatra ma anche tanto altro e Valeria non lo vuole sentire definire ‘buono’. Non perché non lo fosse, anzi, aveva un carattere molto più dolce del fratello prete. Non si tratta di questo, ma di non annullare e appiattire l’opera di un uomo dandogli del ‘buono’. Quello che faceva e le battaglie che ha combattuto per dare dignità ai bambini e


a tutte le donne che incontrava, pensavano fosse il giardiniere, o il padre di uno dei ragazzi, non certo il luminare che erano venuti a cercare. Cerco di immaginarlo, seduta anch’io in questo salottino, e dalle parole di Valeria viene fuori un personaggio dalla grande competenza scientifica, ma anche un inventore: l’apparecchio per la fleboclisi che conosciamo oggi, addirittura lo brevettò, ma poi dopo un paio d’anni si stancò di quel gioco e lo abbandonò regalandone la licenza. ma perché vi racconto tutto questo? Forse perché di don milani ho sentito parlare e sapevo fosse lo zio di Valeria - infatti le assomiglia anche fisicamente - mentre del padre adriano se ne sa molto meno. mi incuriosiva sapere perché poi il doppio cognome, che uno ha tenuto e l’altro no, e così in effetti siamo partite da questo discorso che ci ha portato altrove. Fu il trisnonno di Valeria, Domenico Comparetti, senatore e notissimo filologo, che per decreto regio aggiunse il suo cognome a quello del genero milani. a sentire gli uomini affetti da paralisi spastica che oggi sono medici, avvocati, sindacalisti o politici, adriano è un padre, l’uomo che credeva in loro.

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ragazzi con disabilità di cui si occupava lo faceva con la testardaggine e la sicurezza che gli veniva dall’essere un milani Comparetti. all’istituto anna Torrigiani di Firenze, che ha diretto fino alla pensione, la sua porta era sempre aperta per i i pazienti così come per le gatte che decidevano di partorire nei cassetti della scrivania. i giornalisti che venivano a intervistarlo sedevano con pazienza nei corridoi in attesa del professore e quando vedevano un uomo in bermuda e sandali da frate, decisamente poco elegante con le sue camicie a manica corta, che cominciava a distribuire rose da un cestino


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è vero dice Valeria, perché credeva nelle persone, con passione politica, ed è da lì che nacquero tutto il suo impegno e la sua forza. Era un partigiano del Partito d’azione e lo rimase fino alla morte. oltre a essere un luminare scientifico nel campo della paralisi cerebrale, adriano voleva dare dignità di esistenza ai ragazzi e ai bambini di cui si occupava come medico. Voleva farne persone che potevano e dovevano avere uno spazio di esistenza normale nella nostra società. Si chiamavano ‘spastici’ allora, lui voleva si chiamassero ‘cittadini’. Per questo Valeria si arrabbia ancora quando lo sente osannare da chi lo conobbe: vorrebbe invece che si riconoscesse il ruolo politico e scientifico che ebbe. Permise il divulgarsi della diagnosi precoce e la fine di molte paralisi infantili causate dalla poca conoscenza delle cause, ma prima di tutto fu fautore di un radicale cambiamento nel modo in cui la

legge, e di conseguenza il Paese, iniziarono a guardare a bambini e adulti con disabilità. Negli anni Cinquanta adriano sosteneva per loro il diritto di all’educazione. Che però all’epoca era fornita in scuole speciali, che isolavano il bambino e mettevano al centro la sua disabilità, con cure ossessive e persecutorie che non tenevano conto dell’impatto emotivo e dell’isolamento tragico su di lui e sulla sua famiglia. Così negli anni Sessanta milani Comparetti contribuisce ad avviare quella che si può definire a tutti gli effetti una rivoluzione: al centro il bambino e i suoi bisogni educativi, sociali e relazionali e, soprattutto, il diritto a essere cittadino della propria comunità e ad avere bisogni normalissimi. Da qui l’aspra battaglia per la chiusura delle scuole speciali e per il riconoscimento ai bambini diversamente abili di quel servizio educativo e formativo che il paese fornisce a tutti i suoi cittadini. Da allora l’italia rimane all’avanguardia da questo punto di vista. Quello che Basaglia fu per la liberazione dei matti dal manicomio fu milani Comparetti per la liberazione degli spastici dagli istituti. Che poi la società non abbia applicato fino in fondo le visioni ideali di questi due sognatori, non toglie il fatto che chiunque oggi in italia riconosce che quei colti medici ecografisti, politici, sindacalisti non avrebbero mai potuto dare il loro apporto alla nostra società se non avessero frequentato le scuole e le università come tutti.

Letizia Sgalambro è l’autrice del nostro ‘oroscopo’


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uSCITA DA SCuOLA Cupirina, rio degli amazzoni, villaggio flottante. La lezione è finita. Si torna a casa in canoa.


QUADERNI A QUADRETTI

COSIMO

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MIORELLI

SCHWEINEHuND, IN CERCA DI CASA A bERLINO

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un giovane illustratore italiano si trasferisce a berlino e inizia l’odissea per la ricerca della casa. A vederla da qua pare che la capitale tedesca sia il bengodi dei creativi e che le opportunitĂ piovano dagli alberi dei bei parchi di prenzlauerberg. Essere italiani poi non aiuta e allora Cosimo Miorelli prende le matite e disegna una graphic novel per Il Mitte, la testata on line punto di riferimento per gli italiani che vivono a berlino, per i turisti e per quelli che vorrebbero viverci e non immaginano che certe cose possano

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accadere anche su, al nord.


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COSIMO MIORELLI, 29 anni, illustratore e live-painter, vive e lavora a Berlino. La sua ricerca combina diversi strumenti narrativi muovendosi tra illustrazione, fumetto e performance dal vivo che lo portano a collaborare con produzioni teatrali e film documentari. è sempre a caccia di nuove storie.


STORIE DI ALBERI

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disegno di Guido Scarabottolo


Vorrei incontrare una donna che mi tradisca con gli alberi Franco Arminio


SE RIPASSATE FRA CENTO ANNI, NOI SAREMO ANCORA QUI

REPORTAGE

FOTOGRAFICO

i riTi DEGLi aLBEri. Fra LUCaNia E CaLaBria

Fra i giorni della primavera che, a volte, su queste montagne, sono ancora frammento di inverno e il settembre che annuncia i venti dell’autunno, nella Lucania più bella e solitaria, fra le rocce delle Dolomiti Lucane e la montagna corale del Pollino, si celebrano, in un’euforica e faticosa eccitazione, piccole-grandi feste degli alberi. Sono conosciute, dagli studiosi, come riti arborei. Per me, sono felicità ed ebbrezza.

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testo e foto di andrea semplici

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er gli antropologi più tradizionali, ad accettura, a Pietrapertosa, a Castelmezzano, a oliveto Lucano, avvengono autentici matrimoni degli alberi, sposalizi fra il maggio, u’masc, un cerro, albero maschio, e la cima, un agrifoglio, pianta femmina. Nel massiccio del Pollino (alessandria del Carretto, rotonda, Castelsaraceno, Terranova, Viggianello) sono invece un faggio, a’pitu (a Castelsaraceno è la ‘ndenna), e un abete, la rocca (o la cunocchia di Castelsaraceno) a unirsi in un rituale che celebra il passaggio delle stagioni, il mutamento e la trasformazione della natura. Queste feste sono un augurio gioioso di fertilità.





così per i caporali della Festa a rotonda e Viggianello. Come lo è per i ragazzi di alessandria del Carretto, Castelmezzano e oliveto Lucano. ho visto i più giovani, diciottenni nati in paesi solitari, cresciuti sulle corriere verso le scuole, contare perfino le ore aspettando questi giorni. ho conosciuto emigrati, dalla Germania, dall’inghilterra, dall’argentina, che fanno migliaia di chilometri pur di tornare al paese: queste Feste sono irrinunciabili. in nove paesi, otto in Lucania e uno in Calabria (alessandria del Carretto), gli alberi e gli uomini sono protagonisti di giorni grandiosi. Colmi di euforia, fatica, lavoro durissimo, adrenalina, cibo e vino. E’ festa che vale l’intera annata.

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LA GENTE DI QuESTI pAESI, a volte, sorride scuotendo la testa: le feste degli alberi più che uno sposalizio, per loro, sono identità di paese, storia di solidarietà, memoria del passato e certezza del futuro. Sono, allo stesso tempo, tradizione e contemporaneità. Sono una ragione di esistenza, di voglia di essere. ad accettura, paese delle Dolomiti Lucane, ho conosciuto i 99 anni di zi’ andrea. aveva un solo dente, si appoggiava a un bastone. Per nessuna ragione al mondo avrebbe perso la Festa, il maggio, che qui avviene nei giorni della Pentecoste. andrea ora non c’è più. So che da quando aveva quattordici anni, fino ai novantacinque, ha tenuto una zappa in mano. E’ stato uno dei migliori maggiaioli, uno degli uomini che trasportavano e lavoravano l’albero più grande. Quel giorno mi disse: ‘Finchè ci sarà la festa, accettura avrà un futuro. Quando non ne saremo più capaci, finirà il mondo’. Credo che la pensino alla stessa maniera Peppilepre a Castelsaraceno o Vincenzo a Pietrapertosa. E’

LA RITuALITà DEGLI ALbERI si intreccia con la religione. Per quasi due secoli, la chiesa ha cercato di impedire questi riti memoria di tempi pagani. Poi ha deciso che vi era fede nell’ostinazione della gente di queste montagne e allora ha benedetto le feste e scelto un santo protettore: in molti paesi, oggi, è il culto di sant’antonio a muovere uomini e donne verso i boschi dove scegliere e tagliare il maggio o la pitu. ad accettura, ho visto maggiaioli e cimaioli piangere lacrime di emozione per san Giuliano. a Viggianello, il ritratto di san Francesco di Paola protegge la festa di fine agosto. ‘La fatica e la bellezza di questi riti sono una profonda devozione popolare’ mi dice don Stefano, giovane parroco di rotonda. Don Pinuccio, parroco ad accettura, mi spiega: ‘La festa è la storia religiosa del paese’. Qui non si sale al bosco di montepiano prima della benedizione del prete, non ci si mette al lavoro e alla felicità senza la messa ai limiti della foresta. Non si alza l’albero senza il consenso di san Giuliano. DA OTTO ANNI INSEGuO ALbERI e buoi, uomini e donne nei boschi di questo Sud sconosciuto. La prima volta che arrivai ad accettura non sapevo niente della Festa. rimasi senza fiato per la meraviglia e lo stu-


pore. Non mi sarei aspettato niente di simile. Fui travolto dall’euforia e dalla forza, dall’eccitazione e dalla santità. Dal cibo e dal vino. Dalla musica e dai balli. Dai ragazzi e dai vecchi. Scoprii che in altri otto paesi avvenivano gli stessi riti. Cominciai a viaggiare fra le montagne. Voglio esserci quando Pantolin dà il suo colpo di fischietto nei boschi di montepiano sulle Dolomiti Lucane e quando i gualani di rotonda, nei boschi di Pizzalonga, su un pianoro del Pollino, portano due dita alla bocca e fischiano con forza. E’ allora che i buoi, un superbo e possente corteo di decine di paricch’, coppie di animali, hanno una scarto improvviso, torcono il collo, puntano gli zoccoli a terra e agitano le corna. Stanno tirando un albero, un fag-

gio o un cerro, di quaranta quintali tagliato nei giorni precedenti e ripulito dei suoi rami. Devono farlo uscire dal bosco e, a volte per giorni, dovranno trasportarlo fino in paese. E’ uno spettacolo grandioso. Una Bibbia lucana. Una scenografia sacra di montagna, di una terra lontana. Questi sono appennini solitari, è un’altra italia. Un’italia lontana: i paese lucani si allontano ogni volta che credi di essere arrivato. AD ALESSANDRIA DEL CARRETTO, paese calabrese, frontiera con la Lucania, Pollino orientale, non ci sono i buoi a tirare a valle l’albero. è la forza degli uomini e delle donne a portare giù il grande abete dal cri-




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A ROTONDA, è necessaria quasi una settimana perché l’albero venga finalmente alzato a fianco del municipio. E, come gesto finale, gli uomini lo solleveranno con uno

strappo di forza per farlo ruotare su se stesso: è l’alzata, una spavalderia di coraggio e orgoglio. a Castelsaraceno, ci vorranno tre domeniche per fare la festa. a Terranova, l’albero farà una marcia trionfale, tirato a mano, avanti e indietro per il paese. a oliveto Lucano compirà un girotondo festoso nella piazza. a Viggianello sarà una discesa infinita fra le infinite frazioni del paese: alla fine la rocca sarà agghindata come un carnevale colorato prima di roteare fra i vicoli ed entrare in chiesa. a Castelmezzano il maggio vuole godersi la bellezza del paese e delle Dolomiti Lucane. a Pietrapertosa il campanile di san Francesco sosterrà la forza degli uomini che alzeranno l’albero con le loro braccia usando la vecchia torre campanaria come paranco. ad accettura,

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nale di Spinazzeto. Vedo Peppino, cappello nero in testa, montare in groppa all’albero tagliato e lavorato e prendere il comando del viaggio. anche lui fischia con due dita in bocca, ma il suo segnale mette in movimento uomini. ‘Spingete, tirate, N’a botterell, jamm’, grida Peppino. Può fare freddo, può piovere, nevicare a fine aprile su questo contrafforte del Pollino, ma niente sembra poter fermare la gente di alessandria del Carretto: a sera, dopo una giornata stremante, la pitu sarà nella piazza del paese.




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tutti aspettano che antonio, pantaloni di velluto e gentilezza nei gesti, allunghi i suoi muscoli per salire, senza sicurezze, ai trenta e passa metri dell’albero finalmente in piedi al centro dell’anfiteatro di san Vito. SONO TORNATO NEI bOSCHI delle Dolomite Lucane e del Pollino in giorni lontani dalle feste. ho ripercorso i sentieri che hanno visto uomini e buoi faticare attorno ai grandi alberi. mi sono seduto nelle radure dei grandi pic-nic e là dove i ragazzi hanno ballato e suonato. Bisogna ascoltare il silenzio dei faggi e dei cerri. Bisogna sfiorare, in

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cammini solitari, gli agrifogli e i grandi abeti bianchi. Poi si torna nei paesi, a prendere un caffè nel bar della piazza, a sedere con i ragazzi sulle panchine, a chiacchierare con il prete e andare a trovare il maestro della banda musicale. E allora, nella solitudine degli inverni di questi paesi, nell’attesa della primavera e della festa, si intuisce la resilienza, la forza e la bellezza di questa italia. E’ lontano dalla festa che ho deciso che per me, straniero, questa terra è la mia terra. E alla fine ho visto un gruppo di ragazzine di accettura prepararsi la maglietta da indossare il giorno della festa. ragazzine di sedici anni. Una maglietta bianca. Sopra vi avevano fatto stampare: ‘Se ripassate fra cento anni, noi saremo ancora qui’.


uOMINI E ALbERI otto anni per riuscire a viaggiare assieme a tutti gli alberi che, fra la fine di aprile e le prime settimane di settembre, ogni anno, viaggiano nelle montagne delle Dolomiti del Lucano e fra le creste e i valloni del massiccio del Pollino. alla fine, i riti arborei sono diventati anche racconti, parole, fotografie, storie. Sono diventati un libro. Si chiama ‘Uomini e alberi’ ed è edito da UniversoSud. 320 pagine, 35 euro.

ANDREA SEMpLICI, 63 anni, fiorentino. Giornalista e fotografo. Da qualche anno ha il dubbio che il Chiapas d’italia sia la Lucania. Nel 2007, nei giorni del maggio, straordinari rito arboreo, arriva ad accettura, nelle Dolomiti Lucane. E scopre che fra quelle montagne e il Pollino si svolgono altre otto ‘feste degli alberi’. Da allora cerca di viaggiare assieme agli alberi.

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Per la prima volta, tutte le feste del maggio, tutte e nove le feste (ad accettura, Pietrapertosa, Castelmezzano, oliveto Lucano, rotonda, Terranova del Pollino, Viggianello, Castelsaraceno ed alessandria del Carretto) vengono raccontate assieme: un filo rosso che unisce l’italia interna del Sud. Una grande storia. Per trovare il libro: www.universosud.it


UNA FOTO

UNA STORIA

marco Paoli usa macchine che scattano in bianco e nero, monta grandangoli spinti, sta fermo per ore in attesa che accada qualcosa (e qualcosa accade sempre), guarda attraverso un filtro verde: così le foglie diventano chiare e le grandi piante dell’africa gli raccontano la loro storia.

‘G

li alberi hanno intelligenza, sanno comunicare, mandare messaggi. Gli alberi dormono, imparano, ricordano, scelgono. Guidano le api nei loro voli, le indirizzano, come buoni consiglieri, verso i fiori. Sono esseri supremi. Ne sono attratto, è una passione fisica. Ho bisogno di toccarli, di sentirli. Mi emozionano.

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Sono nato in campagna. A Tavarnelle Val di Pesa, un paese delle colline fiorentine. 120 Mio padre era medico, dirigeva un piccolo ospedale. Sono cresciuto nei campi. Fra gli orti e le galline. In mezzo agli olivi. Gli alberi sono stati il mio orizzonte. Ho imparato a riconoscerli, a indagare i loro segreti. Poi ho cominciato a esplorare il loro mondo sotterraneo. Quanto non vediamo è uno specchio nascosto: le radici sono un universo misterioso. Gli alberi vivono in una doppia di-

UN SICOMORO E TRE ACACIE LA PASSIONE PER GLI ALBERI DI UN FOTOGRAFO TOSCANO


ESSERI SUPREMI racconto e foto di marco Paoli raccolto da arturo valle

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mensione, sconfiggono la gravità e uniscono davvero la terra al cielo. Senza alberi noi non potremmo vivere. Noi ci estingueremo, e gli alberi continueranno a esistere. Il loro sistema evolutivo è più potente del nostro. Se a un uomo tagli un braccio, rimane monco. Un albero si rafforza con la potatura.

Ho riconoscenza verso gli alberi. Ci hanno donato una grande bellezza. E quando ho cominciato a fotografare, la mia attenzione è andata subito agli alberi. Si stagliano contro il cielo, sono bellissimi, sono perfetti.

Fotografare un albero è difficile. Complicato. Si corrono dei rischi, si può essere banali e incapaci di raccontare, con un’immagine, una sola immagine, la loro forza. Io fotografo in bianco e nero, è un modo di vedere. Vedo in bianco e nero. Da un po’ di tempo uso una Leica monocromatica. I suoi scatti digitali sono in bianco e nero, i tedeschi hanno tolto il filtro dei colori. E’ una macchina a telemetro, io devo trovare il fuoco. Devo decidere l’esposizione. Sono davvero solo io che decido che foto fare, come farla. Uso grandangoli spinti e vi è sempre il pericolo di una distorsione eccessiva.

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Le foto di queste pagine sono state scattate in Etiopia. Il grande albero è un sicomoro. È maestoso, solitario, immenso. Si è conquistato uno spazio. Domina una terra. Questa pianta si trova vicino alla chiesa rupestre di Abraha Atsbeha, in Tigray, nel Nord del paese. E’ un albero meraviglioso. L’ho visto da lontano, dal122 l’alto. Era impressionante. Isolato dagli altri alberi. Ho voluto andare vicino. Ho camminato. Ho cominciato a girarci attorno. Ho voluto toccare la sua corteccia. Assomigliava alla pelle di un elefante. Ho misurato quest’albero. Ottantadue passi da un lato all’altro. E’ grande come un campo di calcio. L’ho immaginato a San Siro, avrebbe occupato tutto lo stadio. Era mezzogiorno, un’ora sbagliata. La luce dovrebbe essere radente. Ma ho fotografato lo stesso, il sole alto nel cielo, sopra l’albero. Sono stato lì un paio d’ore. 15 mil-

Marco Paoli ha fotografato l’Etiopia. Come nessun altro. Da Nord a Sud. Dalle savane attorno al fiume Omo agli altopiani del Tigray, dalle foreste dei monti Bale alle solitudini delle sue terre orientali. Gli alberi di questo paese (i colossali sicomori, le acacie ostinate, gli eucalipti e i ginepri attorno alle chiese, gli olivastri di alta quota) sono stati la sua bussola, gli story-teller della forza di un paese. Lo hanno guidato fra le grandi feste cristiane e nei pellegrinaggi musulmani, sulle vette delle montagne che sfiorano il cielo e nelle depressioni sotto il livello del mare. Gli alberi hanno aiutato Marco a incontrare gli uomini e le donne di questa Africa. Ethiopia è un grande libro. Non è un viaggio, è uno stare, un fermarsi, un rallentare. Il tempo di montare un cavalletto e aspettare che ‘qualcosa accada’. E qualcosa in Africa accade sempre. Gli alberi non sono immobili. Ethiopia è pubblicato da Giunti (39 euro)

limetri, cavalletto, Nikon. Filtro verde. Le foglie si schiariscono. Venti foto. Ero certo di riprendere l’albero come io lo stavo vedendo. Il sicomoro regala un’ombra protettiva, sotto cui la gente dei villaggi si riunisce per prendere decisioni importanti. Quest’albero fa parte di una comunità di uomini e donne.

All’altro lato dell’Etiopia. A Sud, ai confini del Kenya. Ore di barca dal grande villaggio di Omorate, l’ultimo vero insediamento. Siamo nel territorio dei Dassanetch, popolo del fiume Omo, popolo minacciato. C’erano quei tre alberi, tre acacie, vicino alle loro capanne.


MarCo PaoLi, 56 anni, toscano di Tavarnelle in Val di Pesa. Vive a Firenze. Ha lavorato con i Giancattivi alla realizzazione di produzione teatrali e cinemaografiche. Ha fatto parte dei Giovanotti Mondani Meccanici, storico gruppo di video e computer art. Ha esposto le sue fotografie a Firenze e Milano, a Reggio Emilia e New York, a Pietrasanta e San Franciso. www.marcopaoli.com

un telo bianco sul quale spiccano gli alberi e gli uomini.

Vedo gli alberi, ne vedo la grandiosità. Li vedo come fotografo, li immagino sul sensore della macchina fotografica, sulla carta. Vedo la loro forma, la luce che li illumina. E, in Africa, gli alberi sono spiriti. Sono vivi. Crescono come giganti. Gli uomini hanno bisogno di loro. Sono ombra, letto, schienale, sedia. Sono rifugio, tempio, casa.

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E un vento impietoso. Sabbia, polvere. Il sole di lato. Il cielo ha perso ogni colore, è andato fuori gamma. Ho aspettato più di due ore che qualcosa accadesse. Sono stato avvolto da turbini di polvere. Non mi sono mosso. Sono usciti quegli uomini, si sono avvicinati agli alberi. Si sono fermati, mi hanno guardato da lontano. Il vento muoveva le acacie con furia. Filtro a densità neutra. Per ridurre l’intensità della luce. Cavalletto. Posso scattare a un ottavo di secondo. Così afferro il vento. Lo vedo mentre scatto: i rami delle acacie si muovono, si agitano, si ribellano. La polvere nasconde il villaggio, il cielo è


AppesI A UN grANde rAmo, come Il bAroNe rAmpANte

DORMIRE CON ETTORE E TERESA.

In Toscana, fra il Mugello e la costa dell’Alta Maremma, si può passare la notte nel cielo degli alberi: è il treesleeping. ‘Volevo trasmettere l’idea che una pianta ti tiene su’. E adesso Matteo vi costruirà una casa.

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‘Nonna non ti preoccupare. Se cadi di sotto rimani appesa, e poi matteo viene a liberarti’. Lorenzo, 7 anni, ormai è un veterano del treesleeping. Tra le fronde di Ettore e Teresa, le due querce che stendono i loro rami, una nell'agriturismo di Borgo San Lorenzo, l'altra nel golfo di Baratti, ha dormito già tre volte. E mentre si lascia docilmente imbracare da matteo prima di arrampicarsi su per la scala, distribuisce consigli ai neofiti che con qualche apprensione si preparano

a vivere quest’avventura. La notte di Baratti è quasi perfetta. Se avessimo dovuto programmare, non saremmo riusciti a scegliere meglio. invece è venuto così, quasi per caso. Prima l'aperitivo sulla spiaggia di Baratti, tramonto rosso da cartolina. Un attimo dopo, la luna piena che sale tra i pini, mentre ci incamminiamo verso la quercia Teresa, tempestata di lucine, candele, fiammelle, lumini, che fanno a gara


con le stelle e strappano oh di meraviglia, come fossimo tutti bambini (in realtà, di bambini ce n'è uno solo). E' così che matteo e martina accolgono gli ospiti: tredici, tanti sono i posti disponibili sulle piattaforme e le amache tecniche (quelle che si usano per dormire in parete) appese ai rami. Divani, poltrone, cuscini disseminati sulla piattaforma di legno alla base della quercia (perché il troppo calpestìo del terreno non fa bene all'albero), su cui rilassarsi con bi-

scotti e vin santo, mentre si fanno domande e ci si prepara alla notte sull'albero. matteo è matteo Cortigiani, arboricoltore non ancora quarantenne, che sei anni fa, con un paio di colleghi, si è inventato il treesleeping, e lo ha anche brevettato. martina marzili è la sua compagna, la ‘cocciaia’, che cura la parte artistica e l'ospitalità, e con le sue sculture rende tutto ancora più magico. L'amore tra matteo e gli alberi nacque fre-

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CHE SONO DUE QUERCE

Testo di Lucia Zambelli Foto di Matteo Cortigiani e Lucia Zambelli


bastava: matteo voleva portare le persone a dormire sugli alberi. ‘il sonno è importante per le persone. ognuno ha le sue abitudini, i suoi riti. Piattaforme, case, piccoli villaggi sugli alberi ce ne sono tanti. ma è diverso. io volevo trasmettere la sensazione di essere appeso, sospeso e sorretto dall'albero, l'idea che è l'albero che ti tiene su’. Così è nato il treesleeping: matteo ha bre-

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quentando un corso di treeclimbing, le tecniche per muoversi sugli alberi in sicurezza, per fare tutti i lavori di manutenzione. ‘mentre mi aggiornavo e aumentavo la mia conoscenza degli alberi (è uno dei soci fondatori della Società italiana di arboricoltura) è scoppiato un amore viscerale’. Un amore che è andato sempre crescendo. ‘mi piaceva andare nelle scuole, fare la parte divulgativa del mio lavoro, far nascere e crescere una cultura diversa’. ma ancora non

vettato nome e marchio, si è dotato dell'attrezzatura necessaria, e dal 2009 all'estate scorsa ha coinvolto in quest'avventura circa cinquecento tra adulti e bambini. Nelle notti di primavera e d'estate Ettore e Teresa si trasformano in hotel a mille stelle, come piace dire a matteo. Dopo la cerimonia dell'imbracatura, ti arrampichi sulla tua postazione, ti infili nel sacco a pelo, e poi è proprio come dice lui... Diventi tutt'uno con l'albero, ti lasci cullare tra le sue braccia, re-


spiri insieme alle foglie, ti muovi con le fronde, ascolti i suoni della notte, ti incanti per il luccichìo del mare nel golfo. E sarà perché ci sei sopra, dentro, invece che sotto, ma cominci a considerare l'albero da una prospettiva diversa.

molto impattanti, strutture invasive e pesanti dal punto di vista architettonico. invece l'idea del treesleeping è leggera. E leggera vorrei che fosse anche la mia casa sull'albero’.

‘L'albero è l'unico essere vivente che nasce, cresce e muore nello stesso posto – ti dice matteo – Fa tutto quello che è necessario,

Fin troppo ovvio il richiamo al Barone rampante, considerata la vita ‘aerea’ di matteo. ma nonostante il suo vivere sospeso, passando di ramo in ramo, matteo è una persona molto concreta, ‘con i piedi per terra’. Che però coltiva più di un sogno. ‘Far diventare questa attività un lavoro vero e proprio, il mio unico lavoro. E costruirmi una casa sull'albero. Di solito le case sugli alberi sono

LuCia ZaMbELLi, 63 anni, fiorentina.Giornalista, si occupa da molti anni di salute e sanità. Non ha quasi mai scritto di viaggi, ma ama molto viaggiare, e considera il viaggio, la strada, l'essere in cammino, la dimensione che le è più congeniale. La sua qualità più spiccata, la resilienza, che l'ha salvata in molti frangenti. MattEo Cortigiani fiorentinodi 39 anni. Fin da piccolo passa le vacanze dagli zii vivaisti, e forse nasce da lì la sua passione per il verde. Istituto tecnico agrario, breve carriera universitaria, poi un corso di tree climbing e la creazione della ditta di giardinaggio e arboricoltura "arbor", tuttora aperta. Dalle attività divulgative nelle scuole nasce l'idea del treesleeping, attività avviata con due amici, ma che oggi continua da solo.

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ma non fa niente se non ce n'è bisogno: sarebbe un ottimo governante....’.


STORIE

DI CIBO

assaggi di street food palermitano, tra orrori gastronomici e viscere innominabili testo di irene russo foto di ornella Mazzola

IRENE RuSSO, 36 anni, siciliana, vive a reggio Emilia. è copywriter specializzata in storytelling e green marketing. ORNELLA MAzzOLA, 32 anni, siciliana di Capaci, vive a roma. Studi alla Sapienza di roma cinema documentario, fotografia e storia dell’arte. Collabora a repubblica Palemo.

IL SENSO DELLA FRATTAGLIA P

alermo è il banco di prova dei gastronauti tracotanti, pronti a sfidare la sorte in un corpo a corpo col cibo di strada. A preparare la scena c’è la stigghiola, riconoscibile a distanza per la nuvola di fumo che si ottiene gettando grasso sulla griglia, come richiamo per i clienti. Se si guardano i mozziconi di case bombardate, le esalazioni dense e la gente allegra, sembra che la seconda guerra mondiale sia finita ieri. Lo stigghiolaro intanto canta ‘Un mondo diverso...’, dimenticatosi del resto della canzone e della terra promessa dove crescere i nostri pensieri. Viene voglia di prendere Palermo a morsi, in ogni brandello di carne, fino all’ultimo quarto che ogni taglio ha scartato illudendosi di ricavare più vita dalle classiche bistecche

che da queste sculture di intestino sotto alla luce di una mattina di mercato.

Tra i venditori di panino con milza e polmone, c’è chi è partito dalla carrettella per arrivare al negozio, come i fratelli Favata di Porta Carbone. Quando la Cala era tutto un viavai di lavoratori del porto, la milza si comprava a un metro dal mare per mangiarla a colazione

alle prime luci dell’alba. Per gli acquisti al volo, una volta dall’auto scendevano soltanto gli uomini mentre le donne rimanevano chiuse ad aspettare. Col tempo le abitudini sono cambiate ma le pentole di rame durano decenni, se si ha l’accortezza di farle stagnare circa una volta al mese.

Rocky Basile ha già trecentomila visualizzazioni su YouTube, ma non per questo nega ai fotografi il ghigno western di chi conosce le regole del rione e del mestiere. Il Re della Vucciria, così lo chiamano, bazzicava da queste parti anche ai tempi in cui Guttuso aveva affittato un tavolo alla trattoria Shangai per studiare gli scorci del mercato: nella foto che tiene nel cassetto, macchiata dalle ditate di strutto, il giovane meusaro sta attaccato al pittore, fianco a fianco. Oggi accetterebbe volentieri un ruolo nel cinema, dopo Tano da morire


e una parte rifiutata perché gli toccava recitare il personaggio del pentito, una gloria difficile da spendere alla Vucciria. Nella verticale di oscenità in questo viaggio palermitano, l’apice è la frittola: scarti della macella-

Tra i banchi di Ballarò troviamo la quarume, o caldume, tutto quello che c’è nella pancia del vitello dal foiolo alla paiata al lampredotto. Più pezzi metti nella pentola e più gustosi ven-

gono, così il bollito di Gioè va a ruba sul posto e anche da asporto, un tripudio di sapori diversi per ogni porzione innominabile di un misterioso organo ruminante. Prima di andare via, l’importante è ricordarsi di chiedere di più, guardare l’ambulante e domandare senza remore: mi fai assaggiare un altro pezzettino? Chiedere ancora alla strada, un ultimo assaggio delle sue viscere, un altro frammento sacrificato al piacere insaziabile, come se non ci fosse nient’altro da mangiare una volta tornati a casa.

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zione del vitello prima liofilizzati e conservati (anche per anni), quindi fatti rinvenire friggendoli nello strutto. Chi la mangia, spesso preferisce restare all’oscuro di questi dettagli, così la reticenza diventa parte del piatto e non è dato guardare nel cesto del venditore: la pietanza è nascosta da uno straccio, sotto al quale il braccio nudo preleva ogni porzione affondandosi nella carne senza svelare nulla. L’avventore aspetta con la cartata in mano, due fogli di carta oleata.


INdIA I rItI cremAtorI deI mAhArAjA dI bUNdI

NON FIA RISTORO AI DÌ PERDUTI UN SASSO Testo di Silvia La Ferrara Foto di marco Baschieri


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anjit Sing, maharaja di Bundi - regione pittoresca sulle rive del fiume Chambal, nel rajasthan nordoccidentale, avviata proprio dal defunto maharaja a uno sfolgorante destino turistico – è morto l’8 gennaio 2010 a 71 anni ed è stato cremato come da tradizione, lasciando un grande vuoto, non solo in senso figurato. Le donne stanno a guardare il corteo di soli uomini che, preceduto dalla banda di fiati e percussioni, parte dal palazzo reale e tocca i luoghi cari in vita al defunto. La pira di legno di sandalo (più pregiato rispetto al mango usato per le pire delle persone comuni) e noci di cocco è stata innalzata nello shmashana, dove prima di lui sono stati cremati tutti i suoi predecessori secondo l’ormai noto e antico rituale. Che rende del tutto superflua e perciò assente l’invenzione occidentale dell’impresa di pompe funebri. a un funerale indù, persino a quello di un maharaja, non ci sono auto con il logo aziendale e non c’è pompa perché gli uomini che vi partecipano sono vestiti in maniera semplice e casual. il nero non è appropriato. Un parente stretto fa tre volte il giro della pira e la cosparge con acqua e ghee, cioè burro chiarificato, quello che viene usato da noi per friggere ad arte le cotolette.


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Sul punto esatto in cui sorge la pira, una volta raccolte le ceneri scure del legno e quelle bianche delle ossa da consegnare alle acque del Gange presso la città sacra di haridwar, sono gettati petali di fiori ed è allestito un baldacchino a indicare che lì verrà poi messa la lapide commemorativa. è l’unica cosa che assomigli a una sepoltura o a una memoria (nomi che hanno a che fare con il concetto di ‘seguire’ il morto per onorarlo o ricordarlo) che si può trovare qua. C’è una lastra scura per ogni cremazione di maharaja di Bundi, e c’è anche una specie di tombe, parola inquietante che ha la stessa radice TU(crescere) di ‘tumido’ e di ‘tumore’, un tumulo, un piccolo edifico rigonfio che in italiano potremmo chiamare ‘tempietto’ e che ricorda la cremazione dei maharaja più antichi. in questa parte del mondo non è mai venuto in mente a nessuno di abbinare alla morte il concetto di ‘luogo di riposo’ che sta alla base dell’etimologia della parola cimitero (il verbo greco koimân, dal quale viene il nostro koimetérion, significa ‘far addormentare’). in india la morte è una temporanea - e forse anche gradita - sospensione dell'attività fisica che serve all'anima per riorganizzarsi e iniziare un altro ciclo di vita. Perciò, come si sa, il corpo viene bruciato e le ceneri sparse in acqua o altri luoghi, in modo da permettere agli elementi che costituiscono l'anima di liberarsi. E quindi niente cimiteri, dato che non resta niente da far riposare.



Non è dunque eredità di affetti che spinge alla costruzione di questi sepolcri, né il bisogno di colloquiare con il cenere muto che qui non c’è. i monumenti funebri dei maharaja sono un antifoscoliano memoriale di liberazione. Da qui le grandi anime (se sei un maharaja è perché ti eri reincarnato in un ciclo di vita superiore) escono dai corpi e vanno a predisporsi per il seguito. Che ci sarà, poiché non involve tutte cose l’oblio nella sua notte.

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Tuttavia qualche problema sussiste. Secondo i dati del gruppo ambientalista indiano mokshda Green, ogni anno si cremano sui roghi circa 10 milioni di salme per un totale di circa 50 milioni di alberi abbattuti. Per non dire delle 500 tonnellate di ceneri riversate nei corsi d’acqua e degli 8 milioni di tonnellate di anidride carbonica liberate nell’atmosfera. Così l’ingegnere Vinod Kumar agarwal ha messo a punto una pira ecologica, strutturata come un caminetto, che favorisce una combustione più rapida ed efficace. Significativa la limitazione dell’impatto ambientale, in quanto la pira-caminetto utilizza meno di 100 kg di legna contro gli oltre 400 del procedimento classico. Perché meno greve sia il sospiro che dal tumulo a noi manda Natura.

MarCo baSCHiEri, 49 anni, viaggia durante l'inverno tra Sud Est Asiatico, India e Centro America e per il restante tempo vive e prospera a Cavriago (Re). Fotografa per passione e piacere. Bevitore di Lambrusco e lanciatore di coltelli, ha molta cura dei suoi baffi.


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STORIE

DI POETI

GIULIANA ZIMEI

LA POETESSA DI PITIGLIANO

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Testo e foto di arturo Valle

n piccolo cartello bianco accanto a una porta della Fratta, strada antica di Pitigliano, splendido paese della Maremma dei tufi. Vi è scritto: ‘Libera visita’. E poi poesie scritte su foglietti appese alla porta della cantina. Allora, si può bussare, entrare in una piccola casa (tre minuscole stanze in successione, finestra sul fondo che si affaccia sui canyon del tufo) e conoscere Giuliana Zimei.

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Nel 1956 la famiglia di Giuliana lasciò il paese. Il padre aveva trovato lavoro a Roma: portiere in un palazzo dei ‘signori’. Lei, allora, aveva 19 anni: ‘Mio padre indossava una divisa, ma io mi sentivo fuori posto. Lavoravo da sarta. È come se avessi vissuto dieci anni in prigione’. A 29 anni, Giuliana trova il coraggio di andarsene e di tornare a vivere in Maremma. Una cugina ha un piccolo negozio alla Marsiliana, un gruppo di case nella piana verso il mare. Per Giuliana è la libertà. Ritrova l’aria aperta. È quasi una ribellione. E qui conosce suo marito. Si sposa con un contadino.

Racconta Giuliana: ‘Una volta chiesi a mio marito come era andata con i pomodori e lui mi rispose che non erano fatti miei. A me toccava lavare i piatti, a lui gli interessi’. Per altri trentacinque anni, Giuliana non ha più rivolto una solo domanda al marito. Sono nati due figli. A loro volta

si sono sposati. Giuliana, alla fine, ottiene una pensione. E se ne va ancora una volta. È il 2001, ha 65 anni. Decide che è tempo di cambiare vita. E ritrovare, una volta di più, la libertà perduta. ‘Ho lasciato mio marito e sono tornata a Pitigliano, al mio paese. Non sono stata felice della separazione, io ho fede, ma è stata una resurrezione. Avevo la casa dei miei genitori. L’ho venduta, ho comprato questa. Ero tranquilla, senza orari, di nuovo libera, sola. Finalmente, il silenzio’.


di un bustino. Utilizzava piattini e monete per i cerchi. Faceva un puntino e da lì partiva. Dipingeva, Giuliana. Adesso, a 78 anni, non può più farlo: il medico è preoccupato per la stanchezza dei suoi occhi. Cammina con

immagini delle arcate dell’acquedotto. ‘La prospettiva è perfetta’, le spiegarono. ‘Io non so cosa sia la prospettiva’, rispose.

difficoltà. Ma scriveva, Giuliana. E, questo sì, scrive ancora. Senza sosta. Scrive i pensieri che le passano accanto. Scrive poesie. Cerca rime, a volte le lascia perdere. Racconta, Giuliana. Della trasformazione del suo paese, della neve caduta quest’anno, di quanto accade nella sua strada.

Quando la conobbi la prima volta, Giuliana possedeva una penna nera e una rossa. Disegnava reticoli di linee, incrocio di cerchi, geometrie intricate e semplici. Tratti ingenui e belli. Usava un righello ricavato dalla stecca

Telefona ai figli, ogni giorno, e loro battono a com-

puter le parole dei suoi versi. Anni fa, un piccolo editore di Pitigliano si accorse di questa singolare pittrice e poetessa. È matto e coraggioso, quell’editore. E ha storia alle spalle. Una storia anarchica, solitaria, orgogliosa. Un carattere tosto. Si chiama Marcello Baraghini, fondatore di Stampa Alternativa. Le poesie di Giuliana diventarono libro. David De Carolis, fotografo milanese, ne scrisse uno su di lei: ‘Seconda Vita’. Accadde anche che questo libro, una volta, venga presentato assieme a un libro di Gary Snyder, profeta del beat americano. La poetessa di Pitigliano e il cantore di Big Sur. Maremma e California. Anche il vescovo e il sindaco si accorsero di lei. A suo modo, Giuliana, ‘scrittrice analfabeta’, come la definisce Baraghini, diventò famosa. Poche settimane fa, l’ho ritrovata seduta davanti alla porta della sua casa nella Fratta. Giuliana mi ha letto le sue ultime poesie, i suoi quadretti sono appesi nello stretto corridoio. Sopra la cucina a legna cuociono le lenticchie. arturo vaLLE, avvocato pugliese, 35 anni, vive a Bologna. Appena può, e anche quando non può, lascia i tribunali e cerca di andare in giro. Questa volta ha incontrato una donna davanti alla porta di casa in un paese della Maremma toscana. è entrato nella sua casa e ha ascoltaro poesie.

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Da ragazza, alla scuola professionale, Giuliana era brava in disegno e in italiano. Un giorno si mise sul belvedere che dà sulla meraviglia di Pitigliano con un foglio e una penna. Dipinse due piccoli quadretti. Due


oroSCoPo Di PrimaVEra

La scuola, si sa, divide il sapere in discipline e quindi l’oroscopo questa volta si adegua e propone la sua lettura delle stelle attraverso le varie materie scolastiche. il consiglio di stagione è legato a uno degli strumenti usati in classe, da utilizzare sia in senso fisico che in senso metaforico.

ariETE

21 marzo -19 aprile Hai sempre pensato che un giorno si potrebbe scoprire che due più due non sempre fa quattro. E’ arrivato il momento in cui puoi uscire da schemi preordinati e dimostrare a te stesso e al mondo che esiste una fantasia che va oltre qualsiasi logica matematica. Si tratta di osare e di correre il rischio di avere qualcuno contro, sei disposto a farlo? Strumento di stagione: Cimosa

Toro

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20 aprile -20 maggio Cogito ergo sum. Sembra che tutta le filosofia si basi su queste poche parole. E se invece si modificasse l’ordine trasformandolo in Sum ergo cogito quante altre possibilità si potrebbero aprire? Sum ergo… tocca a te inventare nuove consequenzialità al tuo essere, le stelle ti suggeriscono: sperimenta più che puoi! 138 Strumento di stagione: Riga e squadra

GEmELLi

21 maggio -20 Giugno The book is on the table, the cat is under the chair. And where are you? Dove sei adesso caro Gemelli, come potresti descrivere questo periodo della tua vita? La parola inglese Terrific a noi suona brutta, ma in realtà significa Fantastico, non è che il periodo che stai passando e più terrific che terribile e te non te stai accorgendo tutto preso dall’osservare troppo te stesso? Strumento di stagione: Lavagna

CaNCro

21 Giugno – 22 Luglio Paragonando un atlante del mondo antico con uno di oggi troviamo tantissime differenze, ma in realtà il mondo è sempre quello, è solo la sua rappresentazione che è cambiata. Qualcuno un giorno ha detto che la mappa non è il territorio, è arrivato il momento per te di scegliere a cosa vuoi dare più attenzione, alla descrizione o alla realtà? La risposta non è così ovvia come si potrebbe immaginare, pensaci bene, ogni scelta ha le sue conseguenze, anche il non scegliere! Strumento di stagione: gesso

LEoNE

23 Luglio - 22 agosto Ciò che odiamo di più quando studiamo la storia a scuola è imparare le date, perché ci sembra non abbia alcun senso. Nel crescere poi ci rendiamo conto dell’importanza di sapere inserire i fatti nei loro periodi storici per dare un senso a ciò che accade. Per evitare i corsi e ricorsi potresti dare una logica anche a ciò che è accaduto fin’ora nella tua vita. Costruisci una time line solo di avvenimenti positivi, vedrai ch esono più di quanto ti immagini. Strumento di stagione: gomma

VErGiNE

23 agosto - 22 Settembre L’esercizio fisico mantiene in buona salute, ma va fatto e non solo guardato in televisione. La Primavera che sta arrivando ti proporrà una serie di occasioni per risvegliare il tuo corpo. Gli astri ti consigliano di non prenderle alla leggera, buttati ma sii preparato, uscendo più spesso dalla città potrebbero accadere incontri che ti cambieranno la vita. Strumento di stagione: quaderno


CaPriCorNo

23 settembre - 22 ottobre Da chimico un giorno avevo il potere, di sposar gli elementi e di farli reagire… Così cantava De Andrè prendendo spunto da Edgar Lee Master. Ci sono elementi della tua vita che sono rimasti single per troppo tempo, falli sposare e attiva le reazioni chimiche necessarie per infondere nuovo coraggio e voglia di osare. E’ il momento giusto. Strumento di stagione: libro di testo

SCorPioNE

23 ottobre - 21 novembre Ci sono molte cose della fisica quantistica che sono inspiegabili e incomprensibili. Eppure esistono. Anche nella tua vita esistono cose che non riesci a spiegare agli altri, e a volte neanche a te stesso. I prossimi mesi riuscirai a fare più chiarezza e a comprendere il senso di alcuni tuoi atteggiamenti. E come le particelle che cambiano forma se solo osservate, anche qualche tuo modo di fare scomodo potrebbe sparire non appena ci farai attenzione. Strumento di stagione: compasso

SaGiTTario

22 novembre – 21 dicembre Il disegno è la prima modalità dei bambini per raccontare come vedono il loro mondo. Senza freni né inibizioni sono capaci di rappresentare la loro realtà così com’è. Crescendo ci insegnano la tecnica, la prospettiva, il chiaro scuro e perdiamo l’innocenza di base. Si sta avvicinando un periodo in cui potrai ritornare a essere bambino e a vedere il mondo con occhi nuovi, comprati delle matite e vai a colorare il mondo! Strumento di stagione: pennarelli

aCQUario

20 gennaio- 18 febbraio La lingua italiana è fatta di regole precise che, se ben applicate, ci permettono di esprimere in maniera precisa ogni nostro pensiero o sentimento. Grandi poeti l’hanno utilizzata per questo scopo, creando opere d’arte famose in tutto il mondo. Anche dentro di te ci sono parole che premono per uscire, perché non vogliono più restare impigliate nei meandri della mente. Non ti frenare, metti solo un po’ di ordine nei tuoi pensieri e poi inizia ad esprimerti, sia in rima che in prosa, farai un dono a te stesso e a chi ti sta vicino. Strumento di stagione: cattedra

PESCi

19 febbraio - 20 marzo La conoscenza musicale passa raramente dalle scuole, dove al massimo ci insegnano a suonare uno strumento. Ma nessuno ci fa fare esperienza del rumore che fa una foglia che cade, un fiore che sboccia o un fiocco di neve che si scioglie. Sono rumori lievi, quasi impercettibili, ma queste azioni sono fondamentali per il ciclo della vita. Prenditi il tempo di ascoltare ogni minimo rumore, affina la tua attenzione, e i prossimi mesi assumeranno un 139 aspetto diverso. Consiglio di stagione: astuccio.

LEtiZia SgaLaMbro 52 anni, sagittario, counselor ed esperta di processi formativi. Crede che per ognuno sia già scritto il punto più alto dove possiamo arrivare in questa vita, e che il nostro libero arbitrio ci fa scegliere se raggiungere quel traguardo o meno. L'oroscopo? Uno strumento come altri per illuminare la strada.

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BiLaNCia

22 Dicembre -19 Gennaio Un tempo alle scuole medie si studiava Educazione Civica, ovvero quali sono le leggi che regolano il nostro stare insieme come comunità. Ormai sembra che non vada più tanto di monda ma per te, caro capricorno, il rispetto è invece molto importante. Ben presto ti troverai a fare una scelta che potrebbe metterti molto in crisi su questo tema, ti consiglio di rivedere la tua scala di valori per essere sicuro di non fare errori. Strumento di stagione: matita


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