Erodoto108 n°23

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ERODOTO108 23 •AUTUNNO / INVERNO 2018


SOMMARIO 3 Editoriale, di Silvia La Ferrara 4 Con gli oCChi di un pastore, testo di Andrea Semplici, foto di Greta Semplici reportage fotografico 12 ritratto 21, Testo e foto di Hermes Mereghetti 28 BiBBia e WinChester: storie dal veCChio West testo di Luana Salvarani, foto National Archives and Records Administration, USA 40 la san FranCisCo di harvey Milk testo di Piergiorgio Paterlini, foto National Archives and Records Administration, USA quaderni a quadretti 44 san FranCisCo. i Murales della Coit toWer testo e foto di Giovanni Breschi storie di libri 54 altaMura. i liBri sulla pelle testo e foto di Andrea Semplici storie di cimiteri 58 trespiano a Firenze. il CiMitero più grande d’italia testo e foto di Francesca Duca reportage fotografico 60 la MusiCa lasCia segni sulla pelle Il viaggio di un’orchestra europea. “Tamburi di pace”, testo e foto di Andrea Semplici storie di cibo 70 eMilio poMpeo, lo CheF narrante testo di Silvia La Ferrara 72 Oroscopo di Letizia Sgalambro

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In copertina foto di Greta Semplici

ERODOTO108 • Fondatore Marco Turini • Direttore responsabile Andrea Semplici • Redazione Giovanni Breschi, Vittore Buzzi, Valentina Cabiale, Francesca Cappelli, Massimo D’Amato,Silvia La Ferrara, Isabella Mancini, Giovanni Mereghetti Lucia Perrotta, Collettivo WSP, Andrea Semplici, Luana Salvarani, Letizia Sgalambro, Marco Turini • Editor Silvia La Ferrara • Designer Giovanni Breschi • Web designer Allegra Adani Registrata al Tribunale di Firenze Stampa Periodica al n.5738 il 28/09/2009


EDITORIALE

Questo numero si è fatto attendere a lungo e finalmente è qui, dopo un lungo “avvento”. Pensato per l’autunno, pare ora perfetto per il Natale. Ci sono i pastori di Greta e Andrea, e hanno la pelle cotta dal sole del deserto africano e la follia di imprese impossibili. Ci sono la Bibbia, il Dio e l’epopea del vecchio West descritti da Luana Salvarani e c’è la vitalità della vecchia Frisco con i murales dei pompieri, fotografati da Giovanni Breschi e la potenza gioiosa della vicenda umana e politica di Harvey Milk, raccontata da Piergiorgio Paterlini. Alcuni luoghi sono evangelicamente fuori dai grandi itinerari turisticoculturali e, se Gesù nasce in una grotta dentro una mangiatoia, ad Altamura Clara vende libri nella ex-macelleria del padre e te li mette dentro ai sacchetti da fornaio. Non ci sono i Re Magi ma la nostra mirra, il segno del destino di morte che ogni nascita porta con sé, è lì nel cimitero di Trespiano, il più grande d’Italia, dove stanno i morti di Francesca Duca. Cibo per la Sacra Famiglia quanto ne volete, che Emilio Pompeo, lo chef narrante, può farti sazio e felice con pochi ingredienti e moltissime storie.

Ma soprattutto abbiamo voluto raccontare di chi rinasce a ogni Natale e sempre cerca la felicità e niente può farlo meglio dei ritratti di Hermes Mereghetti che ha fotografato ventuno splendidi ragazzi che portano nel proprio DNA il segno dolce e scombinato della trisomia 21: è a loro e alla memoria felice di Eitan che la redazione di Erodoto dedica questo numero Silvia La Ferrara

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E c’è una musica che è meglio dei cori di serafini e cherubini: è quella dei giovani dell’orchestra Spirito Europeo, diretta da Igor Coretti Kuret, raccontata questa estate da Paolo Rumiz e fotografata per noi da Andrea Semplici.


Imparare la normalità di una terra inospitale. Inospitale per chi?

Con gli occhi di un pastore di Andrea Semplici foto di Greta Semplici

Per diciotto mesi, un anno e mezzo di vita, Greta è vissuta nelle ‘terre aride’ a occidente del lago Turkana. Una savana punteggiata di acacie e un cielo che, troppo spesso, ha il colore del latte. Greta è una giovane ricercatrice dell’università di Oxford. Non è un’esploratrice, non è una viaggiatrice, non è un’avventuriera, non è una giornalista. E’ un po’ economista e un po’ antropologa. Si occupa di nomadismo, di pastori transumanti, di popolazioni chez noi definiamo nomadi. Per mesi e mesi è rimasta sola. Ha accompagnato mandrie di cammelli, ha cercato acqua assieme alla gente turkana, ha dormito fra pietre e polvere, ha imparato a guardare il colore della terra, i segni degli alberi, il vibrare delle nuvole nel cielo. Non conosce ancora l’alfabeto delle ‘terre estreme’, non è possibile apprenderlo se non sei nato lì, ma ne ha intravisto alcune regole. Troppo pochi diciotto mesi per diventare nomade. Troppo pochi per imparare la normalità di una terra inospitale. Inospitale per chi?

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Ho già scritto di ‘terre estreme’. Per le riviste che anni fa ancora esistevano. Anche per questa rivista. Scrivere e viaggiare era il mio mestiere, andavo in quelli che credevo essere i confini del mondo. Niente di molto coraggioso: non attraversavo oceani come Giovanni Soldini, non mi avventuravo nell’Artico come il fotografo Vincent Munier, non scalavo montagne nel cuore dell’Himalaya. Certamente, i miei erano viaggi in terre che apparivano lontane, difficili, selvatiche, ma erano ben protetti (guide, fixers, autisti, scorte). Andavo in Dancalia, in certe regioni della Patagonia, nel Sahara oltre la linea delle oasi, anche un balzo sulla costa occidentale della Groenlandia. Avevo sempre un biglietto di ritorno. Ora, per scrivere nuovamente di ‘terre estreme’, per scrivere questo articolo, sono andato a cercare una giovane ricercatrice italiana che, come cento suoi colleghi, è vissuta in un paesaggio africano disegnato da spine e nuvole, da solitudine e diversità assoluta dal mondo in cui vive ‘normalmente’.

Terre estreme? La risposta è una domanda-eco alle due parole già scritte poche righe più sopra: ‘Estreme, per chi?’. Poi il dubbio: ‘Non possiamo nemmeno dire che là va tutto bene – Greta cerca una precisazione – Chi è nato e vive nelle savane turkana, impara, giocoforza, a viverci. E’ un apprendistato. A un certo punto, il luogo non è più ostile: per loro diventa casa’. Un posto dove tornare dopo le migrazioni con gli animali. Le terre estreme sono ‘un punto di


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vista’. Non vi riusciremo mai, ma dovremmo guardare a questi paesaggi con gli occhi di un pastore. Se fossimo in Artico dovremmo avere lo sguardo e i pensieri di un cacciatore inuit (anche se si muove in motoslitta). In un film recente, I segreti di Wind River, terra di ghiaccio quasi perenne del Wyoming, un assassino dice: ‘Non c’è niente qui. Silenzio e neve’. Ha ucciso per noia. Un cacciatore gli risponde: ‘E’ tutto quello che abbiamo’. E lo condanna. In Patagonia, secondo censimenti inattendibili, quasi settantamila uomini e donne vivono dispersi, in una solitudine assoluta esposta ai venti ‘cattivi’ della Fine del Mondo: quali pensieri attraversano la mente di questa moltitudine di eremiti? E dovremmo anche essere nella pelle di un bambino cresciuto nel nomadismo di fuga dalla violenza del Sud Sudan. Tutti questi abitanti delle ‘terre estreme’ non scrivono articoli.

Devo raccontarvi di uomini estremi, qualcuno ne ho incontrato. Ibrahim, a

esempio. E’ un folle. Vive (se è ancora vivo) nel deserto di sale della Dancalia. In un luogo dove, che io sappia, non c’è acqua. Lui possiede solo degli abiti laceri, dei sandali di copertone e una bottiglia di plastica appesa ai pantaloni con una cordicella. Cava blocchi di sale rosso. Non so cosa ne faccia. E’ un asceta, un vagabondo, un ubriaco perfettamente sobrio. Non si è matti se si è capaci di sopravvivere in mezzo alla Piana del Sale, il luogo più rovente della Terra. Molti anni fa, raccontano, Ibrahim ha raccolto messaggi soprannaturali. L’ultima volta che l’ho incontrato, ci siamo baciati la mano, come si usa da queste parti. Allora scrissi: ‘La pazzia, in questo deserto, è perfezione, viene rispettata’. Il deserto (parola latina che può essere tradotta con abbandono) è un luogo estremo? Si usano questi aggettivi: ‘vasto, silenzioso, romantico, esotico, terribile, spaventoso’. Dal nostro mondo civile partono, per raggiungere queste terre, ‘esploratori, turisti, fotografi, umanitari, cooperanti’.

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Al capo opposto del mondo ricordo Tarqisimat Tarqisimat, vecchio cacciatore della Groenlandia orientale. Con l’arpione in mano, immobile a 13 gradi sotto zero, per ore e ore non muoveva un muscolo, ma il suo braccio, come attraversato da una elettricità invisibile, era pronto a scattare in ogni istante. Scrivevo: ‘La Groenlandia non è una terra estrema: è molto di più’. E’ un deserto di ghiaccio. Peter Hoeg, grande scrittore di un magnifico libro (Il senso di Smilla per la neve) non ha dubbi: ‘In quest’isola, la più grande del mondo, la vita è più difficile che in ogni altro luogo della Terra’. Gli inuit, come i turkana nel cuore dell’Africa, come gli ‘eremiti’ della Patagonia, come i pastori della Mongolia, sono stati capaci di viverci, hanno costruito capanne di terra e insediamenti là dove nessuno sarebbe sopravvissuto. Pensate: gli inuit non hanno mai visto un albero e hanno resistito a inverni senza speranza. Cosa devo pensare, allora, quando leggo il sociologo kenyano Odegi Awoundo: ‘Le terre turkana sono territori adatti, per clima, pascoli e acqua per i pastori nomadi’. Si torna all’inizio: ‘Terre estreme, Per chi?’

Anni fa, un giovane scrittore, Paolo Cognetti, oggi travolto da un successo improvviso, fuggì dalle città (che amava molto, ha vissuto a New York e a Milano), dal fallimento di un sogno collettivo. Aveva in mano un libro come una Bibbia disperata: ‘Nelle terre estreme’, il racconto, scritto da Jon Krakauer, un alpinista statunitense, sull’avventura tragica di Christopher Mc Candless. Sean Pean ne ha tratto un film drammatico e appassionato.


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Cristopher aveva ventidue anni, alle spalle una famiglia borghese e una buona laurea. Si liberò di ogni avere e, senza attenzione, né preparazione, nel 1992, si mise in cammino. Verso il Nord, verso la solitudine dell’Alaska. Aveva con sé libri di Tolstoj, di Henry David Thoreau e di Jack London. Ma il viaggio non era più una metafora o letteratura, era un luogo selvaggio. Che quel ragazzo trasformò in una terra incognita: non aveva nemmeno una mappa per capire dove diavolo fosse finito. Visse in un autobus abbandonato. Sopravvisse cacciando, mangiando erbe e solitudine. Si scattò una foto dove appare bellissimo e sorridente. E selvatico. E perduto. Cristopher si accorse troppo tardi che, almeno per lui, ‘la felicità è vera solo se condivisa’. E’ una frase di Tolstoj: quando qualcuno sfogliò il libro che il ragazzo lesse fino all’ultimo istante trovò quelle parole sottolineate. Cristopher era morto, avvelenato da erbe mortali, nelle ‘terre estreme’, a pochi chilometri da una salvezza possibile.

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Paolo Cognetti non va in Alaska. Non vuole perdersi, ma ammira il coraggio, l’ansia, la ricerca di Cristopher. Va in montagna, ma non cerca le vette più aspre, non cerca l’adrenalina di un’arrampicata, vive in una casa di legno a duemila metri di quota, in val d’Ayas, circondato da pascoli e da qualche cresta (in cui, con la stessa sprovvedutezza di Cristopher, a volte si avventura). Le sue terre estreme, per alcuni mesi all’anno (non so se adesso ci viva anche in inverno), sono queste praterie sotto le rocce delle Alpi. ‘Senza che mi veda nessuno’, dice. Paolo, nel primo libro in cui raccontava questa storia di fuga, si definì: ‘Il ragazzo selvatico’. A volte si contraddice Cognetti. Scrive: ‘La montagna è il contrario della solitudine, ti costringe a relazioni forti. E’ la città che ti rende solo, ti sbatte davanti allo schermo di un computer’. Ma, altrove, ammette: ‘Ero andato in montagna con l’idea che a un certo punto, resistendo abbastanza a lungo, mi sarei trasformato in qualcun altro, e la trasformazione sarebbe stata irreversibile. Avevo imparato a spaccare la legna, ad accendere un fuoco sotto un temporale, ma non avevo imparato a stare da solo’. Paolo Cognetti vive in una terra estrema? Le alpi della Val d’Aosta sono una ‘terra estrema’? Perché ammira Chistopher che coloro che vivono in Alaska hanno accusato di incoscienza, poca umiltà e avventatezza? Quando Sean Pean, prima di poter girare il suo film su questa storia, andò a visitare l’autobus dove il ragazzo era vissuto, recitò, come una preghiera, una poesia di Leonard Cohen: ‘Sei andato per la tua strada. Anch’io la seguirò’. Cosa voleva dirci Sean? Fino a dove era disposto a seguire quel cammino? No, forse la strada di Cristopher non è da seguire. Butch Killian, un cacciatore d’alce, l’uomo che, nel settembre del 1992, trovò il corpo del ragazzo a Stampede Trail, guarda sempre dritto negli occhi chi gli chiede di accompagnarlo al luogo di quella tragedia: ‘Per quale diavolo di motivo volete tornare là? Non c’è che un vecchio autobus”. Butch, uomo dell’Alaska, non avrebbe commesso le follie che hanno ucciso Cristopher. Dopo tanto viaggiare non ho più una bussola per accompagnarvi nelle ‘terre estreme’. ‘Per viverci bisogna avere dei saperi – mi avverte Greta – Niente di tangibile: è necessario conoscere, avere esperienza. Ma in agguato vi è sempre l’incertezza, l’imprevedibilità, la variabilità’. Questi territori cambiano, sono terribili e fragili. I mutamenti climatici (è il lungo lavoro fotografico di Luca Catalano Gonzaga) ti sorprendono, minano quello che pensi di sapere, spezzano le abitudini di un contadino o di un pastore transumante. ‘E allora non conosci più la tua terra. Che torna a essere estrema’. Quando Greta usa queste parole, mi vengono


in mente i monti della Laga, i Sibillini, le vallate appenniniche (può farvi un gelo balcanico) sconvolte dal terremoto dell’estate di due anni fa: si può vivere in una terra scossa da decine di migliaia di scrolloni? Si può vivere con addosso la sensazione che le tue montagne siano ‘ostili’? Mi ritrovo con la stessa domanda ripetitiva: le montagne dell’Appennino centrale sono ‘estreme’? Come è possibile vivere su una faglia tellurica?

Non sono un pastore turkana e non ho vissuto in quelle terre. Questo breve viaggio compiuto da giornalista che non si è alzato dalla sua scrivania (meglio avrei fatto ad andare a camminare nella Murgia, a pochi chilometri da casa mia: so che per chilometri non avrei incontrato nessuno) è confuso. Torno allora alle terre che ho conosciuto: ho scritto un libro sulla Dancalia, per anni quella terra mi era sembrata irraggiungibile, inospitale e abrasiva come la sua lava. A volte il vento di sabbia era intollerabile. Ho sempre pensato che la Dancalia è bellissima. Adesso, oltre vent’anni dopo il mio primo viaggio, questo deserto di vulcani e sale è una meta turistica. Con disagi, ma senza alcuna avventura che non sia prevedibile (si perde un connotato della ‘terra estrema’ quando puoi prevedere cosa può accadere). Si va in Dancalia perché, continuano a convincerti, che sia una delle porte dell’inferno. Chi ci va è affascinato dal ‘nulla’. A meno che non siate antropologi, vulcanologi o geologi, il solo alibi che vi spinge verso l’ingresso della Rift Valley in Africa è ‘il nulla’, il fuoco dei vulcani, forse, ancora una volta, l’adrenalina, il piacere indicibile di un orizzonte che non dovrebbe essere valicato. Se, invece, avete buoni sentimenti, si va in Dancalia per avere qualche lezione di vita dai suoi pochi abitanti (non l’avrete, posso giurarvelo). Come in Groenlandia: Smilla, la donna disperata e coraggiosa del romanzo di Peter Hoeg, è certa che gli inuit abbiano ‘la capacità di sapere, senza ombra di dubbio, che l’esistenza ha un senso’. Francisco Coloane, grande scrittore dei venti urlanti della Patagonia, mi disse (era vecchissimo, debole, fragilissimo, quando lo incontrai) che ‘laggiù, sotto il quarantesimo parallelo, il senso del tempo è differente. Lo spazio e la distanza sono diversi. E’ una terra di sentimenti forti, di felicità, di ingenuità’. Greta mi racconta che i suoi amici turkana che hanno scelto di vivere in città ricordano con nostalgia la loro savana: ‘Non ci tornerebbero, ma i loro occhi sono colmi di meraviglia quando raccontano del paesaggio attorno alla loro capanna’. Charles Darwin, nel suo viaggio marino lungo le coste del Latinoamerica, annota che la Patagonia può essere definita solo per negazione: senza dimore, senza acqua, senz’alberi, solo poche e misere piante. E la sua domanda finale è identica a quella che mi pongo da quando ho cominciato a scrivere questo articolo: ‘Perché queste terre si impossessano della nostra mente?’.

Greta Semplici, 27 anni, fiorentina. Una laurea in Development economics all’Università di Firenze. Un anno di lavoro alla Fao a Nairobi. Da sette mesi vive a Lodwar, nel Nord del Kenya, per una tesi di dottorato sul popolo Turkana.

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REPORTAGEFOTOGRAFICO ERODOTO108 • 23

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Ritratto 21

di Hermes Mereghetti La sindrome di Down, detta anche trisomia 21, è una condizione cromosomica causata dalla presenza di una terza copia del cromosoma 21. La sindrome di Down è la più comune anomalia cromosomica dell'uomo, di solito è associata a una capacità cognitiva ritardata e ad una particolare caratteristica del viso. Ma i ragazzi affetti da questa sindrome hanno qualcosa di speciale, spesso indefinito, e amorevolmente coinvolgente. E allora ecco che nella mia messa a fuoco mi lascio trasportare dal momento e finisco, quasi per istinto, o forse per necessità, nei loro occhi. Diversi dal solito, ma carichi di un'espressione e di un'umanità fuori dal comune. Ventuno scatti, altrettanti volti, per associare la forza di un istante a quel maledetto cromosoma, dove qualcuno ha deciso di inserirci qualcosa in più. Espressioni, stati d'animo, semplici e spontanei atteggiamenti. Son giochi da ragazzi, in un senso da adulti. E li guardo ancora, sempre e solo negli occhi, come se tutto il resto non esistesse. Voglio cogliere un sorriso, quello dell'anima.

Valentina Toto


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Elisa Morabito

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Julian Mandolfo


Ilaria Rossi

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Veronica Testagrossa


Andrea Gualdoni

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Luca Gaberoglio


Nadia Curcio

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Elisa Mittini


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Marco Somarè


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Angelo Salmoiraghi

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Danila Falzea


ERO-

Martina Melani


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Carlo Re


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Giuseppe Nucera


Michele Valle

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Marita Marrazzo


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Valentina Grimaldi


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Sofia Merlo


Riccardo Farechis

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Ivan Taboga


Cowboys, pistoleri, vendicatori dalla mira infallibile, giocatori di poker. testo di luana salvarani foto national archives and records administration, usa


BIBBIA E WINCHESTER: STORIE DAL VECCHIO WEST poChe parole, leadership Forti e CiasCuno responsaBile per sé. e dio per tutti.


“G

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li insegnanti chiassosi, in qualsiasi scuola, con le loro grida e metodi sconsiderati, sono un danno. Solo il sovrintendente o la morte possono farli tacere, ma state attenti a non seguire il loro cattivo esempio”. Chi può aver scritto queste righe? Un dirigente scolastico esasperato da decreti, riforme e graduatorie? No, un pastore metodista nell’America di fine Ottocento: Howard Melanchthon Hamill (1847-1915), autore di The Sunday School Teacher, un manuale di gestione scolastica e di30 dattica pratica che fa sparire tante macchinose novità contemporanee sull’argomento. Ripartiamo da questo spunto dalle Sunday Schools, su cui abbiamo già scritto qui su Erodoto, per riflettere sullo spirito e l’epica del West, riassunta nelle lapidarie parole di Hamill come meglio non si potrebbe. Il periodo è quello giusto. L’epopea del West, come si è costruita e affermata, ritrae soprattutto la seconda metà dell’Ottocento: ma la Frontiera accompagna tutta la storia degli Stati Uniti, spostandosi progressivamente sempre più a Ovest, anche se prende corpo quando nel 1803 Tho-

mas Jefferson compra la colonia francese della Louisiana (due milioni e centoquarantamila chilometri quadrati corrispondenti a quasi undici Stati odierni - North e South Dakota, Nebraska, Kansas, Okhlahoma, più i confinanti) da Napoleone, che aveva altro a cui pensare. Si apre un vivace dibattito al Congresso e vengono sollevate pregiudiziali di costituzionalità, ma Jefferson va avanti, ha i soldi e sa che da quel momento in poi l’America avrà l’estensione per essere una potenza mondiale. Dalla sua tenuta di Monticello, Jefferson è simbolicamente il primo eroe del West: decisore e risolutore, a speculazioni etiche e a tracciare regolamenti ci si penserà dopo. Così il confine occidentale degli States varca la metà del territorio fisico e la Frontiera si sposta in un attimo a Ovest, dove sarà per il secolo successivo. Da lì inizia l’immaginario dello spazio infinito della scoperta e della conquista, del potersi rifare una vita (qualsiasi cosa sia accaduta prima), della vita dei pionieri, dei pastori armati di Bibbia e Winchester, degli avventurieri solitari in cerca del loro posto nel mondo. E a questo immaginario si


Squadre indiane trasportano il grano in California, 1900. Pagine precedenti: Fattoria Hancock in Minnesota, 1910.

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Carro coperto con muli incontra un'auto sul sentiero vicino a Big Springs, Nebraska, 1912.Â



Con gli indiani Navaho e Paiute, i pionieri mangiano l'anguria nel Paiute Canyon, 1909.Â


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Ranch nel Montana, 1872.

somma una tradizione narrativa ispirata alle temute dime novels, i racconti da edicola venduti al prezzo di dieci centesimi e pieni di avventure di delinquenti e ragazze del bordello, ovvero la lettura giovanile e popolare più odiata da pastori e maestri di scuola come il reverendo Hamill. Più si tuonava in aula e dal pulpito che quei racconti popolari, con i loro pistoleri, erano gli strumenti del diavolo e il peggio del peggio, più naturalmente erano richiesti e prodotti a un ritmo industriale. Così nasce il repertorio di situazioni del Western cinematografico classico ed hollywoodiano,

meno focalizzato sui pionieri e sull’esplorazione, e più raccolto attorno a cowboys, pistoleri, vendicatori dalla mira infallibile, giocatori di poker. Donne e seduzioni, poco: il Western classico è, alla sua maniera, puritano. Due o tre whisky per chi li regge e tanti proiettili non fanno problema, ma le donne se serve si pagano un paio d’ore (o si sposano), e non si consente loro di interferire più di tanto. Il cowboy ama il suo cavallo, e basta, quando non ama i colleghi di sella (da cui un noto e contemporaneo filone cinematografico). A proposito, il genere è stato così florido da ramificarsi in una mappa incredibile di varianti e sottogeneri.


national arChives and reCords adMinistration, usa Questa agenzia indipendente del Governo federale degli Stati Uniti d'America, dal 1934 conserva importanti documenti governativi e storici, oggi quasi tutti digitalizzati e disponibili on line con licenza Creative Commons. Le collezioni di fotografia (https://www.archives.gov/research/alic/reference/photograph y) sono imponenti e vanno da metà Ottocento a oggi: dai nativi alla conquista del West, dalla grande depressione a Elvis Presley, dalle spedizioni geologiche di fine Ottocento alle Black Panters, qua c’è tutta l’America che riuscite a immaginare, con chiavi di ricerca ed esaurienti didascalie.

Trapper e cacciatori di Four Peaks, Arizona, 1908.

Tutto quello che ci interessa, e che si richiama 35 all’epica della Frontiera, sta invero nel Classical Western, e ci conforta sapere che il Pornographic Western è considerato “molto raro”, coincidendo quasi totalmente con l’opera del noto regista Russ Meyer. Mentre improbabili varietà come il Martial Arts Western ci ricordano, loro malgrado, che il West (quello vero) era popolato da una incredibile varietà di etnie: orientali, cinesi soprattutto, africani e mediorientali si mescolavano ai caucasici per la comune lotta contro la dura Natura, spietata, spesso arida, prodiga di carestie, epidemie, bestie selvagge e tribù indiane viste

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Quelli elencati dalla sempiterna Wikipedia sono 22 (in rigoroso ordine alfabetico): Classical Western, Acid Western, Charro, Cabrito or Chili Westerns, Comedy Western, Contemporary Western, Electric Western, Epic Western, EuroWestern, Fantasy Western, Florida Western, Horror Western, Curry Westerns and Indo Westerns, Martial arts Western (Wuxia Western), Meat pie Western, Northwestern, Ostern, Pornographic Western, Revisionist Western, Science fiction Western, Space Western, Spaghetti Western, Weird Western.


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Vista panoramica degli uomini al lavoro nella bonifica di Umatilla in Oregon, 1907.


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come parte della Natura stessa. Il West non era politicamente corretto, come non lo è mai una guerra di conquista, ma non era neppure monorazziale e monocolore (ideologico) come lo mostra il Western hollywoodiano. La situazione, storicamente pressoché irripetibile, della Frontiera – un popolo variegato organizzato in nazione e in espansione continua senza concorrenti militari esterni – creava il terreno di coltura per una varietà infinita di esperimenti e modelli. Religioni nascevano da un giorno all’altro, piccole e grandi città venivano fondate e spostate in tempi record, comunità insofferenti di leggi federali e burocrazia d’ogni tipo sceglievano, con regole proprie, governatori, giudici, insegnanti, fattisi da sé senza esami o certificati. Per gestire un mondo simile servivano persone come Hamill e il suo rude umorismo, che ci propone l’immagine di una maestra inutilmente urlante e starnazzante opportunamente tacitata da un colpo del fido Winchester, se il capo non è all’altezza. L’epica del West sta tutta qui: poche parole, leadership forti e ciascuno responsabile per sé. E Dio per tutti, aggiungerebbe il reverendo. Se ti lascia solo tra i coyote e gli avvoltoi, beh, è arrivata la tua ora, gringo.

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lUaNa SalVaraNi, 44 anni, ex-filologa, ex-insegnante ed ex-musicista praticante, per ora storica dell’educazione, ove ha trovato il modo di gabellare la sua fissazione per il western per una cosa seria. In attesa del prossimo prefisso ex-, nuota, non beve alcoolici e va a letto presto.



Negli anni Settanta è la città più gay di tutta l’America. Anzi, del mondo intero. testo di Piergiorgio Paterlini foto National Archives and Records Administration, USA

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LA SAN FRANCISCO DI HARVEY MILK È qui che la sua vita cambia, ma non per la popolarità o il successo: Milk voleva solo essere felice.

Se vai a San Francisco, ti sarà facile incontrare Harvey Milk. È qui che la sua vita cambia all’inizio degli anni Settanta, e San Francisco è così determinante per la sua storia che ora Milk è un po’ nell’oceano, nella Baia, e un po’ sotto il marciapiede, di fronte al 575 di Castro Street, dove c’era il suo negozio di fotografia, Castro Camera e, quasi fino alla fine, la sua casa. È in questi luoghi che i suoi amici hanno sparso le sue ceneri dopo quel 27 di novembre del 1978. E in uno dei cinque Colombari della città (i Colombari sono una via di mezzo fra un cimitero e un mausoleo), quello laico della Neptune So-

ciety, al piano terra c’è una nicchia decorata in sua memoria. È un luogo, molto riparato e tranquillo ma anche pieno di luce, grazie all’atrio sovrastato da una cupola in vetri colorati, e qui si ripercorrono le tappe importanti della storia della città. Ma è pur sempre un cimitero, quindi finisce che qui si ricordano le tragedie, le catastrofi, le morti. Di Milk invece non devi ricordare tanto la morte (eroica certo, da passare alla storia) quanto la vita. Perché quello che cercava Harvey Milk non erano la popolarità o il successo: Milk voleva solo essere felice.


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Pagina precedente: Harvey Milk seduto alla scrivania del sindaco George Moscone nel marzo 1978

In alto: San Francisco, musicisti di strada a Union Square nel 1973. in basso: San Francisco, Manifestazione per i diritti delle donne nel 1970.


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Così se andrai là dove Dan White lo uccise con un colpo di pistola alla mano destra, due al petto e due alla testa, al Municipio di Frisco, troverai un posto da mozzare il fiato: la grande cupola, la spianata davanti, l’immensità della 42 costruzione. E poi, quell’incredibile scalone subito dopo l’ingresso, i soffitti altissimi, le immense vetrate, le statue, le rifiniture in oro, i marmi dei corridoi. Tutto immenso, bello, maestoso. Da mettere soggezione. Da stupirti di magnificenza. E dentro il Municipio i busti in bronzo di Harvey Milk sorridente, e quelli di George Moscone e di Dianne Feistein, che è ancora viva e che era il Presidente del consiglio comunale e subentrò a Moscone come sindaco. Unico sindaco donna di San Francisco. Se poi vuoi essere di più e davvero felice, puoi camminare su e giù per Castro Street e imma-

ginarti la San Francisco degli anni Settanta, la città più gay di tutta l’America. Anzi, del mondo intero. Non c’era un’altra città così. Per questo, da New York, Milk e il suo compagno, Scott, si trasferiscono in questo quartiere unico al mondo, nel quale gli omosessuali sono così tanti da non sentirsi la solita minoranza sfigata e invisibile. C’erano tra i centomila e i duecentomila omosessuali a San Francisco, una città allora di 750mila abitanti. Basta nascondersi. Qui si può essere quello che si è alla luce del sole. È una realtà indescrivibile e Milk si dice: “Se siamo così tanti, insieme possiamo essere molto forti”. San Francisco. La militanza gay. La politica. Una nuova vita. Nessuna strategia, nessuna carriera decisa a tavolino. Semplicemente, vivere un po’ meglio,


A destra: San Francisco, Golden Gate Bridge. Sotto: Jimmy Carter e Harvey Milk.

Infine sai dove puoi trovare ancora Harvey Milk? Sta in quella nebbia che a volte in autunno sale dalla Baia di San Francisco, dall’oceano. Una lieve confusione, una sospensione che avvolge ogni cosa. È l’attesa – inconsapevole – del risveglio. Quando ogni cosa finalmente apparirà nitida, vera, nell’esatta gerarchia di importanza e di senso, nella giusta luce e posizione all’interno del puzzle poco o tanto scombinato della vita.

piergiorgio paterlini, 64 anni, emiliano della Bassa reggiana, è giornalista, editor e scrittore. È stato tra i fondatori della rivista “Cuore” e ha pubblicato una ventina di libri, alcuni dei quali tradotti in Francia, Spagna, Olanda, Stati Uniti. Ha scritto programmi per Radiorai e per Raidue, Raitre e La7, testi per il teatro e sceneggiature per film. Oggi scrive per «la Repubblica» e per l'edizione online de «l'Espresso», dove tiene il blog d'autore «Le Nuvole». il mio amore non può farti male. vita (e morte) di harvey Milk è il suo ultimo romanzo, uscito per Einaudi Ragazzi nell’autunno di questo 2018.

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essere un po’ più se stessi, volere di più. Lottare per i diritti della comunità gay ma anche per il bene di tutti, il bene comune. Nel gennaio 1978 Milk assume ufficialmente l’incarico di Consigliere comunale di San Francisco. Il primo politico apertamente gay degli Stati Uniti. Uno dei primi del mondo conosciuto.


I MURALES DELLA COIT TOWER testo e foto di giovanni Breschi

QUADERNI A QUADRETTI

SAN FRANCISCO

La Coit Tower è una torre bianca costruita nel 1933 a Pioneer Park sulla cima Telegraph Hill di San Francisco. Visibile da tutta la città, la tradizione vuole che sia stata eretta in onore dei pompieri di San Francisco, ma la storia non lo conferma. Fu finanziata da una ricca signora, Lillie Hitchcock Coit che fin da bambina era affascinata dal mondo dei pompieri e li seguiva sempre nelle loro uscite per domare agli incendi, frequenti in San Francisco data la numerosa presenza di case di legno. Partecipava alle sfilate della Knickerbocker Engine Co. 5 e divenne la loro mascotte e pompiere onorario. Alla sua morte Lillie Coit lasciò un terzo dei suoi beni per “l’abbellimento di San Francisco”, come diceva, e fu costruita la torre Coit e un monumento a lei dedicato.

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Le pitture murali all’interno della torre furone eseguite principalmente da studenti della California Ashool of Fine Art: Maxine Albro, Victor Arnautoff, Ray Bertrand, Rinaldo Cuneo, Mallette Harold Dean, Clifford Wight, Edith Hamlin, George Harris, Robert B. Howard, Otis Oldfield, Suzanne Scheuer, Hebe Daum e Frede Vidar. A New York, Diego Rivera stava dipingendo il murales per l’ingresso del Rockfeller Center, che aveva come tema “uomo al crocevia che guarda al futuro” , voluto dalla famiglia Rockfeller, l’artista inserì nella pittuta il ritratto di Lenin e fu scandalo immediato, al punto che nel 1934 venne distrutto e Rivera licenziato. Gli artisti incaricati della torre di San Francisco protestarono, manifestarono e per solidarietà con Rivera inserirono temi di ‘sinistra’ nelle loro pitture, la vita operaia dell’america capitalista. Nell’opera di Bernard Zakheim, “The library”, si vede ritratto John Langley Howard (artista anche lui) che estrae dalla libreria Il Capitale di Karl Marx, e in alto un’altro artista mentre legge la notizia della distruzione del murales di Rivera. Il murales di John Langley Howard rappresnta una marcia del lavoro che rappresenta varie etnie. Stackpole nella opera ‘Industries of California’, riprende la struttura e lo spirito del murales distrutto a New York. In ‘Newsgatering’ viene rappresentato il mondo della stampa, giornalisti e tipografi nello stesso murales, e così percorrendo i corridoi della torre si incontrano gli altri mondi del lavoro californiano. Tutti i murales sono stati eseguiti con la tecnica dell’affresco, ad eccezione di due posizionati nel vano che conduce all’ascensore realizzati su tela.









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GioVaNNi BreSchi, 66 anni, vive e lavora a Firenze, grafico e fotografo. Nella fotografia e nella grafica ricerca sempre una storia.



STORIE DI LIBRI

Clara è alta. Come una giocatrice di pallavolo. Ha quasi trentanove anni e due figli. Vive ad Altamura. Non ha mai lasciato la provincia pugliese. Studi universitari a Bari (storia dell’arte) e addosso l’apertura di tre librerie. Anzi, quattro, a ben contare. I libri, per Clara, sono parte del suo corpo. Appena sotto il collo, a destra e a sinistra, verso la punta delle spalle, si è fatta tatuare, in lettere stampatello, le parole ‘tierra’ e ‘cielo’. Roba da intenditori o da bambini dell’altro capo del mondo: ‘tierra’ e ‘cielo’ sono la prima e l’ultima casella della variante argentina

Altamura. E la macelleria divenne libreria

I LIBRI SULLA PELLE Il nonno era il macellaio del centro del paese. La nipote ha deciso che quel piccolo negozio era il luogo ideale per offrire libri e così ha aperto ‘La Nuova Macelleria’. Dove si trovano libri introvabili su altri scaffali. Questa è davvero una storia di carne e pagine. testo e foto di Andrea Semplici

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(se dobbiamo credere a Julio Cortázar) del ‘Gioco del Mondo’ che da noi è conosciuto come ‘Campana’. E’ il cammino saltellante che scorre nelle pagine di Rayuela, romanzo iniziatico e debordante della letteratura latinoamericana. E per non farsi mancare nulla, sul polso di Clara, vi è un rettangolo con un triangoletto interno su un lato: è il disegno che appare a pagina 687, penultima pagina (edizione Adelphi) dei ‘Detective selvaggi’ di Roberto Bolaño, subito dopo la domanda ‘Che cosa c’è dietro la finestra’? I libri più aggro-

aNdrea Semplici, 64 anni, fiorentino, giornalista e fotografo, si è messo in testa di andare a trovare i librai ostinati. Soprattutto nei piccoli paesi. E’ una ricerca casuale, ma ogni tanto avvengono incontri che valgono il viaggio.

vigliati del Latinoamerica sono nella pelle di una libraia di Altamura, cittadina di 70mila abitanti, a metà strada fra Bari e Matera. Ho voglia di fermarmi al bar di fronte alla bellissima cattedrale e chiedere: ‘Alzi la mano chi conosce Julio e Roberto?’. Non so come ho saputo di questa piccola libreria. Un messaggio apparso in facebook, immagino. E’ il nome ad attirare curiosità: libreria ‘La Nuova Macelleria’. Come resistere alla tentazione di andare a vedere? Pieno centro di Altamura, cento metri dalla cattedrale, piccolo vicolo, due passi dal municipio. Per scoprire che questa libreria è un luogo bello e pericoloso. Almeno per me. Qui ci sono i libri che ho cercato per molto tempo, qui ci sono gli autori che amo, qui ci sono scrittori che non conosco e che, appena entrato, ho voglia di sapere chi sono, qui ci sono preziosi scaffali di libri usati e uno spazio, in primo piano, dedicato alla poesia. Potrei spendere patrimoni qua dentro. Ci vuole coraggio, sfrontatezza (e un po’ di snobismo) per aprire una libreria come questa. Qui ho trovato le 452 pagine delle poesie di Alejandra Pizarnik (editore all’altro capo d’Italia, sta a Como e si chiama LietoColle) che perfino il web mi negava esistere. Torno al bar della piazza e avrei un’altra domanda: ‘Alzi la mano chi conosce Alejandra?’.

La libreria è piccola, ci sono i ganci del macellaio a cui appendersi e dondolarsi (allora era davvero una macelleria), c’è la traccia del vecchio frigorifero e i marmi da negozio delle carni, ci sono due


Vi devo spiegare la geografia di questa macelleria: nella prima stanza, lo spazio che un tempo era davanti al bancone

delle carni, i libri sono sugli scaffali seguendo l’ordine delle case editrici. Non ci troverete Feltrinelli o Mondadori, ma Mininum Fax, Sur in bella evidenza (conto otto libri di Julio Cortázar. Il Latinoamerica deve proprio essere una passione di Clara), Black Coffee, NN, L’orma, Gran Via. Non troverete, almeno in vista, i libri delle classifiche. Niente Fabio Volo (Bruno Vespa è scomparso dalle antipatie dei librai indipendenti: ora vende meno di Fabio). C’è Cognetti (i suo libri pubblicati da Minimum Fax), ma non vedo ‘Le otto montagne’ (non chiedo). Gli scaffali dell’usato, oltre la prima stanza, sono intriganti: in genere questo è il luogo di libri marciti o

impresentabili, qui no, è stata fatta una scelta di cura e passione. Saul Bellow, Gabriel Garcia Marquez, Milan Kundera, Claudio Piersanti, Musil, Pennacchi, Lucarelli e Maurizio Maggiani. Un piccolo mixer regala bella musica. Si sta bene qui, non si ha voglia di andare via. Infine, contro la 55 parete di fondo, lo scaffale dei libri del cuore, i libri cari alla libraia, i poeti, pochi saggi, molti romanzi. Vi scorgo uno dei miei libri dell’anima: Jana Černá, ‘In culo oggi no’. E lo tocco con un dito come se fosse una reliquia. Chiedo a Clara cosa sta leggendo in questi mesi. Mi aspetto un autore a me sconosciuto. E invece: ‘Steinbeck’. Furore, la Valle dell’Eden, I pascoli del

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poltroncine di pelle nera e un tavolo all’ingresso in cui sono esposti, faccia in su, i libri che Clara suggerisce: un titolo ‘minore’ di Virgina Woolf, Alessandro Leogrande, Carmelo Bene, Dani Kapernaw e la sua Amazzonia. Ci sediamo uno di fronte all’altro. Cerco di capire questo luogo. ‘Fin da piccola, i libri sono stati la mia vita – dice Clara Patella – E ora sognavo una libreria domestica. Chi entra qui deve sentirsi come un ospite a casa mia. Questi sono i libri che ho letto, che, in qualche modo, conosco, che amo e che nessuno mi ha imposto’.


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cielo. Ho letto Steinbeck? O ho solo visto filmoni in bianco e nero? Clara è dove non te l’aspetti, ora è nei grandi spazi nordamericani. Si mette ad aprire uno scatolone di libri di 56 una nuova casa editrice, Safarà, di Pordenone. Libri che viaggiano da Nord a Sud. ‘Dovrò trovare spazio’, gli scaffali sono affollati. La libreria è piccola. Entra il figlio, passano amiche, una coppia compra Kent Haruf (io non l’ho letto). Devo farmi raccontare. Il padre di Clara ha sempre sostenuto la figlia. Ha fatto il direttore di una banca ad

Altamura. E, una volta in pensione, da volontario, ha creato il primo luogo in Italia di ‘scambio libri’, ‘LibriLiberi’. Una storia basata sul dono (è questa la quarta libreria di Clara). ‘L’associazione esiste ancora, i libri anche, ma vi erano dei costi che non potevamo permetterci’, ricorda Clara. Nel frattempo, lei aveva aperto, in una città dove vi era solo una cartolibreria, un caffè letterario. Era il 2007. ‘Sperimentavano, leggevamo poeti, chiedevo agli amici musicisti punk di comporre sui versi di Emily Dickson’. Era il ‘Club Silencio’. Quasi negli stessi giorni David Lynch

apriva un locale con lo stesso nome a Parigi. Continuo a chiedermi dove sono capitato. Un mondo a parte nella provincia pugliese. Clara capisce e cerca una risposta: ‘Chi non è nato in provincia, non può nemmeno immaginare. Viviamo isolati dal mondo. Qui abbiamo dovuto conquistarci tutto. In città hai il cinema, il teatro, i luoghi della musica, le mostre. Ad Altamura non c’era niente di tutto questo. Abbiamo dovuto fare tutto da soli. Se volevamo la cultura, dovevamo crearla’. Clara, una figlia a 22 anni, non ha mai pensato di andarsene via. E allora ha aperto librerie. ‘Vo-


pingo, vendo quadri, ho lavori di grafica. Sì, posso farcela’. ‘E poi – dice – i libri sono il mio vizio, spendo solo per loro’. Quando sa di un amico in viaggio, lo prega di portare da una libreria straniera, un libro importante in lingua originale.

‘In pochi giorni, ho venduto tutte le copie di Steinbeck che avevo’, dice Clara. Il suo autore di questo periodo. Vende i libri che le piacciono. Diffida le amiche ad andare a comprarli altrove: ‘Aspetta, ho fatto i nuovi ordini’.

Chi entra nella Nuova Macelleria? Chi sono i lettori in una città in cui leggono in pochi? ‘I curiosi, i vecchi clienti del nonno che entrano un po’ stupiti, e i ragazzi. Molti ragazzi’. Altamura, mi spiegano, ha avuto gli anni della ricchezza, del benessere improvviso, sfacciato, ostentato, il tempo delle fabbriche di salotti. I soldi come unico valore, i libri non erano un orizzonte in questa città. Ma oggi, anni di crisi, due librai hanno aperto, da poco, luoghi di catena: Feltrinelli e Mondadori. Poi vi è un caffè-libreria e la piccola Nuova Macelleria. E allora? ‘Allora io oggi vedo i ragazzi venire a trovarmi. Vanno all’angolo dei libri usati, misurano gli euro, chiedono: me lo posso portare con due euro? Pongono domande e noi dovremmo, qualche volta, provare a rispondere: ho aperto librerie perché ho pen-

sato ai miei figli, se non lo facciamo noi, chi può farlo’. I libri, per Clara, sono ‘un’occasione’, sono possibili risposte, un cammino, un sentiero in questa provincia. ‘I ragazzi hanno bisogno di spazi, di luoghi, hanno fame’, è certa Clara. Alla fine compro le poesie di Alejandra Pizarnik e un Cortázar edito da Sur. Spendo un mucchio di soldi. Rinuncio a una bottiglia di Padre Peppe, amaro buonissimo di Altamura. Qualche volta bisogna scegliere. Clara annota l’acquisto su un piccolo quadernetto. Incarta i libri in un sacchetto di carta, come se fossero pagnotte. Me ne vado con il mio pacchetto sotto braccio.

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levo vivere in mezzo ai libri’. La storia del Club Silencio resiste qualche anno. Fino a quando, Clara non va a metter su un’altra libreria a Bari: la Zaum. Altro esercizio di letteratura, altro esperimento, altra sfida: Zaum è parola coniata dai futuristi russi nelle follie del fonosimbolismo (confesso: ho sbirciato in wikipedia). E poi si inventa, con amici appassionati, immagino, una casa editrice, la Caratteri Mobili: ‘Mi piaceva fare i libri, impaginarli, curarne la grafica, vederli nascere’. Ha l’aria tranquilla, Clara. Racconta come se fosse normalità creare librerie. Mi viene il sospetto che ci sia un’irrequietezza di fondo. Alla fine lascia la Zaum (la libreria è rinata in uno dei cuori di Bari), torna ad Altamura, ma non vuole abbandonare il mondo dei libri. Cerca un altro posto in cui aprire una nuova libreria. E alla fine, accanto al municipio, vede un cartello ‘affittasi’. Sobbalzo. Conosce quel locale. Appartiene alla sua famiglia. Come mai non ci ha pensato prima? E’ la vecchia macelleria del nonno. E va benissimo per una libreria. Ricordate? I libri sono nella sua pelle. Carne e libri. Detto e fatto. Lavori di ristrutturazione, una piccola insegna tondeggiante, quasi invisibile. Un luogo che appare un nascondiglio, un rifugio. Inaugurazione la scorsa primavera. Pochi mesi di vita, dunque. Ci si può vivere, Clara? ‘Mi arrangerò. Di-


STORIE DI CIMITERI

C'

Mio nonno e zia Evelina da bimbi erano costretti a salire fin su a piedi, che il babbo Enrico li cinghiava.

TRESPIANO A FIRENZE IL CIMITERO PIÙ GRANDE D’ITALIA

è un posto solo in cui torno ogni anno. Agli albori dell'autunno. Si sale su per la via Bolognese. Una delle più nascoste vedute di Firenze. Trespiano. Il cimitero. Lì i miei avi. Mio nonno, che ho conosciuto solo dalle storie e al quale comincio ad assomigliare con gli anni. E la sorella. Zia Evelina. Lei sì la ricordo con grande simpatia. I due fratelli che da bimbi erano costretti a salire fin su a piedi, che il babbo Enrico li cinghiava. Per conto mio io vo’ col 25, fin su al piazzale. Sotto il porticato un bar e la fioraia. Sempreverdi bianchi e margherite. Poi via tra i viali alberati a cipressi. Ci si veniva da bambini con mamma, mio fratello Roberto, che porta il nome di nonno e la Zia Armida. Stesso nome di sua nonna. Così, mi dico, avrei potuto chiamarmi Armida anch'io. Alcune cose cambiano. Non i pellegrinaggi.

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Per conto mio io vo’ col 25, fin su al piazzale. testo e foto di Francesca Duca


IL CIMITERO DI TRESPIANO DI FIRENZE

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Quello di Trespiano è uno dei primi cimiteri extraurbani d’Italia: è stato costruito nel 1784 e da allora si è allargato sempre più sul crinale del torrente Terzollina, inglobando alcune antiche ville nobiliari e arrivando a coprire 54.000 metri quadri che, per farsi un’idea, corrispondono a un’area grande quanto gli scavi di Pompei. Così ora è il luogo di sepoltura più grande d’Italia e all’interno ci si sposta con un bus navetta messo a disposizione dall’amministrazione comunale. Posto ai confini di boschi selvaggi (lo scorso anno è stato invaso da in branco di cinghiali), offre un panorama solenne e mozzafiato che in tempi in cui la Bibbia era un riferimento culturale comune gli ha meritato la definizione di ‘Valle di Giosafat fiorentina’ (nel libro del profeta Gioele il luogo dove Dio radunerà ‘tutte le nazioni’ per il giudizio universale). A Trespiano riposano parecchi grandi (i fratelli Rosselli, Gaetano Salvemini, Piero Calamandrei, il compositore Luigi Dallapiccola). A noi piace ricordare la cantastorie Rosa Balistreri, arrivata in fuga dalla Sicilia a metà degli anni Sessanta a Firenze, dove lavora al mercato di San Lorenzo e conosce l’uomo che le cambia la vita, l’artista Manfredi Lombardi, e il conte Gastone Brilli Peri, pilota poliedrico che gareggiava su auto, moto e biciclette e che morì in un incidente di gara a Tripoli, nel 1930.


REPORTAGEFOTOGRAFICO

FOTO E TESTO DI ANDREA SEMPLICI

S

ulle linee dei confini è in cammino un’orchestra. Un’orchestra di ragazzi. Sono arrivati in Italia a decine, provengono da undici paesi d’Europa, ra-

gazze serbe che tifano per la Croazia, ragazzi albanesi che, a sera, escono con i loro coetanei serbi. I più giovani hanno dodici anni: due italiani e una ragazzina magrissima e bella della Serbia. Questi ragazzi sono l’Europa, alla faccia di chi governa i loro paesi. Hanno acne e smartphone, pronti per innumerevoli selfies. Indossano violini e violoncelli, tromboni e clarinetti, percuotono tamburi e grancasse, soffiano nelle trombe e nei corni, e fanno scivolare le dita (con i calli di un saldatore) sulle corde di un’arpa. Sono bellissimi. E la loro musica va oltre quei confini. Cento anni fa, 1918, finiva il primo, immenso massacro europeo. Poi vi è stata un’altra guerra oscena prima che, almeno in questa parte, dell’Europa si capisse la follia della violenza. Oggi questi ragazzi, la European Spirit of Youth Orchestra, suonano sulla linea delle frontiere, viaggiano per l’Italia, sconfinano, si fanno beffe delle dogane. Hanno il privilegio dell’Europa. Come vorrei che la loro musica facesse scricchiolare le muraglie che si sono ricostruite dopo gli anni in cui pensavamo che mai avremmo più visto fili spinati a dividere l’umanità. L’orchestra di questo Spirito Europea è diretta da Igor Co-

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retti Kuret, maestro triestino: l’ho visto guidare i ragazzi in italiano, in inglese, in serbo-croato, in ungherese. Un gramelot musicale. Vi è un narratore di questo viaggio attraverso le frontiere: è Paolo Rumiz, giornalista e scrittore. Anche lui, come Igor, è nato su un confine. Forse solo due uomini di un’Europa che mischia le differenze e le diversità poteva condurre giovani musicisti in questo cammino di memoria e futuro. Ma sono i ragazzi a prenderli per mano: loro sanno costruire, e ri-costruire oltre la stanchezza, ancora una volta il sogno europeo.


LA MUSICA LASCIA SEGNI SULLA PELLE Il viaggio di un’orchestra europea ‘Tamburi di pace’


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STORIE DI CIBO

L

o incontri per caso, magari te lo presenta un amico. Non viaggia solo, c’è sempre qualcuno con lui: un ragazzo del Gambia, una signora annoiata, un vicino che gli sta dando un passaggio. A qualcuno deve pur raccontare, altrimenti che chef narrante sarebbe.

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Arriva e occupa la cucina, e se la cucina è piccola anche la sala da pranzo. Non ha con sé un set di coltelli giapponesi, né uno scrigno di spezie o di sali pregiati. Fa con quello che c’è in casa, con quello che gli dai, anche se a te sembra che sia quasi niente. L’ho visto usare una grande foglia di zucca come coperchio, per cuocere una zuppa di verdure in una padella larga. Pervade tutti gli spazi, fisici e sonori, e come salta dal tagliere al fornello, dal tavolo al lavandino, così vaga di storia in storia, di epoca in epoca, di luogo in luogo. Salta proprio, e sembra strano, con i capelli a onde e quel corpo che è una promessa – che ci sarà ancora là dentro, ti chiedi – e controlli se sei ancora con i piedi sul pavimento di casa o stai salpando per un viaggio in mare.

Per mare comunque c’è stato davvero, un paio d’anni a sentire storie dalla gente e anche dai pesci e a raccogliere odori, profumi, sapori e tutte quelle cose che ammantano la sua schiettezza campana del necessario tocco di esotismo. Così arriva l’ora di mangiare e quasi sei già pieno e mentre assaggi prudentemente ti chiedi se ti piace davvero quello che senti in bocca o è perché sei intontito di colori e di parole. Sarò facilmente suggestionabile, ma mentre mangiavo la zuppa

Salta dal tagliere al fornello e di storia in storia.

EMILIO POMPEO, LO CHEF NARRANTE Non saprei dire se ciò che seguì fu una frittata o solo un racconto di qualcosa di giallo. foto di Salvatore Di Vilio testo di Silvia La Ferrara

SalVatore di Vilio, 58 anni, fotografo campano, vive e lavora a Succivo, in Terra di Lavoro, provincia di Caserta. Ama raccontare che, stanco dell’architettura e degli architetti, è nato una seconda volta con la rolley di suo zio. Spinto da curiosità umana, si diletta fotografando feste, riti e persone nei loro luoghi. Il suo lavoro abbraccia la fotografia a 360°, con ironia, passione e cazzeggio, cercando di campare. Per saperne di più: www.salvatoredivilio.it

(quella cotta con il coperchio di foglia), vedevo i saraceni attaccare dal mare e mia nonna pulire le verdure sul gradino della porta di casa. Non saprei dire se ciò che seguì fu una frittata o solo un racconto di qualcosa di giallo. Certo al dolce, improvvisato come tutto il resto, mi pareva di stare a tavola con Alice e il bianconiglio e le albicocche, avvolte in una crema di cacao e chissache, erano principesse finalmente dotate di un degno destino. Ecco come accade, che lo chef narrante contagia anche te.

In un racconto di Michele Mari, i fratelli Jacob e Wilhelm Grimm in viaggio alla ricerca delle antiche fiabe, arrivano in un palazzo buio dove un terzo fratello, Ludwig, consegna loro alcune storie. “Ne vogliamo ancora”, dicono Jacob e Wilhelm e allora Ludwig apre un armadio, trova una botola, scende tanti scalini e, aperto un “tenebroso stambugio”, svela l’esistenza di un quarto fratello Grimm, Gunther, al quale viene intimato: “Affabula, mostro. E il mostro affabulò.” Emilio Pompeo, lo chef narrante, lo trovate, per ora, tra le campagne del beneventano, poco lontano dalla Pietrelcina di padre Pio, nella cucina della Masseria Fontana dei Fieri.


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OROSCOPO di Letizia Sgalambro Non si può parlare di America senza parlare di indiani e quindi l’oroscopo vuole onorarli utilizzando i riti e i credi sciamanici come strumento per leggere le stelle dell’estate.

Ariete

21 Marzo -19 Aprile) Parola chiave: Capanna Sudatoria C’è una forte sacralità nel rito della capanna sudatoria, che permette una disintossicazione fisica e, a un livello più profondo, mette alla prova la capacità di sopportare il disagio del calore e la purificazione, favorendo la fuoriuscita di sentimenti e paure più nascoste. Anche per te ci saranno occasioni per purificarti, forse non tutte saranno facili da superare, ma espellendo tossine potrai favorire il fluire dei tuoi sogni più profondi.

Toro 20 aprile -20 maggio

Parola chiave: Viaggio sciamanico Il suono del tamburo favorisce la meditazione profonda che porta la coscienza a prediligere fantasia e immaginazione, grazie alle quali acquisire conoscenze e poteri altrimenti inarrivabili. I prossimi mesi potrai vivere anche tu un’esperienza simile, forse senza i tamburi, ma sicuramente farai un salto di conoscenza e, senza passare dalla logica, acquisirai un potere finora sconosciuto.

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Gemelli (21 Maggio -20 Giugno)

Parola chiave: Cerimonia del Pejote Il pejote provoca allucinazioni e visioni particolari che trascinano l’individuo in un regno spirituale permettendogli il contatto con le divinità. Le esperienze che vivrai nei prossimi mesi ti avvicineranno molto all’aspetto divino che è dentro di te. Non avrai bisogno di fare uso di droghe, semplicemente potrai lasciare andare la tua parte più razionale e quel bisogno di aggrapparsi all’aver ragione che ti impediscono di sperimentare il nuovo.

Cancro

21 Giugno – 22 Luglio Parola chiave: L’erborista L’erborista non è semplicemente colui che cura il corpo, anzi, soprattutto è colui che cura la mente e lo spirito. Possiede il dono della profezia, sa comunicare con il mondo degli spiriti e comprendere le loro parole. Da troppo tempo ti senti legato solo agli aspetti pratici della tua vita, con i problemi da risolvere e le banalità quotidiane. È giunto il momento di passare a un altro livello, di scoprire nuove forme di dialogo con l’ambiente che ti circonda: vedrai che quello che ti pesa si alleggerirà in un attimo.

Leone 23 Luglio - 22 Agosto

Parola chiave: Moqui Le pietre degli sciamani, o moqui, ripropongono la sintesi della dualità fra maschile e femminile, e aiutano ad allineare i centri energetici e ad aumentare la propria consapevolezza. Se pensi di aver bisogno di una pietra simile, sappi che le esperienze che sono in serbo per te nei prossimi mesi ti aiuteranno nello stesso modo, ti renderanno più forte e ti sosterranno nella connessione con la terra.

Vergine

23 Agosto - 22 Settembre Parola chiave: Il mago Con il proprio potere il mago può agire in maniera positiva o negativa, può guarire o far ammalare, può insomma cambiare le cose a suo piacimento. In certe situazioni sarà quindi ammirato, in altre temuto, e il bello è che è lui a decidere l’influenza che avrà sulla gente. Potrai anche te sperimentare questo potere, cerca però di essere consapevole dell’effetto che hai sugli altri, altrimenti rischi di combinare un bel po’ di guai.

Bilancia 23 settembre - 22 ottobre

Parola chiave: La danza del sole La danza del sole è stata dichiarata illegale, a causa della sua natura considerata


Scorpione

23 ottobre - 21 novembre Parola chiave: I riti di passaggio Nella vita di ognuno di noi ci sono dei momenti particolari che segnano il passaggio da un periodo all’altro: dalla fanciullezza all’adolescenza, al periodo adulto, alla maturità, alla vecchiaia… Gli indiani onorano questi momenti proponendo riti di passaggio che diano più valore all’evento. Quale periodo della tua vita vorresti avere onorato? Avrai nei prossimi mesi la possibilità di farlo, e anche se si riferisce a un periodo lontano, vedrai che avrà un effetto positivo sulla tua vita attuale.

Sagittario

22 novembre – 21 dicembre Parola chiave: Il calumet della pace Fumare il calumet della pace ha più scopi: rilassarsi, riconnettersi con gli anziani ormai passati per poter dare sacralità a qualsiasi patto sancito e stabilire accordi di pace duraturi. È giunto il momento in cui anche tu, caro Sagittario, potrai fare pace con il tuo passato e con chi ti sta intorno. Hai ancora qualche bega da risolvere, ma le stelle ti stanno per offrire l’occasione di superare ogni contrasto.

Capricorno

22 Dicembre -19 Gennaio Parola chiave: L’animale simbolo Quasi tutte le culture sciamaniche credono negli animali come alleati o aiutanti. Talvolta gli animali diventano protettori e guide per lo sciamano, sia nel regno fisico, sia durante il

viaggio nei mondi sottili. L’animale veniva anche dipinto sugli scudi e, a volte, tatuato sul corpo. Qual è il tuo simbolo, l’animale o l’oggetto che ti accompagna nella vita come angelo custode? Se ancora non sai qual è, vedrai che ben presto avrai occasione di individuarlo oppure, se già lo conosci, ne sperimenterai la potenza.

Acquario 20

gennaio- 18 febbraio Parola chiave: Gli Spiriti Per gli sciamani esistono due realtà, una visibile e una invisibile, e la percezione di ciascuna di esse dipende dallo stato di coscienza in cui ci si trova. La realtà non ordinaria quindi è percepibile solo modificando il proprio stato di coscienza. Le entità individuali incontrate nella realtà non ordinaria, gli spiriti, sono esse stesse reali. So che fai fatica a crederci, ma ben presto farai esperienza di una situazione in cui sperimenterai la presenza degli spiriti nella tua vita. Non averne paura, sono lì per aiutarti.

Pesci 19 febbraio - 20 marzo

Parola chiave: I mondi invisibili Per le popolazione native americane è possibile muoversi in altri mondi o realtà invisibili. Entrare in relazione con l’invisibilità vuol dire entrare in contatto profondo con la propria anima e avere accesso alle intuizioni profonde che da questo rapporto scaturiscono. Richiede un atto di disobbedienza: uscire dai luoghi comuni della mente, dagli schemi concettuali prestabiliti, da tutto ciò che si conosce – o si crede di conoscere – attraverso la ragione. Non si può pretendere di vedere l’invisibile e di conoscere il mistero cioè l’inconoscibile utilizzando gli stessi parametri del visibile. Sei pronto a disobbedire?

letiZia SGalamBro 57 anni, sagittario, counselor ed esperta di processi formativi. Crede che per ognuno sia già scritto il punto più alto dove possiamo arrivare in questa vita, e che il nostro libero arbitrio ci fa scegliere se raggiungere quel traguardo o meno. L'oroscopo? Uno strumento come altri per illuminare la strada.

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crudele, ed è diventata per gli indiani uno strumento di riappropriazione della propria cultura e identità. La danza infatti ripropone la crudeltà della natura, a fianco della sua bellezza, mettendone in parallelo gli aspetti opposti, senza dare giudizi di valore. Ciò che le stelle ti propongono nei prossimi mesi è proprio andare oltre ai giudizi, un po’ rigidi, che fanno parte della tua vita, per accogliere anche gli opposti e sperimentarti in maniera diversa.


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