ERODOTO108 15 • ESTATE 2016
Sommario 4 editoriale 6 Le foto che farete S t o r i e
p e r
l’ e S tat e
12 ‘NoN ho tempo’ racconto di andrea Bocconi, illustrazione di Elisa Pellacani 14 il pavoNe paupula favola di antonella Bukovaz, illustrazione di antonio mirizzi 16 il marabutto visione di Giorgio Chiavegato, illustrazione di Enrico Pierpaoli 18 il palloNe volo di Egle riganti, illustrazione di Giuseppe Palumbo 19 la madoNNa dei palloNciNi preghiera di Silvia La Ferrara, illustrazione di arianna Farricella 22 ottobre rosso, Winzavod, art Play, viaggio attraverso le art factory di mosca Zero darK mocKba foto di Davide Palmisano, testo di Simonetta Sandri 42 Torna il famoso festival nel deserto del Nevada: attese 70.000 persone, tra polemiche e sogni di libertà. burNiNg leoNardo’S maN foto di Dario Battini, testo di Silvia La Ferrara 54 NoN SToriE Di DoNNE FoToGraFE iNcoNtro, iN uNa camera d’albergo, coN letiZia battaglia testo e foto di Cinzia Canneri a r l e S 60 ‘Quest’anno torno ai rencontres’ veNt’aNNi SeNZa aNdare ad arleS ricordo e promessa di Vittore Buzzi, foto di andrea Semplici 68 il momento dorato è passato il fotografo diStratto testo di irene russo, foto di alessandra Calò 74 Sulle orme di Vincent l’oSSeSSioNe del colore giallo testo e foto di maria Di Pietro
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80 UNa FoTo UNa SToria doppio ruolo a SaliSburgo testo e foto di Carlo midollini e maria Grazia Dainelli
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ERODOTO108 • Fondatore Marco Turini • Direttore responsabile Andrea Semplici • Redazione Giovanni Breschi, Vittore Buzzi, Valentina Cabiale, Francesca Cappelli, Massimo D’Amato, Silvia La Ferrara, Isabella Mancini, Andrea Semplici, Letizia Sgalambro, Marco Turini • Designer Giovanni Breschi • Web designer Allegra Adani
In copertina: Arles, foto di Andrea Semplici
Registrata al Tribunale di Firenze Stampa Periodica al n.5738 il 28/09/2009
m u S i c a GLi oCChi Di EroDoTo Colloquio con Federico maria Sardelli ‘iN equilibrio fra vivaldi e il verNacoliere’ intervista di Claudio Di Benedetto 94 alle origini del jazz e del blues SiNcopi migraNti testo di Fabio artoni, foto di mario Di Bari 98 il popolo dei gregoriaNi testo di Luana Salvarani, foto di andrea Semplici 104 La cucina e il rock la cuoca di freddie mercury testo e foto di Fabio Folicardi 122 SToriE Di CiBo Le cucine degli ebrei il cibo del paeNtateuco testo e foto di Carla reschia 124 SToriE Di PoESia haydee Valencia cominciò a scrivere poemas per un’assenza uN altro guardare testo e foto di andrea Semplici g l i
a r t i g l i
d e l
p o l l o
128 Periferia di Sagada, isola di Luzon: i galli si preparano a combattere filipiNo cocK bop testo di Nazim Comunale, foto di marco Baschieri 132 Dal gallodromo dei Tudor alle arene thai batterSi per uNa galliNa testo di Stefano Brambilla, foto di andrea Semplici e Daniela Silvestri 136 SToriE Di LiBri la biblioteca dei coNtadiNi testo e foto di alberto Bile 138 SToriE Di CimiTEri il cimitero monumentale di milano la città dei morti, la città dei vivi testo e foto di marco ragaini 140 oroscopo di Letizia Sgalambro
EDiToriaLE
Personalizzazione di un editoriale
Adesso posso confessarlo: sono salito sulla barchetta (fragile, quasi invisibile all’orizzonte, sempre sull’orlo del naufragio e sempre a vele spiegate) di Erodoto108 solo per arrivare al numero 15 di questa non-rivista. Perché, in queste pagine (virtuali, purtroppo), si avvera uno dei miei desideri irrivelabili. Per anni e anni, ho scritto attorno alle foto di altri. Articoli, post, racconti e raccontini, prefazioni a libri di fotografi. A volte l’ho fatto con felicità e convinzione (ultimi esempi? Ethiopia di Marco Paoli e Ludovicu di Mariano Silletti: mi sono piaciute le storie, il modo di fotografare, la capacità di raccontare e allora ho aggiunto le parole…), altre volte perché mi pagavano, altre ancora perché mi hanno legato mani e piedi e costretto a farlo. Altra confessione: avrei voluto essere io il fotografo, ho provato mille volte invidia (questo ve l’ho già detto) e senso d’inadeguatezza. Dopo questo numero, finalmente, posso morire contento: si inverte il gioco delle parti, un fotografo, un grande, uno di quelli dai quali vorrei imparare e che non vuole essermi maestro, scrive attorno alle mie foto. È un miracolo, anche perché queste foto sono di Arles, dei Rencontres des Arles, il più intrigante fra i festival di fotografia europei. Insomma, un non-fotografo, cioè io, fotografa le fotografie dei più celebri fotografi del mondo e un altro fotografo, Vittore Buzzi, scrive dieci righe (non è che si sia sprecato molto: dice che non posso licenziarlo) prima delle mie foto. Ecco, istante di orgoglio. E ora ho anche la spudoratezza di scriverlo in un editoriale. Altrimenti perché proverei a fare il non-direttore di una non-rivista (si sa, due negazioni…). Ora so perché l’ho fatto.
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E, quindi, posso anche smettere. Ci sono altre persone che hanno voglia e passione e sapere per prendere in mano questa rivista. Penso alla gente di via Roma a Reggio Emilia (gente che organizza non-festival, ha a che fare con osterie e con stravaganti ribellioni) e ai fotografi (anche loro scrivono poco, ma vincono World Press Photo) del collettivo Wsp di Roma. Adesso, sappiatelo, abbiamo due nuove non-redazioni: a Reggio Emilia e Roma, appunto. Erodoto108 avrà un futuro. Confuso, ma futuro sarà. A patto che i fotografi sappiano impugnare anche una penna, fosse solo per una didascalia che deve essere ben scritta. Altrimenti che racconto è. Fine del frammento editoriale personalizzato.
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Devo dirvi che questo numero 15 è altrettanto confuso. Abbiamo deciso (per stanchezza, per impossibilità, per assenza di soldi) di non fare un dossier centrale, di non seguire un filo conduttore che non avevamo. Non avevamo fiato per costruirlo. E, alla fine, ci siamo dispersi in tre, quattro, cinque storie diverse fra di loro. Ci siamo accorti di avere, in cassaforte, una decina di racconti che, nei mesi, amici e collaboratori ci avevano spedito: bene, li abbiamo raccolti attorno alla storia che ci ha donato Andrea Bocconi, scrittore e schermitore. Un racconto intenso sull’ultima notte del matematico ventenne Evariste Galois, la notte prima del duello. Abbiamo chiesto
a disegnatori di aiutarci a illustrarli e Giuseppe Palumbo, uno dei migliori in Italia, ha chiamato a raccolta i suoi allievi dei corsi di fumetto.
E poi Davide Palmisano e Silvia La Ferrara ci portano ai due lati del mondo: a Mosca, in una Mosca che non immaginiamo, una Mosca notturna e alla ricerca di storie d’arte, e, all’opposto, ci spingiamo fino ai deserti del Nevada, dove l’arte e la musica diventano frammenti di pochi giorni per poi svanire nelle sabbie nordamericane. Sono i due reportage con i quali si apre la non-rivista.
E poi abbiamo tirato troppi fili: uno di questi ci ha condotto ad Arles, città di Van Gogh e della fotografia, cittadina-meraviglia del Midi francese. Avevamo voglia di dirvi: andateci, andate a vedere, questa estate, le sue mostre fotografiche. Meritano il viaggio, i soldi che spenderete, i chilometri. Arles apre l’anima e fa intravedere nuovi orizzonti possibili. È un viaggio d’iniziazione per chi fa il fotografo e per chi non lo fa. Grazie a Irene Russo, Alessandra Calò e Maria Di Pietro che ci hanno portato fino alle vie antiche di Arles. Grazie a Fabio Artoni, a Luana Salvarani, a Federico Maria Sardelli (intervistato da Claudio Di Benedetto), a Fabio Folicaldi che provano a svelarci il mistero della musica. Il jazz, il blues, il gregoriano, Fred Mercury e Vivaldi: bussole per proseguire un grande viaggio in qualcosa che dà senso e gioia alla vita.
Infine, i due articoli che ci hanno messo in difficoltà. Siamo scesi in due piccole arene circolari, due cerchi di violenza e sangue, dove i polli tirano fuori artigli, armati da uomini sovraeccitati. A volta ci scopriamo moralisti e di questa storia, all’inizio, non volevamo saperne. Poi Nazim Comunale e Marco Baschieri ci hanno convinto: con le loro foto e con il loro modo di scrivere. E allora abbiamo chiesto a Stefano Brambilla, naturalista e giornalista, di raccontarci anche il punto di vista dei polli. Starà a voi giudicare e a farci sapere.
E poi Alberto Bile ci fa conoscere librerie colombiane, Marco Ragaini passeggia nel grande cimitero monumentale di Milano, Carla Reschia cucina per noi cibi ebraici, Fabio De Paoli, grande disegnatore fiorentino, ci insegna a stare in equilibrio sul filo di una storia fragile e bellissima (la racconta la nostra Valentina Cabiale), Carlo Midollini e Maria Grazia Dainelli, fotografi anch’essi di Firenze, hanno occhi per quanto, di sorprendente, accade a un angolo di Salisburgo.
Posso chiedervi di fermarvi solo un momento? A pagina 122, Haydee Valencia, poeta di El Salvador, ci insegna un altro modo di guardare. Fermatevi davvero, leggete quelle due piccole pagine. Noi di Erodoto vorremmo esserne capaci: guardare in altro modo… A.S.
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le foto che farete
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San Severino Lucano madonna del Pollino, agosto foto di antonio mancuso
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le foto che farete
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Camogli, agosto sul mare foto di andrea Semplici
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le foto che farete
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Black rock Desert, Nevada Burning man 28 agosto/5 settembre foto di dario battini
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storie per
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l’estate
illustrazione di Guido Scarabottolo
racconto di andrea Bocconi illustrazione di Elisa Pellacani
‘NON HO TEMPO’
Evariste Galois era un genio matematico e aveva una bella fidanzata. L’Altro lo attirò in una trappola: lo provocò fino a farsi sfidare a duello. Sapeva che avrebbe vinto. Evariste aveva venti anni e passò la notte prima del duello a scrivere furiosamente le sue teorie. Di notte
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Cosa si pensa la notte prima del duello, quando si dormirà – se si dormirà – abbracciati alla morte, e non sappiamo se ci è amica o nemica? E come la vogliamo passare questa notte? Facendo l’amore con una donna che frena le lacrime e spera di restare incinta? Pregando? Studiando la strategia per uccidere l’altro? Ripensando a ciò che non si è fatto, a ciò che non si è detto? Scrivendo il testamento, anche se si è un povero studente? Evariste Galois, precocissimo genio matematico, allievo del grande Poincarè, rivoluzionario, aveva le sue idee, originali sempre, difficili da capire spesso: volle lasciare un testamento scientifico e passò la notte a scrivere teorie matematiche, cercando di fissare
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AndreA Bocconi 65 anni, lucchese, vive nelle campagne aretine. Sa di parole e di duelli. A dieci anni cominciò a tirare di scherma e non ha mai smesso. Nella vita fa lo psicoterapeuta. E poi scrive. Sui labirinti della mente e sul viaggiare: con Guanda ha pubblicato, fra l’altro: “Viaggiare e non partire” (2002), “Di buon passo” (2007), “In viaggio con l'asino” (2009), “L'India formato famiglia" (2011). Presso Trasciatti, “La mente e oltre. Scritti di psicosintesi” (2011). è responsabile dei laboratori di scrittura creativa della Scuola del Viaggio (www.scuoladelviaggio.it ) elisA PellAcAni di Reggio Emilia, 40 anni, ha cominciato a disegnare da bambina e non ha più smesso. Realizza libri d'artista e gioielli, esposti in gallerie a Barcellona, sua città d'adozione, organizza da dieci anni con l'associazione ILDE il ‘Festival del libro d'artista e della piccola edizione’.
per sempre le sue intuizioni, furiosamente. Nelle foga scrisse: ‘salto la dimostrazione, perché non c’è tempo’. Del suo avversario non diremo il nome, che d’altronde nessuno ricorda; lo chiameremo ‘l’Altro’. Aveva attirato Evariste in una trappola, provocandolo fino a farsi sfidare. La vera ragione? Politica, ma anche la bella fidanzata di lui non gli era indifferente: da sfidato aveva la scelta dell’arma e, valente spadaccino, non aveva esitato a prendersi il vantaggio che gli assicurava la vittoria. Era fortissimo in parata, aveva gambe veloci e un polso così potente che con un trasporto da terza in prima aveva disarmato più di un avversario: un colpo spettacolare che gli permetteva il gusto dell’umiliazione dell’altro, mentre magnanimo gli concedeva la vita.
Al mattino
Faceva freddo, una nebbia bassa inumidiva tutto. Fallito il tentativo di conciliazione, i padrini si disposero sul campo, pronti ad arrestare il duello, che era ‘al primo sangue’, appena uno dei due fosse stato ferito Non fecero in tempo: all’A Voi!, Evariste si avventò come un cavallo imbizzarrito, più che come uno schermitore. L’altro indietreggiò scomposto, quasi scivolò. Per non cadere dovette mettere la mano a terra. I padrini si misero in mezzo: peccato, se lo avesse anche solo graffiato in quell’attacco, sarebbe finita lì. Invece l’Altro si fermò, prese il suo tempo per ripulirsi, pensò e cambiò strategia. Alla ripresa cominciò a fintare attacchi: avanzava prendendo l’iniziativa, poi si fermava minacciando il bersaglio col braccio disteso. Evariste non ebbe voglia di giocare a gatto e topo e attaccò di nuovo, mulinando il braccio per scostare la lama, ma era come acchiappare la mosca con le mani. L’altro andava a nozze con quei movimenti larghi, e svincolava abilmente il ferro: avanzò col braccio disteso ed Evariste, invece di parare, attaccò, con un’irruenza che cercava la
corteccia di un grande albero. Il tuo odio è il mio onore’.
Epilogo
Il sole schiariva i colori, era già mezzogiorno e passavano le mamme con le carrozzine, i bambini si rincorrevano sul prato e di certo non sapevano che proprio lì, all’alba, c’era stato un duello mortale. Tutto sembrava mai accaduto. Così morì a vent’anni Evariste Galois, genio matematico. Era un giorno di primavera del 1822. Le sue teorie vennero sviluppate da Camille Jordan solo nel 1870.
morte. Si fermò di colpo, con la lama nel petto, stordito come uno che sbatte in uno spigolo, di notte. Il sangue gli fiorì sulla camicia, l’altro guardava la spada come se gli fosse sfuggita, neppure riusciva a ritirarla fuori.
Dopo il duello
‘La nebbia è anche più spessa di prima’, disse l’uomo che spingeva la carriola sul prato, con una certa fatica: dentro c’era un cadavere che gli somigliava molto, con la camicia intrisa di sangue. Lo fermò l’Altro e gli puntò una spada insanguinata: ‘Te la sei voluta. Potevi cavartela con una ferita al braccio e invece mi hai mangiato la spada con il petto. Stupido morto, hai fatto di me un assassino. Sarò sincero: vederti cadavere è un piacere che durerà nel tempo. La lama che ti ha ucciso io non la pulirò. Sfiorerò con il dito il sangue raggrumato e sarà dolce come sfiorare i capezzoli della tua donna’. Poiché il cadavere non rispondeva fu l’uomo che spingeva la carriola a prenderne le difese: ‘Fai bene a coltivare in anticipo la memoria di me, perché non hai vita tua , sei un solo un parassita, un fungo che cresce sulla
la spada di evariste. che era una pistola Nel libro Il duello di Joseph Conrad, dal quale ridley Scott ha tratto il film I duellanti, i protagonisti si sfidano ben sette volte con armi diverse: spada, sciabola e pistola. La storia è ambientata nell’Europa napoleonica, giusto all’epoca in cui i duelli con armi da sparo iniziano a diventare sempre più popolari e il signor Colt – quello che ha reso gli uomini uguali dopo che Dio si era limitato a crearli – brevetta il revolver che porta il suo nome. È in questo mondo che vive e muore Evariste Galois, colpito da un proiettile all'addome, causa della peritonite che lo uccide il giorno seguente all'ospedale parigino di Cochin. La fine tragica e prematura unita all’incomprensione del suo genio da parte dei contemporanei e alle posizioni politiche radicalmente repubblicane fanno di Evariste un vero eroe romantico. E forse per questo andrea Bocconi ha immaginato la sua morte in un duello di spada, la più poetica tra le armi. o per sganciare Evariste dalla schiera di giovani illustri, morti di pistola in duello nel corso dell’ottocento: se nel 1820 Tolstoj aveva vinto undici scontri consecutivi contro ufficiali dell’esercito, è anche vero che la stessa sorte di Galois toccherà nel 1837 a Puškin (38 anni) e nel 1841 a Lermontov (27 anni). E nell’elenco avrebbe potuto finirci anche Proust, che nel 1897 sfidò il giornalista Jean Lorrain per una recensione negativa e se la cavò con due colpi esplosi a vuoto. ovviamente pure nei due film sulla vita del precoce genio matematico (Evariste Galois di alexandre astruc, del 1967 e Non ho tempo di ansano Giannarelli, del 1973) si spara e insomma nessuno aveva ancora osato tanto: qui si consacra il mito di Evariste che lascia la vita con la lama nel petto, stordito come uno che sbatte in uno spigolo, di notte. 15
favola di antonella Bukovaz illustrazione di antonio mirizzi
IL PAVONE PAUPULA
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Il gigante si alzò e la sua ombra allungandosi mi raggiunse come una notte di luna piena nel bel mezzo del pomeriggio. Rimase fermo in mezzo alla valle a fare da campanile, torreggiando sui tetti delle case lontane, ben al di sopra del tiglio centenario e stanco della piazza. Ai suoi piedi baluginava, colato tra i fili d'erba, il suo seme. Un piccolo lago argentato e colloso. Durante il riposo pomeridiano gli accadevano sempre più spesso episodi di polluzione di cui non si curava. I giganti sono completamente ignari di tutto ciò che riguarda le funzioni genitali, la riproduzione, le arti amatorie, l'erotismo e tutto quel mondo d’istinti sessuali che noi potremmo riconoscere come tali. Ai bordi della pozza perlacea si notava già un leggero brulichio. L'erba e le piante vagabonde a contatto con il liquido spermatico del gigante innescano nuove astuzie biologiche e il loro meccanismo evolutivo dimostra un'intelligenza rigenerativa sorprendente. Nutrendosi del seme del gigante sviluppano immediatamente una stravaganza vegetale che marchia le loro cellule ed entra a far parte della catena alimentare e di quella evolutiva. Oltre agli
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sporadici e inquietanti rapporti con le rarissime gigantesse, questo è ormai divenuto il loro più probabile, sebbene inconsapevole, atto riproduttivo: la memoria cellulare di tutti gli esseri del Giardino Planetario, noi compresi, può prevaricare altri aspetti e generare, casualmente, un gigante. Così la riproduzione avviene per rigenerazione. Questo per il semplice fatto che i giganti nascono piccolissimi e da qualsiasi essere vivente e crescono molto velocemente tra le pieghe e gli imprevisti dell'evoluzione. La natura li accoglie, sor-
presa di se stessa e delle sue sproporzioni.
Il gigante si girò e si diresse ciondolando verso le colline dove amava stanare gli animali e giocarci. Li catturava mentre cercavano disperatamente di nascondersi e li lanciava in aria e li riprendeva al volo mentre quelli squittivano, ululavano, grugnivano, starnazzavano, rugliavano, bramivano e rantegavano. Al piacere del gioco univa un certo qual senso musicale perché li lanciava decidendo il ritmo e il verso, componendo così una partitura dall'impasto sinfonico decisamente bestiale e grottesco, ma preciso. Ogni tanto qualche animale sfuggiva alla presa e precipitava sfracellandosi al suolo creando delle dissonanze nella composizione, il che ren-
deva tutto molto sperimentale e contemporaneo. Gli animali che riuscivano a sfuggire al gioco o che miracolosamente si salvavano da un volo, si nascondevano nel fondo del bosco pensando di essere così al sicuro. Il gigante però aveva una vista acutissima, sebbene virasse al verde, e li stanava facilmente anche perché pensava giocassero a nascondino. Proprio a causa della qualità della sua vista, si diceva fosse un discendente di Argo, mostro gigantesco della mitologia greca, fornito di centinaia di occhi,
Sembravano avere memoria del tempo in cui Argo, posto a guardia di Io, si addormentò per arte di Ermes che, sguainata la spada gli taglio la testa, gli cavò gli occhi e liberò così la fanciulla Io. Hera, in memoria del suo fedele gigante Argo che tutto vedeva, ne innestò gli occhi sulla coda degli uccelli divini che trainavano il suo carro: i pavoni, che incarnarono da quel momento il coraggio, la resistenza, l'immortalità, il sacro della visione. Il nostro gigante sorrideva inebetito alla vista di tutti quegli occhi, come ne fosse ipnotizzato. Come se da un lontanissimo passato qualcosa lo chiamasse.
La sera si addormentava nei pressi della fattoria e i pavoni lo vegliavano a turno. Nel sonno il gigante vibrava e ogni tanto un brivido più violento lo scuoteva fino a svegliarlo. Allora si girava sull'altro fianco sospirando e tirando su col naso e cercava al più presto di tornare al sogno in cui volava roteando, mentre le scapolone sulla schiena sussultavano come ali tarpate. Anche il pavone sul colmo del muro che vegliava nella notte sul sonno del gigante, baratterebbe la sua magnifica e paradisiaca coda cosparsa d'occhi, per un battito d'ali.
che mai dorme e che tutto vede.
Gli unici animali con cui il gigante non osava giocare e verso i quali aveva una sorta di timore reverenziale erano i pavoni che zampettavano nella corte della fattoria dietro le colline. A volte rimaneva per ore a guardarli. Fantasticava di lanciarli in aria uno dietro l'altro mentre aprono la ruota, come girandole di smeraldo. Ogni tanto questo desiderio lo faceva ululare allora partiva di corsa a gran falcate intorno alle colline, facendo tremare le case e sussultare i boschi come si trattasse di un terremoto. I pavoni rimanevano impassibili. Unico movimento, lo sventolio leggero delle barbe delle penne. A differenza del gigante, loro erano molto consapevoli.
*Le favole non si spiegano. Ma a volte una parola può essere utile: cosa fanno i pavoni quando emettono il loro verso? Ebbene sì, in un latino tardo, i pavoni “paupalano”.
Questo racconto è apparso su 'La valigia carta da zucchero'. quaderno fotografico di Maria Silvano, a tiratura limitata del maggio 2015.
aNtoNella buKovaZ, 53 anni, di Topolò-Topolove, borgo sul confine italo-sloveno, nelle valli del Natisone dove ogni estate si tiene un festival che tocca vari campi dell’arte e della comunicazione. Dal 2005 si dedica alla poesia e alle interazioni tra parola, suono e immagine in forma di lettura, videopoesia e videoaudio-installazione. ha vinto il Premio antonio Delfini 2009 e pubblicato su riviste web e cartacee (il Verri, alfabeta, Pensiero), presso Le Lettere, Ellerani editore e nell’antologia Einaudi Nuovi poeti italiani 6. insegna, in lingua slovena, nella scuola bilingue di San Pietro al Natisone. aNtoNio miriZZi, 20 anni, pugliese di altamura. Studia Lettere a Bologna, ma vuole diventare autore di fumetti e allora segue i corsi della scuola di fumetto PGm, sempre a Bologna.
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visione di Giorgio Chiavegato illustrazione di Enrico Pierpaoli
IL MARABUTTO
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Era uscito all'improvviso da dietro il muro del santuario di Amon-Ra e si stagliava controluce nel primo chiarore dell'alba, il verde del palmeto alle sue spalle. Sotto la djellaba color sabbia si indovinava un corpo magro, stanco per i tanti anni, ma ancora forte. Sulla testa uno straccio arrotolato dello stesso colore della veste, il viso cotto dal sole su cui si indovinavano brillare due occhi neri, scuri come la notte del deserto. Il grande naso aquilino si protendeva sulle labbra screpolate, una rada e corta barba bianca incorniciava il mento e le gote scavate. - Salam Aleikum - sussurrò - vuoi un tè? Dietro al muro da cui era comparso, una teiera stava fumando su un piccolo fuoco di sterpi. Messi alcuni pezzi di zucchero grezzo in due bicchierini di vetro versò il tè con un gesto elegante e sicuro. Tutto attorno l'oasi di Siwa si era come fermata, l'aria immota ci avvolgeva in una bolla di silenzio rotto solo dal suono cantilenante della sua voce, bassa, musicale, ipnotica. - Innumerevoli genti hanno calpestato queste pietre dove albergava il divino Amon-Ra. Dignitari, soldati, scribi, anche il grande conquistatore Alessandro si è
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giorgio chiavegato, 68 anni, veronese, liceale e sociologo mancato, ha lavorato vent'anni in banca prima di prendersi la rivincita sul mondo delle lettere che lo aveva sconfitto e respinto negli anni della scuola, aprendo nel 1991 una libreria che ancora miracolosamente regge e lavora. ha appena pubblicato per Betelgeuse Nel '36 avevo vent' anni e sono andato in Africa.
spinto tra queste sabbie in cerca del suo vaticinio. Qui vicino i soldati di Cambise hanno trovato una morte atroce. È stato il volere del Dio -.
Lo guardavo attonito. Attorno a lui l'aria, pur immota, sembrava vibrare. Accovacciato sui talloni stringeva tra le mani, per riscaldarle, il bicchiere con il tè caldo che aveva appena versato. La schiena poggiava contro il muro di una piccola costruzione quadrata, un marabutto color ocra, il colore della sabbia che ci circondava. Mi guardava come per invitarmi a parlare, ma io non riuscivo a mettere in fila due parole, tanto era lo stupore che la sua apparizione mi aveva provocato. Deglutendo a fatica un goccio del tè bollente riuscii a proferire: - Dio sia con te sant'uomo. Che strano trovarti qui, in questo luogo solitario e desolato. Non ti mancano i tuoi simili? Le loro voci, il calore della compagnia di altri uomini? - Desolato dici? No, queste pietre mi tengono compagnia. Da loro si alzano le voci di migliaia e migliaia di anime che hanno portato qui le loro paure, le loro ansie, la loro fame di risposte. Come potrei sentirmi solo. E poi, è qui che ha avuto fine la mia ricerca. - La tua ricerca? - Si, ho vagato a lungo prima di trovare il luogo dove fermarmi. Dalle rovine di Efeso allo stupore di Persepoli, a lungo ho vagato e infine qui si è conclusa la mia ricerca. Amon-Ra era un falso Dio, ma la fede degli uomini che a Lui si rivolgevano era sincera e nessun libro aveva portato a loro la Rivelazione. Puri erano i loro cuori.
L'avevano chiamato Amon-Ra, ma avrebbero potuto chiamarLo con uno qualsiasi dei Novantanove Santi Nomi di Dio. Ecco quindi perché ho scelto questo luogo per il riposo eterno delle mie povere ossa. Santo è questo luogo -. La sua voce svaniva con la prima luce dell'alba. Il sole, ancora basso a oriente riscaldava già l'aria, dall'oasi i suoni della vita al risveglio. Solo il marabutto davanti a me.
eNrico pierpaoli, 28 anni, marchigiano di Fossombrone, vive e lavora a Bologna come illustratore e fumettista freelance. Studia alla Scuolacomics di Jesi e all’iSia di Urbino; ha collaborato come colorista alla serie a fumetti DK (spin-off di Diabolik). ama la Geek-art e si lascia influenzare dalle correnti visive più disparate dal Popeye di Segar ad adventure Time.
volo di Egle riganti illustrazione di Giuseppe Palumbo
IL PALLONE
Una persona qualunque si trova a essere sospesa in un cesto appeso a un pallone. Le leggi della fisica spiegano tutto. Forse.
Stai lì a guardare il pilota che prepara l’avventura e ti domandi come sarà.
Al comando, sali. Si mollano gli ormeggi. Ti accorgi che la terra si allontana e un po’ ti gira la testa.
È un attimo. Solo un attimo. Nel silenzio assoluto, rotto solo dal fischio del fuoco, sei parte del tutto. Guardi le colline da una prospettiva inaspettata!
I cani abbaiano a questo mostro colorato che, silenzioso, fa ombra…
Le vacche a gruppi tornano dal pascolo, ignare e indifferenti.
In balia dei venti. A mille metri ferma. Lì. Ti guardi intorno. Il mondo rumoroso, giù in basso, è lontano lontano. Talmente lontano che non vorresti tornarci più. Ti infastidisce un tizio che dall’auto ti fotografa. 20
Assapori il silenzio. In quel cesto di vimini sospesa in aria. Guardi dentro al pallone e ci trovi un mondo fatto di aria calda che ti sostiene.
Metafora plausibile. Qualcuno un giorno ha cercato un modo per volare. E l’ha trovato in un pallone.
egle rigaNti, 55 anni, torinese, lavora da troppi anni all’agenzia delle Entrate. Laureata in psicologia e specializzata in psicoterapia, pratica sport estremi mari e monti. ha visto un po’ di mondo: oriente, ovviamente estremo, paesi arabi e Nord africa. giuSeppe palumbo, 52 anni, materano, è uno dei migliori disegnatori italiani. Nel 1986 si presentò alla casa editrice romana Primo Carnera con ramarro, grande personaggio. ha disegnato martin mystère e continua a disegnare Diabolik. insegna illustrazione per l’editoria a Urbino. Vive a Bologna.
preghiera di Silvia La Ferrara illustrazione di arianna Farricella
LA MADONNA DEI PALLONCINI
Il signor Alessio Freda sta ad Avellino, ma è nato in una masseria nella campagna di San Nicola Baronia, ai piedi della vecchia strada che sale a Trevico. Vicino a quella che una volta chiamava ‘ra funtana ‘r li salici e oggi è un fontana e basta. Il signor Alessio spazza via insettini da una teca di plastica sotto a una tettoia di legno e canne. Dentro alla teca c’è una copia della Madonna del Carmelo detta La Bruna, che se ne è venuta da Napoli a inizio giugno di sette anni fa. È arrivata appesa a un grappolo di palloncini colorati. Tutti gli anni a Napoli, per Pentecoste, si affida La Bruna al cielo vesuviano: è l’Alzata di bandiera, inizio dei festeggiamenti che durano fino al 16 luglio quando viene incendiato il campanile del Carmine.
È la protettrice dei paesologi, la Madonna dei palloncini. Sa che il vento dello Spirito soffia verso le montagne e perciò ha affrontato eventi atmosferici e chilometri di cielo per atterrare in Irpinia d’Oriente, a pochi passi dai ruderi dell’antica chiesa di San Nicola di Mira, primo
Silvia la ferrara, 49 anni, irpina, romagnola e da più di vent’anni emiliana. insegna, viaggia e quando può canta il gregoriano. ariaNNa farricella modenese, 23 anni, fumettista ed illustratrice, diplomata in Fumetto e illustrazione all’accademia di Belle arti di Bologna, dove ora frequenta il corso biennale di Linguaggi del Fumetto.
nucleo cristiano dell’attuale comune della Baronia. Ora sta lì ad aspettarci, nigra sum sed pulchra, accudita dal signor Alessio che così ha trovato una giusta causa per scappare da Avellino nel fine settimana, circondata da un trionfo di fiori di plastica e autenticata da una lettera dei Padri carmelitani attestante la veridicità dell’evento.
Viviamo nel tempo in cui le Madonne prendono il volo attaccate a un filo di niente e scelgono piccoli paesi dove i signori Alessi le riparano dal sole e dalla neve e le inondano di omaggi in pvc. Madonna dei palloncini, prega per noi.
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FOTOGRAFICO REPORTAGE
foto di DAVIDE PALMISANO testo di SIMONETTA SANDRI
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ZERO DARK MOCKBa OTTOBRE ROSSO, WINZAVOD, ART PLAY VIAGGIO ATTRAVERSO LE ART FACTORY DI MOSCA
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MOSCA
MOSCA WINZAVOD ARTPLAY
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La piantina di mosca con la posizione delle tre art Factory
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ottobre rosso quand’era fabbrica del cioccolato Einem
OTTOBRE ROSSO CHE PROFUMA DI CIOCCOLATO E NON È UN SOTTOMARINO asta attraversare il ponte sulla moscova, B vicino alla Cattedrale di Cristo redentore, non lontano dalla metropolitana Kro-
potkinskaya, e ci si trova nel vero centro culturale della città. Cammino curiosa verso la fabbrica di cioccolato Einem, aperta nel 1867 dai tedeschi von Einem e heuss, nazionalizzata nel 1918 e, nel 1992, ribattezzata ottobre rosso per i suoi bricchi color rosso acceso. Nel 2007 lo stabilimento fu spostato a nord della città e la centralissima area riconvertita: dal 2010 il quartiere non ha più alcun legame con il cioccolato, se non per il nome che è rimasto sulle tavolette-souvenir. Sarà anche per via dell’omonimo film con Johnny Deep, ma questo posto fa pensare a una favola buona, dal finale dolce e zuccherino. oggi ottobre rosso ospita centri di fotografia dal penetrante odore di pellicola, gallerie moderne e alternative, il museo Lumière. ma non solo. il brulicante quartiere pare inventarne sempre una per meravigliare e accendere la fantasia. Proprio qui, dove sorgeva una vecchia centrale elettrica, la GES-2, sul lungofiume Bolotnaya, nascerà, nel 2019, un nuovo centro didattico firmato da renzo Piano, grazie all'impegno della fondazione V-a-C di Leonid mikhelson, a capo del colosso degli idrocarburi Novatek. GES-2, progettata dagli architetti Bashkirov e ?uchov e inaugurata nel 1907, oggi è un luogo spento, buio e sono sempre di meno i moscoviti che la ricordano attiva. L’azzardo futurista si salda con la volontà di tenere insieme contemporaneo e tradizione: alle spalle della centrale, nel vuoto industriale che oggi la fa sembrare un pezzo di taiga, vi sarà un bosco di betulle. Di quelle betulle simbolo della russia... 25
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OTTOBRE ROSSO
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OTTOBRE ROSSO
WINZAVOD LA FIABA RUSSA
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i sono tanti posti a mosca dove perdersi, soprattutto nella notte, quando il candore della neve si confonde con il buio illuminato solo dalle stelle e si cerca il conforto di un luogo caldo e accogliente. avvolgente come un abbraccio caloroso è il centro d’arte contemporanea Winzavod, dove s’incontrano molte menti creative moscovite. Ci si arriva con la metropolitana più bella del mondo, fermata Chkalovskaya. Si cammina un po’, si attraversa un sottopassaggio ingentilito da graffiti e murales e si approda in un altro mondo: una ex-fabbrica, di oltre due secoli fa, prima di birra (la moskovskaya Bavaria) e poi di vino, da cui il nome, trasformata dal 2007 in uno spazio di più di 20.000 metri quadri, con gallerie permanenti e temporanee, librerie, scuole e caffetterie. Gli edifici sono sette e vi sono grandi, luminose e spaziose gallerie d’arte, come la XL. È un vero e proprio quartiere dove si può rifugiare chi vuole isolarsi dalla confusione della città, uno spazio che ha conservato le vecchie strutture in mattone arancione e le tubature a vista. È ancora una fabbrica, non più di bevande ma di arte: c’è il Daiworkshop di design per i bambini, il The Wall Project, una riflessione costante su arte pubblica, graffiti e street art, la piattaforma per giovani artisti Start e la scuola di danza contemporanea Platform. L’atmosfera è quella di una fiaba russa, i colori e i laghi o le foreste immortalati potrebbero essere quelli descritti da Tolstoj. Si tocca la forza della natura, la sua energia, il suo bucolico viscerale da cartolina. La reazione è romantica, voglia di correre e respirare liberamente.
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WINZAVOD
ART PLAY QUANDO L’ARTE GIOCA SUL SERIO
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icino a Winzavod, ci aspetta artplay: in 75.000 metri quadrati centri espositivi, sale dove si proiettano quadri in 3D, studi di architetti e designer, mobili d’avanguardia, scuole di cinema e fotografia. Qui si riparano anche oggetti, quelli di un passato glorioso o che comunque non si vuole dimenticare, si trovano mercatini di prodotti biologici, di miele e di obsoleti souvenir, si parla con i passanti in una sorta di splendida agorà. alcuni edifici occhieggiano a fili della luce penzolanti che contrastano con la modernità, incroci di cavi che illuminano strade imbiancate e pensierose. Un inno alla tranquillità, alla voglia di trovarsi soli con i propri pensieri, i propri sogni e progetti. Solo le rotaie cigolanti di un trolleybus spezzano la linea continua della neve soffice, mentre grandi condizionatori immobili e silenti salutano dalle finestre. Quando mai potranno essere usati, in questo paese dove fa sempre così freddo? Le grondaie sbilenche sbuffano, alcuni murales ricordano che da lì passano menti e mani che vogliono dire e comunicare. Vapori di ciminiere parlano in alfabeto morse. Chi vuole capire, capisce. Bella questa calma che avvolge, intenso passeggiare guardando solo il cielo. i locali rumorosi e affollati possono aspettare. La notte per ora basta. 36
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davide palmiSaNo 42 anni di Catania, vive e lavora a Trento dal 1997. Con un percorso da autodidatta, da una posizione di non professionismo, fotografa per rispondere al bisogno personale e intimo di esprimersi. La fotografia è per lui un mezzo per stimolare l'osservatore e richiamarlo alla dimensione emotiva, attraverso immagini perciò concepite come una sorta di paesaggio interiore. ama definire la sua fotografia come ‘un mezzo per rivelare una dichiarazione di questo mondo e di coloro che lo abitano’ e ritiene essere la curiosità e la fantasia, carburante emotivo e ragioni stesse dell'azione creativa. SimoNetta SaNdri 49 anni, nata a Ferrara, ha vissuto e lavorato a mosca. Da sempre appassionata di scrittura ha pubblicato su riviste italiane e straniere ed è autrice del romanzo Il Francobollo dell’Avenida Flores. Collabora con Ferrara italia, BioEcoGeo, mosca oggi, eniday, Wall Street international, e coltiva la passione per la fotografia. Da Francia, algeria, mali e Libia, dove ha vissuto per lavoro, ha tratto ispirazione, così come ora dai giardini moscoviti. Potete leggerla su Il Blog di Simonetta, Viaggio in un mondo fantastico.
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Torna il famoso festival nel deserto del Nevada: attese 70.000 persone, tra polemiche e sogni di libertà.
BURNING LEONARDO’S MAN
Il tema di quest’edizione, ‘Da Vinci Workshop’ alza il tiro: Black Rock City epicentro di un nuovo rinascimento. foto di DARIO BATTINI testo di SILVIA LA FERRARA
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ogno di andarci e ricevere il famoso avvertimento: ‘Potresti morire, ed è una tua responsabilità evitarlo’. Credere che davvero si possa fare qualcosa di significativo per scansare la morte, anche solo per una settimana. Crederci nel mezzo dell’estate, nel deserto del Nevada dove il Burning man avviene ormai da quasi trent’anni. a leggere molte testate americane ed europee rimarrei delusa e mi ritroverei in un incubo caotico, un po’ vetrina della controcultura chic e un po’ ritrovo nostalgico di hippie kitsch e drogati. Comunque lo scorso anno sono stati più di 65.000 da tutto il mondo quelli che hanno sfidato le tempeste di sabbia, i 40° gradi del giorno e il freddo della notte per passare una settimana a seguire le creazioni musicali e artistiche più libere e fantasiose e giocare che un mondo diverso è possibile, senza consumismo, senza denaro. Che effettivamente al Burning man non circola, ma che serve comunque per arrivarci e tentare appunto di non restarci secchi. il biglietto è di 380 dollari, poi devi provvedere al resto, dai trasporti alla tenda, 46
a tutto ciò che ti servirà per sopravvivere e per godertela, e quando te ne vai starai attento a lasciare tutto meglio di come quando sei arrivato. Certo nel corso degli anni gli standard di civiltà assunti come regolamento e illustrati nei 10 principi, sono stati infranti più volte e in ogni direzione, ma fa parte del gioco in quanto i prinicpi non vogliono essere regole ma spunti, indicano una direzione e non la strada, e perciò vengono applicati in maniera diversa, sollecitando dibattiti continui. anche l'influenza di comunità diverse può essere vista come una ricchezza o come una provocazione, piuttosto che come un pericolo che rischia di disperdere lo spirito originario. Negli ultimi anni sono sorti alcuni campi ViP, che hanno ospitato star della Silicon Valley come mark Zuckerberg: il Sole 24 ore ha definito il festival (che festival non vuole essere chiamato) ‘un ritrovo utile alle startup’ e il lusso e i comfort di questi sottocampi, che l’organizzazione cerca non sempre con successo di arginare, ha forse fatto fuggire qualche indignato idealista. Del resto anche il complesso e determinante apporto della componente rave, che ha dato fin dagli anni ’90 una bella sferzata techno al Bm, ha creato qualche problema e ha offerto il fianco alle fin troppo facili critiche della stampa conservatrice. Essere davvero liberi non è uno scherzo, insomma, e non sempre ci si riesce. Non stupisce che i ranger del Nevada siano una componente attiva e presente da tempo e che il loro rapporto con il Burning man sia ormai di accoglienza e rispetto: nel 2013 un corteo di oltre 30 veicoli delle forze dell'ordine ha sfilato attraverso Black rock City fino al tempio - dove molte persone ripongono memoriali personali per amici, familiari e persone care morti durante l'anno - per un tributo all’agente michael Bolinger, assegnato al Burning man prima di ammalarsi di cancro al cervello. al di là delle polemiche, facili e inevitabili, ogni anno duemila volontari si trovano in mezzo al deserto per costruire, gestire e
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pulire la città provvisoria, e il programma Burner without Borders che sostiene economicamente progetti innovativi legati al recupero del senso di comunità e la numerosa comunità sparsa in tutto il mondo che anima molti eventi regionali continuano a crescere. Quest’anno poi il tema scelto, ‘Da Vinci Workshop’, punta altissimo, con il chiaro obiettivo di tenere insieme arte, socialità e business. Larry harvey, ideatore e anima del Burning man, scrive sul sito che la repubblica fiorentina del XV secolo aveva circa la stessa dimensione e popolazione della Black rock City, che anch’essa era una comunità democratica e sottolinea che fu l’incontro tra ideali umanistici, riscoperta della scienza e finanziamenti di una nuova classe di imprenditori ad alimentare il movimento culturale rivoluzionario che ha ridefinito la civiltà occidentale. Così il ‘man’ bruciato quest’anno sarà l’uomo di Leonardo. Enorme e rotante, mosso da un elaborato sistema di ingranaggi e pulegge a propulsione umana. www.burnignman.com www.italianburners.org i 10 priNcipi
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1. iNcluSioNe radicale Chiunque può partecipare al Burning man. accogliamo e rispettiamo lo straniero. Non esistono prerequisiti per la partecipazione alla nostra comunità. 2. regalare il Burning man è basato sul dare senza ricevere niente in cambio. il valore di un dono è incondizionato. il regalare non contempla un ritorno o uno scambio con qualcosa di pari valore. 3. demercificaZioNe al fine di preservare lo spirito del dono la nostra comunità cerca di creare ambienti sociali che sono liberi da sponsorizzazioni
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commerciali, business o pubblicità. Siamo pronti a proteggere la nostra cultura da tale sfruttamento. Noi rifiutiamo di sostituire con il consumismo l’esperienza partecipativa. 4. autoSoSteNtameNto radicale Burning man incoraggia l’individuo a scoprire, esercitare e contare sulle proprie risorse. 5. libera eSpreSSioNe perSoNale La libera espressione personale deriva dai doni dei singoli. Solamente l’individuo o il gruppo può determinare il suo contenuto. La libera espressione è offerta come un dono agli altri. Con questo spirito, il donatore deve rispettare i diritti e le libertà del destinatario. 6. impegNo comuNitario La nostra comunità valorizza la cooperazione e la collaborazione creativa. Ci battiamo per produrre, promuovere e proteggere reti sociali, spazi pubblici, opere d’arte e metodi di comunicazione che sostengono tale interazione. 7. la reSpoNSabilità civica Noi valorizziamo la società civile. i membri della comunità che organizzano eventi sono tenuti ad assumersi l’onere di far ogni sforzo per trasmettere la responsabilità civile ai partecipanti. Essi devono assumersi anche la responsabilità di condurre gli eventi in conformità alle norme locali ed alle leggi statali vigenti. 8. NoN laSciare tracce La nostra comunità rispetta l’ambiente. Ci stiamo impegnando a non lasciare nessuna traccia fisica delle nostre attività ovunque ci raduniamo. Puliamo dietro di noi e tentiamo, ove possibile, di lasciare questi luoghi in una condizione migliore rispetto a quando li abbiamo trovati. 9. partecipaZioNe La nostra comunità si impegna in un’etica di partecipazione radicale. riteniamo che il cambiamento, sia nei singoli che nella società, possa verificarsi solo attraverso una profonda partecipazione personale. realizziamo il nostro essere attraverso il fare. Tutti sono invitati a lavorare. Tutti sono invitati a giocare. Costruiamo il mondo reale attraverso azioni che aprono il cuore. 10. immediateZZa L’esperienza immediata è, in molti casi, la pietra miliare per il valore della nostra cultura. Noi cerchiamo di superare le barriere che stanno tra noi e la consapevolezza del nostro inconscio, la realtà delle cose che ci circondano, la partecipazione nella società e il contatto con un mondo che supera la percezione umana. Nessuna idea può sostituire questa esperienza.
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dario battiNi, capita per caso nel 2006, a 28 anni, a una festa a Londra, dove trova personaggi strani che lo convincono a unirsi a loro in un esperimento nel deserto spagnolo chiamato Nowhere. oggi dopo dieci Nowhere, quattro Burning man, un afrikaburn e numerosi piccoli eventi alle spalle Dario si ritrova a essere uno dei contatti italiani del Burning man e quei personaggi strani sono diventati per lui come una famiglia.
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NON STORIE DI DONNE FOTOGRAFE INCONTRO, IN UNA CAMERA D’ALBERGO, CON
LETIZIA BATTAGLIA perché l’amore finisce? Una cena su un letto. Con frutta e un gelato. Parlare di fotografia senza parlare di fotografia. interrogarsi, domandarsi, aver paura e non aver paura. Domande senza risposta. Che la piccola fotografa siciliana si pone, dietro a una macchina fotografica.
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testo e foto di cinzia canneri
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Arrivavo in albergo e aprivo con il mio pass la porta, per evitarle di alzarsi, dato il suo mal di schiena. La trovavo sempre in questa posa sensuale; lei diceva che era l’unica posizione in cui le vertebre non le facevano male. Io pensavo che era l’unica posizione che lei poteva assumere, perché rendeva omaggio alla sua bellezza. Sprigionava la sensualità di chi sa amare. La prima sera che è arrivata abbiamo cenato su
questo letto con una gran coppa di gelato e frutta. E tra una sigaretta e l’altra parlato della vita, degli uomini e delle donne. Mai di fotografia.
Letizia aveva una domanda su cui stava ragionando da giorni: ‘Perché l’amore finisce?’. Era un argomentoche voleva affrontare sulla rivista Mezzo cielo che cura. Per lei l’amore non può prescindere dall’amare la libertà dell’altro.
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iNSeguire gattopicchio ‘Bisogna saper lasciar andare via, di questo sono certa. Ma perché si arriva a questo bivio, da una parte il prima e dall’altra il dopo, non l’ho capito’. Non abbiamo trovato nessuna nostra risposta, ma mentre lei parlava dell’amore e della fine dell’amore, io comprendevo la bellezza delle sue foto che amo. Da sempre una delle mie domande, invece, è: perché alcune foto che sono belle non ti affascinano e altre sì? Perché quelle di Letizia Battaglia mi rapiscono in un altrove dove adoro perdermi?
L’ho capito in questa stanza d’albergo. Perché lei fotografa con queste sue domande sull’amore. È lì la differenza, ne sono certa. Non ci possono essere inganni, soprattutto umani, in una buona foto. Nelle foto di Letizia Battaglia ci sono le sue delusioni, i suoi risarcimenti, nessuna apparenza, solo profondità, gentilezza e cura. Le sue foto sprigionano il fascino di chi non ha paura di morire pur di vivere.
Letizia Battaglia è venuta a Follonica, città del mare maremmano, per inseguire Gattopicchio, un’associazione di artisti. Di gente che ama il teatro, la fotografia, la pittura. Un gruppo di professionisti e outsiders, di persone che vivono sui margini. Della vita e dell’arte. artisti che amano mischiarsi. Che coltivano relazioni fra chi fa arte per lavoro e talento e chi, con lo stesso talento, è artista per desiderio e passione. È una storia che nasce da una lunga esperienza psichiatrica a Follonica. E che produce mostre fotografiche, rassegne cinematografiche e grandi spettacoli teatrali. Fra queste FollowMe, festival arrivato alla settima edizione. Letizia non poteva non essere a Follonica con le sue foto scattate a Pasolini una serata di quarant’anni fa al circolo Turati di milano: «ho conosciuto Pasolini nel 1972». Ed è in una camera d’albergo di Follonica che Cinzia Canneri, fra le organizzatrici del festival, l’ha fotografata. Fu Fosco maraini, grande scrittore e antropologo, a raccontarci Urlapicchio in Gnòsi delle fànfole. Per sapere di più su Gattopicchio e FollowMe: www.gattopicchio.it
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letiZia battaglia ha tentato più volte di lasciare la sua amata odiata Palermo senza riuscirci. ha vissuto in Francia e ha esposto a New York, ha fotografato il bacio tra i Salvo e andreotti, l’omicidio di Piersanti mattarella, Falcone e Borsellino, Joyce e la sua Nora che gli ispirò molly Bloom, marguerite Yourcenar e Ezra Pound, ma anche moltissime donne e bambini, anime glorificate dal dolore e non dalla fama. a coronamento di una vita da editrice, attivista politica, ambientalista, regista, ha appena concluso a Palermo, ai Cantieri della Zisa, una retrospettiva accompagnata da un libro con testi di Caujolle, Wim Wenders, Graciela iturbide e Fred ritchin.
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ciNZia caNNeri, 45 anni, nata a Piombino. Una laurea in psicologia. Fotografa. ha lavorato per anni al centro di Salute mentale della asl di Grosseto e oggi si occupa solo di fotografia. È curatrice del Festival FolloWme Arte ai Margini e di altre iniziative che uniscono il sociale all'arte. attualmente sta svolgendo un reportage sulle vittime di amianto.
L’Associazione Culturale WSP Photography nasce a Roma nel 2009 dall'iniziativa di un collettivo di fotografi operanti in particolare nel campo del reportage sociale e di attualità.
Scopo dell’Associazione è di incentivare e divulgare la fotografia in tutte le sue forme, come elemento componente la cultura contemporanea e come mezzo moderno di espressione artistica. Una fotografia intesa come mezzo di conoscenza e integrazione.
WSP Photography si compone principalmente di “due anime”, che si integrano a vicenda in costante e proficuo dialogo. Da una parte le attività culturali dall’altra il lavoro fotografico vero e proprio, fatto sul campo e svolto sia in maniera collettiva che individuale da ciascun fotografo del collettivo.
Da ottobre 2011 WSP Photography ha aperto una sua sede a Roma tra i quartieri Garbatella e San Paolo dove porta avanti diverse attività come corsi, seminari, incontri con autori, mostre fotografiche, workshop, presentazioni editoriali.
LE ATTIVITÀ:
CONVERSAZIONI DI FOTOGRAFIA una serie di dibattiti informali con autori ed esperti del settore, per parlare e discutere di fotografia con contributi audio, video e racconti di esperienze professionali e non solo.
MOSTRE FOTOGRAFICHE sin dalla sua apertura, lo spazio espositivo ha ospitato diversi fotografi di fama internazionale e, al contempo, dato largo spazio ad autori emergenti e a studenti. PRESENTAZIONI EDITORIALI libri, cataloghi, fanzine del mondo fotografico.
PROEIZIONI E DIBATTITI eventi dedicati all’approfondimento di tematiche e realtà attraverso il linguaggio del video, con una particolare attenzione al cinema indipendente e di stampo sociale. DIDATTICA E FORMAZIONE A PARTIRE DA OTTOBRE 2016:
CORSI Base • Avanzato • Pratico • Reportage • Ritratto • Architettura e Paesaggio Urbano • Phoshop • Produzione ed Editing Video
LABORATORI E CORSI DI SPECIALIZZAZIONE: Laboratorio di Reportage | WSP Masterclass | Pro-Photographer CONTATTI Via Costanzo Cloro 58 ( metro B San Paolo) - Roma info@collettivowsp.org cell: 328 1995463 www.collettivowsp.org
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lA fotogrAfiA è unA cAcciA Al tesoro, in quAlche modo. Vittore Buzzi segue le orme di se stesso: Ad Arles PotreBBe troVAre il ricordo di un’AnticA edizione del fAmoso festiVAl di fotogrAfiA, les rencontres, A cui PArteciPò. Per eVitAre di AffrontAre il fAntAsmA dellA gioVinezzA, Per Anni hA disertAto l’eVento fino A ProgettAre di tornAre qui doVe lA VitA è immortAlAtA ed esiBitA. negli scAtti di AlessAndrA cAlò, inVece, Arles è unA città quAlunque in cui i giorni trAscorrono Anche senzA lA fotogrAfiA, Per chi distoglie lo sguArdo dAlle esiBizioni. mA il fAntAsmA del festiVAl PotreBBe riAPPArire dietro l’Angolo. mAriA di Pietro segue le orme di Vincent VAn gogh: Per fotogrAfAre gli stessi cAmPi di grAno, gli stessi sentieri terrosi e lo stesso Ponte, finisce Per APPostArsi dietro Al fAntAsmA del Pittore. ERODOTO108 • 15
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‘Quest’anno torno ai rencontres’
VENT’ANNI SENZA ANDARE AD ARLES Vittore, uno dei migliori fotografi italiani, andò al più bello e celebre festival di fotografia d’Europa nel 1998 e da allora non è più tornato. Perché? magari lo spiegasse. Un mix di pigrizia, impegni, impossibilità. Eppure quelle assenze pesano. Un non-articolo fra la perdita di Stephen Shore e una promessa a malick Sidibè ricordo e promessa di vittore buzzi foto di Andrea Semplici Non ci pensavo più da tempo, era il 1998, una estate calda piena di fotografia italiana. Sono passati 18 anni, una vita, si diventa adulti. ricordo le facce felici dei giovani autori, Carlotta, ilaria, Simona, Tony, Debbie. C'ero anch'io. il mondo ci sorrideva maligno, ma noi non ce ne accorgevamo. Si sa come sono i primi amori: vanno vengono poi ritornano. Non sono più tornato ad arles da quella settimana fantastica. abbiamo preso direzioni diverse. Non abbiamo mai smesso di amare teneramente la fotografia. in maniera e ambiti differenti. Così quando ho visto che c'era Stephen Shore ho voluto tornare. ma, alla fine, non sono tornato.
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avevo nostalgia. milano con il suo nuovo skyline avanza, il traffico lento, il ronzio dei condizionatori. Sbirciavo di tanto in tanto i post degli amici su facebook e sui loro blog.
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Conoscevo uno strano non-fotografo. Uno che non sapeva cosa fare fra scrivere e fotografare. Gli è sempre mancato un guizzo, un quid che gli facesse lasciare alle spalle la scrittura e provare ad esprimersi solo con le immagini. Les rencontres sono arrivati con il loro carico di storia, di fotografia concettuale, di artisti che utilizzano la macchina fotografica, con i visitatori sfatti dalle mangiate bulimiche di immagini. Un’onda, insomma. Lo ha sommerso e gli ha regalato una visione. Una vena da flaneur la ha sempre avuta. Così mi ha colpito, una audacia di tagli di inquadrature. momenti apparentemente slegati, uniti da uno sguardo e da un cuore. il suo cuore grande e birichino, il suo stupore infantile il suo mestiere nella scrittura. il non-mestiere della fotografia. allora quest'anno proverò a tornare, proverò a calcare le orme di Lucien Clergue, michel Tournier e Jean-maurice rouquette, i tre fondatori, ad assaporare il caldo umido che sale dal rodano e gli odori pungenti della Camargue.
Proverò a mettere piede alle mostre quest'anno dedicate agli Storytellers e all'africa. Proverò a non commuovermi davanti alle foto di malick Sidibè. Vorrei andare accompagnato dai vecchi amici, per poterci tenere forte le mani e sorridere alle rughe sotto gli occhi e al tempo che passa. Con i figli, i compagni le compagne. Un atto d'amore verso la fotografia e verso la vita. Storie che si accavallano e si intersecano. Ăˆ il pregio di avere un grande archivio. molto grande. Storie che prima o poi verranno raccontate.
foto di Vittore Buzzi
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vittore buZZi, 46 anni, milanese, preferisce questa microbiografia: ‘Comincia a fotografare nel 1992. Non ha ancora smesso’. Possiamo aggiungere? ‘ha studiato fotografia con roberta Valtorta, ha vinto prestigiosi premi internazionali di fotografia di ricerca e di reportage. Fra cui, nel 2013, un World Press Photo’. www.facebook.com /pages/VittoreBuzzi- Fotografo/14679210843 3" organizza workshop ( www.corsifotografia.it) ed è considerato fra i migliori fotografi di matrimonio al mondo www.fotografomatrimoni.biz
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aNdrea Semplici, 63 anni, fiorentino, giornalista. Da anni desiderava fotografare i fotografi. Era necessario andare ad arles per capire, finalmente, che la fotografia è un miracolo. Qualcosa che restituisce un momento che i tuoi occhi hanno solo intuito e che non esisterà mai più. ad arles le fotografie si scattano da sole.
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Il momento dorato è passato
IL FOTOGRAFO DISTRATTO in un istante appaiono e scompaiono un albero, una zucca, uno scemo, un bambina, dei palloncini azzurri, un giapponese. E una donna amata. Nemmeno una fotografia...
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testo di Irene Russo foto di Alessandra Calò
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Un uomo davanti all’anfiteatro suona la chitarra nell’attesa che qualcuno gli lasci qualche moneta. Passano in quell’attimo dei giapponesi, uno di loro indica un punto in alto tenendo con l’altra mano la mappa della città, che a detta degli slogan sulla carta è annoverata fra i patrimoni dell’umanità. Una signora di un’altra epoca, abbigliata in costume storico, attraversa la piazza introducendo un confuso sentimento del tempo in quella scena, mentre a ogni passo sventola il ventaglio con nonchalance. Difficile capire quanto è trascorso da quando non è successo niente. Di tutto questo il fotografo si accorge quando gli torna in mente l’esistenza delle macchine fotografiche. Non appena mette a fuoco, la donna ha già voltato l’angolo e il giapponese dev’essersi infilato in una delle strade. Conserva la macchina nella borsa e morde la cannuccia del tè: la musica potrebbe consolarlo per aver perso la bellezza, se non fosse che si è già scordato del momento dorato, si è scordato del disgraziato che gli ha pestato l’occhio il giorno prima e della donna che ha amato una settimana fa. Quando sfuma l’attimo, il fotografo sceglie una delle strade intorno all’anfiteatro e intraprende la discesa verso la città. Giunto all’angolo della via principale si siede per bere un bicchiere in un bar affollato, non appena una coppia libera il posto e sparisce in un vicolo. Davanti a lui, un uomo arrotola una sigaretta con calma: potrebbe essere l’autore del pugno del giorno prima, ma il fotografo si è scordato della consistenza della mano, si è scordato dell’ombra scura che lo ha minacciato per alcuni metri prima di raggiungerlo e afferrarlo, così prende la macchina fotografica e cerca il secondo giusto per fermare l’attimo in cui la lingua passa sulla cartina per incollarla. il momento dorato è tra i sorsi di limonata, nel posto trovato libero in un bar per caso. al tavolo di fronte, l’uomo rovescia il bicchiere, contrae le dita in un pugno e si prepara a sferrarlo. Sul treno che lo porta in un’altra città, il fotografo si addormenta perché il paesaggio scorre sempre uguale o forse perché la batteria della fotocamera è quasi a zero. Sceso dal treno, compra una cartolina e la spedisce a se stesso come promemoria del viaggio. Fuori dalla stazione chiedono di non morire un migliaio di cose: una ragazzina immersa in una nuvola di palloncini azzurri, uno scemo che balla davanti ai musicanti, una gonna troppo corta, una zucca poggiata all’angolo del sagrato, una bambolina portata a passeggio, un albero che esprime l’ultimo fiore della stagione. il fotografo cerca nelle tasche qualche moneta e per guardare la vita compra delle noccioline, che tengono le mani unte e impegnate per almeno un quarto d’ora. Poi bisogna lavarsele per evitare di sporcare l’obiettivo, ma intanto il tempo è passato e qualcuno, tra l’albero e la zucca, lo scemo e la bambolina, non si trova più dov’era.
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irene russo, 36 anni, siciliana, vive a Reggio Emilia. è copywriter specializzata in storytelling e green marketing. AlessAndrA cAlò, 38 anni, tarantina, sperimenta nuovi linguaggi e si avvale della tecnica dell’appropriazione per un recupero memoriale. Le sue opere scavano nel passato per tentare un dialogo col presente, un tempo in cui tutti hanno la possibilità di esistere nella forma di esseri senzienti, fantasmi o prefigurazioni. 73
SULLE ORME DI VINCENT
L’OSSESSIONE DEL COLORE GIALLO testo e foto di maria di pietro
Lui vi arrivò in un inverno di neve, lei a luglio, estate del Sud francese. relais De Poste, la stessa locanda dove soggiornò il pittore. il ponte Langlois. Un tozzo di pane, un vino infame e il sogno di una nuova pittura. E i tramonti infiniti e violenti. Una fotografa in viaggio: scatta e nella magia dello sviluppo appare un uomo con il cappello di paglia.
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ho sempre avvertito forte il richiamo della sua anima. Le sue pennellate folte delle tinte del mondo, emettevano voci di storie vissute; le ho sempre udite e il desiderio di percorrere i luoghi dove i suoi scarponi hanno camminato, mi ha portato ad andare oltre le pagine dei suoi libri e le parole delle sue lettere. Sono proprio qui, sono arrivata al paese giallo. Nel Sud della Francia dove il fiume raggiunge il mediterraneo, c'è il mare e la montagna, ogni stagione è un viaggio, il mio desiderio trottola traducendosi in scoperta. Vincent vi giunse il 20 febbraio del 1888 trovando il giallo coperto di neve. io, in pieno luglio, quando tutti i colori colano dalla tavolozza. ad accogliermi le mura romane, il centro e il suo teatro. a sinistra del mio sguardo una giostra con i cavallucci e la carrozza magica suona melodie parigine, cerco rue de molière per arrivare alla locanda. Nessun albergo lussuoso, volevo il cuore di questa città, e avrei riposato la prima notte nello stesso posto in cui ha soggiornato Vincent. Le relais
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De Poste: un'antica locanda per la sosta delle carrozze del XViii secolo, è ora un hotel nel cuore di arles, a soli tre minuti a piedi del centro storico. Salgo una scala a chiocciola, intorno pareti arancioni e quadri al muro che raccontano la Provenza. all’ultima stanza della locanda una finestra si affaccia sui tetti di arles. Esploro, socchiudo gli occhi per mettere a fuoco la parte più lontana, ma quello che vedo è frutto della mia impaziente immaginazione. in lontananza so che c'è il ponte di Langlois, voglio vederlo subito. maglia bianca per danzare col sole, reflex al collo, percorro la prima parte asfaltata di un sentiero, susseguono pietre, terra e vecchi binari intrecciati a fili d’erba. Nonostante l'ora, c’è ancora una luce energica, uno specchio d’acqua mi fiancheggia, è il rodano. Silenzio, non odo più auto né voci ma cinguettii e vento fra gli alberi. Come alice che apre la porta per inseguire il suo coniglio bianco, una porta si spalanca alla natura e alla sua musica. il fiume è pieno di verde riflesso, dondola i battelli che dormono. a quel punto mi chiedo quanto peso aveva Vincent sulle spalle al tramonto di un giorno trascorso qui, con un tozzo di pane imbevuto nel giallo in attesa di saziarsi. mi fermo, sono giunta a Langlois. Le prime tele, frutteti in fiore, paesaggi dai colori splendidi, Vincent li abbozza con una rapidità che lo sorprende. i tentativi che faceva minuziosamente a Parigi, qui non sono adeguati, di fronte al maestrale che batte la sua tela come quella di un veliero nella tempesta, di fronte al sole che mette dello zolfo. Davanti alla natura ascolta solo la sua esigenza imperiosa e la sinfonia del giallo, del blu, del rosso e del verde, segna la conquista definitiva e così pazientemente acquisita, del colore. Dalle tenebre Vin-
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cent ha finalmente raggiunto la luce nella quale ogni cosa troverà un aspetto nuovo, e forse un senso nuovo. Non ha ancora conosciuto l'estate meridionale e già sogna altri soli. Quasi sento l’odore di bucato delle lavandaie. Davanti alle distese egli ritrova il sentimento dello spazio. Per non dimenticare si è lanciato nel lavoro; gli stessi problemi di prima, finanziari e domestici, anche qui si sono abbattuti su di lui. iniziano a Carrel, dove soggiornava ad arles, perché vogliono che paghi di più a causa del materiale con cui ingombra l'albergo, troppe tele... Gli viene servito un vino infame che il suo stomaco malandante non regge, cibi grassi, sporchi. Domanda, senza ottenerle, delle patate, del riso, della pasta. Non mangia molto e non beve di più, a ragione, perché spende tutto per la sua pittura, non avendo mai abbastanza da nutrirsi. allora si rimette ad architettare progetti di vita comune con altri pittori. Vorrebbe avere uno studio non solo per sé ma per coloro che sogna di fare suoi compagni di battaglia creando lo ‘Studio del mezzogiorno’. È sempre più stanco, ma non più triste. - anche questa vita artistica che sappiamo non essere quella vera, mi sembra cosi viva e sarebbe da ingrati non contentarsi –, scrive Vincent al fratello Theo. in questa prospettiva s'interroga di nuovo. È sempre al di là del presente che egli pone lo scopo, la ricompensa dello sforzo. Egli parla del pittore del futuro; lo vede fatto delle sofferenze e degli sforzi di oggi. Vede se stesso come l'anello di una catena che viene da lontano, che va ancora più lontano attraverso generazioni di artisti. Questa successione di generazioni non fa dell'arte qualcosa paragonabile alla vita, un'altra vita? Un fervore, una volontà che si tra-
smetterebbe da un artista all'altro. - Noi sentiamo che la cosa è più grande di noi, e di durata più lunga della nostra vita -. La vita, forse continua al di là dei campi di grano e delle culle. il sentimento cosmico è entrato nello spirito di Vincent. è- a me sembra di essere un viandante, diretto a una qualche destinazione -. Nella banalità della vita quotidiana, attraverso la vicissitudine del suo destino umano, questo nomade aspira sempre a stabilirsi. Chimera, come il suo desiderio di ordine, di vita sana e tranquilla. - È troppo bello! - esclama Vincent. Sistema il suo cavalletto nei frutteti, attacca i piedi a dei paletti e batte sulla tela a colpi irregolari preso improvvisamente da una furia di lavoro per dipingere la Provenza di una gaiezza enorme. - Nessuno avrebbe avuto la pazienza di farsi mangiare dalle zanzare, di lottare contro questa fastidiosa contrarietà del maestrale continuo, senza contare che ho passato le giornate fuori con un po’ di pane e di latte. Era troppo lontano per tornare in qualsiasi momento in città -. Quanto è vero tutto ciò, ancor più ora che mi trovo qui a vedere con i miei occhi le distanze e il caldo... quanta pazienza e amore infinito per la sua passione. il luogo è stupendo. Dal lato dell'immensa piana, la vista porta fino alle torri di avignon. in fondo la catena delle alpilles staglia le sue cime rocciose su un cielo cobalto e scava le sue valli in un dedalo di burroni e di pendici tappezzati da una vegetazione lussu77
reggiante, frusciante per il frinire delle cicale che non smettono un solo minuto durante tutto il giorno. Entro e ho il cuore che fa cose strane, mi pizzica il sangue... sono emozionata, commossa. Vedo l'iris il suo dipinto, e l'ulivo con dietro l'edificio, il suo dipinto, e il verde, il suo verde. Vedo lui, sento lui... a pochi passi prima di entrare al chiostro una meravigliosa statua che lo ritrae con mano dei girasoli: nulla poteva raccontarlo in egual modo e in modo più veritiero. mi vien voglia di abbracciarlo come fosse lui stesso, di abbracciarlo lì in quel posto per ringraziarlo del fuoco che da sempre porto dentro anche grazie a ciò che lui ha lasciato a noi, del fuoco della mia passione che io difendo con simili difficoltà, eguali privazioni di libertà, eguali incomprensione che inducono chi ti guarda a pensare che tu sia un folle a non accettare questa vita corrotta e sporca, questa vita che t'induce all'isolamento, a una solitudine necessaria... vorrei abbracciare questo luogo e non lasciarlo più per non lasciare così l'illusione di poter vivere di luce. - Sento talmente che la storia delle persone è come la storia del grano, se non si è seminati nella terra per germinarvi, succede che si è macinati per diventare pane -. Scrive Pierre Leprohon nel suo libro del 1990, Van Gogh. il sublime pittore del sensibile: ‘La follia non ha mai generato il genio, ma bensì è più plausibile di un’attività intellettuale al ser-
mAriA di Pietro 36 anni, fotografa napoletana, di formazione artistica laureata all'Accademia di Belle Arti si occupa di fotografia sociale con uno sguardo attento alla sua terra, alla libertà, alla giustizia e all'amore. Giornalista, attualmente dedita allo studio antropologico e all'insegnamento della fotografia nella scuola pubblica. 78
vizio di una passione che la spinge senza posa a creare, logora gli animi di tempra troppo debole, esagera la facoltà di commuoversi. È la pittura, o meglio la sua lotta per dipingere che ha determinato la follia in Vincent. Ed è quindi inutile spiegare ciò di cui lui soffrì, quanto è inutile spiegare la sua arte. Poiché il genio, che inventa le sue forme, la sua espressione, è forse capace anche d’inventare le sue malattie’. Siamo folli, è c’è poco di che vantarsi. Vincent
voleva essere un uomo degno, un fiume della vita che scorre. E noi tutti non inventiamo ogni giorno paure e ansie per l’impotenza che palpiamo davanti a una vita che ci sfugge, a un mondo che si distrugge, a una lotta per salvarlo e salvarci? Noi bramiamo di essere folli di Dio ogni volta che proviamo ad essere persone migliori, senza mai riuscirci. Scattai l’ultima foto uscendo dall’ospedale di San remy. ombre di rami e foglie stagliate sul
muro dell’ingresso del giardino. ma quando a casa qualche mese dopo sviluppai le fotografie, in quella foto, inspiegabilmente, c’era l’ombra di un uomo col cappello di paglia...
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UNA FOTO
UNA STORIA
Due fotografi a passeggio per le strade della città austriaca. Sono tranquilli, non sono lì per lavoro. Lui vede una donna e rimane colpito dalla sua ‘perfezione’. Lei vede l’uomo e si sorprende della sua dignità. meno di un metro separa quest’uomo e questa donna, ma una distanza incolmabile separa i loro mondi. Una fotografia li riunisce per una volta che sarà per sempre
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testo e foto di carlo midollini e maria grazia dainelli
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DOPPIO RUOLO A SALISBURGO
Questa è una piccola storia doppia. Perché ne racchiude almeno due. O, forse, quattro se penso a quell’uomo e a quella donna e a noi due di fronte a loro. Racconta di una foto scattata in Hagenauerplatz, piazzetta della zona pedonale di Salisburgo. Siamo con un gruppo di fotografi fiorentini. Quasi venti persone venute qui per un gemellaggio fra due club. Tutti in giro per la città con la macchina fotografica. C’è la luce pomeridiana di una primavera mittleuropea.
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Un istante. Non accade niente. Non c’è un movi-
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mento. C’è solo una donna, una donna che attira la mia attenzione. È perfetta. Bella, compiaciuta di sé stessa. Ha un’eleganza orgogliosa. Raffigura la mia idea dell’Austria. La mantella scura, i guanti neri, la borsa in tinta con la giacca di cui si intravedono le maniche. I piedi quasi sugli attenti, le scarpe lucide. Alcuni capelli bianchi sono l’esibizione, sobria e superba allo stesso tempo, dei suoi anni. Forse ha appena comprato un regalo per un nipotino nel negozio di moda per bambini alle sue spalle. La donna è autorevole. Composta, soddisfatta del suo ruolo nel mondo. Sta aspettando qualcuno. Non ha attenzione per quanto accade accanto a lei. È tranquilla.
Non mi accorgo che, sullo stesso angolo, c’è un’altra persona. È Maria Grazia che mi distoglie dalla donna e mi indica l’uomo che sta lì, a un metro di distanza. Un’altra rappresentazione. L’altra faccia del mondo. D’istinto penso che anche la luce non sia casuale: la donna aspetta al sole, l’uomo sta sul versante meno illuminato della strada. E chiede, senza chiederla, un’elemosina, un aiuto. È altrettanto perfetto. Come se facesse parte di una attenta ed equilibrata composizione pittorica. Non ostenta la povertà: è la povertà.
È seduto su una sedia rossa. Non può stare in piedi: perché non ha i piedi, gli sono stati amputati. Indossa calze bianche, linde e ben stirate: nascondono e proteggono i monconi. Un ombrello chiuso è appoggiato al suo fianco sopra una valigia: là dentro ci devono essere le sue protesi, ripiegate e pronte
a essere nuovamente calzate. Indossa un giaccone un po’ stazzonato. La donna, certo, non approverebbe la barba di un giorno e mezzo non rasata e nemmeno il mozzicone di sigaretta fra le dita di una mano quasi abbandonata. La ricchezza, borghese e asburgica, di una donna e la povertà dignitosa di un uomo con gli occhiali. Sembrano non accorgersi uno dell’altro. Sono a un solo passo di distanza, ma non si vedono. Forse non possono vedersi. Meglio: non vogliono vedersi. Vi è un solo lusso che la donna non può concedersi: la carità verso quell’uomo. Vi è un solo coraggio che lui non può avere: girarsi verso di lei e chiedere, con il suo secchiellino verde, qualche centesimo.
La fotografia fa una scelta. Non mostra quello che accade davanti a loro. Questa è la via del passeggio pomeridiano della gente di Salisburgo. Non è una
strada solitaria. Non è il piccolo palcoscenico di un teatro, è davvero una rappresentazione, senza esserlo. Un istante di una vita quotidiana. Che una macchina fotografica può immobilizzare per sempre. Come se fosse un quadro, una metafora reale della società. Maria Grazia ha fatto solo due metri in avanti, non si è nascosta, non so se l’uomo e la donna si siano accorti di lei. Ha scattato una sola foto. Ed è rientrata nel gruppo degli altri fotografi. Che non hanno visto quanto avevamo visto noi due. Forse, se fossi stato solo, non mi sarei accorto dell’uomo. Forse se Maria Grazia fosse stata sola non avrebbe visto la donna. La fotografia, questa volta, ha unito due mondi che, almeno quel giorno, a quell’ora, in quel momento, in quella città dell’Austria, erano uno accanto all’altro, ma avevano scelto di ignorarsi.
maria graZia daiNelli, 55 anni, è nata a Cavriglia, in terra di arezzo. Vive a Firenze. Da dieci anni ha scoperto il mondo dei video e più recentemente la fotografia. Ne riceve significative gratificazioni. carlo midolliNi, 61 anni, è nato a Fiesole e vive a Firenze. Da sempre appassionato di fotografia, dal 2007 è socio del Gruppo Fotografico il Cupolone. La frequentazione di tanti bravi fotografi ha contribuito alla sua crescita qualitativa con mostre e pubblicazioni. Carlo e maria Grazia sono compagni nella vita e la passione per la fotografia e per i video fa sì che, assieme, lavorino a progetti comuni.
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a leggere le storie che seguono viene da pensare che alla fine nella musica ci metti il corpo, sia che la fai sia che la ascolti. e che fotografare e raccontare il suono sia possibile se ne trovi il gesto, la luce, il colore. vedi i calzini rossi di Sardelli, il suo gesto appuntito mentre dirige, lasci squillare il suo sorriso sotto baffi e pizzetto e stai già sentendo un concerto di vivaldi. il jazz e il blues poi non si possono separare dalle espressioni tirate, dal sudore prezioso, dalle gote gonfie di un suonatore di tromba e neppure da certi contorcimenti, complicanze, divagazioni di chi te li racconta. dal buio e dal silenzio esce il gregoriano, alla ricerca di mondi profondi e difficili equilibri, in una concentrazione visibile e fragilissima, dove non c’è spazio per nessuna finzione. poi vedi cinzia che sistema le patate in un vassoio e ti pare stia suonando al piano le ultime battute di bhoemian rapsody.
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(slf)
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illustrazione di Guido Scarabottolo
MUSICA
GLI OCCHI
DI ERODOTO
CoLLoQUio CoN FEDEriCo maria SarDELLi
F
ederico Maria Sardelli è, innanzitutto, musicista: il che vuol dire esecutore, direttore, compositore, ricercatore – non necessariamente in quest'ordine. È poi (si fa per dire): pittore, vignettista, scrittore, poeta – anzi proeta – come si autodefinisce lui.
Vanno raccontate la versatilità e la multiformità dell’ingegno di questo livornese che, da venticinque anni, vive a Firenze. E per farlo lo cerco nella sua bella casa che sa di musica, di arte e di loisir (di cui la musica e l'arte fanno indissolubile e determinate parte). Casa che condivide con Bettina Hoffman, moglie e com-
‘IN EQUILIBRIO FRA VIVALDI E IL VERNACOLIERE’ musicista, compositore, pittore, scrittore, poeta e autore di vignette satiriche per il più irriverente dei giornali italiani. Chi è questo livornese che da un quarto di secolo vive a Firenze? autodidatta, presuntuoso, geniale. E, per carità, mai un’ora di solfeggio nella sua vita, né un’ora di conservatorio. E il catalogo di Vivaldi? ‘È l’elenco telefonico di marte’. INTERVISTA DI CLAUDIO DI BENEDETTO
pagna di condivisioni musicali (Bettina è violoncellista, gambista e musicologa).
Pittore, scrittore, musicista: cosa nasce per prima in te?
Ho fatto un percorso singolare, autonomo e credo ‘irripetibile’. Quando sono diventato insegnante di musica, non ho mai potuto replicare negli altri il mio percorso formativo. Era impossibile, sono un caso strampalato. Mio padre era pittore e io, fin da bambino, avevo – per coincidenza – una bellissima mano. Ero quasi un bambino prodigio (immodestamente!) che a sei anni faceva disegni che sembravano già quelli di un quindicenne. La mia strada era la pittura. Facevo concorsi, nazionali e internazionali, la prima personale a quattordici anni. Casualmente, mio padre era anche appassionato beethoveniano, ascoltava la sua musica a tutto volume perché era sordo e quindi io giravo per la casa con la musica a palla. Per me la musica era Beethoven. E Mozart. E le canzonette che ascoltava mia madre in cucina su Radio Montecarlo. Poi, alla scuola media, l'in-
segnate di musica con l'immancabile flautino e le semplici notazioni musicali. Capii subito il sistema della scrittura musicale, e mi venne come un lampo: ‘Ganzo che bello, questo può servire per scrivere’. Mi venne proprio la voglia, come se ci fosse stato un tappo fino a quel momento di qualcosa che c'era e non aveva mai trovato strada. Ho cominciato a comporre come un assassino. Ero un ragazzino di undici anni con delle idee anche carine, seppure con una scrittura a volte sbagliata, con ritmi sbagliati, errori metrici ed errori armonici. Avevo voglia di scrivere. Cosa? Concerto per clavicembalo e archi in Re min. Op. 1... Sì, lo ammetto, ero un ragazzino presuntuoso e pomposo. Scrivevo questa musica e stavo a casa a comporre. E la mia mamma, precoccupata: ‘Vai a giocare fuori. Non ce l'hai una bimba, come c'hanno tutti?’ Ma fuori c'andavo, magari sempre con questo flautino... E avevo voglia di comporre, tant'è che – vedi tutti quei volumi? – sono composizioni mie che cominciano a quell'età (poi ne ho anche di là e nel computer). Quintali di musica: sonate, concerti.
Ma allora avevi, come formazione, quella singola ora settimanale di musica. Non disponevi di un solfeggio avanzato e conoscevi solo la chiave di Sol...
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Solfeggio? Io non ho mai fatto un'ora di solfeggio in vita mia, un'ora di armonia. Io non ho fatto un'ora di conservatorio. Quindi in musica sono un autodidatta completo. Mai fatto il conservatorio, ripeto. Mai, per carità! Certo, nel momento in cui ho avuto i miei rudimenti – questo dura uno, questo dura due etc., capendo il sistema – mi sono buttato a comporre e il comporre mi ha fatto da circolo virtuoso, facendomi scoprire cose più complicate di quelle che sapessi suonare e scrivere, mettere in partitura. Per cui mi veniva in mente un'idea a tre voci, con armonie particolari, e dovevo fare uno sforzo mentale spaventoso per trovare
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il modo di scrivere quella cosa, superiore alle mie capacità del momento. Per cui io leggevo, magari partiture di Bach. Scrivevo a quattro voci, senza avere uno strumento in casa – a parte il flauto – tutto in chiave di Sol. Poi, per sentire l'armonia, facevo degli arpeggi sul flauto, immaginandomi l'effetto armonico. Sul flauto ho cominciato ad acquistare la tecnica facendo delle cose in tonalità difficili, arpeggi e cose strane. Ho imparato a scrivere, e poi mi sono auto-corretto... oppure grazie a qualche amico (‘Attento, qui c'è una quinta’, ‘Che cos'è una quinta?’ chiedevo). Ma intanto avevo scritto una valanga di corali a quattro voci con le quinte e con le ottave. Una cosa che mi ha fatto sicuramente bene è stato ascoltare i dischi e metterli in partitura. La melodia, la linea principale sono facili. Ma scannerizzavo: ‘cosa fanno le viole? i bassi cosa fanno?’
Quindi tu nasci compositore, prima ancora che esecutore.
R. Ero automaticamente flautista, con il flauto dritto, il flautino delle scuole medie. Però a quattordici anni, tre anni dopo, ho fatto il mio primo concerto col flauto dolce con musiche
barocche di Benedetto Marcello, Vivaldi, Jacob van Eyck. In tre anni mi sono interessato a questi compositori e ho acquisito una tecnica. E devo dire che non ero male. Ero un buon flautista, già a quell'epoca.
Tuo padre che ti soffocava di Beethoven, l'aspetto artistico figurativo... avresti potuto odiare musica e pittura.
faccio solo quello. Poi mi spengo un po' e se mi dici ‘Mi scrivi una sonata?’, non ne ho voglia e mi metto a dipingere. Faccio le cose che mi piace fare, e quando mi stufo dell'una ritorno all'altra. O la scrittura, la poesia. Può sembrare che rimanga sempre in superficie. Invece, quando faccio quella cosa, sono concentrato e serissimo. Non mi sento il pittore della domenica, né il compositore del lunedì. Allo stesso modo, le vignette per Il Vernacoliere (la prima l'ho fatta a dodici anni): ne ho fatte migliaia. ‘Ma come fai a conciliare le vignette satiriche, con Vivaldi?’, mi chiedono. Non ci vedo nessun nesso e nessun conflitto. Il nesso sono io. Forse è tutto casuale. Mi diverto a far quello. Sto in equilibrio. Come arrivi alla ricerca di musica, a ritroso?
Ho affrontato la musica da eseguire andando in ordine cronologico. Ho fatto a sedici-diciasette anni il gruppo Modoantiquo – eravamo
Certo, magari mettermi a fare rock. Tutti i miei amici avevano il gruppino rock. Non ho mai subìto il modello e, anzi, devo riconoscere a mio padre di essere stato ottimo: non mi correggeva i disegni. A volte mi diceva soltanto. ‘Attento Federico, hai sbagliato le proporzioni’. Segnalava l'errore, lasciandomi fare.
In questa tua anima – quella dell'artista figurativo e quella del musicista – c'è un'alleanza. Un ammiccamento. Vi strizzate l'occhio l'un l'altro.
Per forza. Avendo fatto tutto molto spontaneamente, senza una guida, ho sempre fatto – grazie a dio – quello che mi piaceva fare. Ci sono dei momenti in cui mi viene da scrivere musica, e non mi basta mai. Sto una settimana e
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tre – per studiare ed eseguire musica medievale, partendo dal 1100-1200. Sebbene avessi nell'orecchio Beethoven, non potevo fare musica contemporanea. Poi, pian piano, ho riguadagnato cronologicamente gli altri repertori. Ci siamo spinti fino al Rinascimento. Nel 1987 ho fatto la mia prima orchestra barocca nel 1987. Poi sono diventato direttore d'orchestra. E mi hanno sporto verso repertori mai praticati. Fino ad arrivare a Ravel, fatto mesi fa con la filarmonica di Torino.
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CLAUDIO DI BENEDETTO, 62 anni, ama i libri, ama leggerli e raccontarli come un viaggio. Ama scrivere e passa molto del suo tempo nella Biblioteca degli Uffizi a Firenze. Anche perchè lo pagano per dirigerla. Poco, ma lo pagano.
Alla fine ti sei imbattuto in Vivaldi, di cui sei uno dei maggiori esperti e scopritore. Cosa è successo?
È stato un caso. Io non lo conoscevo: un altro pittore, amico di mio padre, ascoltava la musica a tutto volume. Ero un ragazzino: entro nella sua bottega e ascolto una musica bella, fulminante. Rimasi ipnotizzato. Era Vivaldi. Andai a comprarmi tutti i dischi. ‘L'estro armonico, per favore’. ‘Bimbo, costa 30.000 lire’. ‘Porca miseria!’ E vai, a risparmiare per comprarmi i tre dischi de L’estro armonico, poi La Stravaganza... E tutto quello che ascoltavo mi entusiasmava. Ho cambiato tanti gusti negli anni, ma questo non riesco a cambiarlo: ogni volta che l'ascolti ti viene da chiederti: ‘Ma come fa a scrivere così? Ma senti com'è bello questo pezzo!’ Ho cominciato a indagarlo meglio. Nel 2007, Peter Ryom, il musicologo danese, mi incarica di proseguire il suo lavoro di catalogazione
delle opere di Vivaldi. Un lavoro g-i-g-a-n-t-es-c-o. Sapere che la tale composizione ha tre manoscritti: chessò? uno a Uppsala, uno a Londra, uno che deriva da quell'altro che è interpolato con il terzo. Invece nel manoscritto di Oxford c'è un movimento che viene da Giuseppe Matteo Alberti... Ogni pezzo diventa una microstoria, un micro-mondo che quando devi indagarlo diventi scemo. Perché cancella una cosa? perché cancella quella nota? perché ha aggiunto di là? Perché ha tolto di qua? Alla fine entri nella mentalità del compositore, ricomponi la mappa del suo genoma, ossia questo Catalogo delle concordanze musicali vivaldiane [Firenze, Olschki, 2012], che è un po' l'elenco telefonico di Marte, illeggibile, per super addetti ai lavori. E scrivere L'affare Vivaldi, che è una narrazione a tutti gli effetti?
Volevo scrivere la storia dei manoscritti di Vivaldi, ma l'avrebbero letta le solite trecento persone e basta. Una storia così bella, romanzesca di per sé, che non merita di essere schiacciata in un saggio specialistico. E allora ho provato per la prima volta in vita mia il genere del romanzo. Ho pensato a vari editori e poi mi è sembrato che fosse una storia giusta per Sellerio. L'amico Marco Malvaldi mi ha dato un indirizzo. Dopo mesi mi telefona Antonio Sellerio, parlando con una lentezza che ti fa morire di curiosità : ‘Sì, l'ho letto. Mi piace. Ma c'è qualcosa che non mi persuade, le faccio sapere. Dovrò rileggerlo’. Dopo un mese richiamò per dirmi che lo avrebbe pubblicato. Così com'era. E ora siamo, in un anno, all'ottava edizione’.
FEDERICO MARIA SARDELLI, cinquantatrenne, livornese, ha fondato nel 1984 l'orchestra barocca Modo Antiquo con la quale svolge attività concertistica in tutto il mondo. Direttore principale dell'Accademia Barocca di Santa Cecilia e dell'Orchestra Filarmonica di Torino. Regolarmente ospite di grandi orchestre, ha diretto nelle più importanti sale d'Europa e ha al suo attivo più di quaranta incisioni discografiche per le più importanti etichette discografiche. Due volte nominée ai Grammy Awards, è un protagonista della rinascita del teatro musicale vivaldiano: membro del comitato scientifico dell'Istituto Italiano Antonio Vivaldi presso la Fondazione Cini di Venezia, dal 2007 continua la monumentale opera di Peter Ryom di catalogazione della mu sica vivaldiana. Numerosissime le sue pubblicazioni musicali e musicologiche. Nel 2015 il suo romanzo L'affare Vivaldi (Sellerio) ha vinto il Premio Comisso per la Narrativa ed è diventato un bestseller. È anche pittore, incisore e autore satirico, ma questa è un’altra storia.
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ALLE ORIGINI DEL JAZZ E DEL BLUES
SINCOPI MIGRANTI
foto andrea Semplici
Un trombettista comunista, un passaggio troppo veloce di Louis Armstrong, un etnomusicologo che andò in Africa in autostop, una sconosciuta donna del Camerun che canta mentre macina il mais. E poi Bessie Smith, fotografi che vogliono tornare indietro nel tempo mentre suona la cornetta di Joe King Olivier. Eric Hobsbawm, Gehrard Kubik e Paul Oliver si ritrovano per parlare di musica testo di fabio Artoni foto di mario di Bari
Un grande fotografo di jazz, Roberto Cifarelli, mi disse che se potesse salire su una macchina del tempo si fermerebbe a New Orleans, negli anni Venti, per ascoltare come suonava quella musica che cominciava a chiamarsi jazz. Nel suo libro Storia del Jazz (Stampa Alternativa, 2012), il musicologo Stefano Zenni riporta una dichiarazione d'epoca, di Eddie Condon, che fa venire un'irrefrenabile voglia di seguire Cifarelli. Condon parla del Lincoln Garden di Chicago, ma la band è la Creole Jazz Band di King Oliver e Louis Armstrong: ‘Come aprivi la porta le trombe, King o Louis, uno solo o entrambi, emergevano su qualsiasi
altra cosa. L'intero posto ondeggiava. Tavoli, sedie, pareti, la gente, tutto si muoveva a ritmo. Era buio, fumoso, intriso di gin. La gente sulla balaustra si sporgeva e le bevande gocciolavano sotto, sui clienti... Oliver e Louis non si fermavano mai, chorus dopo chorus, con la sezione ritmica a rinforzare il beat finché l'intera cosa non ti entrava in testa e ti mandava il cervello in tilt’. La cosa non piacerà ai tipi di Pubblicità Progresso ma è un sollievo perché smentisce chi dice che a vent'anni si amano le cose muscolari, che ‘if it's too loud, you are too old’; che nella mezza età si passa al jazz, o magari alla world music patinata; e che quando si è in pensione si finisce per ascoltare la lirica, da un impianto ad alta fedeltà con la copertina sulle ginocchia. Quello che ci appare in bianco e nero nelle fotografie, debole nell'intensità e stretto nella dinamica delle incisioni fonografiche del tempo era qualcosa di possente e con sangue nelle vene: dai sussurri di uno slow blues alla polifonia della Creole Jazz Band alla chitarra di Robert Johnson che sfrigolava e si contorceva come lamierino fresco. I libri degli studiosi che parlano della musica afroamericana, del jazz e del blues, ci spingono ad ascoltare quella musica caricandoci su un vagone della macchina del tempo, raccontano di una materia viva, ancora vibrante, di cui troviamo traccia in quasi qualsiasi della musica che ascoltiamo accendendo la radio. Di un sustain lungo un secolo che non è nato nelle savane dell'Africa subsahariana ma nelle grasslands del sud degli Stati Uniti, nelle foreste e porti del Caribe, e nella giungla di genti della città di New Orleans; ma che pure dalle savane si è portato dietro qualcosa, nei ricordi di uomini migranti forzati.
‘Il materiale del jazz è eccezionale per chi abbia un certo interesse per l'avventura umana’ dice Eric Hobsbawm, uno dei più grandi storici dell'età contemporanea che scrisse per molti anni anche di jazz. Si firmava con lo pseudonimo di Francis Newton, dal nome di un trombettista comunista che suonava con Billie Ho93
I musicisti di blues avevano delle emozioni da raccontare e volevano che il messaggio arrivasse a destinazione. Quando Bessie cantava ‘Ho il mondo chiuso in una brocca eho il tappo in pugno’ forse voleva anche dire che ce l'aveva fatta. Hobsbawm dice che questa urgenza espressiva fece del blues una musica ‘espressionista’, dove ‘la tecnica è subordinata al contenuto, anzi ne è determinata’.
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liday. Erano gli anni Cinquanta quando girava per i club e faceva il cronista di jazz. Poi il suo pensiero confluì in un'opera storica dal titolo The Jazz Scene, 1962. Due anni fa l'editore Res Gestae lo ha ripubblicato con il titolo Storia Sociale del Jazz. Nel libro c'è un lavoro da storico: ere e stili che si sovrappongono, la Tin Pan Alley e l'aspetto economico, gli strumenti e la tecnica per suonarli, la connotazione politica e di protesta del jazz. Ma quel che colpisce è vedere Hobsbawm nei panni di un innamorato inconsolabile quando parla del blues e di una donna, che sono tutt'uno in Bessie Smith. La tecnica non è sufficiente a spiegare il perché il blues divenne una forma d'arte popolare senza dovere scendere a troppi compromessi con la musica leggera e senza, al contrario, rimanere confinata nel territorio dell'avanguardia.
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In alto: mulatu astatke, al Time in Jazz di Berchidda, 2014 pagina a destra: Yared Tefera,2013
Hobsbawm, da storico, consegna alla gogna della storia quello che sulle riviste scrivevano i benpensanti sul jazz quando ancora si chiamava jass, attorno al 1920 e dalle parti di New Orleans. Tra quei benpensanti c'era chi diceva cose come ‘Il jazz sarà relegato negli antri oscuri e scarlatti da dove è venuto’ o ‘Questo innominabile jazz deve finire!’ Ma un cronista del Times, Picayune andò oltre: ‘La musica jass è la storia sincopata e contrappuntata dell'impudicizia. Come una barzelletta sporca, nei primi tempi il jass fu ascoltato dietro porte chiuse e persiane abbassate; poi, come tutti i vizi, si è fatto sempre più ardito, fino a sfidare più apertamente gli ambienti per bene’. In quell'oltre di un moralista, a essere maliziosi, si sospetta che quello che viene troppo proibito diventa attraente. Come sarà finito quel giornalista del Times, Picayune, così dibattuto tra convenzioni che gli tenevano il busto rigido e una nuova musica che lo chiamava a liberare con il corpo anche la testa? Forse c'è una risposta in un passaggio del libro L'Africa e il Blues di Gehrard Kubik. La cultura bianca dominante, prima schiavista e poi padrona, si scandalizzava delle danze, dei ritmi sincopati e dell'indeterminatezza della musica dei discendenti degli schiavi ma poi ne era attratta e qualcosa faceva entrare dalla finestra. Aveva però bisogno di un teatro, di un ambiente di finzione, che rendesse la cosa ‘socialmente accettabile’ e si inventò i blackface minstrels. Questi spettacoli di vaudeville furono largamente popolari tra i bianchi nell'America dell'Ottocento; spettacoli razzisti dove i neri erano ‘coons’, procioni. Ma qui i bianchi potevano uscire dalle convenzioni: si dipingevano la faccia di nero con il carboncino e si comportavano
Vieux Farkatourè, adis abeba 2012
e ballavano e suonavano da neri. Scrive Kubik: ‘[Il bianco] poteva trasformarsi in un negro e comportarsi come avrebbe sempre desiderato, senza sanzioni sociali da parte della propria comunità; e i suoi spettatori avrebbero sperimentato insieme a lui un sollievo a lungo cercato’.
Il lavoro di Gehrard Kubik è frutto di anni di ricerche e registrazioni sul campo; dal 1959, quando Kubik partì in autostop da Vienna per l'Africa. La tesi di Kubik è che ‘Il blues è una tradizione afroamericana che si è sviluppata 96
nel Deep South degli Stati Uniti’. L'Africa e il Blues é un libro difficile e avvincente, ma le registrazioni alleviano la fatica. Una delle più sorprendenti è quella di una donna tikar, Camerun centrale, 1964; Kubik entra in un villaggio e ascolta e registra il canto di una donna che macina del mais su una pietra. Voce, raschiatura del mais e pietra da macina che cade nella ciotola, insieme ci fanno ondeggiare e dondolare, battere il piede, seguire con il corpo le piccole sfasature del ritmo; e ci fa arrivare quel senso di rilassatezza nello scorrere del tempo e tra gesto e suono che possiamo chiamare swing, e senza che la parola assuma il senso di un'etichetta. La donna Tikar dice: ‘Ho avuto un problema a causa degli uomini. Se non lavori non puoi mangiare’ e Kubik la mette a confronto con l'Hard Working Woman di Mis-
corre ad ascoltarsi Careless Love o Trombone Cholly per ascoltare la chiamata di Bessie Smith e la risposta della tromba di Armstrong o del trombone di Charlie Green. Traslazione della voce umana sullo strumento? Ecco Sarah Martin in Mistreatin' Man Blues... Però sembra che accanto a lei ci sia qualcuno in sala di registrazione che piange e si lamenta. E invece è la cornetta di Joe King Oliver. E cosa fa quell'uomo in wah wah? Simpatizza o forse implora quella donna di smetterla, una buona volta? Chi chiama è la cantante ma chi risponde non è uno strumento: è solo la voce di un altro uomo, in incognito sotto cornetta e sordina. Sulle blue notes c'è l'assolo più famoso e celebrato della storia del jazz, quello di King Oliver in Dipper Mouth Blues: un'entrata che spacca e poi tre note blu alla stessa altezza e infine il Play that thing di Johnny St Cyr.
sissipi Matilda, come esempio di una duplice, incredibile assonanza, per forma musicale e contenuto letterario.
Questi libri parlano spesso di riff, di ostinati, di traslazione della voce umana su uno strumento occidentale, di tinta ispanica nel ritmo, di canto antifonale... Bisogna leggere e ascoltare. I pezzi sono famosi e si trovano sparsi tra innumerevoli raccolte di jazz e blues. Ma non si può piluccare, ci vuole metodo e costanza. Bisogna leggere I Segreti del Jazz. Una guida all'ascolto di Stefano Zenni (Stampa Alternativa, 2007) e quando manca il fiato ci si può fermare a rifiatare. Si legge che il blues formatosi nel deep south degli Stati Uniti conserva nella struttura antifonale a botta e risposta tra voce e strumento reminescenze africane? Si
I Segreti del Jazz termina con un paragrafo che fa bene in questi tempi di uomini spaventati da altri uomini, migranti un po’ per scelta ma molto anche per forza, questa volta: ‘L'affermazione del jazz negli anni Venti ha rappresentato una vera e propria rivoluzione dell'espressione musicale e corporea che non si è più fermata […] Oggi i riff di basso, gli stacchi di trombe e sassofoni, le inflessioni blues sono ovunque: nelle colonne sonore per il cinema, nella pubblicità, nelle sigle televisive, nella musica leggera. Oggi il jazz, con altri nomi, è una lingua presente ovunque, il dono trionfante di figli e nipoti di milioni di schiavi’. fabio artoNi 47 anni, milanese, un passato (quasi) remoto in italia da statistico e poi da redattore per una rivista per musicisti. Da nove anni vivo con la famiglia in Etiopia lavorando in piccoli progetti di microcredito e in orfanotrofio. Quando sento di avere qualcosa da dire, provo a raccontare la vita della gente degli altopiani. mario di bari, 60 anni di Canosa di Puglia, ha passato l’infanzia a matera dove ha incontrato la passione per la fotografia. ha vissuto a milano, Stoccarda, Firenze, addis abeba facendo l’ insegnante di scuola elementare. Nel suo archivio ci sono le foto di molti dei protagonisti della scena musicale etiopica e africana. 97
di tutte le età e professioni, desiderosi di galleggiare sulle linee vocali più autosufficienti dell’intera tradizione sonora occidentale.
IL POPOLO DEI GREGORIANI un codice essenziale, un esercizio igienico, una musica che vola con le sue ali, librate sul fiato umano: si canta senza vanità, per tornare a respirare.
testo di luana Salvarani foto di andrea Semplici
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ra le infinite mode e manie del “tempo libero”, si sta lentamente ma inesorabilmente insinuando una corrente inaspettata, limpida e solenne: il canto gregoriano. Persone di tutte le età e professioni si tuffano volonterose nel fiume lento, incantatorio, di questa musica lontana nel tempo, pronti ad affrontare il rigoroso allenamento mentale che serve per riuscire a galleggiare sulle linee vocali più autosufficienti dell’intera tradizione sonora occidentale.
Studiare gregoriano è, innanzitutto, un esercizio igienico, al pari della ginnastica svedese o del tai chi. Comprendere un codice essenziale, ridotto al mero necessario eppure infinitamente ricco, come la notazione neumatica; abituarsi a cantare tutti all’unisono, senza vanità da soprani, sensualità da contralti, eroismi da tenori o sussiego da bassi (e se l’intonazione non è perfetta, è un casino); rimanere concentrati sulla parola ritmata, ripulendo interiormente la musica da tutti i fronzoli, i gesti, le ritualità sceniche, gli espedienti di facile presa di cui anche la miglior musica “classica” si è spudoratamente nutrita per secoli. Col gregoriano non serve cantare parole più o meno appassionate o 100
bizzarre (i testi sono sempre quelli da oltre un millennio: il Graduale romano, gli antifonari, l’ordinarium missae), non servono effetti lirico-teatrali, nessun tappeto volante d’armonie o pulsazione di ritmo percosso vi sosterrà. il gregoriano vola con le sue ali, librate sul fiato umano e sulla sillabazione latina curata in ogni suo dettaglio, e se la tensione vocale e intellettuale si smorza – se ci si distrae anche solo per un attimo – è destinato a precipitare immediatamente, come un paracadute che non si apre. Forse
per questo i corsi di gregoriano non sono frequentati prevalentemente da musicisti, abituati a gestire i trucchi del mestiere con una spregiudicatezza totalmente inadeguata alla sublime economia dell’antico canto monodico. il gregoriano, se studiato con serietà e passione, è il modo migliore in cui la musica può elargire i suoi doni e rivelare la ricchezza del suo codice. ma ha anche una varietà di indicazioni che lo rendono una terapia interiore e sociale dalle potenzialità ancora ine-
splorate. insegnanti appassionati ritrovano il dominio e il controllo della propria voce, sfibrata dall’uso come briglia e bastone nelle classi chiassose; professionisti d’ogni sorta rivivono grazie al gregoriano il senso di una concentrazione puntuale, monolitica, quando sono abituati a sfarfallare in un multitasking senza requie; scienziati e medici cercano nel sistema dei modi, con le sue corrispondenze numeriche e filosofiche, 101
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l’ordine soggiacente alla natura, se c’è. Poi c’è il significato religioso e spirituale dei canti, che non è per tutti. ma il gregoriano ha il buon gusto di non imporlo attraverso quell’estetica melensa che invase poi la musica liturgica con l’invenzione del sistema tonale. Presupporre un Essere Supremo a cui si cerca, umilmente, di sottoporre il proprio canto di lode, aiuta indubbiamente a non sgarrare. ma la celeste grammatica dei neumi attende al varco intellettuali organici e sensibili cercatori del mistico, appassionati di enigmistica e lettori di polpettoni medievali, frati e cyberpunk, cattolici praticanti
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stanchi di chitarre e agnostici che hanno provato già tutto, da Gianni morandi a Stockhausen. Poi scopri il gregoriano e anche i pezzi classici più celebrati ti sembrano insopportabilmente frivoli e retorici. Come passare un mese ad assistere ai capolavori del Teatro Nō e trovarsi improvvisamente a una recita della Bohème. L’unica possibilità è rifuggire verso il dorico e il misolidio, lo scandicus e il quilisma, e respirare. Di nuovo.
L’Associazione internazionale studiosi di canto gregoriano (AISCGRE) è stata fondata a Roma nel 1975 da un gruppo di allievi del grande studioso e monaco francese Eugène Cardine. Diffusasi rapidamente in Europa, e persino in Giappone, l’associazione si è ingrandita a tal punto che è stato necessario istituire sezioni. Quella italiana, con sede in Cremona, è attiva da più di trent'anni nell'organizzazione dei Corsi Internazionali di Canto Gregoriano estivi e invernali e nella pubblicazione della rivista scientifica annuale “Studi gregoriani”. Il reportage fotografico è stato realizzato nel corso della sessione estiva dei corsi 2015 a Venezia.
luAnA sAlVArAni, 44 anni, ex-filologa, ex-insegnante ed ex-musicista praticante, per ora storica dell’educazione, ove ha trovato il modo di gabellare la sua fissazione per il western per una cosa seria. In attesa del prossimo prefisso ex-, nuota, non beve alcoolici e va a letto presto.
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La cucina e il Rock
LA CUOCA DI FREDDIE MERCURY
La piccola, grande storia di Cinzia: era cuoca, allestiva vetrine con frutta e verdura e andò a un colloquio con la rockstar. Venne assunta per una scenografia e le fu chiesto di preparare spaghetti al pomodoro con basilico…
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testo e foto di fabio folicaldi
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ono al ristorante ‘i Sapori di Caruso’, all’interno della Villa Caruso di Bellosguardo. Comune di Lastra a Signa, una delle zone collinari più belle della provincia di Firenze. Davanti a me, in un giardino all’italiana, Cinzia, la Chef, o, forse, è meglio definirla ‘l’artista’. Sì, perché ha studiato lettere e ha insegnato, poi l’arte l’ha chiamata e allora ha cominciato a scrivere poesie e a dipingere e poi ha fatto l’accademia d’arte e dopo essere diventata restauratrice e aver collaborato anche a una parte del restauro delle cornici dei quadri degli Uffizi, ha fatto corsi di gioielleria. Poi studia ancora, diventa vetrinista, infine si avvicina alla cucina. È la sua arte finale: si diploma e comincia a lavorare all’Enoteca Pinchiorri a Firenze. oggi Cinzia è Chef stellata.
del frontman dei Queen. insomma Cinzia andò a parlare con Freddie mercury. anno 1988, Cinzia convince Freddie, che la ingaggia per la realizzazione della scenografia di un video che poi diventerà famosissimo. Quello della canzone che mercury canta insieme a montserrat Caballé. Cinzia mi fa vedere il video e con orgoglio mi indica il colonnato e i bracieri di fiamme vere che ha ideato e realizzato. Cinzia incontra una seconda volta Freddie, il suo lavoro è accettato. Lui l’avverte: ‘D’ora in poi quando verrai a Londra, niente più alberghi, taxi o autobus. Userai la mia macchina con il mio autista e verrai a casa mia a dormire! Però dovrai cucinarmi spaghetti con pomodorino fresco e basilico!’. E così sarà. Cinzia torna a Londra e Freddie è lì ad aspettarla. Lei nella borsa ha i pomodorini, il basilico e la pasta. Dormirà al Garden Lodge e per due settimane cucinerà sempre e solo spaghetti ai pomodorini e basilico. ‘Non voleva altro’. Freddie a tavola è la persona più semplice del mondo, spartano e per niente egocentrico, consapevole del suo successo, ma allo stesso tempo umile e normale. Dopo cena si sedeva al pianoforte a suonare, a fare i suoi gorgheggi e a chiacchierare così solo per rilassarsi. Cinzia e Freddi si scriveranno a lungo. Lei tornerà a Londra un'altra volta, per dieci giorni. E poi ancora lettere, gelosamente conservate ‘come delle reliquie’. riposte in cassaforte: ‘Nessuno le leggerà mai, troppo personali e private’. Torniamo indietro nella sua storia: grazie al connubio fra l’essere vetrinista e i primi passi del mestiere di cuoco, trova lavoro ai magazzini harrods a Londra ai tempi di al-Fayed. Cinzia lavora fra fra Londra, Dubai e l’Egitto. Le sue vetrine Londinesi, in cui gioca con la frutta e la verdura, non passano inosservate e un suo collega vetrinista la segnala ad una agenzia che cercava uno scenografo per un lavoro importante. Lei non si fa scappare l’occasione e va a questo colloquio e scopre per chi dovrà lavorare o, meglio, lo incontra. Perché sarà proprio Lui in persona a farle il colloquio: stiamo parlando della presenza, esuberante per eccellenza, di un cantautore musicista e compositore britannico, considerato uno dei più grandi e influenti artisti nella storia del rock, di una voce senza eguali,
ma Cinzia decide di condividere con me l’ultimo messaggio che Freddie le ha scritto. me lo dice a memoria: ‘Cara Cinzia, ormai è arrivato il mio momento, così giovane e per un errore della vita finito da questa malattia infernale. i love you, dear’. E due piccoli cuori disegnati sopra la firma. Cinzia sale sul primo volo per Londra e corre a dargli l’ultimo saluto come amica, come fan, come cuoca. Freddie è stremato dalla malattia, non ha la forza di alzarsi. Un filo di voce: ‘Sei una grande amica, chiudo gli occhi pensando a te, ti auguro ogni bene della vita’. fabio folicardi, 34 anni, fotografo, nato a Ferrara vive e lavora a Firenze, e alla domanda Chi sono? risponde ‘Ci stò pensando su” e appena avrà una risposta ce lo dirà.
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un disegnatore fiorentino e un’archeologa piemontese. Non si conoscono, non sanno del lavoro dell’uno o dell’altra. un incrocio di/segni. il tratto che dà una forma e la scrittura. abbiamo voluto far incontrare fabio e valentina. in una stanza virtuale, il tempo di veloce ed effimera conoscenza. valentina ha guardato i di/segni, poi è uscita, ha passeggiato, alla fine si è seduta su una panchina (sono bei luoghi le panchine) e ha scritto. di getto. un segno verso un altro segno. ha scritto a istinto. fabio ha lasciato i suoi di/segni sul tavolo e noi ne abbiamo approfittato: ce ne siamo impossessati. fabio ha messo un titolo: ‘l’equilibrista del sapere’. valentina ci ha mandato le sue parole e ne ha messo un altro: ‘le rovinose cadute del sapere’. Noi ci siamo dati un compito: far incontrare persone sconosciute, dare una mano al destino, incoraggiare uno scambio. questo è accaduto: un baratto di segni.
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L’EQUILIBRISTA DEL SAPERE
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QUADERNI A QUADRETTI
“L’EQUILIBRISTA DEL SAPERE” O LE “ROVINOSE CADUTE DEL SAPERE” ? testo di Valentina Cabiale A prima vista l’equilibrio del sapere non c’entra per nulla. L’equilibrio del sapere – penso – è Socrate. è più un equilibro dell’ignoranza, un tenere insieme i pezzi sapendo che non si combineranno mai. I disegni sono troppo pop. Il tratto spesso è di quelli che impugnano il pennarello in fondo, a pugno. Poi li guardo meglio. Alcuni se ne stanno ritti, il corpo a formare un triangolo dai lati precariamente rettilinei. Altri in equilibrio su un cerchio. Una sola donna con le gambe accavallate. Chi è solo volto, o più spesso un grande occhio con becco e capelli al vento. Bestie che tuttavia sappiamo riconoscere.
1 Il tutto inizia con “alt”, un grotte-
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sco cartello di cantiere inchiodato come Prometeo a una rupe. Fermatevi qui che inizia la sfilata.
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La prima è una signora in bici, il corpo poco snello di segmenti dritti e curvi in equilibrio su una ruota. Non sa per nulla che cosa sta facendo.
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QUADERNI A QUADRETTI
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Ritratto liquido ma per niente narciso. Chi vorrebbe vedersi così? Perchè mi dovrei guardare – perchè sono – se la restituzione è questa. Ma c’è una linea orizzontale di riflessione, che dà l’inclinazione al volto, le espressioni, forse persino la felicità.
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C’è una linea anche per la sfinge che fumando incatramato pensa. La chioma sembra bionda. Qualcuno ancora la interroga? è sola, del resto. Immersa forse in sterili e attorcigliate problematiche intellettuali del tipo: a cosa servono gli intellettuali?
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5 Signorina dal vestito peloso, le gambe accavallate che compongono un 112
cuore (tutto bianco con contorno nero – ma non è monocromo, siamo pur sempre su un quaderno a quadretti). E anche lei, appoggiata su uno sgabello a mezzaluna, sembra dondolare con le braccia invisibili su una ringhiera orizzontale.
6 L’equilibrio lo si tenta a metà strada, all’altezza delle anche. Nessuno si accontenta di una linea orizzontale sotto i piedi. Quell’occhio che di profilo guarda sempre frontalmente l’hanno fatto gli Egizi per secoli e ancora c’è chi pensa che non sia stato per scelta.
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Oggi ci si fa piccoli e non si esce di casa. Non saprei cosa mettermi, d’altra parte. Non ho più l’età. Mi sono svegliata come una zuccheriera, immobile sullo scaffale in cucina. Io che pure non ho mai visto l’Egitto.
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Signora alla moda, zigomi alti, è andata al gran premio di formula 1. Meglio se cittadino, Montecarlo o Vancouver. L’equilibrio è la sicumera, è il vivere effimero colpiti da un vento che sarà artificiale. Cerca di schivarlo il figlio peluche, l’unico dalle sembianze naturali.
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Si è messa un tailleur maschile, ha preso tutto quello che aveva e va all’incontro che le cambierà la vita. 116
10 L’incrocio delle linee, delle forme, dei neri e dei bian-
chi. La prontezza o la follia di mettere tutto nel piatto, nella speranza che di quel tutto agli altri appaia qualcosa. Che non sembri inconsistente, superficiale, una persona che non ha niente da dire.
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Una monaca di Monza senza volto, o un piccolo folletto tutto scarpe che gioca a fare il fantasma in bilico su una montagna di pelo. Rimane che tutto poggia su una linea orizzontale e non cadrà.
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Lei è fiera e finge di non avere paura. Sta in piedi con una borsetta triangolare (o è una lira?) e un ciak irrigidito infilzato nella schiena. Forse è la donna num. 2 che è caduta dalla bici, ha investito i bambini che uscivano da scuola, ora impettita - con quel mento un po’ rialzato che non fa dubitare se ne va dall’altra parte.
Nel trasmettere il sapere ci vuole un grande equilibrio, sì. Ci vuole confidenza con se stessi. La saldezza per rimanere nelle proprie convinzioni. Non sarà piuttosto rigidità? Allora forse è un bene che quello stare in piedi, su due gambe distanziate, appaia instabile. Che quella ruota su cui tentano l’equilibrio la si veda muoversi senza sosta avanti e indietro come a uno spettacolo per bambini. Che quei volti basti toccarli perchè si capovolgano intorno alla sbarra orizzontale (intorno a se stessi, l’identità sempre perduta). Come la banderuola montaliana, affumicata, che gira senza pietà sul tetto della casa dei doganieri.
"LA MERAVIGLIA DEL NON CAPIRE” FABIO DE POLI di Felisia Toscano
osservare, capire, emozionarsi: Alt e poi continua. fabio de Poli apre i suoi dodici titoli con un "Alt", perché prima di partire, bisogna prendere la rincorsa. lui è l'equilibrista del sapere. un sapere che non è qualcosa che si ha ma qualcosa che si è. fabio de Poli è attraverso la sua Arte, attraverso i suoi disegni, è un tratto deciso che si perde in una pagina bianca. è il rosso che continuamente si compone e ricompone, si solidifica e si liquefa. è la storia più importante, quella dell'umanità raccontata attraverso una sfinge che fuma. Perché il sapere è anche piacere.
è l'infinito che scorre in continuazione, è condivisione, è donna, è compagnia, è un animale, sono scarpe pronte per partire, per andare, per conoscere. fabio de Poli prova continuamente a catturare la conoscenza tra il segno e la pagina, prova a trattenerla e mentre gli scivola dalle mani cerca di fermarla con la sua Arte, che è l'emozione di chi osserva, di chi scruta, di chi vuole "sapere". è un equilibrista che tra i suoi disegni crea ad ogni fine, un nuovo punto di domanda che mette in dubbio e mescola le carte. è la meraviglia, l'unione, la separazione, è l'Arte.
fABio de Poli nasce a Genova nel 1947, è stato un protagonista della nuova pittura fiorentina negli anni '70. Considerato, a torto, un artista con radici Pop, affonda invece la sua cultura nelle avanguardie storiche europee come il movimento Dadaista. La sua ricerca si è sempre spinta verso un'analisi e un attraversamento singolare della pittura europea dei primi del '900. Non classificato e non classificabile, il suo lavoro mantiene da anni un rigore e una originalità non comuni.
felisiA toscAno, 25 anni, laureata in Produzione di spettacolo ed arte, scrive e si occupa di giornalismo, arte ed eventi culturali. Attualmente fa parte della Direzione Artistica dello spazio Art Corner della Biblioteca San Giorgio di Pistoia. VAlentinA cABiAle, archeologa, 32 anni. Laureata in Lettere a Torino, specializzata in archeologia medievale a Firenze. Ama viaggiare ma soprattutto leggere, non le biografie (proprie e altrui).
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STORIE DI CIBO
Che per la religione ebraica è la Torah: cinque libri che dettano le regole alimentari di un cucinare complesso e particolare. Nello stesso piatto non possono essere mischiati latte e carne. Carla reschia ha ripercorso in un libro il lungo viaggio del cibo ebraico. Per scoprire anche che gli ebrei americani adorano la cucina cinese
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testo e foto di carla reschia
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carla reSchia. Sostiene di avere fra i 15 e i 105 anni. Giornalista della Stampa. Si occupa di esteri, cultura e diritti umani. Viaggia ogni volta che può. Legge molto. adora dormire, le 'relazioni complicate', i bassotti, il cibo indiano e il sushi. Con Stefanella Campana, ha scritto Quando l'orrore è donna. Torturatrici e kamikaze. Vittime o nuove emancipate? (Editori riuniti).
Le cucine degli ebrei
IL CIBO DEL PENTATEUCO
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iù che di cucina ebraica si dovrebbe parlare di cucine. Perché sono tante quanti sono gli ebrei della diaspora e le loro millenarie peregrinazioni. Oltre che molto varie in termini d’ingredienti, preparazioni, suggestioni, dato che risentono e sono state influenzate dalle tradizioni locali dei vari paesi dove hanno vissuto e vivono gli ebrei. Si va quindi dai leggeri piatti mediterranei ricchi di aromi e spezie alla grassa e abbondante cucina nordica, passando per alcuni classici europei e mediorientali. Fanno parte della cucina ebraica tanto l'humus come il pastrami, entrambi “condivisi” con le rispettive culture d'origine, quella araba per il primo, quella russo/polacca per il secondo. Così come le sarde in saor veneziane e i romanissimi carciofi alla giudia, o un classico internazionale come il salmone affumicato. Cosa tiene insieme, allora, cibi tanto diversi? C'è un sottile ma tenace filo che li unisce, un unico, severo, comune denominatore: la purezza rituale. Il cibo preparato secondo le regole dell'ortodossia dev'essere kosher, ovvero adatto, vale a dire seguire i dettami della kasherut. Che è un codice alimentare, sì, ma anche religioso. Non a caso molte delle sue regole si trovano disciplinate nella Bibbia, in particolare in
quello che nella liturgia cristiana è il Pentateuco, i cinque libri di Mosè, e per gli ebrei è la Torah. Come le prescrizioni sugli animali permessi e quelli vietati, le regole di macellazione e quelle che proibiscono di combinare nello stesso piatto, e nello stesso pasto, alcuni alimenti: a esempio la carne con il latte e tutti i suoi derivati. Una regola solo apparentemente facile da seguire che rende proibita una sem-
plice pasta al ragù con il parmigiano. Mangiare, come ogni altro atto quotidiano, è per l'ebreo osservante un modo per manifestare la fede e l'obbedienza al Creatore,
quindi per imporsi una disciplina che non lasci nulla al caso e all'improvvisazione e anche per ricordarsi di sè e delle proprie origini. Il pane azimo di Pesach è un buon esempio di questi complessi legami: è cotto senza lievito perché ricorda la precipitosa fuga degli ebrei dall 'Egitto e l' ultima frettolosa cena, quando non ci fu nemmeno il tempo di aspettare che il pane lievitasse. Mangiarlo significa rivivere la memoria di uno degli eventi più significativi della narrazione biblica, ripeterne e tramandarne, ritualizzata, l'esperienza. Ma ci sono anche combinazioni innovative e del tutto contemporanee. In ogni paese, infatti, fermo restando il contesto delle norme, i piatti e i gusti si sono adattati alle tra-
dizioni locali, adottando, o modificando le specialità più diffuse e amate. C'è quindi tra gli ebrei dell'Asia e soprattutto indiani, un pollo al curry kosher. E c'è per tutti, ma soprattutto per gli americani, il bagel, una sorta di felice invenzione moderna di una ricetta ebraica perché combina un classico panino diffuso nel mondo anglosassone con il salmone, pesce ebraico d'elezione perché dotato di lisca ossea e di squame e permette l'uso di panna cioè di un latticino, che non sarebbe invece consentito con la carne. Un altro esempio di cucina ebraica "adottiva" è quella cinese, pure molto apprezzata dagli ebrei americani, perché, non contemplando l' uso di prodotti caseari, permette di concedersi un pranzo diverso dal solito senza violare i precetti. Fino a un certo punto, almeno, dato che il codice della purezza prevede che l'ultima parola sull'idoneità del cibo spetti a un rabbino. Perché se il cibo è legato alla tradizione e alla fede, mangiare è più che nutrirsi, è un atto etico. Ne parla lo scrittore Jonathan Safran Foer nel libro ‘Se niente importa’, in cui spiega la sua scelta vegetariana, raccontando di sua nonna, che era riuscita a sopravvivere alla Shoah senza infrangere le regole alimentari ebraiche e che di fronte allo stupore dei suoi interlocutori - perché rinunciare anche al poco cibo disponibile quando era in gioco la vita – replicava: "Se niente importa allora non c'è nulla da salvare".
da veNeZia a geruSalemme Sei capitoli per un itinerario da Venezia a Gerusalemme, passando per i luoghi ebraici dell’Europa, degli Stati Uniti e dell’ oriente. Un’esplorazione geografica e gastronomica attraverso citazioni letterarie, racconti, aneddoti. Dentro ci sono i miei viaggi, le mie letture, i miei ricordi e il fascino di una cultura a cui sento in parte di appartenere. il libro ripercorre la storia della diaspora ebraica nelle diverse aree geografiche, legando i temi del cibo e delle severe e a volte apparentemente incomprensibili regole alimentari al concetto d’identità ebraica. ogni capitolo si conclude con una o due ricette: si scopre così che sono (anche) ebraici piatti appartenenti ad altre tradizioni culinarie e che ebraiche sono le radici di molti dei nostri comuni riferimenti culturali, filmografici, musicali e storici. a me piace pensarlo come un libro che tenta forse di rispondere, nel modo più leggero possibile a quello che anche Ben Gurion fondatore dello stato di israele, si domandava, senza riuscire a trovare una risposta univoca: Chi è ebreo?
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STORIE DI POESIA
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testo e foto di Kumbro bigazzi
gni mattina Haydee invia un saluto a Josè Maria. Dal Salvador al Costarica. Via facebook. ‘Buen dia’. Non è un semplice buongiorno. Sono le cinque del mattino. Haydee sa che Josè Maria si sveglia presto. Per lavorare. Per scrivere. Per la poesia. Josè Maria Zonta è un poeta costaricense. Un buon poeta.
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Josè Maria ha 54 anni. Haydee Valencia ne ha 21. E da quando ne aveva tre è cieca. Quel buen dia è un richiamo. Dopo qualche minuto, Josè Maria risponde. Manda un verso. Parole che sono un inizio. ‘L’ombra del gatto è un leone. La lucertola proietta sul muro l’immagine di un dragone’. E’ quello che Haydee aspetta. Legge quelle parole e lascia che entrino dentro di lei. Attraverseranno le ore della sua mattina, prenderanno altra forma nel pomeriggio.
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KumBro BigAzzi. 34 anni, è nato a Tavarnelle Val di Pesa. Sei anni fa è partito per il Nicaragua ed è capitato, per caso, che là è rimasto (anche se torna spesso in Italia). Avrebbe voluto fare il poeta, ma, alla fine, vive di 'espedienti'. Continua a occuparsi di poesia, questo sì. Ha cambiato nome: e un mago costaricense gliene ha inventato uno toscano di fronte a un piatto di Gallo Pinto.
haydee Valencia cominciò a scrivere poemas per un’assenza
UN ALTRO GUARDARE ogni mattina, Josè maria invia alcune parole a haydee. dal costarica al Salvador. lei lascia che quelle frasi entrino dentro di lei e, a sera, è un nuovo poema. in centroamerica la poesia fa parte della vita. Alla fine della giornata, lei, giovane poetessa salvadoreña, avrà scritto un poema. Che il poeta del Costarica leggerà, correggerà, ne parleranno assieme. ‘Quando saranno centoquaranta poemi, sceglieremo i settanta migliori. E li raccoglieremo in un libro’. Per ora, destinato a chiamarsi Otro mirar. Possiamo tradurlo con un ‘Un altro sguardo’? Oppure ‘Un’altra maniera di guardare’? Haydee un anno fa aveva smesso di scrivere. L’incontro, casuale e fortunato, avvenuto nel mondo del web, con Josè le ha fatto ritrovare il desiderio di comporre le sue poesie.
Josè si incuriosì quando in una foto (i piccoli miracoli di quella ossessione che è Facebook, a volte, diventano reali) vide Haydee assieme ad altri poeti. ‘Sì, mi colpì. Si capiva subito che non vedeva. Le scrissi, volevo leggere le sue poesie’. ‘Scrivo ogni giorno, da quando ho dieci anni – dice Haydee - In braille. È semplice: prova… ’E allora sfioro con il dito indice (mi spiega che si usa questo dito) i puntini rotondi di un alfabeto a me incom-
prensibile. Un altro modo di leggere. Posso chiudere gli occhi, è vero. Ma io posso riaprirli. ‘Scrivo perché mia madre se ne andò. Avevamo bisogno di soldi, e lei provò a cercare lavoro al Nord, negli Stati Uniti. Rimasi da sola con la zia. Scrivevo per un’assenza’. La madre è tornata sei anni dopo. Questa è la storia del Salvador, dei paesi del Centroamerica. Madri sole con figlie. Il viaggio clandestino e oscuro verso la ricchezza del Nord America. Haydee, senza vedere, nel buio mentre il sole accendeva i colori dei tropici, scriveva. Fino a riuscire ad andare all’Università. In Centroamerca la poesia è importante. Ora Haydee vive con la madre, a La Paz, un quartiere della periferia di El Salvador. Vicino all’aeroporto.
Josè ha riacceso il desiderio di scrivere di Haydee. ‘Mi ha dato una disciplina. Mi dà consigli’. Josè è esigente, le ordina di togliere aggettivi: ‘La poesia non deve spiegare troppo, deve accompagnare un lettore’. I versi di Josè, le parole per
cominciare sono tutti orginali, create per lei. Questa mattina, per la prima volta, sono assieme a Granada, in Nicaragua e lui non gliele ha spedite: gliele ha dette. Per la sera, Haydee dovrà scrivere…
Haydee ha preso un bus per Managua, capitale del Nicaragua. Un’amica, anche lei non può vedere come vediamo noi, l’ha accolta. Assieme sono venute a Granada. In febbraio, in questa città, si riuniscono ‘i poeti del mondo’ in uno straordinario Festival internazionale. Non aveva un invito ufficiale, Haydee. Ma è stata in mezzo a loro, ha finalmente ‘visto’ Josè, ha letto le sue poesie nei microfoni aperti, ha incontrato altri poeti. Le sue mani, sulla pagina braille, apparivano quelle di una pianista: guardavo le due dita muoversi con le unghie dipinte di argento e sentivo la musica che ne usciva. Mirabel, poeta del Costarica, chiude gli occhi e ascolta. Anche lei sa che potrà riaprirli, potrà vedere di nuovo. Il visibile e l’invisibile, potrebbe essere un altro titolo per il libro di Haydee. ‘Dovremo seguire il volo di una farfalla per almeno sei mesi, dovremo osservare il galoppo di un cavallo bianco’, dice Josè. Il libro sarà una felicità per la poetessa che non vede. Haydee sorride. Deve alzarsi, leggere davanti ai bambini di un taller de poesia, un laboratorio di poesia. È in piedi e ricomincia a suonare il pianoforte. Come si comincia un poema?
Hay cinco maneras de encomenzar un poema Pero solo una de terminarlo. La primera rescatando las silabas De la tela de aragna. Luego a guardar la noche Para devestirla y banarla la luna. Despues esconderla entre las manos Hasta que nascan los versos Y recubran las paginas de tinta y lacrimas Otra manera de empezar un poema es Volviendose amigo del silencio. Escucharlo hasta que duela respirar. Para comenzar un poema es indispensable Costruir un espejo Tan real como la lluvia Tan cercano como el tiempo. Para terminar un poema Hay que aderirse a la centrana del rio Hasta hacer otro, hasta hacer Uno con los huesos del agua Hasta hacer poesia que alimenten Las raises y los stayos de las plantes. È davvero necessaria la traduzione?
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dalle filippine all’isola domenicana gli animali lottano all’ultimo sangue per le scommesse degli uomini. un maestro e un naturalista si trovano di fronte al combattimento feroce e spietato dei galli.
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cerco il senso del mio benvolere verso il creato. anche verso i polli. Verso i galli. Dico: non sopporto il combattimento all’ultimo sangue di questi animali. Noi siamo i buoni. Condanniamo, condanniamo. Poi lascio lì i buoni sentimenti e mi incammino. mi vedo mentre entro, a passi strascicati, nel gallodromo di Neyba, una delle città più povere della frontiera fra haiti e repubblica Dominicana, Caraibi lontani e vicinissimi dalle spiagge da dépliant. Guardo la lotta dei polli dagli occhi di ferocia, osservo l’eccitazione degli uomini, il giro dei soldi, il fruscio delle banconote. ring machista. Non vedo una sola donna attorno. Fotografo. a distanza. Questa volta non mi avvicino troppo, le foto non sono un granché. ho avuto paura. Le immagini non replicano il sudore, l’adrenalina, l’avidità, la violenza. e poi c’è il racconto di Nazim. È arrivato in redazione mesi fa. Ben presentato. Scritto in maniera nervosa, quasi un rap. Puttane, alcool di cocco, frattaglie, anime vuote, odori di sperma, il culo di rosy. Questa volta siamo alle Filippine. Là, almeno i galli hanno migliaia di anni di storie di guerre. in latinoamericana ce li abbiamo portati
GLI ARTIGLI DEL POLLO
noi europei e abbiamo mostrato il duello dei polli alla gente del posto. insomma, l’articolo di Nazim aveva sfiorato le nostre buone coscienze. Le aveva urtate (è facile quando siamo seduti in un tranquillo studio, di fronte a un computer). il suo racconto non era politically correct. E non l’abbiamo pubblicato, l’abbiamo scansato. poi abbiamo cambiato idea. abbiamo cercato un giornalista che sappia di animali. Stefano è un naturalista. E lui ci ha fatto salire sulle Prealpi lombarde o fra i boschi altoatesini per osservare i combattimenti d’amore dei galli forcelli. Certo, non lottano per la lussuria degli uomini, ma per impalmare galline disinteressate a questa storia da maschi. abbiamo messo assieme i due racconti. insomma, con addosso sensi di colpa, ripugnanza, farfalle nello stomaco, attrazione, voglia assoluta di vedere, desiderio, di fotografare, guardiamo gli artigli dei galli come se osservassimo noi stessi. La nostra pancia. Dark side. Scrive Nazim: ‘ma le mie, le mie bellissime ferite, chi le cucirà?’. Nessuno, Nazim, nessuno… (as)
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PERIFERIA DI SAGADA, ISOLA DI LUZON: I GALLI SI PREPARANO A COMBATTERE
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FILIPINO COCK BOP al posto dei guantoni, sfere avvolte in imbragature di gomma testo di Nazim comunale foto di marco baschieri
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primo rouNd Un bel giaciglio di paglia, paglia e rancore. La lama, la scommessa, l’uncino. in bocca un languore di promessa, memorie del passato remoto, di quand’ero innocente e bambino. a mitraglia il sangue nelle vene del collo. Coriandoli, specchi rotti e macchie, a terra. Un lampo a squarciagola, alla moviola: l’artiglio mortale del mio pollo. Cristo crocifisso a terra, una corona di fazzoletti zuppi di sperma a coronarmi la testa. Scassata dalle birre, dalle sigarette. Scassinata, ferma nella gabbia di ieri notte. Unto e sporco ovunque, dopo la festa. Forse ho pure fatto a botte. Grufola in cortile il porco. Un letto di chiodi, puttane con cui fare un orzo d’amore, senza voglia. Le chiappe sode di rosy, oggi, chi se le piglia? Nel cranio, nel cranio fottuto, la guerra.
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SecoNdo rouNd Sotto l’ombra dissetante dei calachuchi, alberi fratelli del frangipani, dozzine di rozze casette di bambù. in ognuna un gallo, assicurato a terra con una corda. L’afa cola livida, sbava sulle cosce lente del giorno. Nuvole cariche di nero manterranno la pioggia che promettono. Questo quadro è troppo reale per essere vero. terZo rouNd Senza cresta ne’ bargiglio, ogni gallo ignaro attende il combattimento, sguardo sciocco, anima vuota, vano zampettare sulla merda nel suo angusto giaciglio. Da lontano si sentono la minaccia del volcano che prepara il disastro, gli zolfi, le lave. Nessuna furia assassina, la doppia lama brillerà nel pomeriggio, quando la luce si fa più vicina, quando gli allibratori finalmente aprono le danze e gli spettatori scommettono. i miei migliori sentimenti li ho nascosti nel ripostiglio, ma ho perso la chiave.
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quarto rouNd Filipino Box Sping hog, un intruglio di frattaglie, tuberi e chissà che altro, ancora sporchi di terra. mama mi sbatte davanti un piatto mentre ancora, mentre ancora il sangue balbetta, mentre ancora in testa mi infuria la guerra. Sono scaltro, sono l’alì di Negros, ballo come una farfalla, pungo come un’ape, ma questo è quasi ko tecnico, e per mettermi in piedi ora e qui ci vuole un tonico. Lambanog.
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mArco BAschieri, 48 anni, viaggia durante l'inverno tra Sud Est Asiatico, India e Centro America e per il restante tempo vive e prospera a Cavriago (Re). Fotografa per passione e piacere. Bevitore di lambrusco e lanciatore di coltelli, ha molta cura dei suoi baffi. nAzim comunAle, 14.700 giorni circa, esistente compulsivo, gravemente malato di stupore, nato sulla riva destra del fiume Po, e quindi anfibio e aspirante mammifero.
quiNto rouNd alle due inizia Sanbong il combattimento. L’arena Dunai è la più grande dell’isola di Negros. resto all’angolo del mio cervello, i secondi mi inzuppano la testa. in uno spiraglio di lucidità penso a rosy, al suo culo sodo, a quanto mi piace. È tardi. Chiamerò ramirez , chiederò un passaggio. Bisogno di una doccia, di una nuova faccia. Di ieri, che resta. Un altro sorso di lambanog, sentire la vampa dell’alcool, lo zucchero del cocco, e in un altro lampo ricordare come sto quando sto con rosy, quando la prendo, la tocco.
SeSto rouNd Kumain ka na? hai mangiato? Corazon ha almeno ottant’anni, ma li ha nascosti tutti tra le ampie rughe della faccia abbrustolita i suoi fallimenti, i suoi danni. io, io come faccio? Nella testa ancora la guerra, io mi trascino come una scopa lo straccio, mi fastidia tutto, mi fastidia la terra. Corazon invece conserva ancora un’espressione gentile e stupita. Passa con la ramazza a spazzare la merda sotto l’ultimo calachucio. il cuore dei galli è grande come il pugno di un bambino. La voce, la voce di rosy che viene, la sento uscire dal tombino. il cuore del mio gallo batte in fretta. Prendo il mio in braccio che ancora brucio, finalmente è arrivato ramirez, monto con la bestia sulla sua motocicletta. Pochi minuti e arriviamo all’arena. Non smette di pulsare il cuore del gallo contro il mio, non smette di ardere il sale del ricordo, non smette di battere in testa la vena. Settimo rouNd infradito di plastica, jeans troppo larghi, puzza di gas e piscio a terra. Bevo ancora lambanog, liscio. Ginger, rum, Tuba. Un vortice di bicchieri di plastica. Nella testa ancora la guerra, la fuga. ottavo rouNd Poi tutto questo cessa. Sabong, dling! il suono del gong. Una perfetta collana di urla mi cinge tutto intorno, il sudore m’imperla la fronte, le bestie si azzuffano in un tripudio di versi e piume, sono pronte. NoNo rouNd Entro un minuto uno dei due galli morirà dissanguato e la bestia ferita a morte sarà donata al vincitore, a quello baciato dalla buona sorte. ma le mie, le mie bellissime ferite, chi le cucirà?
decimo rouNd Sabong, dling! il suono del gong. resto ancora all’angolo del mio cervello. il mio gallo agonizza in una pozza di sangue magenta. Posizione di stallo. Volano le banconote accartocciate. Traiettorie esatte, lente. i secondi mi inzuppano la testa. Penso ancora al culo sodo di rosy, mentre raccolgo il corpo esanime del gallo. Della festa di ieri, che resta.
DAL GALLODROMO DEI TUDOR ALLE ARENE THAI
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BATTERSI PER UNA GALLINA
Piume e speroni tra ornitologia e storia
testo di Stefano brambilla foto di andrea Semplici e daniela Silvestri
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on serve andare nelle giungle dell’india o della malacca, là dove ancora i galli selvatici corrono sfuggendo a felini maculati. Per capire, basta appostarsi in primavera sulle Prealpi lombarde o tra le abetaie altoatesine: lì, sempre nelle stesse radure, su pezzi di prato innevato la cui posizione è tramandata di generazione in generazione, i galli forcelli mettono in scena il loro secolare rituale. Quando il sole ancora non è riuscito a riscaldare il mondo gelato dalla notte, i maschi si sfidano, alzando il loro sopracciglio scarlatto. Si gonfiano, arruffando le penne cangianti e aprendo le loro straordinarie code a forma di lira. Saltano, gridano, si azzuffano per eleggere chi di loro avrà il privilegio di impalmare le scialbe femmine che razzolano a breve distanza. Sono galli: e in quanto galli il combattimento ce l’hanno nel sangue.
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foto andrea Semplici
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Non è un caso che Gallus domesticus fu consacrato universalmente agli dei bellicosi: in Grecia ad ares, in assiria a Nergal, in india al dio chiamato Skanda nei testi Veda e Kartikeya nei Purana. addirittura in Giappone e in Cina lo si impiegava nei riti funebri per tenere a bada gli spiriti maligni. Temistocle, poco prima di una battaglia con i Persiani, arringò i guerrieri citando loro l’esempio dei galli, e
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dopo quella vittoria ad atene venne istituita una festa in cui si facevano combattere i galli tra loro. Non è dunque né una novità né un controsenso che i galli vengano fatti scontrare in un’arena: pare che la domesticazione del gallo abbia avuto luogo già quindici secoli prima di Cristo, probabilmente in india, e che subito i nostri antenati abbiano goduto del gallo sia come animale di cui sfamarsi sia come volatile che poteva soddisfare i loro istinti bellicosi. anzi, qualcuno sostiene che nella valle dell'indo i galli furono addomesticati più per i combattimenti che come alimento, e presto assunsero un significato religioso.
foto Daniela Silvestri
matti. in india e nel sudest asiatico, invece, l’altra area di mondo dove le battaglie di galli sono all’ordine del giorno, il significato religioso è a volte ancora preminente: per l’induismo il sacrificio dei galli combattenti è volto ad allontanare gli spiriti del male. altre volte la zuffa diventa gioco o mania, come in Thailandia e nelle Filippine.
Certo, può sembrare strano che molti dei Paesi dove oggi il combattimento tra galli è più popolare si trovino in Centro e Sud america, là dove i galli arrivarono soltanto con le caravelle, cinquecento anni fa. Da Cuba all’argentina, passando per Nicaragua, repubblica Dominicana, messico, Ecuador, Perù, Venezuela, Brasile, la gente si accalca attorno alle arene per applaudire beccate feroci e possibilmente veder scorrere il sangue. C’è un tempo di gara, c’è un giudice di campo, c’è un regolamento. Ci sono soldi che girano. Furono spagnoli e inglesi a contagiare le colonie con la loro insana passione: nel Cinquecento il Palazzo di Westminster aveva un gallodromo di corte, chiamato Cockpit-in-Court – i Tudor ne andavano
Tornando al DNa, qualcuno dice che i galli sono contenti di combattere. Non esageriamo: se combattono, i galli selvatici lo fanno per uno scopo ben preciso, quello di assicurare il dominio sul loro harem, non certo per piacere personale o, peggio, per quello del chiassoso astante (che magari ha pure scommesso sulla sua vittoria). Certo, l’indole della specie è bellicosa e chi allena un gallo da combattimento sa di poter contare su geni predisposti. ma non vorremmo essere nei panni di un gallo cui vengono tolti i suoi simboli sessuali più importanti, la cresta e i bargigli, pur di non farci ‘aggrappare’ l’avversario, un po’ come le punte delle orecchie e la coda per certe razze di cani. in alcuni Paesi vengono affilati gli speroni come fossero lame e pure applicati alle zampe speroni artificiali aggiuntivi, giusto per rinforzare il concetto. Qualche anno fa, fece il giro del mondo la notizia che un gallo thailandese da combattimento aveva ucciso con uno sperone il suo padrone che lo faceva gareggiare senza tregua in battaglie sempre più aspre. Taglio della gola, uomo morto dissanguato accanto al ring. i giornali titolarono ‘La vendetta del gallo’. Gli antropomorfismi sono sempre dietro l’angolo, ma a molti era sembrata una punizione appropriata.
StefaNo brambilla, milanese, 38 anni, naturalista prestato al giornalismo, lavora al Touring Club italiano e appena può si diverte ad osservare volatili in ogni angolo del mondo. 133
COLOMBIA STORIE DI LIBRI
Da sedici anni, ai duemila metri di Villa de Leyva, don alvaro, miguel, ‘El profe’ e i loro amici aprono le porte di una biblioteca rurale. È ‘La hoja’, La Foglia, dove Sara legge Cenerentola, si dà un’occhiata al David di michelangelo e si venera San Gabriel Garcia marquez.
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testo e foto di alberto bile
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alberto bile, 28 anni,napoletano, reporter freelance. Una laurea in Scienze della Comunicazione. Studi fra italia, Spagna e Colombia. oggi america Latina e mediterraneo sono al centro dei suoi progetti. ha un sito, www.ovunquevada.it. E un progetto di reportage: Arrebol, luci sulla Colombia.
Diciottomila libri in un paese di novemila abitanti
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LA BIBLIOTECA DEI CONTADINI a anni, decenni e secoli la stessa recita va in atto al mattino presto del sabato, nella piazza mercato di Villa de Leyva, circondata dalla valle brulla. Si alza un po’ di vento e si spargono per la piazza gli odori delle pentole. Per i vecchi del luogo è giorno di festa: assaporano una birra dopo l’altra fin dal mattino, in giacca e camicia ma anche ruana e sombrero. Le donne hanno vestiti lunghi, colorati e malconci come i tendoni che hanno allestito la sera del venerdì, prima di dormire la notte nelle jeep o nei camion. Bambini rincorrono cani che rincorrono bambini. Si calmano solo in cima alle scale, oltre le tende bianche dei prodotti bio, sotto il telone della biblioteca La Hoja, la Foglia. Miguel, volontario di trent’anni, presiede una tavolata
di giochi da tavola e fogli da disegno. Sara legge Cenerentola: ha otto anni e solo qualche balbettio da migliorare. Nelle sue mani la storia prende forma lentamente, si riempie d’interruzioni e domande, è più divertente.
Scendendo le strade ciottolate che dal mercato portano alla Plaza Mayor, si arriva alla sede principale de La Hoja, in una casa coloniale i cui stanzoni sono ora adibiti a negozi di artigianato e gallerie artistiche. La sala è grande e luminosa, con un tavolo di legno scuro al centro e mobili con gli scaffali curvi sotto il peso dei libri. Appeso a una parete il poster del David di Michelangelo e la foto di San Gabriel Garcia Marquez. Ad accogliere i visitatori, tre dei venticinque volontari che regalano in genere due ore a
settimana del proprio tempo. ‘Vogliamo vivere una vita differente, vedere concerti, discutere di libri e arte, condividere e coltivare’, spiega entusiasta uno di loro, El Profe, camicia e sombrero. – Non riceviamo denaro, né chiediamo documenti, ma solo il numero di cellulare – aggiunge – grazie a noi leggono anche decine di bambini che libri non ne hanno. –
Don Alvaro è uno dei cofondatori. Bassino, capello e barba bianchissimi, facili stupori e calda risata, ha vissuto a Madrid negli anni ’70 e viaggiato per l’Europa (il primo ricordo è per la scoperta del nudismo a Ibiza). Racconta della nascita della biblioteca, sedici anni fa, quando con altri tre amici comincia a organizzare riunioni letterarie. Si sentono dei don Chisciotte, decisi a non far morire la parola scritta. Presto ottengono un piccolo locale in prestito, e donazioni da amici soprattutto di Bogotà. Passano dai centoventi libri iniziali agli attuali diciottomila. D’improvviso, scendono lacrime inattese: – Io ero fortunato: mio padre aveva una grande biblioteca. Altri bambini no. Questa cosa segna l'anima: mi ha fatto tornare, e provare a dare agli altri la possibilità di leggere – dice con la voce rotta. Soffre per i ragazzi che non conoscono la curiosità, il soffermarsi su una pagina, il tornare indietro, il silenzio della stanza: – È la estupidización assoluta, e mi fa arrabbiare. Per questo continuo a lavorare. –
Non è facile convincere i genitori dell’importanza del libro. Anzi, per molti il bambino che vuole leggere diventa scemo, o marica, frocio. Per Alvaro le autorità non promuovono la lettura, perché la gente resti – dominata da una élite plutocratica e mediocratica: non solo per i media, ma proprio per la mediocrità. Siamo un paese mediocre, è giusto che si sappia, un paese mediocre governato da autorità mediocri, dalla guerra e dalla paura. –
Secondo Alvaro il contadino viene corrotto, perturbato da avvoltoi politici: – Lo convincono che il futuro è il turismo, ma io nel turismo ci ho lavorato e faccio mea culpa. Ho visto luoghi prosperi che sono
morti, nel Mediterraneo, in Italia. Se i contadini studiassero imparerebbero a conservare la terra, e non la venderebbero a qualsiasi usurpatore. Poi si ritrovano senza niente da mangiare, e fanno da servi al nuovo padrone della terra. Hanno perso dignità, e presenza. Le autorità sono complici; rischio la pelle a dirtelo, ma vediamo che succede! – Poi offre il primo giro di birre, con un sorriso che non ha nulla di mediocre, e ancora gli occhi lucidi, gli stessi che sessant’anni fa sceglievano un libro dagli scaffali del padre.
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MILANO STORIE DI CIMITERI Il cimitero monumentale di Milano
LA CITTÀ DEI MORTI, LA CITTÀ DEI VIVI i Falck, i motta, i Pirelli. E ancora: montale, Biagi, Wanda osiris, Gaber, Toscanini. riposano qui gli uomini e le donne ‘illustri’. attorno vi è la città dei cinesi e dei turisti. E fra le tombe passeggiano gattare e studenti di Brera.
È
testo e foto di Marco Ragaini
la città dei morti. Di quelli illustri, che hanno fatto Milano: dei Falck, dei Motta, dei Crespi, dei Pirelli, di quelli che l’hanno resa famosa con le parole o con l’arte: Montale, Biagi, Wanda Osiris, Gaber. Toscanini. E accanto, la città dei vivi, attorcigliata intorno, con i furgoncini dei cinesi arrampicati sui marciapiedi, la nuova fermata della linea Lilla e i turisti davanti ai cancelli in attesa della guida. Le vie strette della zona Paolo Sarpi e i viali veloci che portano dritti al nuovo quartiere di Porta Nuova. La città fuori 136
dal Cimitero Monumentale cresce e fa la muta come i serpenti. All’interno delle mura di mattoni rossi, invece, il tempo non ha fretta. Anche quella dei morti ha forma di città. Così è stata progettata a fine Ottocento da Carlo Maciachini, ebanista scultore diventato architetto, e qui poi seppellito. Un cimitero innovativo che metteva ordine nelle tombe disperse accanto alle chiese, poco più di fosse comuni chiamate foppe, e sottraeva per la prima volta alla Chiesa il controllo dei morti. Anche in Italia era arrivata dalla Francia la spinta illuminista prima e napoleonica poi, che univa motivi di igiene e ragioni politiche costruendo ampi cimiteri, lontani dal centro, gestiti dal Comune. Un’occasione che non sfuggì a nobili e ricchi (o entrambe le cose insieme) per avere una vetrina anche post-mortem e commissionare agli scultori in voga statue e monumenti funebri firmati. E gli scultori accettarono di buon grado, facendo dell’arte funeraria il biglietto da visita per ben più significative commesse in città. Così nel 1866 fu inaugurato il Cimitero Monumentale di Milano, seguito nel 1895 da quello più popolare di Musocco. Un cimitero progettato per espandersi secondo un disegno ordinato, di stampo urbanistico, progressivo e proporzionato agli investimenti disponibili, per aree successive. Laico, nella distinzione di una zona cattolica, una acattolica e una ebraica che avevano un tempo accessi separati. Avaro di simboli religiosi, pur essendo il luogo fi-
sico dello snodo tra terreno ed eterno: la stessa struttura imponente che accoglie all’ingresso, pur avendo forma di chiesa, è in realtà il Famedio, il luogo delle sepolture illustri, con la tomba di Manzoni al centro della sala. La cappella esiste, naturalmente, ma è quasi nascosta, suggerita. E al capo opposto del lungo viale che separa in due il campo, fu costruito invece il crematorio, anche questo un segno di novità tecnologica e morale, fortemente voluto da anticlericali e massoni. La città dei vivi entra in quella dei morti dalle 8 alle 18, tutti i giorni esclusi i lunedì non festivi. Alle 17,30 una sirena ri-
corda ai vivi che è ora di lasciare il campo ai residenti, mentre un guardiano in bicicletta percorre i viali sollecitando i visitatori. Le prime ad arrivare e le ultime a uscire non sono le vedove illustri ma le gattare, che sono riuscite a ricavare ospizi felini tra le tombe più nascoste. Contendono lo spazio a studenti di Brera con blocco e carboncino, seduti davanti alle statue di Adolfo Wildt, Medardo Rosso o Lucio Fontana, a sporadici ladri di rame e di statue che approfittano della poca sorveglianza e della difficoltà a censire tutte le opere presenti, ai molti turisti e ai sempre più numerosi milanesi
appassionati delle proprie radici. Non mancano certo i parenti: li riconosci per un procedere lento ma orientato: percorrono i viali senza guardarsi in giro, si sentono forse defraudati di un diritto di privacy quando vedono un turista fotografare le state senza fermarsi a leggere il nome sulla lapide. È forse per questo che preferisco andare presto al mattino, nei giorni di pioggia. Non per una malinconica sintonia del luogo ma per non dare fastidio. Perché mi piace cercare tra quelle statue, opera spesso di grandi scultori, non il segno di chi è passato, ma un dettaglio, un segno, capace
di restare nel tempo e di emozionare anche chi non ha nessun legame, di sangue o di storia, con la persona a cui la statua è dedicata.
mArco rAgAini, 50 anni, vive a Milano. Lavora in editoria e si appassiona di scrittura e fotografia. Lo si trova su www.pochestorie.it
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oroSCoPo anche questa volta l’oroscopo ha seguito il tema portante della rivista e quindi si è ispirato alla musica. ad ogni segno è abbinato un genere musicale e il consiglio di stagione sarà uno strumento. Con l’augurio che seguiate il ritmo che le stelle vi consigliano, starà a a voi farne l’uso più consono!
Ariete
21 Marzo -19 Aprile Il blues trae le sue origini dai canti delle comunità di afroamericani costretti a lavorare nelle piantagioni dell’America del Sud. Ma la sua fortuna è nata al momento in cui, una volta ottenuta l’abolizione della schiavitù, gli ex schiavi cominciarono a portare a giro la loro musica. Anche per te, caro Ariete, sta per iniziare un periodo fortunato, ti libererai da qualcosa che ti teneva incatenato e potrai affrontare con più libertà il mondo, che musica vuoi che ti accompagni? Strumento di stagione: Banjo
Toro
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20 aprile -20 maggio Difficile restare immobili quando si ascolta un buon rock. Il corpo comincia a chiedere di muoversi, i piedi fanno i primi passi, le anche ondeggiano, e volenti o nolenti ci si fa coinvolgere. Oppure possiamo immaginare di essere noi a suonare la chitarra e a far esaltare le folle. In ogni caso la musica non ci lascia indenni. Questo è ciò che ti accadrà nei prossimi mesi: vivrai un periodo in cui non potrai stare fermo, ma sentirai il bisogno di muoverti e ballare. Cogli l’attimo e buttati nella mischia, vedrai che ne vale la pena. Strumento di stagione: Chitarra
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Gemelli
21 Maggio -20 Giugno Una delle caratteristiche dell’heavy metal, oltre ai ritmi aggressivi e potenti, è l’enfatizzazione e la distorsione dei suoni: chitarre, bassi, e persino voci. Nell’ultimo periodo la distorsione è entrata in qualche modo nella tua vita, e ti ha creato difficoltà ad interpretare la realtà per quella che è. La buona notizia è che questo periodo sta terminando, e i tuoi suoni passeranno dall’heavy all’hard rock, con inserti di swing che ti addolciranno un po’. Strumento di stagione: Tromba
Cancro
21 Giugno – 22 Luglio La musica rap si crea con la parola, costruendo versi ritmati scanditi utilizzando una base ritmica molto precisa. Il rapper comunica con tutto il suo corpo e il ritmo entra entro di lui prima di venire espresso all’esterno. Quale è il ritmo che vuoi fare entrare dentro di te, caro Cancro? C’è qualcosa che preme di uscire, ma non sai come trovare le parole giuste, affidati alla musica, e vedrai che sarà più semplice di quanto temi, è il ritmo la chiave, ascoltati e lasciati andare. Strumento di stagione: Bongas
Leone
23 Luglio - 22 Agosto La musica classica è una musica colta, sia sacra che profana e solitamente si caratterizza per l’utilizzo dell’armonia tonale. Armonia sarà il leit motif di questa estate, l’armonia con te stesso e con gli altri, l’armonia dei colori e dei suoni di tutto ciò che ti circonda. Per raggiungerla dovrai impegnarti a lasciar andare i suoni dissonanti che ancora ogni tanto accompagnano le tue giornate. Pensi di potercela fare? Strumento di stagione: Pianoforte
Vergine
23 Agosto - 22 Settembre Country road, take me home, cantava John Denver negli anni ’70. E in effetti la musica country ha un sapore casalingo, di ritorno alle proprie origini e alla famiglia. Nei prossimi mesi anche te, cara Vergine, sentirai il bisogno di ritornare alle tue radici e sarai capace di recuperare alcune relazioni che da tempo ti davano problemi. Lascia andare vecchi rancori, oramai hanno fatto storia, impegnati a guardare avanti. Strumento di stagione: Armonica
Bilancia
23 settembre - 22 ottobre La musica pop si caratterizza per una semplicità di linguaggio, un’alta orecchiabilità e abbondante uso di melodia. Queste caratteristiche a volte sono snobbate ed etichettate come banali e i testi vengono definiti come poco impegnati. Esistono però musicisti che hanno creato dei capolavori con il pop, un gruppo per tutti sono i Beatles. Può capitare che anche la vostra flemma venga ogni tanto considerata come troppo semplicistica, ma nei prossimi mesi avrete l’opportunità di dimostrare che anche voi siete capaci di capolavori mai immaginati. Strumento di stagione: Sassofono
Scorpione
23 ottobre - 21 novembre Il jazz si sviluppa all’inizio come sintesi fra diverse culture musicali, ha una forte espressività e si basa su due elementi fondamentali: ritmo e improvvisazione. Improvvisare significa abbandonare per un attimo le regole precostituite e incontrare gli altri essendo meno difesi del solito. Questo tipo di incontro è ciò che sperimenterai nei prossimi mesi e potrebbe essere l’incontro che ti cambia la vita, nell’amore oppure nella tua carriera. Strumento di stagione: Basso
Sagittario
22 novembre – 21 dicembre La musica new age è la musica di chi si interessa alla spiritualità, alle filosofie orientali, e solitamente vuole stare fuori dagli schemi classici. Questa musica serve a rilassarsi quando il bisogno insito nel Sagittario di essere diverso e soddisfare tutte le curiosità lo spinge in realtà sotto stress. La domanda che sorge spontanea allora è: ma ne vale davvero la pena? Non sarebbe il caso di adeguarsi di più alla vita e abbandonare questo strenuo bisogno di originalità? Metti un bel CD rilassante e meditatici un po’ su! Strumento di stagione: Violino
Capricorno
22 Dicembre -19 Gennaio Salsa, rumba, bossa nova, la musica latina si caratterizza con un gran ritmo che invita a muoversi e a danzare. Un ritmo che alcune popolazioni hanno nel sangue mentre noi, comuni mortali, possiamo studiare tutta la vita ma non riusciremo mai ad eguagliarle. Questa Estate, caro Capricorno, avrai la possibilità di tirare fuori ciò che hai nel sangue, che ti caratterizza, e saprai coinvolgere altri. Diventerai così un trascinatore, coinvolgendo nel tuo ballare tantissima gente. Strumento di stagione: Tamburi
Acquario
20 gennaio- 18 febbraio La musica etnica rispecchia la cultura specifica dei popoli da cui proviene: usanze, tradizioni, e viene utilizzata nelle occasioni più importanti della vita. Ogni cultura ha dentro di sé un proprio umore che esprime con un ritmo diverso. Guardandola in questo modo non possiamo dire cosa è meglio e cosa è peggio, ma possiamo solo cercare di capire gli umori di fondo del popolo che abbiamo di fronte. La stessa cosa la sperimenterai con le persone con cui ti trovi a più stretto contatto, smetti di dividere in giuste o sbagliate, comprendi l’umore e danza con loro. Consiglio di stagione: Raganella
Pesci
19 febbraio - 20 marzo Solitamente si pensa che il fado sia una musica triste, ma se parliamo con un Portoghese ci dirà che non è così; il fado è la musica che racconta la vita delle persone, con tristezze e gioie incluse. Inoltre, da qualche anno, sta nascendo un nuovo tipo di fado, che si contamina con il jazz. Anche per la tua vita sono previste contaminazioni che ti faranno abbandonare quella vena di tristezza che ormai ti trascini da troppo tempo. Strumento di stagione: Viola
letiziA sgAlAmBro 52 anni, sagittario, counselor ed esperta di processi formativi. Crede che per ognuno sia già scritto il punto più alto dove possiamo arrivare in questa vita, e che il nostro libero arbitrio ci fa scegliere se raggiungere quel traguardo o meno. L'oroscopo? Uno strumento come altri per illuminare la strada.
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