ERODOTO108 20 • AUTUNNO 2017
erodoto 108 numero 20 4 editoriale 6 IL rACConto Stazione centrale di Franca mancinelli illustrazione di elisa Pellacani 8 rePortAge Berlino. l’erBa Su queSta città. Potsdamer Platz di traverso foto di giovanni Breschi, testo di Irene russo 16 rePortAge PerÙ. quando lo spirito che anima il corpo va (senza coca) foto e testo di Andrea mattei 24 storie di libri Vallo Di Diano ‘Fare il libraio è da pazzi’, testo e foto di Andrea Semplici CoLomBIA 30 cronaca Di una Pace annunciata testo e foto di Anna maspero 40 la colomBia Di narcoS, testo di Jacopo masini, foto di Anna maspero 46 Storie di cimiteri. Barichara testo e foto di Alberto Bile 48 PoSti Di Blocco nella Guajira testo e foto di Carla reschia in copertina: Postdammer Platz, Berlino Foto Giovanni Breschi
52 aracataca (il coltello del pane e il tuono delle tre del pomeriggio) testo e foto di Alberto Bile 56 camila charry norieGa, poesie
58 QuAderno A QuAdrettI le Storie Di leila, disegni e testo di Leila mostofi 66 gLI oCCHI dI erodoto SauDi taleS oF loVe, Intervista a tasneem al Sultan, di Isabella mancini 74 il muSeo Della PSichiatria Di reGGio emilia foto di giovanni Breschi, testo di Letizia Sgalambro 82 a Senise fra Basilicata e calabria: nuoVa ellaDe foto di Piero Bruno, testo di Luana Salvarani 90 oroSCoPo di Letizia Sgalambro
ERODOTO108 • Fondatore Marco Turini • Direttore responsabile Andrea Semplici • Redazione Giovanni Breschi, Vittore Buzzi, Valentina Cabiale, Francesca Cappelli, Massimo D’Amato,Silvia La Ferrara, Isabella Mancini, Lucia Perrotta, Collettivo WSP, Andrea Semplici, Luana Salvarani, Letizia Sgalambro, Marco Turini • Editor Silvia La Ferrara • Designer Giovanni Breschi • Web designer Allegra Adani Registrata al Tribunale di Firenze Stampa Periodica al n.5738 il 28/09/2009
editoriale
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uesto numero autunnale e tardivo ha due editoriali. Il numero 12 ebbe due copertine. erodoto è così: non sa rinunciare alle sue diverse anime. e se si perde qualcosa per strada è per ‘abbandonarsi a una forza che ci riconduce a noi stessi’, come scrive Franca mancinelli, la poetessa marchigiana che ci ha regalato un racconto dalla Stazione Centrale di milano. Andrea scriverebbe poeta – così fa qui sotto – e di nuovo ci piace che sia possibile usare due forme diverse per la stessa parola. del resto la prima foto del numero è dei palazzi di vetro di Postdamer Platz, ma il titolo del pezzo di irene russo attacca con ‘L’erba’. e a suggellare la nostra (spesso anche involontaria) molteplicità, oltre a Franca mancinelli, iniziano in questa stagione altre quattro nuove e preziose collaborazioni. Con andrea mattei da Frascati che fotografa e racconta il funerale lieto della signora natividad Alvarez, morta a cento anni sugli altopiani centrali del Perù. Con leila mostofi, colorata disegnatrice iraniana che oggi lavora a Firenze. e con il lucano Piero Bruno che fissa in immagini dal contrasto epico una schiera di caparbi triatleti neoellenici. nello speciale sulla Colombia poi ci ha messo la sua bella penna lo scrittore parmigiano, fumettaro e appassionato di storie, jacopo masini. e non è un bel colpo l’intervista di Isabella mancini alla fotografa saudita tasneem al Sultan, vincitrice del Sony Award? Così continuiamo a ‘fare’ erodoto – che per il suo direttore non esiste – e non è una follia: le storie del museo della psichiatria di reggio emilia e del libraio del Vallo di diano ci confermano che la pazzia ha spesso molte ragioni. Silvia La Ferrara
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on sono mai stato in Colombia. È stata la mia premessa per evitare di scrivere queste righe. Poi mi rendo conto che una volta, anni fa, ho attraversato il grande Fiume, il rio delle Amazzoni, e ho messo piede in Colombia. Là dove questa terra sfiora le sponde del Perù e del Brasile. e, dall’altra parte, lontana come se fosse un altro mondo, vi è Leticia. nome bello per una cittadina amazzonica, presidio di frontiera, crocevia dei traffici di ogni luogo ‘lontano’ che, in realtà, è uno dei centri del mondo. naturalmente, l’albergo si chiamava ‘Anaconda’. Conservo un ricordo di riflessi d’acqua di quel frammento di terra. ecco, questa è tutta la mia Colombia. Assieme alla lettura magica di Cent’anni di solitudine a diciotto anni. Quel libro ha attraversato i miei (e i nostri) anni giovanili e li ha resi certamente più allegri, più malinconici, più belli, più affollati. Aureliano Buendia divenne il nostro compagno di sogni. Avvertivamo la necessità del latinoamerica, dell’utopia ribelle di ernesto guevara, di Cuba, dei sandinisti in nicaragua. Io avrei voluto riscrivere il finale del libro di gabo e concedere altre opportunità, una se-
conda, una terza, una quarta, a quelle ‘stirpi condannate a cento anni di solitudine’. C’è stata una donna colombiana nella mia vita. Importante. Si scrivono queste storie personali in un editoriale? ma erodoto è una strana rivista. Come sapete io penso che non esista, ma, al tempo delle spettacolari mostre di damien Hirst a Venezia, il confine fra ciò che esiste e ciò che non esiste è molto labile. La decisione di dedicare il dossier di questo numero autunnale alla Colombia è avvenuta mesi fa. Arrivava materiale, amici partivano, sempre più numerosi, per quel paese e io leggevo poete colombiane. Cosa stava accadendo? Per anni, la Colombia è stato un paese di guerre. gabo ci aveva avvertito: ‘più facile cominciare una guerra che finirla’. Liberali e conservatori si sono sparati addosso per anni mezzo secolo fa. Poi guerriglie, tirofijo e i suoi tredici figli, controguerriglie, paramilitari, sequestri, narcotraffico, Pablo escobar, generali, desplazados, falsos-positivos, cinque milioni di profughi interni. ma oggi, miracolo e ostinazione, la guerra è finita, le armi sono state deposte. La pace dei coraggiosi. Fragile, come ogni pace. Incerta come ogni pace. e, quasi per incanto, la Colombia di questi anni va di moda. Strani capovolgimenti della storia. medellin era considerata la città più pericolosa del mondo, adesso, secondo il Wall Street Journal, è la più innovatrice. La poesia è un’altra delle bussole per viaggiare in Colombia. camila charry appare in questo numero: escrivo/desde la segarradura de la tarde/cuando el último pájaro/trina en una rama/mientras lo imagino. Il latinoamerica è terra di poeti. dal Cile al nicaragua, la poesia non è un semplice fremito per intellettuali, è anima e corpo, pensiero e carne di un continente. I poeti hanno fatto rivoluzioni in queste terre. Hanno sparato e sono stati uccisi. Héctor Abad, un grande scrittore (e poeta) colombiano, cerca di dissuadermi: ‘non guardare a questa terra con occhi europei. non è così, sarei felice che lo fosse, ma non è la poesia a guidare le nostre azioni’. Fammi grazia, Hèctor. Lasciami le mie illusioni. Ho scritto della Colombia perché vorrei che questo numero ci portasse in quella parte del mondo. Perché le sue storie siano una ragione per sognare ancora un po’, solo un po’. *Questo testo riprende alcuni passaggi della prefazione al bel libro di Alberto Bile una Colombia, pubblicato da Polaris.
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Andrea Semplici
IL rACConto dI Franca mancinelli
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StAzIone CentrALe Illustrazione di elisa Pellacani
enza poggiare i piedi sono partita. La legge era quella di andare, seguire l’orario, il binario. Lasciarsi portare dalla corrente lontano dalle pareti chiuse. Andare obbedendo a ciò che è stabilito, piantato come un picchetto sulla ripida parete che devo risalire. 12.30, stazione centrale di Milano. Qualcosa alle spalle torna a chiamarmi: tutto può accadere così, abbandonando la presa, cedendo alla gravità che governa le cose. Resisto, appoggio un piede su quello che mi sembra un punto stabile. Il prossimo treno per Treviglio alle 14.20. Era questo lo spazio di attesa? Alcune cifre scarabocchiate su un foglietto lasciato sul comodino, contenevano ogni sequenza del viaggio. Ora che sono costretta a ricordarle a memoria sento il bianco tra un segno e l’altro espandersi. Siedo alla fine del binario, apro un libro. Ma sono subito raggiunta dal dolore attraverso una delle fratture che porto. Afferro il telefono, chiamo qualcuno che intreccia le sue parole alle mie in una fune che sembra tirarmi avanti. Il frastuono intorno si fa più forte. Gli addetti alle pulizie stanno passando con le loro spazzole meccaniche. Faccio qualche passo verso le scale d’uscita, intenta a seguire la fune che mi tiene.
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troppo tardi quando mi accorgo di non avere più lo zaino. Svanita quella pressione leggera che mi cingeva le spalle. Era stato scelto e riempito secondo uno scopo, accuratamente. Proprio per questo avevo potuto sostenerlo, oltre la porta di casa, fino a destinazione e ritorno, negli spostamenti di questi anni. Ora è netto e profondo lo strappo. Il dolore confuso alla dolcezza di un dono. Come se le mani si aprissero e si mostrassero per quello che sono, scucite da ampie fenditure di vuoto. Cinquanta centesimi, torna all’orecchio una voce. Ero intenta a digitare sullo schermo della biglietteria automatica, e quella cifra esatta, pronunciata senza tentennamenti, mi aveva raggiunto con il tono di un calcolo. Avevo proseguito i miei gesti, automatici come le procedure di quella macchina, come la richiesta di quella voce. Era la stazione centrale di Milano che mi parlava. Il suo volto che si compone e disperde a ogni arrivo e partenza, a ogni numero che affiora e si cancella sulla grande tabella. Con un ghigno sordo ora inghiottiva tutto quello che avevo dimenticato di avere. Il portatile e la possibilità di lavorare nei prossimi giorni, un paio di occhiali da sole, quattro libri, le ciabatte per entrare nelle case degli altri. La lista proseguiva fino ad assottigliarsi e raggiungere un punto che però non sentivo ancora tracciato: era un foro da cui continuava a fuoriuscire qualcosa, lentamente, come sabbia da una clessidra. Ogni oggetto appariva di fronte ai miei occhi, illuminato dalla propria presenza, come chiedendomi congedo. Ecco che cosa sono. Frammento dopo frammento si ricomponeva il mosaico della mia perdita. Ora potevo finalmente arrivare a vedere, a riconoscerla e soppesarla nella sua entità. Affioravano le sue braccia, il suo corpo capace di avvolgere in cui ero affondata senza incrociarne gli occhi. Quella sequenza della mia vita era fatta di vuoto. Alle mie spalle non c’era la terra. A portarmi avanti, a segnare la strada, il filo d’acqua che mi attraversava il viso.
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FRANCA MANCINELLI, 36 anni, di Fano, ha pubblicato due libri di poesia, Mala kruna (Manni, 2007) e Pasta madre (Nino Aragno editore, 2013). Suoi testi sono apparsi in Nuovi poeti italiani 6 (Einaudi, 2012), e nel XIII Quaderno italiano di poesia contemporanea (Marcos y Marcos, 2017). Sta lavorando a un libro di brevi prose.
ELIsA PELLACANI di Reggio Emilia, 40 anni, ha cominciato a disegnare da bambina e non ha più smesso. Sperimenta diversi linguaggi espressivi e realizza libri d'artista e gioielli, esposti in gallerie e mostre e a Barcellona, sua città d'adozione, organizza da dieci anni con l'associazione ILDE il ‘Festival del libro d'artista e della piccola edizione’.
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on ti appartiene ciò che non custodisci. La stazione centrale mi aveva restituito al mio dolore, la destinazione unica del viaggio. Come se ogni andare non fosse che l’abbandonarsi a una forza che ci riconduce a noi stessi. Quanto povera sei, neanche cinquanta centesimi. Continua a biascicare la stazione, come la vecchia zingara accanto all’entrata, chiede spiccioli che nessuno concede. Lentamente la mia perdita mi veniva riconsegnata in dono: questa fede che si sta rinsaldando, che dovrò raccogliere per attraversare il vuoto e tornare all’inizio, in un punto della mia vita in cui cammino con uno zaino sulle spalle dove è tutto quello che mi sorreggerà fuori di casa. Tra un binario e l’altro si è aperto per me uno dei pozzi che collegano alle faglie acquifere della terra. Ho potuto così attingere all’acqua scura e ai minuscoli semi di luce che vi sono immersi. Sentirli germinanti, mi basta a riconoscere una traccia.
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REPORTAGE•BERLINO
L’ERBA SU QUESTA CITTÀ POTSDAMER PLATZ DI TRAVERSO teSto dI Irene ruSSo Foto dI gIoVAnnI BreSCHI
Postdammer Platz i tre grattacieli progettati da renzo Piano, Hans Kollhoff e Helmut Jahn
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i ricordo che c’era solo un sushi bar dove i piatti giravano nel tapirulan, niente che avessi mai visto con quegli occhi vispi di erasmus nel lontano duemila. templi deserti e la più alta concentrazione di gru di tutta Berlino, con la loro falsa promessa di poter generare una città vuota per i fantasmi della precedente. nella dimensione dell’eternità, lo sforzo edificatorio era un regalo agli archeologi – un giorno crescerà l’erba anche su questa città, cantavano gli einstürzende neubauten – ma ero troppo giovane per intuire la parabola dei quartieri prima alternativi poi vetrificati. Si compra un intero edificio, si ristruttura, si molestano gli inquilini con rumori pneumatici e allagamenti dolosi, perfino erezioni notturne di pareti che murano le finestre della cucina. Poco importa se il vapore del Currywurst rimarrà intrappolato a casa degli altri. Così i proletari asfissiati abbandonano il posto in prima fila sui cortei di turisti che si emozionano dove più spesso è passata la Storia. tanti piccoli muri sono cresciuti al posto del mauer – nulla si crea, tutto si distrugge – per tenere alta la regola immobiliare secondo cui il valore sgorga dal centro e sfuma progressivamente verso le periferie, come accade in tutte le metropoli del mondo. requiem per quel che era. gli immobiliaristi della gentrification guadagnano una strada in più anche quando assegnano gratis lo spazio per una galleria a uno dei tanti artisti immigrati abberlino e che freme nel comunicare la bella notizia a mammà. Berlino multicentrica perde le tante teste disseminate tra l’est e l’ovest e guadagna a colpi di martello questo cuore: Potsdamer Platz che farà emozionare gli archeologi, material für die nächste Schicht. materiale per il prossimo strato. IRENE Russo, 37 anni, siciliana, vive a Reggio Emilia. è copywriter specializzata in storytelling e green marketing. GIovANNI BREsChI, 65 anni, lavora e vive a Firenze, grafico e fotografo, unisce la grafica e la fotografia
Berlino, Postdammer Platz, riflessi pagine precedenti: concerto pagine successive: il prato di Postdammer Platz
ALTOPIANI CENTRALI DEL PERÙ
REPORTAGE
FOTOGRAFICO
foto e testo di andrea mattei
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QUANDO LO SPIRITO CHE ANIMA IL CORPO VA (SENZA COCA)
subito di festa al funerale della signora Natividad Alvarez, detta ‘Tia Nati’, morta a cento anni
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L’atmosfera appare
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omenica 13 agosto 2017. Ahuac, frazione di Chupaca, piccolo villaggio a venti chilometri da Huancayo, nella valle del rio mantaro, altopiani Centrali del Perù. Si celebra il funerale della signora natividad Alvarez, detta ‘tia nati’, morta a cento anni. tia nati non si è mai sposata, era soltera, ma nella sua vita si è presa cura di tanti nipoti e li ha fatti crescere. È stata una figura importante e un punto di riferimento per i suoi vicini. Per questo a darle l’ultimo saluto sono arrivati in molti e sono tornati appositamente da diverse parti del Perù parenti emigrati lontano, ad esempio da Lima che dista circa dodici ore di autobus. La veglia funebre si svolge nella modesta casa di campagna di tia nati e l’atmosfera appare subito di festa. Ci sono quattro musicisti: due chitarre, una fisarmonica e un violino che suonano e cantano musica peruviana nella camera ardente tra i parenti stretti e il cane che è stato sempre accanto a tia. nel cortile è un via vai di persone e verso mezzogiorno i nipoti servono a circa trenta persone il classico piatto peruviano di riso, pollo e patate. dopo il pasto il violinista fa raccogliere tutti intorno alla bara che nel frattempo è stata portata nel cortile e si recita una preghiera tutti insieme. Poi tia nati viene accompa-
gnata a piedi al cimitero, a un chilometro dalla sua abitazione, tra i canti e i balli dei nipoti più grandi lungo la strada. Si celebra una messa nella cappella del cimitero e si resta insieme fuori, davanti alla chiesa, tra foglie di coca, numerose casse di birra, chiacchiere, musica e canti. Come da tradizione uomini e donne formano due gruppi separati. Al tramonto, prima della sepoltura, c’è
Felice te, in questa calura in cui si impennano tutte le ansie e tutte le cagioni, quando lo spirito che anima il corpo va senza coca e non riesce a trapelare la sua bestia verso le Ande occidentali dell’Eternità. César Vallejo
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un ultimo momento di raccoglimento, alcuni dei nipoti e dei vicini ricordano quanto sia stata importante per loro la signora natividad, quanto nella sua vita abbia contribuito a rafforzare il senso di comunità del piccolo villaggio e si augurano che adesso che lei non c’è più si resti comunque uniti e ci si continui a sostenersi a vicenda.
ero-
ANDREA MATTEI, 35 anni, è ingegnere e gioca a calcio. Vive a Frascati, che adora, ma quando può prende lo zaino e scappa in America Latina in compagnia della sua Nikon. In famiglia ha sempre respirato fotografia e ha approfondito gli studi con dario de dominicis e il collettivo WSP Photography.
CÉSAR VALLEJO, uno dei più grandi poeti del XX secolo, nasce nel 1892 in un villaggio andino a 3500 metri di altezza nel Nord del Perù da una famiglia poverissima. Alla fine degli anni ’10, coinvolto nelle forti tensioni sociali del tempo, viene imprigionato, ottiene la libertà provvisoria e nel 1923, ancora perseguitato, fugge in europa. Muore in esilio nel 1938 a Parigi ed è sepolto a Montparnasse.
STORIE
DI LIBRI
La follia di michele gentile dura da trentadue anni. Si è inventato il ‘libro sospeso’, ‘il libro in pullman’ e scambia libri con metalli. eppure appare sconsolato: ‘nessun vuole diffondere la passione per la lettura’. Si lamenta: ‘Questo lavoro è un ergastolo’. ma la sua libreria, così strana, è irreale. e allora vale la pena andarci. testo e foto di adrea Semplici
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Vallo di Diano, terra di Salerno, Polla, cinquemila abitanti e una libreria
‘FARE IL LIBRAIO È DA PAZZI’ C osa devo fare con Michele Gentile? Con il libraio Michele Gentile. Polla ha poco meno di seimila abitanti, cittadina del nord del Vallo di Diano, ottanta chilometri a Sud di Salerno, confine fra Campania e Lucania, costone dei monti del Cilento. Arrivo a Polla per conoscere Michele e la sua libreria. Nel computer ho una rassegna stampa entusiasta: qui si lasciano libri ‘in sospeso’ come se fossero caffè dei bar di Napoli, si presentano libri sui pullman di linea verso le città del Nord, si scambiano libri con metalli. In più, forse proprio per questo, un cartello stradale mi avverte: ‘Polla, città del libro’. Titolo altisonante (sono 336 le città del libro in Italia, ho controllato): quanti libri si leggono nel nostro paese?
Ecco cosa accade: uscita della SalernoReggio Calabria (ancora non hanno il coraggio di farti pagare un pedaggio), immensa rotonda, condomini da periferia, urbanistica dall’aria strapazzata, svolta a destra, strada di ingresso verso il centro. La libreria, si chiama Ex-libris, ed è anche un caffè (nel senso che fa il caffè) e vende quotidiani (solo giornali), è qui. Non assomiglia a una libreria. Non ha una vera vetrina: è coperta da ogni tipo di manifestino. L’insegna è metallica: dovrebbe essere un caffè poggiato su un libro squadernato. Posso dire: a me, fiorentino, appare una ferramenta, una mesticheria. Lo trovo incoraggiante. E Michele è dietro un computer. Spunta fuori (prima i capelli, poi gli occhi) e penso che ho di fronte un libraio che assomiglia a Gene Wilder con lo sguardo rotante di Marty
Feldman in Frankestein Junior. Capelli arruffati, mobilissimo, una camicia gialla, pantaloni verdolini.
Non è difficile accorgersi delle assenze in queste librerie: niente libri da ‘successo’ di stagione. Niente Cognetti, per dire di uno bravo. Nemmeno Matteo Renzi, per fortuna. O, peggio, Bruno Vespa. Sul tavolinetto a fianco dell’ingresso (la porta a vetri ci batte contro) ci sono libri dalla copertina bianca: tutti sul Cilento. Accanto al computer, c’è Cent’anni di solitudine, un Benedetto XVI, la biografia (bella) di
copertina rosa. E poi non conosco quasi nessun altro: sono autori locali, uno scaffale dedicato ai poeti di questa terra (innumerevoli: ‘La poesia dà conforto’, dice Michele), editori minuscoli, di paese, c’è un angolo dedicato ai bambini immigrati. C’è un cartello scritto a pennarello: ricostruiamo la libreria di Mosul…si può lasciare denaro per comprare un libro destinato alla città irachena.
E allora? La geografia della libreria sono tre/quattro tavoli, invasi dai libri. Un disordine quasi assoluto, voluto e cercato, inestricabile. Sediamo su due poltroncine di velluto rosso, stiamo assieme per un paio d’ore. Non entra nessuno,
Michele Gentile libraio a Polla
è un tardo pomeriggio di estate. Io vorrei parlare di Polla e della sua storia. E lui invece comincia così: ‘Mi sono convinto che c’è un complotto contro i libri. In mezzo secolo i lettori non sono aumentati. In Campania il 71% degli abitanti non legge nemmeno un libro all’anno. Gli
editori non fanno niente per incoraggiare la lettura. E trattano noi librai solitari cose fossimo in Galleria a Milano. Sono arrabbiato, arrabbiatissimo. Voi giornalisti venite qui, mi telefonate, fate domande, mi date un buffetto sulla guancia e poi ve ne andate. Dite: guarda che bravo, questo libraio, e poi mi lasciate nel deserto della solitudine. Ma io qui sto scostando una pena all’ergastolo’.
Devo crederci? Il poeta irpino Franco Arminio direbbe che ho di fronte uno scoraggiatore militante. Uno che vede sempre tutto nero. Eppure a leggere la storia di Michele Gentile non appare così. Ha cinquantacinque anni, fa il libraio da trentadue. Sempre qui, in questo stradone di paese. Era il 1985, voleva sposarsi, aveva lasciato l’università, doveva inventarsi un mestiere. I libri gli piacevano. Con mezzo milione di lire aprì una cartolibreria. Si stancò: a lui interessavano solo i libri. Lavorò con le scuole. Si trovo con milioni di crediti inesigibili. Ripartì. Voleva chiudere. Non ce l’ha fatta a smettere. Appariva sempre qualcuno che gli diceva: ‘Non lo fare’. In realtà Michele ci teneva a fare il libraio. Se oggi Polla sta in questo strano elenco di ‘città del libro’ lo deve a lui e a chi lo aiutato.
Clienti fedeli? ‘Una decina, forse venti’. Non di più. Uno studente di legge che ordina i libri di Gramsci e Pasolini, qualche impiegato, un paio di professori, alcuni pensionati. E Cognetti, niente? ‘Me hanno ordinato una copia e sono
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Marco Tardelli scritta da sua figlia, un’altra biografia di Claudio Gentile (non oso chiedergli se è juventino, ma questi sono due buoni libri di calcio). A fianco c’è Machiavelli. Occhieggio una preziosa Alexandra David-Néel dalla
stato felice di prenderla, ma non ha senso che ne tenga cinque copie. Rischio di non venderle’. Spiega: ‘Fai i conti? Ci prendi il 28%, devi pagare le spese, le tasse e sono sempre discussioni con i distributori’. Ancora: ‘Gli editori trattano i libro come oggetti. E invece sono soggetti. Non vogliono diffondere la lettura. Anche Cognetti viene utilizzato in questo meccanismo’.
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Bene, un po’ spiazzato, cerco di tornare a Polla. Aveva bisogno di sfogarsi, Michele. Bisogna raccontare le storie che, assieme a un amico giornalista (Salvatore Medici, lavora in Svizzera), la libreria Ex-libris ha costruito in questi anni.
Il lettore che compra un libro può essere generoso. Al Sud si lasciano spesso i caffè sospesi. Si offre un caffè a chi verrà dopo di noi. Perché non donare un libro a chi entrerà in libreria dopo che ne siamo usciti? A Polla può accadere. Accade. Non chiedo quanto abbia funzionato. A leggere gli articoli attorno al libro sospeso, direi molto. Ma non mi
fido dei miei colleghi giornalisti. Solo che l’idea mi appare bella e romantica. Quindi: viva!
sorpresa, generalmente il viaggiatore non ne sa niente. La prima a salire sul pullman fu una giovane scrittrice sarda, Giovanna Mulas. Poi, in due anni, hanno fatto il viaggio sulle corriere Curcio, trenta scrittori, da Diego De Silva a Isaia Sales, da Antonello Caporale a Pino Aprile. Millesettecento copie vendute. Il trucco? Sono le autolinee Curcio a comprare i libri e a donarle ai passeggeri. Ricordate il cruccio di Michele Gentile? La diffusione dei libro? ‘Io provo, in tutte le maniere, a
Per acquistare un libro da dieci euro, sono necessari diciotto chili di alluminio, meno se un ragazzo vuole comprarsi un vocabolario di media grandezza. Insomma, i libri a peso di metalli. Porti in libreria un sacco di lattine e puoi averne libri. Alla scuola media di Sala Consilina hanno raccolto settanta euro di metalli e la biblioteca si è arricchita. Così si vuole contribuire anche alla ricostruzione della biblioteca di Mosul. Sono i libri del riciclo.
Ai passeggeri delle autolinee Curcio, compagnia di Polla, nei viaggi verso Roma o Firenze, prima è capitato di trovarsi uno scomparto di libri da leggere (i classici, soprattutto. Da Verga a Camilleri) nelle ore di autostrada. Poi, un giorno, si sono trovati a bordo un tizio che ha preso il microfono e ha cominciato a parlare di un libro. Presentazioni di libri sul bus. Bookbus. Quasi a
far nascere la passione per il libro’.
E il caffè? Perché non hai aperto un bar invece di una libreria? A Polla, mi dicono ci sono almeno venti bar. Funzionano. Non l’avessi mai chiesto: ‘Sono figlio di un ba-
rista, odio i bar’. Punto. Ma alla fine il caffè lo hai messo su, Michele. ‘Volevo che la gente entrasse, si fermasse, si regalasse tempo: prendi un caffè e ti guardi attorno e vedi i libri’. Ci ha provato una prima volta nel 1990. Niente da fare, le leggi allora non lo consentivano. Ha riprovato dieci anni dopo. E ora la macchina per il caffè c’è. Niente birre. ‘Io volevo la Chimay o la Menabrea, ama qui si beve solo Peroni a un euro. Qualche aperitivo, sì, niente di
Perché non chiudi, Michele? Non so come mi stia guardando. Male, credo. Immagino che ci pensi ogni mattina quando si sveglia. Il figlio non tornerà al paese per fare il libraio. Ma non si arrabbia alla mia domanda, argomenta: ‘Dovrei chiudere, i conti sono lì a dirmelo. Ma non posso e non voglio farlo. Sarebbe la sconfitta finale. E se devo morire, voglio farlo combattendo. Voglio una morte eroica’. Ma poi vi sono altre piccole ra-
passò dalla libreria e, andandosene, disse a Michele: ‘Resisti’. ‘Non l’ho mai dimenticato’, ricorda il libraio. I ragazzi della scuola di quel preside gli hanno dato, di recente, una targa-premio. E poi: ‘Guarda gli occhi di un bambino quando gli metti in mano un libro di favole. Sono felici’, si incanta Michele. Sì, è un romantico scombinato (forse non troppo, se sta qui da trentadue anni).
Non riesco a sapere che libri vende. Mi suggerisce di leggere un libro su Cristo di Mario De Martino. Chi? Un ragazzo di venti anni che vive da queste parti. Meglio di Carrère, mi direbbe se osassi ribattergli. Credo che potrebbe convincermi, talmente è la passione che ci mette. Gli chiedo: ma tu cosa leggi? ‘L’arte di amare di Herman Hesse. Per la terza volta. Un libro ha tante porte e ogni volta ne scopro una diversa’.
più’. Un bar dimezzato, un’edicola dimezzata. Sì, mi convinco che lo stralunato Michele mi sta simpatico: un Don Chisciotte matto (lo dice lui: ‘E’ da pazzi fare il libraio’) che ci prova a mettere granelli nei meccanismi implacabili del Mercato.
gioni, le intravedo e non sono piccole: mi mostra un libro che io, fiorentino, mai comprerei. La storia di Polla, anzi le linee di storia di Polla. Devono essere almeno cinquecento pagine. Le ha scritte un preside, Vittorio Bracco. Pochi giorni prima di morire
ANdREA sEMPLICI, 64 anni, fiorentino, giornalista e fotografo, si è messo in testa di andare a trovare i librai ostinati. Soprattutto nei piccoli paesi. E’ una ricerca casuale, ma ogni tanto avvengono incontri che valgono il viaggio.
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la colomBia: un PaeSe caPace Di SPeranza e con VoGlia Di Futuro testo e foto di Anna Maspero
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n nuovo viaggio in Colombia in cui voglio andare oltre l’immagine rurale di “macondo” e quella di bellissima cartolina di Cartagena, oltre la visione un po’ stereotipata di un Paese sospeso fra realismo magico, narcos e guerriglia, per cercare di capire come sta cambiando. dopo aver visitato una zona remota del Chocó, con la foresta pluviale che lambisce la costa Pacifica, mi sposto fra le due città maggiori, Bogotá e medellín. non nascondo un po’ di apprensione iniziale che però presto si stempera nella gentilezza e nei sorrisi della gente, uno dei tanti regali di questo viaggio, e subito mi muovo sicura, senza la sensazione di rischi particolari come invece mi è successo in altre metropoli latinoamericane. Immediata è la percezione di un Paese aperto al futuro e alla speranza, nonostante le difficoltà da superare, la povertà ancora diffusa e lo scollamento fra città, periferie e zone rurali. Soprattutto, e nonostante tutto, gli accordi di pace governo-guerriglieri procedono e i narcotrafficanti con i loro cartelli, anche se non sono scomparsi, non spadroneggiano come negli anni di Pablo escobar e comunque evitano di ostentare lusso e violenza. Fin dall’Indipendenza la Colombia è afflitta da guerre a bassa e alta tensione e ha anche il non invidiabile primato dell’insurrezione armata più longeva dell’America Latina. ora è parzialmente pacificata, non è ancora in pace. Purtroppo “è più facile cominciare una guerra che finirla”, come scriveva márquez in Cent’anni di Solitudine, medellin, manifestazione per la pace
CRONACA DI
UNA PACE ANNUNCIATA Una nazione che ha dimostrato al mondo che cambiare è possibile: ora tocca a noi imparare a conoscerla
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dove racconta delle 32 sollevazioni armate del colonnello Aureliano Buendía, che altro non sono che la guerra dei mille giorni (1899-1901), e poi della strage nel 1928 dei braccianti delle piantagioni di banani. guerre e violenze ancora più antiche del delitto nel ’48 del popolarissimo candidato del Partito Liberale Jorge gaitàn che causò la sommossa popolare del Bogotazo e l’inizio della Violencia, o della repressione da parte dell’esercito di una rivolta contadina nel maggio 1964 che segnò la nascita delle FArC (Forze Armate rivoluzionarie della Colombia), o l’assalto al ministero di giustizia da parte di guerriglieri dell'm-19 con la complicità di Pablo escobar… non esiste una sola verità per spiegare questi lunghi anni di guerra e tutti i suoi attori – esercito e narcotrafficanti, paramilitari e Fernando Botero, 'el Pajaro', Parque San Antonio, medellin. Sopra l'opera è esploso nel 1995 un ordigno che ha provocato 23 morti e oltre 200 feriti. nel 2000 Botero ha realizzato e fatto installare di fianco al passero 'ferito' un nuovo pajaro pronto a volare
guerriglia – hanno la loro parte di responsabilità. Anche per le FArC, perso l'alone di gruppo guerrigliero rivoluzionario degli inizi, non è facile rientrare nel sistema democratico come prevedono gli accordi dell’Habana. da sempre si è cercato di mettere a tacere la violenza con altra violenza e i colombiani sono stanchi di guerra, ma in molti sembra prevalere una sorta di apatia: come si spiegherebbe altrimenti il 62% di astenuti al referendum dell’ottobre 2016 che avrebbe dovuto ratificare gli accordi di pace con le FArC, clamorosamente respinti invece per un pugno di voti? non riesco a capire l’indifferenza, ma posso capire chi ha votato no perché sequestri, sparizioni forzate, torture, falsi positivi (eufemismo usato
per indicare assassinii di civili spacciati per guerriglieri da parte dell’esercito), reclutamento di minori, omicidi, violenze sessuali e 7 milioni di desplazados (gli sfollati costretti a lasciare le loro case), hanno lasciato ferite non ancora rimarginate.e poi i colombiani non hanno memoria di pace ed è difficile immaginare qualcosa se non l’hai mai conosciuta. Inevitabile che ci siano forze contrarie perché la guerra muove molto denaro, nasconde i privilegi e permette di trascurare gli altri problemi del Paese. Il processo di pace è comunque continuato e, nonostante i dubbi di molti, le FArC hanno mantenuto la parola consegnando lo scorso 15 agosto le ultime armi. Anche l’eLn (esercito di Liberazione nazionale), un
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gruppo guerrigliero minore ma attivo, ha da poco firmato un cessate il fuoco. Le elezioni del prossimo anno potrebbero essere un ostacolo se prevalesse lo schieramento contrario agli accordi, ma la pace è per la prima volta a portata di mano e, come amano ripetere i colombiani, “los buenos somos màs”. I più, anche se da posizioni diverse, concordano che la sola strada possibile per uscire dal labirinto non sia la guerra a oltranza, ma la pace. Importante è “dar el primer paso” come ha chiesto Papa Francesco durante la sua visita e come auspica Juan manuel Santos, premio nobel per la Pace (ma anche ex-ministro della difesa nel governo uribe quando invece scelse la linea dura contro le FArC).
Bogotá ogotá: la capitale di 11 milioni di abitanti con un traffico caotico, ma anche grandi parchi, magnifici musei, moltissimi teatri e biblioteche, ottimi ristoranti e bar di tendenza (uno per tutti, Andrés d.C., quattro piani dall’inferno al paradiso, divertente e kitsch, casual ed elegante, insomma imperdibile). In città vi è una rete di piste ciclabili fra le più estese del continente e in aggiunta la domenica vengono chiuse al traffico intere carreggiate delle arterie principali per creare una ciclovia di 121 km su cui si riversa oltre un milione di abitanti su bici, pattini o semplicemente a piedi, mentre ai lati del percorso spuntano per l’occasione decine di posti ristoro e di officine di ripara-
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In questi giorni di fine agosto a Bogotá 1.100 ex-combattenti si sono riuniti in Congresso e poi in una grande manifestazione a Plaza Bolívar per sancire la trasformazione delle FArC in partito politico con una sua rappresentanza in Parlamento (dieci seggi saranno assegnati automaticamente fino al 2026 in base agli accordi): si chiamerà Fuerza Alternativa revolucionaria del
nelle immagini: medellin, manifestazione per la pace
Común, mantenendo così lo stesso acronimo. È un risultato impensabile fino a pochi anni fa. Intervisto don Francisco gonzáles, alias Paco Chino, ex-comandante del Bloque Alfonso Cano Frente Sur occidental delle FArC. mi racconta come sia necessario cambiare la concezione militarista dello Stato diffusa in Colombia, così come la tesi del “nemico interno” funzionale solo all’eliminazione dell’avversario, idee che sono all’origine stessa della guerra insieme a cause strutturali come la mancanza di una vera democrazia, la concentrazione della proprietà terriera in mano a pochissimi, le
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zione. Anch’io ne approfitto e mi tuffo pedalando nel fiume di folla per raggiungere il piacevole quartiere di usaquén con il suo mercatino delle pulci, mentre nei giorni feriali affronto la calca del transmilenio, una sorta di bus-metropolitana di superficie su corsie preferenziali.
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profonde diseguaglianze economiche e l’assenza delle istituzioni. Il programma del nuovo partito sarà soprattutto implementare gli accordi dell’Habana, il cui contenuto i colombiani di fatto ancora non conoscono perché l’opera di sensibilizzazione del governo è stata insufficiente e da parte loro le FArC non avevano gli strumenti per fare diffusione, mentre la campagna contraria dell’opposizione è stata violenta, giocando sulle paure e utilizzando argomenti estranei
organizzati che ancora oggi stanno uccidendo i rappresentanti delle organizzazioni di difesa dei diritti umani e dei movimenti sociali (più di 50 assassinati quest’anno). e poi riforma della giustizia, lotta contro la corruzione, proposte sulla parità di genere, a favore dei giovani e dell’ambiente…Parlo con altra gente incontrata per strada: l’impressione è che i cachacos, quelli nati nella capitale da famiglie bogotane, siano piuttosto disinteressati al processo in atto, mentre i
medellin, manifestazione per la pace Pagina a fronte: murales Casa della Memoria Desaparecidos
rolos, gli abitanti originari di altri dipartimenti – e fra loro molti i desplazados – siano più coinvolti e disponibili a raccontare. La sensazione è che chi ha vissuto il conflitto più direttamente sulla propria pelle abbia votato Sì al referendum.
agli accordi stessi. Quello di don Francisco è un lungo elenco di interventi urgenti: risarcire le vittime del conflitto e far sì che i desplazados possano tornare nelle loro terre dando loro gli strumenti per ricominciare, avviare una riforma agraria integrale, sostenere la sostituzione volontaria delle culture illegali, promuovere l’istruzione, la salute e la costruzione di strade anche nelle aree rurali, chiarire le responsabilità dei delitti di guerra perché ci sono crimini che non possono rimanere impuniti, perseguire i gruppi
medellín edellín, la città dell’eterna primavera, mi accoglie cupa sotto un violento temporale. Il mattino seguente il sole è tornato a splendere, è domenica e anche qui le strade sono piene di gente che corre o pedala. In cinquant’anni da cittadina rurale è diventata la seconda città della Colombia, polo industriale, commerciale e di servizi
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che, musei, gallerie d’arte, teatri, locali per appassionati di ogni genere di musica e ogni tipo di balli, dal jazz al rock, dalla salsa al tango. Inizio il mio giro da quello che è il biglietto da visita di medellín: Plaza de las esculturas con le famose statue donate da Fernando Botero, suo illustre cittadino, proprio di fronte al museo de Antioquia che ospita la maggior raccolta di opere dell’artista. A qualche isolato, nel Parque San Antonio, ci sono altre quattro sue sculture, fra cui due enormi passeri: uno fu sventrato dall’esplosione di vari chili di dinamite, ci furono 23 morti e 200 feriti. Botero fece una nuova scultura identica, ma lasciò lì anche quella ferita a testimonianza dell’assurda violenza generata da un altro figlio della città, Pablo escobar, il sanguinario e ricchissimo capo indiscusso del cartello di medellín ucciso nel 1993. La città cerca di scrollarsi di dosso la leggenda nera del patròn della droga, un anti-eroe la cui fama è stata ravvivata dal successo della serie televisiva narcos e uti-
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grazie soprattutto alla capacità imprenditoriale dei suoi cittadini, i paisas, come sono chiamati gli abitanti della regione. Io prendo subito confidenza con la velocissima metropolitana di superficie, raggiungo San Javier e salgo sulla cabinovia che regala una prospettiva unica sulla città: il vecchio centro, il moderno downtown e intorno i quartieri più poveri con le case di mattoni crudi e lamiera e i muri ravvivati da grandi murales. medellín non è bella, ma ha probabilmente la miglior qualità di vita del Paese – e non solo per clima e cucina – tanto da essere stata nominata nel 2013 la città più innovativa del mondo. In questi ultimissimi anni da città pericolosa si è trasformata in metropoli dinamica e culturalmente vivacissima grazie ad amministratori illuminati e a un nuovo modello di decentralizzazione che ha rinsaldato il senso di appartenenza fra gli abitanti. Il sistema di trasporti pubblici della città dal centro si allarga alle periferie abbattendo gli steccati fra quartieri ricchi e poveri; moltissimi sono i centri culturali: librerie, bibliote-
medellin
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lizzata per attirare turisti curiosi. Preferisco evitare il pellegrinaggio sui luoghi legati alla sua vita e alla sua morte proposto da varie agenzie e vado invece all’appuntamento con Laura, una giovane volontaria della Comuna 13, il quartiere che ancora all’inizio del 2000 era uno dei barrios più pericolosi. Lei è cresciuta lì negli anni in cui la vita aveva perso qualsiasi valore, ha vissuto sulla sua pelle violenza e sequestri, ora è madre di due bimbi ed è felice di potermi raccontare come il suo quartiere sia stato recuperato alla legalità con interventi pubblici nell’assistenza, nell’educazione e nel welfare. mi accompagna lungo il moderno sistema di scale mobili che si arrampicano sulla collina e che ha rappresentato l’inizio della rinascita e intanto mi spiega la storia e il significato dei tantissimi murales dipinti da artisti locali e internazionali, che mescolano protesta e umorismo, creatività e arte. Avrei molto da
raccontare, magari in un prossimo articolo dedicato alla street art. Continuo il mio percorso nella memoria ferita della città, la prossima tappa è proprio la Casa de la memoria, ma prima vengo coinvolta e travolta da un’allegra sfilata di gruppi di commedianti e cuenteros che, preceduti dall’immagine di un giornalista e artista molto amato e vittima della violenza, Jaime garzón, percorrono le vie della città al grido di “Sí, sí, La Paz”. Il museo, aperto dal 2013, è una casa simbolica per non dimenticare chi c’era e chi non è sopravvissuto: un progetto in divenire fatto di frammenti perché parla di storie interrotte, di sogni infranti, di assenze e di vite sospese nell’attesa di un ritorno impossibile dei tanti desaparecidos. un volto mi rimane impresso, quello di Fabiola Lalinde che ha passato più di 12 anni, esattamente 4.428 giorni, a cercare suo figlio Luis detenuto, torturato, scomparso e assassinato nel 1984 durante un’azione dell’esercito e se-
polto soltanto nel 1996 grazie alla sua disperata ricerca. un tragico filo la lega alle madres de Plaza de mayo argentine, ma i desaparecidos colombiani sono in numero molto più alto di quelli di tutto il continente sudamericano. La sola alternativa possibile per sopravvivere era la fuga e la perdita di legami, casa, terra, lavoro… Il museo è una casa per tenere in memoria il passato affinché non si ripeta ma anche per immaginare un altro mondo possibile: se non si possono cancellare le ferite, si può contribuire attraverso le voci delle vittime e dei testimoni alla verità e alla riconciliazione per tornare a vivere con dignità.
tori dei murales, il Pajaro Herido di Botero o le armi consegnate dalle FArC che saranno in parte fuse per diventare tre monumenti alla pace: uno a Cuba, sede dei colloqui di pace, uno a new York, sede dell’onu, e uno in Colombia per ricordare le vittime del conflitto. “Mettete dei fiori nei vostri cannoni per formare gli accordi per una ballata di pace” cantavano i giganti nel 1967 e mi sembra di tornare a quegli anni di speranze e di fiducia nel futuro.
un’ultima immagine, di un oggetto esposto al museo de Antioquia è forse quella che meglio esprime l’atmosfera che si respira oggi in Colombia: la “Escopetarra”, una chitarra costruita con un fucile AK-47 appartenuto a combattenti, per trasformare la violenza in arte, proprio come fanno i commedianti che ballano in strada, i giovani pit-
ANNA MAsPERo, 61 anni, ha insegnato inglese, piantato alberi, molto letto e molto viaggiato. è per Polaris autrice di guida sulla Bolivia, da poco ripubblicata nella nuova edizione, e co-autrice di una sulla Colombia di imminente uscita. Per lo stesso editore ha pubblicato due libri: “A come Avventura, Saggi sull’arte del viaggiare” e “Il Mondo nelle Mani, Divagazioni sul viaggiare”. Non ha mai smesso di cercare e di porsi domande. è certa che molte risposte stiano nel viaggio e nei libri. Quando non è in giro per il mondo, la trovate in Brianza o sul suo blog: www.annamaspero.com
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Che piaccia o no, è innegabile che la fiction prodotta da netflix sia stata per molti occidentali l’occasione per scoprire il paese latino americano
LA COLOMBIA DI NARCOS non sempre raccontare le peggiori magagne di un paese, spinge chi le scopre a volersene tenere a distanza testo di Jacopo masini foto di Anna maspero
Pablo escobar muore.
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Lo so, alcuni ritengono che, se vi accingete a guardare narcos, la serie prodotta da netflix e giunta alla terza stagione, io vi abbia appena spoilerato uno snodo narrativo decisivo. Anzi, alcuni riterranno che vi appia appena svelato il finale. Bene, in entrambe i casi si tratta di un errore. Per due motivi distinti. In primo luogo, lo sappiamo tutti 40 che Pablo escobar è morto. Intendo dire che è morto nella realtà, ed essendo la serie ispirata a fatti realmente accaduti, è chiaro che escobar morirà anche lì. In secondo luogo, narcos prosegue anche dopo la morte del primo, famoso narcotrafficante della storia della Colombia. Altrimenti l’avrebbero intitolata escobar, non trovate? C’è una terza ragione per cui non si tratta di uno spoiler, un motivo meno direttamente legato al plot della serie: narcos vi farà venire voglia di prendere un aereo e di andare in Colombia, contraddicendo il
pregiudizio in base al quale raccontare le magagne – anzi, le peggiori magagne – di un paese, spingerà chi le scopre a volersene tenere a distanza. ora, sebbene una fiction non sia certo il modo migliore per scoprire un luogo, nel caso in cui sia scritta e girata come dio comanda – e questo è il caso – assorbiremo l’umore, la luce, l’indole, persino gli odori di quello stesso luogo. Porgeremo l’orecchio alla lingua della popolazione che lo abita – nel caso di narcos, i dialoghi in spagnolo sono conservati nell’idioma originale – e vi lascerete cullare dalla sensazione di essere stati rapiti e portati per le vie di medellín, Bogotá e di Cali, tre importanti luoghi del narcotraffico anni ’80. o meglio, le tre città attorno alle quali ruota la serie, tre agglomerati urbani in cui è lampante la separazione netta tra i quartieri dei ric-
Fernando Botero Morte di Escobar
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Hacienda La manuela, di Pablo escobar, bombardata nel 1993 con 200 kl di tnt.
chi e quelli dei poveri. tre cittĂ in cui risuona la musica latina, a partire dalla canzone che scorre sui titoli di testa della serie e che, nel caso abbiate intenzione di vederla, non riuscirete piĂš a scordare. nella Colombia di narcos fa caldo, si bevono aguardente e persino tequila, la coca scorre a fiumi, ma viene incanalata verso paesi che la richiedono, che ne hanno bisogno con ferocia, in particolare gli Stati uniti, che pretendono, attraverso la deA, di influire sui destini del popolo colombiano. reagan, Bush e
Clinton fanno capolino nel corso delle tre stagioni, da lontano, mentre assistiamo alle macchinazione del governo statunitense per fingere di punire chi delinque, allisciando il pelo a chi è corrotto da quei delinquenti. Ad esempio, i politici colombiani. escobar muore, pur essendo il protagonista indiscusso delle prime due stagioni. e qualcuno prende il suo posto, cambiando strategia, ma mantenendo intatto il fascino di un paese che appare splendido, terribile, contraddittorio, pieno di passioni furibonde
JACoPo MAsINI, nato a Parma nel 1974, è responsabile della comunicazione saldaPress; scrive, tiene da anni laboratori di scrittura e ama le storie che raccontano una storia.
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e molto umane. e che, col passare degli episodi, ricorda sempre più da vicino un luogo famigliare, che trasuda altrettanta bellezza, altrettanta corruzione, altrettante contraddizioni. Il nostro. Certo, noi non abbiamo immense foreste in cui si nascondono quelli delle Farc, o i produttori di coca. ma non sappiamo neanche ballare come fanno loro, non usiamo insulti come maldido o maricon. Quindi, perché non andare a vedere di persona? Come sarebbe bello. tanto escobar è morto.
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come Si VenDe il narcotraFFico
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iviste colombiane come Lavanguardia, uomini politici, scrittori e docenti universitari colombiani alzano sempre più la voce contro il narcoturismo. Alimentati dal successo mondiale di narcos, i tour guidati nei luoghi di Pablo escobar (dai 50 ai 200 dollari a persona, a seconda della durata e della guida) vengono oggi offerti da hotel, società private e siti internet come expedia che individua 10 mete da scoprire in Colombia “con la serie tv narcos”. una tra le più gettonate è l'incredibile villa che il narcotrafficante si fece costruire nella regione dell'Antioquia, Hacienda Napoles. Passata nelle mani del governo, oggi è un parco tematico vastissimo, dove si può ammirare il branco di ippopotami più grande esistente fuori dall'Africa, voluto da escobar per rallegrare le proprie giornate; l’improbabile pachiderma, onnivoro e molto vorace, sta ora sostituendo la fauna locale, tanto che se ne sta valutando la castrazione, non facile e costosissima. tutto ciò che è “narco” vende, ed è pure chic, se anche Elle decor propone a chi si è fatto trascinare dal fascino sinistro del Patrón un tour completo con pernottamento a Casa malca a tulum, residenza privata del narcotrafficante, oggi albergo della prestigiosa catena design Hotel, immerso in una natura rigogliosa e frequentato da una clientela d’élite. Alla recentissima settimana della moda di milano, è stata infine presentata la collezione Cali. Made in Colombia, ennesima grande idea marketing di netflix che intende così promuovere la terza stagione della serie nella quale, morto escobar, è il terribile cartello di Cali la nuova organizzazione criminale al centro del narcotraffico. L’estetica di riferimento è ovviamente sudamericana: stampe tropicali, linee retrò, occhiali scuri e borsoni per trasporti speciali… In prima linea contro la serie e il turismo del narcotraffico è la città di medellin che sta investendo molto su sicurezza, educazione, cultura e infrastrutture. Qui una parte degli abitanti continua a speculare, guidando drappelli di fan a Casa mónaco, a lungo residenza della famiglia escobar, al Santuario della Vergine della rosa mística, nota anche come Vergine dei Sicari, alla prigione detta La Catedral che nei fine settimana accoglieva molte personalità che partecipavano alle feste del detenuto escobar, fino al teatro della morte, una casa ubicata nella zona degli olivi. Il sindaco, La “Escopetarra” esposta al museo de Antioquia
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Federico gutiérrez, intende fare abbattere molti di questi edifici per far posto a parchi pubblici e a memoriali per le vittime della guerra al narcotraffico e il Comunale urban development Corporation (edu), uno dei soggetti pubblici che hanno portato alla trasformazione della città, ha messo a punto un tour alternativo che attraversa gli interventi urbani svolti nei quartieri ex focolai di narco, guerriglia e violenza paramilitare. e dire che nel 2012 la serie prodotta dalla televisione colombiana, Escobar. El Patron del mal (anch’essa ora su netflix), basata su accurate indagini giornalistiche e sul romanzo di Alonso Salazar, La Parabola di Paolo, aveva avuto un grande successo di pubblico. niente da fare: è bastata una coppia di sceneggiatori con i fiocchi come Chris Brancato e Paul eckstein che ha sapientemente intrecciato scene terribili, omicidi a sangue freddo, violenza, alle vicende quotidiane di un ometto trasandato con la panza che gira in ciabatte per casa, e il mondo pare aver scordato quella guerra lunga, tremenda e sanguinosa dalla quale ogni famiglia in Colombia è stata toccata. Silvia La Ferrara
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STORIE
DI CIMITERI
La cura del verde è affidata ad Antonio Gonzalez: «All'inizio ero inquieto, ma uno perde presto la paura dei morti. sono più tranquilli dei vivi. stanno benissimo, sepolti qui». testo e foto di alberto bile
A Barichara, in Colombia, nel dipartimento di Santander, Ysidro il “picapiedras”, lavora le pietre sabbiose tipiche della zona per trasformarle in tombe per il celebre cimitero.
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LE TOMBE DEI NOSTRI
scendo per pochi chilometri dal centro abitato di Barichara, in direzione sud-est verso San Gil, è possibile incontrare dei picapiedras sul ciglio della strada. È così che lo stesso Ysidro si definisce: uno spaccapietre. Maglietta grigia impolverata, pancia prominente ma soda, folto baffo nero, ha appena pranzato con i suoi due sottoposti. Riposa all'ombra, ascoltando i ronzii della radio sulla frontiera con il Venezuela. Il nostro arrivo non lo disturba, ha una generosa, grassa risata. Lavora con altre sette persone per la piccola impresa El Artesano, che ha anche una pagina web con decine di foto e quattro parole. È lo stesso Ysidro a darmi l'indirizzo, ma non ce n'è bisogno: tutte le informazioni provengono da lui. Ci sono molti indizi secondo cui gli indios prima della Conquista lavoravano le pietre sabbiose tipiche della zona con gli stessi strumenti di oggi, almeno per quanto riguarda l'incisione dei dettagli. Con grande orgoglio Ysidro spiega che la cattedrale di Barichara, quella meraviglia in pietra “gialla” che in realtà è rossa, è stata costruita da operai come lui. E che nel paesino dove vive, Curití, ha vinto una battaglia per non far danneggiare il centro storico. Gli regalo tre euro per la sua collezione di monete, e lui contentissimo offre una prova veloce di
taglio della pietra: in effetti con una martellata ben assestata il picchetto di ferro smuove facilmente la superficie. Ricevono commissioni di ogni genere, «da qualsiasi pazzo al quale venga in mente una cosa!». Molte di queste sono fonti battesimali, o tombe per il celebre cimitero: «Alcuni compagni già sono lì, abbiamo dovuto fare le loro tombe. E ora insegniamo ai giovani come farle per noi». Ci saluta scherzando di gusto e con
grandi pacche sulle spalle. Finché non passa il bus, torniamo camminando verso Barichara, pronti a guardare le strade e le chiese con un altro occhio, e a visitare il cimitero.
È collocato quasi in cima al paese, vicino ai belvederi, ed esposto al vento della valle. Perlopiù ospita defunti degli ultimi cinquant'anni, ma ci sono anche
militari. Gli unici morti per violenza politica sarebbero membri di una famiglia trucidata nel 1967. Erano liberali o conservatori? «Non so, so solo che si ammazzavano per qualsiasi idiozia». E lei cos'era? «Liberale», dice con un sorriso imbarazzato, come se tutto questo qui non conti più. Riprende a puntare pietre e storie. C'è la tomba di una ragazza di vent'anni avvelenatasi per amore, ma nessun morto per delitto di passione. Ci sono i genitori di Antonio, e due dei suoi dieci figli: uno morto affogato a ventitré anni, un altro appena nato. Arriva Luis Eliecer, che è responsabile del camposanto e superiore di Antonio, anche se con vent'anni in meno. A undici anni ha perso i genitori per un incidente. Amici di famiglia riuscirono a farlo assumere nel cimitero del Carmen de Chocorì, qui vicino. Arrivare a lavorare in uno dei pochi cimiteri del paese considerati monumento nazionale è per lui una promozione, dopo anni di onorata carriera. «All'inizio ero inquieto», racconta, «ma uno perde presto la paura dei morti. Sono più tranquilli dei vivi». Tanto che quando vengono persone a portare fiori e chiedono dei loro familiari, lui risponde sempre: «Stanno benissimo, sepolti qui».
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COMPAGNI
tombe di fine Ottocento. Poche, perché nei primi anni dopo l'apertura del cimitero (1879), c'erano delle semplici croci di legno. Colpisce la varietà delle tombe di pietra, che raccontano le mansioni o gli interessi del defunto: in quella di Gerardo c'è una casetta, Monica ha una cornucopia, Amelia una rosa, Carlo dei cruciverba, Juancho una jeep, Carlos due bus con il nome dell'impresa, Saul un agnello, Mirtiniano un'ancora. La cura del verde è affidata ad Antonio Gonzalez, ottant'anni, da trentaquattro a servizio del cimitero, prima facendo sepolture, ora innaffiando. Ha gli occhi azzurri con macchie di caffè, un sombrero di paglia, una vecchia camicia color panna, pantaloni grigi sporchi di terra sulle ginocchia e scarpe di tela colorata. Trascina le parole a labbra socchiuse, e ride spesso. Si è pensionato un bel po' di anni fa, ma «per non morire di fame» è riuscito a ritagliarsi un ruolo. Spiega le tombe puntandole con la pompa, senza accennare ad abbassare il volume della radio che indossa come un marsupio e che suona vallenato. Fuma e offre il sigaro, che lo accompagna da cinquant'anni, «senza che abbia mai avuto anche solo un mal di testa». Racconta che qui tutti sono morti di vecchiaia, non per mano di guerriglieri o para-
non è facile diventare adulti per i bambini nati tra siccità e periodiche carestie, senza servizi sanitari, in una terra splendida e selvaggia, dove l'unica vera e ambigua fontedi reddito è una miniera di carbone a cielo aperto tra lepiù grandi al mondo. testo e foto di carla reschia
POSTI DI BLOCCO NELLA GUAJIRA qui i Wayuu, eredi dispersi degli arawak, discendenti degli aborigeni che incontrò amerigo Vespucci, abituati a campare con l'allevamento delle chivos, striminzite capre, cercano di diventare turistici in sintonia con il resto del paese.
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uando a fianco dello sterrato compare la testa scarmigliata di un bambino (ma a volte ci sono anche giovani donne, o uomini anziani) l'autista rallenta, apre il finestrino e porge un piccolo dono, una caramella, un dolcetto, a volte pochi pesos. Allora il bambino lascia cadere la cima della corda che dall'altro lato è assicurata a un palo e la jeep può passare prima che l'improvvisato posto di blocco si riformi per fermare la macchina successiva. Capita spesso sulla dissestatissima strada che attraversa la guajira e come in un viaggio nel tempo porta dalle atmosfere coloniali cubane, dalle spiagge fitte di palme, dal lungomare punteggiato di hotel, bar e ristoranti di riohacha alla povera e polverosa ma pittoresca uribìa, la capitale indigena, e poi attraverso il deserto punteggiato di rancherias, minimi villaggi privi di tutto, fino alla splendida e selvaggia desolazione di Punta gallinas, il luogo più a nord della Colombia e di tutta l'America del Sud, un orizzonte ipnotico di rocce, sabbia e vento dominato da un faro diroccato. L'epica mondana dei Caraibi con il suo secolare teatrino di antiche e nuove rivoluzioni,
ricchezze favolose e vite miserabili, corsari e rockstar, schiavi delle piantagioni e surfisti, resort e baracche, è lontana eppure vicinissima: Aruba s'intravede alla linea dell'orizzonte, appena oltre lo sguardo la giamaica; e dietro Cuba, Haiti e la repubblica dominicana, Porto rico, l'avamposto degli Stati uniti, Panama.
I commoventi posti di blocco dei bambini Waayuu sono appunto un modo per ricordare ai turisti di passaggio che stanno en-
trando in casa loro, una barriera fragile e facilmente superabile, ma forte di rivendicazioni e frustrazioni. Perché solo qui, in un paese politicamente lacerato ma ricchissimo di risorse naturali, ogni anno un numero imprecisato di bambini – i dati variano, a seconda delle fonti, governative o non governative, da 4770 negli ultimi otto anni a 300 nello stesso lasso di tempo, – muore di malnutrizione e di disidratazione, perché anche questo ultimo rifugio è in forse ora che il turismo sta scoprendo questo angolo di Caraibi così pittoresco e poco noto e le multinazionali premono per lo sfruttamento delle risorse della regione, carbone e gas naturale. e perchè anche così il tasso di disoccupazione è del 47%, contro l'11,7% della media nazionale. e così i Wayuu, abituati a campare con l'allevamento delle chivos, striminzite capre, cercano, timidamente, di diventare turistici in sintonia con il resto del paese, in parte restituito alle destinazioni internazionali dopo
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Poco a est, a dividere in due parti diseguali la penisola, il confine con il Venezuela che ogni giorno frontalieri spinti dalla disperazione attraversano per vendere di contrabbando e a prezzi da saldo la benzina di cui il paese è inutilmente ricco. e non solo la benzina. malgrado l'ostilità tra i governi dei due paesi da sempre la frontiera qui è permeabile, aperta, al mercato nero e a ogni sorta di traffico illecito. Per arrivare a questo vuoto, a queste distese di sabbia senza sdraio nè ombra, alle onde e alle lagune dell'oceano, alle foreste di cactus a candelabro, ai villaggi turistici improvvisati, ai chinchorros, le grandi amache sospese sotto tettoie di rami scosse dall'eterno vento della notte, bisogna pagare pedaggio ai Wayuu, 130 mila anime che con i 170 mila dirimpettai venezuelani sono i teorici e assai insidiati padroni di un territorio ancestrale che non conosceva le divisioni tra stati. eredi dispersi degli Arawak che con le loro diverse tribù abitavano le Americhe, dalla Florida al Venezuela, discendenti diretti degli aborigeni che incontrò Amerigo Vespucci, indigeni dispossessati dei loro territori di caccia e dei loro campi e costretti a rifugiarsi e a vivere di nulla nell'area più povera e deserta della Colombia, sono quasi un residuo fossile dell'America precolombiana, ancora divisi per clan, ancora rispettosi della tradizionale struttura matriarcale della loro società.
gli accordi del novembre scorso con le Farc e le trattative in corso con l'eln che dovrebbero mettere fine a mezzo secolo di guerriglia e di violenze. tanto in Colombia come in Venezuela s'incontrano ovunque i coloratissimi banchetti delle donne che vendono il tipico secchiello di cotone filato dell'artigianato guajiro, la mochilla. un unico, essenziale modello riproposto in varie dimensioni e accostamenti cromatici sempre nuovi e attraenti il cui prezzo sale via via che ci si allontana dalla guajira.
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A Cabo de la Vela, vicino alle lagune che circondano in alto la parte ovest della penisola, si sperimenta il turismo sostenibile: alloggiamenti spartani e acqua e luce razionate, ma anche aragoste appena pescate, escursioni verso spiagge indimenticabili, e, volendo, un contatto diretto con gli usi e le tradizioni dei padroni di casa. A manaure si visitano le enormi, spettacolari saline e il Santuario de Flora y Fauna Los Flamencos, popolato da stormi di fenicotteri color rosa
pastello. Il paradiso dei surfisti e degli amanti della natura selvaggia, però, è un inferno di siccità e periodiche carestie per gli abitanti, un luogo privo di servizi sanitari e di acquedotti dove la poca acqua che raggiunge le aree remote della guajira sulle autocisterne viene venduta a prezzo d’oro e dove spesso le minuscole rancherías dove vivono i Wayuu sono di proprietà dei “coloni” provenienti da altre regioni della Colombia e attirati fin lì dal-
l'unica vera e ambigua fonte di reddito del territorio: el Cerrejón, una miniera di carbone a cielo aperto tra le più grandi al mondo. un tesoro da 32 milioni di tonnellate all'anno di minerale estratto, dotato di impianti di desalinizzazione dell'acqua all'avanguardia, difeso militarmente, collegato con una linea ferroviaria dedicata al porto industriale di Puerto Bolívar e gestito dalle multinazionali Anglo American, BHP Billiton and glencore
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Xstrata. miniera aperta, ovviamente, sottraendo ai Wayuu migliaia di ettari di terre tribali e ignorando le loro proteste. nessuna cordicella tenuta dai bambini ha potuto fermare l'esproprio. Al largo, invece, nelle acque territoriali oggetto da decenni di contestazione con il Venezuela, il pozzo petrolifero orca 1, al cui sfruttamento con la compagnia colombiana ecopetrol partecipano la brasiliana Petrobras, e la spagnola repsol, deve ancora sviluppare tutto il suo potenziale, stimato in 264 milioni di barili. Sulla via del ritorno verso riohacha, altri piccoli, sorridenti posti di blocco scandiscono il rientro sulle strade asfaltate, sui lungomare bordati di palme. Quanti di questi bambini diventeranno adulti, alla fine?
CARLA REsChIA. Sostiene di avere fra i 15 e i 105 anni. Giornalista della Stampa. Si occupa di esteri, cultura e diritti umani. Viaggia ogni volta che può. Legge molto. Adora dormire, le 'relazioni complicate', i bassotti, il cibo indiano e il sushi. Con Stefanella Campana, ha scritto Quando l'orrore è donna. Torturatrici e kamikaze. Vittime o nuove emancipate? (Editori Riuniti).
decine di bar, ristoranti e negozi fanno riferimento a macondo, ma l'eredità di gabo sembra custodita da poche persone e pochi luoghi.
ARACATACA (IL COLTELLO DEL PANE E IL TUONO DELLE TRE DEL POMERIGGIO)
testo e foto di alberto Bile
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la casa museo García márquez è ormai completamente diversa da quella in cui viveva il nobel. ciò che non delude affatto è la vita dell'auditorium: dopo una bella conferenza su la casa grande tenuta da due professori dell'università di Bergamo, c'è spazio per il teatro dei ragazzi.
“«I gringos non tornano mai», concluse. L'unica cosa certa era che avevano portato via tutto; il denaro, le brezze di dicembre, il coltello del pane, il tuono delle tre del pomeriggio, l'aroma dei gelsomini, l'amore. Erano rimasti solo i mandorli polverosi, le strade riverberanti, le case di legno col tetto di zinco arrugginito e gli abitanti taciturni, devastati dai ricordi”. La macchina che ci porta ad Aracataca ha la Sierra nevada sulla sinistra – un versante dove si annidavano guerriglieri e paramilitari – e campi di banane e tabacco sulla destra. Il río Frio e il río Sevilla ne rompono l'accavallarsi. Per anni Aracataca è stata la mia mecca personale. ora l'emozione di arrivare è rovinata dall'aria condizionata fortissima e dal solito, immancabile filmaccio gringo. La caduta di un camion in un burrone e la mira-
colosa fuga dei passeggeri durano venti minuti: esplosioni, rumori, dialoghi dal sarcasmo impossibile. gabo, che era anche sceneggiatore, soffre con me. Scendiamo all'entrata del paese, subito attorniati da tassisti di ogni genere, con e senza motore. da lì subito alla Casa museo garcía márquez. giunta al secondo restauro, è ormai completamente diversa da quella in cui viveva il nobel, cresciuto dal nonno nicolas e dalle donne della famiglia e della servitù. La nostra guida, Wendy Paula, ci spiega che si tratta di un museo memoriale: la casa non pretende d'essere come l'originale, ed è basata sull'autobiografia Vivir para contarla che inizia proprio con la vendita della casa. Potrebbero deludere le pareti troppo bianche, i mobili non originali, l'arredamento
“sbucciare prima di mangiare”. nicolas lo avrebbe affisso dopo che un ospite straniero azzannò la buccia del frutto sconosciuto. Seguono la cucina dove nonna tranquilina preparava i dolci di zucchero e limone, e il cortile con un serbatoio in cima a una scala, da dove cadde nonno nicolas per afferrare un pappagallo. di quella ferita morì due anni dopo. ne L'amore ai tempi del colera, Juvenal urbino muore subito. Jaime garcía márquez, a Cartagena, mi racconterà che il fratello, informato del restauro, gli avrebbe confidato: «In ogni caso fra cent'anni la mia casa d'infanzia sarà quello che vorranno che sia: l'importante è che facciano qualcosa di buono per gli abitanti». In effetti ciò che non delude affatto è la vita dell'auditorium: dopo una bella conferenza su La casa grande tenuta da due professori
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dozzinale della stanza dei domestici wayú, l'albero al centro del cortile che non è il castagno al quale viene legato Aureliano Buendìa, ma un ficus benjamin. Ha senso leggere il cartello: la stanza dove nacque gabriel se di quella stanza non è rimasto nulla? Wendy Paula prosegue la visita, raccontando finanche gli incubi e le paure di gabito ragazzino. Passiamo per la stanza dove il nonno nicolas márquez conversava con i grandi militari della guerra civile, per quella degli ospiti che trasformò in un presidio medico perché in paese non c'era servizio sanitario, per il laboratorio dove fabbricava pesciolini d'oro (come il colonnello Aureliano Buendía), mentre gabriel disegnava con i pastelli su una parete a sua disposizione. Al centro della casa, la sala da pranzo dove si incontravano per i pasti il mondo maschile e quello femminile della casa. In un angolo è appeso un casco di banane, con il cartello
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dell'università di Bergamo (marta Bellometti e Fabio Amaya), c'è spazio per il teatro dei ragazzi. Il maestro, Jorge, viene dall'università di Santa marta: riesce a trovare la calma e la forza per far concentrare i ragazzini abituati a parlare tre alla volta. tra dieci giorni porteranno in scena uno spettacolo sui testi di gabo. Jorge è qui a lavorare nonostante tre giorni fa abbia perso il padre: disperato, sfiancato, determinato, allena i ragazzi a rapportarsi con il corpo proprio e altrui. Li fa
lio Cheveroni ricordò quel giorno in cui suo fratello lo portò a conoscere la montagna”.
desplazar, muovere, immaginando che ci siano mille ostacoli (e finalmente la parola desplazamiento viene usata per divertirsi). La centenaria ursula è impersonata da una bambina che proprio non riesce a invecchiare. Sfoglio un libro di due anni fa realizzato dalla Casa museo, in cui Cent'anni di solitudine è disegnato dai bambini, o riscritto secondo i propri ricordi: il famoso incipit “Molti anni dopo, di fronte al plotone di esecuzione, il colonnello Aureliano Buendía si sarebbe ricordato di quel remoto pomeriggio in cui suo padre lo aveva condotto a conoscere il ghiaccio” diventa: “Molti anni dopo, di fronte al plotone di esecuzione, il colonnello Avite-
Sembra più insicura e abbandonata di Ciénaga. Forse è la mancanza del mare, desapacible y sucio, ma comunque mare. Qui manca. non si ha respiro. gli sguardi su di noi si soffermano a lungo, curiosi e quasi aggressivi. decine di bar, ristoranti e negozi fanno riferimento a macondo, ma l'eredità di gabo sembra custodita da poche persone e pochi luoghi, come la biblioteca comunale Remedios la Bella, dove si tengono lezioni di lettura a circoli di anziani e si custodiscono le foto scurissime della vecchia casa di gabo prima dei restauri e della sua ultima visita al paese natale. o la Casa del telegrafista, dove lavorava il padre e lavora per sempre Florentino Ariza,
usciti dal cancello, Aracataca non è affatto “un villaggio di venti case di argilla e di canna selvatica costruito sulla riva di un fiume dalle acque diafane che rovinavano per un letto di pietre levigate, bianche ed enormi come uova preistoriche”: al contrario basta andare al ristorante di fronte per vederne la desolazione, la povera vecchia latrina smarrita fra quattro pareti stonacate.
senza smettere di guardare. Il capostazione è informato solo dieci minuti prima del passaggio del treno. I viaggi possono essere uno o venti al giorno, dipende dalle necessità della drummond (la gente di qui pronuncia “drumo”), l'impresa che trasporta carbone. I centocinquanta vagoni passano lenti in venti minuti. Quando si abbassa la sbarra restiamo con decine di cataqueros, a piedi o in moto, che non hanno fatto in tempo a passare. rafael spiega che la ferrovia non dà lavoro agli abi-
tanti di Aracataca, anzi li ferisce di rumore e di polveri sottili. Più volte la popolazione ha manifestato perché il passaggio venga spostato. Per tutta risposta forse aggiungeranno un'altra rotaia. tratto da "Una Colombia. Canzone del viaggio profondo" di Alberto Bile (Polaris 2017)
ALBERto BILE, 29 anni, napoletano, reporter freelance, ha due blog, www.ovunquevada.it e www.unacolombia.com, ed è autore di Libri a dorso d'asino. Storie e strade colombiane, Dante&Descartes, 2016, e Una Colombia. Canzone del viaggio profondo, Polaris, 2017.
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protagonista de L'amore ai tempi del colera. ora è sede delle Poste. La fondazione “Fundepalma”, una sorta di corporazione dei coltivatori delle palme da olio, ne sta ricavando uno spazio multifunzionale con tanto di sala internet e palcoscenico. Il resto del paese è desolato. Vicini di casa spazzano insieme la strada che li unisce. Ci dirigiamo verso la stazione ferroviaria. Poco prima fotografiamo un brutto monumento dedicato allo scrittore e alle sue farfalle gialle. Si avvicinano tre bambini di otto-nove anni. muti, fissano con sguardo aggressivo. Francesco nota la lametta che il più piccolo ha in mano. «Cosa vuoi fare con quello? Attento, che ti fai male». Ci lasciano in pace
Camila Charry noriega cinque minuti Per camila Solo cinque minuti. non ho tempo, ho cercato notizie su Camila. Camila Charry noriega. Ho trovato le sue poesie, ma nessun articolo che parlasse di lei. e il nostro incontro è durato cinque minuti. eravamo seduti al tavolo di un caffè a fianco della Casa de los tres mundos. A granada, in nicaragua. Festival Internazionale della Poesia. Fra i più importanti al mondo. normale, quindi, che una donna dai capelli rossi si avvicini a due stranieri e chieda: ‘Poeti?’. e io vorrei rispondere: ‘Sì’. e afferrare qualche parola al volo, ma così non è. e devo rivelare che eravamo solo spettatori della poesia. non c’è una notizi, in questo incontro. e allora perché le poesie di Camila mi sono rimaste così addosso da fare in modo che apparissero in questo numero di erodoto? Perché la macchina fotografica l’ha cercata mentre era lì, sul palco, a dire? (Credo che le poesia si dicano, non si recitino, non si cambia voce). non so spiegarlo, è accaduto. e basta. Vi spiego solo che mi piaceva che queste tre poesie che ci ha spedito dalla sua terra fossero disperse per le pagine che parlano di Colombia. Vorrei che ci fosse la sua voce a dirle in spagnolo perché hanno un ritmo, il ritmo di un ballo, di una musica. Provate a leggerle a voce alta anche se non sapete lo spagnolo. Figlia di uno strano astronomo (guarda le stelle e si inventa racconti), nata a Bogotà trentotto anni fa, Camila scrive poesie, insegna arte e letteratura, organizza a sua volta festival di poesia. e non so altro di lei. Come non so niente di poesia. e poi ho appena letto ‘odiare la poesia’, splendido libro di Ben Lerner. Che alla fine ti imprigiona nella poesia e vuoi che Camila ci legga ancora quanto scrive. (as) La traduzione delle poesie di Camila Charry noriega è di Adriana Altamirano.
Centro de la casa
Centro della casa
Sobre la piedra hundida el salitre, por el peso de la hierba se coagula.
Sopra il sasso affossato il salnitro, per il peso dell'erba si coagula.
La casa queda en la frontera. El salitre sustituye la materia que los ojos en otro tiempo llamaron luz.
Hemos olvidado todo.
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Quisimos echar el río atrás, devolverle a los huesos su peso, recobrar el aire que los suspendió un momento y los batió ahogados entre la carne.
Pero la casa en la frontera fue devorada por la hierba y las fieras la habitaron. Las vimos acomodarse, abrir sus fauces, tajar lo que quedaba.
Nos sucedieron y olvidamos.
La médula rebanada
bien adentro, siempre fue el centro de la casa.
La casa è al confine. Il salnitro sostituisce la materia che in altri tempi gli occhi chiamarono luce.
Ci siamo dimenticati tutto.
Abbiamo voluto lasciarci il fiume alle spalle, restituire alle ossa il loro peso, avere nuovamente l’aria che li sospesi un momento e li colpì annegati fra la carne. Ma la casa al confine fu divorata dall'erba e le belve l'abitarono. Le abbiamo viste accomadarsi, aprire le loro fauci, mozzare quel che restava.
Ci hanno sopraggiunto e abbiamo dimenticato. Il midollo affettato ben profondo, sempre fu il centro della casa.
Por acá todo es casi fuego a diario, el perro olfatea en la cocina las cenizas de la luz; eso es la desaparición la ausencia de la lengua sobre el pan, los ojos que desean lo que se hunde en el misterio del mundo. Yo no sé si es bueno nombrar, yo no sé, pero a veces cuando amenaza el fuego lo más elemental, uno se pregunta si de esa manera debe ser todo. En la cocina la tetera canta exasperada y el olor a hierro quemado es el único vestigio de un agua seca y reseca, inexistente entre el fondo negro de la olla.
Otro día es un cigarro que encuentra entre silbidos el blanco corazón de la colilla que se ahoga, allí el fuego es pasado, certeza limpia.
Así también pasa con el cuerpo y uno sigue preguntándose qué lo quemará: una enfermedad en los pulmones, un carcinoma, un balazo, una traición. Quién sabe qué extraño fuego acabe esta espera.
Giorni di fuoco
Da queste parti tutto è quasi fuoco ogni giorno, il cane che annusa in cucina le ceneri della luce; questa è la sparizione l'assenza della lingua sul pane, gli occhi che desiderano quello che affonda nel mistero del mondo.
Io non so se è giusto nominare, io non so, ma a volte quando il fuoco minaccia il più semplice, uno si domanda si così tutto deve essere.
In cucina la teiera canta esasperata e l’odore a ferro bruciato è l'unica traccia di acqua secca e asciutta, inesistente nel fondo nero della pentola.
Un altro giorno,è una sigaretta che si trova fra i fischi il bianco cuore della cicca che si affoga, lì il fuoco è il passato certezza sicura. Così succede anche con il corpo e uno continua a domandarsi cosa lo brucerà; una malattia ai polmoni, un cancro, una pallottola, un tradimento. Chissà quale strano fuoco finirà con questa attesa.
Lo desaparecido
Ahora que ha bajado la marea nombramos estos huesos pulidos por la lengua de la sal. Son vértebras que el oleaje no sorteó y brillan sobre la arena calcinada.
Lejos, en el litoral, la carne flota resplandece también, pero su claridad es la de una flor crepuscular que aprecia del fondo la certeza de lo desaparecido.
Lo scomparso
Ora che è scesa la marea nominiamo queste ossa puliti dalla lingua del sale. Sono vertebre che le onde non sorteggiarono e brillano sopra la sabbia calcinata. Lontano, nel litorale, la carne galleggia e risplende, ma la sua limpidezza é quella di un fiore crepuscolare che esalta dal fondo la certezza dello scomparso.
COLOMBIA
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Fuego de los días
QuAdernI A QuAdrettI
Le StorIe dI LeILA disegni e testo di Leila mostofi
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Ho cominciato a disegnare quando ero piccola perchè mi appassionava raccontare le storie che avevo in mente tramite il disegno. Poi ho deciso di frequentare il liceo artistico in Iran, ma all'università ho preso la decisione sbagliata: mi sono trasferita a Cipro per studiare architettura. Lì ho realizzato subito che non avevo fatto la scelta giusta per me, 60 ma ormai era troppo tardi, così mi sono laureata in architettura e sono tornata in Iran. non ho voluto cercare lavoro come architetto e ho cominciato a disegnare e a dipingere di nuovo, incontrando però molte difficoltà, causa la poca libertà di espressione che c’è nel mio paese. Così nel 2011 ho deciso di trasferirmi in Italia, a Firenze, per studiare cinema d'animazione e qui ho cominciato a lavorare: qualche animazioni corti, illustrazioni… un giorno il mio fidanzato, Pejman, e un nostro amico, Saeed, hanno cominciato a creare musica e ho deciso di cantare su uno dei loro pezzi: è stata una sorpresa, non avevano nessun idea che io potessi cantare, e forse nemmeno io! ma il risultato è stato interessante, così abbiamo formato un band, BowLand, con la quale abbiamo partecipato a "toscana 100 band": siamo stati selezionati e la regione ha finanziato il nostro progetto che integra la musica con le miei illustrazioni e animazioni. Ho disegnato la copertina del disco che è uscito ad aprile 2017 e ora sto lavorando a un music video che sarà on line fra due mesi.
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LEILA MostoFI, è nata a Malaga nel 1987 da genitori iraniani con i quali si è trasferita in Iran all’età di 4 anni. Ha iniziato prestissimo a disegnare e non hai mai smesso. Ha studiato architettura a Cipro e ora vive a Firenze dove lavora come illustratrice, video maker e cantante.
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gLI oCCHI dI erodoto
Intervista a tasneem Alsultan
SAudI tALeS oF LoVe un progetto fotografico che offre ai nostri occhi occidentali immagini che non sono abituati a vedere. testo di isabella mancini foto di tasneem alsultan
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Piccola, ricciola, un grande sorriso, giovane. La incontro a inizio aprile nella hall del ‘nuovo’ cinema La Compagnia, a Firenze, in occasione 66 dell'ultima edizione del Middle East Now, Film Festival di cinema e cultura mediorientale. Curiosa di conoscerla e conoscere il suo punto di vista sul tema da lei scelto per il suo lavoro, l’Amore, così lontano dai fuochi politici che ardono l'area geografica da cui proviene, l'Arabia Saudita. Il progetto fotografico, Saudi Tales of Love ha ricevuto il primo premio per il Sony World Photography Awards, pochi giorni dopo l'inaugurazione dell'esposizione fiorentina. Tasneem Alsultan inizia a raccontare. foto di Kali Swaid
a casa, fotografando amici e famiglia. Poi ho iniziato a insegnare un po' di inglese e mi portavo dietro la macchina fotografica per fare scatti anche in quelle occasioni. tutte le storie possono avere un messaggio universale da condividere, dipende dalla chiave con cui si vanno a raccontare. ogni persona vive la passione, l'amore e la morte, la sofferenza. Quello che volevo era indagare l'animo umano e anche… dimostrare che le donne saudite non sono riassumibili in nessuno stereotipo od omologabili a narrazioni superficiali, le tante che ho potuto ascoltare, leggere, vedere attraverso i media internazionali.
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L'Arabia Saudita è un simbolo: a livello internazionale tutti la collegano direttamente all'Islam ma molti Sauditi sarebbero d'accordo sul fatto che c'è una grande distanza tra il Corano e le tradizioni locali’,. ‘Ho scelto l'amore come tema perché è stato un argomento attorno al quale il mio modo di guardare a me, e alla mia società, è cambiato nell'arco di pochi anni. Pensavo di avere solo la mia storia da raccontare ma invece ho scoperto che decine di donne, e uomini, vivono nella mia medesima condizione. La mia curiosità profonda ruota attorno ai temi dell'identità. Ho iniziato i miei studi in linguistica prima e poi in sociolinguistica e antropologia: la fotografia è arrivata come linguaggio di esplorazione di queste tematiche. Ho iniziato da sola,
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Uno scatto in penombra di un diario scritto a mano su carta rosa, una ragazza che dorme abbracciata al suo cuscino nella sua camera mentre legge un messaggio appena arrivato sul suo cellulare, una madre che gioca con il figlio, una giovane coppia pronta a costruire la propria abitazione. Fotografie di quotidiano, immagini che i nostri occhi occidentali non sono abituate a vedere se non nei viaggi. Frammenti di vita che racchiudono la gioia, la passione e, appunto l'amore, per raccontare una vita di tutti i giorni. Ho iniziato questo lavoro con una domanda in testa: abbiamo bisogno del matrimonio per testimoniare che nella nostra vita c'è amore? Abbiamo bisogno di un marito per avere una vita significativa? La domanda nasceva dall'esperienza che stavo vivendo. Sono stata sposata all'età di 17 anni e ho divorziato dopo dieci anni di infelicità. L'unico raggio di sole, mio figlio, che ho continuato a crescere da sola. I miei familiari mi hanno osteggiato dicendomi che era stupido divorziare, consigliandomi di resistere, di aspettare. ma non potevo continuare a vivere nell'infelicità. Pensavo di essere la sola ad aver fatto una scelta così radicale per gli stereotipi con cui le nostre vite sono condizionate. Invece, piano piano, ho scoperto che in tante vivevano vite fuori dagli schemi, fuori dalle idee tradizionali e sociali, altro che casalinghe. Più incontravo persone con storie diverse dall'ordinario più ne scoprivo di nuove. Avevo iniziato anche a fare fotografie ai matrimoni e questo mi ha permesso di aprire un altro portone sulla mia indagine.
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Una famiglia prepara un pic nic su una spiaggia di Jubail. Una madre seduta in terra, su un tap72 peto, che guarda il mare mentre i figli corrono tra la spiaggia e il mare. Una madre e un figlio in un momento di relax sul divano di casa. Una ragazza siriana che cammina attraverso le lapidi di un cimitero. mi sento sicuramente un'attivista che usa la fotografia per parlare della complessità di una società come quella saudita attraversata da diverse tipologie di conflittualità. Ho avuto la possibilità di incontrare moltissime persone e di indagare l'idea della costruzione, e delle aspettative, che ruotano attorno al matrimonio, dalle
elaborate cerimonie di nozze alle separazioni. Sono davvero in tanti e tante coloro che riescono a raggiungere i propri obiettivi personali in una società come quella saudita. Il minimo comun denominatore è superare i numerosi ostacoli tra la propria affermazione come persone, come donne innamorate, e realizzazione sociale. Come Afrah, anche lei fotografa, di Jedda, che ha sposato un uomo con radici tribali diverse dalle sue. una scelta pericolosa perché i familiari, gli zii, il padre, possono far annullare il tuo matrimonio per questa ragione. Le ci sono voluti mesi per poter avere i documenti per questa unione ed adesso è ancor più consapevole che suo figlio dovrà lottare per avere pari diritti nel suo paese. o come Aicha che è stata sposata per anni con quello che era un suo compagno di corso. un matrimonio felice
Tasneem Alsultan oggi sta lavorando a Parigi, prosegue il suo impegno per arricchire di storie saudite, e non solo, la sua indagine sull'identità
di ogni essere umano in relazione con il suo contesto culturale. Fa parte di un interessante collettivo fotografico al femminile, Rawiya, e sul suo sito web è facile seguire gli aggiornamenti sul suo lavoro (http://tasneemalsultan.com/). IsABELLA MANCINI, 36 anni fiorentina. Blogger di vocazione. A 18 anni comincia a collaborare con giornali locali. Professionista dal 2006. Curiosa, appassionata, auto-ironica, ama gli esseri viventi e l'arte, la fotografia e l'etnobotanica.
• Le fotografie di tasneem alsultan qui presentate, nel rispetto del diritto d'autore, vengono riprodotte per finalità di critica e discussione ai sensi degli artt. 65 comma 2, 70 comma 1 bis e 101 comma 1 Legge 633/1941.]
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tanto che avevano deciso di acquistare una casa, così come era il loro sogno. un incidente e suo marito è scomparso. dopo poco è morto anche suo padre. oggi sta aspettando che il figlio compia 16 anni per poter diventare suo tutore, fino ad allora sarà suo fratello maggiore, che non ha mai incontrato, a decidere per lei. o norah, una giovane fashion designer che mi ha ricordato il mantra che la società saudita recita appena concluso il percorso scolastico: ‘Quando ti sposerai?’ e poi quando ti sei sposata: ‘Quando il primo figlio?’ come se l'unica ragione di vita fossero l'uomo che incontri e quello che generi.
Qui parlano muri e oggetti, strumenti e macchinari utilizzati nei laboratori scientifici, teschi e scritte sulle pareti delle celle
il mUseo della psichiatria di reggio emilia Un viaggio in un tempo non troppo lontano e non ancora andato del tutto, quando “curare” significava “rinchiudere” testo di letizia sgalambro foto di giovanni breschi
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La ragione è la follia del più forte, la ragione del meno forte è follia. eugène Jonesco
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ove si pone la linea sottile fra normalità e pazzia? È ferma immobile o è una linea che si muove a seconda della cultura, del tempo, delle scelte politiche, di chi comanda? È davvero terribile oltrepassare quella linea? Cosa succede al di là? Perché i luoghi di reclusione dei matti ispirano repulsione ma allo stesso tempo hanno fascino come pochi altri spazi? Perché entrare in punta di piedi nel mondo dei malati o pseudo tali lascia un segno indelebile nella memoria e nel cuore?
Potremmo continuare a porre domande simili, ce ne sarebbero ancora tante, ma forse l’atteggiamento migliore per visitare un museo della psichiatria è il silenzio, è sospendere ogni pensiero per far parlare muri, oggetti, strumenti di “guarigione” o meglio di “tortura”. non più di 40 anni fa era facile entrare in manicomio. Bastava essere uomini o donne (più spesso) poco allineati, desiderosi di una libertà non contemplata dal potere. oppure essere malati, soffrire di qualche patologia classificata fra i disturbi mentali e il gioco era fatto: entravi e non uscivi più, dimenticato dalla famiglia e dagli affetti più cari, diventavi un numero, venivi sottoposto a esperimenti di cui non avresti mai potuto raccontare. e intanto, fuori, si scrivevano testi scientifici, istituendo dal 1952 il manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali, il famoso dSm, ancora in voga e ormai alla quinta edizione, che si va arricchendo sempre di più di patologie, come se l’apertura dei manicomi avesse avuto quale contraccolpo l’aumento dei generi di follia da gestire fuori.
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e pensare che ci sono paesi africani in cui i matti si tengono per strada, gestiti dalla comunità senza regole precise: ognuno se ne prende cura per un po’, li ciba, li accudisce, li protegge e protegge gli altri da loro. Così come ci sono paesi occidentali dove l’asticella della follia è posta molto più in basso che da noi, dove basta ancora essere un po’ più vivaci della media per essere classificati iperattivi, dove essere Quasi adatti (titolo di un bellissimo libro di Peter Høeg) significa essere fuori, dalla scuola, dalla società, dalla vita. Come devono essere state le giornate delle persone rinchiuse nel manicomio di reggio
emilia? Quei giorni, quelle settimane, quei mesi, quegli anni tutti uguali, quell’impossibilità di muoversi e parlare come desiderato, il casco del silenzio da dover indossare, le manette, gli esperimenti fisici…? Come deve essere stata la convivenza con gli altri degenti, il rapporto con i medici e gli infermieri, con la fame, la sofferenza infinita che portava ad affidare ai muri le parole, la traccia della propria rabbia e del proprio dolore?
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Ancora oggi quelle pareti trasudano disperazione. Il padiglione Lombroso, sede del museo della Psichiatria, è un luogo di difficile accesso, dove non arrivi per caso, ma solo dopo aver cercato con testardaggine: un edificio squadrato, lugubre ma immerso nel verde. La sensazione di precarietà e di straniamento ti prende appena varchi la porta. Si entra subito in contatto con una selezione di oggetti di contenzione, strumenti e macchinari utilizzati nei laboratori scientifici,
teschi e tracce scritte lasciate dai ricoverati nelle celle. Successivamente si può seguire un percorso sulla storia della psichiatria e dell’ospedale per finire con la presentazione di ciò che viene fatto adesso in tema di salute mentale. La collezione all’interno ha una storia particolare: istituita nel 1875 voleva mostrare in ottica positivista i progressi e le applicazione che all’epoca erano un vanto per la scienza
da allora la collezione si è ampliata e dal 1891 è stata custodita in questo padiglione che ospitò inizialmente “malati cronici tranquilli”, poi i prosciolti (vi passò per un breve periodo anche Antonio Ligabue), e che venne abbandonato negli anni ’70. recuperato e adibito a museo dal 2012, il padiglione Lombroso diventerà punto di riferimento per tutti i luoghi analoghi esistenti in Italia che attendono una valo-
rizzazione dei loro patrimoni architettonici e archivistici. L’anno prossimo saranno passati 40 anni dall’applicazione della legge 180, la legge Basaglia. da quel lontano 1978 abbiamo preso coscienza che non è necessario recludere per curare e passi in avanti sono stati fatti con molta lentezza, passi avanti e altrettanti passi indietro: i manicomi sono stati chiusi, ma alcune residenze “protette” ne mantengono ancora le caratteristiche.
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psichiatrica. Interessante ciò che scriveva il fondatore, Carlo Livi, direttore dell’ospedale Psichiatrico San Lazzaro: Oggi tutti cotesti vecchi arnesi, usati quando la forza stava in luogo della ragione, sono stati tratti fuori di nuovo, non per martoriare l’umanità, ma per far venire a testimonianza che i tempi presenti sono non solamente più savi degli antichi, ma anche più buoni, più umani e caritatevoli.
LEtIZIA sGALAMBRo 57 anni, sagittario, counselor ed esperta di processi formativi. Crede che per ognuno sia già scritto il punto più alto dove possiamo arrivare in questa vita, e che il nostro libero arbitrio ci fa scegliere se raggiungere quel traguardo o meno. L'oroscopo? Uno strumento come altri per illuminare la strada.
a SeniSe, tra BaSilicata e calaBria, Per la Prima Gara Di triathlon olimPico
NUOVA
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questo sport di resistenza caparbia non potrebbe trovare miglior cornice di questa terra testo di luana Salvarani foto di Piero Bruno Le foto che vedete non illustrano
una delle tante scampagnate semiagonistiche che popolano le domeniche d’italia, tra ciclisti maleducati sulla strada pubblica in spregio d’ogni possibile codice stradale, improbabili maratoneti che fanno lo slalom tra bambini e
ELLADE
cani nei giardinetti, appassionati di motocross spruzzanti fango in ogni greto dei brutti e depressi torrenti italici. no, questa è la Prima Gara di Triathlon Olimpico città di Senise, organizzata dalla Federazione italiana triathlon il 25
giugno di quest’anno. il Triathlon ha un’origine illustre, essendo una delle tante varianti figliata dal glorioso Pentathlon classico. nello specifico, la variante ha al suo
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attivo (come tutti i miti) diverse versioni per la sua nascita, tutte però collocate negli anni Settanta, in un paesaggio che sta tra le Hawaii e la California. Surf, costumi a fiori, giovinezza sfrontata, occhiali a specchio e ciabatte fosforescenti sono le cose più serie che ci vengono in mente su quello sfondo;
ma il talento americano per la competizione anche estemporanea è riuscito a trasformare ciò che probabilmente non era niente più di una scommessa tra giovinastri in uno sport accolto nel canone olimpico. nuoto, 1 km e mezzo; Ciclismo, 40 km; Corsa, 10 km: è la trinità del Tria-
un orologio da nuoto timex Ironman, e lo guardo sorridendo, prima di buttarmi in acqua per le mie vasche quotidiane da amatore senza qualità. ma il Triathlon che emerge da queste fotografie ha in sé qualcosa di nuovamente ellenico, un ricordo di quando l’atletica era solo corpo e i filosofi dell’età classica disputavano se essa propiziasse l’ideale della kalokagathia o distraesse indebitamente l’uomo dal cammino verso la perfezione. Saranno i corpi bruciati dal sole (non abbronzati, tostati), sarà la durezza del lido sassoso invece delle morbide spiagge
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thlon olimpico o standard. un’impresa magnifica, che combina i miei due sport preferiti (i primi due), in proporzioni massicce, mettendoci in coda quella terrificante corsa a piedi, cioè la parte più pesante, senza alleggerimenti di gravità o vantaggi derivanti da ruote e leve. nella sua versione più dura (nota come Ironman), il Triathlon evoca l’ormai inaggirabile armamentario tecnologico – bici ultraleggere, costumi idrodinamici, orologi subacquei con gPS – del quale lo sport moderno non può più fare a meno. Pure io ho
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californiane, saranno le facce mediterranee o l’allestimento spartano (si vede del nastro bianco e rosso da polizia stradale, niente fronzoli, niente abbellimenti), ma questo Triathlon dell’estate torrida appena trascorsa attira come un’esperienza al limite. Al
limite delle forze, ovviamente, ed è parte del gioco; ma anche al limite di un’idea di sport, e diciamo pure di educazione fisica, che va ogni volta rievocata, come un rituale druidico, per non perderci solo a discutere di tessuti tecnici, equilibri nutrizionali e
cronometri. Questo ritorno all’(auto)educazione fisica, alle radici del dialogo della volontà di potenza individuale col corpo che ci è toccato in sorte, viene particolarmente propiziato da questo sport tra acqua, aria del volo ciclistico e terra spietata della
corsa. e in questa gara particolare i luoghi fanno pure la loro parte. La diga di monte Cotugno, ai confini tra Basilicata e Calabria, ha scavato nella inospitale asperità dell’Appennino – proprio negli anni in cui i californiani o
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chi per loro elaboravano il fichissimo Triathlon – un disperato e potente atto di volontà, abbeverando città e campi dove per secoli ruminarono solo poche erbe secche le capre. Pare che sia il bacino artificiale più grande d’europa (Wikipedia dixit): non perché siamo più bravi, ma perché altrove
nessuno ne avrebbe bisogno. Questo sport di resistenza caparbia non potrebbe trovare miglior cornice di questa terra per essere compreso e amato. tanto più che gli organizzatori hanno il fegato di organizzare una gara di profilo olimpico in un posto che non conosce nessuno. Pure que-
LuANA sALvARANI, reggiana, 46 anni, ex-filologa, ex-insegnante ed ex-musicista praticante, per ora storica dell’educazione, ove ha trovato il modo di gabellare la sua fissazione per il western per una cosa seria. In attesa del prossimo prefisso ex-, nuota, non beve alcoolici e va a letto presto. PIEtRo BRuNo 44 anni di Napoli. Dopo il master in fotogiornalismo presso la J. Kaverdash School di Milano, ha realizzato progetti di fotografia sociale in Emilia e ha collaborato con il centro di fotografia Motherh India di Shobha dell'agenzia Contrasto. Le sue foto sono state pubblicate su settimanali italiani ed esteri. Vive e lavora a Senise (PZ) come animatore presso strutture residenziali di psichiatria.
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sto è essere Ironmen.
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oroSCoPo Le SteLLe deLL’Autunno Letizia Sgalambro
L’oroscopo autunnale propone questa volta un abbinamento fra stelle e città del mondo. ogni città possiede un suo carattere che può darci utili indicazioni per i mesi a venire, e per un bizzarro allineamento astrale tutte le città iniziano, in italiano, con la lettera A.
Ariete
21 Marzo -19 Aprile Città d’argento, costruita con il granito ma che luccica al sole come un metallo prezioso. Sei pronto a sperimentare che una luce diversa fa apparire le cose in altro modo, spesso migliori? E cosa aspetti allora a osservare la tua vita utilizzando lampade speciali? Possiamo essere ciò che vediamo, e non è mai troppo tardi per cambiare il proprio aspetto. Città di stagione: Aberdeen
Toro
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20 aprile -20 maggio Nuovo fiore. Ecco il significato del nome di questa città. Niente di più promettente: un nuovo fiore che sboccia quando le giornate iniziano ad accorciarsi è il segno della tua forza contro le leggi dell’uomo e della natura, che ti vorrebbero tranquillo a casa. In quale aspetto della tua vita vuoi concentrare l’energia per questa nascita? A te la scelta, le stelle sono dalla tua parte. Città di stagione: Addis Abeba
Gemelli
21 Maggio -20 Giugno Crocevia dei migranti, porta del deserto. Ti aspetta un miscuglio di idee, colori e sapori nei prossimi mesi, e avrai la capacità di accogliere le differenze, altrui ma soprattutto tue, senza troppi sconvolgi-
menti. E’ arrivato il momento di mollare la tua parte normativa e aprirti all’esperienza multiforme. Città di stagione: Agadez
Cancro 2
1 Giugno – 22 Luglio La città illuminatissima che sorge su un’oasi. Niente male come prospettiva dei prossimi mesi, non credi? Il deserto ha caratterizzato il tuo periodo precedente, ma ora vegetazione e luce renderanno la tua vita particolarmente ricca di stimoli, tanto che dovrai decidere su cosa concentrarti. Lo so che vorresti tutto, ma fare delle scelte ti aiuterà a realizzarti meglio Città di stagione: al-Madīna
Leone
23 Luglio - 22 Agosto La biblioteca più grande del mondo fu distrutta per una guerra di religione. Impegnati ad evitare inutili discussioni di principio, o anche te, caro Leone, perderai tutta la tua saggezza. Se saprai superare le provocazioni ti accorgerai, al contrario, di essere più forte di prima, e diventerai un punto di riferimento per chi ti sta intorno. Città di stagione: Alessandria d’Egitto
Vergine
23 Agosto - 22 Settembre Gli isolotti antistanti la città -che le davano il nome- sono stati inglobati nelle dighe del porto nel ‘500. Ma il nome rimane, come rimane la tua caparbietà di riuscire anche quando ti sembra che gli altri ti soffochino. Questo autunno ti offrirà l’occasione di liberarti da alcuni legami ormai usurati per tirare fuori una tua parte che quasi non ricordavi neanche più di possedere. Città di stagione: Algeri
23 settembre - 22 ottobre Aver dato i natali a colui che è stato definito il più grande stratega della storia, non è cosa da poco. Napoleone aveva una personalità complessa, e senza dubbio aveva chiaro quale fosse il proprio destino e come fare per raggiungerlo. I prossimi mesi ti offriranno la possibilità di capire cosa la vita ti chiede e ti vuole dare, se sarai capace di comprenderlo dopo tutto sarà più semplice. Città di stagione: Ajaccio
Scorpione
23 ottobre - 21 novembre Dopo un incendio che distrusse tutte le case costruite in legno, la città fu ricostruita in stile liberty che, utilizzando moltissimo il colore mischia motivi floreali, figure femminili, personaggi della mitologia classica ed elementi delle saghe vichinghe. Dalla tragedia è nata l’arte, e questo sarà il tuo motto dell’autunno: niente ha un solo volto, prenditi il tempo di scoprire il buono anche nella peggiore cosa che ti accade. Città di stagione: Alesund
Sagittario
22 novembre – 21 dicembre Nonostante la posizione e il freddo che vi regna estate ed inverno, questa è una delle città più vivibili d’America. Anche per te, caro Sagittario, si potrebbe dire la stessa cosa: nonostante le difficoltà dimostri sempre di avere una marcia in più rispetto agli altri e in questo periodo, in cui le stelle sono dalla tua parte, raccoglierai una lunga serie di soddisfazioni che compenseranno le fatiche fatte ultimamente. Città di stagione: Anchorage
Capricorno
22 Dicembre -19 Gennaio Questa città ha dato un grande aiuto al movimento per i diritti civili americano e negli ultimi anni è riuscita a trasformarsi da città industriale a polo artistico. Valori, diritti, creatività, sono tre parole che ti accompagneranno nel prossimo autunno: chiarendoti bene ciò in cui credi troverai un modo tutto tuo per decidere in cosa ti vuoi impegnare e i risultati non tarderanno ad arrivare. Città di stagione: Atlanta
Acquario
20 gennaio- 18 febbraio In questa cittadina del Messico nel 1948 vi fu quello che è stato chiamato UFO crash, ovvero lo schianto di un veicolo extraterrestre. Gli alieni possono essere paragonati a quegli aspetti di noi stessi non ancora conosciuti, fanno parte della nostra realtà ma non ne siamo in contatto. Evitando lo schianto, puoi trovare nuove strade per iniziare a conoscere a tua parte aliena, farci amicizia e superare la paura verso di lei, vedrai che sarà una piacevole sorpresa! Città di stagione: Aztec
Pesci 19 febbraio - 20 marzo
Uno dei più importanti festival teatrali d’Europa si svolge qui, attirando migliaia di persone ogni anno. Ti piacerebbe avere la stessa fama e attirare intorno a te più persone possibili? La bella notizia è che ce la puoi fare: le stelle sono allineate in modo tale da soddisfare il tuo desiderio di fama. Si tratta solo di impegnarsi un po’ per facilitare il loro lavoro. Città di stagione: Avignone
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Bilancia