Erodoto108 n°11

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ERODOTO108 numero 11 • estate 2015


ERODOTO108 NUMERO 11 SOMMARIO www.erodoto108.com

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eDITORIALe Andrea Semplici

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le Foto CHe Farete

Antonio Sansone, Maria Silvano Francesco Cito, Andrea Semplici

16 IL RACCOnTO

I bambInI dalle sCarpe blU Carlos Acosta Guerrero 20 VIAGGIO MeDITeRRAneO

VUelVo al sUr il sud fallisce, il sud rinasce, ti esalta e ti avvilisce

Foto di Carmelo eramo e Andrea Semplici Testo di Franco Arminio 40 erodoto reportage

FUoCHI d’aFrICa 42 OL DOYnO LenGAI / Tanzania la montagna dI dIo

Foto di Bruno Zanzottera/Parallelozero Testo di Cristina D’Antonio

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eL SOD / eTIOPIA DeL SuD la Casa del sale nero Giovanni Mereghetti

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eRTA ALe / DAnCALIA eTIOPICA Il rosso e Il nero Andrea Semplici

In copertina:Ol Doyno Lengai foto di Bruno Zanzottera/Parallelozero

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• Fondatore: Marco Turini • Direttore responsabile: Andrea Semplici • Redazione: Giovanni Breschi, Valentina Cabiale, Francesca Cappelli, Massimo D’Amato, Alessandro Lanzetta, Sergio Leone, Sara Lozzi, Isabella Mancini, Yuri Materassi, Andrea Semplici, Letizia Sgalambro, Marco Turini • Designer: Giovanni Breschi /Casalta • Web designer Allegra Adani erodoto108 registrata al Tribunale di Firenze Stampa Periodica al n.5738 il 28/09/2009


92 VISIOnI di erodoto

abbIamo Un’IllUsIone: Fare mostre In lUogHI InadattI TChAD Due acacie non troppo distanti DAnCALIA fra capanna e capanna LuCAnIA un cordino fra i cerri di Accettura 108 InCOnTRI Viareggio

Zona d’Impatto

Foto e testo di Giulia Landucci

RuBRIChe

• una foto una storia

36 LO SGuARDO DeL CAne.

LA CASA DeLLA PAeSOLOGIA A TReVICO Testo di Silvia La Ferrara Foto di Salvatore Di Vilio

• quaderni a quadretti

82 Le MuCChe Le hAnnO

RICOnOSCIuTe PeRFeTTAMenTe

Disegni di Giacarlo Iliprandi Testo di elena Dak

• il disegno

98 LA DAnZA DeL SALTARIn

ALL’0MBRA DeL CAFFè

Illustrazione di Robin Schiele Testo di Claudia Munera

• storie di libri

100 Le LACRIMe DeL LIBRAIO Testo e foto di Alberto Bile

• gli occhi di erodoto 102 InCOnTRO COn

AnDReA BOCCOnI

Intervista di Arturo Valle

• storie di cibo

112 BOZA, LA BeVAnDA

DeI GIAnnIZZeRI Isabella Mancini

Il sonno deI gIapponesI Foto di Andrea Rauch Testo di Valentina Cabiale

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Un treno per maCondo deglI appennInI Testi di Marco Aime e Alessandro Lanzetta Foto di Alessandro Lanzetta

120 JOhn, Che AVRà

nOVAnT’AnnI neL 2016 Foto di Andrea Semplici Testo di Maria nadotti

• storie di cimiteri,Ferrara 136 L’InSOSTenIBILe

LeGGeReZZA DI MICòL

Testo e foto di Sandro Abruzzese

• oroscopo

di Letizia Sgalambro

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114 SGuARDI Giappone

• storie di ritratti, John berger


eDITORIALe

LA STRAnA STORIA DI eRODOTO

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trana storia, questa di erodoto. Se conto gli anelli di età sul tronco del nostro albero metto assieme almeno tre anni. Sono pochi? Sono molti per una non-rivista così piccola e priva di soldi? Sono accadute cose importanti in questi mesi di primavera: erodoto è diventata un’associazione e, in un bel pomeriggio di sole, ci siamo finalmente incontrati con molti dei collaboratori. eravamo sotto i monti Pisani: grazie al festival Dèi Camminanti, che ci ha ospitato a Vicopisano. eravamo certi di aver imboccato un sentiero in salita, ma di avere anche le forze per poterlo affrontare. non ci sentivamo più soli. ed era (ed è) così: attorno a noi, da Palermo al Monferrato, da Milano a napoli, da Matera a Viareggio vi è una piccola pattuglia di ragazzi e ragazze che vogliono e sanno fare i giornalisti, i fotografi, i disegnatori. hanno passione, saperi nuovi, determinazione. erodoto può essere, per loro, un piccolo, invisibile palcoscenico sul quale provarsi. Lo credevamo davvero, dopo il finesettimana di Vicopisano. era stato stretto anche un patto, firmato con inchiostro di nuvole, con la sorprendente sperimentazione della Casa della Paesologia di Trevico. una complicità per raccontare l’Italia interna e il mondo più sconosciuto.

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on è andata come speravamo. Questa non-rivista è un quaderno aperto. non nasconde litigi e tensioni, difficoltà e stanchezze. I mesi di questa primavera, per noi, sono stati aspri e solitari. A volte litigiosi. e purtroppo i conflitti sono avvenuti via mail, mai una sana scazzottata. Crediamo di aver fatto qualcosa di piccolo e importante. Vogliamo continuare a farlo. Ma qualcosa si è inceppato. e non sappiamo ancora rimettere in moto una macchina affaticata e trovare una maniera di scrollarci di dosso una fatica malinconica. non abbiamo capito come riuscire a valorizzare i nostri collaboratori dispersi per l’Italia, come poter dar loro spazio e avere da loro quanto sanno fare. In un momento di stanchezza (‘devo proteggermi’), ci ha scritto una delle nostre collaboratrici migliori: ‘In erodoto non gira un soldo, e questo è un problema: non è un modo di stare fuori dal sistema, ma, secondo me, è un modo per annegarci dentro’. Mi sa tanto che è così. erodoto è un tentativo, una ricerca, un camminare. Senza avere risposte: abbiamo solo domande. Anche se questa è un’illusione zapatista un po’ retorica. In fondo, non cerchiamo nemmeno le risposte, ma una traccia da seguire e per questo abbiamo bisogno di chi ci legge, di chi collabora con noi, di chi sa di giornalismo e una non-editoria in questi tempi tecnologici. Soprattutto abbiamo bisogno di chi sappia cosa fare di questa storia. Dobbiamo trovare il divertimento che ci ha tenuto in piedi finora. Solo che siamo certi che sia necessaria altra gente, gente nuova nella non-redazione. Ma non sappiamo, né siamo d’accordo, su come farla ‘entrare’.


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a più di questi scrittori, giornalisti, disegnatori e fotografi conosciuti arrivano nei nostri computer altri regali: Giulia Landucci, giovane giornalista viareggina, ci fa scoprire il gioco del surf in Versilia (questo cerchiamo: qualcosa che ci sorprenda, mai avremmo immaginato che a Viareggio si facesse surf come in California); Alessandro Lanzetta, fotografo fiorentino, fa parte della nostra non-redazione: si è arrampicato nelle valli dell’Appenino tosco-emiliano grazie ai binari di un’antica ferrovia, la Porrettana. Anche queste ci piacerebbe: costruire la mappa dei treni nascosti, lon-

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eppure… ppure, erodoto ‘esce’. Viene letto, molto letto. Come sempre, ci chiediamo: ma sarebbe bello se fosse di carta? non abbiamo risposte, né la forza per farlo. esce sul web e raccoglie attorno a sé doni preziosi. Guardate i nomi di questo numero 11: Francesco Cito, uno dei migliori fotografi italiani; Franco Arminio, poeta irpino, cantore del Sud e dell’Italia interna; Salvatore di Vilio e le sue fotografie meridionali; Carlos Acosta, scrittore e medico messicano, ci fa arrivare un racconto dolcissimo dal nord del suo paese (come dire: non vi è solo narcotraffico su quella frontiera); Maria nadotti, saggista e traduttrice di John Berger in Italia, grande seminatrice di cultura nel nostro paese; Andrea Rauch che, da grafico celebre, è diventato, per noi, a Tokyo, fotografo-cronista; a Guido Cozzi, fotografo fiorentino, chiediamo, all’ultimo momento, il dono di una sola fotografia e con generosità ci consegna una preziosa immagine dell’eruzione del vulcano erta Ale; Robin Schiele, provetto disegnatore naturalista nicaraguense; Andrea Bocconi, scrittore di culto, che ci racconta dei viaggi e della scherma. e Marco Aime, uno degli antropologi italiani più attenti, che ci racconta del suo viaggio negli Appennini per incontrare Francesco Guccini. e che dire di Giancarlo Iliprandi, disegnatore e grafico che, novanta anni, trova il tempo per donarci magnifici acquerelli africani….non vi è stato nemmeno bisogno di convincerli a collaborare con noi: ci hanno regalato parole, foto, progetti, sogni. Abbiamo collaboratori non ancora maggiorenni e due grandi vecchi che sono felici di partecipare alla nostra navigazione. Per questo erodoto vorrebbe sopravvivere alle sue difficoltà.


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tani dall’Alta Velocità, vorremmo raccontare, come molti, un’Italia sconosciuta e solitaria. Lo fanno i paesologi, noi potremmo dare mano a chi sta cercando di cambiare le carte geografiche di questo paese. e ancora: Alberto Bile, reporter napoletano, che per noi va a conoscere, al Vomero, la libreria ‘IoCiSto’. La nostra Valentina Cabiale è calligrafa bravissima nel narrarci il sonno dei giapponesi sulla metropolitana. nelle prime pagine della non-rivista, troverete quattro foto: sono immagini che, se volete, se siete disposti a viaggiare, potrete scattare questa estate: a Siena, a Matera, fra i calanchi di Aliano o nelle montagne di Topolò. Raccontano qualcosa che accadrà nei prossimi mesi.

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poi c’è Carmelo eramo, fotografo e maestro ad Altamura, in Puglia. Ci ha fatto vedere un suo lungo lavoro fra i paesi della Lucania. Ancora paesologia. Paesi arresi, direbbe Franco Arminio. Paesi di vecchi (uomini) seduti sulle panchine. Le foto ci sono piaciute. ne abbiamo discusso a lungo. Carmelo sa raccontare, è attento alla sua terra, ne vede la fragilità nostalgica, ma noi siamo anche certi che il Sud, questi paesi del Sud, oggi, abbiano la forza di ribaltare il loro destino. In questi paesi ci sono ragazzi e ragazze capaci di sorprenderci. Capaci di baciarsi, di correre, di fare festa e sconfiggere solitudine e abbandono. Sarà sufficiente la loro spavalderia a contraddire gli scoraggiatori militanti che incontriamo nei bar dei paesi? e’ possibile un’alleanza fra gli uomini senza sorriso di Carmelo e la ribalderia dei ragazzi che si impossessano delle più belle feste della Lucania? non lo sappiamo, ma questo Sud ‘fallisce e rinasce, ti esalta e ti avvilisce’. noi vorremmo raccontarlo.

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poi ci sono storie che lasciamo lì. Per contraddirci. Perché vorremmo vederle moltiplicarsi: elena Dak è andata in Tchad, nel prossimo numero (ci sarà un prossimo numero?), ospiteremo il racconto della sua


transumanza assieme ai vanitosi mandriani Woodabe, e ha appeso i disegni di Iliprandi alle acacie della savana. I pastori africani hanno trovato il ritratto delle loro vacche in una straordinaria mostra aerea ed effimera. Mostre simili sono avvenute nelle foreste di Montepiano, nelle Dolomiti Lucane, e in Dancalia, in uno dei più inospitali deserti della Terra, ai confini fra etiopia ed eritrea. ecco, noi vorremmo fare questo: realizzare mostre nei boschi, nei deserti, in strada, sui traghetti, nei treni, sulle spiagge. Il nostro sogno è quello di sistemare fotografie su tante barchette (una foto come una vela) e, in una notte di inverno, farle salpare da una spiaggia del Veneto o della Calabria. Da Iesolo o da Capo Rizzuto. Vorremo compiere gesti inutili. Perché sono i più coraggiosi. e portare foto là dove sono state scattate, lontano dalle gallerie o dai musei, vorremmo ‘restituire’ i disegni alle genti che li hanno ispirati. Queste vorrebbero essere le Mostre di erodoto. Come vorremmo fare I viaggi di erodoto: i fotografi Bruno Zanzottera e Giovanni Mereghetti e la giornalista Cristina D’Antonio sono andati per vulcani africani. ne sono usciti reportage splendidi. e’ un’Africa di fuoco, quella che raccontiamo nelle pagine centrali della non-rivista. Vorremo tornare, con voi, in queste terre, vorremmo scalare l’Ol Doinyo Lengai in Tanzania e l’erta Ale in Dancalia. Vorremmo discendere il ‘vulcano a rovescio’ di el Sod nell’estremo Sud dell’etiopia. Vorremmo viaggiare assieme. Portarci ed essere portati nelle terre di cui pubblichiamo i racconti. e’ troppo sognare di poter realizzare mostre, organizzare viaggi, avere un luogo fisico dove ritrovarci, fare una non-rivista, ritrovarsi per imparare assieme dai migliori fotografi, scrittori e giornalisti? Contraddizione uesto è un editoriale malinconico nelle sue prime righe. Quasi una ‘cerimonia degli addii’. L’annuncio di un saluto. Ma poi, con le nostre contraddizioni, mettiamo in fila quanto abbiamo fatto in questi mesi (c’è anche il blog, molto letto, molto discusso, molto faticoso; c’è la pagina fb, molto cliccata, se questo ha un significato) e scopriamo così quanto lavoro c’è dietro a questa non-rivista. ne siamo orgogliosi e stremati. Vorremmo affidarvi queste non-pagine, prendetele, stampatele, abbandonatele sui vagoni dei treni, fatene davvero barchette, salite su un albero e lanciatele dall’alto della sua chioma. Fate mostre nei boschi (fatecelo anche sapere) e iscrivetevi ai viaggi di erodoto. non lasciateci soli. Inventatevi qualcosa. Scacciate la nostra malinconia. Impossessatevi della redazione (che avete studiato informatica a fare se non siete capaci di scoprire password). Leggete questo numero e, intanto, progettatene un altro.

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andrea semplici

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le foto che farete Festa della Madonna della Bruna Matera, 2 luglio Fotografia di Antonio Sansone



le foto che farete

Festival della Stazione di Topolò/Postaja Topolove Concerto della DobiaLab Orchestra Dal 10 al 19 luglio www.stazioneditopolo.it Fotografia di di Maria Silvano



le foto che farete

L’attesa del Palio, Siena 2 luglio Fotografia di Francesco Cito

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le foto che farete

Festival La Luna e i Calanchi “La danza di Caterina” Aliano 22-27 agosto Fotografia di Andrea Semplici

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il racconto di Carlos aCosta Guerrero Traduzione di Adriana Altamirano Tavole illustrate di enrico Guerrini

I bambInI delle scarpe blu ….La cosa più difficile fu

quando dovemmo saltare fra i pini. Vi atterravamo sopra con le nostre scarpe e le cime di quegli alberi ondeggiavano, sembravano cadere, ma poi si rialzavano. Siamo saliti anche sopra alcune statue, sopra la scuola e sui tetti di edifici governativi. E là, dalla strada, le ragazze ci inseguivano. E noi ridevamo di nuovo. Poi qualcuno disse:‘Andiamo alla stazione dei treni’… erodoto108 • 11

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Eravamo in cinque e andavamo in giro sempre assieme: Pay, La Quina, Cali, Gerardo e io. Avevamo dodici, tredici anni e ci stavamo svegliando. Età felice. La migliore epoca del mondo. Ridevamo a crepapelle, ci divertivamo come pazzi. Eravamo delle vere pesti, re dei marciapiedi in quella cittadina ai piedi della Sierra Madre Orientale. Pay era castano e con i capelli corti; Cali,basso e tarchiato; la Quina era il grasso del gruppo, Gerardo fu sempre il più lucido e ha sempre portato i capelli lunghi. Non ha mai smesso di averli così lunghi. Io ero come sono oggi: magro, capelli ricciuti e una manciata di lentiggini fra il naso e le guancie. Eravamo diversi, ma una cosa ci accumunava a tutti noi: eravamo poveri. Vivevamo in un quartiere situato vicino al centro della città, case di adobe, di fango e paglia, cielo di lamiera, strade senza marciapiedi, teatro delle nostre


scorribande e rifugio dove tornavamo dopo essere andati in giro a fare marachelle non più tanto innocenti. Il gioco e la risata erano i nostri migliori alleati: la vita ci appariva facile, e tutto, ci faceva ridere. A volte facevamo le ore piccole, ci sedevamo sull’uscio di casa e ognuno raccontava sogni e bugie. Cos’altro avrebbe potuto raccontare un ragazzetto di dodici anni a quattro coetanei, a tarda notte e addirittura senza luna?

Una domenica che eravamo in giro per le strade del centro, ci siamo accorti dell’assenza di Pay. Fra urla e scherzi siamo andati a cercarlo. Lo abbiamo scoperto di fronte alla vetrina del più prestigioso calzaturificio della città: stava lì, a bocca aperta. ‘Vieni, andiamo, scemo’, lo chiamammo ridendo. Ma Pay non batteva ciglia. Ci siamo accorti che stava succedendo qualcosa. O stava per succedere. E siamo rimasti in silenzio. Il nostro amico continuava a fissare la vetrina come un impossessato. Ci siamo avvicinati un po’ di più. Lì, nascosti, come se il venditore non volesse che i compratori le potessero vedere, c’erano i colpevoli del suo sbalordimento. Erano dentro a una scatola bianca, adornata con carta velina rossa. Erano nuove e brillanti. Adesso le vedevamo anche noi: siamo entrati in uno stato d’ipnosi, eravamo senza parole. Erano lì, uniche, e ci salutavano: erano un paio di scarpe blu. Nessuno disse parola, ci siamo guardati fra noi. Pochi mesi fa, a scuola, era corsa la voce che chi avesse avuto un paio di scarpe blu sarebbe stato felice. Erano l’ultima moda. Possedere un paio di scarpe blu significava attirare l’attenzione delle ragazze. Le scarpe blu erano… E noi lo credevamo. In quei tempi credevamo quasi a tutto quello che ci veniva detto. Nessuno di noi, mai, aveva visto scarpe come quelle, eravamo convinti che fossero magiche. Da quando l’uomo è uomo, ha sempre creduto in

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quello che nonvede. Cosa ce ne frega. Uno a uno, in fila indiana, come eravamo abituati a fare, siamo entrati nel negozio. Poche volte, forse nessuna, eravamo entrati così in un negozio. Essere povero emargina, si sa, e noi lo sapevamo. Ma quella volta fu diverso. Gerardo era di fronte, poi Cali e dopo la Quina. Con una botta sulla spalla ho svegliato Pay. Alla fine sono entrato anch’io. Il venditore di scarpe ci accolse con uno sguardo stranito e guardingo. Ma Gerardo è stato sempre molto furbo e, non mi chiedete come, convinse quell’uomo che eravamo un gruppo di nobili studenti, destinati a partecipare a una recita scolastica, diretta dalla professoressa di letteratura, la maestra Maria Elena, ‘che certamente lei conosce’. Gerardo continuò spiegando che avevamo bisogno di quelle scarpe blu per il nostro costume di scena e siccome nella vetrina ce n’era un paio…

Ancora oggi non riesco a spiegarmi come sia stato possibile convincere il venditore. Un dettaglio: non dimenticate che quel giorno era domenica e noi indossavamo, per quella ragione, i nostri migliori abiti. Forse questo ci aiutò.

Ognuno si mise le sue scarpe blu. Il venditore era meno diffidente, si addolcì. Le nostre facce divennero splendenti come il sole d’estate. E allora successe: prima che quell’uomo se ne accorgesse, ci siamo alzati e siamo usciti correndo. Attraversammo il cristallo della vetrina senza romperlo. Uno a uno, in fila indiana, come al solito. Corremmo per la strada, fra le macchine e la gente. Una volta lontani e al sicuro, Cali fece un salto e si ritrovò sopra un alto muro. Non avemmo nemmeno il tempo di pensare: saltammo anche noi e, in un attimo, eravamo di nuovo assieme. Abbiamo continuato a saltare di muro in muro in perfetto equilibrio. Alla fine ci ritrovammo sul tetto di una casa. Eravamo travolti dal ridere. Non riuscivamo a smettere. I visi erano accaldati dal vento. Là sotto, le ragazze della scuola ci guardavano ansiose, e urlando i nostri nomi, ci inseguivano. Non potevamo crederci. La Quina puntò verso la piazza e, di terrazzo in terrazzo, arrivammo fin là. Da lì, ci ritrovammo sugli alberi. Correvamo di fronda in fronda.

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La cosa più difficile fu quando dovemmo saltare fra i pini. Vi atterravamo sopra con le nostre scarpe e le cime di quegli alberi ondeggiavano, sembravano cadere, ma poi si rialzavano. Siamo saliti anche sopra alcune statue, sopra la scuola e sui tetti di edifici governativi. E là, dalla strada, le ragazze ci inseguivano. E noi ridevamo di nuovo. Poi qualcuno disse: ‘Andiamo alla stazione dei treni’. E ci siamo andati. Era alla periferia della città e tutto era in silenzio. C’erano dei vagoni fermi, abbiamo cominciato a saltarvi sopra, da un tetto all’altro, fino a quando il treno non cominciò a muoversi verso Sud. La locomotiva fischiò allegramente e il fumo bianco annunziò la partenza. Il treno, piano piano, prese velocità. E prima di ritornare nel negozio di scarpe, fra urli di gioia, riuscii a pensare: ‘Con questo treno se ne va la mia infanzia’.


Lo sguardo del venditore tornò duro. ‘Volete sapere il prezzo?’, ci disse colpendo con forza il nostro silenzio. Ci siamo guardati fra noi. Il Pay sorrideva come mai ho visto fare a un’altra persona. La Quina e Cali, tristi e mogi, già si slegavano i lacci delle scarpe. Gerardo provò a dire qualcosa all’uomo dalla voce aspra. Ed io sentivo un formicolio sullo sciame di lentiggini del mio viso. Ci siamo levati le scarpe. Era una domenica senza sole, come dimenticarlo. Abbiamo camminato verso i nostri rifugi, siamo tornati nel nostro quartiere. L’abbiamo fatto, come al solito, in fila indiana, e come sempre, senza fare parola. Niente, nessuna ragazza ci seguiva.

CARLOS ACOSTA GUERRERO, 60 anni, messicano, medico pediatra e poeta (non so in quale ordine mettere i suoi due mestieri). e’ nato ad antiguo Morelos, cittadina dello stato di tamaulipas, estremo nord-ovest del Messico. Un tempo il suo paese si chiamava tampemol. ha pubblicato numerose raccolte di poesia: Sucede a Diario, Escarbar, Espiral de Luz, Campanas en la Niebla, El Hombre de los Abrazos, Marotas, Décimas y El Zarzo de los Pemoles. Vive a ciudad Mante tamaulipas.

ENRICO GUERRINI, 38 anni, artista fiorentino. Pittore con una laurea in scenografia all'accademia di Belle arti di firenze e studi di comics.

ADRIANA ALTAMIRANO, 55 anni, è figlia del Nord ovest del Messico. È nata a ciudad Mante, nello stato di tamaulipas. Negli anni ’70 e ’80 ha viaggiato per il mondo. Si fermò a firenze, si sposò e adesso vive in questa città. Sorprese gli invitati al suo matrimonio cucinando pollo alle mandorle e peperoni e riso al vapore. da alcuni anni, è una blogger: appassionata di cibo, di cucina e di storia del pensiero umano, ne racconta le avventure in saporisaperi.blogspot.it.

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Rabbia, coraggio: siate benvenuti nei nostri cuori. Una volta nella nostra strada, ancora silenziosi, ognuno di noi è andato a casa sua. Guardai le mie scarpe, e poi quelle dei miei amici. No, non erano blu. Vide le case di adobe, con le finestre in legno e il cielo di lamina, la strada appena acciottolata, senza marciapiede; l’angolo senza luce elettrica, il vento e il suo polverone. Poi guardai le ombre di ognuno dei miei amici: erano già diversi. I loro capelli, i loro occhi, la loro maniera di camminare e di andarsene erano altri. Io stesso mi sentii diverso. Era la verità: quel treno ci aveva portato via la fanciullezza.


CARMELO ERAMO ANDREA SEMPLICI FOTOGRAFIe

un uomo si gode il sole a Grassano, uno dei paesi del confino di carlo levi. racconta: ‘I ragazzi se ne vanno e non tornano più. cosa tornerebbero a fare?’

Foto di Carmelo Eramo


FRANCO ARMINIO PAROLe

VIAGGIO MEDITERRANEO

un POeTA IRPInO e un FOTOGRAFO PuGLIeSe CI RACCOnTAnO IL LORO SuD

VUELVO AL SUR il sud fallisce, il sud rinasce, ti esalta e ti avvilisce


chi direbbe che questa è una processione? lo è. sono ragazzi in corsa. le radici, in realtà, sono ali. e’ la Festa. e’ la processione dei pastori, all’alba della festa di maria santissima della bruna. a matera. Ogni 2 di luglio

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Foto di Andrea Semplici




anziani a rotondella, ai confini della provincia di matera. un giorno della settimana. I due uomini sono rimasti fermi su quella panchina per ore. ‘Fotografo i vecchi perchĂŠ solo quelli ci sono nei paesi’.

Foto di Carmelo Eramo


Il sud è bipolare, il sud fallisce, il sud rinasce, ti esalta e ti avvilisce,

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impasta nel presente il suo passato,il sud corrompe, arranca: chiasso e silenzio, terre gremite, terre abbandonate, Napoli e Montaguto,la costa di Amalfi e gli Alburni,il Mediterraneo dei porti e il Mediterraneo interiore,il sud che va visto caso per caso, casa per casa, rapine antiche, rapine piemontesi, e rapine di oggi, quelle ispirate dalla lega, il sud che spreca e che si spreca, il sud di Cosentino e del vecchio di Greci che fa il caciocavallo e non è mai stato ad Avellino, il sud che ha venduto le vacche, il sud che ha il mito della pensione, il sud delle città medie, la camorra e la camorra d’ufficio, il sud di Cassano e Rossi-Doria, di Salvemini e Scotellaro, il sud che c’è a Trani e a Giugliano, il sud delle accidie, dei contadini che lasciano al vento le buste di concime, il sud dei centri commerciali, il sud con le radici in bocca, quello con i muscoli della modernità, con i paesi palestrati dallo sviluppo, il sud degli edifici comunali quasi sempre orrendi, il sud che si è abituato all’inefficienza, recrimina ma non si ribella, il sud dei sindaci che fanno i medici, il sud delle case chiuse, dei cimiteri sempre ampliati, il sud estivo e quello invernale, il sud alcolizzato, il sud che gioca d’azzardo, che legge Il Corriere dello Sport, che


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parcheggia il suv sui marciapiedi, il sud dei giornali e delle televisioni locali in mano a chi si occupa di costruzioni, (il padrone che è anche presidente della squadra locale), il sud dei genitori che hanno fatto la casa per loro e per i figli, che però adesso non ci sono, il sud scapolo e disoccupato, webmaster e spacciatore, il sud che non fa un lavoro preciso, è sempre inserito in qualche progetto pilota, il sud che emigra e non torna, il sud che resta ma volta le spalle alla piazza, il sud che vota ancora per De Mita, il sud che lascia i paesi sui monti e scende a valle e gira in macchina, il sud dei ragazzi che provano a tornare, i ragazzi che guardano alla terra, il sud attento, il sud dei percettivi, il sud che si abbraccia, che ha consumato la patina provinciale, il sud che non sa che farsene della grettezza e dei luminari dell’ingiuria, il sud che ammira, che inventa, che accoglie e unisce, il sud che cammina, mangia bene, bufale e friselle, i pomodori, e il pane, il grano e le pale eoliche, le discariche e il latte nobile del Formicoso, il sud degli alberi che si sono salvati dalle betoniere, delle piazze che si sono salvate dagli architetti, il sud nascosto, il sud rimosso, il sud che c’è dentro il Gargano, nell’oriente dell’Irpinia, il sud che ha l’oceano davanti a Tropea, il sud che sa incrociarsi agli stranieri, il sud che ha smesso di fare case e lasciarle a metà, il sud che pulisce davanti alla porta, che non passa col rosso, che ha imparato a fare l’olio e il vino, che fa l’amore e gioca a carte, il sud degli orti e delle galline, il sud che fa teatro e fa poesia, il sud che scrive e produce canti e filosofia, il sud dei rancorosi, il sud degli estremisti della moderazione, i leccaculo, i parassiti, i furbi, quelli che ti vogliono inculare


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senza che tu te ne accorga, il sud senza miracoli e senza norma, il sud che non saluta i suoi vecchi, il sud che non crede e non spera, che si vende il voto e l’anima a vecchi notabili miopi e ingordi, il sud con la pancia, coi piedi puzzolenti, il sud che fa i compleanni, le cresime, i matrimoni, il sud delle macchine grandi e degli occhiali da sole, il sud che insegna al nord, che lavora nelle poste, il sud che fa il carabiniere, il sud dove non si può salire ma si può solo sprofondare, il sud che si lamenta perché non c’è niente e perché non c’è la comunità di una volta, il sud che si diverte a parlar male di tutti e di tutto, il sud che va dai medici e non li trova, il sud che guarda al nord e non si guarda dentro, il sud che non ha più capitale, che non ha più centro, il sud del nuovo umanesimo delle montagne e della desolazione che a volte è anche beatitudine, il sud che sa diventare decrepito, che sa passare il tempo, il sud che deve farla finita con gli imbrogli e che non deve più mandare imbroglioni in Parlamento, il sud che sa ammirare, il sud che deve portare l’Italia dentro il suo mare, il sud del mito, computer e pero selvatico, malattia e cura, sagra del futuro.


Il maggio di accettura nel giorno della pentecoste. Festa degli alberi nelle dolomiti lucane. I ragazzi della cima stanno per trasportare l’agrifoglio fino al paese. e’ un giorno di baci appassionati.

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Foto di Andrea Semplici


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l’uomo usciva da un bar di Valsinni, paese del potentino. Indossava una giacca di velluto, i capelli quasi impomatati. Gli occhi malinconici. ‘mi è apparso come un gentiluomo’.

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Foto di Carmelo Eramo


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I cimaioli di accettura, paese delle dolomiti lucane. e’ la domenica della pentecoste, giorno della Grande Festa del maggio. I ragazzi, ebbri di felicità, vanno a prendersi un agrifoglio che dovrà unirsi a un cerro nella piazza del paese.

Foto di Andrea Semplici


Foto di Carmelo Eramo

‘Ho seguito quest’uomo a lungo. a un certo punto si è fermato sotto quell’arco murato. e’ rimasto lì per più di un’ora. sono convinto che se torno a Grassano lo trovo ancora lì’.


I ragazzi della cima, ad accettura, si fanno le magliette per il giorno della Festa. Queste ragazze erano straordinarie, leggete con attenzione: se ripassate fra cento anni ci trovate sempre qua. ci mettono anche il punto finale. ci stanno dicendo: ‘Questo è la nostra terra, la nostra anima le appartiene’.

FRANCO ARMINIO, 55 anni, nato a Bisaccia in Irpinia d’oriente. ha pubblicato una ventina di libri, tra versi e prosa. collabora con “il Manifesto”, e " il fatto quotidiano". È direttore artistico del festival di aliano: la luna e i calanchi. ha aperto assieme a molte persone la casa della Paesologia a trevico.

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CARMELO ERAMO, 41 anni, maestro di scuola e fotografo, pugliese di altamura. Insegna ai bambini diversamente abili. comincia a fotografare a venti anni. da tre anni viaggia, con la macchina fotografica, alla scopertariscoperta della sua terra. Un viaggio ancora in corso, forse senza fine. Il suo sito: www.carmeloeramo.com

Foto di Andrea Semplici



UNA FOTO

UNA STORIA

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TESTO DI SILVIA LA FERRARA FOTO DI SALVATORE DI VILIO

LO SGUARDO DEL CANE


LA CASA DELLA PAESOLOGIA A TREVICO


I

Si viene a Trevico per visitare il cielo, per guardare altri paesi da lontano. Non è qui l’imbroglio dei nostri tempi, non è qui il Sud dell’incuria e dell’inedia, questo è un paese sobrio e semplice come una sedia. Franco Arminio

l cane bianco non è di Trevico; era venuto il giorno prima da Vallata, il paese sotto, dove stanno bancomat, supermercato e casello dell’autostrada. C’era un sole bellissimo, il 7 dicembre e un’aria purissima ed eravamo andati a camminare per vedere Trevico da lontano; è li che lo abbiamo incontrato, in campagna, ma poi c’erano i cacciatori che sparavano e siamo scappati sulla statale. E il cane bianco sempre dietro. Così poi è salito con noi sul tetto d’Irpinia, a 1.100 metri, per la festa di apertura della Casa della paesologia.

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La parola paesologia nel dizionario del T9 non c’è e nemmeno in quello di word o di open office e comunque è una parola che non riesci mai a scriverla giusta e pure quando la dici ti sbagli perché la “e” si piazza dove capita. Mio padre, ad esempio, dice paseologia e nun ce sta niente ‘a fa.

L’inventore della paesologia è Franco

Arminio che nella foto sta al centro di fianco al cane bianco con la reflex in mano. Franco vive a Bisaccia, paesone di fronte a Trevico, sull’altopiano del Formicoso. Un po’ fa il poeta e lo scrittore, un po’ il maestro elementare, un po’ il paesologo in giro per l’Italia interna, quella dell’osso, come lui la chiama, nei posti dove – dice – si sente la ferita e la piaga leopardiana è ancora aperta. Capire cosa sia la paesologia è ininfluente in fondo e comunque è affare semplice se si è poeti. Anche passivi, non praticanti, pigri o indolenti, ma attenti ai dettagli dei posti, degli animali, delle persone e delle parole. Arminio è prolifico e generosissimo: le sue poesie e prose musicali sono appese ovunque sulla rete. Cercatele e seguite le tessiture di questo ragno adolescente, ruvido, sognante e lucidissimo. Andate in giro. Non serve altro, e sarete paesologi anche voi, come tanti nel mondo che lo sono senza saperlo e non importa. Alcuni si trovano da qualche anno in


SILVIA LA FERRARA, 48 anni, irpina, romagnola e da più di vent’anni emiliana. Insegna, viaggia e quando può canta il gregoriano.

nella nebbia, prendono il fresco e l’aria sotto gli occhi di un cane bianco. E sotto gli occhi di Salvatore Di Vilio, il fotografo della paesologia, che ha trovato i pensieri in uscita dalle teste mentre magari guardava laggiù tra la nebbia, sotto l’arco di Port’Alba, dietro al quale sta la Casa, sopra all’ambulatorio del medico e di fronte alla Farmacia. È un policlinico, altro che San Giovanni Rotondo. Si guarisce a Trevico? O ci si ricorda meglio di essere malati? Sono stati documentati casi nei quali il soggetto, sollevandosi più vicino alle nuvole, sente qualcosa che gli si abbassa di dentro, come se l’ego scendesse un po’ giù, al livello del cane. Arminio dice spesso questa cosa della postura del cane; dice che è rivoluzionaria perché ci decentra da noi stessi. Quando siamo ripartiti il 9 dicembre, il cane bianco ci aspettava davanti alla porta e ci ha accompagnato per un po’. I pochi rimasti hanno detto che poi non l’hanno visto più.

SALVAtoRE DI VILIo, 58 anni, fotografo campano, vive e lavora a Succivo, in Terra di Lavoro, provincia di Caserta. Ama raccontare che, stanco dell’architettura e degli architetti, è nato una seconda volta con la rolley di suo zio. Spinto da curiosità umana, si diletta fotografando feste, riti e persone nei loro luoghi. Il suo lavoro abbraccia la fotografia a 360°, con ironia, passione e cazzeggio, cercando di campare. Per saperne di più: www.salvatoredivilio.it

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estate ad Aliano, in Lucania, al paese di Carlo Levi dove per una settimana danno vita a un festival in cui si veglia il mondo stremato con clemenza e arte. Nell’ottobre scorso hanno fatto un’associazione che si chiama Comunità provvisorie e hanno deciso di cercare casa in uno dei paesi vuoti, disattesi e marginali del Sud interno. Ci sono anch’io tra questi e mi sono commossa l’8 dicembre quando abbiamo aperto la Casa della paesologia proprio nel mio paese, Trevico. C’era un sacco di gente a Casa Scola (che Ettore, nato a Trevico, ha donato al comune) e oggi, dopo solo otto mesi, gli associati sono più di 150. Da tutta Italia e dalla Francia, persino. Eccoli lì, che si sparpagliano per il paese intorno ad Arminio e al cane bianco, nella nebbia che può arrivare sempre tutto l’anno e ti fa scordare colori, forme e pensieri. Che li fa diventare confusi i pensieri, sparpagliati, io non ci vedo delle persone qua, io vedo i pensieri che abbiamo nella testa che finalmente se ne escono e si disperdono, si allargano allegri


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eRODOTO RePORTAGe

FUO D’AFR

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CRISTInA D’AnTOnIO GIOVAnnI MeReGheTTI AnDReA SeMPLICI BRunO ZAnZOTTeRA

eRTA ALe eL SOD OL DOYnIO LenGAI

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OCHI RICA


FUoCHI d’aFrICa/Tanzania

OL DOYnO LenGAI

FOTO DI BRUNO ZANZOTTERA /PARALLELOZERO TESTI DI CRISTINA D’ANTONIO

REPORTAGE

FOTOGRAFICO

LA MONTAGNA DI DIO

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L’Ol Doinyo Lengai è la montagna sacra dei Maasai, il vulcano più giovane della Rift Valley. Abitato da divinità opposte, generose e vendicative: possono donare pioggia e siccità. La sua lava è liquida, ‘fredda’, viscosa, può essere raccolta con un cucchiaio. Mille e settecento metri di dislivello, un cammino notturno. Si sale a mezzanotte…





Lake

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natron Camp, campo tendato all’estremo nord della Tanzania. Il Kenya è appena al di là del lago di soda, che a tratti odora di uovo marcio. Rosa di fenicotteri, vermiglio per l’alga che attira gli uccelli. Questo è l’ombelico del Maasailand, la terra dei Maasai. Il punto di partenza per la salita all’Ol Doinyo Lengai. Il Vulcano di Dio. 2898 metri di altezza, segnala la nostra cartina, un dislivello di 1.750 metri. Sale dal fondo stepposo della Rift Valley, gigantesca incisione lunga seimila chilometri, disseminata di laghi, che corre dal mar Rosso al Mozambico, attraversando l'ovest del Kenya e la Tanzania. una meta da appassionati, la montagna sacra dei Maasai. La vogliono abitata dal dio eng’ai. eng’ai-narok, il nero, il buono, si muove con il tuono e porta pioggia e prosperità. eng’ai-na-niokye, il rosso, il vendicatore, che è nel fulmine e produce carestia. Il bene e il male: due facce che convivono senza negarsi. Almeno sull’Ol Doinyo Lengai. Ci arrivano i pochi viaggiatori che non vengono risucchiati dalla forza centripeta dei parchi del nord, Manyara, ngorongoro, Serengeti. Ci viene chi ha orecchie per il richiamo dei vulcani. e lui è unico al mondo: ha 370 mila anni, il più giovane della Rift Valley, ed è ancora in attività. Invece che lava basaltica, produce lava di carbonite di soda. Fredda, si fa per dire, perché non supera i 530 gradi centigradi. A viscosità bassissima, è liquida come olio. Cosa significhi, si capisce una volta guadagnato il cratere. Con tutta la calma necessaria, per favore. Raggiungere il lago natron è già, di per sé, uno spostamento dai luoghi comuni. La strada è bella, e ti fa dimenticare in fretta il viola smagliante dei fiori di jacaranda e il profumo pungente del mango selvatico. I ragazzini hanno il viso tracciato di gesso, segno che hanno subito la circoncisione, rito che segna l’ingresso nell’età adulta. La poca ombra è data dal baobab e da cactus che assumono forme sfacciate. Il resto è polvere ed erba alta, oro chiaro e scuro, nubi che cambiano il contorno alle cose. e alla logica che di solito ci appartiene. Si parla di una storia diffusa dalla Bbc: la polizia locale ha arrestato sei persone per aver cacciato le stre-



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ghe, e averne venduto la pelle a trafficanti del Malawi e dello Zambia. un guadagno netto di un certo interesse: da 2.400 a 9.600 dollari americani, a seconda dell’età della pelle. un patrimonio, quando il reddito medio è di 300 dollari. Streghe? Quali streghe? Le donne. Le donne vecchie. Quelle con gli occhi rossi. Sabine, la cuoca del campo, è giovane, florida e con gli occhi in salute. eppure è invasa dagli spiriti. Ce li fa ascoltare una sera, dopo cena. I maschi atterriti si tengono a distanza, le femmine sono convinte che sia tutto vero e giusto. Allora diventa chiaro: il senso dell’intangibile appartiene alle donne. Streghe o non streghe, questo potere è solo loro. L’appuntamento per la scalata al vulcano è al buio. La partenza dalla base dell’Ol Doinyo Lengai è organizzata per mezzanotte. Fa più fresco. e non vedi quanto è lungo il sentiero. Moses, uno dei portatori, ha la sua opinione. Quando sarai in cima, con la vallata ai tuoi piedi, potrai finalmente dire: dio, che spettacolo. Fissi il nero del cratere, l’unico lembo di cielo non trapuntato di stelle, e anticipi: dio, ma che fatica. La traccia dei passi di chi ti ha preceduto assume una pendenza preoccupante. Fendi l’erba, un piede dietro l’altro. I Maasai impiegano quattro ore per la vetta. un gruppo di francesi, guide alpine esperte, il giorno dopo, hanno camminato per sei ore e mezza. Chi non è avvezzo può impiegarci il doppio. Tanto vale mettere da parte l’ansia da prestazione e concedersi il tempo necessario. Salita e discesa valgono come esperienza di per sé: sei un granello di polvere, ma hai l’intero universo a portata di dita. Arranchi fino all’ultimo tratto: ripido come un’espiazione, va affrontato con la luce del sole. Se ce l’hai fatta da solo, e non hai preferito l’elicottero che parte da Arusha, è più che una sorpresa. Katia Krafft, fotografa e appassionata di eruzioni, insomma un’autorità in materia, chiamava questo posto il suo vulcano giocattolo, dalle piccole colate, abbastanza fredde da poter essere raccolte con un cucchiaio. Il cratere, colmo di nebbia all’alba, borbotta e sputacchia. La lava assume tonalità vive solo al buio; per contrasto. Altrimenti è nera. Per poco: l’aria fredda la trascolora velocemente. Facendola diventare marrone, grigia e poi bianca come zucchero. una glassa che si spalma tra i coni, mai simile a se stessa. Chi sale non sa infatti cosa aspettarsi: parossismi, alte fontane, laghetti. Bolle gigantesche, create dall’anidride carbonica presente nel magma, che si dissolvono come fossero di sapone. hornitos che collassano sotto il peso delle gocce di pioggia. Schizzi improvvisi, innocui solo all’apparenza. Ma che importa? Adesso ci sei, e il vulcano ti appartiene. I Maasai preferiscono raccontare che ci vengono per soldi. Lavorare come accompagnatore è una fortuna. Quindi non vogliono parlare di dio, non con te,




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che potresti prenderti gioco delle loro convinzioni. non si sacrificano più capre a eng’ai, dicono. Ci si accontenta di sfamarlo con l’erba. Ma lascia tempo al tempo, lascia che la confidenza abbia la meglio sui segreti, permetti di essere tu l’oggetto del loro studio, fatti toccare, conduci conversazioni surreali, ognuno nella propria lingua, e la storia cambia. Sapendo che è un popolo da avvicinare con prudenza. non è cambiato molto dall’incontro con uno dei primi uomini bianchi che decise di inoltrarsi fin qui. Ludwig Von Krapft era un missionario luterano. nel 1860 diede alle stampe il resoconto dei suoi viaggi. Dei Maasai raccontava che vivono di latte, di burro, di miele e di pochissima carne. Che provano un vero disgusto per l’agricoltura, perché convinti che i cereali indeboliscano il fisico. Che non toccano frutta e verdura. Che agiscano con l’appoggio di eng’ai, che ha concesso loro tutto il bestiame del mondo. Ancora oggi, il furto di mandrie è l’assoluta normalità: se ogni anno qualche migliaio di capi cambia padrone, lo si deduce dal sovrapporsi delle marcature, o dal taglio alle orecchie degli asini, sfrangiate come sciarpe. Resta l’uso di colpire con una freccia la giugulare della vacca: il sangue, raccolto in una zucca, viene dato da bere alle donne gravide e ai malati. e viene ancora praticata l’escissione: nei villaggi come nelle città, anche se i genitori vantano un grado di istruzione superiore. Alla tradizione non si comanda: la ragazza che non passa sotto la lama del coltello resta bambina, e in quanto tale non troverà mai marito. La differenza, rispetto al passato, sta nel suono delle radioline e nel vorticare sabbioso delle biciclette. Due beni di consumo che la gente si concede appena messo assieme qualche soldo. Magari con le piastrelle di sale infilate nei sacchi che aspettano, cippi preziosi lungo la via, gli allevatori di altre zone. Sacchi di sale che servono ad arricchire la povera alimentazione delle mucche.


BRUNO ZANZOTTERA, 56 anni. Nel 1979, compie il suo primo viaggio africano a bordo di una vetusta Peugeot 404 che lo porterà, attraverso il Sahara, sulle sponde dell’oceano atlantico. comicia così la sua avventura di fotoreporter. Nel 2008 ha creato, con alessandro gandolfi, davide Scagliola e Sergio ramazzoti, l’agenzia fotografica Parallelozero. Nel 2014 realizza il suo primo documentario Il gioco delle perle di vetro, sull’uso africano delle perle di vetro veneziano. collabora con le testate: Geo france, Geo Int., National Geographic Italia, VSd, figaro mag, la vie, focus, elle, Gioia, oggi, Itinerari e luoghi, Jesus, africa

CRISTINA D'ANTONIO, 52 anni, milanese. ex molte cose, attualmente in forza a GQ. da quella volta sull'ol doinyo lengai è passato un certo tempo, ma fantastica ancora di tornarci. ci sono storie che ti entrano in testa più di altre, e questa è una di quelle.



FUoCHI d’aFrICa

REPORTAGE FOTOGRAFICO

eL SOD / eTIOPIA DeL SuD

GIOVANNI MEREGHETTI

LA CASA DEL SALE NERO

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un pozza d’acqua salmastra, profonda fino a cinque metri. Ogni giorno uomini borana vi si immergono per estrarre il loro ‘oro nero’


una pozza d’acqua salmastra densa come la pece e profonda fino a 5 metri


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kel So

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dche in lingua amarica significa “casa del sale”, è il nome del villaggio posto sul bordo del cratere di un vulcano spento. Alcuni locali lo chiamano “black hole”, buco nero. Il perchè lo si intuisce guardando il paesaggio dal ciglio scosceso adiacente le ultime capanne del villaggio. un immensa voragine di 150 metri di dislivello con al centro una macchia nera. una pozza d’acqua salmastra densa come la pece e profonda fino a 5 metri dove quotidianamente i Borana, gli abitanti del posto, si immergono per estrarre il loro “oro nero”. Attorno alla cavità infernale si estende una vasta pianura, ma per conoscere la vita e vedere da vicino un nuovo modo di affrontare il quotidiano bisogna proprio come fa Dante - incamminarsi verso il basso, verso l’origine, per poi risalire carichi di speranza. Questo angolo di mondo è raggiungibile percorrendo il nastro di asfalto perfettamente diritto, che dalla cittadina di Yabelo - nel sud dell’etiopia - porta verso il confine kenyota. Questa strada - che si stringe sempre più all’avvicinarsi del Kenya - è una discesa impercettibile, quasi un imbuto che porta ad un oasi medievale. Si può notare la leggera pendenza solamente quando si percorre la strada in senso contrario e si sente il motore del fuoristrada che soffre e a tratti arranca. L’arrivo di uno straniero al villaggio suscita sempre una certa curiosità tra i locali, forse più per interesse economico che per altri motivi, ma è normale. Si sa che in Africa è così, che il “bianco” è visto quasi sempre come un ricco da “spennare”. Il villaggio si unisce per studiare lo straniero, per capire da dove viene, dove sta andando e soprattutto se è al corrente di come si vive a queste latitudini.

I Borana sono prevalentemente di religione islamica, anche se a parte la moschea - di tradizione islamica - al villaggio c’è ben poco. Rimane la fede interiore, che guida i lavoratori e protegge le famiglie dal pericoloso e difficoltoso quotidiano. Agli stranieri che vogliono scendere nel cratere fanno


pagare una tassa. Pochi birr, che sostengono andare alla comunità del villaggio per opere comuni. nel Continente nero sono sempre molto abili ad inventarsi le tasse per la sopravvivenza, che spesso finiscono nelle tasche di pochi lasciando il resto della popolazione, come sempre, a tendere la mano e a elemosinare qualsiasi cosa. La pozza d’acqua sul fondo del cratere nasconde la ricchezza dell’intero villaggio: il sale. L’operazione di estrazione non è per nulla semplice, i giovani “salt man” si devono immergere nell’acqua salata di colore nero e con l’ausilio di un bastone rudimentale, staccare dal fondo grosse quantità di fango melmoso dove è contenuto il sale. un’immersione verso il “cuore nero” della terra, capace di donare il necessario per sopravvivere.

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Per vedere da vicino il lavoro di questi uomini bisogna scendere fino alla pozzanghera. Il tragitto non è facile, la mulattiera è ripida e scivolosa, le pietre levigate sono spesso ricoperte di terriccio, bisogna fare attenzione a dove si mettono i piedi per evitare di scivolare. Si incrociano spesso somarelli, che carichi all’inverosimile, trasportano i sacchi contenenti il materiale da raffinare, fino ai depositi siti nel villaggio. Come nella Divina Commedia il viaggio richiede l’appoggio di una guida capace di mostrare la giusta via per la conoscenza. Ma il nome Virgilio suona strano a el Sod. Marcos, un giovane che fino a cinque anni fa faceva questo mestiere, fa da guida nella discesa e in un quasi perfetto inglese racconta la sua storia e quella degli altri ragazzi che ogni giorno si spezzano la schiena facendo questo infame lavoro. Marcos si svegliava presto la mattina, le prime ore della giornata sono meno calde, ma avvicinandosi alle ore centrali della giornata la temperatura può salire fino a 45-50 gradi. Il cratere è come un immenso catino, sul fondo non circola aria, si soffoca. Si scende l’impervio sentiero, mentre la chiacchierata continua tra le informazioni generali riguardanti i Borana, gli estrattori di sale e la sua vita personale. Marcos per anni ha fatto questo mestiere, ma il suo


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sogno era quello di poter andare ad Arba Minch per poter studiare economia all’università. Purtroppo non ce l’ha fatta, ma tale è stata la passione, che ora si occupa della parte amministrativa del consorzio locale che gestisce il commercio del sale. Il sentiero che si percorre per arrivare sul fondo del cratere è molto animato: si incontrano ragazzini che conducono gruppi di asini, bambini scalzi che giocano a fare i grandi, anziani che risalgono appoggiandosi a bastoni ricavati dalle canne di bambù, giovani dai fisici statuari che, non avendo altre scelte di vita, sono inesorabilmente finiti a fare i “salt men”. Marcos è molto discreto, quando nota difficoltà smette di parlare e aspetta che passi il fiatone, poi continua il suo racconto. Dice: “ho letto che in europa l’età media è notevolmente superiore ai settant’anni, forse sarà la qualità di vita che avete. Voi mangiate tre volte al giorno, la vostra alimentazione è ricca di proteine, il clima vi aiuta molto, l’acqua da voi non manca mai ed è pura. Qui a el Sod e nei villaggi limitrofi la vita media di un uomo non supera i cinquant’anni. Le donne, se non fanno molti figli, vivono un po’ di più. non credo sia solo un fattore legato alle condizioni di vita e a quelle lavorative. Da queste parti la mortalità infantile è ancora alta, molte malattie non vengono curate per mancanza di strutture adeguate. La malaria viene ancora curata con erbe e piante endemiche. Da noi non esistono strutture sanitarie, la più vicina clinica è a Yabelo, 100 chilomentri a nord da qui”. e’ quasi passata un’ora da quando è iniziata la discesa verso il centro del cratere, il terreno inizia a farsi melmoso e si inizia a sprofondare con le suole delle scarpe. I Borana hanno lo stesso sangue di Abebe Bikila, il campione olimpionico che nel 1960 vinse la maratona di Roma correndo scalzo. Loro l’impervio percorso che porta in fondo al cratere lo fanno a piedi nudi, senza mai inciampare, senza mai scivolare, sono rimasti dei veri camminatori, come i loro avi. Procedono con la forza di una locomotiva, indenni all’apparenza, nascondendo dietro i loro occhi la stanchezza e la pesantezza del lavoro. Oggi la pozza nera è animata più del solito, il cielo è nuvoloso e la temperatura non è soffocante. Gli operai sono tutti giovani, Marcos dice che il più vecchio ha 28 anni.



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Bisogna essere in ottime condizioni fisiche per fare questo lavoro, ma soprattutto bisogna essere esperti nell’immergersi in apnea ad occhi chiusi e scavare sul fondo aiutandosi con un bastone. Ci sono anche alcuni ragazzini, per loro è ancora un gioco farsi galleggiare nell’acqua salata, non sanno ancora che questo, un giorno, potrebbe essere il loro lavoro, la loro condanna di vita. I giovani che fanno questo lavoro hanno i piedi cotti dalla salsedine, le mani bruciate, il petto e il viso tinto di nero. e’ un lavoro disumano che si tramanda da padre in figlio. Chi finisce nel girone dantesco di el Sod, difficilmente ne esce, la sua vita sarà segnata per sempre, come un marchio a fuoco. Marcos dice che i più abili si immergono fino a 5 metri e stanno in apnea fino a 30 secondi, fino a quando la salinità e la densità dell’acqua li respinge verso la superficie. Raggiungono la riva tenendo tra le braccia il blocco di sale misto a fango appena pescato, come fosse un tesoro di valore inestimabile. una volta posato sul bagnasciuga ritornano in acqua e si rituffano verso il fondo oscuro e silenzioso. Dieci ore al giorno in cambio di pochi birr, quelli appena sufficienti per aiutare la famiglia dei genitori o quella appena creata con una donna del villaggio.


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Il “pescato” è una sorta di pasta con le sembianze del catrame, quello che poi, una volta lavorato e raffinato, diventerà una parte del sale dell’etiopia. L’altra parte viene prodotta dagli Afar, nella lontana e aspra Dancalia. Dal cratere di el Sod ogni anno vengono estratti 60.000 chilogrammi di sale, tutto da insaccare e trasportare fino al villaggio a dorso d’asino. I poveri asini vengono caricati all’inverosimile e guidati dai ragazzini o dagli anziani, risalgono il difficile sentiero fino alla cima. La strada di ritorno è faticosa, se non c’è vento fa veramente caldo, si soffoca. Spesso gli asini scivolano e cadono. Fortunatamente non ci sono precipizi, basta solamente l’abilità del conduttore che guida la carovana per rialzarli e continuare il cammino verso casa. Marcos è molto legato alle tradizioni del proprio villaggio, è nato qui e tutt’ora vive in una famiglia numerosa. Sono otto fratelli, tutti maschi, tutti lavorano impiegati nell’estrazione del sale, alcuni nel cratere, altri invece si occupano della raffineria e dell’imballaggio. Si risale lentamente, a volte piegando la schiena e aggrappansi alle pietre come appiglio, una sorta di arrampicata verso la speranza, un cammino verso il lon-



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Il “pescato” è una sorta di pasta con le sembianze del catrame, quello che poi, una volta lavorato e raffinato, diventerà una parte del sale dell’etiopia.


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tano paradiso. Ma si sa, la storia insegna che dall’inferno la salita è quasi impossibile. La cima diventa un miraggio, ma seguendo gli asinelli ci si concentra più a non calpestare gli escrementi che lasciano sul sentiero e si è un po’ distolti dalla fatica. Si impiegano quasi due ore per arrivare al villaggio, dove ad aspettarci ci sono i bambini con i secchi pieni di bottigliette di Fanta e Coca Cola. Marcos dice che spesso passano gruppi di turisti, scendono il sentiero, fanno le foto ai lavoratori, risalgono il cratere e scompaiono nel nulla da dove sono venuti. Vengono perché ci vedono come fenomeni da baracconi, ci osservano con superficialità, senza entrare nel dettaglio, senza voler capire le nostre tradizioni, la nostra vita, il nostro inferno quotidiano. noi cerchiamo di approfittare di questa “usanza bianca” offrendo loro qualche souvenir, chiedendo qualche t-shirt o semplicemente, i bambini, allungando la mano, chiedono qualche birr in cambio di una fotografia. nonostante ciò non ci sentiamo inferiori a voi bianchi, siamo semplicemente diversi. Voi avete la vostra frenesia e con la vostra testa vedete il mondo e la vita in modo differente. noi cerchiamo di mantenere le nostre tradizioni e ce le tramandiamo di generazione in generazione, da sempre. Anche l’ultimo asinello col suo carico di sale ha raggiunto la cima del cratere, Marcos inizierà ora il suo lavoro. Ci sono i sacchi da contare e pesare, bisognerà pagare i ragazzi che hanno estratto il sale e organizzare il lavoro del giorno successivo. Domani a el Sod sarà un altro giorno, uguale a quello di oggi, uguale a quello di ieri. uguale a quello di tanti anni fa.


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GIOVANNI MEREGHETTI 52 anni, fotogiornalista milanese. free-lance dal 1980. ama i reportage geografici e sociali. ha viaggiato dalla cambogia al Sahara. ha documentato l’immigrazione a Milano negli anni ’80 e il lavoro minorile in Malawi. autore di numerosi libri. fra gli altri: ‘Nuba’ per Bertelli; ‘da capo Nord a tombuctou…passando per il modo’ sempre per Bertelli e ‘Veli’ per les cultures.


FUoCHI d’aFrICa erta ale DAnCALIA eTIOPICA

REPORTAGE

FOTOGRAFICO

IL ROSSO E IL NERO

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IN CAMMINO LUNGO SENTIERI DI LAVA

ANDREA SEMPLICI

L’erta Ale è uno dei quattro vulcani al mondo sempre in attività. un lago di lava mugghia nella sua caldera. e’ uno degli spettacoli più straordinari del pianeta Terra. Il racconto della salita fino al fuoco.‘Grazie per la meraviglia’.





L’erta Ale nasconde la sua terribile magnificenza dietro un profilo senza asperità. non assomiglia a un vulcano. non lascia intravedere una minaccia. e’ come se invitasse a salire.

…I nostri

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passi sono lenti. La luna è alta nel cielo. La lava è uno specchio metallico che riflette la sua luce. C’è incanto in questa salita. ‘La montagna che fuma’ gioca a ingannare. non pone ostacoli. La salita è continua, ma impercettibile. Priva di strappi. L’erta Ale nasconde la sua terribile magnificenza dietro un profilo senza asperità. non assomiglia a un vulcano. non lascia intravedere una minaccia. e’ come se invitasse a salire. nasconde il suo orgoglio: non mostra il suo fuoco. Sono incerto: questa montagna vuole proteggersi o sta tendendoci una trappola? L’erta Ale è rannicchiato su se stesso. e’ come se avesse l’abilità attenta di una leonessa: è acquattato, pronto a sorprenderti…. Abbiamo passi calmi. non contare i passi. Cammina. Ammira l’argento della lava e lo splendore della luna. Tieni la torcia a portata di mano, ma non accenderla. Il sentiero è chiaro. Dopo meno di un’ora di cammino, scaliamo un gradino. niente più sabbia-pomice. I piedi, ora, non affondano più in una polvere faticosa, ma salgono il pendio di una grande colata, sfiorano le onde pietrificate di un antico, possente fiume di lava. Camminiamo sulla pelle del vulcano. Dopo due ore di cammino, devo raccontarvi del vulcano. non ci vuole un grande fiato per salire l’erta Ale (grafia esatta: ertà ‘Alè), ma

noi non siamo allenati. Andiamo avanti perché vogliamo andare avanti. Siamo partiti da 156 metri sul livello del mare. Là, accanto a due acacie, abbiamo lasciato i nostri fuoristrada. non dobbiamo inerpicarci poi molto: il bordo del cratere è a 572 metri sul livello del mare. e’ un nanerottolo, l’erta Ale. Ma ha dovuto faticare per conquistare la sua altezza. A suo modo, è un vulcano eccezionale: per il suo lago di lava perenne (una rarità nelle geografie mondiali del magma) e perché le sue origini più lontane sono sottoma-


Fotografia di Guido Cozzi

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rine. ha emesso i suoi primi vagiti di lava sotto il mare. era fra i vulcani più inquieti di una formidabile dorsale oceanica, fondale dove si sono scontrate tre faglie tettoniche. Poi l’irrequietezza della crosta terrestre lo ha fatto emergere e la sua adolescenza è avvenuta negli anni della preistoria dell’umanità. I vulcanologi azzardano, nel certificato di nascita di questo vulcano, una data recente: appena dodicimila anni fa, primi tempi dell’Olocene, ultima stagione del Quaternario.



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Insomma, l’erta Ale, nella sua vita emersa, è un nostro contemporaneo. Altra cosa da ricordare: è un vulcano fuori posto, questo. non so molto di classificazioni geologiche, ma l’erta Ale dovrebbe essere alle hawaii e non qui. e’, cioè, un vulcano di tipo hawaiano, questo. I vulcani hawaiani sono figli di ‘punti caldi’ provocati da colonne di fuoco che risalgono alla superficie dalle profondità del mantello terrestre. In questi vulcani la cima collassa e vi si apre una vasta caldera. All’interno di queste depressioni laviche, spesso, si spalancano le pareti di pozzi vertiginosi. I tecnici li chiamano pit crater. La lava è basica, costituita di silicio. Densa, liquida, nera. Il vulcano è effusivo: si è autocostruito, è la sua lava ad aver formato le impalcature che sorreggono la sua pelle rugosa di pietra nera. L’erta Ale, vulcano hawaiano in Africa, è un vulcano ‘a scudo’: si è innalzato con l’accumulo delle colate fuoriuscite del suo ventre. ecco perché è un vulcano gentile con chi vuole raggiungerne la sommità. Quando avremo raggiunto la vetta del vulcano (il cielo sta già riflettendo i bagliori rossi della lava) ci troveremo di fronte una caldera ellittica lunga mille e seicento metri. Le sue sponde, nel punto più largo, sono distanti almeno settecento metri. Due pozzi fanno sprofondare la crosta lavica. Il più celebre, il cratere Sud, è un cerchio perfetto: qui, a ottanta metri di profondità (ma il suo livello cambia di continuo) mugghia un perenne (almeno da quanto se ne conosce l’esistenza, cioè da poco più di cento anni) lago di lava. Straordinario: solo altri tre vulcani al mondo hanno simili onde di fuoco in continua agitazione. Qualcuno riuscì a misurare la temperatura di una sua fontana di lava: 1217 gradi. nemmeno tanto. Quattro ore di cammino. Ora il fuoco è davvero vicino. Gli ultimi metri sono di fatica e di

silenzio. Il cielo è di un blu intenso, reso elettrico dalla luna. Con ritmi da orchestra sinfonica, s’illumina di rosso. nessun rumore. nessuna esplosione. L’erta Ale gioca ancora a nascondino: si mostra, invita a raggiungerlo, ma poi è come se si allontanasse. I suoi fuochi di artificio sono senza lampi e senza botti. Sono davvero colpi di pennello immersi in una tinta di colore rosso acceso. Il nostro silenzio è assoluto. Si sentono i nostri passi sulla lava che scricchiola. e’ un andare avanti cauto. Il fiato è appesantito. Si aprono crepe nel terreno, la crosta si rompe sotto il nostro peso. Siamo impazienti e intimoriti. L’ultima salita si addolcisce all’improvviso,


Questo racconto fa parte del libro dancalia. Camminando sul fondo di un mare scomparso edito da Terre di Mezzo

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quasi un riconoscimento alla fatica degli uomini. ecco il balcone, ecco il belvedere, ecco la caldera. e’ un dono grandioso. Del paradiso, non dell’inferno. ecco il fuoco: un cerchio rosso, il colore delle fiamme, la perfezione di un’ipnosi. La luna sembra rispecchiarsi nel pozzo del cratere. Gioca con i fumi e con il riflesso del fuoco. La bellezza non ha parole. Rosso e nero: siamo arrivati in cima. nessuno sa più cosa dire. non so più cosa scrivere. C’è vento. Sembra un ruggito sommesso, il sudore si gela sotto le maglie. Siamo paralizzati. La prima volta che arrivammo quassù, scomparvero i pensieri. non ci fermammo in pace, proseguimmo su-




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bito. Solo in un altro ritorno, avremmo imparato che sarebbe stato più saggio fermarsi. Ma quella notte, la prima a tu per tu con l’erta Ale, volemmo calarci subito nel cuore del vulcano. Dader eto, la nostra guida, sfolgorante Dio del fuoco, scese subito lungo lo strapiombo della caldera. noi eravamo diventati automi. Lo seguimmo senza una sola esitazione. Senza chiedere. Senza paura. Scoprimmo allora che la paura era perfetta e quindi riuscimmo ad affrontarla. Io non vedevo dove mettevo i piedi. Dader eto era già scomparso dalla nostra vista. Sentivo il freddo incunearsi nel collo. Ma stavamo scendendo nel vulcano. nella sua caldera. un balzo nel nero assoluto. I nostri piedi sulla lava, sulle onde di pietra delle ultime ribellioni dell’erta Ale. So che pensammo: ‘Grazie.

Grazie per essere qui. Grazie per la meraviglia’. non so a chi fosse rivolto questo ringraziamento. Ad Allah, al Dio dei vulcani, alle divinità della Dancalia, ai cavalli leggendari che proteggono l’erta Ale con la loro criniera di fiamme

ANDREA SEMPLICI, 62 anni, fiorentino, giornalista e fotografo. da quasi tre anni, prova a coordinare il lavoro della redazione di erodoto108. Negli anni ’90 del secolo scorso, per quattro volte, tentò di raggiungere il cuore della dancalia senza riuscirci. otto anni, nel 2007, decise di seguire le piste delle carovane del sale e raggiunse la Piana del Sale e il vulcano erta ale. da allora, ogni anno, torna in questa terra.


I VIaggI dI erodoto

OL DOInYO LenGAI TAnZAnIA

eRTA ALe

DAnCALIA eTIOPICA

Viaggio nel nord della tanzania

Un viaggio nel nord della tanzania deve dirigersi verso i grandi laghi natron e eyasi, perdersi nei parchi più celebri di tutta l’africa, il serengeti e il ngorongoro. twende Viaggi, agenzia padovana, organizza da anni viaggi nel nord della tanzania. molte delle loro guide sono collegati ai progetti per dispensari in villaggi delle pianure attorno al vulcano. potete vedere i suoi programmi in: www.twendeviaggi.com. la twende viaggi è a padova, via dei livello, 17. tel. 049.8764326.

eL SOD

eTIOPIA DeL SuD Viaggio al sud. Il vulcano di el sod è nelle terre dei borana, popolazione che vive sui confini fra etiopia e Kenya. Il sud è l’africa nera. Incrocio di popolazioni. Il corso del fiume omo. I mercati degli hamer. le cerimonie del salto dei tori. la perdita dell’innocenza. I cambiamenti prodotti dal turismo. I piattelli labiali dei mursi e dei surma. Il pozzi cantanti degli stessi borana. la ricerca di un cammini ancora inesplorati. la punta settentrionale del lago turkana che confonde le sue acque con l’omo. le canoe ricavate da un solo, immenso tronco. e il sale nero di el sod. per un viaggio nel sud dell’etiopia: medir tour, agenzia di addis abeba. www.medirtour.come e-mail: info@medirtour.com

Fu un giovane scrittore basco a farmi capire perché, ogni anno, tornavo in dancalia. mi disse: ‘Ho capito che in questa terra si trova a disagio chi cerca il viaggio come ozio. Chi separa il tempo delle proprie abitudini da quello del disorientamento. se vieni qui cercando avventure, non riuscirai ad andare oltre la tua superficialità. In dancalia devi mostrare, soprattutto a te stesso, di avere un’anima di poeta. si viene qui per cambiare punto di vista’. Un viaggio in dancalia, a volte, è un antidoto. Un antidoto contro i luoghi comuni. Questa terra ti mette di fronte a una bellezza irraggiungibile e alla diversità. Viaggio in dancalia dal 20 novembre al 6 dicembre. assieme ad andrea semplici. per info: tel. daniescapin@gmail.com/te. 348.4080490

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si sale che è mezzanotte all’ol doinyo lengai. bisogna esse re su all’alba. e’ una salita faticosa e spettacolare. I maasai hanno piedi africani e salgono in quattro ore. I nostri passi, anche se allenati, impiegano molto di più: camminatori esperti calcolano almeno sei ore, ma ognuno si prenda il suo tempo, cerchi di arrivare al cielo e al fuoco di uno dei più bei vulcani del mondo.

Viaggio in dancalia


quaderni a quadretti

Nel deserto, l’incontro fra un grande disegnatore e una scrittrice

‘Le MuCChe Le hAnnO RICOnOSCIuTe PeRFeTTAMenTe…’

Testo di Elena Dak Disegni di Giancarlo Iliprandi

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A oltre settant’anni, Giancarlo va in Sahara per la prima volta. L’incontro con Elena. Parole e disegni, allora, si intrecciano sulle sabbie. Una piccola storia di una penna Bic, fogli di carta Fabriano e una Nikon F. E poi le transumanze della scrittrice dietro alla gente dei pascoli. Nascono così libri e affreschi che raccontano dei nomadi più vanitosi della Terra. Viaggio fra i Pheul Woodabe del Tchad.

ul foglio bianco compare per prima cosa la linea dell’orizzonte, tracciata ‘sempre e unicamente’ con una penna sfera Bic medium. e’ il primo segno di un mondo altro, fatto di disegni e acquerelli, che nasce dalle mani di Giancarlo Iliprandi. Abiti gonfi di vento, muscoli tesi nella corsa verso la preda, corna di antilope arcuate, carovane ondeggianti sulle dune, uomini stesi a riposare, donne dagli occhi acuti o accolti da fasci di rughe, appaiono solo ‘dopo’ quella linea. Si tratta di contesti sahariani o sporadiche puntate medio orientali e asiatiche: scene evocate su fogli di carta rigorosamente Fabriano formato F4, ruvida, del peso di 200 gr. . Giancarlo Iliprandi frequenta per otto anni l’Accademia delle Belle Arti di Brera studiando pittura e scenografia e si appropria della tecnica dell’acquerello con facilità. La realtà si scioglie sul foglio, le figure s’impastano con leggiadria e dinamismo e la carta si fa semplice supporto di una vita parallela: generazioni di uomini e animali altri da quelli terrestri ma altrettanto vivi e pulsanti. Maria Grazia Marchelli, una grande viaggiatrice, gli aveva sempre parlato dei grandi spazi sahariani, ma solo a partire dal 1988, Iliprandi viaggia per i deserti del Sahara. L’Algeria, il Tassili prima e l’Assekrem poi, offre la prima sabbia da calpestare e l’ispirazione a cui dare concretezza con delle matite colorate. Atmosfere, ritmi, genti osservate e accolte dentro di sé, prendono forma attraverso le sue mani sulle


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pagine di No Limits World e in carnet de voyage che lui stesso pubblica e regala agli amici più cari. Arriva più tardi il tempo del niger dove una scatola di acquerelli diventa lo strumento privilegiato per raccontare il deserto e poi irrompe il Tchad: decine di deserti vissuti secondo i ritmi del viaggio, del respiro e dell’imprevisto. In borsa tiene sempre una scatola da dodici acquerelli, due pennelli n. 8 o 10, un bicchierino di carta per l’acqua che prende direttamente dalla borraccia, un album per schizzi di carta povera formato tascabile, circa 8x12, e dei fogli di carta di Fabriano. In tasca, non manca mai un quaderno di scuola a righe per scrivere gli appunti. Iliprandi non rinuncia alla macchina fotografica che per tanti anni è una nikon F con vari obiettivi. un pubblico avvezzo alle suggestioni delle sabbie rincorre le sue rare mostre, segue le sue partecipazioni al festival di Clermont Ferrand. I premi riconoscono alle sue mani e al suo sguardo la capacità rara di raccontare con linee e colori quello che nemmeno la realtà sa di essere. Anche io rincorrevo deserti e un viaggio in Oman di una quindicina di anni fa ci fece incontrare, per caso: mi occupai dell’organizzazione logistica per lui e un gruppo di amici. Al ritorno per ringraziarmi, mi omaggiò di un suo carnet di viaggio. Quel libriccino fu per me una rivelazione, un dono prezioso e fu l’inizio di una conoscenza e di una frequentazione che non si è mai interrotta. Perché, come dice Iliprandi, abbiamo un medesimo modo di sentire il viaggio, i luoghi e i probabili incontri. Furono soprattutto i carnet dedicati al deserto della Libia, egitto e Tchad, ai nomadi e al Sahara, le sue forme e genti, a ispirare le sue mani e ad ammaliare i miei occhi. Cominciai a fare grandi viaggi inseguendo i nomadi e quando fu il tempo di pubblicare la Carovana del sale gli chiesi di illustrare quel viaggio che era scritto sulla mia pelle. Spedii le bozze perché potesse decidere e ispirarsi. I miei deserti cominciavano a intrecciarsi ai suoi. Il mio destino letterario poteva ricevere l’onore dei suoi disegni. Le sabbie e i libri diventavano pretesto per agganciare due destini. La Carovana del sale fu illustrata dai suoi acquerelli e così pure Sana’a e la notte. nell’autunno dello scorso anno decisi di partire per seguire la transumanza dei pastori Pheul Woodabe nelle savane del Tchad. Li avevo già incontrati due anni prima in occasione delle loro danze e chiesi a lui, stavolta prima di partire, se avesse tempo e voglia di fare alcuni disegni. Mille impegni, lezioni all’università e il titanico lavoro della biografia sembravano assorbire ogni attimo del suo tempo. Decisi di non insistere, ma gli inviai alcune delle foto scattate ai Woodabe. Pochi giorni prima di partire per il Tchad, ricevetti una mail con due dozzine di disegni in cui perline azzurre e rosse, corna di zebù e figure di donne prendevano forma come avevo sperato. Stampai i disegni e li portai ai pastori perché vedessero e si potessero riconoscere. Di sé hanno detto che si vedevano come fantasmi, ma le mucche le hanno riconosciute perfettamente.


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InstanCabIle VIaggIatore

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Il tardo e instancabile viaggiare di Giancarlo Iliprandi verso la rarefazione dei deserti sembra quasi una ricerca di pausa dal pieno dei segni e degli stimoli che hanno caratterizzato la sua ricca e intensa vita professionale. un rendere l’animo e l’occhio silenziosi, pronti ad accogliere e a riconoscere la vita e le sfumature di colore là dove queste sono meno evidenti, e dunque più ricche e preziose. Figli di questo andare verso l’essenziale sono i suoi acquerelli lievi, un segno veloce e sicuro che ritrae come un’istantanea l’irripetibilità dell’attimo e poche pennellate di colore a testimoniare lo stupore dello sguardo. La mano sapiente di Iliprandi ci regala un senso di felicità solare, un’arte del sottrarre che nel vuoto dei bianchi rivela la reale protagonista di questi appunti di viaggio: la luce. pino Creanza


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GIANCARLO ILIPRANDI

classe 1925, si è diplomato in pittura e scenografia presso l'accademia di Brera a Milano, avviando nel 1953 la sua attività professionale nel campo della comunicazione visiva. attualmente insegna al Politecnico di Milano, che gli ha conferito nel 2002 la laurea ad honorem in disegno Industriale. Nel corso della sua brillante carriera ha ricevuto numerosi premi e riconoscimenti, tra cui il Premio Internazionale alla XIII triennale di Milano e quattro compassi d'oro, di cui l'ultimo alla carriera nel 2011. Viaggiatore attento e appassionato, ha realizzato con i suoi disegni molti libri e carnet di viaggio, riscontrando un vasto apprezzamento

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ELEnA DAk, 45 anni, veneziana, è scrittrice e viaggiatrice. Dal '97 lavora come guida per l'agenzia Kel12. è laureata in Conservazione dei beni culturali, indirizzo antropologico, presso Cà Foscari. Ha attraversato il Tenerè al seguito di una carovana del sale. Ha scritto "La carovana del sale" edito da Corbaccio e Sana'a e la notte edito da Alpine Studio. La trovate su www.elenadak.it



VISIONI DI ERODOTO TCHAD • DANCALIA • LUCANIA

ABBIAMO un’ILLuSIOne: FARe MOSTRe DI FOTOGRAFIe, DISeGnI, QuADRI In LuOGhI ‘InADATTI’.

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nella savane del Tchad, a esempio. O nei deserti della Dancalia in etiopia. Le abbiamo anche distese, come panni, fra i cerri della foresta di Montepiano ad Accettura, in Lucania. Luoghi solitari. Le mostre fotografiche all’aria, fuori dai palazzi delle esposizioni, fuori dalle gallerie, dalle sale comunali, dalle biblioteche. Le foto che tornano nei luoghi dove sono state scattate (o i disegni realizzati) per ‘restituire’ a chi in quelle terre vive quanto noi li abbiamo preso. Vorremmo che le mostre di erodoto nei boschi si moltiplicassero. Vorremmo che molti avessero la sfrontatezza della scrittrice elena Dak che ha portato i disegni di Giancarlo Iliprandi nella savana (e così i pastori Woodabe hanno potuto specchiarvisi) o come la fotografa romana Iskra Coronelli che organizza mostre sui traghetti o sui treni notturni. ecco il racconto di tre mostre nel ‘nulla’. un nulla affollato e bellissimo. Le foto, poi, possono essere mangiate dalle capre, afferrate dai pastori o dagli uomini dei boschi, oppure possono diventare albero, prato, cespuglio.


TChAD • Due acacie non troppo distanti pastori di passaggio, il fumo del fuoco all’imbrunire. Lo stupore scaturisce dai volti degli uomini, dai bisbiglii delle donne, dal mento rivolto in su dei bimbi. Sono state le mani di Giancarlo Iliprandi, ‘dotate di un certo incantesimo nelle dita’, a tracciare linee e stendere colori, traendo ispirazione dalle foto che ho scattato due anni prima durante un viaggio tra gli stessi Woodabe. La mostra rimane allestita per alcune ore, i fogli si fanno vivi come panni stesi al vento ad asciugare. un ragazzo da solo, si avvicina a ciascun disegno, lo stacca dal filo come se solo il tatto gli permettesse di vedere bene, studia accuratamente ogni dettaglio e ripone il foglio tra le punte della molletta. Sullo sfondo mucche, asini, capre di passaggio verso il pascolo. (ed)

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ue acacie non troppo distanti, un pezzo di corda da arrosto preso dal cassetto della cucina prima di partire e alcune mollettine di plastica blu. una mattina di sosta, nel corso della transumanza al seguito dei pastori Woodabe del Tchad. Decido che questo angolo di brousse dove siamo accampati, possa essere il luogo giusto per allestire una mostra temporanea e il cielo limpido fa ben sperare che almeno per alcune ore non piova. Qui, nella savana del Tchad, a sud della capitale n’Djamena, tra spine ed erbe ispide, all’ombra di alberi solo apparentemente fragili, prende corpo un’esperienza eterea e provvisoria, che vede i fogli spruzzati di acquerelli piegarsi al vento. I blu e i rossi, le forme aggraziate dei volti e delle matasse di perline dipinte, le corna maestose dei bovini disegnati, dondolano dalla corda tra i fusti, in equilibrio a rovescio: all’aria aperta, senza pareti, senza luci fisse, all’ombra di spine ingenerose, sotto una luce diversa ogni poco. La mostra senza pareti, accoglie la natura intorno, i muggiti, i belati, le sagome dei


DAnCALIA • fra capanna e capanna

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ussein, notabile di hamed ela, è stato di parola. La fatica di Paolo Ronc, fotografo di Trento, è stata premiata. Le foto del villaggio, dei suoi abitanti, degli uomini della cava del sale, delle donne che sgobbano con le taniche dell’acqua, sono state appese a delle corde in una sorta di piazza fra le capanne. Questa è la più straordinaria delle mostre fotografiche. hamed ela, il ‘pozzo di hamed’ è un avamposto del deserto di sale ai confini fra etiopia ed eritrea, è il terminale delle carovane del sale. Questa è Dancalia. Qui, nei mesi dell’inverno, da ottobre e marzo, vivono quattrocento cavatori, gente che taglia pezzi di sale da un fondo marino disseccato. Solo una ventina di famiglie afar è stanziale. Sette anni fa, questo era un luogo isolato. Dimenticato. Solo gli uomini dei dromedari ne conoscevano l’esistenza. Oggi hamed ela è Far-east. Sono arrivate le compagnie minerarie (con i camion, le ruspe, le trivelle, i prefabbricati con aria condizionata), è arrivato l’esercito (l’eritrea è a un passo), sono arrivate le puttane. Gli afar, gente di questa terra, hanno visto cambiare il loro mondo.


e tutti dicono questo posto è ‘un inferno’. Io penso che hamed ela sia un posto intrigante, dove va in scena il gioco del mondo. Con quanto di schifoso ha addosso e con quanto ha di umano. Paolo spiega: ‘era tempo di restituire agli afr quanto avevamo preso’. era davvero tempo di portare queste foto fino ad hamed ela. non so cosa abbiano capito gli afar, quando si sono trovati davanti le loro immagini. Io ne ero così sorpreso ed emozionato

che quasi non ho scattato. Mi sono goduto la scena. nemmeno se avessi esposto al Moma sarei stato così felice. hussein alla fine ha detto: ‘Tolgo le foto, altrimenti stanotte le mangiano le capre’. Io ho pensato che sarei stato contento se le capre si fossero sfamate così. Che sarei stato orgoglioso se qualche foto fosse diventata un pezzo di capanna. no, hussein ha il senso del business (non a caso è un capo), ha conservato le foto nella sua capanna e lo scorso anno, al mio nuovo ritorno, ha riservato una sorpresa: io e Paolo Ronc abbiamo una ‘permanente’ ad hamed ela. (as)

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Gli afar ci hanno donato le loro immagini, sono stati attori delle nostre fotografie, legioni di fotografi sono passati di qua, le foto di hamed ela della fatica di questa gente, sono apparse su tutte le riviste. Sono diventate mostre a Roma, a Parigi, a new York, a Toronto. Il web è colmo delle immagini di hamed ela. Ben pochi riportano qui queste storie.


LuCAnIA • un cordino fra i cerri di Accettura

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l sabato di Pentecoste, primo giorno di festa, primo giorno del rito degli alberi nei boschi di Montepiano, uno dei cuori della Lucania, sono apparse le foto scattate negli anni passati a rincorrere buoi, alberi, maggiaioli, ragazzi della Cima, attori e protagonisti di una delle più belle ‘cerimonie’ del Mediterraneo. La festa di Accettura, paese delle Dolomiti Lucane, a metà strada fra Matera e Potenza, è irraccontabile. Bisogna esserci, viverla, faticare, bere, mangiare, essere devoti a San Giuliano, lavorare, percorrere chilometri su chilometri, crollare dalla stanchezza, ballare con la ‘bassa musica’, inseguire la banda, spostare pietre, scendere dai boschi di Gallipoli con i ragazzi ebbri della Cima, camminare passo dopo passo con i buoi nei Maggiaioli: solo così si ha qualche possibilità di capirne almeno qualche frammento. La gente di Accettura, i suoi uomini e le sue donne, hanno dato molto ai miei giorni. Lo scorso anno era tempo di restituire ‘qualcosa’. Le foto, a esempio. Le foto scattate in questi anni. Le foto che raccontano la fatica collet-


tiva, lo sforzo corale, l’essere comunità di questo paese. Foto che, come la festa, sono racconto provvisorio. Al sabato prima della Pentecoste, i buoi trasportano fuori dal bosco (è l’esbosco) il grande cerro, l’albero del Maggio. Abbiamo teso un cordino fra i grandi cerri e vi abbiamo appeso le foto. Foto provvisorie, montate là dove il corteo dei paesani, a sera, si ferma per il cibo, per il pic-nic, con le tovaglie stese sull’erba, per godersi il tempo del formaggio, delle frittate, del vino, dei salami. Le foto sono diventate decorazione più che mostra. Il vento le ha agitate, le ha portate via. La gente dei buoi le ha sollevate con una mano, per vederle meglio: hanno cercato i volti degli amici, dei parenti. Le foto si sono macchiate di resina, di terra, di vino, di sole. (as)

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Il dISeGNo

LA DAnzA DeL SALTArín ALL’OMBrA DeL CAFFè

ILLuSTrAzIOne DI rOBIn SCHIeLe TeSTO DI CLAuDIA MunerA

Caffè con aroma di….

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In Centroamerica molte piantagioni di caffè si coltivano sotto l’ombra di grandi alberi. Molti uccelli sono così attratti da queste coltivazioni, l’ombra è un buon luogo dove vivere. Il manachino codalunga è uno di questi uccelli. I maschi compiono acrobazie complesse per attrarre le femmine: piccoli gruppi di due o tre maschi si riuniscono per una coreografia di corteggiamento: saltellano a turno, ripetutamente, ricadono nello stesso punto. Si scambiano di posto, atterranno nel posto che il compagno di ballo ha lasciato libero con un balzo in avanti. Le femmine osservano e scelgono. Il maschio più colorato, più bello, il miglior danzatore, il ballerino più tenace sarà il vincitore. nel frattempo, anche i raccoglitori del caffè compiono la loro danza…la seduzione del caffè.


Café con aroma de... en Centro América muchos cafetales se cultivan bajo sombra, lo que atrae a muchas aves que encuentran en esos cultivos bajo la sombra de grandes arboles un lugar para vivir. el Saltarín colilargo es una de estas especies. Los machos del Saltarín realizan despliegues muy elaborados para atraer a las hembras: pequeños grupos de 2 o 3 machos se reunen para hacer un baile de cortejo, donde saltan para caer en el mismo punto repetidamente por turnos para aterrizar en el lugar que el compañero acaba de dejar libre arrastrándose hacia adelante. Mientras tanto las hembras observan y escogen. el macho más colorido y que realice el mejor baile por más tiempo será el ganador. Mientras tanto, los trabajadores de la cosecha de café parece que también realizan su cortejo...la seducción del café

CLAUDIA MÚNERA, biologa colombiana, vive a Managua, in Nicaragua. ha lavorato in progetti di biodiversità e conservazione di specie minacciate, così come di sviluppo sostenibile.

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ROBIN SCHIELE, artista, disegnatore, illustratore nicaraguense. ha vissuto in Guatemala, argentina e colombia. ha dedicato gran parte della sua vita a illustrare la biodiversità e speciale la straordinaria fauna dei boschi tropicali delle americhe, con il fin di far conoscere la bellezza e la fragilità delle foreste della regione neotropicale.


DI LIBRI

Napoli • quartiere del Vomero

la faVola di “io Ci Sto”

STORIE

Le LACRIMe DeL LIBRAIO

testo e foto di alberto Bile

La prima libreria ad azionariato popolare d’Italia. un anno di vita, un gran successo e mille sottoscrittori. Da Facebook allarealtà: il cammino di un sogno. un’inaugurazione senza libri. Alberto vendeva per corrispondenza, oggi è sorpreso dai lettori in carne e ossa. e poi una donna vuole ricordare sua madre…

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o lo sguardo sul bloc-notes quando sento esitare la voce di Alberto. La mia intervista sta finendo. Alzo lo sguardo e lo vedo in lacrime. Non immaginavo niente del genere quando, quattro ore prima, sono entrato in questa libreria. Siamo a Napoli, tra i bei palazzi di inizio Novecento di Via Cimarosa, quartiere del Vomero. Io Ci Sto è la prima libreria ad azionariato popolare d'Italia, inaugurata giusto un anno fa, il 21 luglio del 2014.

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Il primo seme della libreria era stato piantato a maggio, appena due mesi prima: Ciro Sabatino, giornalista e operatore culturale, esortava i propri contatti Facebook a creare una libreria pensata dai cittadini, in un quartiere dove librai storici si erano oramai arresi uno dopo l’altro. Ciro invitava i suoi amici a un sogno, li pregava di ‘starci’. Fu un battibaleno: nacque subito l'associazione e le sottoscrizioni arrivarono veloci (adesso sono più di mille). Si creò un’organizzazione, e dopo solo due mesi una piccola

folla festeggiava l'apertura della libreria. Senza nemmeno un libro sugli scaffali. La loro assenza, il trionfalismo mediatico e la mondanità dell'evento spaventarono più di un critico. Poi, però, i libri cominciarono ad arrivare. A sceglierli, acquisirli, comprarli, riceverli in dono, catalogarli, sistemarli e infine venderli ci pensò (e ci pensa) Alberto Della Sala, 62 anni, unico libraio e unico dipendente di Io Ci Sto, aiutato da una sessantina di volontari che si avvicendano nelle quattro sale bianche. La libreria è luminosa, ordinata. Nella sala dedicata alla letteratura per bambini, Elena Russo, una delle fondatrici, e alcune volontarie mi parlano a lungo. L'impressione è che sia faticoso gestire quest'entusiasmo, l'eterogeneità delle attività e l'inesperienza di molti membri, ma, allo stesso tempo, i risultati ripagano della fatica. Bellissime alcune idee: questa è la sola libreria napoletana dove si vendono libri ad alta leggibilità per bambini affetti da dislessia. In più: le piccole


tro sociale o chissà cosa. Nessuno può uscire da qui senza che sappia bene cosa siamo’. Di fronte a proposte di Book Sharing o Book Crossing, il libraio ricorda la necessità, anche economiche, della libreria: ‘A Natale avevamo previsto certi incassi. Ci siamo sbagliati: sono stati tre volte più alti. Se continua così, finiamo l'anno in pareggio. Sarebbe eccezionale. Siamo diventati un simbolo, ma dobbiamo stare attenti: aprendo, abbiamo fatto molto bene alla città; chiudendo, le faremmo un male ancora più grande».

Alberto ha chiuso la propria libreria antiquaria per concentrarsi nel nuovo lavoro. Ha portato a Io Ci Sto la sua esperienza (e mille libri dalla vecchia attività). Vorrebbe vendere libri usati, sullo stile dei librai del centro storico, luogo privilegiato dei bibliofili alla ricerca di una trouvaille. Prima che me ne vada, Alberto mi offre un caffè a un bar di piazzetta Fuga e mi spiega quanto la libreria sia favorita dalle vicine funicolari e

dalla metropolitana. Poi mi racconta di aver lavorato tutta la vita principalmente per corrispondenza, incontrando ben poca gente nel suo ufficio. A Io Ci Sto è meravigliato dalla quantità e qualità delle persone che incontra: ‘Un giorno una donna ha voluto donare molto più della sottoscrizione consigliata. Ha detto che sua madre, un'amante dei libri, era morta da poco. Piuttosto che portarle i fiori, pensava di onorarla meglio così’. Alzo lo sguardo dal bloc-notes, il libraio è in lacrime

ALBERTO BILE, 28 anni,napoletano, reporter freelance. Una laurea in Scienze della comunicazione. Studi fra Italia, 101 Spagna e colombia. oggi america latina e Mediterraneo sono al centro dei suoi progetti. ha un sito, www.ovunquevada.it. e un progetto di reportage: arrebol, luci sulla colombia.

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case editrici qui trovano uno spazio espositivo che non hanno altrove. Attraverso il fitto programma di attività collaterali, Io Ci Sto offre al quartiere, e alla città, non solo una libreria, ma un luogo dove trascorrere il tempo. Una donna, una senzatetto, ne è un’assidua frequentatrice: ‘Me l'ha consigliato il dottore – racconta - Vai in un posto dove puoi fermarti e rilassarti’. Dà anche lei una mano come può. Siamo lontani dall'asetticità dei grandi distributori, ma anche dal fascino riservato delle piccole, librerie storiche della città, dove il libro è unico e solo protagonista, e venderlo è l'unica fonte di (difficile) sopravvivenza. Qui si punta molto su presentazioni e conferenze, corsi d’inglese, iniziative per bambini e anziani, musica, origami, scacchi, spettacoli di vario genere. La libreria si nutre dell'associazione, e viceversa: l'anima dell'una deve convivere, non senza difficoltà, con l'anima dell'altra. ‘La gente deve sapere che siamo prima di tutto una libreria avverte Alberto - non siamo un cen-


Gli oCChi di erodot


iNCoNtro CoN aNdrea BoCCoNi intervista di arturo Valle

LA SCheRMA e IL VIAGGIO ‘non viaggio per scrivere’. Ma poi capita che scriva e i suoi libri hanno successo. Perché raccontano la normalità dell’andare. Senza trucchi. Psicoterapeuta, schermitore e insegnante di parole, Andrea va a letto presto, tranne quando doveva giocare a scacchi. e un giorno sparì per mese, l’inverno doveva ancora finire e lui era in cammino per il Casentino. un passo da casa. 103

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ppure volevo parlare di scherma. All’improvviso mi era venuta voglia di saperne di fioretti e spade. Soprattutto di duelli. O meglio: dell’attesa del duello. Conosco un giovane libraio a Pisa che è un provetto schermitore, e adesso scoprivo che Andrea Bocconi, da quando aveva dieci anni, tira di scherma. Mezzo secolo in pedana ed è anche bravo. e io, sciocco, sono venuto a parlare con lui di viaggi, dello scrivere di viaggi, dei suoi libri di viaggio. non ho saputo reagire con prontezza e le nostre parole si sono distratte con il suo andare a piedi, con l’amore per l’India (al punto che ci porta il figlio e scrive ‘India formato famiglia’), con la sua scuola di scrittura. Mi è rimasta la curiosità della scherma.


Andrea sostiene che scrivere non è il suo mestiere. eppure insegna a usare la parole. ed è psicoterapeuta. e’ esperto di duelli. Forse avrei voluto che il nostro incontro fosse stato un incrocio di spade per riprodurne l’emozione. Ma c’era il sole, era un primo pomeriggio e un’aria di pace attorno a noi. ho ritrovato nel parlare di Andrea la tranquillità che mi ha dato il racconto del suo viaggio, quasi invernale, a piedi per i monti del Casentino o l’incastro delle parole di ‘Viaggiare e non partire’. La prossima volta vandrò a trovarlo in palestra. e poi mi iscriverò a uno dei suoi corsi di scrittura. Erodoto afferma di scrivere perché niente sia dimenticato. Erodoto viaggia per scrivere. Qualche tempo fa, Sabelli Fioretti ci tenne a dire: viaggio perché non ho nient’altro da fare. Tu, invece, spieghi: io viaggio perché mi piace.

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on ho mai firmato un contratto per scrivere un libro di viaggio. Mai prima di partire. non voglio essere obbligato a scrivere. e’ vero: viaggio perché mi piace. Scriverne dopo è una mia scelta. e’ anche una maniera di ripercorrerlo. Ma non mi metto in cammino per scrivere. Temo la banalità del racconto di viaggio. non scrivo su commissione. Mi è accaduto solo una volta, quando scrissi Il giro del mondo in aspettativa. Avevo scritto da poco Viaggiare non partire e volevo pubblicare un libro di racconti. Gli editori ti guardano sempre storto quando proponi qualcosa del genere e allora feci un patto: mi impe104 gnai a scrivere un altro libro di viaggio in cambio della pubblicazione dei miei racconti. Sono affezionato a quel libro, ma il viaggio lo avevo fatto venti anni prima. ho dovuto rincorrere i miei ricordi. Scrivere non è il mio mestiere. Voglio sentirmi libero quando scrivo. negli ultimi anni, parto quando ho qualcosa da fare nei luoghi dove voglio andare: vado in India perché voglio mostrare quel paese a mio figlio. Parto per il Burkina Faso per un lavoro da fare con gli analfabeti in una scuola rurale.

Un giorno sei partito a piedi. Un giro attorno a casa. Sei andato in Casentino. E ne è uscito un libro, Di buon passo. Un mese in viaggio. Davvero, non volevi scriverne?

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olevo fare questo viaggio a piedi. non sapevo se ne avrei scritto o meno. non ci pensavo. Prendo pochissimi appunti, non tengo un diario, al massimo annoto i nomi dei luoghi per la mia memoria. Pensavo che il viaggio in Casentino durasse un mese, invece ho camminato per ventidue giorni. Per nove giorni, allora, mi sono nascosto perché nessuno sapesse che ero già tornato. Solo dopo ho desiderato scriverne. Perché volevo tirare fuori un distillato di quanto era accaduto. C’è un momento per vivere le storie e un momento per ripensarle. Se mi fermo a pensare mentre sto vivendo qualcosa è come se facessi l’amore e mi mettessi a riflettere sulla coreografia del luogo dove siamo.


matiche. non vi riesce. e muore. ecco, questo mi interessa. e’ una domanda che faccio sempre a chi viene ai miei corsi di scrittura. Ascolto le risposte: vi è chi pensa che farebbe all’amore, chi dice che passerebbe la notte in preghiera, chi confessa che cercherebbe di sabotare le capacità dell’avversario. ecco, ho voglia di fare i conti con questa storia, di comprendere meglio la mia passione per il combattimento. Il libro, finora, è stato rifiutato. L’editore mi ha spiegato che da me prenderebbe a scatola chiusa un libro di viaggio, ma non di altro genere. Per la prima volta, ho preso un agente per cercare di farlo pubblicare. Ti dà fastidio essere classificato come ‘scrittore di viaggio’?

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più che una passione. e’ un’ossessione. ho cominciato a tirare di scherma a dieci anni. Per caso. non c’era alcuna tradizione in famiglia. Per due anni non ho fatto altro che prendere botte. Poi è andata meglio, ma ero emotivo. Vomitavo prima delle gare. Stavo male. Ma un giorno vinsi i campionati toscani. ero bravo. non ho mai smesso. e quando, a 42 anni, decisi di che era tempo di smettere, andai a fare un campionato nazionale a squadre con ragazzi che potevano essere miei figli. Salii in pedana e vinsi cinque a zero. Li guardai e dissi: ‘Ora tocca a voi, mica posso fare tutto io’. Scoprii che c’era una categoria master. Parola elegante per dire di schermitori in là con gli anni. Solo recentemente ho scritto di scherma. Tre racconti sul duello. Quello che accade la notte prima di un duello mi ha sempre affascinato. evariste Galois passa quelle ore a cercare di completare le sue teorie mate-

Eppure vi sono scrittori prigionieri di questa classificazione che vendono ancora molti libri e, allo stesso tempo, non possono essere definiti scrittori di viaggio. Pensa a Chatwin o a Kapuściński. libri di Chatwin non sono libri di viaggio, 105 ma hanno avuto successo come tali. Avrebbero avuto ugual fortuna se fossero stati considerati per quel che sono e cioè grandi romanzi? Sono stanco di essere considerato uno scrittore di viaggi. A volte mi chiedo se non ci siano dei limiti che non posso scavalcare. Brera e Clerici sono scrittori straordinari di sport, ma appena sono usciti da questa frontiera, non funzionavamo poi molto’.

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La scherma è la tua passione. Non traspare mai tuoi libri. Perché?

anche un vantaggio. I libri di narrativa arrivano sugli scaffali e poi scompaiono. I libri di viaggio sono confinati in sezioni particolari delle librerie. Accanto alle guide. e sopravvivono a lungo. Sono longsellers. Ogni anno ricevo qualche decina di euro da libri scritti molto tempo fa. Ma è vero, sì, sono stanco di essere incasellato come scrittore di viaggio. non ne ho più voglia.


Cosa è la scrittura di viaggio?

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l viaggio è già una trama. e’ già racconto. Ma è necessario rispettarne le caratteristiche. C’è un luogo e non può essere intercambiabile. C’è lo spostamento, l’andare, il pellegrinaggio. Ci sono gli incontri. e, in106 fine, ci sono gli eventi. C’è quello che accade. Sono coordinate che ti tengono dentro una costruzione. e poi c’è l’io. Ma deve essere un io ben equilibrato. non puoi esserci solo tu in un racconto di viaggio. non puoi guardarti solo l’ombelico. Oggi alcuni scrittori si fanno pagare le vacanze per scrivere di loro stessi in viaggio. Allo stesso tempo, l’io non deve scomparire. Deve stare un po’ in disparte. Ci sono scrittori che quando scrivono di viaggio sono insopportabili. Ce ne sono altri che non amo quando scrivono romanzi e che

mi sorprendono quando raccontano il loro viaggio. Moravia e Busi, per fare un esempio. non è semplice: bisogna raccontare cosa sta accadendo e spiegare che tu hai visto quanto hai scritto. Devi essere capace di compiere riprese soggettive. Ogni volta devi sistemare il cursore in una posizione giusta. Hai citato Moravia. Ami l’India. Pensa al viaggio che Moravia e Pasolini hanno fatto assieme e ai due libri che poi hanno scritto. Sono uno completamente diverso dall’altro. Eppure hanno fatto lo stesso viaggio.

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dore dell’India di Pasolini è un libro straordinario. I due scrittori vedono e scrivono due cose diverse. Manganelli


scrive ancora altro. e bastano poche righe: scende dalla scaletta dell’aereo e racconta di questa aria umida come la lingua di una vacca. e’ una meraviglia. Hai scritto di camminare. Non ti sembra che molti ne parlino e pochi camminino?

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Non ti pesa la solitudine?

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un privilegio. Sto bene da solo. Anche nei giorni più affollati, riesco a stare da solo. Dico che vado a letto presto. Vai davvero a letto presto?

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ì, mi piacciono le ore del mattino. Mi alzo presto. Alle sei e mezzo passeggio. non sono notturno. Anche a scuola preferivo alzarmi alle cinque per studiare invece di fare nottate. Solo poche volte, mi è capitato l’opposto. Quando studiavo a Firenze e dovevo tornare a Lucca con un treno di notte. C’era un bar dove si giocava a scacchi. Il proprietario ci conosceva e ci lasciava le chiavi e noi giocavamo fino a quando non partiva l’ultimo treno…

andrea boCConI è nato a Lucca. nel 1950. Vive nelle campagne aretine. Sa di parole e di duelli. A dieci anni cominciò a tirare di scherma e non ha mai smesso, vincendo titoli e coppe. nella vita fa lo psicoterapeuta. e poi scrive. Sui labirinti della mente e sul viaggiare: con Guanda ha pubblicato presso Guanda "Viaggiare e non partire" (2002), "Il giro del mondo in aspettativa" (2004), "La tartaruga di Gauguin" (2005), "Di buon passo" (2007), "In viaggio con l'asino" (2009), "L'India formato famiglia" (2011). Presso Trasciatti, "Radiopensieri" (2009). Presso Zonafranca, "La mente e oltre. Scritti di psicosintesi" (2011). e’ responsabile dei laboratori di scrittura creativa della Scuola del Viaggio (www.scuoladelviaggio.it ) 107

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urante il mio viaggio a piedi in Casentino non ho incontrato nessuno sui sentieri. Ma era marzo. Credo che adesso la passione del camminare stia crescendo, stia diventando reale. Le comunità dei camminanti si sono infoltite. I viaggi a piedi stanno avendo successo. Camminare è una fisiologia della mente. ne sfida la patologia. I nostri sensi motori funzionano a cinque chilometri all’ora, se vai più veloce cominci a perdere dati, mente e corpo si dissociano, smarrisci la frequenza del tuo corpo, va in pezzi la sua unità. In tutte le pratiche di meditazione spirituale, c’è il camminare. nell’andare a piedi vi è la connessione con te stesso. e poi a me interessa la solitudine e il silenzio.


Onde da leoni a Viareggio

INCONTRI

un bagnino e uno shaper raccontano una storia di mare e surf. Viaggio sulle spiagge del nord della Toscana, regno dei surfers italiani. Le storie dei pionieri delle tavole per volare sulle acque del mar Tirreno

GIULIA LANDUCCI

VIAREGGIO

ZONA D’IMPATTO

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entre le onde sbattono contro il pontile, facce curiose e divertite si sporgono oltre la ringhiera. In mezzo al mare decine di tavole colorate si contendono l’attenzione della folla. Negli anni ’80, in Italia, grazie all’eco del mito americano tra ritagli di giornale e film cult come Un mercoledì da leoni, nasce la passione per le onde. Uno stile di vita che oggi coinvolge trentamila persone tra disciplina, rispetto per gli altri e attenzione per l’ambiente. A Viareggio, Francesco Farina, bagnino, e Michele Puliti, shaper, raccontano come la passione per il mare e la ricerca dell’onda perfetta abbia influenzato un’intera generazione.


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spesso è anche difficile farlo capire alla gente, ti guardano magari di traverso e ti dicono: e che lavoro è?!’. Molti italiani sono andati all’estero per portare avanti la professione. Anche Michele ci ha pensato tante volte, ma nonostante i viaggi c’è qualcosa che lo riporta in questo pezzo di costa. ‘Qua è dove è nato tutto, andare via sarebbe come annientare gli anni di lavoro e ricominciare da capo’. La storia ebbe inizio negli anni ’80, la Versilia era meta estiva di famiglie, accoglieva giovani imprenditori e qualche intellettuale che si muovevano al ritmo della Capannina, la storica discoteca di Forte dei Marmi. Tra i ragazzi del posto nasceva la passione per le onde. Racconta Michele: ‘Abbiamo cominciato in tanti a fare le tavole, ad andare in mare, sulla scia dei ragazzi di Viareggio, bisogna citarli. Sono quelli che da noi hanno mandato avanti tutto’.

Francesco Farina (in alto) all'interno del "bunker", il suo magazzino al bagno "Genova", Città Giardino, Viareggio. michele puliti all'interno della propria shaping room a lavoro, Pietrasanta, "Olasurfboards".

La costa è ravvivata da piccoli rettangoli rossi che si muovono seguendo il vento. ‘Il mare è attivo anche oggi’, dice Giacomo, in piedi sugli scogli e la tavola salda sotto il braccio. Aspetta il momento giusto per buttarsi in acqua.

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Il telefono squilla, Michele esce dal suo laboratorio: ‘Facciamo settimana prossima, lunedì e martedì meglio di no, c’è mare’, chiude il telefono e ricomincia a lavorare. Fa lo shaper, disegna e crea tavole da surf. Da sempre. Orgoglioso, mostra la foto di un bambino che tiene stretta una tavola dai disegni geometrici rossi, gialli e blu: è 110 la prima che ha costruito. ‘Avevo undici anni, le linee non sono tanto precise’, si giustifica. Spiega che prima dell’avvento di internet in Italia erano arrivate solo alcune immagini, per lo più ritagli di giornali riguardanti pubblicità di marchi americani. Qualche parente si era spinto per lavoro fino in America portando in dono tavole da surf di seconda mano dalla California. Così, era nata una serie di tavole copia, tutte uguali, con cui all’inizio andavano tutti in mare. ‘Fare lo shaper in Italia?’ – sorride – ‘significa fare un mestiere totalmente fuori dagli schemi, molto

Giacomo, quel giorno al molo, lo aveva detto prima di sparire tra le onde: ‘Per parlare di surf, bisogna parlare con Francesco, lavora sul mare, fa il bagnino’. Cinquant’anni, occhi sorridenti e abbronzatura di chi vive sempre sotto il sole, Francesco parla all’ombra della sua postazione mentre controlla un gruppo di bambini che giocano urlando tra le onde. Racconta della sua adolescenza in Versilia: ‘Ci sono dei fatti che non conosce nessuno, c’è stato un ragazzo, Renzo, è lui che ci ha detto come costruire una tavola, anche se non ne aveva mai fatto una’. Francesco, assieme a Michele Dini, suo compagno di scuola dalle medie fino all’istituto d’arte, costruiscono insieme la loro prima tavola: ‘Si andò subito in mare a provarla che però non era stata ancora scartavetrata, l’abbiamo sentita addosso tutta la vetroresina, siamo usciti che eravamo due maschere di sangue’, dice passandosi le mani sopra il torace. ‘Avevamo dei pezzi di muta da sub, di quelle che si passano sotto con i due bottoni - continua Francesco - roba che non esiste più, di gomma durissima. Uno andava in mare, poi si levava la tuta bagnata e l’altro se la infilava. Siamo andati avanti cosi tutto l’inverno’. L’anno successivo il giro si allarga, il surf stava cominciando lentamente a prendere piede, in molti non capivano, anzi: ‘I bagnini non erano abituati a vedere con il mare mosso dei ragazzetti con le tavole da surf, quindi erano tutti contrari’. Il primo surf contest fu convocato al bagno Pinocchio di Viareggio. ‘Ci cacciavano regolarmente e noi andavamo dall’altra parte del porto. C’era spiaggia libera. Andavamo in vespa, con le tavole portate a braccio,


Il sole lascia la linea dell’orizzonte, mentre scende il buio e sulla costa le luci dei bar si accendono. In mezzo al mare c’è chi aspetta ancora di prendere l’ultima onda. Nella zona d’impatto, lì dove frangono le onde.

ITALIA, DOVE VOLANO LE TAVOLE

Gli scettici dovranno ricredersi, sparsi sul litorale italiano si possono contare oltre trecento ‘spot’ per correre sulle onde. ci sono però grandi differenze riguardo frequenza e qualità dell’onda. Secondo questi elementi, i posti migliori in cui praticare surf si trovano in Sardegna, Liguria, Toscana e Lazio. a Varazze, a Levanto, al Forte dei Marmi e a Viareggio, a Santa Marinella, a Capo Mannu e Bova, in Calabria. Non perdete tempo, inutile chiedere a un surfista quali siano le onde migliori da cavalcare, difficilmente vi svelerà il suo spot preferito. Molto più affidabile è imparare a leggere le previsioni meteo e ad anticipare le mareggiate.

GIULIA LANDUCCI, 25 anni, vive e lavora a Viareggio. Una laure in comunicazione all'Università di Bologna con il sogno di ‘scrivere del mondo’. Viaggiatrice instancabile, appassionata di fotografia."

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in due senza casco, erano altri tempi’. Fare surf in Italia significa anche essere un viaggiatore, sempre pronto a spostarsi quando le mareggiate si fanno consistenti. Negli anni anche il modo di viaggiare è cambiato. ‘Io sono della generazione dei viaggi in auto, andavo sempre a Biarritz’, ricorda Francesco. «Nel 1982 sono andato per la prima volta con mio padre e tutta la famiglia, avevo 18 anni, non avevo ancora la patente’. Con il tempo sono arrivati anche i viaggi in aereo per raggiungere i santuari del surf, come le Hawaii, dall’altra parte del mondo. Una volta tornato a Viareggio confessa che alla prima mareggiata ‘mi sembrava che ci fosse la pentola dell’acqua che bolliva, e che sono onde queste?’. Ma poi capisce che nel surf ‘per prendere le onde devi remare, ti devi dare da fare, non è che vengono da sole’.


STORIE

DI CIBO

turChia

BOZA, LA BEVANDA DEI GIANNIZZERI

testo e foto di isabella mancini

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on ci si può quasi credere. una bevanda che si tramanda di generazione in generazione ormai da un millennio. Drink dei Giannizzeri oggi è un eco di voci dei venditori di strada: "Boozaaa". Si trova senza problemi d'inverno, si beve caldo, con l'aggiunga dei leblebi, ceci, tostati, e spolverato di cannella. non è una bevanda solo turca: l'impero ottomano ha fatto da 112 bacino di migrazioni di tradizioni culinarie e scoperte dei fornelli dai Balcani fino alla costa della Spagna. Il boza è tra queste bevande migranti. Lo potete trovare in altre varianti anche in Bosnia, in Albania, in Macedonia e Romania. e’ un sapore antico. Come antico è il locale dove è possibile trovarlo. Il boza trova patria in Bulgaria come come in uzbekistan. Lo

Acidula, dolce, speziata è una bevanda antica che trova casa a Istanbul

grande Fatih: il brevetto della bevanda risale al 1876. Leggermente alcolico (1%) vista la fermentazione è stato bevuto liberamente nel 16° secolo ma fu poi bandito da Selim III visto che gli abitanti della capitale dell’Impero amavano aggiunsi beve da secoli, forse mille gervi dell’oppio. Il sultano Mehanni. Le versioni sono diverse med IV, a nella seconda metà da paese a paese ma l’idea è la del ’600, decise di vietarlo per stessa: una specie di crema la gradazione alcolica ma già nata dalla fermentazione di nel 17° secolo alcuni viaggiatori grano o altro tipo di frumento, riportano come la bevanda come il bulgur. fosse particolarmente diffusa Ma questo di Istanbul sembra nella città di Istanbul. hacı aver la forza magica di stregare Sadık Bey, l’inventore, nel 1870, In Turchia si beve prevalentedi questa ricetta, veniva dall’Almente nei mesi freddi e per le bania. Dolce e leggermente acistrade passano i venditori che dulo è particolarmente rilanciano il nome di questa be- piacevole se accompagnato da vanda di angolo in angolo. Se ceci tostati (leblebi) che è possivolete testarla nella sua verbile acquistare nel negozio di sione brevettata recatevi da fronte. Vefa Bozacisi negozio nel quar- Per prepararlo in casa dovrete tiere di Vefa all’interno del più essere armati di molta pa-


chero, lievito vanigliato, e ancora acqua se la consistenza è troppo densa. Si conserva in frigo e si serve in bicchierini dopo averla cosparsa di cannella (e ceci tostati!). Al Vefa Bozacisi farete invece un piccolo viaggio nel passato grazie all'arredo in maioliche blu e legno e potrete trovare in vendita la bevanda che però va conservata, al massimo per cinque giorni, in frigo. Se volete provare un’altra bevanda particolare vi segnaliamo anche il salep. Latte, cannella, anche qui, e … farina di orchidea. I tuberi di questo fiore, amato nel mondo da millenni, viene lavato, bollito, seccato e poi trasformato in farina. e’ una bevanda ottima per l’inverno anche per le sue proprietà: aiuta contro gli effetti del raffreddore, tosse e problemi respiratori. Gli effetti sono

amplificati dall’aggiunta di ginger o cardamomo. non vi rimane che organizzare un viaggio di sapori e profumi turchi. Vefa bozacisi dove: mollahüsrev mh., 34134 Fatih/İstanbul, turchia per il salep: emirgan sütiş (sakıp sabancı Caddesi, no:1/3; emirgan, sarıyer) Öz süt (İstinye park aVm). ISABELLA MANCINI, 36 anni fiorentina. Blogger di vocazione. a 18 anni comincia a collaborare con giornali locali. Professionista dal 2006. curiosa, appassionata, auto-ironica, ama gli esseri viventi e l'arte, la fotografia e l'etnobotanica.

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zienza: servono almeno quattro giorni di attesa per la fermentazione. Se lo volete fare con il bulgur dovete lasciarlo a mollo per una notte in acqua fredda. La mattina va scolato e lasciato a bollire in tanta acqua quanto è il bulgur per almeno tre ore. Preparate una ciotola grande di vetro e copritela con un setaccio. Versate il bulgur cotto e con un cucchiaio premete in modo da far colare del “succo di bulgur”: questa è la prima base del boza! In un'altra ciotolina mischiate acqua calda, zucchero e un po' di lievito e lasciate riposare per dieci minuti. Aggiungete poi questo composto al bulgur “pressato” copritelo con una garza e lasciatelo lì per due o tre giorni: vedrete delle bolle sulla superficie, mischiate di tanto in tanto. Quando la fermentazione sarà finita aggiungete un po' di zuc-


Dormono perché le loro notti sono troppo brevi? Dormono per stanchezza? Per il piacere di dormire assieme? Per non dover essere obbligati a parlare con il vicino di viaggio?

SGUARDI

Andrea e Valentina sono rimasti svegli nel loro viaggio sotterraneo nella capitale del Sol Levante…

GIAPPONE

l’obiettivo indiscreto e pubblico di un disegnatore italiano nella metropolitana di tokyo

IL SONNO DEI GIAPPONESI

Testo di Valentina cabiale Foto di andrea rauch

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ella metropolitana di Tokyo moltissimi giapponesi dormono. In piedi o seduti. uomini e donne; giovani, anziani. Dormono indipendentemente dalla lunghezza del loro tragitto, qualche minuto o più di mezz’ora. Si svegliano sempre in tempo per scendere. non so se sia più importante il fatto che i giapponesi dormano in pubblico, e abbiano così tanto tempismo, o che noi europei e occidentali li fotografiamo. Li invidiamo. Li guardiamo, ci stupiamo un po’ e sorridiamo.

(C’è da premettere che nessuna delle due cose è davvero importante) Chi dorme fa sempre un po’ ridere. Anche se tiene la bocca chiusa e non carocolla in avanti e non si inclina sul vicino è ammesso fotografare i (propri) bambini addormentati, i cani e i gatti capovolti sul divano (con gli uomini adulti ci vuole in genere un po’ più di prudenza).



Poi c’è un altro aspetto, di colore nero, che non fa sorridere: il sonno è simile alla morte, l’hanno detto e scritto in tanti ma nella vita quotidiana non lo si pensa. non si sorride pensando che quello lì ha la stessa faccia che avrebbe se fosse morto. La sua foto non assomiglia a quella di un dagherrotipo in bianco e nero, immobile se non da ore almeno da qualche minuto. Sorridiamo perché vediamo quell’uomo scoperto, come se fosse un po’ nudo, o con i calzini bucati. Privo di organizzazione, diamine. è uscito dalla rete, e sembra non saperlo. Ma loro, i giapponesi, perché si rendono così pubblicamente fotografabili? Forse passano in metropolitana moltissimo tempo. e in

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generale ne hanno poco per dormire. e vivono in case più piccole. Dormiranno in altri luoghi pubblici, in coda alla posta, in banca? Dove dormivano prima che fosse costruita la metropolitana, nel 1927? Le statistiche dicono che i lavoratori giapponesi sono quelli che dormono di meno al mondo; in media 6 ore e 22 minuti ogni notte, durante la settimana lavorativa (huffington Post, 18/08/2014). è già una spiegazione sufficiente. Ma forse dormono per non correre il rischio di dover discutere, conversare. Oppure è il contrario: è il piacere del dormire insieme, in una società che è al contrario nota per molte manifestazioni di solitudine ed emarginazione: i suicidi soprattutto tra i giovani, i casi di bullismo, gli hikikomori – coloro che vivono rintanati in casa - , i molti anziani che muoiono da soli in casa, e vengono trovati cadaveri settimane dopo nei lori appartamenti. Sembra da escludere che fingano. hanno la capacità fisiologica di addormentarsi davvero, e subito; la leggerezza del non avere obiettivi se non la propria fermata. Probabilmente dormono anche perché sanno che


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quasi tutti gli altri lo fanno, come se esistesse una sorta di accordo sociale basato sulla fiducia e sulla consapevolezza della dolcezza dell’abbandono condiviso. C’è certo qualcosa di rassicurante nel salire sulla metro e vedere che gli altri stanno dormendo. Forse dormono per essere altrove e oltre la modernità. Se odiassero la metropolitana, i modernissimi e ipertecnologici giapponesi? noi non sappiamo neanche di cosa stiamo parlando. Fosco Maraini l’ha spiegata benissimo, la differenza tra occidentalismo e modernismo. Con occidentalizzazione intendeva l’aderenza non solo alle abitudini esteriori degli occidentali (il modo di vestire, ad esempio) ma soprattutto al loro modo di pensare la vita e la morte, alla loro scala di valori; mentre la modernizzazione è quel processo di adozione di tecnologie e procedimenti operativi derivati dalle scienze, un qualcosa che non ha nulla a che vedere con l’inte-


VALENTINA CABIALE, archeologa, 32 anni. laureata in lettere a torino, specializzata in archeologia medievale a firenze. ama viaggiare ma soprattutto leggere, non le biografie (proprie e altrui).

ANDREA RAUCH, 66 anni, nato a Siena, da venticinque anni vive in Valdarno.ha collaborato con la Biennale di Venezia e il centre Georges Pompidou. I suoi manifesti (ne ha disegnati oltre 500) sono al Museum of Modern art di New York. Nel 1993 è stato considerato, dalla rivista giapponese Idea, fra i migliori cento grafici al mondo. Noi lo amiamo per i suoi Pinocchio, per topolino, per il Gatto felix e per il suo giornalino di Gian Burrasca.

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riorità delle persone (ma forse qui si potrebbe obiettare a Maraini: alla lunga l’adozione di questa tecnologia non influenza anche l’interiorità, le forme di pensiero e di agire?). I giapponesi sono altamente modernizzati ma assai poco occidentalizzati, concludeva Maraini nella prefazione dei primi anni 2000 al monumentale “Ore giapponesi”. Per questo non li capiamo. Come non capiamo i gatti.


Testo di Maria nadotti Fotografia di Andrea Semplici

STORIE

DI RITRATTI JOhn BeRGeR

Dalla selva Lacandona alla Palestina, da Caravaggio a Pasolini, JB ha saputo tessere mille storie scavalcando geografie ed epoche. e’ un ‘guaritore di scrittori feriti’. Fu lui a raccontarci del futuro di Jonas ‘che avrà vent’anni nel 2000’.

John, che avrà novant’anni nel 2016

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‘Il numero delle vite che entrano nella nostra è incalcolabile’, ha scritto John Berger in una pagina di Qui, dove ci incontriamo. Intorno a queste parole non ha voluto altro, se non la cornice bianca del foglio, per mettere meglio in risalto quella che potrebbe sembrare una semplice constatazione ed è invece un riconoscimento emozionato e emozionante. L’io di ciascuno di noi è il prodotto in continuo divenire della relazione che abbiamo con gli altri, con chi è entrato ‘materialmente’ nella nostra vita – per amicizia, amore, legame politico o professionale – e con tutte e tutti coloro che l’hanno ‘immaterialmente’ segnata transitando nei nostri sogni e fissandosi nei nostri ricordi, magari attraverso un libro, un film, un’opera d’arte. 120 C’è nella frase di Berger un sapere forte della vita e una cognizione profonda della morte, l’indicazione di una familiarità altrettanto salda con il piacere e con il dolore, la percezione di un qui adesso inseparabile dagli infiniti altrove, prima e dopo di noi, che moltiplicano l’esistenza individuale facendone uno sfaccettato contenitore di memorie e storie che ci precedono e mediante noi permangono. Il sapere di cui JB dice nella sua frase è concreto e al contempo profetico: accoglie e rivela, è dotato di naso, occhi, pelle ma anche di un orecchio interiore che sembra essersi affinato per via d’esperienza e grazie a un costante esercizio dell’immaginazione. Proprio per questo suo dono JB è forse lo scrittore vivente più amato e seguito da scrittori, artisti, filmmaker, fotografi, uomini e donne di teatro di tutto il mondo.

JOHN BERGER avrà 90 anni nel 2016. e’ nato a londra nel 1926. oggi vive in un piccolo paese dell’alta Savoia. e’ pittore, critico d’arte, sceneggiatore e scrittore grandissimo. Nel 1972, con G. ha vinto il Booker Prize. ha coltivato il comunismo, ha saputo dialogare con il subcomandante Marcos e raccontare la Palestina. ha collaborato con il regista svizzero alain tanner in film belli e dolcissimi. ha dedicato una infinita trilogia ai contadini europei. In Italia, fra gli altri, sono usciti: Sul guardare (Bruno Mondadori, 2003) e capire la fotografia (contrasto, 2014). Qui dove ci incontriamo e Modi di vedere (Bollati Boringhieri)



ando cortocircuiti temporali indifferenti a un principio d’ordine lineare. Il suo segreto? Talento e mestiere, certo, ma anche un’incredibile umanità e un’insuperabile capacità d’attenzione. nel saggio Il narratore. Considerazioni sull’opera di nicola Leskov Walter Benjamin sottolineava che ‘l’antica connessione di anima, occhio e mano […] è quella artigianale, che ritroviamo dove è di casa l’arte di narrare. Possiamo chiederci se il rapporto che il narratore ha con la sua materia, la vita umana, non sia anch’esso un rapporto artigianale. Se il suo compito non sia proprio quello di lavorare la materia prima delle esperienze – altrui e proprie – in modo solido, utile e irripetibile’. e Berger è narratore benjaminiano anche quando sembra fare altro: commentare l’opera di un pittore, leggere un film, osservare un paesaggio. Lo è per via di quel che lo muove a guardare e per come lo fa. Se parla di Caravaggio, Beacon, Giacometti, henry Moore, Pasolini o Platonov, non è per mettere la sua lettura a confronto con quella di generosità, in parte alla consape- John Christie, Gavin Bryars, Tialtri critici o per illustrare la loro volezza che l’impulso dell’artista mothy neat, Mike Dibb, Gianni opera. Quell’opera, che è penea raggiungere la perfezione nel Celati hanno lavorato al suo trata nella sua vita e che lo interlavoro non può non andare di fianco, realizzando insieme a lui pella, sembra aspettare delle pari passo con la sua continua opere indimenticabili come risposte. Come se fosse arrivata evoluzione come uomo’. Jonas che avrà vent’anni nel Iona heath scrive: ‘Quello di 2000 o epocali come la serie te- da quel futuro anteriore che è il passato e fosse lì per incontrarlo John Berger è il primo nome al levisiva Ways of Seeing. e attraverso di lui incontrarci in quale confesserei pubblicamente Con il subcomandante Marcos un vortice di connessioni, riha intrecciato un’intensa corri122 il mio attaccamento’. mandi, associazioni, improvvisi e Isabel Coixet: ‘non c’è niente spondenza che a fine 2007 è che lo rappresenti totalmente. e sfociata in un incontro nella Selva smarrimenti e digressioni che, attutto lo rappresenta. non l’ho Lacandona. In Palestina lo consi- traverso l’oscurità, forse ci riconmai visto tagliare la legna, ma derano uno del posto, perché ha durranno insieme alla luce. nei testi di JB ricorrono non a sono sicura che ogni colpo capito che cosa vuol dire vivere d’ascia contiene in sé tutto quel sotto occupazione e non ha esi- caso alcuni topoi forti: le tenebre, la cecità, il muoversi a tentoni nel che dobbiamo sapere sul tato a scriverne, da giornalista e buio o nella nebbia, il perdersi, mondo, tutto quel che è necesda romanziere. Anche in questo ma anche il volo, l’alzarsi di un sario sapere’. caso il suo è stato un lavoro da Sally Potter, Tilda Swinton, tessitore, da artista delle connes- sipario che sgombra l’orizzonte. Finitezza e speranza. DisorientaSimon McBurney, elia Suleiman sioni capace di far viaggiare le mento e lucidità. Terra e cielo. e molte e molti altri si rivolgono a storie mescolando luoghi geolui per mettere a punto le loro grafici ed epoche storiche e cre- Vita come terra in vague, area re-

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Arundhati Roy lo descrive come un ‘guaritore’, capace di ‘curare gli scrittori feriti’. Colum McCann dichiara: ‘Se dovessi prendere con me un solo scrittore, sceglierei lui. Semplicemente perché porterebbe con sé anche tutti gli altri’. Geoff Dyer afferma: ‘Chiunque lo abbia visto in azione avrà osservato la sua inesauribile capacità di dare. Tale capacità è dovuta in parte a una naturale e istintiva

sceneggiature, i loro personaggi, le loro regie. Susan Sontag, Ryszard Kapuscinski, Mahmud Darwish, José Saramago, Robert Kramer, – ma quanti altri nomi vengono in mente – lo consideravano un amico, un compagno e un interlocutore prezioso, con il quale discutere e ragionare per meglio mettere a fuoco un pensiero. Sebastião Salgado, Paul Carlin, Alain Tanner, nicolas Philibert,


I calzini a righe di John Berger

Maria Nadotti mi parlò di John Berger più di venti anni fa. Quando voleva convincermi che potevo scrivere. Mi consigliò di leggerlo. Non so se fui io a fuggire da lei o semplicemente ci perdemmo in girotondi editoriali. Ancora non ho scritto, ma John Berger è entrato nella mia vita. I suoi libri sono quasi sempre con me. John Berger mi ha fatto reincontrare Maria. E’ accaduto qualche mese. Per la prima volta, l’ho sfiorato e ho perfino ritrovato Maria: ‘Hai puntato i piedi per non scrivere’. Forse ha ragione lei. Sono stato a distanza da John, sono timido e impaurito. Da sempre volevo andare in Alta Savoia per conoscerlo. Non he ho mai avuto il coraggio. Ed ora, io in platea, lui sul palco di un teatro a Ferrara, durante il festival di Internazionale, non riesco a distogliere lo sguardo dai suoi calzini a righe. Fotografo. Cerco di raffigurarlo come se fosse una scultura di legno vivente. Il suo volto è magnifico. Vorrei fotografare i suoi silenzi sospesi che lasciano il teatro in attesa. Vorrei fotografare la sua allegria. Mi fermo quando dice: ‘Ho smesso di fare fotografia perché mi sono accorto che non guardavo più’. Ho in tasca il suo libro: ‘Capire la fotografia’. Non mi avvicino per farglielo firmare. Lo ascolto quando dice: ‘Scrivere è mostrare una gratitudine’. Una restituzione, insomma. E’ quello che io penso della fotografia. So che ama l’arte di Charlie Chaplin: ‘Cadere, rialzarsi, uguali e diversi’. E sorprenderti a novanta anni. Mi piacerebbe farti avere la fotografia dei tuoi applausi. (as) 123

MARIA NADOTTI, 66 anni, torinese. Scrittrice, saggista, consulente editoriale, traduttrice. ha vissuto a New York e passato lunghi periodi in Palestina. oggi vive fra Milano e Berlino. collabora la Sole 24 ore e a lo Straniero, al Secolo XIX e all’Internazionale. da quasi venti anni è la curatrice italiana dei libri di John Berger. fra questi: Una conversazione fra arudnhati roy, John Berger e Maria Nadotti (casagrande, 2010), riga 32, John Berger (Marco y Marcos, 2012); contro i nuovi tiranni (Neri e Pozza, 2013), trasporti e traslochi. raccontare John Berger (e-book di doppiozero, 2014).

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siduale o improvviso vuoto, esito di un evolversi indefinito e indefinibile. è lì, come scrive Berger, che ci incontriamo. noi e chi non c’è più o non è ancora stato: i vivi, i morti, i non ancora nati. In un tempo ciclico, in cui il futuro può precedere il passato e il passato essere più avanti del presente e sussurrarlo come una promessa. In questa mobile zona dai confini temporali incerti e dal perimetro poroso il racconto, vale a dire la ‘capacità di scambiare esperienze’, è il collante che unisce là dove i poteri forti tendono a separare, frammentare, polverizzare. Per questo il racconto non può essere statico o ripetitivo: il suo rapporto con la realtà è di osmosi incessante. Il narratore, come ha scritto più volte Berger, vive di Storia e di storie, ‘trasportandole’ da un luogo all’altro, da un’epoca all’altra, e per fare bene il suo lavoro non deve tradire la fiducia di chi lo ascolta né fare torto a ciò di cui narra. Come? Chiedendosi di continuo ‘se sta mentendo o cercando di dire la verità’, evitando di fare confusione. nasce da lì, inevitabilmente, uno dei tratti che più caratterizzano la variegatissima opera bergeriana: una passione di sperimentazione che nulla ha a che vedere con il virtuosismo stilistico, un’ostinazione a cercare tutt’altro che formalistica, preoccupata solo di ‘andare più vicino’ al proprio oggetto, fino a fondersi in esso. Il che spiega perché sia impossibile, nell’opera di Berger, separare i saggi dai romanzi, la critica dell’arte dai racconti, gli articoli più dichiaratamente politici dalle sceneggiature per il cinema, applicare insomma le categorie tanto care a certa critica letteraria. nelle sue scritture tutto si tiene e tutto fluidamente si concatena.


VIAGGI REPORTAGE

UN TRENO PER MACONDO DEGLI APPENNINI

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la FerroVIa porrettana, la prIma transappennInICa

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uarantasette gallerie, trentacinque ponti, novantanove chilometri fra Bologna e Pistoia. La Ferrovia

Porrettana fu inaugurata da Vittorio Emanuele II nel 1864. L’Italia era appena nata. Erano


trascorsi venti anni dal primo progetto, dieci dall’inizio dei lavori. Opera ardita: fra Pracchia e Pistoia affronta 550 metri di dislivello. A Jean Louis Protche, ingegnere francese, progettista del tratto più difficile della ferrovia, è dedicata

Testi di Marco Aime e Alessandro Lanzetta Fotografie di Alessandro Lanzetta Cartina disegnata da Sergio Leone

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una piazza di Porretta Terme: si inventò una galleria a ‘esse’. La Porrettana è leggenda: supera una pendenza del 26 per mille. Si racconta che il fumo, in una galleria, lunga 1753 metri, asfissiava macchinisti e passeggeri, al punto che i ferrovieri dovevano essere sostituiti non appena il treno tornava all’aperto. Durante la prima guerra mondiale vi viaggiavano settanta treni al giorno. Tempi antichi, storia di appena un secolo. Nel 1990 le corriere cominciarono a sostituire i treni. Ma la gente delle valli ama il suo treno e ne chiede la sopravvivenza. Una frana, a gennaio del 2014, interrompe, per un anno, i binari fra Pistoia e Porretta Terme. Ma a Natale dello scorso anno, i treni ci provano ancora. Questa è una storia di resistenza ferrata. E’ così che due strani passeggeri salgono su questo treno…

VeRSO FRAnCeSCO… erodoto108 • 11

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marco aime, antropologo abituato alle

Afriche e alle montagne del suo Piemonte, sale da Bologna verso l’Appennino. ha un appuntamento con Francesco Guccini, il sogno della sua adolescenza diventa realtà: Marco possiede ogni disco del più celebre dei cantautori italiani. Pavana, il paese di Francesco, è a un chilometro e mezzo dalla stazione più vicina. Ma la ferrovia era interrotta e allora Mimmo, oste a Ponte alla Venturina, viene a prenderlo. Marco è arrivato a Macondo.

‘M

i tornò in mente nel buio quel progetto di attraversare le colline, sacco in spalla, con Pieretto. non invidiavo le automobili. Sapevo che in automobile si attraversa, ma non si conosce una terra. “A piedi” avrei detto a Pieretto, vai veramente in campagna, prendi i sentieri e costeggi le vigne, vedi tutto. C’è la stessa differenza che guardare un’acqua e saltarci dentro’. Mi sono venute in mente queste parole di


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Cesare Pavese ne La bella estate e allora ho deciso di venirci in treno, qui a Pàvana. Per arrivarci più lentamente, per sentirmi più in sintonia con Francesco. Guardo fuori dal trenino che costeggia la Porrettana e ancora non mi sembra vero: trascorrere qualche giorno a conversare con Francesco Guccini, il mio mito giovanile e tuttora il mio autore prediletto. Mi viene da pensare a quante volte ho suonato le sue canzoni da solo o per gli amici.

la conversazione-racconto-memoria di Marco aime e francesco Guccini è raccolta nel libro 'Tra i castagni dell'Appennino', edito dalla Utet.


Lo ammetto, cercavo un po’ di assomigliargli. un momento, non come quegli americani coglioni che si vestono da elvis Presley, ci mancherebbe, da buon provinciale, mi limitavo a calcare un po’ di più la mia erre e tanto bastava. In treno, dicevo, per entrare in sintonia con il passo lento gucciniano. Perciò, abbandonata a Bologna la Frecciarossa (che peraltro ha mezz’ora di ritardo), saliamo sulla Porrettana, quella ferrovia che nel 1864 Vittorio emanuele II inaugurò con il nome di Strada ferrata dell’Italia Centrale. La prima ferrovia a scavalcare l’Appennino con le sue quarantaesette gallerie e i suoi trentacinque ponti. un vero capolavoro di ingegneria.

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Lasciato il groviglio di binari e tralicci di Bologna, il trenino scivola per periferie anonime fino ad accostare il verde cupo dei primi boschi. Dentro, gente semplice, che torna a casa dal lavoro o da scuola. Qui non c’è la classe Smart né la Business. Il treno ferma ogni tre minuti. A Sasso Marconi l’orizzonte comincia a scomparire dietro i pendii collinari. La luna si affaccia timida a guardare quel trenino che ora taglia l’aria fresca dei monti, seguendo le curve della valle del Reno. Marzabotto: il nome sul cartello blu della stazione mette un leggero brivido, induce a un attimo di silenzio. Poi le prime gallerie e boschi che sembrano volersi inghiottire vecchi capannoni industriali,



molti in disuso. Porretta Terme, si scende. Dopo la ferrovia è interrotta da una frana. Ad attenderci c’è Mimmo, amico dei Guccini e gestore della Caciosteria al Ponte della Venturina, poco sotto Pàvana. Toponimi un tempo sconosciuti e per molti ancora oggi ignoti, ma che per i fan di Francesco suonano come Macondo per gli amanti di Garcìa Marquez, Salinas per quelli di Steinbeck, la Bodeguita del Medio per un hemingwaiano. ‘Prendete la strada del mulino, così finalmente vedrete il Limentra!’, ci dice Mimmo. Sì, finalmente vedremo il Limentra….

PenDOLARI DeI BOSChI

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alessandro lanzetta, fotografo fiorentino, non va da Francesco, non si spinge fino a Pavana, ma, in giorni di viaggio, intreccia amicizia con pendolari e maestri, operai 130 e ragazzi taciturni. e’ il piccolo mondo della Porrettana. Alessandro non riesce a scendere dal treno. Vuole vivere su quei binari e, a fatica, riusciamo farci dare le foto che a scattato. Alessandro ha scoperto il misterioso paese di Amore, i fantasmi dei soldati brasiliani che qui combatterono e ha incrociato gli sguardi delle vittime di Marzabotto. e poi c’è una donna che, ogni mattina, scende dai suoi boschi e va a lavorare. Al paese, rimane sua figlia, la sola bambina di quelle montagne.

P

ioppe di Salvaro, Appennino Bolognese. Sette e quaranta di mattina. Salgo sul treno, i pendolari siedono sempre al solito posto. nella penultima carrozza. Incontro alcuni studenti, vanno a Porretta Terme, confine con la Toscana. Ci sono dei lavoratori, scendono un po' prima. A Riola. un rito quotidiano, spesso silenzioso, questo del treno, accompagnato da musica in cuffia, dal gioco con lo smartphone e i libri con i compiti non ancora finiti. un’amica di Molino del Pallone, paese tra Porretta


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MARCO AIME, 58 anni, torinese. ha condotto ricerche nelle alpi e in africa occidentale e insegna antropologia culturale presso l'Università di Genova

ALESSANDRO LANZETTA, fiorentino, 33 anni.cooperante umanitario per lavoro, contadino per passione, fotografo per vocazione, curioso per natura. Per il resto non vuole scrivere.

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SERGIO LEONE, 35 anni, 132 siciliano di caltagirone, vive a firenze da sedici anni, non è un regista western, ma un architetto ed ama disegnare. Scovato per le sue tavole a metà tra poesia e denuncia sociale è un sentimentale, ma non è “fatto per le storie lunghe”.


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Terme e Pistoia, mi aveva fatto conoscere i suoi compagni di viaggio, quelli che scendono alle fermate più vicini alla città toscana. Anche qui tante persone, tanti rituali. C'è chi lavora a maglia, chi dorme e chi ne approfitta per rifarsi lo smalto alle unghie. Per qualche giorno ho seguito i pendolari, con un po' di difficoltà, perché si muovono veloci. Conoscono gli orari dei treni a memoria, arrivano all'ultimo minuto, corrono da un treno all'altro, e quando scendono spariscono in un attimo. Salgono sul treno come se entrassero in casa e scelgono posti vicino al finestrino. non guardano molto fuori, ma io sì. Mi é capitato troppe volte di distrarmi per colpa del Reno, un fiume strano che scende verso nord, da Pistoia verso Bologna e accompagna per un buon pezzo la Porrettana. nell’Ottocento, quando progettarono la costruzione di questa, prima ferrovia transappeninica, decisero che il posto più sicuro per far passare il treno era lungo il letto del fiume, a fondovalle. Le ho scese le vallate lunghe e strette della Montagna Pistoiese, tra Ponte della Venturina e Pracchia, per vedere da vicino dove passa il treno, tra caprioli, correnti d'acqua e boscaglia selvaggia. I boschi sono belli e bisogna raggiungerli in treno: è emozionante arrivarci grazie a questi binari, antico simbolo della modernità. Oggi le corriere minacciano di condannare la Ferrovia Porrettana.


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Viaggiando su questo treno, ho trovato anche un piccolo borgo chiamato Amore. Sembra un monito per un territorio che lotta contro l’abbandono della montagna, mentre più di cinquant’anni fa si confrontava con un nemico più brutale: di qui passava la Linea Gotica, queste sono le calli di Marzabotto. La memoria dell'eccidio è nell’aria. Ma chi si ricorda dei brasiliani? A liberare l’Italia in queste montagne c'erano anche loro e a Pistoia hanno costruito un memoriale per commemorarli. C'é da ricordare anche il bellissimo ponte fatto saltare dai nazisti a Piteccio: pensate, una locomotiva

partiva da Parigi e arrivava a Roma fischiando proprio mentre passava per questo ponte. La Ferrovia Porrettana va difesa. e’ un piccolo treno che bisogna proteggere affinché la storia di queste montagne possa continuare. Mi viene spesso da pensare alla mia amica che vive tra i boschi intorno a Pracchia. Ogni mattina va a lavorare a Pistoia e la sera torna dalla famiglia, tra le sue montagne. nel piccolo paesino, sua figlia è da sei anni l’unica bambina.


la ferrovia porrettana fu la prima a varcare gli appennini

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STORIE

DI CIMITERI

Il cimitero ebraico di Ferrara

L’InSOSTenIBILe LeGGeReZZA DI MICòL

Testo e foto di Sandro Abruzzese

In piedi, davanti alla tomba di Giorgio Bassani, con le pagine dei Finzi-Contini in mano. Questo è un luogo che ha un forza silenziosa. è una ferita che non si rimargina e, tuttavia, la sua cicatrice in qualche modo riconcilia. è il posto in cui si incontrano il dolore e la pace di un mondo. e che ci ricorda che la vita è fatta di colpevoli e di innocenti

H

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o suonato alla porta e mi ha aperto una donna sulla sessantina, dai capelli fulvi e ricci. Una donna pallida, dal volto austero, con nessuna espressione sulla faccia e poche, precise parole per istruirmi. Indosso la kippah e sono all’interno di questo luogo sacro e dolente. Sono completamente solo. Il dorso della terra è ricoperto di un verde fitto, acceso. Un prato vivido si oppone alle nuvole che coprono la mia testa. Non li ho chiesti io questi raggi di sole che si fanno largo tra le nubi. Non ho chiesto l'arcobaleno che disegna una parabola perfetta sui vivi come sui morti.

Il cimitero ebraico di Ferrara è identico a come Giorgio Bassani lo descrive nel prologo dei FinziContini: “I grandi prati sparsi di alberi, le lapidi e i cippi raccolti più fittamente lungo i muri di cinta e di divisione, e, come se l’avessi addirittura davanti agli occhi, la tomba monumentale dei Finzi-Contini…”. Ecco anch’io, ora, vi sono davanti. Il suo marmo bianco, i prati, le colonne laterali. Il romanzo si è fatto vita. Solo che nella vita vera, il nome della famiglia è Finzi-Magrini.

Sembra che qui molti defunti abbiano perso chi li aveva a cuore. Si legge nelle sterpaglie, nei marmi divelti. Vi è abbandono. Provo stu-


Percorro quasi tutta la strada indicatami dalla custode all'ingresso e finalmente ci sono. Bassani riposa a pochi metri dalle mura degli Angeli, ha chiesto di essere seppellito qui e ora che sono sulla sua tomba, un piccolo monumento a firma di Arnaldo Pomodoro, non riesco a scrivere nulla sul taccuino. Visitatori hanno lasciato dei sassi levigati, la loro firma, fiori, dediche.

Alcuni messaggi in lingua tedesca. Lo stesso vale per la tomba di Micòl, Giuliana Finzi-Magrini, questo il vero nome della protagonista femminile del romanzo. Rivedo i sassi e ricordo che coprivano anche la tomba di Carlo Levi, ad Aliano. Mi chiedo di questa sensazione forte, indecifrabile. Un po' di sollievo arriva dalla scoperta che Micòl è sopravvissuta alla seconda guerra mondiale. Un foglietto a quadretti, fissato con una pietra sulla sua lapide, reca questa scritta "Micòl, grazie per la tua insostenibile leggerezza".

SANDRO ABRUZZESE, 36 anni, irpino. laurea in lettere moderne a Napoli. Insegnante d’italiano e storia nelle scuole superiori nel veronese. ora a ferrara. Blogger per necessità: cura il progetto racconti137 viandanti e scrive per colmare la distanza, il vuoto vuoto, lo spazio che –sostiene – lo separa dalle cose e dalle persone.

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pore per questo luogo di rara bellezza. Cammino nervosamente, pervaso da una strana emozione. È una giornata particolare, mi dico. Intanto, a ogni passo, perdo il copricapo. Senza accorgermene, finisco col camminare con una mano fissa sul capo e l'altra che penzola.


OROSCOPO

canza d'acqua, in genere per insufficienti precipitazioni atmosferiche; si intende anche l'aridità del terreno che ne consegue. Se la siccità Oroscopo di devasta le culture e rende difficile Letizia Sgalambro in alcuni casi la sopravivenza, in alcune parti del globo ha anche dei riIl pianeta terra ha una svolti positivi: più siccità vuol dire sua vita e una e sua meno uragani, che si formano solo grazie alla pioggia. Sta per iniziare forza che neanche un breve periodo di siccità caro l’egoismo e lo Leone, ti invito a scoprire quali sfruttamento dell’uomo aspetti postivi questo potrà apporriesce a domare. tare alla tua vita. 21 Maggio -20 Giugno Consiglio di stagione: L’arte Ogni sua manifestaL’alternarsi delle maree influenza scuote dall’anima la polvere accuzione viene vista vari aspetti della vita. La caratteri- mulata nella vita di tutti i giorni. spesso come stica principale è quella di scoprire maledizione, ma in re- o ricoprire pezzi di terra, che per otto ore sono calpestabili, e per alaltà contiene una sua tre otto devono essere lasciati stare. ragione di essere. Nei prossimi mesi la tua vita inL’oroscopo estivo di contrerà la bassa marea: avrai la possibilità di scoprire parti di te erodoto ci accompagna a scoprirne il lato che di solito sono sotto l’acqua e avrai delle belle sorprese. Cosa positivo. vuoi fare, tirarle definitivamente fuori o lasciarle a mollo? Consiglio di stagione: Non dare mai niente per definitivo, 21 Marzo -19 Aprile tutto si evolve. I prossimi mesi potrebbero essere paragonati a un terremoto: molte delle tua certezze cominceranno a 21 Giugno – 22 Luglio traballare ed alcune crolleranno mi- Ci sono dei vulcani che restano siseramente. In natura, anche la di- lenti per anni per poi cominciare a struzione e la brutale esposizione eruttare improvvisamente. La loro delle sue manifestazioni coesistono forza deriva dal fuori uscire del 23 Agosto - 22 Settembre necessariamente con l’evoluzione e magma che si forma al di sotto Le tempeste sono classificate in il progredire dei cambiamenti. Non della crosta terrestre. I materiali vari modi, e tutti descrivono uno è il caso quindi di preoccuparsi, eruttati sono lava, cenere, lapilli, stato disturbato dell’atmosfera, cadalle macerie verranno fuori una gas, scorie varie e vapore acqueo. ratterizzato da vento, temporali, precipitazione di vario tipo (ghiac138 serie di occasioni che in altro modo Anche dentro di te ci sono diversi cio, neve, grandine…). Ci sono non avresti avuto la possibilità di sogni e desideri tenuti sotto la cevedere. Non indugiare sul passato, nere da troppo tempo, è arrivato il delle tempeste che hanno cambiato imbocca la nuova strada con entu- momento di farli eruttare per im- il corso della storia, o forse che ne hanno impedito il cambiamento: siasmo. parare a conoscerli. dai tifoni che hanno affondato le Consiglio di stagione: Consiglio di stagione: Buone radici danno stabilità. Quello che sale deve anche scen- flotte mongole alla conquista del Giappone nel 1200, a quelle che dere. hanno bloccato le navi francesi alla conquista della Gran Bretagna nel 20 aprile -20 maggio 1700, alla tempesta di neve che Quando arriva un uragano la forza 23 Luglio - 22 Agosto del vento può essere di oltre 120 Il termine siccità proviene dal la- blocco l’avanzata tedesca in Russia km orari e può arrivare a sradicare tino siccus, col significato di secco, durante la seconda guerra monanche alberi secolari. All'interno arido. Indica la prolungata man- diale. La tempesta che sta per attraversarti avrà anch’essa un suo

le stelle dell’estate

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Ariete

Toro

dell’uragano, si sviluppa un'area di relativa calma chiamato occhio. L'occhio è spesso visibile nelle immagini di satellite come un piccolo punto circolare libero dalle nuvole. Nei prossimi mesi sperimenterai questa capacità di mantenere la calma interiore anche nei momenti più burrascosi. Consiglio di stagione: Nei momenti di maggior tensione osserva il tuo respiro.

Gemelli

Cancro

Leone

Vergine


Bilancia

di preavviso, in pochi secondi, ed è capace di avere un impressionante potere distruttivo trascina dosi dietro tutto ciò che incontra. Quest’estate, caro Scorpione, sarà il momento in cui qualcosa di grosso che ti ostacolava si staccherà e, a valanga, si porterà indietro molte delle tue negatività. Consiglio di stagione: Si può misurare il moto dei corpi, ma non l’umana follia.

23 settembre - 22 ottobre Ciò che ultimamente tutti chiamiamo tsunami è in realtà un maremoto, ovvero un moto ondoso anomalo che può essere originato da un terremoto, una frana, un’eruzione vulcanica, un impatto meteoritico. La sua pericolosità è data dalla profondità dell’onda più che 22 novembre – 21 dicembre dalla sua ampiezza. Il consiglio che Il geyser si genera per effetto di le stelle ti vogliono dare, cara Bi- una pressione gassoso-tellurica che determina un’eruzione d’acqua calda dal terreno. L’Islanda è un paese in cui è possibile osservare i geyser ed è una terra in cui riescono a convivere il ghiaccio e il fuoco, che continuano a modificare il territorio. Gli opposti, anche dentro di te possono convivere, ed è inutile che tu cerchi di eliminarli. Impara ad accogliere opposti ed eccessi e vedrai che raggiungerai un nuovo equilibrio che ti porterà serenità. Consiglio di stagione: L'opposto dell'amore è la paura.

Sagittario

Capricorno

lancia è questo: abbassa il livello dell’acqua, non permettere che qualcosa di esterno faccia scaturire uno tsunami nella tua vita, apri prima il rubinetto, non tenere tutto dentro. In questo modo ti troverai pronto ad affrontare l’inatteso senza il terrore di esserne travolto. Consiglio di stagione: Solo buttando via qualcosa si riesce a fare spazio.

Scorpione

23 ottobre - 21 novembre Quando la neve che si è accumulata sui fianchi di una montagna si stacca dal piano di appoggio e precipita a valle, siamo in presenza di una valanga. È un fenomeno che si manifesta senza particolari segnali

22 Dicembre -19 Gennaio I nubifragi sono precipitazioni piovose molto intense che hanno una durata molto breve, ma creano forti condizioni di allagamento. Ultimamente vengono anche definiti ‘bombe d’acqua’. In questo momento hai bisogno di allentare e diminuire l’intensità cui stai vivendo alcuni aspetti della tua vita per evitare di scatenare bombe d’acqua che poi richiedono molto tempo per essere prosciugate. Poni la tua energia sui tempi lunghi, ed evita gli sfoghi improvvisi e violenti, vedrai che tutto si risolverà per il meglio. Consiglio di stagione: Allarga il tuo sguardo per vedere oltre l’abitudine.

Acquario

20 gennaio- 18 febbraio Un'alluvione si verifica quando una zona che normalmente è asciutta viene allagata dalle acque che traboccano dalle rive o dagli argini di un fiume in piena a seguito di piogge prolungate e di forte intensità. L’alluvione di Firenze del 1966 fu un’occasione unica di solidarietà, migliaia di giovani da tutto il mondo arrivarono per aiutare a ripulire del fango le opere d’arte. Anche tu potrai sperimentare la solidarietà di chi hai intorno, anche da parte di chi non ti aspetteresti mai, e vedrai che ciò che di primo acchito ti è sembrato negativo, ti mostrerà aspetti a cui non avevi pensato. Consiglio di stagione: Ciò che sappiamo è una goccia, ciò che ignoriamo un oceano.

Pesci

19 febbraio - 20 marzo Una frana accade quando delle masse di roccia si staccano da pendii più o meno ripidi e cadono, o scivolano, verso il basso. Ogni frana è un evento a sé, può essere provocata da cause naturali, come la pioggia o la presenza di fratture nel terreno, e da cause artificiali, come la costruzione di edifici sui pendii, o il disboscamento, che priva il terreno della protezione delle radici. Una frana porta sempre via qualcosa e lascia spazi vuoti che possono essere riempiti di cose diverse, più stabili e durature. Sei pronto a lasciare andare e a rinno- 139 vare? Se saprai entrare nel flusso della natura avrai delle splendide sorprese. Consiglio di stagione: Quando uomini e montagne si incontrano, grandi cose accadono.

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giusto motivo, mettiti al riparo e aspetta che passi. Consiglio di stagione: E’ inutile combatter contro i mulini a vento.

LETIZIA SGALAMBRO 52 anni, sagittario, counselor ed esperta di processi formativi. Crede che per ognuno sia già scritto il punto più alto dove possiamo arrivare in questa vita, e che il nostro libero arbitrio ci fa scegliere se raggiungere quel traguardo o meno. L'oroscopo? Uno strumento come altri per illuminare la strada.


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