Da predatori a imprenditori

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Collana Green Communication



Diego Masi

CORPORATE GIVING & SOCIAL INNOVATION

DA PREDATORI A IMPRENDITORI

COME LE IMPRESE DOVRANNO RISPONDERE ALLA SFIDA DELLA SOSTENIBILITÀ PER NON FARSI “ROVINARE” DALLE TASSE


Diego Masi DA PREDATORI A IMPRENDITORI Come le imprese dovranno rispondere alla sfida della sostenibilità per non farsi rovinare dalle tasse Progetto grafico: Arianna Pierri, Gian Luigi Minoggio © 2013 Logo Fausto Lupetti Editore Via del Pratello, 31 40122 Bologna-Italy Tel. 0039 51 5870786 www.faustolupettieditore.it In coedizione con: Galatea srl Piazza Grandi, 24 20135 Milano-Italy Distribuzione Messaggerie Libri EAN 978-88-97686-61-3 Stampato su carta Forest Stewardship Council


Grazie mille a tutti i nostri donatori, ai volontari, ai genitori a distanza che hanno aiutato a far nascere e continuare l’esperienza di Alice for Children. Grazie a Valentina ed Elena che curano il progetto come fosse un loro bambino.

In collaborazione con Sara Occhipinti per l’editing complessivo e Cecilia Mezzano per la ricerca sulle fonti.



INDICE Introduzione .................................................................................. pag. 9 Capitolo 1 - Alice for Children, l'esperienza da cui nasce questo libro.................................................................. pag. 17 Capitolo 2 - La Terra: un pianeta non più sostenibile. La sovrappopolazione lo sta distruggendo....................................... pag. 41 Capitolo 3 - Senza sostenibilità: il rischio di un disastro planetario ................................................... pag. 61 Capitolo 4 - Il diritto alla sostenibilità ........................................... pag. 81 Capitolo 5 - I protagonisti della solidarietà: cittadini, Stati, ONG ..................................................................... pag. 105 Capitolo 6 - Trasparenza e Comunicazione: grande ambiguità.... pag. 123 Capitolo 7 - Corporate social responsibility: finta, finita o solo superata? ......................................................... pag. 153 Capitolo 8 - Le fondazioni: nuovi champions della filantropia?................................................ pag. 171 Capitolo 9 - Social innovation: investimenti sociali ed economia sociale........................................ pag. 193 Capitolo 10 - Il grande viaggio verso l’economia sociale............... pag. 213 Capitolo 11 - Lasciare un segno................................................... pag. 227 Epilogo........................................................................................ pag. 235 Appendice .................................................................................. pag. 239 Glossario .................................................................................... pag. 257 #nextgendonors ........................................................................ pag. 265 World Giving Index 2012 .......................................................... pag. 271 Sitografia ................................................................................... pag. 276



INTRODUZIONE

Corporate Giving: scrivere una storia per essere ricordati La domanda che una impresa dovrebbe farsi è sostanzialmente una sola, a prescindere dalla sensibilità del management: per rispondere alla sfida della sostenibilità, mi faccio rovinare dalle tasse o anticipo i problemi con progetti di corporate giving originali e seri? Lascio un segno della mia presenza sulla Terra in modo che mi ricordino o lascio un segno sulla Terra, forse di profitti, ma senz’altro di spoliazione? Lavoro per gli azionisti o per i figli degli azionisti? Queste sono le domande di fondo che poniamo in questo libro dedicato al corporate giving. Perché secondo noi è nell’interesse dell’impresa costruire un solido percorso di donazioni, non solo per limitare i rischi, ma anche per evitare di venire annientati dalle tasse prima o poi. E per costruire delle belle storie, che facciano bella anche l’azienda e che possano essere raccontate e raccontate ancora. Poche imprese in Italia lo fanno e, quando accade, sembra che lo facciano senza un vero piano. Questo libro vuole spiegare alle aziende che far del bene fa bene anche a loro. Se la necessità di programmare

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un piano di corporate giving moderno e aggiornato coi tempi non è tale nel cuore della realtà imprenditoriale, sicuramente lo è almeno nelle sue tasche. Perché il diritto alla sostenibilità lo richiede. Il nostro Pianeta è ormai ai minimi termini. E la sovrappopolazione è ai massimi. Ci vorrebbero undici Terre per accontentare tutti, se tutti consumassero come un americano o un europeo. Sfortunatamente per chi si trova in condizioni di indigenza o fortunatamente per il Pianeta, solo 1 miliardo di persone su 7 vive da cicala, gli altri da formica e riequilibrano il dissesto. Ma fino a quando? Da qui al 2050 il welfare si allargherà, le nuove classi medie avanzeranno, le risorse scarseggeranno sempre di più e costeranno sempre di più. E allora la gente si arrabbierà. Tanto. Nascerà un movimento che premerà sugli Stati e sulla politica. Le Istituzioni, a loro volta, dovranno rifarsi sulle imprese che utilizzano e spesso devastano il Pianeta per creare i loro prodotti. Verranno alzate le tasse. E i livelli di attenzione ambientale. Verrà impedito lo sfruttamento intensivo dei terreni, tassata l’acqua, saranno interdetti i mari e via dicendo. Sarà domani. Dopodomani. Nessuno lo sa bene. Ma sarà presto. Molti segnali ci sono già. La Bp, con la devastazione del golfo del Messico, ha rovinato anni e anni di reputazione. E ha pagato in tasse per anni e anni di profitti a venire. La terribile strage di Dacca (che ha ucciso oltre 1000 lavoratori tessili, per lo più bambini) ha messo a nudo le inutili parole di tutela del lavoro nel Terzo Mondo che molte aziende dal nome altisonante, a partire dai Benetton, hanno pronunciato in questi ultimi anni. E che dire dell’Ilva? Una società che è una città nella città che nei suoi poteri forti si è sollevata contro la azienda che la mantiene. E lo Stato non solo è dovuto intervenire, ma anche espropriare. A torto o a ragione, perché nessuno oggi è in grado di giudicare. Ma l’azienda e i suoi legittimi proprietari, intanto, devono pagare. Caso simbolo di una questione che è sfuggita di mano a tutti.


Esempi come questi, italiani e stranieri, in terre avanzate e moderne o nel Terzo Mondo, sono ormai all’ordine del giorno. La sequenza è così strutturabile: l’impresa crea o continua a procurare il danno, la gente (che è diventata molto sensibile alla sostenibilità) denuncia, la comunicazione amplifica, le ONG stigmatizzano e lo Stato interviene. E interviene male, solo sull’onda emotiva: castiga l’azienda più di quello che sarebbe stato giusto o economicamente corretto, creando un precedente che influenza altri Paesi. E via così… Questo libro vuole avvisare i naviganti. E inquadrare anche i giocatori della partita. Perché non ci sono solo le aziende in campo ma anche i cittadini, le organizzazioni di volontariato, lo Stato e le fondazioni. E non secondariamente, le nuove tendenze sociali, i nuovi diritti, la tecnologia, la comunicazione, i donatori, la social innovation, i fondi sociali, l’economia sociale e il superamento di molte categorie di Onlus. Intorno al GIVING, inteso come donazioni complessive verso aree di bisogno, si agita un mondo che sotto la spinta della comunicazione e della tecnologia si sta modificando in modo complesso e sta evolvendo verso nuovi modelli che occorre cominciare a elencare e discutere. In sintesi il libro sostiene che nei prossimi 40 anni il nostro Pianeta subirà uno sconvolgimento terribile, dovuto principalmente a 5 fattori che lo influenzano. L’aumento demografico, in primis, porterà sulla nostra già malridotta Terra altri 2,5 miliardi di persone, per lo più asiatici e africani, aumentando il saldo attuale a 9,5 miliardi complessivi. Un salto del 25% in più. Un quarto più di adesso. Un altro fenomeno del tutto correlato all’incremento della popolazione sarà il continuo impoverimento delle risorse, della terra e del mare, che - già super sfruttate non potranno rigenerarsi ancora. Da questo deriva o si aggiunge, come preferite, il tema dell’alimentazione. Alimentazione che scarseggia sempre di più. Con due assurdi: un miliardo di persone non può man-

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giare e un miliardo muore di obesità. In un processo di globalizzazione commerciale che è ormai inarrestabile. Il tutto avviene, poi, nell’incertezza dei cambiamenti climatici che potrebbero sconvolgere il nostro Pianeta rendendo questi fenomeni ancora più pericolosi. L’unica speranza è ovviamente lo sviluppo tecnologico che se da un lato allunga la vita e accresce la popolazione, dall’altro aiuterà non poco a risolvere il macello che stiamo combinando. Insomma, siamo di fronte a un Pianeta che ormai è insostenibile. Il rischio, come dimostrano tutte le tendenze e le ricerche a cui nel libro diamo ampio risalto e riscontro, è quello di un disastro planetario. E cosa fa la gente? Non ci pensa? Non è vero. Tutte le ricerche, ma anche l’attenzione dei media, stanno sottolineando la nascita di un nuovo diritto. Il diritto alla sostenibilità. È un diritto complesso, recente, che ne raccoglie altri più semplici come il diritto a una corretta alimentazione o a una giusta sanità; ma anche, nei Paesi più avanzati, il diritto a città senza inquinamento. Dipende molto dalle latitudini o dalle longitudini alle quali le persone vivono. Ma ormai è assodato che il diritto alla sostenibilità sta avanzando. E che occorre muoversi. Il movimento principale è collegato e correlato con una grande massa di denaro, ma anche di sentimento e di sensibilità, che viene versato per rendere questo mondo più sostenibile. Attraverso le donazioni. Il libro comincia a delineare meglio i giocatori di questo campionato delle donazioni, aiutandosi con ricerche e con studi: i cittadini, le imprese, gli Stati, le Istituzioni e il mondo del volontariato. E ne tratteggia luci e ombre. Specie delle ONG che sono state il grande megafono dei diritti calpestati. E che oggi si stanno riducendo a strut-


ture sempre più burocratiche con bilanci opachi e pochi controlli. In un capitolo abbiamo provato a tracciare il viaggio di un euro mandato con amore dal proprio cellulare. Un viaggio che fa arrivare solo circa il 20% di quell’euro alla causa per cui è stato donato. Il libro, poi, inizia a parlare delle imprese e delle loro donazioni, chiedendosi se il processo di CSR sia ormai superato, se sia finto o finito. La nostra tesi è che sia morto o che sia un’aspirina per un tumore oppure uno strumento superato di risk management. Ci vuole ben altro. Ci vuole cuore. Ci vuole una visione nuova. E ci vogliono tanti soldi. Anzi ci vuole la volontà di prendere una parte consistente di profitto e di darlo a progetti per la sostenibilità di questo Pianeta. Credo che un’azienda, per capirci, debba iniziare a pensare nell’ordine di un buon 20-30% dei suoi profitti investiti per il Pianeta. Del resto se lo distruggi, dovrai risarcire. E i manager dovranno farlo prima o poi, se non per visione, per la paura di tasse imposte in modo emotivo dagli Stati pressati da cittadini furenti. Le tendenze americane vanno in questa direzione. Le fondazioni sono una prima risposta. Anche quelle corporate. La Bill e Melinda Gates Foundation sta cambiando il mondo della filantropia. Da sola dona ogni hanno quanto l’Eni ricava di profitto netto. Circa 4 miliardi di dollari. Bill Gates ha preso 40-50 dei suoi miliardi (più quelli che gli ha regalato Warren Buffet) e li ha inseriti nel circuito della speranza. Cambiando tutte le regole del gioco. Da solo investe ogni anno, senza fare il megafono della povertà, quasi quanto tutte le ONG del mondo. Ma c’è di più. Cento miliardari americani hanno aderito alla richiesta di Gates e di Buffet di donare metà delle proprie ricchezze a cause filantropiche.

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Basta andare sul sito Giving Pledge, il sito più semplice che si possa mai concepire, e leggere la loro promessa. Questo significa che tra un po’ un buon 20% della ricchezza americana entrerà nel circuito della sostenibilità. Gates o Buffet saranno più famosi per la loro capacità imprenditoriale oppure per la bella storia che stanno scrivendo? Io non ho dubbi. Questa spinta delle fondazioni - che ha già trovato l’accordo a continuare (in appendice c’è la ricerca Next Gen Donors) nelle nuove generazioni dei grandi donatori sta introducendo nuovi modelli di donazione e maggiori richieste di efficienza e di controllo. E fa intravedere i nuovi modelli di sviluppo rispetto al vecchio modo di donare. Gli investimenti e i bond sociali dovrebbero essere un nuovo strumento utilissimo per i servizi sociali, utilizzato da enti pubblici in accordo con investitori privati. Ma torniamo al nostro punto di partenza. Per le imprese, l’economia sociale sarà la vera nuova frontiera dello sviluppo delle donazioni. In altre parole, le imprese dovranno investire parte consistente dei loro profitti in opere a sostegno della collettività e nel rispetto della sostenibilità. Ma anche qui c’è modo e modo di fare economia sociale. C’è Patagonia , forse l’esempio più sociale che esista, ma ci sono anche da noi Cucinelli, Alessi, Tod’s. Alcuni primi esempi di economia sociale. Nel libro raccontiamo come si può fare e cosa si può fare. In sintesi è molto semplice, sapendo che nel futuro tutte le imprese dovranno, prima o dopo, operare in questa direzione. Occorre scrivere una bella storia della propria azienda che integri e dia valore sociale alla produzione. Scriverla, viverla e raccontarla. E lasciare un segno. Perché di una impresa, i prodotti spesso muoiono o sono superati dalla tecnologia, i marchi vengono falcidiati, i manager o i proprietari potenti dimenticati. Ma la storia sociale che hanno scritto rimane, viene ri-


cordata, viene tramandata e con lei anche il ricordo delle persone e dei prodotti. Le storie sociali sono più forti di tutto. Il corporate giving è tutto qui: lasciare un segno. E aiutare la nostra Terra a non morire! P.S. Ho scritto questo libro per razionalizzare questi dieci anni di lavoro nel volontariato sociale e per capire se fossi sulla linea corretta. Mi sembra - alla fine del lavoro - di sì. Il progetto Alice for Children (ne parliamo nel primo capitolo), che mia moglie e io seguiamo con amore e dedizione, è una piccola goccia nel mare. Ma per i bambini che vediamo crescere come fossero nostri figli questa goccia è tutto il mare. E per noi, una grande soddisfazione. Anche noi abbiamo voluto lasciare un piccolo segno tracciato con le nostre forze e con l’aiuto di tanti, tanti meravigliosi amici.

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Korogocho Una distesa ampia, a perdita d’occhio, fumante, maleodorante, colorata da sacchetti di plastica variopinti che, quando si alza il vento, turbinano nel cielo accompagnando il volo degli uccelli a caccia di cibo tra l’immondizia. Un universo a parte, con una sua vita intensa, come in una fabbrica desolata: persone chine su cumuli di spazzatura che operosamente riempiono sacchi con resti di cose; animali, cani, maiali che razzolano nella sporcizia; camion che scaricano rifiuti; strade non progettate ma tracciate dall’inesorabile calpestio di milioni di uomini e donne che arrancano nella miseria; ripari improvvisati fatti di stracci appesi a bastoni; bambini che corrono e giocano ai margini del sudiciume. Questa è Dandora, la più grande discarica a cielo aperto d’Africa: oltre tre chilometri quadrati di terreno ricoperto da scarti all’interno dello slum di Korogocho, la baraccopoli alla periferia della capitale keniota, Nairobi. Dandora sorge nel centro abitato, in mezzo alle case dello slum, a circa 200 metri dalla Chiesa di St John, sede dei missionari comboniani. Chiesa che ospitò il famoso padre Alex Zanotelli, direttore di Nigrizia - rivista men-

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Entrando in uno slum di Nairobi, si viene assaliti da una realtà che resterà per sempre vivida nella memoria

sile dei comboniani dedicata al continente africano - e autore di un libro memorabile su Korogocho. Qui, padre Alex Zanotelli venne esiliato dalla politica italiana e dalla chiesa ufficiale perché aveva, negli anni ruggenti del socialismo da bere, criticato la spesa clientelare della cooperazione italiana. Qui, trasformò quella che voleva essere una punizione in un percorso di redenzione, operando per sostenere la popolazione locale. Dandora si trova anche a 200 metri dalla nostra scuola che ospita un asilo e una primaria fino alla classe ottava. L’istituto è frequentato da 850 bambini, tutti in pullover rosso. Bambini fieri della loro divisa, indossata sia d’inverno - che a Nairobi, a 1700 metri di altezza, può essere rigido - sia d’estate. Per me e mia moglie tutto è iniziato lì, in quella “scuolina”, un giorno di 6 anni fa. Ci portò a visitarla Edmond Opondo Oloo, presidente di una ONG locale a tutela degli orfani e dei bimbi più vulnerabili di Korogocho. L’avevamo appena conosciuto: magro come un chiodo, alla guida della sua auto - una Corolla degli anni ‘70 che temevamo si disintegrasse a ogni buca - Edmond ci ha condotto per la prima volta tra le vie dello slum. Ne avevamo già visti e visitati di posti così in India, in Brasile, in Sud Africa. Mai a Nairobi, dove eravamo appena arrivati. Entrando in uno slum di Nairobi, si viene assaliti da una realtà che resterà per sempre vivida nella memoria. Per un occidentale è quasi inimmaginabile vivere in un luogo del genere. Il primo impatto è acre come l’odore che colpisce lo stomaco quasi fosse un pugno. Un odore di immondizia lasciata al sole per giorni, per anni a fermentare. Un odore di escrementi, di pioggia stagnante, di un fiume che è la cloaca dello slum, dove qualsiasi scarto viene buttato. Un odore che ti segue costantemente e che non ti lascia più, anche nel ricordo. Poi, sono le immagini a stordire. Sporcizia e rifiuti campeggiano ovunque: pattumiera ormai spogliata di ogni suo residuo organico, plastica dappertutto che non muore mai. Lo sguardo si perde su un’infinità di baracche in lamiera, alcune in muratura, dove possono vivere in pochi metri quadrati - 15 per capirci - anche 10 persone. Case e persone. Le une attaccate alle altre in un groviglio senza senso e in una continuità interminabile: si entra in


un vicolo e se ne apre immediatamente un altro, e poi un altro ancora; una moltitudine di viuzze dissestate che conducono ad altrettanti tuguri e cortiletti malconci; buchi nel suolo mai riparati e canaletti di scolo creatisi naturalmente per raccogliere i liquami da far scivolare fino al fiume. Qui la gente sopravvive in assenza di igiene, di acqua e di elettricità, ammassata all’inverosimile in spazi ridottissimi. Tuttavia, un'allegria spontanea contrasta con il degrado circostante. Stupisce vedere volti sorridenti, persone normalmente affaccendate nei lavori quotidiani: una donna che lava vigorosamente i panni in un secchio di plastica e li appende lindi in una strada sudicia, un’altra donna che ordinatamente vende banane e mango seduta per terra, uomini che espongono le proprie mercanzie, tutte di seconda mano, all’interno di piccoli negozi di lamiera e bambini, tantissimi bambini, che giocano, ruzzolano e corrono divertiti in mezzo al fango, alla spazzatura, alla sporcizia. Sono vestiti in tutti i modi e colori, sono allegri e vogliosi di vivere. Troppo spesso sono ammalati. Dopo l’olfatto e la vista, è la mente a venire segnata da una improvvisa sensazione di paura. La paura della propria ignoranza del luogo. La paura del nuovo, di ciò che non si può prevedere e controllare perché estraneo alle consuetudini. Paura fisica di uno scontro, magari provocato da una sorta di razzismo al contrario, oppure di un attacco, da parte di un ubriaco, di un vecchio, persino di un bambino. Si tengono stretti al corpo i propri beni, ci si guarda intorno circospetti, anche se accompagnati, non si filma per timore di venire derubati. Tutto fa paura: il luogo, la popolazione, le malattie, la cultura. Tutto così alieno a ineluttabile testimonianza di come, nell’epoca del benessere, ci possano ancora essere luoghi così. Luoghi dove vivono milioni di persone. Solo a Nairobi, su 6 milioni di abitanti, quasi quattro si trovano negli slum. Nello slum di Korogocho, guidati da Edmond, ci imbattemmo per la prima volta in quella “scuolina”: 850 bambini oggi. Da noi, in Italia, sarebbe una “scuolona”. In Africa, invece, dove metà della popolazione non supera la soglia dei 15 anni, è solo una “scuolina”. La trovammo, credevamo di avere esperienza e decidemmo di sostener-

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Tuttavia, un'allegria spontanea contrasta con il degrado circostante


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la. Voleva essere un omaggio alla memoria della madre di mia moglie, morta da poco. Questo fu il nostro inizio: da qui prese il via un lungo percorso che ci ha consentito di ampliare e rendere il progetto duraturo nel tempo e di arrivare a scrivere questo libro. Un libro che si propone di ragionare sul perché sia giusto sostenere e in qualche modo “risarcire” popolazioni lontane miglia e miglia da noi, operando concretamente per frenare il declino di un Pianeta che, invece, non ci sostiene più. Sappiamo che sono gocce nel mare, certo, ma il mare è fatto di gocce. Ricordiamolo. Convogliando gli sforzi nel modo giusto e nello stesso “bacino”, sarà più facile affrontare le sfide che il futuro ha in serbo per noi, per i nostri figli, per i figli dei nostri figli. Pensare il futuro è un bell’esercizio ed è l’obiettivo che si prefigge questo libro.

L’inizio dell’esperienza

La discarica di Dandora, la più grande d’Africa a Korogocho

Flashback su di me: sono stato presidente italiano di ActionAid - organizzazione non governativa (ONG) nata per combattere la povertà nel Sud del mondo - e membro del loro board internazionale. Lo divenni nel 2002 e da


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allora ho cominciato a interessarmi di sviluppo e cooperazione: parole di cui all'epoca conoscevo il nome ma non il significato. Ho girato il mondo per comprendere i loro programmi, ho partecipato a tantissimi meeting internazionali. Mi sono fatto, come si dice, una certa esperienza sul campo e nel campo delle grandi organizzazioni. Ne parleremo meglio piĂš avanti ma anticipo un giudizio

Sopra, una baraccopoli a Nairobi. Qui a fianco un bambino cammina nello slum


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“Se non iniziamo noi a credere nel progetto e a sostenerlo, perché dovrebbero farlo altri?”

in sintesi: questi organismi hanno assolto l’importante compito, nei decenni passati, di porre il tema della cooperazione e dei diritti umani al centro delle agende dei Governi. La vera funzione svolta è stata dunque quella di evidenziare alcuni importanti problemi sociali irrisolti, indicandoli alla società civile e alle istituzioni, in modo tale che venissero cercate delle soluzioni. Le grandi ONG tuttora tengono in vita questa missione, anche se nel tempo hanno perso parte del loro spirito rivoluzionario e sono diventate organismi burocratici. Sul piano pratico ogni organizzazione ha perseguito la sua strada, cercando di interpretare al meglio la missione data in partenza. Per ActionAid il motto era: “Fighting poverty together!” - combattere la povertà insieme. Un obiettivo portato avanti prevalentemente attraverso il sistema delle adozioni a distanza: con 300 euro all’anno si possono supportare i programmi di cui i bambini fanno parte e le comunità in cui vivono. Finito il mio secondo periodo di presidenza, ho lasciato ActionAid. Mi sono consultato con Daria, mia moglie, e abbiamo deciso di metterci "in proprio", coinvolgendo una giovane appassionata che voleva entrare in questo mondo: Alice Riva. Come? Non lo sapevamo. Avevamo l’esperienza internazionale, sapevamo quali fossero i Paesi più bisognosi di aiuto, sentivamo la voglia di provarci in maniera autonoma. Una voglia generica, non strutturata, piuttosto dettata dal desiderio di restituire agli altri un po’ della fortuna che la vita ci ha regalato. Come partire? Dovevo partecipare al mio ultimo meeting di ActionAid in Kenya e ho cercato su Internet una serie di ONG locali keniote. Le ho contattate via mail, chiedendo di poter conoscere il loro lavoro, e una volta in loco - nei tempi morti tra un incontro e l’altro - io e mia moglie siamo andati a vedere i diversi progetti, nel complesso una decina. Tutti programmi ben strutturati: scuole, orfanotrofi, dispensari, drop in center per bambini di strada. Tra questi abbiamo scelto di impulso la “scuolina” di Korogocho. Non mi spiego ancora bene il motivo: forse perché chi la gestiva, cioè Edmond, ci sembrava in grandissi-


ma difficoltà, forse perché è stato il più disponibile, forse perché era destino. Abbiamo così deciso di raccogliere fondi per migliorare la struttura e aiutare a mandarla avanti. Detto e fatto. È iniziata qui l’esperienza di Alice for Children. Come primo passo, ci siamo imposti di coinvolgere molti componenti della nostra grande e numerosa famiglia: le mie nipoti Alessandra ed Elisabetta Manuli, le mie nipoti Valentina e Ludovica Di Sarro, mia cognata Ida Oggioni e mio cognato Ernesto. E poi i miei figli Pietro ed Eleonora. Nessuno si è tirato indietro. Ci siamo detti: “se non iniziamo noi a credere nel progetto e a sostenerlo, perché dovrebbero farlo altri?”

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Veri sponsor, grandi amici Poi è iniziata la fase più difficile: trovare sponsor che ci accompagnassero nel tempo. A tal proposito devo dire che siamo stati veramente fortunati visto che alcuni promotori sono ancora con noi dopo sei lunghi anni di lavoro insieme. In particolare faccio una breve digressione sugli sponsor più “anziani”, esempi molto interessanti che riprenderemo anche successivamente in Giocatori milanisti di pallone nello slum


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Virgilio sposò il progetto e fece proprio il concetto di web charity, seguendoci con costanza e inaugurando molte delle strutture realizzate a Nairobi

Una classe di nursery nella scuola di Korogocho

questo libro. Il portale Virgilio (allora si chiamava Alice, da cui nasce il nome dei programmi Alice for Children) fu il primo a imbarcarsi in questo percorso, attraverso il mio amico Giancarlo Vergori, direttore generale del portale, che convinsi dell’importanza di disintermediare il più possibile la raccolta di fondi e di usare il web per il fund raising. Virgilio (cioè il web per antonomasia) sposò il progetto e fece proprio il concetto di web charity, seguendoci con costanza e inaugurando molte delle strutture realizzate a Nairobi. Il portale - oltre a versare una consistente donazione annuale - è diventato così testimone della nostra avventura. Un’avventura che ha condiviso con tutto il personale dell’azienda, a partire da Liliana Autelli, Valeria Degregorio, Margherita Cavaggioni e Valentina Meletti, organizzando nel corso degli anni veri e propri eventi sul posto come “Africamp”, capitanato nel 2011 da Paola Macaluso, del marketing del portale: «Matrix - l'azienda che gestisce Virgilio - è sponsor di Alice for Children dal 2007. Durante gli anni, alcuni dei dipendenti che partecipavano da Milano al progetto (gestendo il sito, curando gli accordi tra le due aziende) hanno avuto


modo di recarsi a Nairobi per conoscere di persona le diverse attività portate avanti anche grazie a Matrix e per darne testimonianza ai colleghi. E proprio da quei viaggi è nata l'idea - dopo un confronto tra Elena, Valentina (le due ragazze che seguono Alice for Children dall’Italia) e un paio di mie colleghe che si occupavano della sponsorship - di proporre un esperimento di volontariato aziendale. L’iniziativa è quindi partita dal basso - anche in questo risiede la sua bellezza - ed è stata poi accolta con entusiasmo dai vertici aziendali. Dopo l’approvazione, nelle caselle di posta di tutti i dipendenti è apparsa una mail che li invitava a partecipare a una riunione in cui sarebbe stato spiegato il progetto. Ci siamo ritrovati in trenta all’incontro, senza alcuna distinzione di età, sesso o ruolo aziendale, interessati a saperne di più. Successivamente - dopo una prima selezione e una giornata di attività organizzate da Elena e Valentina per capire in che modo il gruppo avrebbe potuto funzionare - è stato scelto il team di 6 persone (3 donne e 3 uomini) che sarebbe partito. Io ne sono diventata la coordinatrice. Da luglio, cioè da quando il gruppo è stato formato, a novembre, periodo della partenza, abbiamo partecipato all’ideazione di tutte le attività da proporre ai bambini. Dalle lezioni di computer - con spiegazione di word, excel, power point e software di gestione immagini - a quelle di geografia e botanica, fino ai giochi sportivi. Non essendo insegnanti, per noi è stato molto complesso preparare queste lezioni ma al contempo emozionante. Ci è venuta l’idea di spiegare i diversi Paesi europei attraverso le immagini, la teatralizzazione e la musica. Per ciascuna nazione abbiamo scelto una colonna sonora: l’Italia, per esempio, era abbinata a “Volare”, l’Inghilterra ai Beatles. Con l’aiuto di Elena e Giulia (che seguiva il Village sul posto), è stato dunque messo a punto un programma fittissimo che avrebbe occupato tutti i momenti della nostra settimana ad Alice Village. Finalmente è giunto il momento di partire e, sbarcati a Nairobi, ci siamo trovati in un’altra dimensione. Non ho più scordato le parole che ci disse il preside della scuola al nostro arrivo: “Spesso questi bambini nascono e muoiono qui, non riuscendo a immaginare una realtà diversa. A me piacerebbe che si rendessero conto dell’esistenza del mondo là fuori. E il vostro valore è proprio questo: aprire i loro occhi e instillare dei germi che

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Spesso questi bambini nascono e muoiono qui, non riuscendo a immaginare una realtà diversa


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Non si è trattato di una mera donazione economica gestita ai piani alti ma è diventata un’esperienza di vita per il gruppo nel suo complesso

potrebbero evolversi in qualcosa di positivo”. È stato un discorso che ha dato un valore e un senso alla nostra esperienza; che ci ha fatti sentire importanti nel nostro piccolo, nonostante restassimo lì per poco tempo, catapultati dalla nostra realtà più fortunata. Le giornate passate a Nairobi ci hanno visti con i bambini dalla colazione fino al momento serale in cui passavamo a salutarli prima che si addormentassero. Facevamo tutto insieme. Il calendario, come previsto, era pienissimo: lezioni, giochi all’aperto, abbiamo anche organizzato una serata italiana, cucinando la pasta al pomodoro in immensi pentoloni. Eravamo concentrati per fare funzionare il programma al meglio anche se, inizialmente, temevamo di non riuscire a coordinare così tanti bambini, soprattutto nelle attività che li coinvolgevano contemporaneamente. A me spaventava l’idea di provare a insegnare in un'aula con 40-50 studenti. Invece mi sono trovata di fronte una platea curiosa e molto attenta. Le lezioni erano interattive e i ragazzi manifestavano una grande voglia di imparare, di intervenire e di dire la loro. Tutti in divisa, non importa se rattoppata, ordinati e partecipi. Davanti a questa dignità, quasi non si percepivano più le lamiere di cui sono costituite le pareti della classe o lo sterrato al posto dei pavimenti. Anche all’interno del Village si avvertiva un’atmosfera positiva. In tal senso, mi ha impressionato profondamente il contrasto tra la situazione drammatica che i ragazzi avevano alle spalle e la serenità che dimostravano nello stare insieme, aiutandosi l’un l’altro, divertendosi. Vivere con loro è stata un’esperienza forte. Avvicinarsi a Nairobi e Korogocho altrettanto. Ma il modo in cui è stato organizzato questo viaggio credo sia quello giusto: provare a fare qualcosa di concreto ci ha permesso di non sentirci semplici “spettatori” e di capire un po’ meglio la realtà che ci circondava. Quando siamo andati via eravamo scossi. La sensazione al ritorno era di spaesamento e contemporaneamente di entusiasmo. Sono emozioni che abbiamo trasmesso ai nostri colleghi: tutti erano curiosi e interessati perché, anche se non avevano condiviso personalmente l’esperienza, si erano comunque sentiti coinvolti; avevano infatti contribuito al progetto dall’Italia attraverso altre iniziative organizzate da Matrix, come per esempio la raccolta di lenzuola e coperte per allestire nel Village l’area che avrebbe


ospitato d’estate i ragazzi più grandi di ritorno dal college. E il punto di forza del progetto è stato anche questo: non si è trattato di una mera donazione economica gestita ai piani alti ma è diventata un’esperienza di vita per il gruppo nel suo complesso. Un contributo che da economico si è trasformato in azione concreta, con il valore aggiunto che ne consegue, e che ha innescato circoli virtuosi per l’impresa stessa, iniettando nuova linfa nel personale, diffondendo uno spirito positivo tra noi colleghi e influenzando il lavoro di tutti in meglio. Dal mio punto di vista, si è trattato dell’iniziativa più bella organizzata dalla nostra realtà aziendale: i famosi “germi” di cui parlava il preside sono stati lasciati reciprocamente. Credo che sia una modalità di approccio da esportare: giova all’impresa e alla realtà che l’azienda sceglie di supportare». Oggi Virgilio è stato comprato dal portale Libero di cui è proprietario l’imprenditore delle telecomunicazioni egiziano Naguib Sawiris. Con l’acquisto dell’azienda, il magnate si è anche impegnato a sostenere il progetto di Alice for Children. Un contributo per la sua Africa. Il secondo nostro grande sponsor è stato Qlik View, un mago del software numerico. Una media azienda italiana legata per licenza a un colosso svedese. L’approccio di selezione è stato molto interessante e

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L’entrata della scuola di Korogocho


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Soddisfatti del progetto e del sistema organizzativo, scelsero alcune iniziative tra quelle da implementare e le finanziarono

Lezioni all’aperto a Korogocho

innovativo come, d’altro canto, è l’azienda. La società andava bene e va bene tuttora in questa Italia un po’ dimessa. I soci, Massimo Sangiuseppe e Diego Leveghi, due trentini rudi ma dal cuore d’oro, avevano deciso che parte del loro profitto avrebbe dovuto supportare chi, nella vita, era stato meno fortunato. I due imprenditori volevano però imbarcarsi in un programma di beneficienza “sicura”che si traducesse in progetti concreti e visibili da "inserire" nel loro cuore e anche nel profilo dell’azienda. Con queste premesse, iniziarono una capillare ricerca sul web che li condusse fino a noi. Dopo un incontro conoscitivo, volarono a Nairobi per constatare personalmente come venissero impiegati i fondi raccolti. Soddisfatti del progetto e del sistema organizzativo, scelsero alcune iniziative tra quelle da implementare e le finanziarono. Ne sono un esempio (caratterizzato da altrettante inaugurazioni perché ogni anno entrambi i soci vengono a controllare il progetto di persona e con le loro belle famiglie): il pozzo del villaggio, il dormitorio per i ragazzi più grandi, la nuova scuola alle falde del Kilimanjaro. Progetti veri, utili e circoscritti. Il terzo importante sponsor è stato Radio Italia. Avevamo appena iniziato la nostra campagna di adozioni a distanza e cercavamo un modo per attirare l’attenzione del grande pubblico. Proprio in questa fase, il caso ci


mise sulla strada della popolare emittente radiofonica che si appassionò immediatamente alla nostra storia e cominciò a raccontarla, stimolando i suoi ascoltatori a seguirci. Mario Volanti, il fondatore di Radio Italia, e il giovane amico Marco Pontini, direttore generale, scesero a Nairobi due volte per documentare in prima persona quanto era stato realizzato sul campo da Alice for Children. Non solo, replicarono l’esperienza molti deejay della radio, curiosi di conoscere la realtà di Korogocho. Un’immersione sentita che portò l’emittente ad adottare a distanza 10 bambini e a fornire al progetto un supporto solido, forte e continuato nel tempo. Un progetto che tutta la radio - dal centralinista al presidente, passando per gli speaker - conosce, segue e sente come proprio. Queste di cui vi ho parlato sono le colonne portanti del nostro programma. Non sono mancati, poi, partner che ci hanno supportato per periodi più brevi. Per esempio la Fondazione Milan, con il progetto "1° campionato di calcio dello slum": una specie di Champions League tra i ragazzi degli slum di Nairobi cui ha partecipato Franco Baresi, il famoso campione milanista, premiando le squadre vincitrici dopo una finale da “urlo” in un campetto dello slum di Korogocho con più di 10.000 persone presenti, ambasciatore Paola Imperiale compreso; il Giornale che, grazie a Luna Berlusconi - autrice del bellissimo libro di fotografie “Sguardi di Luna”, tutte scattate da lei nello slum di Korogocho - ci ha aiutato a trovare tanti genitori a distanza; il Biancolatte di Milano, la Mitsubishi, Hedge Invest, molti soci del Monticello Golf e tanti, tanti altri donatori che incontriamo lungo la nostra strada e che cerchiamo di portare a Nairobi per condividere l’esperienza affinché diventi anche la loro. Trovare i soldi - lo dico nella sua accezione più banale e più dura - è un’arte vera e propria di cui discuteremo a fondo nel libro che non può tuttavia prescindere da un principio fondamentale: l’azienda, come il singolo donatore, deve sposare il progetto, deve controllarlo, deve farlo suo. Se viene meno questo principio, anche l’apporto risulta lieve, poco partecipato e non duraturo. Ma torniamo ai progetti.

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L’azienda, come il singolo donatore, deve sposare il progetto, deve controllarlo, deve farlo suo


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Alice Village: uno dei dormitori dei bambini

Alice for School

Avere un punto di riferimento sociale è basilare per la vita della comunità

Eravamo rimasti alla raccolta di fondi per aiutare la “scuolina” di Korogocho. Quella è stata la partenza: pian piano, in questi sei anni, abbiamo sviluppato il progetto. Ora la scuola è più grande - le aule e i bambini sono raddoppiati - ha acqua potabile a disposizione di tutti, cucine adeguate (i bambini dello slum pranzano a scuola, così hanno un pasto garantito per sei giorni alla settimana), uffici per gli insegnanti e fiori e piante che la rendono più bella. Nello slum non esiste l’uso dei fiori o il verde di bellezza. Negli spazi comuni, dove prima c’era solo terra sporca, fango e sassi, oggi c’è il verde, ci sono stradine, canali di scolo e fiori, tanti fiori. Un piccolo angolo di paradiso, la miglior struttura di tutto lo slum. Un esempio per gli abitanti della baraccopoli che cominciano a essere fieri di mandarvi a studiare i loro bambini. Avere un punto di riferimento sociale è basilare per la vita della comunità, tanto che abbiamo fatto nascere anche un piccolo laboratorio sartoriale in cui le mamme di Korogocho creano, con il nostro aiuto, dei manufatti. Un inizio, certo, ma che vuole contribuire a creare luoghi di coesione nello slum.


Dopo la scuola - visto che volevamo occuparci di bambini, il futuro di tutti e dell’Africa in particolare - ci siamo imbarcati in altri due progetti: Alice Village e Alice Home, due strutture pensate per ospitare i bimbi che hanno alle spalle situazioni di particolare gravità. I piccoli che vivono qui sono quasi tutti orfani. Una minoranza ha almeno un genitore ma colpevole di abusi o incapace di mantenere il proprio figlio, specialmente se malato, come nel caso di bimbi HIV positivi che non riescono a essere curati dalle famiglie.

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Alice Village Alice Village, costruito cinque anni fa, è il nostro fiore all’occhiello. Si tratta di un orfanotrofio che sorge su un terreno di un ettaro e mezzo che abbiamo comprato alla periferia di Nairobi, più precisamente a Utawala, a circa un'ora di auto da Korogocho. Oggi accoglie 100 orfani dai 3 a i 15 anni (dall’asilo, dunque, fino alla classe ottava) che vivono in camerette da 4 provviste di letto, tavolino per i compiti e armadio. La struttura è dotata di un refettorio, di un salone con

Alice Home: una delle due case


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la TV e di una sala da lettura con una piccola biblioteca. Al suo interno si trovano anche gli alloggi per i volontari, quelli per lo staff (circa 20 persone), la casa del direttore, oltre agli uffici amministrativi. All’esterno c’è il pozzo per l’acqua potabile, il generatore - l’elettricità è ballerina a Nairobi - una lavanderia dove i bambini lavano i loro panni. Completano la costruzione un campo da calcio quasi regolamentare, un parco giochi con altalene e alcuni spazi verdi ricchi di alberi e fiori che il giardiniere George - con noi fin dai primi giorni - cura amorevolmente. Una specie di “Club Med” come afferma, tra il sorpreso e il compiaciuto, qualche amico che è venuto a visitare il villaggio. Tutti i bambini di Alice Village frequentano la scuola pubblica, distante circa dieci minuti a piedi, e ciascuno, a seconda della sua fede - sia essa cristiana, cattolica o mussulmana - la domenica segue le funzioni. Nairobi è piena di chiese e anche vicino al villaggio sono in notevole aumento.

Alice Home

Due realtà, quelle di Alice Village e Alice Home, che si sono evolute pian piano, come si è evoluta e perfezionata la nostra esperienza

Alice Home è un progetto molto simile a quello di Alice Village, con la differenza che i bambini, 50 in tutto, sono ospitati in due case appositamente costruite all’interno di una scuola recintata nello slum di Kariobangi North, sempre alla periferia di Nairobi, vicino a Korogocho. Di giorno, l’istituto si riempie di altri 300 studenti provenienti dalla baraccopoli; di notte, invece, rimangono solo i nostri 50 bambini nelle due case famiglia, in compagnia di un paio di mamy e di un responsabile. Anche qui, recentemente, siamo riusciti a creare uno spazio verde destinato al gioco. Due realtà, quelle di Alice Village e Alice Home, che si sono evolute pian piano, come si è evoluta e perfezionata la nostra esperienza. Finito il ciclo di scuola primaria, per esempio, si poneva un problema: bisognava decidere in che modo fare proseguire il percorso educativo dei nostri bambini. Col passare del tempo, abbiamo fissato delle regole con-


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Daria Masi con Linette e altri bambini di Alice Village

divise con i bambini e ancora oggi in uso; viene iscritto alle secondarie chi ha una media superiore ai 300 marks, pari al nostro sei e mezzo. I bimbi che non raggiungono questa soglia sono indirizzati alla scuola professionale e imparano un mestiere. Al termine delle secondarie, il migliore 10% viene immatricolato all’università. Un sistema familiare che ha trovato tutti d’accordo. Inoltre abbiamo inserito in questo programma, chiamato Alice Campus, gli studenti più meritevoli della scuola di Korogocho per dare una chance anche ai bambini della baraccopoli.

Alice Campus Il fatto di mandare i ragazzi alle secondarie ha consentito poi di ospitare nuovi bambini negli orfanotrofi: in Kenya, infatti, la scuola secondaria è un collegio vero e proprio che fornisce vitto e alloggio per 10 mesi. I giovani che partono lasciano quindi il loro letto libero. Ecco allora che abbiamo pensato a un sistema a ruota: un adolescente esce e un bambino nuovo entra. L’età del bimbo che arriva deve permettere - i calcoli sono stati infiniti - che siano sempre presenti nel villaggio e nelle


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Festa al Villaggio

case-famiglia 150 bambini e che le scuole secondarie ne ospitino circa 80. Il prossimo anno raggiungeremo questo equilibrio che dovrebbe, sostenibilità del progetto permettendo, continuare per sempre. E qui dobbiamo ringraziare una splendida ragazza siciliana che è stata con noi a Nairobi fin dall’inizio del progetto, Elisa Terranova. Ha vissuto per cinque anni nel nostro villaggio (parla perfettamente il swahili) e ci ha aiutato a capire la mentalità dei kenioti, a evitare tanti errori, sprechi o piccole ingiustizie che sicuramente con la nostra inesperienza avremmo commesso. Insieme a lei ci siamo dedicati al compito più delicato, difficile e serio che è quello della selezione dei bambini da inserire nel programma. Nel tempo abbiamo acquisito una forte esperienza in questo campo: cerchiamo bambini che non abbiano i genitori o che appartengano a famiglie molto vulnerabili, di ogni razza e tribù keniota, presso i centri di soccorso, negli slum ma anche nei penitenziari, dove le mamme non possono più tenere i propri figli dopo il terzo anno di età. Figli che sono spesso nati in seguito ad abusi avvenuti in carcere. Frequentemente accogliamo bambini orfani di rifugiati di altri Paesi, dal Congo alla Somalia, dall’Etiopia al


Sudan. Lo stesso Children Department di Nairobi, che ormai apprezza il nostro modo di lavorare e di “creare comunità”, ci indica i casi più difficili. Un esempio per tutti, quello di Linette. Questa bambina, nove anni, viveva - se questo si può definire vivere - nella discarica a cielo aperto di Dandora, a Korogocho. Raccoglieva spazzatura e la selezionava. Era malata di tubercolosi, Hiv positiva, pesava 20 chili e stava morendo. Oggi è al villaggio, la tubercolosi è in via di guarigione, i retro virali stanno svolgendo il loro compito e ha preso peso. Non sappiamo ancora se ce la farà ma ormai da un anno sta lottando per la vita e i risultati si vedono.

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Alice Kilimanjaro Questi due progetti ci stanno dando grandi soddisfazioni e ci hanno stimolato a intraprendere un’altra più recente avventura. Con l’aiuto di una donna irlandese, una specie di Karen Blixen del luogo (la scrittrice e pittrice danese che scappò in Africa per provare nuove emozioni e per vivere lontana dalla civiltà), abbiamo cominciato a supportare una scuola che sorge alle falde del Kilimanjaro, per 400 bambini masai. Scuola, forse, è una parola grossa. Si tratta di due edifici, uno in muratura e uno in legno, costruiti dallo Stato in mezzo al nulla. Sono pensati per servire i villaggi masai circostanti ma per raggiungerli, gli insegnanti (provenienti dalla città) dovrebbero camminare ogni giorno per sei ore: tre all’andata e tre al ritorno. In sintesi, una scuola e nessun docente. Il nostro programma in questo caso è triennale: il primo anno, costruiremo un alloggio per ospitare i quattro insegnanti in “trasferta” dal lunedì al venerdì. Il secondo anno, recinteremo gli edifici, già danneggiati dagli elefanti, e il terzo, rifaremo le classi - allargandole e migliorandole. Durante i tre anni di progetto sarà sempre offerto il pranzo agli studenti, un importante incentivo per stimolare i bambini a recarsi in aula nonostante le condizioni disagiate e l’assenza di tutto in un luogo dimenticato da Dio.

Lo stesso Children Department di Nairobi, che ormai apprezza il nostro modo di lavorare e di “creare comunità”, ci indica i casi più difficili


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La scuola Masai alle falde del Kilimajaro

I nostri bambini

Le difficoltà e la sostenibilità Anche se così raccontato tutto sembra funzionale e ordinato, il percorso intrapreso sovente non è (e non è stato) né lineare, né semplice. La vita con i nostri partner locali è dura e piena di contenzioso: occorre esercitare un ferreo controllo perché tendono ad approfittare delle situazioni. Si rischia di fare discorsi razzisti toccando questo argomento, che sarà oggetto di analisi in un successivo capitolo, ma è giusto affrontarlo per completezza, evitando di scadere in un buonismo sterile.


La carità, per i “locali”, è spesso un business. I bianchi, ma più in generale chi porta ricchezza, sono considerati comunemente “polli da spennare”. Queste sono le premesse radicate con cui si impara a fare i conti sul campo e che richiedono risposte di una certa durezza per non vanificare o compromettere il lavoro svolto. Sono necessari astuzia, forza e tanti controlli. Talvolta occorre fare la voce grossa. Agendo altrimenti, buona parte delle donazioni andrebbero a finire nelle tasche del partner che coordina il progetto in loco. L’ultimo aspetto di questo capitolo, rifacendomi ancora una volta alla nostra esperienza, è quello della sostenibilità nel tempo del progetto. Oggi Alice for Children si prende cura di circa 230 bambini orfani o con situazioni gravissime alle spalle - ai quali provvediamo come se fossero dei figli - e di 1300 bambini con famiglia che frequentano le strutture da noi supportate come studenti. Sentiamo quindi la responsabilità di circa 1500 bimbi. Io e mia moglie Daria - seppur accompagnati da collaboratori e soci - rappresentiamo un po’ i “piccoli motori” di questa impresa e a ben vedere non siamo più giovanissimi. Sessantenni per capirci. Abbiamo quindi il dovere di pensare a garantire una continuità al progetto che vada oltre la nostra vita. Per tale ragione, da un lato, stiamo cercando di organizzare la raccolta fondi per rendere l’associazione il più indipendente possibile da noi e dall’altro, abbiamo investito in un’azienda con scopo sociale a Nairobi. La città, infatti, sta divenendo ricca, molto ricca, ovviamente in pochi e circoscritti contesti come avviene in tutte le megalopoli africane. In questo scenario, la classe emergente guarda con interesse all’Italia e al design italiano. Abbiamo allora scovato quattro amici alla guida di grandi aziende italiane di design - Alessi, Kartell, Poliform e Teuco - e aperto un import-export dei loro prodotti con show room proprio a Nairobi. La società si chiama Karibu Italy che in swahili, la lingua locale, vuol dire “benvenuta Italia”. Questo passo è stato compiuto con alcuni soci italiani, anche sostenitori di Alice for Children. Un architetto italiano, Claudio Narisoni, che è divenuto nostro socio,

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Abbiamo il dovere di pensare a garantire una continuità al progetto che vada oltre la nostra vita


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si è trasferito con la sua famiglia a Nairobi e dirige la società. Se tutto dovesse procedere bene, i profitti delle nostre quote andranno a sostenere - per statuto - i progetti di Alice for Children. Speriamo!

Lo scopo del libro

L’obiettivo è quello di stimolare una riflessione sul nuovo ruolo delle imprese, delle ONG, dei cittadini e degli Stati in relazione ai principi di risarcimento e sostenibilità

Abbiamo narrato la nostra storia per introdurre il libro. Un’esperienza vissuta è spesso più utile di tante parole. I temi toccati sono molteplici e verranno snocciolati nei capitoli successivi. L’obiettivo è quello di stimolare una riflessione sul nuovo ruolo delle imprese, delle ONG, dei cittadini e degli Stati in relazione ai principi di risarcimento e sostenibilità che rappresentano i capisaldi cui appigliarsi per salvare il Pianeta dalla devastazione. Tre miliardi di persone stanno per aggiungersi al desco in pochi anni, quasi due miliardi stanno raggiungendo un buon livello di welfare: pensare che non cambi nulla, da qui ai prossimi anni, sarebbe una pazzia. Nel libro, con qualche radicalità e poco buonismo, cerchiamo di descrivere questo cambiamento e di aiutare le imprese e i cittadini ad agire di conseguenza. Noi ci stiamo provando, nel nostro piccolissimo, su tanti versanti anche innovativi. Speriamo che la nostra storia possa aggiungere qualche goccia di esperienza pratica nel mare di una solidarietà seria e moderna.



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LA TERRA: UN PIANETA NON PIÙ SOSTENIBILE. LA SOVRAPPOPOLAZIONE LO STA DISTRUGGENDO Cos’è la sostenibilità? In astratto, se la sostenibilità fosse una figura geometrica, sarebbe un cerchio. Se fosse un simbolo, sarebbe quello dell’infinito. Se fosse un’operazione, sarebbe un’operazione di manutenzione. Sostenibilità è un concetto che ben si adatta a differenti contesti: sostenibile è una promessa che si può mantenere; un futuro che viene tutelato a partire dal presente; un mondo che si sviluppa a un ritmo compatibile con la rigenerazione delle sue risorse. Ma anche un terreno coltivato che continua a dare i suoi frutti; una famiglia che riesce a tramandare la sua agiatezza ai figli e ai figli dei suoi figli; una charity che è in grado di auto-mantenersi. Tante sfumature diverse accomunate da un unico comune denominatore: l’equilibrio. Il nostro Pianeta è in equilibrio? No!

Il mondo tra 40 anni. Affollato e povero di risorse. Per intuirlo, basta un modesto spirito d’osservazione. Tuttavia, per inquadrare meglio la situazione e per comprendere l’entità di questo disequilibrio ci torna utile fare un breve viaggio nel futuro, tra 30-40 anni diciamo,

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Oggi si contano 7 miliardi di persone al mondo. Secondo le proiezioni, nel 2050, ce ne saranno quasi 9,3 miliardi

per descrivere i possibili scenari che l’umanità si troverà ad affrontare. Fare un balzo in avanti di questo tipo, al giorno d’oggi, non è poi così difficile: ci sono computer potenti, software in grado di inglobare variabili e restituire fotografie di ciò che accadrà. E fior fiore di università, esperti, futurologi, meteorologi - perfino i servizi segreti - che sulle previsioni a lungo e breve termine realizzano studi, producono articoli scientifici e scrivono libri. Ne ho letti parecchi e la tesi che mi ha maggiormente convinto è quella sintetizzata da Laurence Smith - studioso americano di geografia e meteorologia - nel suo libro “2050, il futuro del nuovo Nord”. Nel testo l’autore descrive come potrebbe essere la Terra tra 40 anni: le nazioni più vicine al grande Nord, secondo la sua ipotesi, diventeranno sempre più ricche, potenti e stabili dal punto di vista politico. Quelle invece più vicino all’Equatore verranno schiacciate dai disastri ambientali, dalla siccità e da megalopoli sempre più affollate ed energivore. La pressione globale renderà quindi la parte più settentrionale del Pianeta meglio vivibile, ricca di attività e di massima rilevanza strategica ed economica.

I 5 pilastri. Demografia, risorse, globalizzazione, climate change, tecnologia Per arrivare a questo scenario Smith ha analizzato quelli che, secondo le più moderne ricerche scientifiche, sono i cinque parametri fondamentali, i pilastri per così dire, su cui poggia il domani: la tendenza demografica, la domanda di risorse naturali, la globalizzazione dei beni e dei capitali, il cambiamento climatico e la rivoluzione tecnologica. Stimando l’evoluzione di queste “colonne portanti” è dunque possibile intravedere cosa ci aspetta nei prossimi decenni. Andiamo con ordine. La prima variabile da cui dipende il nostro futuro è la crescita demografica. Oggi si contano 7 miliardi di persone al mondo. Secondo le proiezioni, nel 2050, ce ne saranno quasi 9,3 miliardi: 2,3 miliardi di esseri umani in più, pari a quanti eravamo complessivamente nel 1950. Una crescita


esponenziale che contrasta con l’andamento lentissimo seguito dalla demografia nel corso dei secoli passati. Durante il Medioevo - che ha caratterizzato la storia d’Europa dal V al XV secolo, regalando i natali a personaggi di enorme rilevanza come Dante Alighieri e Leonardo Da Vinci - si affaccendavano per il mondo solo qualche centinaio di milioni di persone. Per arrivare al miliardo, si è dovuto attendere oltre 300 anni fino agli inizi dell’era contemporanea, nel 1800. Dopo più di un secolo, poi, intorno al 1930, abbiamo toccato il secondo miliardo. Eravamo nel pieno della grande depressione: tempi bui che hanno visto imperversare l’ultima guerra mondiale e perire sui campi di battaglia alcuni milioni di giovani. Da qui, il boom: nel 1960, mentre Stati Uniti e Russia si sfidavano a colpi di missioni spaziali e l’uomo metteva per la prima volta piede sulla luna, la popolazione ha raggiunto il terzo miliardo, per toccare il quarto meno di 15 anni dopo, nel 1975. Dodici anni più tardi, nel 1987 - al termine della guerra fredda e del bipolarismo mondiale, nell’epoca in cui l’Italia vedeva chiudersi la stagione di Craxi e inaugurava quella di Tangentopoli - siamo arrivati al quinto miliardo. Il sesto è stato raggiunto a fine anni ’90. In controtendenza il tasso di crescita della popolazione italiana era completamente azzerato e lo sviluppo demografico del Paese si trovava nelle mani delle famiglie straniere. Infine, nel 2011, dopo solo 11 anni, siamo giunti a quota 7, in un continuo crescendo wagneriano. In sintesi: per raggiungere il primo miliardo ci sono voluti ben 11.800 anni dalle prime civiltà, per il secondo siamo scesi a 130, per il terzo solo 30, per il quarto 15, per il quinto e il sesto 12 e, infine, per il settimo 11. Questi sono i tassi di crescita della popolazione mondiale. Popolazione che è letteralmente esplosa a partire dal XX secolo, passando in un battibaleno da 1,6 miliardi a 6,1 miliardi di persone. L’incremento demografico di 2,5 miliardi Cosa ha scatenato l’impennata novecentesca? Perché non è avvenuta prima e quali saranno le prossime evoluzioni? La crescita demografica si comporta in modo simile a

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Durante il Medioevo, si affaccendavano per il mondo solo qualche centinaio di milioni di persone


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un conto corrente. Il saldo bancario dipende dalle nascite e dalle morti. Quando il tasso di fecondità e quello di mortalità si eguagliano, la popolazione si mantiene costante. Fino al 1800, i tassi di fecondità e mortalità erano entrambi molto elevati: si mettevano al mondo tanti figli ma pochi - a causa di guerre, fame e malattie raggiungevano la vecchiaia. Così la popolazione restava più o meno stabile. Dalla fine dell’800 in poi, l’industrializzazione - che investì dapprima l’Inghilterra per poi espandersi in Francia, Germania, Stati Uniti e Giappone, fino a coinvolgere tutto l’Occidente e anche parte dell’Oriente stravolse completamente l’equilibrio demografico. La produzione e la distribuzione alimentare, ormai mecca-

Population forecasts for selected countries

Fonte: UN Population Prospect, 2010 Revision


nizzate, ridussero la fame, i conflitti locali diminuirono e gli avanzamenti in campo medico abbatterono ulteriormente il tasso di mortalità. Le nascite, al contrario, rimasero invariate e la popolazione crebbe. Nei cosiddetti Paesi avanzati, tuttavia, l’incremento demografico fu successivamente bloccato da un fenomeno nuovo: quello dell’inurbamento. La migrazione dalle campagne alle grandi città, l’alimentazione acquistata invece che prodotta, la maggiore scolarizzazione, la diffusione dell’occupazione femminile e il maggior grado di autonomia delle donne in campo sociale ed economico causarono un abbassamento notevole del tasso di fecondità. L’arresto interessa tuttora gran parte dei Paesi avanzati, fatta eccezione per gli Stati Uniti. Gli Usa, infatti, prevalentemente grazie alle loro politiche di integrazione nei confronti degli stranieri, vedranno accrescere la loro popolazione del 25%, cioè di 100 milioni di persone, da qui al 2050. Nel resto del mondo, invece, i tassi di sviluppo continueranno a essere elevatissimi: i nuovi 3 miliardi di abitanti ospitati dal Pianeta saranno in prevalenza asiatici, africani e sud americani. Stiamo assistendo a quello che gli esperti chiamano “transizione demografica”: un modello che permette di descrivere il passaggio da una popolazione che ha tassi di natalità e di mortalità elevati, a una con tassi molto bassi. L’ipotesi alla base della teoria presuppone che tutte le popolazioni del mondo si evolvano allo stesso modo, seguendo le medesime tappe evolutive. A tal proposito Frank Notestein, un demografo di Princeton (New Jersey), ha proposto nel 1945 uno schema che spiega questo fenomeno in tre fasi. La prima riguarda le società pre-moderne, quelle ancora non investite dai processi di avanzamento e modernizzazione. Qui sono molto elevati sia i tassi di natalità che quelli di mortalità. Nascite e morti si compensano e l’incremento della popolazione risulta quasi nullo. La seconda, invece, interessa le società che hanno intrapreso il percorso di modernizzazione: in questo caso l’innalzamento della qualità della vita, legato al miglioramento dei servizi sanitari, riduce il tasso di mortalità, lasciando però invariate le nascite. La crescita demografica subisce così un’impennata considerevole.

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I nuovi 3 miliardi di abitanti ospitati dal Pianeta saranno in prevalenza asiatici, africani e sud americani


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Immaginate quale sarà uno dei Paesi più popolosi alla fine di questo secolo? La Nigeria, che ospiterà quasi un miliardo di abitanti

Tuttavia, man mano che il benessere aumenta si innescano processi culturali che frenano il tasso di natalità, portandolo a eguagliare quello di mortalità. Questa è la terza fase, in cui la popolazione torna a essere di nuovo stabile. In Europa e Usa, per esempio, la transizione demografica è iniziata nel 1750 e si è conclusa nel 1950: l’Italia attualmente ha infatti un tasso di crescita che rasenta lo zero. I Paesi asiatici, sud americani e africani, invece, sono nel pieno della seconda fase e continuano a crescere: i primi con minor slancio, l’Africa in maniera imponente. Immaginate quale sarà uno dei Paesi più popolosi alla fine di questo secolo? La Nigeria, che ospiterà quasi un miliardo di abitanti, mentre India e Cina, probabilmente, avranno già raggiunto la “fase tre”. Quello della popolazione africana è un tema importante perché fa parte del nostro ragionamento sulle charity, ma lo affronteremo in maniera più approfondita nei prossimi capitoli. A ogni modo questa seconda grande transizione demografica, che ci porterà alla soglia dei 10 miliardi, coinvolge, a differenza della prima, la maggior parte dei Paesi del mondo. Anche per tale ragione è difficile prevedere quando si arresterà. Si tratta del problema più grande che ci troviamo ad affrontare perché influenza tutte le altre variabili - le risorse, il clima, l’economia e la politica - da cui dipende l’avvenire del Pianeta.

Le risorse naturali sono scarse e sono continuamente depredate E qui arriviamo ad analizzare il secondo pilastro su cui poggia il nostro futuro: la domanda di risorse naturali. Innanzitutto, cosa sono le risorse? Le risorse naturali sono tutte quelle energie, sostanze, forze ambientali e biologiche proprie del nostro Pianeta, in grado di produrre ricchezza e contribuire all’evoluzione del sistema ambientale terrestre. Sono beni che possono esaurirsi - come i carboni fossili, i minerali, il petrolio, il gas naturale e le falde acquifere - oppure rinnovabili - come i fiumi, la terra coltivabile, i boschi, la fauna e la flora selvatiche, l’energia geotermica, quel-


la solare, le onde del mare e il vento. Ma sono anche i “servizi naturali” - per esempio la fotosintesi, l’assorbimento dell’anidride carbonica da parte degli oceani o il lavoro delle api per impollinare le nostre coltivazioni. Tutte forze che servono a muovere il mondo di oggi e da cui noi dipendiamo strettamente. Si pensi ai palazzi in cui viviamo, studiamo, lavoriamo o ci svaghiamo:

Andamento della sovrappopolazione Numero di persone che vivono in tutto il mondo dal 1700 in miliardi

Fonte: United Nations World Population Prospect

Popolazione Mondiale, 1950-2010, con proiezioni al 2100

Fonte: UNPop

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Un solo barile di petrolio vale la forza prodotta dalle braccia di un uomo in otto anni di lavoro quotidiano

tutti costruiti con legno, acciaio e cemento; all’acqua, indispensabile non solo alla vita ma anche alle colture; a tutti quegli organismi che ci consentono, a partire dal loro codice genetico, di reperire i costituenti base per le industrie farmaceutiche, alimentari e biotecnologiche. Pensiamo al petrolio che alimenta macchinari agricoli in grado di incrementare la produzione cerealicola a livelli inimmaginabili per un contadino che lavora la stessa terra con i suoi buoi; al gasolio nei serbatoi dei camion che trasportano materie prime, alimenti o prodotti finiti dai luoghi che li possiedono a quelli che li richiedono, generando flussi commerciali alla base di intere economie. Ma anche all’elettricità che, soprattutto grazie al carbone, alimenta edifici, computer, cellulari e auto elettriche. Si potrebbe andare avanti all’infinito. Risorse, non solo indispensabili, ma anche capaci di condurre a importanti mutamenti storici e culturali. Soprattutto nel caso delle fonti energetiche, come sostiene Jeremy Rifkin, noto economista americano, in un suo recente libro che collega l’energia a veri e propri sconvolgimenti storici e sociali. Si pensi alla rivoluzione industriale con l’avvento del carbone, che vide - a partire dal 1850 - il consumo americano passare da 10 milioni di tonnellate a 330 milioni in meno di 50 anni. O al boom del petrolio: considerato solo un prodotto di scarto alla fine dell’800 e diventato poi l’oro nero del ‘900 e degli anni 2000. Per intenderci, in termini di energia, un solo barile di petrolio vale la forza prodotta dalle braccia di un uomo in otto anni di lavoro quotidiano. Una delle materie prime più importanti al mondo, nonché tra le principali cause scatenanti di molti conflitti bellici. Appare quindi chiaro come uno sviluppo sostenibile del Pianeta sia imprescindibile dal modo in cui vengono utilizzate le sue risorse. Il consumo delle risorse - e qui si torna alla demografia - è poi strettamente collegato all’incremento della popolazione. Per fortuna in modo non proporzionale. Non tutti gli abitanti del mondo, come si può facilmente immaginare, sfruttano la Terra nella medesima misura. Un occidentale, per esempio, ha un indice di consumo pari a 32. Un keniota si ferma a 1. Questo significa che gli americani, per fare un esem-


pio, utilizzano energia e producono spazzatura per 32 cittadini medi in Kenya. Un indice elevatissimo, mantenuto solo ed esclusivamente dal 15% della popolazione globale e compensato dal restante 85% che presenta indici prossimi all’1. Una diseguaglianza impressionante, su questo non vi è alcun dubbio. Ciò nonostante, se tutti consumassero allo stesso modo, secondo gli indici del “super-benessere”, una Terra non ci basterebbe più. Ce ne vorrebbero almeno undici per supportare i 7 miliardi di abitanti attuali. Un’emergenza alle porte, soprattutto ora che le popolazioni dei Paesi in via di sviluppo cominciano a migliorare il loro welfare e a incrementare i consumi. Se i 9,5 miliardi di persone presenti sulla Terra nel 2050 dovessero vivere tutti come vivono oggi gli americani, gli europei occidentali, i giapponesi e gli australiani, il Pianeta dovrebbe fornire sufficienti risorse per sostenere l’equivalente di 105 miliardi di persone di oggi. Ecco che allora si intuisce come lo stile di vita sia per certi versi un amplificatore della pressione umana sulle risorse naturali ben più potente dello stesso incremento della popolazione.

La globalizzazione. Siamo solo agli inizi... Dopo aver analizzato la crescita demografica e l’utilizzo delle risorse naturali, passiamo ad affrontare la terza variabile da cui dipende il domani, cioè la globalizzazione. Con questo termine, in senso lato, si intendono i processi economici, sociali e tecnologici che rendono il mondo più interconnesso e interdipendente. Se ne parla da poco. Molti sostengono che la globalizzazione sia un fenomeno esploso improvvisamente negli anni ’70 e ’80. In realtà questa forza globale affonda le sue radici nell’epoca buia della seconda guerra mondiale, oltre 60 anni fa. Le basi istituzionali del fenomeno furono gettate nel luglio del 1944 con la conferenza di Bretton Woods, nel New Hampshire, all’interno della quale vennero stabilite le regole delle relazioni commerciali e finanziarie tra i principali Paesi industrializzati del mondo. Parteciparono all’evento oltre settecento delegati provenienti da quarantaquattro Paesi

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50 DA PREDATORI A IMPRENDITORI

diversi. Obiettivo: capire come stabilizzare le valute, concedere prestiti alle nazioni devastate dalla guerra per la ricostruzione e rimettere in moto il commercio internazionale. Fu il primo esempio in assoluto di un ordine monetario controllato per gestire i rapporti tra Stati indipendenti gli uni dagli altri. Le valute internazio-

Il declino evolutivo

B Terre coltivate La superficie usata per i raccolti destinati al consumo umano, per i mangimi animali, per biocombustibili e gomma

A Carbonio La superficie di foreste necessaria ad assorbire le emissioni di CO2 derivanti dall'uso di combustibili fossili

C Pascoli La superficie di pascoli usata per allevare il bestiame destinato a produrre carne, latticini, pellame e lana

D Foreste La superficie di foresta destinata a produrre legname F Terreni edificati La superficie terrestre coperta da infrastrutture umane

E Pesca La superficie marina e di acqua dolce che serve a soddisfare il consumo umano di pesce e frutti di mare

L'IMPRONTA ECOLOGICA

Calcola l'uso umano delle risorse terrestri in sei ambiti particolari: l'impatto dei diversi stili di vita viene misurato in ettari di Pianeta che sarebbero necessari a rigenerare quanto viene consumato F E D C B

A

Fonte: WWF


nali vennero ancorate al valore dell’oro e stabilizzate; i provvedimenti presi rimasero in vigore fino al 1971. Su questa scia nacquero successivamente il Fondo Monetario Internazionale (FMI), la Banca Internazionale per lo Sviluppo e la Ricostruzione (BIRS) e l’Accordo generale sulle tariffe doganali e il commercio (oggi WTO World Trade Organization), organismi figli dell’accordo in via di conclusione tra i vincitori della seconda guerra mondiale che guidarono la ricostruzione dell’Occidente dopo il conflitto. Negli anni ’50 la loro funzione si espanse fino a concedere prestiti anche ai Paesi in via di sviluppo per supportare il loro processo di industrializzazione. Tali fondamenta non solo rappresentano da decenni un punto di riferimento della classe dirigente di nazioni e imprese ma sono oggi codificate in una moltitudine di trattati sul libero scambio che dettano e fanno rispettare le regole della nostra economia globale. Il detonatore che fece esplodere questa macrotendenza poi fu il terremoto politico che condusse alla caduta del muro di Berlino nel 1989. Qui venne meno la divisione politica del mondo tra le due cortine e - dopo il bipolarismo scatenato dalla guerra - si liberarono tutte le energie intrappolate nei diversi spiegamenti. Grazie alla globalizzazione, con la nascita delle nuove potenze emergenti Cina e India, si è definito l’attuale assetto mondiale “multipolare”, in cui gli Stati Uniti sono ancora egemoni ma primus inter pares, non più soli e unici al comando. E siamo solo nella fase iniziale, questa forza profonda e potente che interconnette il Pianeta continuerà a plasmare l’economia del XXI secolo.

Il climate change sta cambiando la Terra. In peggio. A questo punto arriviamo a parlare del quarto pilastro da cui dipendono le sorti del “Pianeta di domani”: il cambiamento climatico, anzi - per essere più precisi - il riscaldamento globale. L’aumento considerevole delle temperature che ha investito il nostro Pianeta è causato principalmente dall’incremento in atmosfera dei gas serra prodotti dalle attività umane. Questi gas, che annoverano tra le loro fila anche la CO2, sono stati sco-

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Gli Stati Uniti sono ancora egemoni ma primus inter pares, non più soli e unici al comando


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Alcuni scienziati prevedono che alla fine del secolo la temperatura potrebbe aumentere da 0,6C° fino a 4C°

perti intorno al 1820 dal matematico francese Jacques Fourier. Lo scienziato si rese conto che la Terra avrebbe dovuto essere molto più fredda, almeno 15,5 C° in meno di quanto in realtà non fosse, data la sua distanza dal Sole. Questa differenza di temperatura, trovò Fourier, dipendeva dai gas serra, composti in grado di fare penetrare facilmente la radiazione solare in atmosfera e di "intrappolarla", generando così il noto effetto serra. L’aumento di tali gas, quindi, ha causato un innalzamento della temperatura globale, con drammatiche conseguenze per il Pianeta. Proprio per questo, la Conferenza delle Nazioni Unite sul cambiamento climatico (COP 15), svoltasi a Copenaghen nel 2009, tentò di porre un limite all’aumento delle temperatura mondiali, fissando un tetto di +2°C che non si sarebbe dovuto superare entro il 2050. Un buon proposito che non è mai stato preso veramente in considerazione. Le tre Conferenze sul clima delle Nazioni Unite che si sono susseguite - a Cancun, in Messico, nel 2010, a Durban, in Sudafrica, nel 2011 e infine a Doha, in Quatar, nel 2012 - non hanno portato ad alcun nuovo risultato. È stato mantenuto il

Temperatura media globale

Fonte: Nasa Giss


Protocollo di Kyoto che, tuttavia, vede impegnati nella riduzione delle emissioni di CO2 solo l’Unione europea e una manciata di altri Paesi. Restano fuori tanti grandi big dell’inquinamento come Usa, Canada, Giappone, Russia, Nuova Zelanda, Cina, India, Brasile, Messico e Sudafrica. Nulla di più. Complice la recessione mondiale che ha squassato i Paesi occidentali - i maggiori colpevoli dell’emissioni di gas serra - e anche quelli in via di sviluppo come i Brics (acronimo usato per definire Brasile, Russia, India, Cina e Sud Africa, Paesi caratterizzati da una forte crescita del PIL e dotati di un immenso territorio e abbondanti risorse naturali strategiche) che hanno privilegiato lo sviluppo, senza pagare il dazio ambientale. Con questo scenario, la situazione non potrà che peggiorare. Alcuni scienziati prevedono che alla fine del secolo la temperatura potrebbe aumentare da 0,6C° fino a 4C°. Ma per comprendere la drammaticità del fenomeno occorre inquadrarlo in maniera più ampia, guardando anche alle ere geologiche passate. Come sottolinea Smith nel suo libro, la quantità di gas serra presente in atmosfera dipende sia da processi naturali - come l’erosione delle rocce, i cicli astronomici, la diffusione di foreste e paludi, il ricambio degli oceani - che dall’attività umana, per esempio attraverso la combustione delle fonti fossili. La differenza tra le due pressioni in gioco è però abissale. Mentre i processi naturali agiscono sui livelli di gas serra nel corso di decine di migliaia di anni, l’azione dell’uomo vede i suoi effetti prodursi nell’immediato, in pochi decenni per capirci, e con un impatto nettamente superiore. Con le nostre azioni stiamo riportando l’atmosfera a una condizione che non si vedeva da centinaia di migliaia di anni. Come lo sappiamo? Grazie ai “ricordi” custoditi in particolari archivi naturali, come sono per esempio i ghiacciai. Nei ghiacci di Groenlandia e Antartide sono rimasti infatti intrappolati nel corso dei millenni strati di bollicine d’aria che rappresentano veri e propri campioni sigillati dell’atmosfera passata. Analizzandoli si è scoperto che le concentrazioni di gas serra presenti attualmente in atmosfera sono più alte di quanto non siano mai state negli ultimi 800 mila anni. Procedendo così, presto toccheremo le soglie del Miocene,

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Le concentrazioni di gas serra presenti attualmente in atmosfera sono più alte di quanto non siano mai state negli ultimi 800 mila anni


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epoca geologica che risale a ben 15 milioni di anni fa, in cui le temperature del Pianeta erano dai 3 ai 5 gradi più calde, gli oceani acidi, le calotte polari ridotte e i livelli marini dai venticinque ai quaranta metri più alti di oggi. Non si può prescindere da considerare questo elemento come una forza globale con cui fare i conti. Le quattro variabili fino a qui analizzate decideranno del nostro futuro e sono interdipendenti: i gas serra derivano dallo sfruttamento delle risorse naturali, che a sua volta segue l’economia globale, il cui andamento è in parte legato alle dinamiche demografiche e via dicendo.

La tecnologia può frenare o accelerare il dissesto globale

Il cibo ha assunto la stessa importanza del petrolio e il terreno agricolo è prezioso come l’oro

L’ultimo pilastro, il quinto, è la tecnologia. Strumento che unisce, integra e connette tutte le variabili fin qui analizzate. Lo sviluppo tecnologico sta favorendo notevoli progressi nel campo delle biotecnologie, delle nanotecnologie e della scienza dei materiali. Avanzamenti che possono produrre innovazione anche nell’ambito energetico: si pensi a pannelli solari più efficienti, alla geo-ingegneria o alle reti elettriche intelligenti (smart grid). Tali novità potrebbero ampliare il raggio d’azione delle fonti energetiche alternative, rallentando così l’utilizzo dei combustibili fossili, principali responsabili delle emissioni di CO2 in atmosfera, e contrastando il cambiamento climatico. La farmacologia e la medicina stanno facendo passi da gigante e potrebbero incidere sull’età demografica, nonché sui cicli di transizione. La tecnologia, in poche parole, può frenare o accelerare i fattori positivi o negativi insiti nelle quattro grandi forze che stanno dominando il mondo.

L’alimentazione: anello debole della sostenibilità Prima di chiudere questo capitolo, vorrei approfondire un’altra delle forze in campo, possiamo definirla “forza in disarmo”, da cui dipende il futuro del Pianeta: l’alimentazione.


Il cibo è l’anello debole della catena della sostenibilità e, anche se rientra nella macroarea delle risorse naturali di cui abbiamo già parlato, necessita di uno spazio a sé proprio per il peso e l’importanza che riveste nella nostra vita. Inquadra il tema Lester Brown, fondatore e presidente dell’Earth Policy Institute - organizzazione non profit di ricerca interdisciplinare il cui scopo è quello di elaborare un piano e trovare percorsi per un futuro sostenibile - nel suo recente libro “9 miliardi di posti a tavola - La nuova geopolitica della scarsità di cibo”. Cito testualmente dal risguardo del testo: «L’agricoltura globale si trova di fronte a sfide del tutto nuove. Le falde idriche calano, le rese cerealicole hanno raggiunto il loro limite, le temperature globali aumentano e l’erosione dei suoli continua ad aggravarsi. Nutrire la popolazione mondiale, che cresce ogni anno di 80 milioni di individui, diventa sempre più difficile. E allora le nazioni che possono permetterselo corrono all’estero ad accaparrarsi terre coltivabili e annesse risorse idriche. Il land

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Il cibo è l’anello debole della nostra società

FOOD price index, valori mondiali mensili dal gennaio 1990 a giugno 2012

Fonte: Nasa Giss


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L’epoca della sicurezza alimentare è finita

grabbing rappresenta un fenomeno nuovo all’interno della geopolitica della scarsità alimentare, in cui il cibo ha assunto la stessa importanza del petrolio e il terreno agricolo è prezioso come l’oro. Le ricadute in termini di prezzi mondiali del cibo sono sotto gli occhi di tutti. Cosa accadrà con il prossimo aumento dei prezzi? Se la contrazione dei consumi alimentari, spinta dalla crisi, è una novità per molti di noi, per molti altri non sono più possibili ulteriori sacrifici. Il cibo è l’anello debole della nostra società e rischia quindi di diventare un importante fattore di instabilità politica. Per evitare il collasso del sistema alimentare è necessaria la mobilitazione della società nel suo complesso. Oggi la posta in gioco è la salvezza della civiltà stessa, e salvare la civiltà non è uno sport che prevede spettatori». Come dicevamo il cibo è l’anello debole della catena. Facciamo un breve excursus: il mondo sta vivendo un periodo di transizione da un’epoca di grande abbondanza di risorse alimentari a una ben più grigia in cui queste risorse scarseggiano drammaticamente. Nella seconda metà del XX secolo si è infatti assistito a un boom di sovrapproduzione alimentare: in quel periodo il mondo aveva ben due riserve, interi stock in eccesso di cereali e una vasta superficie di campi a risposo. Quando il raccolto era scarso, questi terreni venivano messi in lavorazione e gli stock immagazzinati facevano da paracadute. Un periodo di abbondanza e sicurezza che, tuttavia, ha cominciato a vedere il suo declino a partire dalla fine degli anni ‘80. La domanda di cereali continuava infatti a crescere e si è dovuto rinunciare alla conservazione dei preziosi terreni “cuscinetto” a riposo. Fino al 2001 hanno resistito i rassicuranti surplus annuali di cereali - un indice dello stato di salute del cibo nel mondo - ma nei successivi dieci anni anche questa riserva è stata intaccata, arrivando nel 2011 a calare fino a un terzo. Parallelamente i prezzi del cibo tra il 2007 e il 2008 sono schizzati alle stelle, portando alla fame un numero senza precedenti di persone e scatenando proteste e rivolte in varie parti del mondo. L’epoca della sicurezza alimentare è finita. Oggi a soffrire la fame sono circa 1 miliardo di persone al mondo - un sesto della nostra popolazione - contro i 790 milio-


ni del 1997. Le aree più colpite sono quelle dell’Asia e dell’Africa sub sahariana e a subirne le spese in maniera più grave sono i bambini. Una situazione drammatica se si considera che ogni giorno si affacciano al mondo quasi 220.000 neonati, 80 milioni all’anno, che richiedono un corretto e sufficiente nutrimento. A fronte di un miliardo di persone denutrite, poi, ce ne sono altri 3 miliardi nei Paesi in rapida ascesa che vedono aumentare i loro redditi e cominciano a consumare in maniera sempre più massiccia carne, pesce, uova. La Cina, per esempio, oggi consuma il doppio della carne richiesta dagli Stati Uniti. Tra le cause che hanno portato a questa situazione insostenibile, c'è sicuramente l’incremento importante della domanda dovuto alla crescita demografica, al miglioramento delle condizioni di vita e alla produzione di biocarburanti. Già, perché con i cereali si fa anche l’etanolo, il biocombustibile per autotrazione. Si pensi che su 400 milioni di tonnellate di cereali prodotti in Usa, ben 127 milioni - pari al 32% - sono finiti nelle distillerie d’etanolo. Non solo. Hanno contribuito al delinearsi di questo allarmante scenario anche l’esaurimento delle falde acquifere (che interessa metà dei Paesi del mondo), l’arresto della produzione agricola dovuta all’impoverimento del suolo (sfruttato ormai oltre misura), infine l’aumento della temperatura globale che tout court uccide l’agricoltura. Una condizione talmente drammatica che i più furbi (e più ricchi) - nel timore di non essere più in grado di acquistare sul mercato cereali in quantitativi sufficienti cercano di risolvere comprando o prendendo in affitto la terra nei Paese più poveri, come l’Etiopia o il Sudan. E così si vedono l’Arabia, la Cina e la Corea del Sud impossessarsi di milioni di ettari di terreno coltivabile (pare circa 56 milioni) per produrre il proprio nutrimento, a scapito di quello degli altri. Il fenomeno si chiama land grabbing, letteralmente “afferrare la terra”, una vera corsa all’accaparramento di suolo fertile. Una corsa che ha ricadute gravi anche sui diritti di utilizzo dell’acqua per irrigare queste terre e che può causare veri e propri sconvolgimenti all’interno dei Paesi sfruttati. Una corsa che può scatenare conflitti e che senza dubbio sta deli-

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La Cina, per esempio, oggi consuma il doppio della carne richiesta dagli Stati Uniti


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neando una nuova geopolitica del cibo. Ecco allora che per fronteggiare un simile presente - si legge nel libro di Lester Brown - bisogna cercare di indirizzare la nostra civiltà, all’inizio del XXI secolo, su un cammino di sostenibilità. Ognuno ne deve essere partecipe. Questo non comporta un semplice aggiustamento dei nostri stili di vita - come il cambiare le lampadine o riciclare i giornali - per quanto siano importanti queste azioni. Gli ambientalisti hanno parlato per decenni di come salvare il Pianeta, ma oggi la questione riguarda la conservazione della civiltà medesima. Ciò comporta la trasformazione dell’economia energetica mondiale prima che la spirale del cambiamento climatico vada fuori controllo e le carestie alimentari travolgano il nostro sistema politico. Questo significa diventare attivi politicamente, impegnandosi per raggiungere gli obiettivi descritti.



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SENZA SOSTENIBILITÀ: IL RISCHIO DI UN DISASTRO PLANETARIO

La politica domina e allo stesso tempo subisce le grandi forze fin qui menzionate. Come una sorta di burattinaio che rimane impigliato nei fili mentre è intento a muovere le sue marionette. Ogni elemento - demografia, risorse naturali, cambiamento climatico, globalizzazione, innovazione tecnologica e politica appunto - è infatti strettamente interconnesso e, mutando, influenza tutti gli altri. Il risultato si manifesta nelle grandiose variazioni degli equilibri planetari avvenute nel corso della storia. Si pensi solo a come sia cambiato il quadro globale dai patti di Bretton Woods - di cui abbiamo parlato nel capitolo precedente - a oggi. Allora esisteva la cortina di ferro e l’Europa era spaccata politicamente in due blocchi monolitici. Oggi non più. Oggi il mondo - come sostiene il famoso scrittore e opinionista americano Thomas Lauren Friedman in un suo saggio dedicato alla globalizzazione - è “piatto”. Certo, mantiene ancora zone di frizione e di attrito, ma in questi anni abbiamo assistito all’incalzante livellamento del divario tra Paesi industrializzati e Paesi emergenti e, grazie alle nuove tecnologie, all’abbattimento di barriere culturali, temporali e spaziali tra diverse aree geografiche del Pianeta. Non solo. L’asse dell’economia e della politica si è notevolmente spostato:

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L’asse dell’economia e della politica si è notevolmente spostato


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dall’Europa è scivolato verso le nuove potenze emergenti, Cina e India. Fino all’epoca attuale il baricentro politico ed economico mondiale risiedeva stabilmente “dalle nostre parti”: prima nel Mediterraneo, con i Fenici, gli Egizi, i Greci e i Romani, successivamente nell’Atlantico, con l’impero britannico e poi con quello americano.

Le carte vincenti della cultura occidentale Secondo lo storico inglese Nial Fergusson - la cui analisi è descritta in un voluminoso libro intitolato “Occidente. Ascesa e crisi di una civiltà” - il mondo è stato occidentecentrico così a lungo grazie a sei precise “forme istituzionali”, così come lui le definisce. Sei carte vincenti, o killer application per usare il moderno linguaggio informatico, che hanno permesso “a una minoranza dell’umanità” di avere il predominio incontrastato per quasi tutti gli ultimi cinquecento anni e di esportare i propri valori nel resto del mondo. Questi famosi assi nella manica sono stati: competizione, scienza, diritto di proprietà, medicina, società dei consumi ed etica del lavoro. La competizione, intesa come una decentralizzazione della vita politica ed economica, è servita da piattaforma di lancio sia per gli Stati Uniti che per il capitalismo. La scienza è stata il veicolo per studiare, comprendere e trasformare il mondo naturale. Elemento, questo, che ha dato all’Occidente anche un netto vantaggio militare sul resto del mondo. Il diritto di proprietà, uno strumento per proteggere i proprietari privati e risolvere pacificamente le loro controversie, ha invece costituito la base per la forma finora più stabile di governo rappresentativo. La medicina, poi, ha consentito un decisivo miglioramento delle condizioni e dell’aspettativa di vita, prima negli Stati occidentali e successivamente anche nelle loro colonie. La società dei consumi, un modello di vita materiale in cui la produzione e l’acquisto di beni di consumo hanno un essenziale ruolo economico, è stata nondimeno indispensabile per l’esplosione della rivoluzione industriale. Infine, l’etica del lavoro, un’impalcatura morale e un modello di attività derivato dal cristianesimo protestante e


non solo, ha fatto da collante per tenere insieme la dinamica e potenzialmente instabile società così prodotta. Un mix esplosivo che oggi però non basta più: la situazione, come vedremo, è notevolmente cambiata.

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L’epicentro politico - economico è ora nel Pacifico Se dal periodo post-bellico fino ai primi anni del 2000, Europa e Usa si passavano la palla del potere economico da una sponda all’altra dell’Atlantico, oggi i rapporti di scambio più rilevanti si intrattengono tra Cina, India e Stati Uniti: il fulcro dell’economia mondiale si è spostato quindi al centro dell’Oceano Pacifico. In che modo l’asse è traslato? Successivamente alla caduta del muro di Berlino, nel 1989, il mondo occidentale ha ripreso, con vigore rinnovato, la sua corsa alla globalizzazione. Così facendo, ha incontrato sulla sua strada due Paesi, Cina e India, che stavano iniziando, da diverse prospettive, un simile e

Oggi i rapporti di scambio più rilevanti si intrattengono tra Cina, India e Stati Uniti

Shares of global middle-class consumption, 2000-2050 Percent

 Others  European Union  United States  United States  Other Asia  India  China

Fonte: OECD


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sorprendente processo di crescita. Processo che ha solleticato l’avidità degli Stati Uniti e della già acciaccata Europa, tanto da spingere le due potenze a prenderne parte attivamente. Soprattutto per l’Europa, mai partita fu più perdente. Delocalizzazione della produzione e sfruttamento della manodopera locale sono stati la tomba del Vecchio Continente che è diventato ancora più povero ed è stato costretto ad abbassare i suoi consumi, contribuendo invece a incrementare quelli dei due Paesi emergenti. Cina e India, così, in un ventennio, sono arrivate a essere, in ordine di rilevanza, la seconda e la terza potenza al

Level populations, 2010-2030 2010

 Youthful

(25 or younger)

(over 25 to 35)

(over 35 to 45)

 Intermediate 2030

Fonte: US Census Bureau's International Database, June 2011

 Mature

 Post-mature (over 45)


mondo, spostando gli equilibri economico-politici, come dicevamo, nella loro direzione. Gli Stati Uniti, a questo punto, hanno cominciato a rivolgere tutte le attenzioni verso quella fruttuosa area. Area che ha cominciato a svilupparsi in modo grandioso nel suo complesso: Indonesia, Malesia, Thailandia, Vietnam, Singapore e Filippine sono realtà economicamente importanti già oggi e saranno in grado di accrescere il loro valore ancor di più nei prossimi 40 anni, superando di gran lunga molti Paesi europei. Gli Usa, per destreggiarsi in un tale contesto, (per non soccombere come l’Europa) e soprattutto per non perdere il loro primato - grazie alla lungimiranza del presidente Barack Obama - hanno messo a punto un sistema multipolare che vede la bandiera a stelle e strisce comunque in prima linea nel nuovo assetto politico ed economico globale. Considerando che sul piano demografico gli Stati Uniti continuano a crescere (100 milioni nei prossimi 40 anni, pari al 25% della popolazione), che, attraverso i giacimenti di gas scisto - un gas naturale racchiuso in rocce sedimentarie argillose - stanno diventando autosufficienti sul piano energetico e che primeggiano in ambito medico, tecnologico, nano tecnologico e anche digitale - è facilmente intuibile come possano conservare il loro ruolo guida, pur scendendo al secondo posto in termini di consumi e PIL.

Un mondo che cambia profondamente da qui al 2030… lo dice la Cia Per capire in che modo la crescita demografica, l’aumento del benessere nei Paesi emergenti e la drastica diminuzione delle risorse naturali possano influenzare lo scenario politico ed economico dei prossimi decenni e viceversa, ci rifacciamo a due autorevoli studi. Il primo, “Global Trends 2030”, realizzato dal National Intelligence Council (NIC) - centro di analisi strategica a medio e lungo termine del governo statunitense - descrive l’evoluzione politico-sociale del Pianeta da qui al 2030. Il secondo, “World in 2050”, prodotto dalla Price Water House (PWC) - una delle più importanti società di consulenza e

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Cina e India, così, in un ventennio, sono arrivate a essere la seconda e la terza potenza al mondo


66 DA PREDATORI A IMPRENDITORI

Nei prossimi 15-20 anni, ci troveremo di fronte a una notevole crescita del potere individuale

auditing del mondo - mette invece in rilievo l’andamento economico globale fino al 2050. Andiamo con ordine. Gli esperti del NIC riportano che, nei prossimi 15-20 anni, ci troveremo di fronte a una notevole crescita del potere individuale, quello nelle mani dei singoli cittadini per intenderci. L’impennata della popolazione globale, l’aumento diffuso di benessere e istruzione, il miglioramento delle condizioni di salute e la riduzione della povertà contribuiranno a potenziare le classi medie di tutto il mondo. Classi che avranno sempre più peso e influenza nelle questioni sociali ed economiche future. Questa tendenza, secondo quanto si legge nel rapporto, produrrà sia un effetto positivo che uno negativo. Da un lato, infatti, la maggior ascendenza individuale sulle faccende del mondo potrebbe essere sfruttata per risolvere le pro-

Global trends 2030 Espansione della classe media globale

Le classi medie in tutto il mondo in via di sviluppo si espanderanno sia in termini numerici che di impatto socio-economico.

Accesso facilitato da parte di singoli individui a tecnologie innovative e distruttive

Mediante l’accesso facilitato a innovative tecnologie, individui e piccoli gruppi avranno la possibilità di perpetrare violenza su larga scala, una capacità finora propria esclusivamente dei Governi.

Spostamento dell’asse del potere dalle aree occidentali a quelle sud-orientali

Il reddito di Usa, Europa e Giappone verrà dimezzato entro il 2030, la Cina supererà gli Stati Uniti e l’economia dei mercati emergenti raddoppierà.

Invecchiamento generalizzato della popolazione sia nei Paesi avanzati che in quelli emergenti

Molti Paesi europei, ma anche la Corea del Sud e Taiwan, vedranno invecchiare la propria popolazione e diminuire i giovani nella società. La migrazione diventerà globalizzata perché sia i Paesi cosiddetti avanzati che quelli in via di sviluppo mancheranno di manodopera.

Esplosione dell’urbanizzazione

Il 60% della popolazione mondiale (oggi siamo al 50%) abiterà nelle città, quindi 4,9 miliardi di persone. L’Africa gradualmente sorpasserà l’Asia e diventerà il continente con il più alto tasso di urbanizzazione. I centri urbani genereranno l’80% della crescita economica.

Aumento della pressione sulle risorse naturali come acqua e cibo

La domanda di cibo aumenterà almeno del 35% al 2030 mentre quella di acqua del 40%. Circa metà della popolazione mondiale vivrà in aree caratterizzate da grande stress idrico. Gli Stati più instabili di Africa e Medio Oriente saranno maggiormente a rischio. Anche l'India.

Indipendenza energetica degli Usa

Grazie al gas scisto gli Usa, nei decenni a venire, avranno sufficienti risorse per soddisfare i propri bisogni e addirittura per esportare all’estero, migliorando le condizioni economiche del Paese.

Fonte: National Intelligence Council


blematiche e le sfide che ci attendono. Dall’altro, però, renderebbe i singoli individui o gruppi formati da poche persone potenzialmente pericolosi e in grado di perpetrare violenze su larga scala, grazie, per esempio, al facilitato accesso a innovative quanto distruttive tecnologie. Secondariamente, continua il report, entro il 2030 il potere, finora concentrato nelle mani di pochi Stati, si espanderà a macchia d’olio, andando a interessare Paesi diversi. L’Asia sorpasserà Nord America ed Europa in termini di PIL, di popolazione, ma anche dal punto di vista delle spese militari e degli investimenti tecnologici. La Cina, da sola, probabilmente diventerà la più grande potenza economica mondiale e supererà gli Stati Uniti appena prima del 2030. La “salute” dell’economia globale dipenderà sempre più dai Paesi in via di sviluppo, quindi da Cina, India e Brasile ma anche da Colombia, Indonesia, Nigeria, Sudafrica e Turchia. Nel frattempo Europa, Giappone e Russia continueranno il loro lento declino. Il potere, parallelamente, cambierà forma grazie alle innovative tecnologie di comunicazione e alla formazione di nuove reti: ecco allora che le potenze emergenti gestiranno correttamente la loro forza e non verranno schiacciate dal loro stesso peso, solo se impareranno ad agire tramite queste reti in un contesto multipolare. Demograficamente parlando, poi, sostengono gli esperti del NIC, si assisterà al progressivo invecchiamento sia della popolazione occidentale che di quella nei Paesi in via di sviluppo. Il decremento di giovani nelle società minerà il tenore di vita delle stesse, farà venir meno preziosa manodopera e stimolerà l’immigrazione per reperire forza-lavoro. L’immigrazione e la parallela crescita dell’urbanizzazione potrebbero, da una lato, stimolare l’economia ma dall’altro generare nuove pressioni sulle risorse naturali. Si pensi che, nei Paesi in via di sviluppo, il volume di costruzioni edificate nei prossimi quarant'anni potrebbe equiparare quello delle costruzioni realizzate in tutta la storia del mondo. E ricollegandoci alle risorse, la domanda di cibo, acqua ed energia crescerà rispettivamente del 35, 40 e 50% a causa dell’incremento della popolazione globale e dei modelli di consumo di una classe media in espansione. Il cambiamento climatico peggiorerà ulteriormente la situazione: le zone umide diventeranno sempre più umi-

67 SENZA SOSTENIBILITÀ: IL RISCHIO DI UN DISASTRO PLANETARIO

Il potere cambierà forma grazie alle innovative tecnologie di comunicazione e alla formazione di nuove reti


68 DA PREDATORI A IMPRENDITORI

Gli Usa hanno infatti riacquistato la loro posizione di produttore leader di gas naturale e hanno ampliato la vita delle loro riserve da 30 a 100 anni

de, così come si intensificheranno le problematiche delle aree secche e aride. Le precipitazioni si ridurranno drammaticamente sia in Medio Oriente che in Asia centro-occidentale, ma anche negli stati nord-africani e in quelli sud-africani, così come nell’Europa meridionale e negli Stati Uniti occidentali. Ne risentirà ampiamente l’agricoltura, che dipende strettamente dalle risorse idriche e molti Paesi probabilmente non avranno i mezzi per fronteggiare la mancanza di acqua e cibo senza importanti aiuti dall’esterno. Per quanto riguarda l’energia, invece, l’elemento più interessante riguarda gli Stati Uniti che, come già accennavamo, potrebbero diventare, in uno scenario futuro, indipendenti dal punto di vista energetico. Gli Usa hanno infatti riacquistato la loro posizione di produttore leader di gas naturale e hanno ampliato la vita delle loro riserve da 30 a 100 anni. Inoltre, l’estrazione di petrolio in zone di difficile raggiungimento mediante la tecnica del fracking - trattamento che prevede l'utilizzo di una miscela esplosiva di acqua, sabbia e additivi chimici in grado di fratturare la roccia e di liberare gli idrocarburi - potrebbe portare a un importante ridimensionamento delle importazioni e a un miglioramento delle condizioni economiche del Paese. In questo caso però, non è tutto oro quello che luccica: ancora non si conoscono con precisione gli effetti del fracking sull’ambiente. C’è il rischio di perdite di gas dai pozzi, di inquinamento delle falde acquifere e di alterazione dell’equilibrio climatico e del suolo. Elementi al centro del dibattito ambientalista che potrebbero far deragliare gli sviluppi in tale direzione. Dopo questo puntuale quadro di stampo prevalentemente sociale e politico - che va a rafforzare alcuni concetti già trattati precedentemente - passiamo a visionare alcune tabelle del report della Price Water House, per commentare le proiezioni al 2050 da un punto di vista prettamente economico. Mentre la nostra bella Italia tenterà di resistere con il coltello tra i denti al 14° posto, senza alcuno slancio in termini di incremento di PIL procapite, dai dati riportati emerge chiaramente come Messico, Indonesia, Turchia e Malesia - Paesi che fino a oggi sono stati considerati solo luoghi turistici - si riveleranno quelli con il più alto tasso di sviluppo percentuale al mondo, delle vere e proprie


stelle nel firmamento dell’economia globale. Non solo, anche Vietnam, Nigeria e Polonia, che ora sembrano contare poco o nulla, giocheranno un ruolo fondamentale nell’assetto economico dei prossimi quarant'anni. La Nigeria, in particolare, alla fine del secolo vanterà una popolazione al di sopra degli 800 milioni di abitanti. Sarà ricca, più di molti stati europei, e probabilmente diventerà la nazione leader del continente africano.

69 SENZA SOSTENIBILITÀ: IL RISCHIO DI UN DISASTRO PLANETARIO

% change per annum

Breakdown of components of average real growth in GDP at PPPs (2011 - 2050)

GDP per capita in PPP terms (constant 2011 US$)

GDP per capita levels in PPP terms for the G7 and E7 economies

Fonte: PWC 2050


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L’Africa probabilmente diventerà la “nuova Asia” del XXI secolo

Africa: un continente in grande crescita Ed ecco che torniamo a parlare dell’Africa, la parte di mondo che ci interessa di più ai fini di questo libro perché particolarmente vulnerabile e per questo destinataria di gran parte degli aiuti messi in campo da associazioni e ONG. Sapere cosa sta accadendo e cosa accadrà all’Africa è una necessità. E ora che abbiamo chiaro il quadro globale possiamo entrare nel dettaglio e occuparci di questo continente tanto difficile quanto straordinario. L’Africa non è più l’ultima ruota del carro. Sta subendo un importante processo di sviluppo e probabilmente diventerà la “nuova Asia” del XXI secolo. Contribuiranno alla sua esplosione diversi elementi. In primo luogo, la ricchezza di risorse disponibili e il notevolissimo potenziale in termini di forza-lavoro: la popolazione africana è molto giovane, più della metà dei suoi abitanti ha un’età inferiore ai 15 anni e, come sottolineavamo nel capitolo due, la transizione demografica non è ancora in fase

World Population By five-year age group

Fonte: UN

* Projection


“discendente”. Lo stato di salute generale, inoltre, grazie a medicine e cure mediche, sta notevolmente migliorando e le malattie endemiche, a partire dall’Aids, vengono strenuamente combattute. In ultimo, ma non meno importante, la governance, in particolare nelle nazioni subsahariane, si sta ridisegnando in chiave positiva. Un vento nuovo soffia sopra queste terre arse dal sole. Un vento percepibile anche solo visitando quei luoghi. Io, per esempio, vado a Nairobi dalle quattro alle sei volte all’anno per seguire i progetti di Alice for Children. Ho visto personalmente crescere questa metropoli mese dopo mese. Una realtà oggi in incredibile fermento, ricca di strade, autostrade, grattacieli pieni di uffici, palazzi residenziali, shopping center. Si respira aria di sviluppo in ogni angolo; si avverte la frenesia di un popolo che vuole emergere; si percepisce il desiderio di "futuro". Queste sono le mie sensazioni personali, certo, ma andando a leggere su internet i numerosi rapporti del McKinsey Insitute - prestigioso istituto la cui missione è quella di fornire consulenze sulle evoluzioni dell’economia globale - ci si rende conto che l’Africa è davvero in corsa per risollevarsi. Nei prossimi dieci anni, il Continente vedrà quasi raddoppiare il PIL, nonché il numero dei suoi abitanti; i consumi triplicheranno; oltre 150 milioni di africani avranno redditi consistenti e più del 50% della popolazione vivrà all’interno di grandi città. La transizione demografica si assesterà solo nel 2040, epoca in cui oltre 1 miliardo di persone sarà in età lavorativa. Stiamo parlando della forza lavoro più consistente di tutto il mondo, superiore anche a quella di India e Cina. Non resta che immaginare quanto lavoro verrà delocalizzato in quest’area, considerando anche che la manodopera in Africa costa un decimo di quella occidentale e forse la metà di quella cinese. Parallelamente l’istruzione avanzerà, preparando una classe lavorativa non solo “manuale” ma anche intellettuale. Non va dimenticato che anche in Africa la classe media è già in via di formazione e che in molti Paesi ha già un potere di acquisto molto alto: oltre i 20.000$ annui. Una ricchezza che viene investita, per esempio, in cibo di qualità, in abitazioni di pregio, in mobili di design - i marchi italiani sono molto apprezzati - e negli elettrodomestici. Tutti elementi che caratterizzano

71 SENZA SOSTENIBILITÀ: IL RISCHIO DI UN DISASTRO PLANETARIO

L’Africa è davvero in corsa per risollevarsi. Nei prossimi dieci anni, il Continente vedrà quasi raddoppiare il PIL


72 DA PREDATORI A IMPRENDITORI

il raggiungimento del benessere, lentamente conquistato. Infine, i settori di maggior crescita saranno quelli tipici su cui si concentrano le economie in via di sviluppo: estrazione delle risorse naturali, agricoltura, infrastrutture, trasporti, costruzioni, prodotti di consumo. Gli investimenti già fioccano con forti capitali e i ritorni cominciano a essere alti, proprio come documentano le tabelle di queste pagine.

Africa: la nuova Cina della Cina

La Cina è diventata uno dei maggiori interlocutori del continente africano

Una mano, in particolare, si sta allungando sull’Africa: quella della Cina. Il Paese della Grande Muraglia, dello sviluppo impazzito e dei divieti più assurdi – si pensi a quando il Governo mise al bando i gelsomini perché diventati pericolosa icona delle rivoluzioni nell’Africa mediterranea - è da sempre interessato al continente Africano. Anche quando non era la Cina con la C maiuscola che oggi conosciamo. Con grande lungimiranza, verrebbe da aggiungere. L’iniziatore di questo percorso fu Mao Tse-tung, portavoce del partito comunista cinese dal 1943 fino al 1976, che appoggiò i processi rivoluzionari nell’Africa degli anni ’60. Percorso che fu portato avanti anche dopo la sua scomparsa. Successivamente alla caduta del muro di Berlino, infatti - mentre gli Usa cercavano di rimettere insieme i cocci dell’Europa dell’est e di risolvere i conti in sospeso con i vecchi alleati - la Cina si dedicava all’Africa: frequentava i suoi presidenti, carismatici e non, li invitava in visita, li sosteneva, li difendeva sempre e comunque, anche in sede ufficiale. In questo modo, la superpotenza d’oriente è diventata uno dei maggiori interlocutori di tutto il Continente, nonché alleato politico chiave di molte nazioni africane, ed è riuscita a estendere la sua ombra sul Sudan e sulle sue riserve petrolifere; sul Congo e sul Mozambico, nazioni ricche di materie prime e legname; ma anche sullo Zambia, con i suoi giacimenti di rame. In questi Paesi, la Cina ha un vero e proprio ruolo di potere; negli altri, si impegna a stringere accordi economici, a costruire infrastrutture, fabbriche, a estrarre minerali e a sfruttare


terreni agricoli. Già, i terreni agricoli. La Cina compra terre, sottraendole alla popolazione - il cosiddetto land grabbing di cui abbiamo parlato precedentemente - e le trasforma nel proprio personale granaio, tanto che il 60% del cibo di cui si nutre la sua popolazione arriva dal continente africano. Ci sono pensatori, come l’economista zambiana Dambisa Mojo - autrice del famoso libro “Dead Aid”, “La carità che uccide” - che considerano l’approccio della Cina l’unico valido per garantire un futuro all’Africa. Nel testo del suo nuovo libro “Winner takes all”, Dambisa Mojo sostiene che le donazioni e gli aiuti inviati in Africa dal resto del mondo siano “un’elemosina che, nella migliore delle ipotesi, costringe l’Africa a una perenne adolescenza economica, rendendola dipendente come da una droga. E nella peggiore, contribuisce a diffondere le pestilenze della corruzione e del peculato, grazie a massicce iniezioni di credito nelle vene di Paesi privi di una governance solida e trasparente, e di un ceto medio capace di potersi reinventare in chiave imprenditoriale. L’alternativa è chiara: seguire la Cina, che negli ultimi anni ha sviluppato una partnership sofisticata ed efficiente con molti Paesi della

73 SENZA SOSTENIBILITÀ: IL RISCHIO DI UN DISASTRO PLANETARIO

Il 60% del cibo di cui si nutre la popolazione cinese arriva dal continente africano

By 2020, more than half of African households will have discretionary spending power

Fonte: Canback Global Income Distribution Database (C-GIDD); McKinsey Global Institute


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La Cina è il nuovo padrone coloniale

zona subsahariana. Il colosso cinese, che non deve fare i conti con un passato criminale di colonialismo e schiavismo, è infatti in grado di riconoscere l’Africa per la sua vera natura: una terra enorme ricca di materie prime e con immense opportunità di investimento”. Una tesi da cui dissento. E dissento con convinzione perché credo che i Paesi africani (sono 53 per chi non lo sapesse), in misure diverse, siano sempre più consapevoli della necessità di un cambio netto di governance al fine di evitare nuove occupazioni e forme di sfruttamento e che si stiano impegnando a fondo per produrre mutamenti positivi in questa direzione. Se tutti seguissero l’esempio cinese, l’Africa diventerebbe una specie di governatorato diretto economicamente dai Paesi più forti. Uno scenario come quello auspicato nel libro si tradurrebbe quindi in una sorta di colonialismo di ritorno. Quanto di meno sperabile per il continente africano. A ogni modo, la tesi della Mojo è la più accreditata per il momento e la Cina è il nuovo padrone coloniale. Personalmente mi auguro che il gigante orientale rallenti la sua presa a favore di uno sviluppo, magari inferiore, ma in grado di far crescere la popolazione locale.

Four groups of industries could have combined revenue of $ 2.6 trilion by 2020

Fonte: McKinsey Global Institute


Africa: bontà, buonismo o risarcimento? Questa è l’Africa di oggi e quelli descritti nelle precedenti pagine sono gli scenari dell’Africa di domani. Non va tuttavia dimenticata l’Africa di ieri, quella messa a ferro e fuoco dai Paesi occidentali, quella delle sanguinose scorrerie, dello schiavismo e della depredazione di beni e risorse. Un passato che deve rimanere scolpito nella nostra memoria e che grida al risarcimento delle nazioni martoriate. Tutte le volte che mi è stato chiesto perché svolgessimo un lavoro di charity in Kenya, non sono mai riuscito a rispondere “per beneficenza” oppure “per generosità e altruismo”. Ho sempre e solo usato la parola risarcimento. O meglio: give back, refund in inglese. Dare indietro. I nostri bambini a Nairobi, una volta, ci hanno dedicato una canzone insegnata loro dalle mamy, che conteneva nel testo la parola “benefactor”: abbiamo ringraziato infinitamente del pensiero ma abbiamo chiesto di togliere quel termine. È importante che anche i più piccoli capiscano che ciò che facciamo per loro è un atto dovuto. Personalmente sento la necessità di risarcire: per restituire il maltolto, per tutto il male

Africa's workforce will become the world's largest by 2040

Fonte: United Nations World Population Prospect; McKinsey Global Institute

75 SENZA SOSTENIBILITÀ: IL RISCHIO DI UN DISASTRO PLANETARIO


76 DA PREDATORI A IMPRENDITORI

che è stato perpetrato in queste terre e subito dalle popolazioni locali, per la fortuna di essere nato nella parte “agiata” del Pianeta. Il mio è un vero e proprio rifiuto dell’idea di beneficienza: una forma presuntuosa e paternalistica, di stampo ottocentesco, che implica una sorta di superiorità sociale. Quasi come nel caso di un padrone di ferriera che si dimostra “buono” con i suoi operai. Nella beneficienza risiede solo il principio di generosità, non quello fondamentale del dovere e del diritto di risarcimento. Concetti questi che vanno ben oltre il semplice “buonismo” e lasciano spazio a riflessioni più ampie. Diritto al risarcimento può infatti voler dire allo stesso tempo diritto alla sostenibilità. E il diritto alla sostenibilità è proprio di tutto il Pianeta, non solo dei Paesi più vulnerabili. Ecco che allora l’azione di risarcimento potrebbe anche essere, in un certo senso, considerata una forma di egoismo. Mi spiego meglio.

Africa represents about 60 percent of the potentially avaiable cropland in the world

Fonte: World bank/McKinsey Global Institute


In passato, le grandi potenze hanno sempre depredato i Paesi più deboli: in modo più eclatante prima e più sottile poi. Oggi si sfrutta la terra d’Africa fino allo sfinimento, si svuotano le sue miniere, si portano via beni e prodotti. Dietro queste azioni ci sono quasi sempre grandi aziende quotate in borsa - che sostengono, per meglio apparire, di preoccuparsi dell’impatto sociale, etico e ambientale che generano all’interno delle zone in cui operano - e governi che chiudono gli occhi per non vedere. Così, per esempio, quando un’impresa che compra il caffè da una determinata piantagione, ha fatto scorticare tutti i 15 cm di terreno fertile del campo, rendendolo completamente inutilizzabile, gira le spalle a terra e agricoltori e va a cercare altri agricoltori e altra terra da prosciugare. Magari in un Paese diverso. Si potrebbe pensare che siano le leggi dell’economia: sicuramente la tal multinazionale deve massimizzare i suoi profitti per sostenere chi ha investito in borsa. Così, gli investitori ricevono un beneficio immediato, certo, ma allo stesso tempo miope, perché contestualmente stanno creando un disequilibrio nell’ecosistema mondiale che ricadrà sulle loro spalle e nelle loro tasche tra qualche anno. O peggio, in quelle dei loro figli. Adottare un bambino a distanza, sostenere un orfanotrofio, incrementare il livello di istruzione delle popolazioni in difficoltà, offrire cure mediche contro le malattie endemiche e migliorare le tecniche agricole, dal mio punto di vista, sono operazioni per anticipare un costo che altrimenti andrebbe a pesare su figli e nipoti. Questo è il ragionamento che spiega il concetto di risarcimento in termini di sostenibilità. Risarcisco ora per non dover pagare poi la tassa richiesta da un mondo completamente squilibrato. Investo oggi per non dover spendere di più domani, considerato che la sostenibilità ha dei costi molto alti. Non si tratta solo di giustizia. Stiamo uccidendo il Pianeta - come credo di aver spiegato nei capitoli precedenti - e le ricadute si abbatteranno su di noi con interessi stellari. Se saremo sfortunati, faremo la fame. Se saremo fortunati, pagheremo un prezzo incredibile per mantenere l’attuale tenore di vita. È un diritto, più che un dovere - anche se in

77 SENZA SOSTENIBILITÀ: IL RISCHIO DI UN DISASTRO PLANETARIO

Risarcisco ora per non dover pagare poi la tassa richiesta da un mondo completamente squilibrato


78 DA PREDATORI A IMPRENDITORI

questo caso i due termini sono quasi sinonimi - operare perché ciò non accada. E allora cosa è necessario fare? Lavorare per la sostenibilità in modo superficiale non serve. Forse farà apparire chi lo fa intelligente e lungimirante agli occhi degli altri, ma non aiuterà a rimanere a galla sul lungo periodo. Meglio quindi pensare oggi a essere generosi, altruisti e ad aiutare chi è in difficoltà, creando condizioni migliori nel mondo e pensando al vantaggio che ne trarranno le generazioni a venire.

L'avanzata della Cina in Africa

Fonte: Le Monde



4


IL DIRITTO ALLA SOSTENIBILITÀ

Il processo di globalizzazione è trainato dalla voglia generalizzata e diffusa di conquistare diritti. La grande marcia contro le diseguaglianze è iniziata in diverse zone del mondo e ogni Paese sta cercando di riscrivere la sua storia. Ciascuno con il suo metodo e affrontando le sue particolari difficoltà. Un innegabile bisogno che si manifesta ovunque e sfida ogni forma di repressione. Si pensi alla Rivoluzione dei Gelsomini, o Rivoluzione Tunisina, cui avevamo accennato nel precedente capitolo. La scintilla che ha fatto esplodere la Primavera araba. Un’onda che ha visto sollevarsi, con il grande aiuto dei social network, intere regioni del Nord-Africa ma anche del Vicino e Medio Oriente per ribellarsi alla mancanza di libertà individuale, alla violazione dei diritti umani e alle insostenibili condizioni di vita. Un’onda che ha scosso tutto il mondo ed è arrivata fino in Cina. In quel periodo, proprio il Paese della Grande Muraglia vedeva la rete web agitata da anonimi richiami che invitavano i cittadini a scendere per strada con un gelsomino in mano, in segno di protesta verso gli abusi di potere e a favore della libertà di espressione.

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La grande marcia contro le diseguaglianze è iniziata in diverse zone del mondo


Globalizzazione: nuovi bisogni, nuovi diritti

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Un bisogno diffuso, dicevamo, che però ha assunto una forma diversa rispetto alle epoche passate: non si traduce più nella ricerca di un diritto assoluto, universale, riconosciuto e formalizzato “dall’alto”, piuttosto in quella di un diritto più puntuale, personale. Una richiesta di diritti che viene “messa in scena” tutti i giorni, grazie all’azione quotidiana di uomini e donne, che solo così possono trovare riconoscimento e rispetto per la loro dignità. “Oggi siamo di fronte a una inedita connessione tra l’astrazione dei diritti e la concretezza dei bisogni che mette all’opera soggetti reali. Certo non i soggetti storici della grande trasformazione moderna, la borghesia e la classe operaia, ma una pluralità di soggetti tra loro connessi da reti planetarie” dice bene Stefano Rodotà, professore emerito di Diritto civile dell’Università di Roma La Sapienza, nel suo libro “Il diritto di avere diritti”. Quindi anche il diritto, come le grandi variabili che abbiamo fin qui menzionato, si trasforma con l’evolversi della Storia. Oggi i diritti naturali, personali e sociali au-

DA PREDATORI A IMPRENDITORI

Il diritto si trasforma con l’evolversi della Storia

I donatori (ultimi 12 mesi) - Trend 2003-2010 Parliamo di offerte di denaro/donazioni. Negli ultimi 12 mesi, a Lei personalmente è capitato di fare una donazione? TREND DONATORI

15 - 24 anni

100

+1

 '10'- 09

90 80

Istruzione elementare Sud e Isole Oltre 64 anni Pensionati

-3%

70 60 50 40

28

28

2003

2004

31

31

30

29

30

27

24

20 10 0 2005

2006

Fonte: Gfk-Eurisko- gli Italiani e il 3°settore-2011

2007

2008

2009

2010

% -6 -5 -5 -5


mentano: a quelli più elementari, come il diritto alla vita, alla salute, al cibo, allo studio, alla dignità umana e alla giustizia sociale, se ne aggiungono altri più “attuali”, per esempio il diritto delle minoranze, delle coppie di fatto e di quelle omosessuali. I diritti nascono dai nuovi bisogni imposti dalla società moderna. Si pensi per esempio al necessario e ancora inesistente diritto di privacy da applicare al mondo tecnologico che ci spoglia della nostra identità ogni giorno, quasi senza che noi ce ne accorgiamo. E così si potrebbe continuare, accrescendo un elenco che diventa sempre più lungo, importante e fitto. La tecnologia cresce, la comunicazione cresce, la interconnessione cresce. Nei Paesi meno avanzati, i diritti sono spesso elementari, legati strettamente alla sopravvivenza della persona. Man mano che il reddito sale e questi diritti vengono acquisiti, altri ancora si manifestano. Spesso, in alcuni Paesi, convivono insieme diritti “vecchi” e “nuovi”, in una maniera che può apparire stonata e inusuale. Faccio un esempio per spiegarmi meglio. In molti Paesi africani, il diritto all’identità sessuale non era neanche stato preso in considerazione. Ora, con la diffusione dell’informazione che viaggia veloce attraverso i più diversi canali, è valutato a fianco di quelli più elementari. E in questo variegato campionario rientra anche una nuova categoria di diritti: quelli della sostenibilità. Nata a partire dall’evoluzione dei quattro pilastri base (andamento demografico, utilizzo delle risorse naturali, globalizzazione dei beni e dei capitali e cambiamento climatico), questa categoria racchiude in sé il diritto al cibo, all’acqua, alla salute ma anche alla tutela dei beni naturali e culturali; il diritto, in sintesi, a un Pianeta che può auto-sostenersi e auto-rigenerarsi. Se non si cerca di risolvere fin da ora il problema del riscaldamento globale, avremo meno cibo a fronte di un incremento costante della popolazione. Ecco come dobbiamo appellarci al diritto della sostenibilità. E questo è solo un esempio, potremmo farne infiniti altri. Anche il diritto alla sostenibilità cambia e si modella a seconda della parte di mondo in cui viene esercitato e della condizione storica e sociale del Paese. Per un africano, il diritto al cibo e allo sfruttamento corretto delle risorse naturali è più vincolante che per un ita-

83 IL DIRITTO ALLA SOSTENIBILITÀ

I diritti nascono dai nuovi bisogni imposti dalla società moderna


84 DA PREDATORI A IMPRENDITORI

liano. In Italia, per esempio, è molto importante il diritto che tutela lo straordinario patrimonio artistico e culturale, figlio del lavoro millenario dei nostri avi. Una ricchezza personale ed economica che deve continuare a rimanere intatta e ben curata. Lo stesso vale per l’ambiente, forse nel Belpaese non come risorsa naturale scippata, ma come bellezza deturpata. Il diritto alla sostenibilità, quindi, richiama a una natura da preservare per sé e per i propri figli; a una sanità più attenta verso le malattie nuove, per le quali non esistono ancora cure; all’arte e ai monumenti da tutelare come retaggi del passato e memoria per il futuro; alla cura degli altri, delle persone vulnerabili, i cui diritti più elementari vengono costantemente calpestati.

Senza solidarietà, il diritto alla sostenibilità muore A questo diritto si accompagna un dovere imprescindibile: quello della solidarietà, prerogativa fondamentale per alimentare un percorso che conduca alla sostenibilità del

Il profilo dei donatori - Sesso ed età Dato medio popolazione ITALIA

48 52

Totale Donatori

Donatori Regolari

Donatori Saltuari

SESSO

(N=329)

(N=171)

37 63

42 58

2 9 22 20 19 28

14 20 22 17 12 15

39% MASCHI

61%

FEMMINE

ETÀ 12 15 19 16 14 24

Fino 24 anni 25/34 anni 35/44 anni 45/54 anni 55/64 anni Oltre 64 anni

7% 13% 22% 19% 17% 24%

Fonte: Gfk-Eurisko- gli Italiani e il 3°settore-2011


Pianeta. La solidarietà è un’attitudine che viene da lontano e che ha pervaso tutta la storia della umanità, a partire dalle religioni che l’hanno predicata fino alle numerose figure che la praticano attualmente. Basta dare un occhio al World Giving Index, rapporto annuale dell'ente di beneficienza britannico Charities Aid Foundation, per capire quali siano oggi le nazioni più solidali. L'indice classifica, infatti, 153 Paesi del mondo in base a tre fattori: il denaro dato in beneficienza, il tempo impiegato per il volontariato e l'aiuto fornito alle persone straniere. Ai primi posti si piazzano Australia, Irlanda e Nuova Zelanda. L’Italia non spicca. È circa quarantesima. Ci sono paesi come l’Australia che da anni sono tra i primi dieci. Tuttavia, la solidarietà nel nostro Paese è comunque una realtà diffusa e si manifesta non solo attraverso le donazioni, ma anche tramite il volontariato: negli Stati sottosviluppati per dare un supporto concreto alle popolazioni più vulnerabili, nelle mense che elargiscono cibo alle persone senza fissa dimora o sotto la soglia di povertà, ma anche negli ospedali per regalare un sorriso ai bambini ricoverati. Un impegno che si ricompensa da solo e che dona a sua volta un senso di benessere personale. Dunque far del bene fa anche bene. Le persone lo sanno e si dimostrano generose. Strana Italia: spesso becera, spesso egoista, sempre individualista. Ma anche abbastanza generosa e solidale. Lo confermano le ricerche più avanzate. Un’indagine dello scorso anno effettuata dalla GFK - Eurisko, primo istituto italiano di ricerca sociale e di mercato, e coordinata da Paolo Anselmi, vice-presidente dell’Istituto, nonché docente di Marketing Non Profit e Comunicazione Sociale presso l’Università Cattolica di Milano, documenta appunto la propensione verso la solidarietà del popolo italiano. Sentiamo Paolo e commentiamo qualche dato: «Rileviamo questi dati ogni anno attraverso la nostra indagine Sinottica che è effettuata su un campione di 10 mila casi ed è dunque molto affidabile dal punto di vista statistico. Fino al 2004-2005, per effetto di alcune grandi emergenze umanitarie, offriva ogni anno il suo contributo alle organizzazioni senza scopo di lucro circa 1 italiano su 3, anche con aiuti minimi come per esempio l’sms solidale. Dal 2006, abbiamo cominciato a registrare un declino, effetto

85 IL DIRITTO ALLA SOSTENIBILITÀ

Dal 2006 per effetto della crisi il numero di donatori è andato diminuendo di circa un punto percentuale all’anno


86 DA PREDATORI A IMPRENDITORI

Il donatore “conquistato” mediamente rimane fedele alla stessa associazione per almeno 7 anni

della crisi che stiamo vivendo, e il numero di donatori è andato diminuendo di circa un punto percentuale all’anno. Se però consideriamo coloro che hanno effettuato almeno una donazione negli ultimi cinque anni, osserviamo che, in media, un quarto degli italiani ha donato regolarmente, spesso alla stessa associazione, e un quarto lo ha fatto saltuariamente, portando la percentuale complessiva dei donatori al 50%. Questo dato colloca l’Italia in una posizione particolarmente elevata a livello europeo, sebbene sia difficile fare una comparazione precisa fra i diversi Paesi perché i dati non vengono rilevati in modo omogeneo. L’elevata propensione alla donazione è l’espressione di un atteggiamento di attenzione e disponibilità verso il prossimo che è un tratto tipico del popolo italiano. In parte, questo fenomeno è dovuto al forte radicamento della cultura cattolica nel nostro Paese, in cui i valori della solidarietà e della carità sono fondamentali. Ma non solo. Contribuisce, infatti, anche la presenza di una cultura solidaristica e laica di matrice socialista. Non a caso, le donazioni regolari - che in media arrivano a 180 euro all’anno - trovano accentuazione in due segmenti apparentemente “contrapposti”: tra coloro che vanno in chiesa tutte le domeniche e tra coloro che, invece, non ci vanno mai. I primi supportano preferibilmente le parrocchie e le organizzazioni di matrice religiosa come la Caritas o Mani Tese; i secondi, Amnesty International, Emergency e Medici senza frontiere, per fare solo alcuni esempi. Italiani generosi, quindi, ma anche diffidenti: dalle indagini emerge infatti come manifestino in generale un minor grado di “social trust” ovvero di fiducia verso gli altri. Per tale ragione, le associazioni senza scopo di lucro faticano a conquistare credito ai nostri occhi. Tuttavia, quando ci riescono - dimostrando di aver realizzato progetti validi e presentando le corrette certificazioni - legano il donatore a sé per molto tempo. Il donatore “conquistato” mediamente rimane fedele alla stessa associazione per almeno 7 anni. Possiamo concludere dicendo che la propensione a donare rientra nei nostri tratti culturali. E la molla che spinge a dare il proprio contributo spesso non è di tipo ideologico ma, piuttosto, pratico: gli italiani che donano partono dal presupposto che ciascun cittadino possa fare qualcosa di utile per gli altri e che anche un piccolo gesto può essere importante per


aiutare il prossimo, supportare la ricerca medico-scientifica e salvaguardare l’ambiente o il patrimonio artistico».

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Dalla ricerca emerge come il 24% degli italiani doni a enti che lavorano nel sociale, nei più svariati campi, e come più della metà del campione lo faccia in maniera regolare. In particolare, il 12% contribuisce alla ricerca medico-scientifica, il 10% agli aiuti per le emergenze umanitarie e il 6% a quelli destinati ai Paesi in via di sviluppo. Nel 4% dei casi, invece, le donazioni sono destinate alle persone bisognose in Italia e nel 3%, all’assistenza ai malati. Adozioni a distanza e aiuti ai portatori di handicap vedono coinvolto rispettivamente il 2% della torta. In coda, troviamo la protezione degli animali (1%), la tutela ambientale (1%) e la cura del patrimonio artistico (1%). Ma qual è l’identikit dei donatori? Cosa li spinge a impegnarsi in questa direzione e che ne pensano della grande “industria della solidarietà”? Andiamo con ordine. Dallo studio sopra riportato, emerge come le più impegnate in questo campo siano le donne, ben il 61% del campione, di tutte le età. Più in

IL DIRITTO ALLA SOSTENIBILITÀ

Le più impegnate sono le donne, ben il 61% del campione

Donazioni regolari in lieve crescita, donazioni saltuarie in calo Donano regolarmente 66%

Donano saltuariamente 78%

DONATORI %

(+2%)

(-2%)

22% Sono solo regolari

44% Sostengono regolarmente alcune ONP e saltuariamente altre

(+6%)

(-4%)

( ) differenza rispetto al 2008 Fonte: Gfk-Eurisko- gli Italiani e il 3°settore-2011

34% Sono solo saltuari (-2%)


generale, i maggiori donatori sono i pensionati, le casalinghe, gli impiegati e gli insegnanti, in prevalenza nelle città tra i 10.000 e i 100.000 abitanti. Non parliamo di persone particolarmente abbienti quindi. E questa non è una novità. Spesso chi meno ha, più dona. Soprattutto i pensionati, il 23% del totale, ma di loro parleremo più avanti perché sono protagonisti di un fenomeno molto interessante, l’active ageing, cioè l’invecchiamento attivo, che approfondiremo. Le motivazioni alla base di una tale attitudine sono diverse. In primo luogo, troviamo la consapevolezza della solidarietà come un importante strumento per integrare i servizi dello Stato, spesso non pervasivi e completi. Si pensi, per esempio, all’ambito socio-assistenziale o anche a quello della ricerca scientifica, finanziato quasi sempre in maniera inadeguata. Poi, il forte desiderio di sostenere le categorie più deboli e agire con efficacia ed efficienza, in maniera capillare, dove c’è un bisogno reale, talvolta nuovo. Infine, la volontà di impiegare “bene” il proprio tempo e il proprio denaro. Tra le critiche più frequenti mosse da chi dona al mondo del non-profit, l’analisi registra invece l’eccesso di frammentazione (con oltre 250.000 Onlus presenti nel nostro Paese, non sempre “esemplari”), la competizione eccessiva tra associazioni (per esempio attraverso le campagne pubbli-

88 DA PREDATORI A IMPRENDITORI

Le somme donate (ultimi 12 mesi) Considerando tutte le offerte in denaro che ha effettuato negli ultimi 12 mesi quale somma ha donato complessivamente? Totale Donatori

Donatori Regolari

Donatori Saltuari

Fino a 20 euro 21 - 50 euro 51 - 100 euro 100 - 500 euro Oltre 500 euro

33% 20% 19% 24% 4%

16% 22% 24% 33% 5%

65% 18% 9% 7% 1%

MEDIA

142 €

182 €

64 €

(+20 €)

(+16 €)

(=)

Fonte: Gfk-Eurisko- gli Italiani e il 3°settore-2011

( ) differenza rispetto al 2008


citarie per il 5X1000) e gli innumerevoli imbrogli che sporcano tutto il sistema. Proprio per tale motivazione è diffusa la pretesa di trasparenza nei conti e nell’uso delle risorse. Metà del campione analizzato ritiene, infine, che il non-profit debba impiegare persone stipendiate e che sia corretto destinare il 30% delle entrate alla struttura della associazione. Quando si parla di Onlus, occorre fare chiarezza almeno sulle macro-aree in cui operano. Abbiamo il settore dedicato all’Ambiente, con le varie associazioni ambientaliste a tutela delle aree naturalistiche, dello sviluppo ambientale ma anche dei patrimoni culturali; poi quello dedicato alla Persona, con la cura e l’assistenza sociale verso l'handicap, i soggetti deboli e bisognosi; alla Ricerca, specialmente nel campo delle malattie endemiche o più pericolose, in cui gli aiuti sono indispensabili per un progresso rapido; alla Cooperazione, che si concentra sui Paesi sottosviluppati con apporto di cibo, assistenza medica, educazione e con la costruzione di infrastrutture per migliorare la qualità della vita di popolazioni depredate, arretrate e spesso abbandonate; ma anche il settore rivolto ai Diritti, per la tutela di quelli più basilari ed elementari, quasi sempre negati nei Paesi più vulnerabili e infine il campo delle Emergenze umanitarie che nascono in seguito a cataclismi naturali come terremoti e tsunami. Un vastissimo panorama in cui volontari e donatori investono denaro, tempo e lavoro.

89 IL DIRITTO ALLA SOSTENIBILITÀ

Sta nascendo il movimento della sostenibilità Ma l’insieme dei donatori forma un’onda compatta? C’è la consapevolezza di una comunità che cresce in questo senso? Esiste un vero e proprio movimento della sostenibilità pronto a fare rispettare i diritti del Pianeta? Sono domande cui occorre rispondere per tratteggiare la funzione della donazione, della generosità e soprattutto delle interconnessioni tra diritti, sostenibilità, imprese e altri attori in gioco. La domanda non è semplice. La risposta altrettanto. Le ricerche documentano la crescita di questo movimento, come anche l’attenzione sempre più diffusa,

Oggi si assiste all’aumento esponenziale di iniziative che manifestano l’urgenza di cambiare sistema di sviluppo


90 DA PREDATORI A IMPRENDITORI

Cominciano, o ricominciano, ad avere importanza valori come l’equità inter e intra-generazionale, la multiculturalità, la coesione, la condivisione e la cura

nei Paesi cosiddetti avanzati, verso stili di vita rispettosi dell’ambiente. Oggi si assiste all’aumento esponenziale di iniziative che manifestano l’urgenza di cambiare sistema di sviluppo, sperimentandone altri che possano costituire alternative valide e sostenibili per le generazioni future e per quelle presenti. La forza di questi movimenti, che risiede nella partecipazione massiccia delle persone, sta lentamente costringendo il mondo a mutare prospettiva. Stiamo assistendo a una sorta di rivoluzione culturale da cui si spera dipendano cambiamenti generalizzati nei comportamenti e nelle abitudini delle persone che popolano il mondo sviluppato. Cominciano, o ricominciano, ad avere importanza valori come l’equità inter e intra-generazionale, la multiculturalità, la coesione, la condivisione, la cura; così piano piano, “dal basso”, si sviluppano buone pratiche e approcci basati sulla forza della comunità. Produzione e distribuzione di cibo, mobilità, gestione delle risorse naturali, servizi sociali, educazione, salute, commercio: per ogni aspetto che riguarda la quotidianità, si moltiplicano le soluzioni alternative che tendono a rompere con l’approccio passato. È arrivato il tempo in cui abbiamo testato l’insostenibilità dei meccanismi economici e stiamo assistendo alle drammatiche risposte del Pianeta che non lasciano prevedere un futuro roseo. Così, laddove i governi, le istituzioni e le imprese rimangono ancora a un livello superficiale, la società civile si muove e coopera per cambiare le regole dello sviluppo, lentamente, offrendo alternative culturali e reali. E altrettanto lentamente, nelle case dei cittadini, entrano informazioni, saperi e capacità critica per scegliere di adottare comportamenti diversi, fondati sul bene comune. Esempi pratici possono trovarsi in iniziative come i gruppi di acquisto solidale e l’autoproduzione, che, insieme ad altre esperienze di consumo critico e in generale di economia e finanza etica, provano ad applicare i principi di equità, giustizia e sostenibilità ambientale alle attività economiche: produzione, distribuzione, servizi, consumo e finanza. Tutto questo, oltre a essere un insieme di pratiche, diventa una prospettiva di trasformazione sociale attraverso la costruzione di spazi di economia al servizio delle persone.


Un altro esempio è rappresentato dalle diverse manifestazioni della cultura del “condividere”, dal co-housing, al co-working, fino al carpooling e al bike sharing. Si parla quindi della divisone degli spazi abitativi, lavorativi e dei mezzi di trasporto. Tutte tendenze che si riappropriano di una delle più inesauribili e sostenibili risorse esistenti su questo pianeta: le relazioni umane. Si tratta di qualcosa che mette a fattor comune, come dicevamo, economia, competenze, luoghi e materiali per far coincidere, o almeno provarci, l’interesse del singolo con quello comune. Il movimento è forte proprio perché nasce dalla persona e raggruppa la comunità. Qualsiasi sia l’iniziativa, internet e i social network consentono di divulgare informazioni e raccogliere partecipazione come in nessun altro periodo storico. Governi, istituzioni e mondo delle imprese non possono che prenderne atto e “ascoltare” questa tendenza in modo tale da saper dare una risposta coerente, sia per quanto riguarda la regolamentazione, sia dal punto di vista di un business capace di offrire prodotti più etici e sostenibili. Se non coglieranno questa opportunità, resteranno a mani vuote e senza interlocutori. Sul piano più strettamente ambientale, poi, lo sviluppo della urbanistica green attua su larga scala il principio del movimento della sostenibilità. Le smart city o città intelligenti stanno per nascere laddove si coniugano tutta una serie di attività che puntano a invertire i trend dannosi per il Pianeta: dalla istallazione di colonnine per la ricarica delle auto elettriche, alla creazione di piste ciclabili per favorire la mobilità a pedali, dalla costruzione di case con elevati standard di efficienza energetica alla

91 IL DIRITTO ALLA SOSTENIBILITÀ

Il movimento è forte proprio perché nasce dalla persona e raggruppa la comunità

Rilevanza del Terzo Settore - Tavola riassuntiva MOLTISSIMO + MOLTO RILEVANTE

Totale Donatori

Donatori Regolari

Donatori Saltuari

(N=500)

(N=329)

(N=171)

DAL PUNTO DI VISTA SOCIALE DAL PUNTO DI VISTA ECONOMICO NELL'INTEGRARE I SERVIZI DELLO STATO Fonte: Gfk-Eurisko- gli Italiani e il 3°settore-2011

68 41 41

72 ✔ 43 ✔ 43 ✔

59 36 36


produzione di una energia rinnovabile che possa essere motore di tutto il centro abitato, fino al consumo di cibo coltivato localmente. Solo alcuni punti che ormai, nelle città più avanzate, sono all’ordine del giorno. Stoccolma tra pochi anni sarà praticamente una metropoli a zero emissioni. La stazione centrale della città, per fare un esempio, converte il calore corporeo dei pendolari e lo utilizza per riscaldare gli uffici attigui, riducendo la dispersione di anidride carbonica in atmosfera e generando risparmi energetici del 20-25%. Sempre in Svezia, a Linkpoing, centro di circa 95 mila abitanti nel sud del Paese (famoso per la sua università e le sue industrie ad alta tecnologia) nascerà la più grande serra cittadina del mondo. La struttura, un grattacielo alto ben 40 metri, coltivato a ogni piano, sarà situata nelle immediate vicinanze del mercato cittadino, così da rifornire la comunità di frutta e ortaggi, direttamente in loco, praticamente a km zero. Cos’è questa se non sostenibilità? Altri esempi? A Londra, si combatte lo smog ricoprendo le facciate degli edifici di fiori e piante, per abbattere le emissioni nocive e ridurre i costi di raffrescamento e riscaldamento dei palazzi stessi. A New York esplode la

92 DA PREDATORI A IMPRENDITORI

Stoccolma tra pochi anni sarà praticamente una metropoli a zero emissioni

Gli ambiti di intervento Mi dica quanto è importante il ruolo del non-profit per… IL NON-PROFIT È IMPORTANTE PERCHÈ Gli aiuti in occasione di emergenze umanitarie % 33%

MOLTISSIMO

La fornitura di servizi socio-sanitari % 29%

69%

75% MOLTO

Il supporto alla ricerca medico-scientifica %

22%

67%

40%

45%

18%

20%

9% 1% 3%

11% 1% 3%

42%

ABBASTANZA

16%

POCO PER NIENTE NON SA

5% 1% 3%

Fonte: Gfk-Eurisko- gli Italiani e il 3°settore-2011


moda del baratto con l’invenzione di distributori automatici che non prevedono l’uso di monete. Per accedere al sistema basta registrarsi inserendo la propria mail e una volta attivato l’account, le persone possono scegliere se donare, ricevere o barattare. Regalando un oggetto che non si vuole più si guadagna un credito; al contrario, se si decide di riceverne uno, si perde un credito. Milano, sulla scia di Parigi, lancia un progetto che mira a trasformare, con l’aiuto degli stessi cittadini, le aree metropolitane abbandonate e dismesse in spazi verdi, giardini condivisi in cui ritrovare una dimensione naturale, il contatto con la terra e uno spazio di socialità e di confronto. E dalle grandi città si passa ai centri più piccoli: a Totnes, nella Contea del Devon (Regno Unito), gli abitanti - senza bisogno di decreti comunali, leggi e regolamenti - hanno installato pannelli solari sui tetti e camini nelle case. Hanno avviato il programma di riciclaggio dei rifiuti ed enfatizzato l'uso dei trasporti pubblici, delle biciclette e delle auto elettriche. Hanno preso l’impegno di acquistare solo prodotti locali e coniato anche una moneta del posto, il “Totnes pound”, che può essere spesa solo all’interno delle mura cittadine. Nell'isola di Malta, a Marsaskala, un impianto di trattamento dei rifiuti genera corrente elettrica per 1.400 famiglie, mentre il calore prodotto riscalda una vicina piscina che rimane aperta tutto l’anno. E restando in Italia, Tocco di Casauria, paesino che non raggiunge i 3000 abitanti, riesce a produrre più energia di quanta ne consumi grazie alle sue pale eoliche. Il surplus di elettricità viene venduto e il ricavato investito a beneficio della comunità, per esempio in interventi di messa in sicurezza delle infrastrutture scolastiche, pulizie delle strade e sgravi fiscali per i residenti.

E il movimento corre in rete E la tendenza viene veicolata dal web, si pensi per esempio al sito Sustainableman.org che informa e supporta i singoli sulle diverse attività messe in campo per la sostenibilità o al nuovo progetto digitale “Grow the Planet”, un vero e proprio social network che mette a disposi-

93 IL DIRITTO ALLA SOSTENIBILITÀ

Tocco di Casauria, paesino che non raggiunge i 3000 abitanti, riesce a produrre più energia di quanta ne consumi grazie alle sue pale eoliche


94 DA PREDATORI A IMPRENDITORI

Un movimento che parte dal basso e che è pronto a imporsi e a fare rispettare il diritto alla sostenibilità

zione degli utenti una piattaforma web con tanti strumenti di apprendimento, gestione e interazione per far crescere gli ortaggi nel proprio giardino o sul balcone di casa. Un movimento che dal virtuale passa al reale e viceversa e riunisce un popolo sempre più vasto che si incontra nelle community in rete, che condivide una letteratura specifica e che ha i suoi eroi e le sue icone: da Martin Luther King, con le sue battaglie per i diritti civili, a Vandana Shiva, attivista e ambientalista indiana nota per la sua lotta contro lo sfruttamento indiscriminato delle risorse del Pianeta, fino a Charles Eisenstein, attivista della “decrescita”, quella corrente di pensiero favorevole alla riduzione controllata, selettiva e volontaria della produzione economica e dei consumi. Un movimento in fase avanzata che parte dal basso e che è pronto a imporsi e a fare rispettare il diritto alla sostenibilità del nostro Pianeta.

Gli anziani e i giovani: la prima risorsa del movimento Per meglio comprendere questo movimento occorre, tuttavia, entrare ancora una volta negli stili di vita di due grandi gruppi sociali, quello dei giovani e quello degli anziani nei Paesi avanzati e tratteggiarne il cambiamento. Parto dagli anziani e mi rifaccio a Encore, che

Gli ambiti di intervento - Tavola riassuntiva % MOLTISSIMO + MOLTO RILEVANTE

Totale Donatori Donatori Regolari

Donatori Saltuari

(N=500)

(N=329)

(N=171)

… gli aiuti in occasione di emergenze umanitarie

75

73

79 ✔

… il supporto alla ricerca medico - scientifica

69

72 ✔

64

… la fornitura di servizi socio-assistenziali

67

68 ✔

64

IL NON-PROFIT È IMPORTANTE PER …

Fonte: Gfk-Eurisko- gli Italiani e il 3°settore-2011


in inglese vuol dire bis, ancora. Si tratta del nome di un sito web - cui si indirizzano oltre 16 milioni di utenti registrati negli Stati Uniti - che si rivolge a chi, nella seconda o terza parte della sua vita, vuol essere ancora attivo e reinventarsi sotto diversi profili. Un risvolto naturale se si considera come la durata media della vita sia notevolmente aumentata e come, una volta in pensione, le persone, piene di energia, manifestino la voglia di impegnarsi in nuove esperienze e spesso e volentieri di adoperarsi per gli altri. Piccolo excursus: ero con mia moglie quest’anno all’aeroporto di Warlod in Kenya, porta di ingresso all’area desertica che porta al lago Turkana. Parlare di aeroporto forse in questo caso è un po’ eccessivo: non c’è torre di controllo, il checkin viene fatto all’aperto su un tavolo di pietra sotto un tetto di laminato e per sapere se l’aereo stia arrivando o meno, occorre guardare il cielo terso perché non esiste il tabellone delle partenze e degli arrivi. Mentre attendevamo pazienti, abbiamo cominciato a chiacchierare con un signore americano, tra i 60 e i 70 anni: un ingegnere in pensione che tuttavia ancora si occupava di studiare pozzi a prezzo bassissimo in luoghi aridi. Non più per lavoro ma per una ONG americana di Seattle. In questo modo si sentiva appagato, guadagnava qualcosa e viveva in Kenya per sei mesi all’anno. Approfondendo ulteriormente, abbiamo appreso che era un “figlio” di encore.org, il sito cui accennavo prima. Un portale non profit che indirizza gli americani 50+ - come usano farsi chiamare - cioè gli over 50, a entrare nella seconda fase lavorativa della loro vita. “Find work that matters in the second half of life” (“Trova il lavoro che conta nella seconda metà della vita”) recita il libro dedicato al sito e scritto da Marc Freedman, ideatore di questo movimento. Il ruolo di Encore.org è semplice: raduna persone che hanno superato i 50 anni, li stimola, li indirizza e mette in contatto la domanda con l’offerta. Tra i lavori più richiesti ci sono quelli all’interno delle ONG o nell’ambito dell’educazione e della salute. Lavori sociali, quindi. Lavori per il bene degli altri. E questo non è un fenomeno isolato o di nicchia, sta diventando un vero e proprio stile di vita seguito da milioni di persone. A confermare

95 IL DIRITTO ALLA SOSTENIBILITÀ

Encore.org è un portale non-profit che indirizza gli americani over 50 a entrare nella seconda fase lavorativa della loro vita


96 DA PREDATORI A IMPRENDITORI

questa tendenza anche il sito AARP - American Association of Retired Persons, associazione dei pensionati - con più di 50 milioni di iscritti, che punta a migliorare la qualità della vita nella terza età, fornendo spunti per nuove occupazioni. Proprio come Encore che, tra l’altro, vede consegnato ogni anno un premio di 100 mila dollari a persone dai 60 anni in su che abbiano fatto un cambio di carriera nello spirito del movimento. Tra i vincitori, Jennie Bowen, ex sceneggiatrice, che ha creato la fondazione Half the Sky per supportare i bambini negli istituti per l’infanzia cinesi; Catalino Tapia, immigrato a 20 anni dal Messico con 6 dollari in tasca, che nella prima carriera ha creato una società di giardinaggio e dopo i 50 anni ha dato vita a una fondazione, la Bay Area Gardeners Foundation, per istituire borse di studio universitarie rivolte ai giovani di origine messicana; o Nancy Sanford Hughes, una casalinga rimasta vedova di un medico, che ha avviato un’organizzazione non profit, Stove Team International, per la promozione, lo sviluppo e la produzione di un particolare fornello a basso consumo di legname; infine, per citare un ultimo esempio, Timothy Will, ex-impiegato in una società di telecomunicazione che, andato in pensione, si è trasfe-

Percentuale di persone over 65 sul totale della popolazione in alcune aree del pianeta. Anni 1950 - 2050

EU 27 totale

OECD totale

Mondo

Fonte: Gfk-Eurisko- social trends 116


rito in una comunità rurale degli Stati Uniti ed è riuscito a creare una società che fornisce la copertura Internet all’intera comunità, garantendo il servizio anche alle famiglie che non possono permetterselo. Guardando all’Italia, ci rendiamo conto che questo fenomeno non è ancora largamente diffuso ma ristretto a segmenti elitari. Negli ultimi anni, documenta lo studio GFK Eurisko “Social Trends”, i dati indicano che la disponibilità dei “nuovi senior” verso gli altri sia in declino. Ma questa chiusura non deve essere letta come il rafforzamento del desiderio di pensare a se stessi e di godersi la vita senza preoccuparsi del prossimo, piuttosto come una necessità per far fronte alla crisi che priva figli e nipoti del lavoro. Sforzi e preoccupazioni sono quindi centrati sui bisogni del proprio nucleo familiare. Tuttavia, in prospettiva, sottolineano gli esperti, gli effetti del progressivo livello di istruzione, uniti all’impatto economico e culturale della crisi in atto, spingeranno gli over 50 verso un maggior equilibrio e una progressiva apertura alla dimensione civica e sociale.

Un fenomeno che si sta allargando come un'onda Il fenomeno quindi si espanderà e lentamente andrà a toccare tutti i Paesi avanzati. Le persone, dopo aver lavorato e guadagnato, penseranno a cercare un lavoro che dia loro soddisfazione, che li faccia stare bene. Un percorso che non è stato possibile intraprendere prima, nella fase della vita operativa e produttiva. Non è tuttavia stato sempre così. Gli americani, per esempio, una volta in pensione andavano in Florida a giocare a golf. Sono nate vere e proprie città grazie a questa diffusa tendenza. Ma ora le cose sono cambiate e i pensionati preferiscono utilizzare la parte restante della loro vita per fare del bene al prossimo, magari creando un pozzo in Kenya per dissetare migliaia di bambini che altrimenti non avrebbero alcun futuro. Per il momento, più negli Stati Uniti che in Europa, ma l’onda si diffonderà anche nel Vecchio Continente. Spenderemo gli ultimi anni giocando a bocce, a golf, al bar o piuttosto per un progetto che riempia la nostra vita

97 IL DIRITTO ALLA SOSTENIBILITÀ

Le persone, dopo aver lavorato e guadagnato, penseranno a cercare un lavoro che dia loro soddisfazione


98 DA PREDATORI A IMPRENDITORI

Volevo provare un'esperienza nuova, che potesse apportare qualcosa di positivo e di buono nella mia vita

e ci consenta di dire: abbiamo aggiunto una goccia nel mare della solidarietà? Non ho dubbi. La nostra gente sceglierà la seconda via, quella dell’altruismo. Ma a fare da traino in tal senso non saranno solo gli anziani. Un ruolo rilevante è giocato anche dai giovani. Le bacheche delle università sono piene di iniziative che vedono gli studenti offrirsi volontari. Le società che indirizzano a fare esperienza nelle varie organizzazioni non profit sparse per il mondo - come quella di Alice Riva, Gap Year - sono bersagliate dalle richieste di ragazzi interessati e desiderosi di aiutare le popolazioni in difficoltà. Nel nostro villaggio di Alice for Children, la casa dei volontari è sempre piena di giovani che, durante il corso di studi o appena laureati, vogliono svolgere per qualche mese il lavoro di cooperazione. Le motivazioni che li spingono sono molteplici: abbiamo intervistato alcuni giovani volontari per riportare le loro ragioni. In questo caso riportiamo le esperienze dirette fatte ad Alice Village. Giulia Buffa, 23 anni, studentessa: «Partii come volontaria in Kenya quasi un anno fa. Volevo provare un'esperienza nuova, che potesse apportare qualcosa di positivo e di buono nella mia vita e, non appena venni a conoscenza dei progetti di Alice for Children, colsi al volo l'occasione. Fino a pochi istanti prima di mettere piede a Nairobi ero piena di dubbi e paure. Una volta visto coi miei occhi Alice Village e i suoi abitanti, però, buona parte di quelle sensazioni negative passarono di colpo. Il resto di quei timori si dissolse giorno dopo giorno. L'immersione totale nel lavoro coi bambini e con lo staff locale mi ha caricata di energie e voglia di fare. Ogni giorno si andava a Korogocho o Kariobangi per stare coi ragazzi, tenere lezioni, sistemare la biblioteca della scuola o ridipingere i dormitori. In questo modo avevamo modo di conoscere le storie di questi piccoli uomini e donne, confrontarci con loro e condividere le nostre esperienze e pensieri. Al rientro al Villaggio, che per un mese mi ha fatto da casa, si trascorreva il pomeriggio coi bambini che ci vedevano come i loro compagni di giochi o come fratelli maggiori coi quali colorare i propri disegni o stare seduti in cerchio ad ascoltare una storia.


Il giorno della partenza per l'Italia, guardando quegli occhi profondi e curiosi, ho capito che avrei sempre portato quella “famiglia” nel mio cuore». Luca Marzolla, 21 anni, studente: «Oggi fatico a pensare alla mia vita senza il mese passato a Utawalla, presso Alice Village. È stata un'esperienza fondante, diversa. Ed è stata anche una prima apertura verso qualcosa che inizialmente era solo immaginazione e che poi è diventato realtà. Mi sono trovato al centro di un’esperienza che annulla, come ogni nuovo sapere, ma che contemporaneamente accresce, insegna, stimola, migliora e rende felici. Ciò che si pensa a casa non basta mai a immaginare quello che si incontrerà altrove: spostarsi mette alla prova tutto quello che si sa e, sì, ne demolisce gran parte. Vi consiglio di andarci a Nairobi, vi consiglio di andare in molti luoghi. Poi sarà bello incontrarci e parlare di tutto».

99 IL DIRITTO ALLA SOSTENIBILITÀ

Silvia Marrelli, 24 anni, studentessa: «Nonostante gli incontri a cui ho partecipato, le esperienze raccontatemi nei minimi particolari, le foto, i documentari e quant’altro, assolutamente niente è paragonabile alle sensazioni che ho provato durante il mese in Kenya. Appena scesa dall’aereo, sono stata “invasa” dalla cultura, dai colori, dagli

Le “criticità” del non-profit - tavola riassuntiva Ora le leggerò alcune frasi. Per ciascuna mi dica in quale misura è d’accordo. MOLTISSIMO + MOLTO RILEVANTE

Totale Donatori Donatori Regolari

Nel non-profit c'è un eccesso di frammentazione Le associazioni non-profit sono in forte competizione tra loro per l'ottenimento di fondi pubblici e privati Nel non-profit si verificano spesso casi di imbrogli o di vere e proprie truffe Nel non-profit ci sono spesso inefficienze che causano sprechi e dispersione di risorse Fonte: Gfk-Eurisko- gli Italiani e il 3°settore-2011

Donatori Saltuari

(N=500)

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100 DA PREDATORI A IMPRENDITORI

E ti chiedi se tu, nel tuo mondo da “uomo bianco ricco”, sei in grado di sorridere come loro

odori, dai sorrisi africani: soprattutto quelli dei bambini dell’orfanotrofio Alice for Children che ti accolgono come un vecchio amico, pronti ad abbracciarti e a prenderti per mano, come se non aspettassero che te. Giorno dopo giorno, ho imparato a conoscerli, a interpretare quegli sguardi furbetti che ti seguono per chiederti un colore e un foglio di carta in più, per disegnarti un fiore da portare con te quando tornerai in Italia. Vogliono farsi ricordare quando sarai via e non sanno che dimenticarli sarà impossibile: diventeranno uno dei ricordi più belli che hai. Prima di partire pensavo a questa esperienza come a un’occasione per aiutare chi non è stato così fortunato nella vita da avere una mamma e un papà, una famiglia, una casa; tutte le cose che per noi sono scontate ma che nella loro realtà diventano quasi un lusso. Ma quando ripenso a quel mese mi rendo conto che ho ricevuto molto più di quello che ho dato da quei bimbi che sanno giocare per ore e ore con dei sassolini e si divertono da matti, che costruiscono un pallone con degli stracci per allenarsi a giocare a calcio, che dopo la pioggia usano il fango come fosse plastilina per modellare delle formine, che nella loro disarmante semplicità trovano sempre un motivo per sorridere. E ti chiedi se tu, nel tuo mondo da “uomo bianco ricco”, sei in grado di sorridere come loro».

L’immagine del non-profit: i valori LA SOLIDARIETÀ E L’ALTRUISMO INTESI COME SPINTE “NOBILI” A FARE DEL BENE LA PRESENZA CAPILLARE SUL TERRITORIO (NAZIONALE E INTERNAZIONALE)

LA BENEFICIENZA INTESA COME DONAZIONE DI TEMPO O DI DENARO Fonte: Gfk-Eurisko- gli Italiani e il 3°settore-2011

TERZO SETTORE NON PROFIT

L’AIUTO NEI CONFRONTI DELLE CATEGORIE PIÙ DEBOLI L’EFFICACIA, LA CONCRETEZZA, L’OPERATIVITÀ IL NON PROFIT INTERVIENE LÀ DOVE ESISTE UN BISOGNO REALE


Questa tenaglia giovani-anziani mette in evidenza come il movimento della sostenibilità stia crescendo in forza e numero. Il movimento diventerà endemico e chiederà il conto. Si vorrà imporre e pretenderà risposte puntuali e concrete. Il movimento fa domande e vuole risposte.

Da chi? Dai Governi, dalle Istituzioni, dalle imprese e dalle stesse ONG. Per le ONG rispondere sarà più facile: nonostante stiano perdendo il loro ruolo, sono state e in parte sono tuttora la voce dei diritti calpestati. E ancora oggi denunciano e amplificano tutte le problematiche che troppo spesso vengono sotterrate. Per gli Stati è diverso: sovente sono sordi o meglio sanno ascoltare solo dove si intravede una convenienza politica, vanno laddove esiste un tornaconto che ripaghi e compensi altre forme di interesse. Più in generale, non pensano quasi mai alla prevenzione e tendono a intervenire a disastro già avvenuto. Molti sostengono che le Istituzioni seguano i movimenti, le richieste e i bisogni. E non li anticipino mai. È vero. Proprio per questo è fondamentale la pressione imposta dal basso, dal movimento nascente, per ottenere azioni concrete che dovranno arrivare obbligatoriamente.

Le vere risposte le devono dare le imprese. Sono ancora dei grandi predatori. Le più esposte sono le imprese. Lanciate nel mondo della globalizzazione sono concentrate sul profitto e non pensano a istituire un insieme di regole strutturato per il futuro del Pianeta. Le multinazionali, con pesi e misure diverse a seconda della parte di mondo in cui si trovano, stanno cercando di adeguarsi alle esigenze di consumatori sempre più attenti alla sostenibilità. Come? Facendo un po’ di greenwashing (comunicazione ingannevole per sembrare attente all’ambiente quando invece non lo sono), stilando qualche documento a testimonianza del loro impegno, cercando di porre un po’ di attenzione al

101 IL DIRITTO ALLA SOSTENIBILITÀ


102 DA PREDATORI A IMPRENDITORI

Pianeta. Di tutto un po’, senza tuttavia organizzare un sistema uniforme, puntuale ed efficace. Sto ovviamente generalizzando, ma la sensazione diffusa è questa. Il risveglio sarà duro. Perché le grandi imprese, i colossi, le multinazionali, per poter tenere il passo di uno sviluppo così frenetico, radono al suolo qualsiasi cosa. Non si rendono conto che i bilanci sociali, un miglior atteggiamento green, la Responsabilità Sociale d’Impresa (CSR) sono ormai poca cosa e superata. Non capiscono che, in questa corsa a perdifiato, stanno depauperando i terreni, deturpando l’ambiente e impoverendo i mari. E che a un certo punto un conto molto salato si presenterà alle loro casse. Il tema del libro è proprio questo. Le aziende si accorgeranno del disastro che stanno perpetrando prima degli Stati e dei movimenti della sostenibilità, oppure rimarranno immobili? Ne parleremo nei prossimi capitoli, cercando di indicare una strada sensata e percorribile per le imprese prima che lo facciano - in modo più perentorio e invasivo - gli Stati, sotto la pressione dei movimenti di cittadini.



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I PROTAGONISTI DELLA SOLIDARIETÀ: CITTADINI, STATI, ONG

Nella staffetta della solidarietà i partecipanti non variano: alla partenza troviamo i cittadini, le imprese, gli Stati e le Istituzioni che - al “bang” - corrono verso il blocco delle ONG e delle Onlus. Ricevuto il “testimone”, le organizzazioni scattano in avanti per cederlo ai Paesi e alle popolazioni in difficoltà che ne beneficeranno. La donazione passa così di mano in mano, fino a raggiungere il traguardo che rappresenta la risposta a bisogni disattesi, a soprusi impuniti o, ancora, a diritti calpestati.

I migliori giocatori della partita sono i cittadini. Ma c’è cittadino e cittadino... Una risposta che richiede - come dicevamo - un cospicuo investimento: per acquistare beni, per esercitare pressioni o per rendere note al mondo le situazioni di disagio e creare mobilitazione. Spesso i primi a sprintare, a donare, a interfacciarsi direttamente con il mondo delle associazioni senza scopo di lucro sono proprio i cittadini. Solo successivamente le aziende e infine lo Stato che corrobora e regola tutto il processo. E così torniamo a parlare dell’importanza del movimento che

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viene dal basso, quello costituito dai donatori che, silenziosamente, cresce e comincia a far sentire la sua voce a favore di un futuro più sostenibile. Un movimento creato da cittadini numerosi e solidali - mossi da generosità o dal principio di sostenibilità - frenato solo dalla crisi che attanaglia il nostro e altri Paesi nel mondo. A tal proposito vorrei fare una breve digressione: se è vero

The africa report: giving to Africa

Fonte: Soecd, foundation center, cgap, world bank, and annual reports of gates, clinton, hewlett, ford, and rockefeller foundations. All foundation data included us grants

infatti che un numero sempre maggiore di persone diventa cosciente della necessità di “operare” per il prossimo, bisogna anche sottolineare che, in certe aree del Pianeta, non sempre chi può permetterselo, dona. Nei Paesi in via di sviluppo - i cosiddetti Brics di cui abbiamo tanto parlato - le donazioni, per esempio, sono scarse. Certo, si potrebbe commentare, in India circa la metà della popolazione (che nel complesso tocca quota un miliardo) vive sotto la soglia di povertà definita dall’Onu, quindi con meno di un dollaro al giorno. Tuttavia, nella restante fetta ci sono cittadini che cominciano a beneficiare considerevolmente dell’esplosione economica del Paese e che in misura ridottissima si impegnano a sostenere chi è in difficoltà. Guardando i bilanci delle maggiori ONG, si nota infatti come i contributi


arrivino quasi sempre dai Paesi “avanzati”. Le persone che - in Cina, India e Nigeria - hanno raggiunto un livello di benessere molto elevato tendono a non donare. E a tal proposito mi viene in mente un ragionamento che feci qualche anno fa. Nel 2007, mi trovavo per visitare alcuni orfanotrofi a Chennai - capitale dello Stato indiano Tamil Nadu e vivace centro culturale nella parte meridionale del Paese che si affaccia sulla Baia del Bengala. Era in fieri l’idea mia e di mia moglie di creare una piccola ONG per bambini senza famiglia e volevamo sostenere qualche struttura già avviata. Nel corso del viaggio abbiamo visitato alcuni centri veramente belli e ben gestiti. Tuttavia, avendo tempo e risorse limitate, ci siamo chiesti se fosse giusto sostenere un Paese che in poco tempo sarebbe diventato così potente da poter “comprare” il nostro. La domanda, inespressa e cinica, che sottendeva il ragionamento era: “perché le fasce agiate della popolazione non sostengono questi progetti?” Ho raccontato questa esperienza perché rappresenta un micro-caso indicativo di come stia nascendo nei donatori un’inclinazione alla discriminazione. Ci si comincia a chiedere come mai i cittadini delle Potenze emergenti siano così restii alle donazioni. Perché il signor Lakshmi Niwas Mittal, magnate indiano a capo della più grande azienda siderurgica del mondo, o il signor Ratan Tata, presidente fino allo scorso anno del colosso Tata Group - multinazionale indiana che opera in diversi settori, dall’ingegneria alle tecnologie dell’informazione - non donano a sufficienza? Forse perché sono abituati a convivere con la povertà? Diciamo che non se ne curano, come non rientra nelle loro immediate preoccupazioni la salute ambientale. In India avviene più o meno ciò che è accaduto in Italia negli anni ’50. La spinta all’avanzamento è più forte di tutto il resto. Ora è il loro momento e si sentono in diritto di conquistare quello che altri hanno ottenuto in fasi precedenti della Storia, sfruttando a loro volta per millenni terra e popolazioni. Credo che un bravo demografo - geografo - cooperante potrebbe costruire un grafico mettendo su ascisse e or-

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Le persone che - in Cina, India e Nigeria - hanno raggiunto un livello di benessere molto elevato tendono a non donare


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dinate il livello di povertà / bisogni di un Paese e quello delle sue donazioni, creando successivamente una mappa che definisca le aree del mondo in cui questi bisogni cominciano a essere considerati dalla popolazione stessa. Un nuovo indice di “civiltà”. Per il momento, quindi, alcune nazioni donano a se stesse e al resto del mondo, mentre altre no. Non c’è ancora reciprocità ma un domani, secondo forme diverse, anche i Paesi che oggi ricevono saranno obbligati a dare a loro volta, in un’ottica necessaria di sostenibilità. È un processo inevitabile.

Le Istituzioni: un mondo di solidarietà che si sta spegnendo...

La Chiesa, secondo i dati Cei relativi all’anno 2012, ha raccolto quasi un miliardo e 100 milioni di euro con l’8X1000 e ne ha impiegati in opere caritative solo 210 milioni, più o meno il 20%

Dopo aver inquadrato come si muovono i singoli donatori, torniamo alla staffetta della solidarietà, parlando di Istituzioni. In primo luogo vorrei affrontare il tema della Chiesa, un’istituzione ma anche una grande ONG, come l’ha definita il nuovo Papa Francesco. La Chiesa, nella sua veste istituzionale, spende poco: secondo i dati Cei (Conferenza Episcopale Italiana) relativi all’anno 2012, ha infatti raccolto quasi un miliardo e 100 milioni di euro con l’8X1000 e ne ha impiegati in opere caritative solo 210 milioni, più o meno il 20%. Scorrendo l’annuncio pubblicitario che la Cei ha fatto realizzare per giustificare in modo trasparente la destinazione dell’8X1000 si trovano molte motivazioni per non firmare più. Quasi mezzo miliardo è destinato alla costruzione delle chiese (non ne abbiamo abbastanza in Italia?) e nella tutela delle precedenti, 364 milioni sono indirizzati al mantenimento dei sacerdoti (e l’obolo domenicale a cosa serve? viene da chiedersi), il resto in interventi di rilievo nazionale (e cosa sono?) e appunto 210 milioni in carità (non certo documentata o rendicontata). Ma questa è la Chiesa , altro sono i sacerdoti in missione. Molto viene fatto dai missionari che, da soli, si organizzano e partono per luoghi dimenticati con lo scopo di evangelizzare, certo, ma anche di lenire bisogni e combattere soprusi e povertà. E ci riescono egregia-


mente. Spesso hanno alle spalle una piccola realtà parrocchiale, una cittadina, una comunità che li sostiene. Una volta tornati a casa, raccontano la loro esperienza e raccolgono nuovi fondi che vengono investiti in maniera efficiente, in un progetto seguito personalmente passo dopo passo. Un metodo che funziona - nonostante spesso si tratti di iniziative condotte in solitudine, senza tentare di costruire reti con altre dello stesso tipo - e che consente di portare servizi nelle aree deficitarie. I protagonisti sono donne e uomini ammirevoli che combattono in prima linea per offrire pane, conforto e speranza e per costruire case, ospedali, scuole, oratori, cliniche e orfanotrofi. Incontriamo così a Nairobi Padre Stefano che ha sostituito Padre Zanotelli, di cui vi abbiamo parlato all’inizio del libro, nello slum di Korogocho. Questa è la sua storia: «A Korogocho sono giunto grazie ai Padri Comboniani. Sono entrato in questa congregazione alla fine dell’Università, dopo un percorso che mi ha portato alla scoperta della mia vocazione, di ciò che avrei voluto fare da grande, arrivando a capire che questo è il piano di Dio. Ho iniziato il cammino vero e proprio con loro quando Padre Alex è arrivato in Kenya, quindi tra l’89 e il ’90. Per noi giovani leve, Padre Alex rappresentava un grande stimolo. Lui e Padre Nascimbene in America Latina erano maestri ed esempi affascinantissimi. Finita questa tappa di formazione, prima di andare in noviziato, ho avuto la possibilità di passare un mese in Kenya e di conoscere la realtà di Korogocho. Ci sono tornato dal ‘93 al ’97, durante il mio percorso di studi, e - mentre approfondivo la teologia - aiutavo nell’attività pastorale. Finita la scuola, nel ’97, quando sono rientrato in Italia per l’Ordinazione, ho chiesto di tornare in Africa. Non pensavo subito a Korogocho perché come prima esperienza da Sacerdote è molto difficile, tosta. Mi hanno invece mandato in Polonia e anche da lì continuavo a sentire una grande passione per questo posto. Ho chiesto quasi fin da subito di poter ritornare e il mio desiderio si è realizzato nel 2009. Sono rientrato a Nairobi con una coscienza, penso, maggiore. Gli anni passano ed è stata una scelta più consapevole. Volevo andare in un luogo dove poter essere il più possi-

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bile a contatto con la gente, limitando tutte quelle strutture e infrastrutture che ci allontanano, invece che avvicinarci. Un posto che potesse essere di grande insegnamento: sono convinto che i poveri possano essere davvero dei maestri, coloro che ci indicano la via. Come dice il Papa anche ultimamente: “è dalle periferie che si capisce il mondo”. Questa è esattamente la filosofia di Padre Alex e di quelli che lo hanno seguito a Korogocho. E’ importante provare a guardare il mondo da questo punto di vista. Faccio un esempio banale, proprio l’altro giorno mio padre al telefono mi ha detto: “Qui in Italia c’è un disastro, il 40% dei giovani non ha un lavoro”. È sicuramente un dramma ma nient’altro che la normalità, da molti anni, in tante parti del mondo. Questo dovrebbe servirci a bilanciare un po’ il contesto e a capire anche il dramma altrui. Le difficoltà più grandi, a Korogocho, sono rappresentate dalle situazioni stesse che la gente vive: molto spesso estreme e senza una chiara o immediata possibilità di soluzione. La complessità è quindi quella di avere la pazienza di costruire con le persone delle soluzioni. L’altro grosso problema è, poi, la mentalità di alcuni - purtroppo creata da ONG o gruppi esterni - che si sentono in diritto di ricevere senza stimolare iniziativa personale, intraprendenza e autonomia. In generale, però, c’è per molti aspetti la sensazione che questa gente sia dimenticata e ignorata. Che siano centomila o duecentomila, non cambia niente. È una sorta di manipolazione e sfruttamento, come la manodopera a basso prezzo: ci sono centinaia di persone che dallo slum si spostano in centro per il lavoro, se questa gente dovesse scioperare per due giorni, Nairobi si fermerebbe ma gli abitanti dello slum non sono coscienti di questa forza. C’è poi il discorso della sicurezza da cui noi Padri siamo abbastanza preservati. La nostra opera ci porta a essere conosciuti da tutti, a parlare con tutti, cercando di dare spazio a chiunque, dal gangster alla giovane donna in difficoltà. Per questo ci apprezzano e siamo sicuri. Per la gente, però, non è così. Commerci illeciti (soprattutto di alcol) e corruzione, come in tante altre parti del mondo, inoltre, si fanno sentire anche qui. Non va dimenticata però la Korogocho della luce, che si racconta attraverso gli esempi di persone che in modo straordinario, nonostante tutti gli ostacoli di cui abbiamo parlato, o forse proprio grazie a questi, perché “si temprano”, rie-


scono a camminare e a risollevarsi, rimanendo positivi ed equilibrati. Un episodio su tutti che mi sta a cuore, perché l’ho vissuto in prima persona, è quello di una donna: Pauline. Fino alla metà del 2010, era sempre ubriaca, una vita persa. Aveva una figlia grande che se ne era andata e una sorella, anche lei alcolizzata. Abbiamo iniziato un cammino per capire se nel nostro centro di riabilitazione avremmo potuto accogliere anche le donne. Abbiamo pensato, tra le altre, alla sorella di Pauline, la quale ha rifiutato lasciando il posto a Pauline. Pauline è stata nel centro di riabilitazione per tre mesi, durante i quali purtroppo la sorella è morta. Lei però ce l’ha fatta, ne è venuta fuori, si è resa autonoma e ora è diventata assistente sociale nello stesso programma di riabilitazione per alcolizzati. A Pasqua di quest’anno è stata battezzata, dopo un cammino di due anni di catecumenato. Una riabilitazione che va oltre lo smettere di bere e che diventa un riprendersi in mano la vita in tutti i suoi aspetti. Questa non è l’unica storia. Jonathan, per esempio, ha seguito quasi lo stesso cammino di Pauline, pur partendo un po’ più avvantaggiato perché almeno aveva finito la scuola secondaria e aveva una preparazione diversa. Anche lui adesso è un assistente sociale. Ogni tanto, pensando alla vita quotidiana di queste persone, mi chiedo: “ma come diavolo fanno?”. Come riesce, con le sue sole forze, una mamma con quattro figli, abbandonata dal marito, cosa molto frequente, a pagare sempre le tasse scolastiche? E i casi sono infiniti. Questa gente ha un coraggio che impariamo qui. Spesso noi non abbiamo idea di quello che sia il coraggio. Io non faccio confronti, i drammi ci sono anche in Europa e “l’Europa della luce”, potremmo usare la stessa immagine, è proprio nella vita stessa di tante persone che vengono formate dalle battaglie quotidiane, una scuola più che sufficiente per crescere e imparare. In ogni caso, il coraggio che vediamo qui, insieme ai risultati positivi ottenuti, è quello che ci fa andare avanti. Non è l’unica gratificazione e non operiamo solo per questo, però è importante. Per quanto riguarda una prospettiva di sviluppo e speranza, ci sono segnali che fanno pensare bene perché, grazie alla forza della gente, l’organizzazione della società civile anche in Kenya sta migliorando. Nella popolazione sta crescendo la coscienza dei propri diritti e si sta diffonden-

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do una consapevolezza generalizzata delle proprie possibilità. C’è poi una nuova Costituzione con una Carta dei Diritti molto buona. Quanto poi questo arrivi ad avere un impatto immediato e locale sulla qualità della vita delle persone, è un altro discorso. Per esempio ora c’è questo programma di up-grading che prevede il miglioramento dello slum di Korogocho. Il governo italiano è arrivato alla fase finale dell’assegnazione della terra. Molto probabilmente accadrà che chi ha la possibilità di comprare la terra lo farà, ma chi non può permetterselo si sposterà e si costituirà un’altra Korogocho. Lo sviluppo dell’Africa e del Kenya c’è, purtroppo è uno sviluppo - come è capitato in tutto il mondo - che privilegia qualcuno a scapito di molti. Vedo, quindi, uno sviluppo dell’Africa in termini di aumento del PIL , della produttività, ecc.. Non vedo uno sviluppo verso una società più equa, uguale e accessibile a tutti. Ma siamo ottimisti». Alla Chiesa - e con chiesa intendo le Chiese delle varie religioni - si affiancano altre Istituzioni. Nella sfera internazionale operano tutti gli Stati e le organizzazioni che dagli Stati derivano: dalla Banca Mondiale, creata per organizzare aiuti ed erogare finanziamenti ai Paesi in difficoltà, al Fondo Monetario Internazionale, passando per le Nazioni Unite, la Comunità europea e via dicendo. Tutte realtà internazionali che raccolgono fondi e li devolvono in base a precisi fini politici: chi, come l’Onu, per favorire miglior governance nei territori da aiutare, chi, come gli Stati Uniti, per indirizzare la propria politica e per favorire le proprie organizzazioni. Per esempio negli Usa, tutte le principali ONG sono aiutate per il 30-50% dallo Stato. Il discorso vale per Save the Children, ma anche per World Vision e per Care. In tutti i Paesi avanzati la musica è più o meno la stessa. In Italia, la situazione è diversa. Lo Stato, nonostante i tanti proclami all’investimento nella cooperazione, ha ridotto il supporto alle organizzazioni umanitarie allo 0,13% del bilancio. Il nostro Paese spende per la cooperazione (settore che normalmente fa da apripista dell'economia o della politica estera) circa 450 milioni, neanche il 15% di quanto


investe Bill Gates con la sua fondazione ogni anno. Una cifra veramente marginale. A fronte di un così basso contributo, sarebbe almeno necessario uno sforzo strategico volto a un unico e ben delineato obiettivo. Nella realtà così non avviene: il Ministro per la cooperazione internazionale e l’integrazione Andrea Riccardi del governo Monti - nell’ambito del forum di settore tenutosi a ottobre 2012 - ha specificato di aver rivitalizzato alcuni canali verso Paesi interessanti per lo sviluppo italiano. Nello specifico: Eritrea, Niger, Sahel, Burkina Faso, Guinea e Mali. Tutte aree in lotta politica e religiosa, in cui l’Italia non ha alcun tipo di presenza economica. Questo è quello che gli Stati fanno ora, ma quale sarà il loro ruolo in futuro? Ebbene, dovranno mantenere gli equilibri tra i partecipanti della staffetta della solidarietà, rispondendo alle loro richieste e regolando le loro azioni. Mi spiego meglio. Immaginiamo che il movimento della sostenibilità, quello costituito dai cittadini (che peraltro oggi è ben rappresentato nel nostro parlamento), cominci seriamente a premere sulle aziende che deturpano il territorio e distruggono l’ambiente senza pagare lo scotto adeguato. In un tale contesto, sarà lo Stato, messo a sua volta sotto pressione dall’opinione pubblica, a legiferare in difesa dei diritti del Pianeta e a imporre salate tassazioni. Questo processo ricadrà sulle imprese che si troveranno a dover pagare più di quanto avrebbero speso agendo in modo più assennato in precedenza.

Le ONG: da megafoni dei diritti a strutture burocratiche Per il momento torniamo alla nostra staffetta e - dopo aver parlato di cittadini, Stati e Istituzioni - analizziamo meglio il ruolo delle ONG che operano nel settore del volontariato. Nonostante abbiano scopi diversi, la loro struttura è fondamentalmente sempre la stessa. Una struttura che nel tempo produce una perdita di “visione” a causa di una burocratizzazione esasperata. In questa condizione si trovano più o meno tutte le organizzazioni.

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In Italia, lo Stato ha ridotto il supporto alle organizzazioni umanitarie allo 0,13% del bilancio


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Le ONG sono diventate grandi burocrazie che hanno soffocato la loro missione iniziale

Una fase negativa, tanto che - nel corso del consueto incontro annuale del World Economic Forum a Davos (Svizzera) - i maggiori dirigenti politici ed economici mondiali, riuniti per discutere delle questioni più impellenti che il mondo deve affrontare, hanno fortemente criticato il mondo delle ONG. «Hanno perso il gusto della solidarietà» - titola un’agenzia, riportando le dichiarazioni dei partecipanti al Forum nell’ambito della conferenza “Ngos: new models for the 21st century”. «Non sembrano più concentrate nella risoluzioni dei problemi sociali, sono diventate grandi burocrazie che hanno soffocato la loro missione iniziale», prosegue il testo. Questo e molto altro è emerso dal confronto degli interlocutori in quella sede. Si sono chiesti se esistesse un valore aggiunto internazionale delle ONG o se si trattasse solo di un mezzo per portare i soldi dei donatori da nord a sud; ma anche come sarebbe cambiata la percezione di queste organizzazioni ora che i media, dopo aver vezzeggiato a lungo i big del volontariato, hanno cominciato a indagare sulla filiera della donazione; o ancora sono piovute critiche sul ricambio generazionale, praticamente inesistente. Tanti i punti toccati, molti dei quali in parte già trattati in questo libro. Emerge un quadro nefasto che dimostra come le mega ONG non siano più di moda neanche tra i gotha della finanza e dell’impresa multinazionale: troppo focalizzate a raccogliere i fondi e meno efficaci nel trovare soluzioni sostenibili nelle aree problematiche del Pianeta. E la domanda chiave, che si sono posti alle alte sfere e a cui noi stiamo cercando di dare una risposta, rimane sempre la stessa: quali saranno i nuovi modelli emergenti per risolvere le sfide sociali e ambientali di domani? Come dicevamo, le ONG sono state una grandissima risorsa per il mondo: un importante amplificatore che ha portato all’attenzione di tutti emergenze umanitarie spesso poco conosciute, nonché servizi di solidarietà nei Paesi che ne hanno un disperato bisogno. Tuttavia, adesso non sono più funzionali: continuano a iniettare denaro nelle aree in difficoltà, somme cospicue che vengono mal gestite e che contribuiscono ad arricchire solo determinate e non sempre limpide fasce della popola-


zione, a scapito dei servizi per cui sono state stanziate. Per uscire da questo circolo vizioso, le grandi organizzazioni dovrebbero fare un passo indietro e investire, come facevano all’inizio, molto di più sulla denuncia dei diritti calpestati e lavorare per la loro difesa. Ma saranno in grado di virare in questa direzione e riacquisire la loro forza? Io temo poco, appesantite dalle strutture mastodontiche che loro stesse hanno creato. La burocrazia sarà artefice in un certo senso del loro declino. Su questo punto, mi sono confrontato con due protagonisti del mondo delle grandi ONG in Italia e all’estero: Marco De Ponte, Segretario Generale di ActionAid e Maurizia Iachino, Presidente di Oxfam Italia che con lungimiranza stanno lavorando per tentare di migliorare la situazione, consapevoli della tendenza in atto. Secondo Marco De Ponte di ActionAid: «Qualsiasi organizzazione che ampli le sue dimensioni ha bisogno di strutturarsi in maniera ordinata ed è normale che vengano impiegate delle risorse in tal senso. Tanti processi sono domandati dal pubblico - si parte dalla logica della diffidenza - e quindi, per dare la massima garanzia, ci vuole un con-

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Quali saranno i nuovi modelli emergenti per risolvere le sfide sociali e ambientali di domani?

The Africa report: giving mix

Endowments for the Aliko Dangote and Tony Elumelu Foundations are undisclosed, however sources of funding come from the family office in bothcases, plus UBA Bank in Elumelu’s case.

Fonte: Gates Foundation, Ford Foundation, Mohammed Bin Rashid


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siglio direttivo, organi di controllo, certificatori esterni, organismi di vigilanza ex legge 231 e così via: rassicurando i diffidenti, noi aiutiamo la mission. Questo però implica dei costi e chi chiede garanzie dovrebbe almeno riconoscere che si tratta di spese direttamente tolte alla mission nel breve periodo. Per evitare, poi, che l’ingrandimento della struttura vada a creare una sorta di “distanza” tra ActionAid e i suoi sostenitori, l’organizzazione si è evoluta in maniera particolare: non ha mantenuto una impostazione unitaria, ma federale. Una somma di organizzazioni autonome presenti in ogni Paese in cui operiamo. Una forma più adatta a leggere il contesto locale. In India, per esempio, esistono quattordici uffici regionali; in Italia ci sono gruppi locali di attivisti in circa quaranta città. Il cittadino comune non si rivolge al “burocrate” Marco De Ponte, ma al referente della sua provincia. Si tratta di micro-organizzazioni a contatto diretto con il territorio che hanno il vantaggio di essere coordinate attraverso una strategia comune. Nel nostro Paese purtroppo non c’è una realtà abilitante per le associazioni e la “polverizzazione” dei vari gruppi genera inefficienza. Anche la trasparenza sostanziale, a volte, è un problema che tocca le grandi organizzazioni, ma più sostanzialmente le migliaia di piccole realtà che spesso e volentieri non producono rendiconti per il semplice fatto che non ne hanno le capacità e le risorse. La cooperazione, in gran parte dei casi, passa dalle parrocchie, senza alcuna certificazione. Chiaramente il rapporto diretto con il parroco dà implicitamente un senso di fiducia ed è ovviamente più semplice ascoltare un suo racconto che entrare nei meccanismi di una grande associazione. Ma proprio per tale ragione noi abbiamo scelto di dare vita ai gruppi locali: una rete di attivisti - sicuramente costosa - tuttavia in grado di esprimere una maggiore vicinanza alle persone. Questo non sarebbe stato possibile seguendo logiche più centralizzanti ed efficientiste». Maurizia Iachino sottolinea invece: «Le grandi organizzazioni spesso agiscono su due fronti: da un lato esercitano pressioni su chi - come istituzioni, governi e grandi imprese - ha il potere di operare il cambiamento, dall’altro supportano con aiuti concreti le persone che soffrono per la mancanza di diritti e di risorse. Una grande organiz-


zazione ha poi i mezzi per raggiungere due fondamentali obiettivi: consolidare la sua presenza sul campo in un gran numero di Paesi, arrivando a conoscere nel dettaglio le situazioni che richiedono un cambiamento; evidenziare queste situazioni nei tavoli di discussione e decisione, facendo costantemente pressione affinché il cambiamento sia messo in atto. Faccio un esempio: Oxfam ha da pochi mesi reso pubblica un’amplissima ricerca intitolata “Behind the Brands” - tradotta in italiano con “Scopri il marchio”. Lo studio classifica le politiche adottate dalle 10 maggiori aziende del settore alimentare su 7 tematiche precise: il rispetto dei diritti dei lavoratori e dei contadini impiegati nella loro filiera nei Paesi in via di sviluppo; l’attenzione alla tematica di genere; la gestione della terra e dell’acqua utilizzate nel processo produttivo; le politiche di contrasto al cambiamento climatico; la trasparenza adottata dall’azienda nella propria attività. Grazie ai risultati ottenuti, si è stilata una vera e propria pagella, con lo scopo di spingere le aziende del food & beverage meno virtuose a capire come e dove potevano migliorare. Alla fine della campagna, tre importanti multinazionali si sono impegnate a svolgere, supportate da noi, un percorso di evoluzione nei settori in cui sono risultate più manchevoli. Questo lavoro ha richiesto 18 mesi di analisi, realizzate grazie alle nostre risorse interne e ai nostri analisti. Un lavoro reso noto a livello internazionale che ci ha fatto stringere rapporti di attiva collaborazione con le aziende oggetto della ricerca. Una campagna di questo tipo può essere concretizzata solo da un’organizzazione di grandi dimensioni e vale quanto il lavoro svolto quotidianamente sul campo, vicino a chi soffre. Va detto tuttavia che l’ingrandimento eccessivo di un’organizzazione può portare con sé problematiche che devono essere razionalizzate e affrontate. Se perciò si vengono a creare delle strutture - e parlo di organismi, organizzazioni, persone, funzioni - che in realtà vivono per giustificarsi, invece che per essere utili: tale sviluppo non è utile né corretto, e va resettato. Se gli intermediari non occorrono più, non devono essere mantenuti per forza. Anzi si devono disincrostare le inefficienze a partire da istituzioni come Onu, Fao, World Bank o World Food Programme. Questi immensi organismi sono importanti perché possiedono

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una grande potenza ed esperienza ma, proprio a causa della loro crescita smisurata, si alimentano di sovrastrutture talvolta inutili, creando di conseguenza il rischio che anche le organizzazioni come la nostra, che traggono ispirazione dal loro modello, soffrano della stessa malattia. Occorrono quindi delle analisi lucide, per stabilire cosa sia effettivamente necessario e cosa non lo sia. È importante che ciascuna organizzazione faccia costantemente autocritica. Oxfam per prima s’interroga sulle azioni da compiere per arginare tali derive e agisce di conseguenza: in primo luogo cercando di limitare la crescita, dove questa comporti uno spreco di energie o il loro scorretto indirizzamento; ma anche giustificando qualsiasi operazione venga compiuta. Un altro limite da combattere è poi quello della “personalizzazione”: concentrare la guida, il potere decisionale nelle mani di un’unica figura - nel momento in cui l’organizzazione cominci ad assumere dimensioni considerevoli - può essere pericoloso e deleterio per il futuro della realtà stessa. Si rischia l’effetto “collo di bottiglia”. La singola persona può risultare fondamentale in fase di avvio; può essere molto preziosa per la sua energia e generosità o per il suo intuito e ingegno, ma poi deve consentire alla struttura di evolversi ed emanciparsi. Per il futuro è auspicabile una trasformazione che permetta di ridurre le burocrazie e che avvicini tutti i protagonisti (donatori, realizzatori, beneficiari) in una catena in cui informazioni, trasparenza e obiettivi comuni consentano di eliminare le sovrapposizioni, dando vita a una sorta di flusso diretto. Si tratta di un cambiamento epocale che ha bisogno della collaborazione di tutti gli attori in campo, ma il processo è già iniziato e con l’aiuto della tecnologia, della maggiore diffusione dell’informazione e della trasparenza si attuerà, nonostante le resistenze. Per la soddisfazione di chi opera, nell’interesse di chi ha bisogno di migliorare la propria condizione di vita, per il Bene di tutti!».

Le ONG si muovono sui desideri dei loro concittadini, non dei beneficiari In un libro interessante “Borders among activists” (Frontiere tra gli attivisti), Sara S. Stroup - assistente univer-


sitaria di scienze politiche presso il Middlebury College del Vermont (USA) - spiega con dovizia di ricerche come le grandi ONG internazionali siano diventate sempre più internazionali, nonostante il loro focus e la loro natura sia figlia del Paese di origine. L’autrice, in poche parole, sostiene che le battaglie intraprese nel campo della solidarietà siano condivise e vicine alla sensibilità delle persone appartenenti alla nazione in cui le organizzazioni nascono, meno a quella dei beneficiari degli aiuti. Ecco un passo tratto dalla introduzione del saggio: «Mentre molte ONG sono sempre più attive a livello internazionale, trovo che la loro struttura organizzativa e le strategie che adoperano siano profondamente legate al loro contesto d’origine. Con l’incremento delle tecnologie di comunicazione e la facilità di spostamento, molte organizzazioni si sono “globalizzate” creando negli ultimi 10 anni altre sedi nei Paesi sviluppati e incrementando il numero di progetti all’estero. L’obiettivo di questa internazionalizzazione era quello di creare strutture globali che riflettessero un’identità più cosmopolita. Nonostante questi sforzi, però, le pratiche organizzative centrali sono guidate da risorse, istituzioni e norme dei Paesi originari. Gli effetti di queste impostazioni nazionali possono contribuire a spiegare le azioni delle ONG ad Haiti e altrove. Medici Senza Frontiere ha le sue radici in Francia, Oxfam in Gran Bretagna e Care negli Stati Uniti. Questi tre Paesi possiedono un gran numero di organizzazioni non governative, ciascuno ha una grande ricchezza e una società civile che supporta gruppi privati interessati a offrire assistenza internazionale. Eppure i concetti di “carità” e di “attivismo” sono molto diversi in ogni Paese e questo si manifesta in differenti opportunità e vincoli per le organizzazioni caritatevoli. Le ONG francesi, per esempio, operano all’ombra di uno stato sociale forte e si interfacciano con un popolo che dà relativamente poco in beneficienza. Le ONG britanniche, invece, si rapportano a un pubblico generoso e interessato agli affari internazionali e a uno stato molto aperto nei loro confronti. Le organizzazioni americane, infine, hanno un governo che è generoso ma esigente e donatori che si adoperano con impegno ma che non supportano le cause internazionali. Le ONG devono

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quindi adottare strategie che si adattino a ciascuna di queste situazioni differenti e il risultato è una variazione nella risposta alle emergenze, per esempio ad Haiti». Entrando nel dettaglio ci si rende effettivamente conto di come i fondi siano per il 40-50% raccolti nel Paese di nascita della organizzazione. Questo significa che il lavoro di funding deve promettere azioni che i concittadini capiscano o amino. L’identificazione “organizzazione - Paese di origine” rappresenta una sorta di peccato originale. Un grande limite che non genera i giusti presupposti per una “visione” oggettiva, mirata ad alleviare i bisogni dei Paesi beneficiari, e che crea un ulteriore motivo di appannamento delle ONG. Alla burocrazia crescente, quindi, si aggiunge anche questa specie di conflitto di fondo secondo il quale la missione di partenza risponde alle esigenze dei donatori e non a quelle delle popolazioni da aiutare.

La nascita delle ONG locali

La missione di partenza risponde alle esigenze dei donatori e non a quelle delle popolazioni da aiutare

Infine, sta nascendo una terza realtà nei Paesi in difficoltà che va a sua volta a intaccare profondamente il ruolo delle ONG e in parte anche quello delle fondazioni: il partenariato, a cui abbiamo già accennato in precedenza. È giunto come aiuto alla cooperazione ed è stato salutato con interesse e spesso con sollievo da tutte le organizzazioni. Si tratta della nascita di ONG locali specializzate in alcune attività, in particolare quelle di service delivery (fornitura di servizi), che operano sul loro territorio per conto delle grandi organizzazioni internazionali. Un vero e proprio business che spesso rende la povertà un’occasione di lavoro. Specializzarsi nell’aiuto - in gran parte dei casi, certo non in tutti - diventa una possibilità di arricchimento e così queste realtà proliferano. Solo in Kenya esiste un libretto di circa 300 pagine pieno zeppo di nomi di ONG locali che si occupano di scuole, educazione, aiuti, malattie, medicine, orfani e via dicendo. Per alcune, operare in questo senso è una missione, un desiderio di riscatto e partecipazione sociale, ma sono la minoranza. Per molti, è un’opportunità economica che si basa sul


principio del grass root (letteralmente “radice dell’erba”), cioè lo sfruttamento della conoscenza del territorio. Le grandi ONG hanno apprezzato la nascita di queste realtà più consapevoli delle necessità e dei problemi della zona, percependole come un aiuto in loco, e hanno cominciato ad affidare loro i progetti. In pratica, il percorso di “delega” funziona così: la sede locale della grande ONG internazionale scrive i piani per la richiesta di aiuti (spesso in linea con gli obiettivi del governo), poi divide questi piani in progetti che assegna ai diversi partner. L’organizzazione “madre”, quindi, non esegue più i progetti ma li studia, li affida e poi li controlla, come fosse un broker strategico. Dalla attuazione di questo modello sarebbe dovuto derivare uno snellimento del personale della grande ONG (che ovviamente non ha più bisogno delle forze di realizzazione). Proprio come avviene nelle aziende: nel momento in cui si affida un lavoro a terzi, la struttura si riduce. Il fenomeno ha anche un nome: terziarizzazione. Invece no. Il personale delle ONG rimane sempre lo stesso e la burocratizzazione cresce. Il problema, poi, è anche un altro. Ho visto ONG che hanno affidato a pioggia i loro milioni a centinaia di piccole organizzazioni locali senza alcuna strategia di verifica e controllo. Ho il timore che la vischiosità sia altissima, come anche la possibilità di corruzione. In sintesi, quindi, le grandi strutture si trovano di fronte a tre grosse problematiche: la burocrazia interna generata da un corpo sempre più numeroso e poco produttivo, l’adesione ai valori del Paese di nascita che non sempre coincidono con quelli del Paese in cui si opera e, infine, l’invadenza del partenariato che, con la scusa della migliore conoscenza del territorio, va a incrementare a sua volta gli iter burocratici e può creare opacità nei rapporti. E ancora una volta si ritorna al nostro famoso euro di donazione che si perde nella filiera e che solo in piccolissima parte arriva al progetto per cui è stato originariamente donato.

121 I PROTAGONISTI DELLA SOLIDARIETÀ: CITTADINI, STATI, ONG

Specializzarsi nell’aiuto diventa una possibilità di arricchimento


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TRASPARENZA E COMUNICAZIONE: GRANDE AMBIGUITÀ

Che fine fanno i soldi donati? È la domanda cui vogliamo rispondere nel corso della prima parte di questo capitolo. Il donatore italiano - lo abbiamo visto nella ricerca dell’Eurisko - è abbastanza solidale e generoso. Si sente in dovere di risarcire chi nella vita è stato meno fortunato e di alimentare il circolo virtuoso della sostenibilità: un’azione compiuta nel presente che consentirà alle prossime generazioni di non pagare un pesante dazio. Ma è anche un donatore critico, teme le truffe e pretende una corretta gestione delle risorse da parte delle associazioni benefiche alle quali si affida. In questo modo cerca di esercitare il suo diritto alla trasparenza e alla legalità, spingendo le organizzazioni a spendere correttamente ogni contributo raccolto, dal più grande al più piccolo, e a operare in modo efficiente, finalizzato all’obiettivo. Controllare la “filiera” della donazione, tuttavia, non è sempre semplice.

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124 DA PREDATORI A IMPRENDITORI

Generalmente la nostra donazione si perde nella sommaria voce “spese per servizi” che ingloba circa l’80% degli investimenti effettuati

I controlli sono deboli, quanto inesistenti. In tutto il mondo Mentre per le società di capitale l’occhio dell’autorità fiscale è vigile, nel campo delle Onlus i criteri di verifica sono molto leggeri. Quasi inesistenti. Proprio per questa ragione si è venuto a creare un movimento che spinge affinchè ci sia un controllo più serio da parte di terzi sull'efficienza dei progetti, sul rispetto degli obiettivi, sulla trasparenza della donazione e sulla conseguente spesa. Generalmente la nostra donazione si perde nella sommaria voce “spese per servizi” che ingloba circa l’80% degli investimenti effettuati. Una declinazione più dettagliata spesso manca, non di rado per nascondere le incapacità gestionali dell’associazione. Non è mia intenzione lanciare maldestri atti di accusa peraltro ormai diffusi da tantissime personalità - desidero però commentare alcuni dati che dimostrano come la governance di molte Onlus debba necessariamente essere rinnovata e nuovi modelli di gestione, più funzionali, debbano subentrare a quelli vecchi. Con una breve premessa. Ho analizzato quasi esclusivamente le ONG che si occupano di cooperazione nei Paesi meno sviluppati; ho preso in esame le più importanti e ho raccolto informazioni sulle spese e sui ricavi di ciascuna per ricostruire, seppur in maniera approssimativa, la filiera delle donazioni. L’obiettivo è quello di spiegare al lettore in che modo viene investito il suo contributo di “solidarietà”, sondando l’esistenza della tanto auspicata trasparenza. Un’analisi realizzata mantenendo la piena consapevolezza del ruolo fondamentale giocato in passato da queste organizzazioni: sono state il megafono che ha portato all’attenzione dei Governi tanti abusi e violazioni dei diritti, altrimenti dimenticati. I soldi dati e anche spesi sono serviti a questa fondamentale operazione. Quindi ho rispetto per quello che hanno fatto. Meno per come hanno tenuto i conti.

I soldi e il Terzo Settore Non ho voluto effettuare un’analisi comparativa tra le diverse tipologie di Onlus ma facciamo comunque una


piccola panoramica. Tra i diversi tipi di associazione troviamo quelle che si occupano di ricerca - come l’Airc, Associazione Italiana per la Ricerca sul cancro, a cui spesso le persone dedicano il 5X1000 - ma anche quelle di denuncia - per esempio l’inglese Oxfam, contro l’ingiustizia sociale e la povertà; o quelle che operano per fare rispettare i diritti delle persone e dell’ambiente - come Amnesty International o Greenpeace. Infine ci sono quelle di servizio - vedi l’italiana Emergency che costruisce ospedali nei Paesi in difficoltà e cura le popolazioni più deboli - e quelle che agiscono in prevalenza nel settore degli aiuti - come ActionAid o Save the Children - e qui entriamo nell’ambito che tratteremo. Ma prima di immergerci nei bilanci di queste grandi associazioni per capire dove vanno a finire i nostri euro donati, voglio fornire qualche informazione in più per meglio conoscere la realtà delle Onlus. Per dare un’idea, solo in Italia, le associazioni non-profit sono circa 250.000: da quelle con rendiconti stellari alle missioni parrocchiali nei paesini di poche anime. È necessario mettere quindi un po’ di ordine. Noi ci occuperemo delle “grandi multinazionali della bontà” - enormi megafoni dei diritti calpestati che oggi stanno perdendo smalto e ruolo. Perché? Partiamo dalle origini. Tutto è iniziato con l’intuizione di alcuni visionari, di persone che volevano fare del bene, di mecenati. Così è stato con ActionAid, come ci racconta il Segretario Generale Marco De Ponte: «ActionAid è nata nel 1972 in Inghilterra, inizialmente con il nome di Action in Distress. Ha seguito la classica storia dell’associazione nata per volontà di una persona brillante con qualche risorsa in più - il businessman inglese Cecil Jackson-Cole - che, senza avere una particolare strategia, voleva fare del bene. Per una decina d’anni, l’iniziativa è andata poco oltre il personale: si replicava la logica della piccola organizzazione con un “padre padrone” che decideva e gestiva tutto. Si occupava in particolare di istruzione ma in maniera poco strutturata, non aveva una missione particolare. Negli anni ’80, il modo di lavorare cominciò a cambiare. Ci si rese conto che non bastava più portare l’aiuto materiale, occorreva studiare strategie che rendessero le persone

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Solo in Italia, le associazioni non-profit sono circa 250.000


126 DA PREDATORI A IMPRENDITORI

beneficiarie in grado di proseguire da sole il percorso iniziato con l’organizzazione. Investire sull’istruzione significava quindi costruire una scuola ma al contempo formare gli insegnanti sul posto, dando vita a un sistema scolastico, seppur di tipo informale, tuttavia importante per instillare fiducia nelle comunità “escluse”. Negli anni ’90 è iniziata la storia più moderna dell’organizzazione, con un fortissimo processo di decentramento e coinvolgimento di personale locale, il vero motore trasformativo. Ci siamo mossi per occuparci anche di diritto al cibo e alla salute, con attività programmatiche e di advocacy: il linguaggio dei diritti parla di relazioni di potere a livello personale, di comunità, tra Stati. Se si vuole trasformare la società, occorre farlo attraverso persone che abbiano legami con il territorio. Ci sono voluti dieci anni per realizzare questo processo di internazionalizzazione: l’organizzazione, inizialmente guidata dal centro inglese, si è trasformata in una struttura federale. I quarantotto Paesi che ne fanno parte valgono allo stesso modo, a prescindere da ciò che mettono nel piatto (e, attenzione, non si parla solo di risorse economiche ma anche di risorse intellettuali e di know-how). All’inizio del nuovo millennio si è definitivamente completato il processo di trasformazione federale. ActionAid vede oggi la sua presenza in quarantotto Paesi. Una presenza resa reale da staff locale e da un crescente numero di sostenitori e volontari che aderiscono alle nostre attività. Otto sono le sedi europee, oltre all’ufficio comune di Bruxelles; quaranta sono invece quelle nel Sud del mondo. Anche in Italia è presente un team di oltre cento persone dislocato tra Milano, Roma e altre nove città: esistono poi una quarantina di gruppi locali di attivisti che operano su tutto il territorio». Più o meno lo stesso percorso è stato seguito anche da Children’s Villages, organizzazione non governativa che si prende cura dei bambini abbandonati. Il suo fondatore, Hermann Gmeiner, nato in una famiglia rurale austriaca, perse la madre in tenera età e fu cresciuto dalla sorella maggiore. Dopo aver sperimentato sulla sua pelle, come soldato, gli orrori del secondo conflitto mondiale, diventò assistente sociale a supporto degli orfani di guerra. Un’esperienza che lo mise di fronte


all’isolamento e alla sofferenza di questi bambini e che gli fece capire quanto fosse indispensabile per i piccoli ritrovare un punto di riferimento, un luogo stabile da chiamare casa. Con i pochi soldi che aveva racimolato creò, nel 1949, il primo villaggio di soccorso a Imst, città del Tirolo, per ospitare i piccoli senza famiglia nè abitazione. Successivamente abbandonò il corso di studi in medicina e cominciò a dedicarsi completamente alla sua missione: donare al maggior numero possibile di bambini una casa, un villaggio, fratelli e sorelle acquisiti e una nuova figura materna. Nei decenni successivi, riuscì a realizzare molti altri villaggi, prima in Austria, poi in tutta Europa, infine anche in Corea, America e Africa. Oggi se ne contano oltre 200. Una vita, la sua, dedita alla tutela dell’infanzia che lo vide più volte tra i canditati al Premio Nobel per la Pace. Morì a Innsbruck nel 1986 e fu sepolto nel primo villaggio da lui fondato. Esempi diversi ma con un evoluzione simile, infatti, morto il fondatore - che spesso agiva come un imprenditore e teneva sotto controllo ogni cosa, rispettando i soldi degli altri forse ancora più dei suoi - l’organizzazione è diventata di tipo “manageriale” e ha mutato governance. Qui, l’inizio dei problemi legati alla scorrettezza amministrativa e alla gestione meno efficiente. Le strutture, specie quelle internazionali, sono cresciute, sovente a dismisura. World Vision, associazione che si occupa di adozioni internazionali a distanza, ha 26.000 dipendenti in tutto il mondo; Care, organizzazione che lotta contro la povertà, circa 15.000; ActionAid, di cui abbiamo già parlato, più o meno 3.000. A tal proposito, Valentina Furlanetto - giornalista che da anni si occupa di economia e temi sociali, nel suo libro “L’industria della carità”, apporta degli esempi che mettono in luce le disarmonie di questo sistema: «Per fare un paragone automobilistico, le grandi organizzazioni che si occupano di sociale, di cooperazione, di sviluppo ma anche di sanità sono partite come un’utilitaria e si sono trasformate in una Rolls Royce. Da piccole realtà, sono cresciute esponenzialmente. E con loro, sono cresciu-

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Le strutture, specie quelle internazionali, sono cresciute, sovente a dismisura


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Nel nostro Paese le organizzazioni non sono obbligate a pubblicare i loro bilanci perché non esiste un’authority esterna e indipendente che valuti in che modo vengono spesi i soldi

te anche le entrate economiche. Ora: una macchina super accessoriata ha bisogno di un pilota super accessoriato. Per tutelare le entrate, non basta più una gestione di tipo familistico, occorre un’organizzazione più strutturata. Spesso e volentieri, invece, le associazioni sono gestite come bocciofile. Il paradosso è che queste realtà hanno assunto dalle aziende elementi come la spasmodica ricerca di fondi attraverso il marketing - a volte con metodi discutibili - ma non hanno preso il buono: l’efficienza. Qualunque manovra compia un’azienda, questa deve essere profittevole, altrimenti l’impresa fallisce. Nel caso delle ONG, ovviamente, non si può parlare di profitto ma di risultato. In particolare in Italia, però, nessuno chiede mai conto di come sia andata a finire una determinata operazione. In tal senso, è molto esaustiva una relazione della Corte dei Conti, pubblicata a luglio 2012, che dimostra come circa il 33% delle organizzazioni non governative italiane presenti un grado di inefficienza molto alto, accompagnato da grandi opacità. Questo si verifica perché nel nostro Paese le organizzazioni non sono obbligate a pubblicare i loro bilanci (all’estero invece è prassi) e perché non esiste un’authority esterna e indipendente che valuti in che modo vengono spesi i soldi. Sono convinta che non si possano confrontare mele e pere e che, per fare un esempio, non abbia senso mettere sullo stesso piano il budget investito in stipendi di un’organizzazione che si occupa di sanità (e che quindi deve pagare personale medico, infermieri..) e quello di una realtà che si occupa di ambiente. Tuttavia, l’Istituto Italiano della Donazione dovrebbe trovare dei parametri di valutazione per evidenziare la corretta o la mala gestione delle risorse. Purtroppo, però, questo organismo ha un problema di credibilità intrinseco: viene sovvenzionato dalle stesse realtà che dovrebbe in qualche modo monitorare. Un ex dirigente di una grossa organizzazione italiana mi raccontava che è uso comune, in caso di associazioni molto grandi con sedi in diverse parti del mondo, distrarre i fondi dai bilanci: se l’opinione americana, per esempio, è molto attenta a quanto speso per il marketing allora queste uscite vengono spostate sul rendiconto di un altro Paese che ci bada meno. Un maquillage di bilancio a cui nessuno fa troppo caso. A ogni modo, i problemi non si fermano qui. Anche quando i fondi vengono investiti nei progetti, occorre fare molta atten-


zione e valutare il buon senso dell’iniziativa: costruire una scuola in un luogo privo di strade per raggiungerla è inutile. Nel mio libro faccio un esempio calzante, quello degli ulivi in Nepal. Si tratta di un progetto portato avanti dalla Fao, dall’Università della Tuscia e dal Ministero degli affari Esteri a Bajura, nella parte Nord-Occidentale del Paese. Un progetto che, dopo 10 anni di lavoro, ha visto la produzione di una sola bottiglia di olio in un’area senza infrastrutture. Il ricercatore a capo del programma ha specificato che l’obiettivo degli agronomi - cioè dimostrare che l’ulivo potesse essere coltivato in quell’area - è stato pienamente centrato. Si è trattato, insomma, di un’operazione di successo. Il resto non rientrava nelle loro competenze. E infatti all’Università è arrivata una minima parte dei fondi, che in larga misura sono invece stati gestiti dalla Fao - un’enorme macchina di sprechi. In questo caso, il risultato raggiunto non ha implicato alcuna ricaduta positiva sulla popolazione locale o sul commercio. Il progetto ha quindi perso il suo senso, riducendosi a un’ingente spesa mal indirizzata. E continuando a parlare di programmi realizzati in zone del mondo in difficoltà, penso ad Haiti: laggiù ci sono decine di associazioni che operano esattamente allo stesso modo. Se si unissero - riducendo le spese per gli affitti, per le macchine e per i generatori elettrici - abbatterebbero in maniera significativa i costi di struttura. Purtroppo, però, ciascuna realtà ha il suo adesivo che “fa marketing” e la creazione di sinergie può risultare “non conveniente”. A cosa tendere dunque? Nel mio libro è stato criticato il termine usato nel titolo: “industria” della carità. Come se caldeggiassi in qualche modo un “artigianato” della carità, un volontariato a km zero, quello delle piccole associazioni sotto casa. Assolutamente no. Non penso che serva un ritorno a questa dimensione. Ritengo che le associazioni debbano dotarsi di una governance più moderna, “rubando” alle aziende anche gli aspetti di gestione e controllo. Secondariamente, è necessario che il Governo imponga regole più stringenti, esigendo la pubblicazione dei bilanci e istituendo un’autorità esterna di valutazione. Infine, sarebbe bene che i media andassero più in profondità e raccontassero questo mondo con la giusta criticità per permettere l’apertura di un dibattito che sia di stimolo al miglioramento».

129 TRASPARENZA E COMUNICAZIONE: GRANDE AMBIGUITÀ

Costruire una scuola in un luogo privo di strade per raggiungerla è inutile


130 DA PREDATORI A IMPRENDITORI

Nelle ONG manca la figura dell’azionista che esercita la sua azione di controllo

Le governance sono cooptate e non possono incidere Navigando all’interno dei siti web delle grandi ONG, si riesce a trovare quasi sempre un piccolo rassicurante grafico a torta che evidenzia il modo in cui vengono spesi i soldi della organizzazione: generalmente la fetta più grande (circa l’80%) rappresenta gli investimenti fatti per finanziare i programmi, solo il 15-20% è impiegato per la raccolta fondi. Purtroppo però, scavando un po’ più a fondo, ci si rende conto che un buon 60% di quel famoso 80% potrebbe essere indirizzato al mantenimento del personale dell’organizzazione in loco, quindi solo il 20% dei “ricavi” sarebbe diretto realmente ai progetti. Tanto? Poco? A voi il compito di giudicare. Torneremo su questo tasto dolente più avanti con l’analisi dei bilanci, ma ora continuiamo a occuparci della governance perché, come dicevamo, rappresenta l’origine dei problemi. Facciamo un paragone: cosa succede a un’azienda che non produce in maniera adeguata e precipita in borsa? Gli azionisti - la cui soddisfazione è il metro del successo o dell’insuccesso della realtà aziendale - si inferociscono, viene licenziato l’inefficiente Ceo e se ne nomina uno nuovo. Se la leadership rinnovata non risolleva le sorti della società, questa fallisce. Avviene lo stesso nelle ONG? No. Nelle ONG manca la figura dell’azionista che esercita la sua azione di controllo. Pensiamoci, chi potrebbe rivestire questo ruolo in una qualsiasi delle grandi organizzazioni già citate? I donatori non sono adeguati perché non riescono a interessarsi della struttura a 360°: danno il loro sostegno a distanza, sono generosi ma non posseggono gli strumenti per effettuare ispezioni e verifiche. Al massimo, i più critici navigano nei siti e visionano il rassicurante grafico a torta di cui sopra, o provano a dare un occhio ai bilanci, non sempre chiari e trasparenti. Il Consiglio che gestisce l’organizzazione? Tantomeno, perché è direttamente associato al management della stessa ONG. È cooptato. Non esistono dunque soci né azionisti da soddisfare. In qualche raro


statuto c’è un’assemblea di soci, spesso risicata, “amica” e rispondente al management stesso che, in conclusione, risulta l’unico e reale padrone della organizzazione. Questo vertice può essere corretto oppure scorretto, a seconda delle persone da cui è composto, resta il fatto che non deve rispondere a nessuno. Si dota di strutture di controllo, di certificatori, di tanti strumenti metrici istituzionalizzati e spesso utilizzati in buona fede - ma alla fine non risponde a una proprietà di alcun tipo che a un certo punto dica: “gli obiettivi non sono stati raggiunti”. Ecco allora che le strutture, nate con un “capo” saldo e motivato, sono diventate completamente acefale e mancano di una forma di controllo terza, che non sia quella esercitata dall’etica del personale. Personale che, peraltro, è molto più abbondante di quanto necessiterebbe: soprattutto nelle aree di intervento. Si assiste infatti a un paradosso: nei Paesi di donazione, come Stati Uniti, Inghilterra, Francia e Italia per esempio, i dipendenti delle grandi organizzazioni sono scarsi e mal pagati perché fanno un lavoro caritatevole; nei Paesi in difficoltà, invece, sono innumerevoli, guadagnano profumatamente e hanno a disposizione fior di auto e servizi di ogni sorta. Parliamo quindi di strutture sottodimensionate nei Paesi “di controllo” - nel Nord del mondo per intenderci - e sovradimensionate nei Paesi in difficoltà.

Il triste viaggio del nostro euro donato con amore In tutto questo rocambolesco giro come viene usato il nostro contributo? Il nostro famoso euro dato con amore via sms? Con una premessa: tutte le verifiche sono al condizionale perchè è impossibile confrontare i bilanci in modo oggettivo. Crediamo che un buon 20% sarebbe indirizzato alla raccolta fondi e investito negli stipendi dei collaboratori che lavorano “negli uffici del Nord”; il 35% dovrebbe andare ai dipendenti e alle strutture della ONG “negli uffici del Sud”; un buon 15% a pagare il personale della struttura partner. A questo, aggiungeremmo un ulterio-

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Save the Children, nel 2011, con oltre 600 milioni di ricavi spende solo uno scarso 20% nei progetti, pari a circa 125 milioni

re 10% che si spreca per inefficienze o, peggio, sparisce “misteriosamente”, e allora vediamo bene che alla fine arriverebbe niente più che uno scarso 20% a supporto del programma (cioè all’obiettivo principale). Passiamo ad analizzare un bilancio preso tra i tanti delle grandi ONG che abbiamo letto con attenzione e con la sensazione di una generale rassomiglianza. Il bilancio di Save the Children offre un download del rendiconto, certificato da Kpmg, una delle più importanti e solide società di revisione contabile al mondo, arricchito da una nota integrativa esauriente. Premettiamo che, anche in questo caso, nel sito appare la usuale piccola icona della torta delle spese effettuate con i fondi raccolti: 89,1% ai programmi, 6,4% alla raccolta fondi e 4,5% al management. Una gestione praticamente perfetta: il 90% ai bambini e il 10% al resto. Questa è la lettura comune e immediata. Infatti la realtà sembra apparire diversa leggendo meglio il bilancio della Save the Children Federation 2011, attestato dalla Kpmg. Su una spesa operativa di 605 milioni di dollari, circa il 29% va al personale (pari a 174 milioni) - tra costi di personale impiegato (151 milioni) e professional fees, pensiamo consulenti (22 milioni) - cui si aggiunge un 10% di spese generali e un altro 20% di costi per forniture, materiali e altre spese generiche per i progetti. Poi troviamo un 17% (89 milioni) che viene esplicitato come spese intercompany e per commodities (in prevalenza grano e altro food donato dagli Stati Uniti). Un 4% va alla comunicazione. Infine, circa il 20% viene dedicato ai progetti. La riclassificazione effettuata può non essere accurata nei raggruppamenti (e me ne scuso in anticipo) ma è indubbio - anche solo leggendo le cifre del bilancio ufficiale pubblicato su Internet e che riportiamo in modo inalterato - come salti subito agli occhi che ai programmi arrivi poco. Molto va, invece, al personale, alle spese generali, ai viaggi e alla pubblicità. È chiaro che gli stipendi per i cooperanti sono necessari e che senza di loro non si potrebbero realizzare i programmi ma bisogna stare attenti ad alcune esagerazioni che le cifre non mettono in luce. Andando personalmente a visitare gli uffici delle diverse organizzazioni nei Pa-


esi del Terzo Mondo ci si trova davanti a file infinite di fiammanti 4X4 con autisti in attesa dei dirigenti dell’associazione. Un dettaglio (microscopico) che la dice lunga su un sistema che rischia di non avere futuro e che testimonia un modello oramai superato.

Bilancio Save the Children-riclassificato DOLLARI IN MILIONI

%

Personale Spese generali Forniture, materiali e altri costi Intercompany e commodities (grano da Usa) Donazioni a progetti Comunicazione

174 61 127 89 125 29

29 10 20 17 20 4

TOTALE

605

100

Fonte: Bilancio 2011- Save the Children Federation INC - financial statements, riclassificato

Save the Children federation 2011- operating expenses

DOLLARI IN MILIONI

Staff (salaries-benefits payroll-taxes) Grants to and charges from sci Commodities & ocean freight Grants to other agencies Professional fees Supplies, materials Other project costs Telecommunications Postage & shipping Advertising Printing Occupancy Travel Depreciation Other

151 40 49 125 23 98 29 5 3 29 4 12 28 3 6

TOTAL

605

Fonte: Bilancio 2011

133 TRASPARENZA E COMUNICAZIONE: GRANDE AMBIGUITĂ€


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Da un simile quadro emerge chiaramente come le ONG, in special modo quelle generiche “di sviluppo” (che fanno largo uso del sostegno a distanza), siano organizzazioni che tendono ormai a privilegiare i costi della struttura rispetto ai progetti. La burocrazia interna le ha appesantite e, nonostante il ruolo fondamentale che hanno svolto in passato, sono diventate meno trasparenti. Appare evidente come il sistema di queste immense strutture sia da considerare al tramonto. Un tramonto destinato a durare (perché non è ancora esploso un valido apparato di concorrenza) che tuttavia non passa inosservato. Molti stakeholder, infatti, cominciano a chiedersi se il futuro della cooperazione possa realmente passare attraverso questi grandi contenitori oppure se ci sia bisogno di un importante rinnovamento, di nuove forme che sostituiscano i vecchi modelli e che rendano le associazioni benefiche capaci di accompagnare il cambiamento senza soccombere.

Esempi positivi E le piccole organizzazioni hanno lo stesso problema delle multinazionali della bontà? La risposta a questa domanda presuppone la premessa fatta inizialmente: ci stiamo occupando prevalentemente delle ONG di cooperazione e di sviluppo nei Paesi del Terzo Mondo. Diverso sarebbe il discorso per le Onlus di ricerca, di assistenza o per quelle che trattano problematiche relative alla droga. Al nostro ragionamento potrei invece avvicinare le associazioni ambientaliste, nate anch’esse nel 900 - alcune addirittura nell’800 - molte delle quali internazionalizzate, che affrontano problematiche di sviluppo e di organizzazione interna abbastanza simili a quelle fin qui trattate. Puntualizzato questo aspetto, lo stato di salute delle organizzazioni medio-piccole ed ecclesiali del nostro Paese appare migliore. Facciamo alcuni buoni esempi. Cito, in primis, Emergency, guidata da Cecilia, figlia del fondatore Gino Strada. Un’organizzazione media che raccoglie molti fondi, quasi tutti provenienti da privati, la cui missione è quel-


la di costruire e gestire ospedali in luoghi dimenticati e tormentati da sanguinose guerre, dall’Afghanistan al Sudan, dall’Iraq alla Sierra Leone. Un’associazione che svolge un lavoro unico e offre un servizio di inestimabile valore, curando persone che difficilmente avrebbero un domani. Ma anche la fondazione Francesca Rava. Questa Onlus è gestita da Maria Vittoria Rava, un ex avvocato che - in memoria della sorella Francesca prematuramente scomparsa e del suo impegno a favore dei bambini in situazioni di disagio - ha deciso di abbandonare carriera e vita di un tempo per dedicarsi completamente a progetti a sostegno dell’infanzia in aree difficili come Haiti. Parliamo quindi di realtà che realizzano ospedali, scuole oppure orfanotrofi, che creano i progetti per i quali raccolgono i fondi e che si sentono responsabili del loro operato. Lo stesso discorso vale anche per le associazioni ecclesiali: partono da uno scopo diverso - generalmente l’evangelizzazione - ma alla fine costruiscono servizi e li gestiscono direttamente. In questo caso è il missionario che svolge il ruolo di “imprenditore”, mettendoci la faccia, motivando le sue scelte con i fedeli cui chiede nuove donazioni, dimostrando di conoscere perfettamente il progetto e di crederci fino in fondo.

I trend di governance delle ONG Dopo aver delineato le luci e le ombre delle ONG e sentito diverse e spesso contrapposte voci, occorrerebbe individuare alcune vie per un’eventuale riforma di questo settore che, come abbiamo visto, si è molto burocratizzato, ma che di fatto rimane l’unico motore di denuncia e di difesa dei diritti calpestati. La riforma dovrà tenere conto di tre linee di tendenza che oggi si intrecciano nella vita delle ONG: la via della gestione manageriale, quella imprenditoriale e quella delle fondazioni. La tendenza manageriale, oggi, è la più presente. I pro e i contro sono facili da immaginare. Se da un lato ci sono battaglie vere, lotte per i diritti, un grande network e un grande sviluppo strutturale e funzionale, dall’al-

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136 DA PREDATORI A IMPRENDITORI

tro troviamo un notevole incremento della burocrazia, la perdita di potere della governance, pochi controlli e poca efficienza. La gestione a matrice imprenditoriale, invece, garantisce un maggior controllo e una maggiore efficienza, tuttavia raramente innesca lotte per i diritti: per mancanza di mezzi o perché spesso l’imprenditore si sente gratificato a sufficienza dal lavoro altruistico. Morto il fondatore, tuttavia, la struttura sparisce con lui o più facilmente si avvia a una gestione manageriale. Il modello delle fondazioni, infine, è quello più nuovo. Le fondazioni tenderanno a entrare in concorrenza con le ONG oppure a divenirne uno dei più diretti “clienti” (con potere di controllo). Anche in tal caso, le grandi famiglie che le guidano rimarranno i“motori” di base, ma queste strutture evolveranno “naturalmente” verso una gestione manageriale. Ecco come si delinea la situazione attuale. I rischi di procedere verso organismi sovradimensionati e super burocratizzati sono più che reali. Poiché occorre riprendere le fila dell’efficienza e dei risultati e poiché capiamo che non esiste un azionariato diffuso che possa controllare questa efficienza e questi risultati, le vie di riforma passano attraverso due sole possibilità: • Un’autodisciplina dei soggetti ONG che imponga strumenti di controllo su parametri predeterminati e che crei e sostenga un’authority autonoma, autorevole e terza. La composizione di tale authority, così come la sua azione, sarà indipendente e slegata dalle ONG controllate. • La costituzione, a opera dello Stato, di un’authority indipendente che controlli l’efficienza, l’efficacia e i costi delle ONG su parametri imposti per legge. Delle due ipotesi, la prima mostrerebbe la fotografia di un Terzo Settore maturo - in grado di comprendere il problema e di agire per porvi rimedio -, la seconda rappresenterebbe un’imposizione, costruita scandalo dopo scandalo a settore già incancrenito. Per il bene delle ONG che tanto hanno dato e stanno


tuttora dando, speriamo che la riforma vada verso l’autodisciplina. Passiamo ora a parlare della comunicazione del terzo settore: un mondo di buona informazione ma anche di ambiguità e di prevaricazione.

137 TRASPARENZA E COMUNICAZIONE: GRANDE AMBIGUITÀ

Il quadro della comunicazione mondiale A metà degli anni ‘80 chiunque avesse comprato le azioni Apple (e le avesse tenute fino allo scorso anno), oggi sarebbe incredibilmente ricco. Tra alti e bassi, il valore delle quotazioni è infatti schizzato dai 10 dollari del 1985 ai 700 del 2012. Se, per esempio, i soldi necessari per acquistare il primo iPod - messo in vendita nel 2001 (399 dollari) fossero stati investiti in azioni della società, oggi sarebbero levitati fino a una cifra che si aggira intorno ai 26mila dollari. Un incremento eccezionale, un percorso passato indenne attraverso la bolla Internet del 2000, il crack della Lehman Brothers del 2008 e la successiva recessione. Dov’è il segreto?

Le spese di comunicazione nel mondo (% Incremento) WESTERN EUROPE

NORTH AMERICA

2011 + 0,9 %

2012 - 2,6 %

2011 + 3,2 %

2012 + 3,5 %

2013 + 2,6 % SOUTH AMERICA 2011 + 12,8 %

2012 + 11,4 %

2013 + 12,4 % Fonte: Assocom-ufficio studi

2013 + 0,3 % AFRICA & MIDDE EAST 2011 + 5,3 %

2012 + 9,3 %

2013 + 10,4 %

CENTRAL AND EASTERN 2011 + 12,7 %

2012 + 6,9 %

2013 +6,8 % ASIA PACIFIC 2011 + 7,9 %

2012 + 8,5 %

2013 +6,4 %


Semplice. Un mercato in ascesa trainato da un prodotto grandioso. Un prodotto realizzato da un visionario senza macchia e senza paura guidato da una filosofia che lui stesso, Steve Jobs, riassumeva con un semplice “stay hungry, stay foolish”. Se alla formula si aggiungono campagne di comunicazione e marketing straordinarie, il risultato è quello che conosciamo: file chilometriche davanti agli Apple store e persone smaniose di accaparrarsi ogni nuova uscita tecnologica ideata dalla Mela. Già, la comunicazione. Una comunicazione, in questo caso non convenzionale, in grado di convincere i consumatori che, insieme al tale iPod o iPhone, comprano un po’ della follia del suo creatore, un pezzo unico di innovazione, l’ingresso in un elitario mondo di estimatori delle nuove frontiere tecnologiche, una parte di quell’americanità ancora tanto ammirata. Tutto ciò nonostante l’articolo dei desideri venga prodotto in Cina dalla famigerata multinazionale Foxcom, nota per le polemiche

138 DA PREDATORI A IMPRENDITORI

Latin American, Asia Pacific and Middle East & Africa will be the main drivers; Europa and North America will remain steadily under market average N. America

Latin America

Europe

Asia Pacific

1,9

2,1

2,4

2,9

3,3

3,5

26,0

25,8

26,0

26,8

27,9

31,6

28,3

28,4

29,0

28,7

26,9

4,2

4,3

4,6

5,0

5,5

3,7

3,9

32,4

33,6

34,3

25,6

25,4

24,0

23,3

5,5

5,7

6,1

6,5

32,9

32,6

32,0

2011

2012

2013

39,6

39,5

38,0

36,6

36,5

33,8

2005

2006

2007

2008

2009

2010

Fonte: Assocom-ufficio studi

Middle East & Africa 3,5


legate allo sfruttamento dei suoi dipendenti. Di questo, però, non si è mai parlato. Neanche un rigo è stato scritto nei post su Apple che hanno attraversato la blogosfera. E tutto ciò la dice lunga sul potere del marchio. Se è veramente forte, niente lo scalfisce! Così, un personal computer, un lettore mp3 piuttosto che uno smart phone hanno abbandonato la loro natura terrena per trasformarsi in un vero e proprio mito dei nostri tempi. La Apple ha narrato una storia moderna di innovazione in modo altrettanto moderno. Questa è la comunicazione. Globale. Mondiale. Stiamo ovviamente parlando di uno degli esempi più clamorosi, un caso pressoché unico, tanto che - morto Steve Jobs - la Apple probabilmente, dopo una fase di inerzia, rientrerà nella “normalità”. Profetica la frase pronunciata dal giornalista specializzato Nick Arnett ai tempi dell’esilio di Steve Jobs (durato ben 11 anni) dalla società che lui stesso aveva creato: "Senza Jobs, Apple è solo un'altra società della Silicon Valley, e senza Apple, Jobs è solo un altro milionario della Silicon Valley". Questo magico connubio resta tuttavia un grandissimo esempio di come la comunicazione possa fare la Storia. Oggi la comunicazione è tutto. Internet e i social media l’hanno veicolata da un sistema top down, cioè da uno a tanti, a un sistema bottom up, cioè da tanti a tanti. Trattandosi di un tema di grande rilevanza, vorrei offrire al lettore un quadro globale del fenomeno, per illustrare poi i meccanismi utilizzati in tale senso anche dalle organizzazioni umanitarie. Nel mondo si spendono sui media - tv, radio, giornali, cinema, poster e internet/social media - la bellezza di 400 miliardi di euro. Metà del bilancio di Stato italiano. A questi 400 miliardi, se ne aggiungono almeno altrettanti in direct mailing (comunicazioni inviate ai potenziali clienti o donatori attraverso sistemi di spedizione), promozioni, attività nei punti di vendita, sponsorizzazioni, pubbliche relazioni, relazioni esterne e così via. In pratica il bilancio per mandare avanti l’Italia che, tuttora, è la settima potenza planetaria. Per dare un’idea: in questo anno così drammatico, gli investimenti in comunicazione nel mondo cresceranno del 4,5%, molto più del PIL mondiale.

139 TRASPARENZA E COMUNICAZIONE: GRANDE AMBIGUITÀ

La Apple ha narrato una storia moderna di innovazione in modo altrettanto moderno


140 DA PREDATORI A IMPRENDITORI

In questo anno così drammatico, gli investimenti in comunicazione nel mondo cresceranno del 4,5%, molto più del PIL mondiale

Una macchina che avanza senza fermarsi, regolarmente, anno dopo anno, come un panzer da guerra: un tempo, per conquistare Paesi e consumatori, si usavano le armi. Oggi, la comunicazione. Attualmente, la torta degli investimenti pubblicitari globali è così spartita: la fetta di Africa e Medio Oriente rappresenta il 4%, quella del Sud America tocca quasi il 7%, la vecchia Europa raggiunge un buon 23%, il Nord America, patria della comunicazione, da solo arriva al 32%, infine la Cina e il Sud-Est Pacifico, più o meno, al 35%. La parte del leone, in questo scenario, è ancora una volta dei famosi Brics (Brasile, Russia, India, Cina, Sudafrica): in 8 anni hanno guadagnato circa 10 punti percentuali, persi invece da Europa e Stati Uniti. Entriamo un po’ più nel dettaglio. Le aziende puntano in particolar modo sulla televisione (40%), meno sui giornali/magazine (24%) e su Internet/social media (21%), poco sui manifesti stradali (6%), sulla radio (5%) e sul cinema (solo lo 0,3%). Tuttavia, Internet ha guadagnato, da 10 anni a questa parte, due punti assoluti ogni anno e l’incremento è destinato ad aumentare sempre di più, grazie anche all’integrazione con la TV. La grande forza dei mezzi social e del web 2.0 è la viralità, il passaparola virtuale che aumenta esponenzialmente la diffusione del messaggio. Non bisogna sottovalutare poi la continua evoluzione di sistemi mobile, dai tablet agli smart phone, che consentono alle persone di essere raggiungibili ovunque e in ogni momento. Negli anni a venire assisteremo al boom di una comunicazione sempre più interattiva e diretta al singolo, più sottile e maggiormente invasiva anche se all’apparenza non si direbbe. Dialogando su Facebook, esprimendo opinioni su Twitter, postando una bella foto su Pinterest, gli individui diventano essi stessi protagonisti della comunicazione, ma - senza badarci troppo - vengono contemporaneamente studiati, misurati, profilati. Una volta individuati interessi e punti deboli del “bersaglio”, sottilmente, come dicevamo, la pubblicità in rete colpisce e suggerisce esattamente ciò che si desidera, spingendo all’immediato acquisto.


Il fund raising: la faccia ambigua della comunicazione Dopo questa panoramica, torniamo a noi. Nel comparto cosiddetto della filantropia, la comunicazione gioca un ruolo doppio, direi ambiguo. Da un lato, le organizzazioni umanitarie raccontano le storie di successo per portare all’attenzione del largo pubblico il valore del loro operato e ottenere così altre donazioni, dall’altro usano questo strumento come un’arma di potere e di prevaricazione. Nel 2011, per trovare fondi, le associazioni italiane hanno speso ben 19 milioni di euro. L’anno scorso, solo 12 milioni. La crisi si è fatta sentire e, a un minor investimento, è corrisposto un “raccolto” inferiore. Una perdita che, a seconda dell’associazione, è variata dal 20% al 40%.

141 TRASPARENZA E COMUNICAZIONE: GRANDE AMBIGUITÀ

Worldwide Media Share Internet will confirm its growing trend leadership (+2%), print will continue its negative trend and TV will increase less than market average

RADIO 5,4% TV 42,9%

RADIO 5,3% NEWSPAPER 16,0%

TV 42,6%

NEWSPAPER 15,1%

MAGAZINE 9,1%

MAGAZINE 9,6%

CINEMA 0,3%

CINEMA 0,3%

OUTDOOR 6,3%

OUTDOOR 6,4%

INTERNET 21,4%

INTERNET 19,5%

2012 Fonte: Assocom-ufficio studi

2013


Abbiamo parlato con Marco De Ponte, Segretario generale di ActionAid Italia, per farci raccontare come l’organizzazione abbia affrontato la crisi: «La nostra scelta - avendo una solidità finanziaria che ci siamo costruiti nel tempo e che ci consente di poter operare in termini “anticiclici” - è stata quella di mantenere stabili gli investimenti annui dedicati alla raccolta fondi nonostante il periodo difficile, a differenza di molti altri che invece hanno ridotto il budget. Una strategia che non tutti i Paesi all’interno della stessa confederazione di ActionAid hanno deciso di mettere in atto. Dal 2010 abbiamo investito circa 7 milioni all’anno nella raccolta fondi, con un turnover indicativo di 48 milioni. Un investimento che serve principalmente a reclutare nuovi sostenitori per mantenere stabile o accrescere, se possibile, il nostro “bacino” composto da circa 150 mila iscritti. Occorre specificare che il tasso di rinunce annuo è del 10%. Le risorse che investiamo stabilmente nel fund raising ci consentono di coinvolgere ogni anno 10-15 mila persone (circa il numero di sostenitori che perdiamo). Reclutare ci consente quindi di rimanere stabili. Sicuramente ridurre gli investimenti nella raccolta fondi produrrebbe un saldo positivo nell’immediato, ragione per

142 DA PREDATORI A IMPRENDITORI

Le spese di comunicazione-mix 2013

ITALIA

53%

GERMANIA

23%

REGNO UNITO

26%

4% 3%

FRANCIA

34%

SPAGNA

38% TV

Fonte: Assocom-ufficio studi

6%

Radio

43% 20% 7%

Print

6%

5%

6%

17%

24% 44%

30% 10%

18%

24% Cinema

11% 7% Outdoor

17% 20% Internet


cui in molti hanno preferito percorrere questa via di fronte a una crisi di liquidità. Sulla lunga distanza, però, questa scelta innesca un circolo vizioso che porta al reperimento di minori risorse per operare e alla decrescita, dato che non permette di ripianare il numero totale di sostenitori (che, senza investimenti, tende appunto a diminuire per ragioni fisiologiche). In Inghilterra, per esempio, tre anni fa ActionAid ha deciso di ridurre il budget per la raccolta fondi e ora fatica a recuperare i sostenitori “persi”, nonostante la crisi del Paese sia meno impattante che in Italia. Un altro discorso è quello della diversificazione delle entrate che portiamo avanti da 6-7 anni. Inizialmente, i sostenitori di ActionAid Italia si concentravano sul nostro “prodotto” principale (il sostegno a distanza). Successivamente, abbiamo chiesto loro di non supportare più solo il singolo progetto attraverso il quale ci avevano conosciuti, ma di fornire un contributo ad ActionAid per effettuare investimenti anche di altro tipo. Non solo: abbiamo cominciato a dedicare tempo e risorse per incrementare la notorietà dell’organizzazione e quindi del “brand”, operazione di supporto sia alla raccolta fondi che alle campagne. Quest’anno, per esempio, abbiamo investito nel marketing (pubblicità e spot televisivi) e nell’incremento della nostra presenza a livello locale 650 mila euro (questi costi vengono considerati per 2/3 come attività di fund raising e per 1/3 come attività programmatica). Le persone ci possono così conoscere guardando la tv oppure incontrando il nostro gruppo di attivisti nella piazza della loro città. La diversificazione dell’income passa inoltre attraverso i contributi pubblici, quelli delle fondazioni, delle aziende, anche se tutto questo non incide mai più del 10%. Abbiamo poi investito per diventare in futuro percettori di donazioni testamentarie, sforzo che naturalmente da i propri frutti solo su un arco di tempo medio-lungo. Riteniamo valga la pena di operare in questo modo anche se i risultati non si raccolgono nell’immediato. Faccio un esempio: investire per diffondere la conoscenza del brand aiuta il fund raising perché consente di incrementare il numero di sottoscrittori del 5X1000. Tuttavia lo Stato paga dopo tre anni. L’investimento fatto oggi non si vedrà quindi nel piano del 2013 e neanche in quello del 2014. Ecco perché considerare le spese con un’ottica di un solo anno talvolta

143 TRASPARENZA E COMUNICAZIONE: GRANDE AMBIGUITÀ


144 DA PREDATORI A IMPRENDITORI

può essere fuorviante: come in qualsiasi organizzazione, serve un equilibrio tra i vantaggi di breve e quelli di medio periodo. Il mondo profit è malato di “short-termismo” e noi cerchiamo di non fare gli stessi errori». L’investimento per trovare fondi è indirizzato alla pubblicità. A ben guardare, tutte le conoscenze che la gente possiede sul mondo del volontariato si devono alla pubblicità. Proprio per questo, quando dobbiamo destinare il 5X1000 - uno degli strumenti nati con l’aiuto dello Stato per raccogliere fondi a favore delle diverse associazioni senza scopo di lucro, piuttosto che degli istituti di ricerca - veniamo bombardati dagli spot di queste realtà che competono tra loro per ottenere il nostro contributo. Un sistema virtuoso, certo, che alle Onlus frutta un notevole profitto. Durante il mese in cui gli italiani compilano la loro dichiarazione dei redditi, le organizzazioni che più spendono in comunicazione e che possiedono il più alto numero di fan su Facebook ottengono i migliori risultati. Una di queste è Emergency che, con i suoi 750.000 fan di Facebook e 3 milioni di investimenti in comunicazione, ottiene così circa 10 milioni, il 31% dei suoi ricavi complessivi. Un’altra è l’Airc, Associazione Italiana per la Ricerca sul Cancro, con 370.000 fan di Facebook e diversi milioni spesi in pubblicità. Come sempre piove sul bagnato. Chi più possiede, più investe e più riceve. Nella classifica delle associazioni beneficiarie del 5X1000, infatti, si piazzano ai posti migliori le più note. Un’altra formula che le associazioni usano per farsi conoscere e raccogliere aiuti è quella dell’SMS solidale. L’SMS solidale funziona nelle situazioni di emergenza. È il caso per esempio del terremoto di Haiti che coinvolse emotivamente ed economicamente il mondo intero, o dello Tsunami in Giappone che vide raccolti in pochi giorni, solo in Italia, circa 50 milioni di euro, molti dei quali, secondo le cronache, alla fine neanche spesi. Il messaggio via cellulare, sull’onda delle catastrofi, si dimostra la fonte principale di raccolta di moltissime associazioni. Qui, occorre avere dalla propria parte un solido network


5X1000: i primi 20 beneficiari Prog Denominazione Numero

Importo delle scelte espresse

Importo totale

1

Emergency - Life Support for civilian War Victims Ong Onlus

363.070

9.955.707,32

10.699.131,30

2

Medici Senza Frontiere Onlus

249.462

7.944.240,17

8 .455.039,23

3

Associazione Italiana per la Ricerca sul Cancro

258.461

5.746.481,96

6 .275.707,42

4

Comitato Italiano Unicef - Onlus

230.581

5.684.125,93

6 .156.264,08

5

AIL - Associazione Italiana contro le leucemie, linfomi e mieloma - Onlus

193.145

4.614.593,77

5 .010.078,45

6

Associazioni Cristiane Lavoratori Italiani

215.716

3.215.671,15

3 .657.372,33

7

Lega del Filo d'Oro Onlus

119.848

3.145.418,06

3 .390.819,43

8

Federazione Nazionale delle associazioni Auser di volontariato

230.369

2.625.950,99

3 .097.655,73

9

Fondazione Ant italia

97.601

2.227.335,18

2 .427.183,48

10

Fondazione dell'ospedale pediatrico Meyer Onlus

94.323

2.044.244,50

2 .237.380,75

11

Associazione world Family of Radio Maria

85.798

1.952.782,56

2 .128.462,98

12

Fondazione piemontese per la ricerca sul cancro Onlus

71.806

1.570.560,46

1 .717.590,79

13

Movimento Cristiano Lavoratori

98.785

1.415.441,73

1 .617.714,40

14

Save the Children Italia Onlus

45.660

1.450.714,88

1 .544.208,53

15

Associazione italiana Celiachia onlus

58.614

1.360.781,07

1 .480.799,39

16

Actionaid international Italia Onlus

45.761

1.312.621,49

1 .406.321,95

17

Vidas - Volontari Italiani domiciliari assistenza ai sofferenti

31.890

1.339.082,39

1 .404.380,52

18

Associazione Opera San Francesco per i poveri

36.682

1.284.257,32

1 .359.367,57

19

Fondazione L'albero della vita onlus

45.728

1.131.332,43

1 .224.965,32

20

L.A.V. - Lega antivivisezione

40.776

1.028.825,21

1 .112.318,36

Fonte: Min. Economia


146 DA PREDATORI A IMPRENDITORI

Nella classifica delle associazioni beneficiarie del 5X1000 si piazzano ai posti migliori le più note

di mezzi di comunicazione pronti a ricevere gli spot di solidarietà e operatori telefonici in collaborazione con i media coinvolti. Si tratta di una specie di grande campagna di comunicazione, in cui però, a differenza di quanto avviene per il 5X1000, non sempre viene premiato il più “ricco”. Vince chi possiede la migliore creatività e il miglior assetto di operatori telefonici-televisivi-radiofonici. Lo definirei uno strumento più democratico. Poi, oltre a questi due strumenti - uno pubblico e l’altro privato - troviamo la normale pubblicità che si concentra soprattutto nelle pagine delle testate femminili, in tv e adesso, molto frequentemente, su Internet. Le campagne (nell’ambito delle Onlus di cui ci stiamo occupando) sono prevalentemente dedicate al sostegno a distanza e sono molto simili fra loro. Ma esistono anche altre vie. Ho notato, per esempio, che alcune strutture, come Save the Children, hanno anche iniziato delle campagne face to face: giovanotti per strada fermano i passanti per commentare lo stato di povertà del mondo e poi chiedono il sostegno a distanza per un bambino. Proprio mentre scrivo, uno di questi ha bussato alla mia porta: si è presentato in modo gentile, dicendo che voleva solo spiegare il progetto, senza lasciare nulla di cartaceo, né chiedere un contributo. Ma in effetti desiderava la mia firma su un modulo che equivaleva alla sottoscrizione di una donazione. Una modalità invasiva che lede la privacy e che, tra l’altro, credo frutti un pagamento in percentuale a chi la propone. Una forma brutale, per scovare casa per casa nuovi donatori, che indica come si sia arrivati un po’ alla frutta. Al contrario, l’Airc ha ideato un sistema originale e apprezzato che riesce ad apportare all’associazione un importante contributo: i suoi volontari, ogni anno a maggio, in occasione della Festa della Mamma, scendono nelle piazze italiane per vendere le celebri azalee della ricerca. La storia ci è stata raccontata da Niccolò Contucci, Direttore Generale dell’Airc: «L’idea delle azalee della ricerca è venuta ben 29 anni fa a un florovivaista di Como, il signor Alfredo Ratti, un nostro associato. Un giorno venne nella sede milanese dell’Airc e ci disse: “ma


perché voi che promuovete sempre iniziative popolari, in cambio della quota associativa, non regalate un fiore?”. E suggerì proprio l’azalea. Bisogna specificare che a quel tempo l’azalea era una pianta piuttosto rara, presente solo nei giardini degli intenditori, e si procurava in Europa. Il progetto fu accolto subito con entusiasmo dall’allora Presidente Guido Venosta che organizzò, con il comitato della Lombardia, la prima esperienza proprio a Milano, in Piazza San Carlo. Un tentativo per capire come sarebbe stata percepita l’iniziativa. Fu un grande successo, tutti i comitati regionali volevano replicarla. Si partì con mille azalee per arrivare alle attuali 600 mila. Un’idea geniale di un socio affezionato che da allora è rimasto fornitore di questi fiori, anche se non è più il solo. L’organizzazione, ora, è infatti diventata molto complessa: dobbiamo appoggiarci a florovivaisti di Udine e belgi, in grado di fornirci azalee identiche. La pianta necessita infatti di 24 mesi per svilupparsi così come siamo abituati a vederla sui tavoli Airc. Ratti monitora con attenzione il percorso di crescita di tutte le talee. Adesso, per esempio, sono state piantate quelle che vedremo in piazza nel 2015. Una volta pronte, le azalee vengono inscatolate e caricate sui camion che le portano in Italia. Il trasporto deve essere rapido e ben organizzato per evitare che si rovinino. Ci rivolgiamo a fornitori esperti che con grossi autoarticolati si dirigono alle varie piattaforme provinciali da cui, la mattina della Festa della Mamma, partono migliaia di furgoncini per le 3600 piazze italiane. Qui scaricano esattamente la quantità di piante richiesta: si tratta di un’operazione chirurgica. Ogni volontario sa quante ne potrà distribuire in piazza in base ai dati dell’anno precedente e alla sua conoscenza del territorio. Insieme all’azalea viene rilasciata una ricevuta relativa alla quota associativa e il nostro house organ. È un progetto che va molto bene: nel 2012, Airc ha raccolto 104 milioni di euro, 9,4 dei quali grazie alle azalee della ricerca. Senza considerare il 5X1000 (il 52,4% delle entrate), infatti, la raccolta con le azalee vale 1/5 del totale. Il resto lo fanno l’attività di raccolta postale, importantissima (21,4 milioni di euro), la raccolta fondi televisiva tramite sms o numero solidale (circa 4,8 milioni) e le “arance della salute” (3,2 milioni e mezzo). Per le azalee spendiamo - considerato acquisto,

147 TRASPARENZA E COMUNICAZIONE: GRANDE AMBIGUITÀ

Si partì con mille azalee per arrivare alle attuali 600 mila


148 DA PREDATORI A IMPRENDITORI

Nel 2012, Airc ha raccolto 104 milioni di euro, 9,4 dei quali grazie alle azalee della ricerca

trasporto e comunicazione - 4 milioni e 400 mila euro, circa il 47% rispetto al ricavato. Ma alla fine dell’anno, quando si fa il bilancio complessivo, ci rendiamo conto che abbiamo investito per la raccolta fondi il 13,5% di quanto ottenuto: questo perché iniziative come l’azalea, l’arancia o i giorni della ricerca hanno certamente una funzione importante sul momento ma possono avere ricadute positive e non calcolabili anche successivamente. Noi, insieme al fiore, diamo infatti anche il codice fiscale di Airc per il 5X100. È possibile che, “grazie all’azalea”, le persone poi ci donino anche il 5X1000. In questo modo, vanno ulteriormente ad ammortizzarsi i costi dell’iniziativa. Ecco perché risulta importante valutare solo a fine anno, facendo un rendiconto generale». In sintesi: pubblicità classica, eventi, pubbliche relazioni, cene solidali, direct mailing, face to face, marketing, sms solidali e 5X1000 fanno il kit di pronto uso per la ricerca dei fondi.

Le campagne di denuncia: il lato nobile della comunicazione Questi fondi sono utilizzati per trovare altri donatori, per portare avanti la propria missione ogni giorno, per aiutare le popolazioni in difficoltà e per fare avanzare la ricerca scientifica, ma anche per denunciare gli abusi e per tutelare i diritti. E proprio qui la comunicazione gioca il suo ruolo più nobile e importante, mettendosi al servizio delle grandi battaglie che vogliono portare all’attenzione del largo pubblico e delle Istituzioni problematiche che affliggono tante aree dimenticate del mondo e che si propongono anche di fare rispettare il diritto al cibo e alla salute, il diritto a mantenere intatto l’ambiente e il diritto alla parità di genere. Tra le innumerevoli campagne effettuate da altrettante associazioni, ne ho scelte due per ricordare in che modo abbiano colpito l’immaginario collettivo al momento della loro diffusione. Storico lo spot lanciato da Greenpeace nel 2008 contro la multinazionale Unilever accusata di utilizzare, nel confezionamento dei suoi prodotti a marchio Dove, olio di palma reperito deforestando


selvaggiamente l’Indonesia. Nel video si vede una bambina indonesiana di circa sei anni che assiste al processo di distruzione forestale. Della rigogliosa macchia, alla fine, non resta che un terreno martoriato e sullo sfondo dell'immagine la frase: “Quando Azizah (la bimba protagonista dello spot) avrà 25 anni, il 98% della foresta indonesiana sarà sparito. L’olio di palma utilizzato nei prodotti Dove è uno dei principali colpevoli di questa deforestazione. Ditelo a Dove prima che sia troppo tardi”. Ma anche quello realizzato da Amnesty International, più o meno un anno fa, contro la tratta delle donne per scopi sessuali. Lo spot mostra un terribile capannone pieno di giovani maltrattate e vendute al miglior offerente tramite un’asta. Una di loro cerca di scappare ma viene bloccata con violenza e acquistata a sua volta, finendo “in vetrina”. Sotto il suo viso che non tradisce più alcuna emozione si legge: “500 mila ragazze vengono vendute ogni anno all’industria del sesso. La schiavitù deve ancora essere abolita”. Due campagne che hanno fatto un pezzo di storia della comunicazione. Voi le ricordate? No. Nessuno le ricorda. Perché per rendere una campagna del genere nota come se fosse un famoso brand si dovrebbero spendere milioni e milioni di dollari che le associazioni non possiedono. Ecco allora che lo spot diventa il mezzo per dare il via al processo di denuncia, una specie di miccia: viene generalmente pubblicato su You Tube, un’ottima cassa di risonanza, e lancia un’accusa, spesso contro un prodotto o un’azienda, altre volte contro uno Stato. A questo punto, l’impresa “incriminata” si spaventa e cerca una negoziazione con l’associazione prima che la voce si espanda. A seconda della battaglia, si riesce a trovare un rimedio in tempi brevi oppure si aprono lunghe trattative. Con gli Stati è più complesso, ma anche in tal caso la comunicazione è essenziale per aprire il dibattito: si pensi all’infibulazione in molti Paesi dell’Africa, piuttosto che alla violazione dei diritti di genere, oppure alla pedofilia in ambito ecclesiastico o ancora alle tor-

149 TRASPARENZA E COMUNICAZIONE: GRANDE AMBIGUITÀ

Lo spot diventa il mezzo per dare il via al processo di denuncia


150 DA PREDATORI A IMPRENDITORI

ture inflitte ai prigionieri iracheni da parte dei soldati americani. Riassumendo: singole associazioni, ONG, gruppi organizzati denunciano l’abuso e utilizzano la comunicazione per dare il via alla battaglia. Se il progetto è solido, il processo prosegue e gli spot continuano a rappresentare l’arma che fa da ripetitore per ogni nuovo passo compiuto verso l’obiettivo. In una frase: senza comunicazione, non può esserci alcun inizio.



7


CORPORATE SOCIAL RESPONSIBILITY: FINTA, FINITA O SOLO SUPERATA?

«Ad esempio si crede che la coesistenza tra capitalismo e democrazia sia “naturale”. Ma le cose stanno ben diversamente. La democrazia ha come scopo ultimo l’unità di libertà ed eguaglianza e si oppone a una libertà di impresa che riduca o addirittura cancelli l’eguaglianza; il capitalismo ha come scopo ultimo l’incremento indefinito del profitto privato e si oppone a un’eguaglianza che riduca oltre certi limiti quell’incremento. Entrambi vogliono che il loro sia anche lo scopo ultimo della società. L’una vuole che l’efficienza non comprometta la solidarietà; l’altro vuole che la solidarietà non comprometta l’efficienza. Ma l’equilibrio tra solidarietà ed efficienza è un miraggio. Lo scopo di un’azione umana ne è il padrone. E non si servono due padroni». Così racconta Emanuele Severino, il filosofo più famoso del nostro Paese, nel suo ultimo libro “Capitalismo senza futuro”, che va a colpire duramente le imprese di tutto il mondo. Del resto l’aveva detto anche Gesù: “non potete servire a Dio e a Mammona” - dove per Mammona (dall’aramaico Mamon, tesoro sotterraneo) si intende la ricchezza materiale.

153


154 DA PREDATORI A IMPRENDITORI

Le imprese ricorrono alla Csr perlopiù spinte dalla necessità di contenere i rischi o di dare di sé un’immagine virtuosa

Csr: marketing, immagine o solo risk management? Nel suo saggio, Severino analizza la fase di tramonto del capitalismo, che verrà emarginato e superato dalla globalizzazione tecnologica, e pone fortemente l’accento sul rapporto conflittuale tra l’intero sistema economico occidentale e la solidarietà, l’uguaglianza, la libertà dell’individuo e la tutela ambientale. Un conflitto all’apparenza insolubile, al quale tuttavia le aziende - gli strumenti dell’economia capitalistica - devono cercare di trovare una risoluzione per sopravvivere. Ci stanno provando? Poco, molto poco. Questo capitolo cerca di chiarire i processi attuati finora dalle imprese in tal senso. Si tratta di un cammino articolato che noi ripercorreremo narrando la storia della famosa Csr - Corporate Social Responsibility (in Italia Rsi - Responsabilità Sociale di Impresa), quell’insieme di interventi messi in atto dalle realtà aziendali per gestire le problematiche etiche, sociali e ambientali generate nelle aree in cui operano. Un sistema che presenta grandi limiti e che funziona come una sorta di “tappabuchi” a cui le imprese ricorrono, perlopiù spinte dalla necessità di contenere i rischi, “ridurre il risk management” o di dare di sé un’immagine virtuosa. Spesso si tratta di interventi difensivi, attuati in risposta alla pressione di un Governo o degli stessi consumatori, sempre più sensibili alle questioni sociali e ambientali. “Non va dimenticato che la responsabilità sociale è in grado di stimolare un maggior impegno dei lavoratori mentre dal punto di vista dei clienti va incontro a quella crescente fetta di consumatori disposti a pagare un premio di prezzo in cambio di garanzie etiche di prodotto. Per non parlare della sostenibilità ambientale dove l’adozione di buone pratiche non fa bene solo alla reputazione ma può determinare anche sostanziali risparmi nei costi e una più efficiente gestione del ciclo produttivo” scrive il giornalista Elio Silva su Il Sole 24 Ore il 23 marzo 2013, riducendo la Csr per lo più a una forma di marketing, distante dal concetto base di necessaria assunzione di responsabilità. Una responsabilità grandissima che le aziende hanno nei confronti del Pianeta perché producono sfruttando risorse idriche ed energetiche, depauperando terreni fertili, devastando le foreste, esaurendo le


miniere. Senza ridare indietro nulla, senza pagare una tassa della sostenibilità. Le imprese fanno solo quello che risulta strettamente necessario, come dicevamo, perché imposto dai Governi, dal marketing o per rimediare a un danno. È il caso di Coca Cola che ha rivisto le sue politiche sull’acqua dopo che lo stato del Kerala, in India, ha condannato la multinazionale a un risarcimento di oltre 350 milioni di euro per aver sovra-sfruttato le risorse idriche della zona, contaminando campi e falde acquifere con metalli pesanti e mettendo in pericolo la salute della popolazione locale; ma anche quello della British Petroleum (BP), il gigante petrolifero che si auto-proponeva come campione di efficienza ambientale e che, a causa dell’esplosione della piattaforma Deep Water Horizon nel Golfo del Messico, ha provocato il disastro ambientale più grande del secolo. Strategie di previsione e risposta al danno: nessuna.

Behind the Brands: food companies scorecard

Fonte: Oxfam companies report 2012

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Il movimento della sostenibilità sta avanzando e presto eserciterà il suo potere, richiedendo un conto salato


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Nell’ottica di evitare danni alla sicurezza, alla libertà e alla dignità umana, nasce la Csr

Non solo. L’amministratore delegato della multinazionale non si dimise finché non fu lo stesso Presidente americano Barack Obama a intimare il suo allontanamento. In tal senso, poi, possiamo anche citare la Union Carbide (colosso chimico, oggi sparito in successive fusioni, che ostentava attenzione verso la sicurezza e la sostenibilità) che, poco meno di 30 anni fa, ha causato la morte di circa 15.000 persone a Bophal, in India, per la fuoriuscita di 40 tonnellate di isocinato di metile da un suo stabilimento. Il disastro è raccontato nel libro “Mezzanotte e cinque a Bophal” di Domenique La Pierre. Gli esempi sono infiniti. È credibile che si possa andare avanti così? La risposta è no. Il movimento della sostenibilità sta avanzando e presto eserciterà il suo potere, richiedendo un conto salato. Le ONG, alla disperata ricerca di nuove cause, amplificheranno questa eco: ne è un esempio Oxfam che ha già prodotto un libello di denuncia durissimo contro le prime dieci multinazionali dell’alimentazione (di cui ci ha parlato Maurizia Iachino in uno dei precedenti capitoli). A quel punto, gli Stati, sotto grande pressione, saranno costretti a legiferare per regolare le attività aziendali e alzeranno le tasse in modo esponenziale. Il famoso tributo alla sostenibilità. Sicuramente i gradi di intervento saranno diversi in rapporto all’impresa e alla latitudine/ longitudine in cui si trova. Tuttavia, poiché le maggiori realtà sono multinazionali, queste attireranno in tutti i Paesi di attività le nuove regolamentazioni, coinvolgendo anche le piccole imprese locali. La domanda banale che noi poniamo è: non farebbero bene le imprese a guardare avanti, abbandonando la miopia che le attanaglia, e ad autodisciplinarsi in modo serio? Lo scopo di questo libro è proprio quello di suggerire alle aziende come attrezzarsi in anticipo. Ma prima di parlare del futuro, raccontiamo la storia e il punto di arrivo di questa Csr nostrana.

La Csr: una storia lenta e di sola immagine Partiamo dai primordi. L'articolo 41 della Costituzione Italiana recita: "L'iniziativa economica privata è libe-


ra. Non può svolgersi in contrasto con l'utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana. La legge determina i programmi e i controlli opportuni perché l'attività economica pubblica e privata possa essere indirizzata e coordinata a fini sociali." E proprio nell’ottica di evitare danni alla sicurezza, alla libertà e alla dignità umana, nasce la Csr quello strumento che, come dicevamo, prescrive le modalità “eticamente corrette” di relazione tra le imprese e la società. Uno strumento che comincia a essere preso in considerazione dalla sfera imprenditoriale fin dagli anni ’70 secondo due approcci diversi. Da una parte, la visione liberista dell’economista Milton Friedman, secondo la quale l’unica responsabilità sociale dell’impresa è quella di usare le proprie risorse e dedicarsi ad attività volte ad aumentare i propri profitti, competendo liberamente senza ricorrere all’inganno o alla frode. Dall’altra parte, la concezione di Edward Freeman, che vede l’impresa responsabile verso un più ampio gruppo di portatori di interesse (stakeholder), come i fornitori, i clienti, gli azionisti e la comunità locale, in sintesi tutti gli individui o gruppi che vengono toccati dal modo di operare di un’impresa. “Sebbene negli anni ’60 alcuni gruppi di attivisti sostenessero una nozione più ampia di responsabilità d’impresa, si dovette aspettare fino agli inizi degli anni ’70 prima che questa nozione fosse chiarita grazie alla creazione dell’EPA-Environment Protection Agency (Ente per la protezione dell’ambiente), dell’Equal Employment Opportunity Commision (Commissione per le pari opportunità), dell’Occupational Safety and Health Administration (Ente per la salute e la sicurezza lavorativa) e della Consumer Product Safety Commission (Commissione per la sicurezza dei prodotti di consumo). L’istituzione di questi nuovi enti governativi rendeva evidente che la politica pubblica nazionale riconosceva ufficialmente l’ambiente, i dipendenti e i consumatori come legittimi stakeholder dell’impresa. Da quel momento i manager hanno dovuto lottare per conciliare il loro impegno verso la proprietà dell’impresa con i loro obblighi nei confronti di un sempre più ampio gruppo di stakeholder con aspettative sia legali, sia etiche”, so-

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Da quel momento i manager hanno dovuto lottare per conciliare il loro impegno verso la proprietà dell’impresa con i loro obblighi nei confronti di un sempre più ampio gruppo di stakeholder


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Il tema della credibilità è attuale e reale

steneva Archie B. Carroll - professore emerito presso il Terry College of Business (University of Georgia) - in un suo saggio su questo tema. Il concetto prende dunque forma oltre quarant'anni anni fa, ma la prima definizione ufficiale di Csr arriva solo nel 2001, quando, nel Libro Verde dell’Unione Europea intitolato “Promuovere un quadro europeo per la responsabilità sociale delle imprese”, viene descritta come “l’integrazione volontaria delle preoccupazioni sociali ed ecologiche delle imprese nelle loro operazioni commerciali e nei loro rapporti con le parti interessate”. La definizione rimane tale fino al 2011, quando la Commissione Europea decide di mutarla in “responsabilità delle imprese per gli impatti sulla società”. Questa nuova impostazione sancisce lo slittamento da una prospettiva impresa-centrica a una visione società-centrica e richiede, di fatto, una maggiore adesione ai principi promossi dalle organizzazioni internazionali come l’ILO, Organizzazione internazionale del lavoro, l'OCSE, Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico e l'ONU.

Quando la Csr è certificata, l’azienda è a posto! Al di là delle definizioni, il concetto di Responsabilità Sociale d’Impresa oggi coinvolge molteplici ambiti di intervento: gestionale, strategico ma anche relazionale e comunicativo. Così, negli anni, si è assistito a un proliferare di teorie e approcci, promossi da gruppi di ricerca universitari o da società di consulenza, che sono stati tradotti in strumenti e modelli di gestione aziendale per un agire sostenibile. Ci sono indici, linee guida, standard, certificazioni e via dicendo. Strumenti validi, certo abbastanza complessi e burocratizzati, spesso autoreferenziali. Eccone una breve panoramica. Parlando di società quotate in borsa, le agenzie di valutazione specializzate mettono a disposizione degli investitori informazioni sul modo in cui queste realtà gestiscono gli aspetti ESG (Environment, Society, Governance) rilevanti per il proprio settore di attività. Le valutazioni ESG (o di sostenibilità), in certi casi, si ri-


flettono anche in indici di borsa che annoverano le “migliori della classe” e che sono il punto di riferimento di un numero crescente di prodotti e portafogli d’investimento. Fanno parte di questa tipologia di indici il Dow Jones Sustainability Index (a cura di SAM-Sustainable Asset Management), Ftse4good (a cura di Eiris), ASPI Eurozone (a cura di Vigeo) e il Corporate Responsibility Prime (a cura di Oekom Research). Accanto alla presenza degli indici di borsa, esistono altri strumenti, peraltro a disposizione anche di medie e piccole società non quotate. Tra questi troviamo lo standard SA 8000, emanato dalla Social Accountability International (SAI) e applicabile ad aziende di qualsiasi settore che vogliano valutare e certificare il rispetto dei requisiti minimi in termini di diritti umani e sociali dei lavoratori. Ma anche lo AA1000 Assurance Standard, finalizzato alla verifica dell’attendibilità e della qualità dei sistemi di rendicontazione sociale o di sostenibilità di un’impresa, come per esempio i report relativi a interventi green. L’Assurance include anche la comunicazione dei risultati di questa valutazione per dare credibilità ai suoi utilizzatori. E in effetti il tema della credibilità è attuale e reale: negli anni si è infatti assistito a un proliferare di report, non tanto per rispondere alle preoccupazioni degli stakeholder, quanto più per mantenere elevate le performance finanziarie e tutelare gli interessi degli investitori. Il problema però rimane. Nonostante le aziende comincino a utilizzare questi strumenti di comunicazione e certificazione (il numero rimane comunque ancora basso, attualmente in Europa su 420.000 aziende, solo 2.500 rendono pubblici bilanci di sostenibilità sociale o ambientale), la fiducia generale nei confronti della loro etica è ancora piuttosto bassa. Per rispondere all’esigenza di creare un quadro imparziale e istituzionale di riferimento che emargini le pratiche di responsabilità sociale autoreferenziali o finalizzate all’esclusivo miglioramento dell’immagine dell’impresa, negli ultimissimi anni si è diffuso lo standard Iso 26000, presentato nel 2010 dall’Iso (International Standards Organization). Uno standard del tutto innovativo: si tratta di alcune linee guida nate grazie al lavoro di oltre 500

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In Europa, su 420.000 aziende, solo 2.500 rendono pubblici i bilanci di sostenibilità sociale o ambientale


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esperti provenienti da più di 40 Paesi e da 40 organizzazioni in rappresentanza di tutte le categorie di parti interessate: consumatori, governi, imprenditori, sindacati, ONG, organizzazioni di servizi, di ricerca e accademici. Non è una norma di gestione, né tantomeno è destinato a fini di certificazione: questo significa che un’azienda o un’organizzazione che voglia adottare le nuove Linee Guida non deve affidarsi a una società esterna che ne certifichi l’impegno, piuttosto confrontarsi con le proprie parti interessate, affinché siano le stesse a valutare il rispetto dei contenuti di Iso 26000. Lo standard è stato tradotto e pubblicato dall’Uni (l’ente italiano di normazione aderente all’Iso), diventando così un riferimento nazionale a tutti gli effetti. Un punto di rottura con gli strumenti adottati in precedenza, che ha anche offerto una nuova definizione di responsabilità sociale: “Responsabilità da parte di un’organizzazione per gli impatti delle sue decisioni e delle sue attività sulla società e sull’ambiente, attraverso un comportamento etico e trasparente che contribuisce allo sviluppo sostenibile, inclusi la salute e il benessere della società; tiene conto delle aspettative degli stakeholder; è in conformità con la legge applicabile e

Annuncio Chevron: credere o non credere?


coerente con le norme internazionali di comportamento; è integrato in tutta l’organizzazione e messo in pratica nelle sue relazioni”.

Due casi che raccontano come la Csr sia finta

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Ci sono tuttavia due casi, verificatisi recentemente, che danno il metro della falsità della Csr. Il primo riguarda il crollo della fabbrica di Dacca in Bangladesh, che ha provocato mille morti. Un casermone che doveva ospitare solo cinque piani e che era divenuto invece, a dispetto di tutti i permessi, una grande fabbrica tessile di 9 piani, piena di pesanti macchinari.

Toxic Threads: The Big Fashion Stitch-Up Il rapporto, presentato da Greenpeace International a novembre 2012, riporta i risultati delle analisi chimiche effettuate dall’associazione ambientalista su 141 capi di abbigliamento prodotti da 20 importanti brand di moda diffusi a livello globale (Benetton, Jack & Jones, Only, Vero Moda, Blažek, C & A, Diesel, Esprit, Gap, Armani, H&M, Zara, Levi, Victoria 's Secret, Mango, Marks & Spencer, Metersbonwe, Calvin Klein, Tommy Hilfiger e Vancl). Sotto torchio: jeans, pantaloni, t-shirt, abiti e perfino biancheria intima - per uomo, donna e bambino - acquistati da Greenpeace in 29 diversi Paesi da rivenditori autorizzati. Secondo quanto riportato dalle etichette - in 25 casi l’informazione era però assente - i vestiti sono stati prodotti in 18 differenti nazioni, prevalentemente del Sud del mondo. Dagli esami è emerso come, nella maggior parte degli indumenti, fossero presenti sostanze pericolose per la salute delle persone e dell’ambiente. Per ogni marca sono stati individuati uno o più articoli contenenti NPE, composti nonilfenoloetossilati che possono rilasciare sostanze in grado di alterare il sistema ormonale dell’uomo. I livelli più significativi sono stati riscontrati nei capi firmati ZARA, Metersbonwe, Levi's, C & A, Mango, Calvin Klein, Jack & Jones e Marks & Spencer. Tra questi, la “maglia nera” è andata a ZARA: in alcuni articoli sarebbero stati rilevati anche significativi tassi di ftalati tossici e tracce di un’ammina altamente cancerogena. I composti chimici pericolosi utilizzati nei processi di produzione, quindi, viaggiano all’interno dei prodotti tessili dai siti di realizzazione a quelli di consumo. Questi composti, oltre a essere potenzialmente dannosi per l’uomo, contribuiscono in larga misura all’inquinamento dei corsi d’acqua di tutto il Pianeta, non solo nella fase di produzione dei capi, ma anche durante i lavaggi domestici. Le conseguenze sono drammatiche: tali sostanze possono alterare il sistema riproduttivo delle specie che popolano gli habitat contaminati e, in alcuni casi, permangono nell’ambiente per molto tempo, accumulandosi negli organismi viventi e mettendo a rischio tutta la catena


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L'edificio è crollato su se stesso. Coinvolte le etichette delle migliori marche mondiali, tra cui l’italiana Benetton, che hanno preso le solite distanze e che poi, messe alle strette, hanno dovuto ammettere, se non la colpa, il pressapochismo verso il controllo dei fornitori. Molte di queste hanno firmato un accordo-sicurezza denominato “abiti puliti”. Le aziende americane non hanno aderito. Dove era la Csr? Dov'erano i controllori della filiera? Se andassimo a vedere le certificazioni rilasciate, probabilmente sarebbero impeccabili. Per pochi centesimi, mille persone hanno dato la loro povera vita. Il secondo caso è stato denunciato da Greenpeace e riguarda, invece, la tossicità dei capi di abbigliamento. Tutte le grandi marche tingono all’estero. Tutte con prodotti potenzialmente pericolosi per la salute che in Italia o in Europa sono ormai banditi da decenni, ma in Cina, India, Vietnam, no. Una denuncia che coinvolge le migliori marche che tutti noi indossiamo. Anche in questo caso, dov’era il Csr manager?

Responsabilità sociale vs sostenibilità di impresa: il cambiamento è iniziato, ma non ancora avvenuto In accordo con l’approccio fin qui descritto, vale forse la pena di soffermarsi sulle tipologie di contributo socialmente utile che un’azienda può offrire in termini di creazione di valore condiviso. Ancora oggi, infatti, il concetto di responsabilità sociale d’impresa viene troppo spesso assimilato a quello di filantropia di impresa. Ma la Csr non si identifica con la filantropia e l’erogazione di fondi a realtà non profit rappresenta solo una parte di un sistema molto più ampio. Il concetto di responsabilità sociale d’impresa implica, infatti, l’elaborazione e la messa in atto di strategie e strumenti a livello di governance dell’impresa che condizionino tutto il modo di fare business, andando verso la sostenibilità di impresa (Corporate Sustainability).


Se la Csr rappresenta una modalità di concepire il business come qualcosa di relazionato a territori e comunità - ma più nella misura in cui questi sono portatori di interesse rispetto all’azienda - il concetto di sostenibilità d’impresa porta a riflettere sul fatto che le aziende siano o possano essere un attore decisivo nelle strategie di sviluppo sostenibile. Del resto sono sempre più diffuse, oggi anche in Italia, le iniziative del mondo imprenditoriale che denotano un maggiore impegno volto alla promozione del benessere sociale pensato per le future generazioni. Le pressioni che portano le imprese a incamminarsi in questa direzione sono due. Da un lato, infatti, le condizioni esterne - come per esempio la situazione di squilibrio nella distribuzione della ricchezza - spingono le aziende a rivedere le proprie strategie di sviluppo nei confronti di comunità e ambiente. Dall’altra, laddove l’impresa non abbia la capacità o l’interesse di occuparsi di quanto accade al di fuori di sé, si inseriscono le normative e le regolamentazioni in materia di sostenibilità, insieme ai governi locali, che impongono alle realtà aziendali di compensare o mitigare gli impatti sociali, economici e ambientali che derivano dalle loro attività. Ma questi strumenti e queste iniziative sono il fine o sono il mezzo grazie al quale un’impresa assume un ruolo decisivo come attore di sviluppo? In altre parole, l’agire responsabile è l’obiettivo o il mezzo per ottenere risultati migliori in termini di performance economiche e di reputazione? Le aziende possono catalizzare un nuovo genere di crescita, mettendo sullo stesso piano i propri interessi e quelli dei territori in cui sono presenti? Il dibattito riguardante la fattibilità di un processo di sviluppo che integri le preoccupazioni economiche, sociali, culturali e ambientali è ancora aperto. Inizialmente, i motivi che spingevano all’implementazione di iniziative socialmente responsabili erano attribuite all'identificazione e alla gestione dei rischi, alla riduzione dei costi o alla creazione di una buona reputazione aziendale. In poche parole, la Csr rappresentava un elemento di vantaggio competitivo. Oggi sembra che il vento stia cambiando, complice la pressione che

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Le aziende possono catalizzare un nuovo genere di crescita mettendo sullo stesso piano i propri interessi e quelli dei territori in cui sono presenti?


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arriva sia a livello governativo e istituzionale, sia dagli stessi consumatori. Così, alcune delle grandi aziende riconosciute come “meritevoli” nel campo della Csr stanno rinnovando le politiche interne e gli strumenti di gestione, puntando molto sulla responsabilità sociale o sostenibilità di im-

I passi verso l'economia sociale Stage

What Companies Do

Why they do it

Defensive: Deny existence of problematic To defend against attacks “It’s not our job to fix it.” practices, or responsibility that could affects short- term for addressing them. sales, recruitment, productivity, and the brand. Compliant: Adopt a policy-based To mitigate the erosion “we’ll do just as much compliance approach as of economic value in the as we have to.” a cost of doing business. medium term because of ongoing reputation and litigation risks. Managerial: “it’s Give managers responsibility To mitigate medium-term the business stupid.” for the social issue and erosion of economic value its solution, and integrate and achieve longer-term responsible business gains. practices into daily operations. Strategic: Integrate the societal To enhance economic “it gives us issue into their core value in the long run and a competitive edge.” business strategies. gain first-mover advantage over rivals. Civil: “We need to Promote broad industry To enhance long-term make sure everybody participation in corporate economic value and realize does it.” responsibility. gains through collective action. Fonte: Harvard Businnes Review

Examples Royal Dutch/Shell denied its responsibility for emissions created by the production and distribution of its energy products. Nestlé came under fire for the health dangers of its infant formula: activists claimed that mothers in developing powder with contaminated water. Nestlé communicated the hazard in its marketing messages to new mothers rather than trying to educate them about how to ensure their babies’ overall nutrition. Nike realized that complying with agreed-upon standards in its global supply chains would be impossible if it didn’t also change its daily operations. These changes included eliminating procurement incentives that encouraged buyers to circumvent code compliance to hit targets and secure bonuses. Automobile companies know that their future depends on their ability to develop environmentally safer forms of transportation. Alcohol purveyor Diageo and other top alcohol companies know that restrictive legislation will come unless they involve the whole sector in promoting more responsible drinking practices.


presa. In questo senso - anche per supplire alla mancanza di un quadro di riferimento istituzionale, nell’arco degli ultimi 10 - 15 anni, si sono sviluppate iniziative di business network con l’obiettivo di regolare, su base volontaria, gli impatti delle aziende in termini di sostenibilità. Tra queste troviamo, per esempio, il World Business Council for Sustainable Development (WBCSD), un’organizzazione che raccoglie più di duecento rappresentanti di settori di business differenti con l’obiettivo di elaborare studi, documentare e promuovere buone pratiche di sostenibilità. Un altro network internazionale molto conosciuto è il Global Compact: lanciato dal Segretario Generale delle Nazioni Unite Kofi Annan al World Economic Forum di Davos del 1999. La partecipazione a tale network implica il rispetto volontario e la promozione di dieci principi fondamentali, derivanti dalla Dichiarazione universale

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I principi della sana Csr

DIRITTI UMANI

PRINCIPIO I alle imprese è richiesto di promuovere e rispettare i diritti umani universalmente riconosciuti nell’ambito delle rispettive sfere di influenza; PRINCIPIO II di assicurarsi di non essere, seppure indirettamente, complici negli abusi dei diritti umani. PRINCIPIO III alle imprese è richiesto di sostenere la libertà di associazione dei lavoratori e riconoscere il diritto alla contrattazione collettiva;

LAVORO

PRINCIPIO IV l’eliminazione di tutte le forme di lavoro forzato e obbligatorio; PRINCIPIO V l’effettiva eliminazione del lavoro minorile; PRINCIPIO VI l’eliminazione di ogni forma di discriminazione in materia di impiego e professione; PRINCIPIO VII alle imprese è richiesto di sostenere un approccio preventivo nei confronti delle sfide ambientali;

AMBIENTE

PRINCIPIO VIII di intraprendere iniziative che promuovano una maggiore responsabilità ambientale; PRINCIPIO IX di incoraggiare lo sviluppo e la diffusione di tecnologie che rispettino l’ambiente.

LOTTA ALLA CORRUZIONE

PRINCIPIO X le imprese si impegnano a contrastare la corruzione in ogni sua forma, incluse l'estorsione e le tangenti.


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dei Diritti Umani, dalla Dichiarazione dell'Organizzazione Internazionale del Lavoro sui Principi e i Diritti fondamentali nel Lavoro, dalla Dichiarazione di Rio su Ambiente e Sviluppo e dalla Convezione delle Nazioni Unite contro la Corruzione. Questi sono solo alcuni degli esempi che dimostrano come stia avvenendo, anche dal punto di vista del business, un cambio di prospettiva rispetto al ruolo delle imprese nel complesso panorama dello sviluppo. Resta ora da capire se il comportamento delle aziende sia effettivamente sostenibile. In tal senso, esistono settori di business con impatti più significativi di altri, per i quali risulta indispensabile sviluppare strategie di sostenibilità che siano coerenti con le necessità dei contesti locali in cui questi operano. Al centro del dibattito rimane la capacità di creare strumenti, metodologie e partnership che permettano alle aziende di generare realmente un valore condiviso: analizzando e conoscendo i contesti in cui lavorano, individuando modalità per raccogliere i bisogni locali, elaborando strategie di investimento per soddisfare questi bisogni, ma anche monitorando e valutando i risultati e gli impatti legati al business e agli investimenti. Punti su cui c’è sicuramente ancora molto da lavorare. A questo proposito, l’Unione Europea tramite il Csr Europe, il principale network aziendale europeo per la responsabilità sociale, mette in luce quali saranno le principali sfide dei prossimi anni e offre una serie di strumenti alle aziende per ricalibrarsi e mettere ulteriormente a fuoco iniziative di cooperazione e innovazione. Così, all’interno di Enterprise 2020 - iniziativa lanciata proprio dal Csr Europe per rispondere alle problematiche europee e mondiali che riguardano i nostri attuali modelli di vita e di lavoro, ma anche di consumo di risorse e di comunicazione - sono stati individuati alcuni particolari temi di discussione per il triennio 20112013. Come riporta il grafico, lo sviluppo sostenibile richiede che le questioni vengano affrontate con uno sguardo rivolto al sistema complessivo. Ciò implica che si debbano prendere in considerazione le relazione esistenti tra tutti i diversi elementi, siano essi luoghi, attori e in-


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Enterprise2020 SCARSITÀ DI RISORSE INVECCHIAMENTO DEMOGRAFICO CAMBIAMENTI CLIMATICI/EMISSIONI

CORPORATE SOCIAL RESPONSIBILITY: FINTA, FINITA O SOLO SUPERATA?

CRESCITA DELLA POPOLAZIONE E MIGRAZIONE COMMERCIO GLOBALE POVERTÀ/ISTRUZIONE E UGUAGLIANZA URBANIZZAZIONE E MOBILITÀ DEGRADO AMBIENTALE Fonte: Csr europe

teressi: capitale umano e naturale, capitale economico e sociale, capitale territoriale e paesaggistico, comunità. In particolare, come avevamo anticipato nei capitoli iniziali, i punti su cui porre maggior attenzione saranno la scarsità di risorse, le transizioni demografiche, il climate change ma anche la povertà e l’uguaglianza, l’urbanizzazione, il degrado ambientale e la governance. Aspetti fondamentali con cui le aziende devono fare seriamente i conti.

La nascita delle Fondazioni e dell’innovazione sociale Come rispondere allora concretamente a queste sfide? Ci riescono parzialmente due realtà che analizzeremo nel prossimo capitolo: le fondazioni e le imprese sociali. Le prime sorsero negli Stati Uniti molti anni fa come corollario dell’impresa, riempiendo i vuoti che l’azienda non era in grado di colmare da sola. Un esempio è quello della Ford Foundation, a cui avevamo già fatto riferimento. Nata nel 1936, attualmente ha un patrimonio di parecchi miliardi di dollari e opera in contesti differenti, tutti legati a realtà in cui l’industria automobilistica ha influenza o ha prodotto danni.

Lo sviluppo sostenibile richiede che le questioni vengano affrontate con uno sguardo rivolto al sistema complessivo


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Ma anche quello della fondazione di Bill & Melinda Gates, che si piazza al primo posto con un asset di 34 miliardi di dollari e una spesa annuale di quasi 4 miliardi: piÚ di tutte le ONG internazionali messe assieme. Due dimostrazioni di come gli introiti di un’azienda o di un imprenditore possano essere incanalati verso uno scopo meglio articolato.



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LE FONDAZIONI: NUOVI CHAMPIONS DELLA FILANTROPIA?

Da qualche anno ha preso piede un nuovo rivoluzionario fenomeno, quello del “Giving Pledge”, la grande promessa. A lanciarlo, due degli uomini più ricchi del mondo: Bill Gates e Warren Buffet, i quali hanno convinto più di 100 miliardari americani - le cui ricchezze valgono circa il 20% del reddito Usa - a donare almeno la metà della propria fortuna in beneficienza. Alla base dell’iniziativa nessuno scopo comune, solo una presa di coscienza: possedere un patrimonio galattico implica necessariamente uno sforzo di responsabilità nei confronti degli altri. Così, ciascuno dei 100 miliardari - tra cui si annoverano il sindaco di New York Michael Bloomberg, il produttore cinematografico George Lucas, ma anche l’inventore di Facebook Mark Zuckerberg e il re di una delle catene alberghiere più famose del mondo Barron Hilton - ideerà un suo progetto e investirà ingenti somme per realizzarlo. In questo modo, circa 200 miliardi di dollari in totale - un cifra pari quasi al PIL della Grecia - andranno a foraggiare i più svariati programmi a supporto di chi si trova in difficoltà. Nella maggior parte dei casi sul suolo americano, per un 30% all’estero. Un passo che segna un punto di svolta nel mondo della filantropia e che questi magnati hanno deciso di compiere spesso spinti dalle

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Possedere un patrimonio galattico implica necessariamente uno sforzo di responsabilità nei confronti degli altri


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stesse motivazioni, come si legge sul sito givingpledge. org, in cui ciascuno giustifica la propria scelta con una breve lettera. Eccone degli esempi: “Ho avuto tanta fortuna (per molti immeritata) e quindi ne dono un po’; oppure “Tra i primi ricordi che ho ci sono le esortazioni di mio padre relative all'importanza di restituire ciò che ci è stato dato. Quanto più faccio per gli altri, tanto più sono felice”; o ancora “coloro che hanno beneficiato al massimo del sistema economico della nostra nazione hanno una speciale responsabilità e devono restituire alla società in modo significativo”. E se per molti è importante donare perché si ha avuto fortuna nella vita, per alcuni (una minoranza) sembra l’unica scelta intelligente per gestire e rimettere in circolo la ricchezza, ma anche per garantire un futuro dignitoso ai

CHARITABLE GIVING IN

AMERICA VITAL TO THRIVING COMMUNITIES

THE POWER OF THE CHARITABLE DEDUCTION For every $1 subject to the charitable deduction, communities reap up to $3 in benefits It’s unlikely government could find a more effective way to leverage private investment in vital community services.

Congress threatens to eliminate the charitable deduction as we know it – at the expense of millions of people in need.

The Charitable Ecosystem is brought to you by: The Charitable Giving Coalition

December 2012

“Elected leaders may believe the charitable deduction is an easy mark … But the charitable deduction is different than other itemized deductions. It encourages giving, rewards a selfless act, and helps raise more for charities than would have otherwise been possible.” – Brian Gallagher, president and CEO, United Way Worldwide and Father Larry Snyder, president, Catholic Charities USA

U .S. GENEROSITY : A NATIONAL RESOURCE

! A 100 year tradition

Fonte: United Way Worldwide National Survey 2012

oppose eliminating or reducing the charitable tax deduction.* of donors say eliminating or reducing the charitable tax deduction would have a negative impact on charities and the people they serve.*

THE MESSAGE IS CLEAR: AMERICANS WANT TO PROTECT THE CHARITABLE DEDUCTION


propri figli e ai figli dei propri figli. Motivazione in linea con quel principio di sostenibilità di cui abbiamo lungamente parlato nei precedenti capitoli. Ma la novità di questa manifestazione non risiede tanto nella propensione filantropica degli americani facoltosi - che è cosa nota, quasi una loro tradizione - quanto più nella volontà comune di sottoscrivere un contratto in cui si impegnano a donare una parte significativa del loro patrimonio. Oltre la metà appunto: un contributo così alto da privati non si era mai visto prima d’ora. La quantità diventa “modello”, un segnale forte che sottolinea l’importanza di investire grandi fette dei propri guadagni a vantaggio degli altri e della sostenibilità, evitando di accumulare ricchezza improduttiva e alimentando circoli virtuosi.

*

THIS DIVERSE SECTOR SUPPORTS: • Development of medications and better health care

• Technologies such as the MRI, electron microscope and pacemaker • Housing and shelter for disaster relief and the needy • Arts and cultural activities

• Protection of the environment

Nonprofit provide 10% of America’s workforce: 13.5 million jobs

• And thousands of other programs that enrich American communities

• Nonprofit generate $1.1 trillion every year through human services

• Nonprofit account for 5.4 percent of the GDP and 9 percent of all wages paid

You may wonder, how much is

ON

OFF

BILLION? of Americans report giving to charity each year.*

Up to $5.6 billion is the amount charities and the millions they serve stand to lose if limits are placed on the charitable deduction. That equals the entire budgets of these organizations combined:

1. The American R ed Cross 2. Goodwill Industries International, Inc. 3. Y MCA of the USA

M ILLION

These seven organizations combined serve more than 50 million people each year.

4. Habitat for Humanity 5. Boys & Girls Clubs of America 6. Catholic Charities USA 7. American Cancer Society

*United Way Worldwide National Survey 2012

WHAT’S AT STAKE?

• Educational opportunities and community revitalization

173 LE FONDAZIONI: NUOVI CHAMPIONS DELLA FILANTROPIA?

Un contributo così alto da privati non si era mai visto prima d’ora


174 DA PREDATORI A IMPRENDITORI

Nei Paesi anglosassoni, i contributi sono di minor entità, in compenso il sostegno filantropico è molto diffuso

Le fondazioni americane stanno mutando il Terzo Settore Molti dei 100 miliardari impegnati nell’iniziativa possiedono già grandi fondazioni: largamente diffuse negli Stati Uniti, queste realtà sono nate con scopi benefici e godono di un significativo sistema di detrazione fiscale, difeso strenuamente dal Council on Foundation (COF). Il COF è un’associazione senza scopo di lucro che si occupa di fornire alle organizzazioni filantropiche tutti gli strumenti necessari per svolgere al meglio le loro attività, promuovendo strenuamente virtuosismi e grandi numeri: per esempio, campeggia all’interno del sito web dell’associazione un prospetto che racconta come il mondo del non-profit, proprio grazie alle fondazioni, generi 10 milioni di posti di lavoro al sistema, 1,1 trilioni di servizi umanitari e circa il 5% del Prodotto Interno Lordo americano. Anche se questi dati hanno un sentore di propaganda, è comunque innegabile il ruolo di primaria importanza che le fondazioni svolgono per i servizi sociali del Paese, spesso indispensabile per colmare alcune lacune dello Stato. Un sistema diverso da quello europeo, in cui generalmente - o almeno così dovrebbe essere - i servizi sociali sono sostenuti dallo Stato e dalle tasse dei contribuenti. Nei Paesi anglosassoni, i contributi sono di minor entità, in compenso il sostegno filantropico è molto diffuso: si tratta di una forma di auto-tassazione. E qui emerge la differenza tra uno Stato cosiddetto sociale - che dovrebbe in linea teorica indirizzare i suoi investimenti verso i settori di maggior bisogno - e uno Stato che non lo è, in cui la filantropia si indirizza secondo le valutazioni del privato, senza controlli, senza una rete di collaborazioni, spesso senza un piano. Questo è il limite del Giving Pledge: agisce fuori dal modello della approvazione democratica. In ogni caso, le fondazioni, come anche gli investimenti sociali che tratteremo a breve, sono una sorta di evoluzione darwiniana della specie del non profit: soprattutto grazie a Bill Gates che, con la sua fondazione, ha cominciato ad assistere le persone in difficoltà nei Paesi meno sviluppati, rivoluzionando il ruolo di realtà fino


a quel momento pensate, come dicevamo, esclusivamente per supportare lo Stato nei servizi sociali. Così, mentre le ONG cominciano a perdere il loro smalto e a burocratizzarsi, la Bill e Melinda Gates Foundation si è messa in concorrenza, dando in beneficienza quasi quanto investito dall’insieme di tutte le organizzazioni private di charity. Non solo, ha anche riportato al centro della cooperazione la figura dell’imprenditore interessato a tirare le fila del progetto in prima persona, riducendo al minimo i passaggi amministrativi.

175 LE FONDAZIONI: NUOVI CHAMPIONS DELLA FILANTROPIA?

Gates foundation: financial statements For the years ended December 31, 2011 and 2010. Amounts in thousands of U.S. dollars.

* Prior to 2011, Strategic Media Partnership grants existed inside program areas (e.g., Global Health Program, Global Development Program, United States Program). These grants were consolidated into one portfolio beginning in 2011.

Fonte: 2011 Bill & Melinda Gates Foundation Annual Report


176 DA PREDATORI A IMPRENDITORI

Nata nel 2000, questa fondazione (la più grande del mondo) ha visto i coniugi Gates muovere i primi passi in proprio e commettere anche degli sbagli dovuti all’inesperienza, come sottolineano alcuni commentatori. Per organizzare al meglio e ottimizzare il loro operato, i due fondatori hanno allora assoldato top manager provenienti da ambiti vicini al settore di interesse. A gestire la fondazione, come CEO, attualmente è infatti Jeff Raikes - niente meno che l’ex presidente della Microsoft Business Division. Raikes, nella prefazione al bilancio 2011 - insieme alla nota che annuncia le nomine dei due nuovi capi designati per il Global Health e per il Development Program - informa gli utenti di aver aperto un blog sulla filantropia con lo scopo di descrivere per filo e per segno quanto accadrà all’interno della fondazione, sottolineando che non verranno tralasciate note dolenti o mancanze. Un modo per palesare gli errori fatti, per affermare il principio di trasparenza anche a costo di nuocere alla immagine. Perché, come lui stesso afferma, nel mondo delle charity non c’è critica, né concorrenza e questo rappresenta il vero e proprio tallone d’Achille delle ONG e del non-profit in generale. Si tratta di uno degli aspetti chiave alla base del cattivo funzionamento di questo sistema. La fondazione opera in diversi settori, si occupa di garantire servizi igienico-sanitari, di fornire vaccini, di combattere malaria e denutrizione ma anche di sviluppo agricolo e supporto familiare, spendendo ogni anno 3 miliardi e 200 milioni per i programmi. Questi fondi sono prelevati dal patrimonio della fondazione, che ammonta a 34 miliardi di dollari. Va specificato che le fondazioni Usa sono quasi tutte grant makers, fanno uso cioè delle loro ricchezze, senza chiedere donazioni (come invece avviene nelle grant seekers). Nelle tabelle riportate, viene illustrato come questi soldi vengono utilizzati. Segue le stesse orme un’altra importante fondazione privata, frutto dell’esperienza di un grande capo di Stato: quella di Bill Clinton. Questa realtà investe circa 200 milioni all’anno, il 65% del totale, in programmi per la salute. Il resto viene indirizzato a progetti per contrastare gli effetti del surriscaldamento globale e per la


crescita sostenibile e internazionale. Vale più o meno come ActionAid. A differenza della Bill e Melinda Gates Foundation, però, la fondazione Clinton - oltre al suo patrimonio di 200 milioni - raccoglie circa 250 milioni all’anno, si tratta quindi anche di un grant seeker. La sua vera forza è quella di acquistare medicinali salvavita dalle grandi industrie farmaceutiche, trattando il prezzo al ribasso (riuscendoci, sospetto, anche tramite vere e proprie “minacce” da ex capo di Stato) e di donarli ai Paesi bisognosi. I risultati di questa operazione sono espressi nel depliant informativo che recita: Gli americani adorano i numeri: 4 milioni di persone sono state aiutate grazie alla negoziazione dei prezzi dei farmaci salvavita; 340.000 bambini in 34 Paesi, i costi dei farmaci sono stati ridotti dell’80%, generando un risparmio di 1 miliardo nei 34 Paesi d’intervento”.

177 LE FONDAZIONI: NUOVI CHAMPIONS DELLA FILANTROPIA?

Gates foundation: integrated approach Through better coordination of our work in health and development, our new Global Programs structure provides more holistic support to the people we serve.

Fonte: 2011 Bill & Melinda Gates Foundation Annual Report


178

Bill Clinton foundation

DA PREDATORI A IMPRENDITORI

Fonte: Bill Clinton 2011 annual Report

Un sistema, quello delle fondazioni private, che funziona bene e che per efficienza supera di gran lunga quello delle Onlus fin qui menzionate. Tuttavia, presenta una debolezza che non può essere trascurata: non denuncia, non sensibilizza il largo pubblico e di conseguenza impedisce che dal basso si creino movimenti atti a fare pressione sui Governi affinché i problemi possano essere risolti. Ma le fondazioni Usa non sono esclusivamente di tipo privato. Accanto a queste realtà - che rappresentano la più gran-


de fetta della torta (nel solo 2010 hanno donato 32,5 miliardi, il 71% del totale) - troviamo le fondazioni “operative”, che organizzano i servizi (4,3 miliardi, il 9% della torta complessiva); le fondazioni delle community, legate a una particolare città o area (famosa quella della Silicon Valley), che contribuiscono con 4,2 miliardi e infine le fondazioni di impresa, che spendono 4,9 miliardi - pari all’11%.

179 LE FONDAZIONI: NUOVI CHAMPIONS DELLA FILANTROPIA?

Gates foundation: financial position As of December 31, 2011 and 2010. Amounts in thousands of U.S. dollars. 2011

2010

ASSETS Cash Beneficial interest in the net assets of Bill & Melinda Gates Foundation Trust Prepaid expenses and other assets

10,810 33,778,997

5,183 (1)

36,720,209

3,963

3,841

Program-related investments, net

129,658

37,828

Property and equipment, net

716,695

Total Assets

(2)

$34,640,123

663,090

(1)

(2)

$37,430,151

LIABILITIES AND NET ASSETS Liabilities Accounts payable

52,502

Accrued and other liabilities

46,835

Grants payable, net

5,705,046

Total Liabilities

5,804,383

58,003 43,915 (3)

4,553,260

(3)

4,655,178

Net Assets Unrestricted

Total Liabilities and Net Assets

28,835,740

32,774,973

$34,640,123

$37,430,151

Fonte: 2011 Bill & Melinda Gates Foundation annual report (1) The Bill & Melinda Gates Foundation has a two-entity structure. One entity, the Bill & Melinda Gates Foundation (“foundation”), distributes money to grantees. The other, the Bill & Melinda Gates Foundation Trust (“trust”), manages the endowment assets. The foundation and the trust are separate legal entities with independently audited financial statements. However, the legal documents that govern the trust obligate it to fund the foundation in whatever dollar amounts are necessary to accomplish the foundation’s charitable purposes. Because the foundation has the legal right to call upon the assets of the trust, the foundation’s financial statements reflect an interest in the net assets of the trust in accordance with generally accepted accounting principles (GAAP). (2) Property and equipment for the foundation includes land and capitalized expenditures related to the foundation’s new campus headquarters, completed in May 2011 and located in downtown Seattle. IRIS Holdings, LLC (IRIS) is the legal entity that owns the land and campus buildings. Since the foundation is the sole owner of IRIS, the financial statements of the two entities are presented here on a consolidated basis. (3) Grants payable reflects the total amount of grants approved for payment in future periods ($6.1 billion in 2011 and $4.7 billion in 2010), discounted to the

(1) The Bill & Melinda Gates Foundation has a two-entity structure. One entity, the Bill & Melinda Gates Foundation (“foundation”), distributes money to grantees. The present value as of December 31, 2011 and 2010, as required by GAAP. other, the Bill & Melinda Gates Foundation Trust (“trust”), manages the endowment assets. The foundation and the trust are separate legal entities with independently audited financial statements. However, the legal documents that govern the trust obligate it to fund the foundation in whatever dollar amounts are necessary to accomplish foundation’s purposes.about Because the financial foundation has the legal right to calltrust upon the assets the trust, the foundation’s financial GeneraltheNote: Morecharitable information the positions of the and theoffoundation are available instatements their respective reflect an interest in the net assets of the trust in accordance with generally accepted accounting principles (GAAP).

provided on the foundation’s website.

(2) Property and equipment for the foundation includes land and capitalized expenditures related to the foundation’s new campus headquarters, completed in May 2011 and located in downtown Seattle. IRIS Holdings, LLC (IRIS) is the legal entity that owns the land and campus buildings. Since the foundation is the sole owner of IRIS, the financial statements of the two entities are presented here on a consolidated basis. (3) Grants payable reflects the total amount of grants approved for payment in future periods ($6.1 billion in 2011 and $4.7 billion in 2010), discounted to the present value as of December 31, 2011 and 2010, as required by GAAP. General Note: More information about the financial positions of the trust and the foundation are available in their respective audited financial statements provided on the foundation’s website.

audited financial statements


180 DA PREDATORI A IMPRENDITORI

Top 20 american foundation RANK NAME/(STATE)

TOTAL GIVING

1.

$ 3.239.412,88

Bill & Melinda Gates Foundation (WA)

2.

Abbott Patient Assistance Foundation (IL)

$ 594.182,25

3.

Pfizer Patient Assistance Foundation, Inc. (NY)

$ 569.495,44

4.

GlaxoSmithKline Patient Access Programs Foundation (NC)

$ 555.867,03

5.

Genentech Access To Care Foundation (CA)

$ 553.352,28

6.

Lilly Cares Foundation, Inc. (IN)

$ 504.948,12

7.

Sanofi Foundation for North America (NJ)

$ 497.491,47

8.

Johnson & Johnson Patient Assistance Foundation, Inc. (NJ)

$ 496.523,98

9.

Walton Family Foundation, Inc. (AR)

$ 487.795,35

10.

Ford Foundation (NY)

$ 478.286,00

11.

The Bristol-Myers Squibb Patient Assistance Foundation, Inc. (NY)

$ 472.208,17

12.

Merck Patient Assistance Program, Inc. (NJ)

$ 441.424,92

13.

The Robert Wood Johnson Foundation (NJ)

$ 386.290,49

14.

The William and Flora Hewlett Foundation (CA)

$ 353.626,58

15.

The Susan Thompson Buffett Foundation (NE)

$ 347.175,16

16.

W. K. Kellogg Foundation (MI)

$ 296.947,87

17.

Silicon Valley Community Foundation (CA)

$ 249.072,00

18.

Foundation to Promote Open Society (NY)

$ 247.922,91

19.

The Andrew W. Mellon Foundation (NY)

$ 246.850,23

20.

The David and Lucile Packard Foundation (CA)

$ 245.201,55

Fonte: the Foundation center 2012

Nel complesso, pi첫 o meno 46 miliardi annui vengono investiti quasi totalmente sul suolo nazionale. Dei fondi stanziati dalle circa 1300 fondazioni presenti nel database del Foundation Center, infatti, solo il 10% (quindi pi첫 o meno 4 miliardi) viene donato a progetti realizzati fuori dal Paese, il 90% rimane in patria. In questi ultimi anni, poi, a causa della recessione e di vari tormenti finanziari, il patrimonio complessivo delle fondazioni ha


visto una riduzione del 24%. Fenomeno che ha colpito maggiormente gli investimenti internazionali. Considerando che, dei 4 miliardi destinati all’estero, la metà è donata dalla fondazione di Bill Gates, bisognerebbe ringraziare quasi esclusivamente il celebre magnate per “l'interesse” americano verso ciò che risiede oltre confine. Se i miliardari del Giving Pledge - di cui parlavamo all’inizio del capitolo - dovessero seguire le sue orme, le popolazioni che hanno bisogno di aiuto nei diversi Paesi del mondo ne trarrebbero grande vantaggio. A questo punto, mi vorrei soffermare sulle fondazioni d’impresa, realtà interessanti, ancora poco considerate nel nostro Paese. In primo luogo è bene chiedersi: cosa spinge le aziende americane a imbarcarsi in percorsi di questo tipo? Ebbene, la risposta la troviamo all’interno del sito the american foundation, una sorta di bibbia delle fondazioni americane. “La maggior parte delle imprese non si rende conto che la creazione di una fondazione aziendale ben strutturata e ben gestita può aumentare i profitti e il valore azionario. Si stima che meno dell’1% di tutte le aziende americane abbia una fondazione. Questo significa che oltre il 99% delle realtà aziendali stanno perdendo ottime opportunità di ottenere significativi benefici fiscali e finanziari, contribuendo anche a creare progetti di beneficenza nelle loro comunità”. Sempre secondo the american foundation, creare una fondazione aziendale significa godere di svariati vantaggi: per esempio vuol dire aumentare il valore del proprio capitale azionario, migliorare la propria fama rendendo più fedeli i clienti e accrescendo le possibilità di business, ma anche stabilire relazioni strategiche con i funzionari del governo e costruire il “morale” aziendale, coinvolgendo e rendendo orgogliosi dipendenti e azionisti. Generalmente le fondazioni d’impresa investono nei servizi sociali, nell’educazione, negli affari pubblici, nella sanità e nell’arte; anche in questo caso, tuttavia, poco viene devoluto a progetti esteri (5%). Prendiamo per esempio Ups - United Parcel Service - società di spedizioni americana che lavora in tutto il mondo. La sua fondazione, nata nel 1951, si impegna

181 LE FONDAZIONI: NUOVI CHAMPIONS DELLA FILANTROPIA?

Solo il 10% viene donato a progetti realizzati fuori dal Paese


182 DA PREDATORI A IMPRENDITORI

Si stima che meno dell’1% di tutte le aziende americane abbia una fondazione

negli aiuti umanitari e nella tutela ambientale, lavora nel campo dell’istruzione e combatte contro le discriminazioni. Nel 2012, sostiene di aver investito ben 97,5 milioni in queste attività. Oppure la Well Fargo, multinazionale americana di servizi finanziari, una delle banche più grandi e presenti sul territorio Usa, che con la sua fondazione investe in programmi di sostenibilità, in prodotti e servizi di responsabilità sociale, in pratiche di business etico ma anche nel benessere delle comunità in cui opera. Curiosità: uno degli azionisti della Well Fargo è il famoso Warren Buffet che abbiamo nominato all’inizio del capitolo a proposito del Giving Pledge e che ha donato una trentina di miliardi alla fondazione di Bill Gates, sostenendo di non essere in grado di gestire il sociale bene come il collega. Elenchi, esempi, buone condotte che però vedono quasi sempre l’affidamento del lavoro operativo ad associazioni non profit specializzate. E qui assistiamo al risvolto della medaglia. Le fondazioni d’impresa spesso sono dei veri e propri broker, degli intermediari finanziari: individuano l’area di intervento e gli investimenti possibili; successivamente creano il progetto, lo sponsorizzano, redigono dei report da inviare in borsa e aumentano

Corporate foundation giving represented just over one-tenth of total foundation giving in 2010 Operating $ 4.3 billion

9% Indipendent $ 32.5 billion

Community $ 4.2 billion

9%

71% Corporate $ 4.9 billion

11%

Fonte: The Foundation center 2012

Note: Based on total giving by 76,610 grantmaking private and community foundations.


il loro rating. Solo a quel punto danno le sovvenzioni a terzi che si occupano di realizzare il lavoro. Anche in questo caso, i fondi passano di mano in mano e si ripresenta il rischio di una filiera poco trasparente. Per esempio, Ups appalta ad American Red Cross, a Care, a Salvatory Army, a Unhcr e anche all’Unicef, in pratica altri broker che cedono il compito a loro volta, elargendo i soldi delle fondazioni a pioggia e senza un puntuale obiettivo alle associazioni locali, burocratizzando e inficiando il processo virtuoso. Per concludere schematicamente questo discorso, possiamo così sintetizzare: • Le fondazioni americane sono enti collaterali allo Stato che operano soprattutto nel campo dei servizi rivolti alla persona. In Usa, i cittadini pagano meno tasse e hanno meno servizi. Le fasce più agiate, in compenso, donano abbondantemente - in modo forse generalizzato, ma secondo un metodo ben pianificato.

Corporate giving accounted for 5 percent of private philanthropic giving in 2010

Fonte: The Foundation center 2012

183 LE FONDAZIONI: NUOVI CHAMPIONS DELLA FILANTROPIA?


184 DA PREDATORI A IMPRENDITORI

• Le fondazioni di impresa sono più opache, meno organizzate e più “pubblicitarie”: fanno brokeraggio e spesso si affidano a terzi. I loro report sono introvabili. • Le fondazioni indipendenti, invece, quelle dei privati, valgono il 70% del totale e sono le più attive, come dimostrato dai report annuali. Sono, inoltre, più efficienti delle ONG e del non-profit in generale perché spesso condotte e seguite da imprenditori interessati alla causa.

Le nuove generazioni continuano... con richiesta di maggior efficienza. E proprio su questo ultimo punto, vorrei fare una piccola digressione: 21/64 - una società di consulenza non-profit specializzata nella prossima generazione di filantropi - in collaborazione con importanti centri di ricerca, ha

Top 15 Foundations by International Giving, 2010 Foundation

1

Foundation Type 1

Foundation State

Amount of Intl. Grants

No. of Intl. Grants

1. Bill & Melinda Gates Foundation

IN

WA

$1,646,624,977

553

2. Ford Foundation

IN

NY

198,452,178

821

3. Walton Family Foundation

IN

AR

129,977,488

19

4. William and Flora Hewlett Foundation

IN

CA

106,189,687

155

5. Susan Thompson Buffett Foundation

IN

NE

97,161,526

45

6. David and Lucile Packard Foundation

IN

CA

94,265,821

174

7. John D. and Catherine T. MacArthur Foundation

IN

IL

77,952,559

231

8. Rockefeller Foundation

IN

NY

75,096,381

213

9. Bloomberg Family Foundation

IN

NY

74,451,041

8

10. Howard G. Buffett Foundation

IN

IL

62,832,857

69

11. Gordon and Betty Moore Foundation

IN

CA

46,225,737

91

12. Andrew W. Mellon Foundation

IN

NY

41,519,186

129

13. McKnight Foundation

IN

MN

40,993,000

100

14. Carnegie Corporation of New York

IN

NY

39,958,100

93

15. Silicon Valley Community Foundation

CM

CA

33,245,421

406

IN=Independent Foundation; CM=Community Foundation.

Fonte: The Foundation Center, International Grantmaking Update, 2012. Based on a sample of grants of $10,000 or more from 1,330 larger foundations


Health far surpassed all ďŹ elds by share of international giving in 2010

185 LE FONDAZIONI: NUOVI CHAMPIONS DELLA FILANTROPIA?

The Foundation Center, International Grantmaking Update, 2012 . Based on all grants of $10,000 or more awarded by a sample of 1,330 foundations in 2010. 1Includes grants for peace and security, foreign policy, promoting international understanding, and international affairs research/policy. 2Includes grants for public affairs, philanthropy, and general grants to promote civil society. Civil society grants are also found in other categories, such as human rights and international development. 3The Gates Foundation accounted for 2.8 percent of the total number of grants for health.

Fonte: The Foundation center 2012


186 DA PREDATORI A IMPRENDITORI

condotto uno studio, denominato # NEXTGENDONORS, che mira a descrivere i grandi donatori del futuro (la alleghiamo in fondo al libro per chi fosse interessato ad approfondire). Si parte dal presupposto che un gruppo relativamente piccolo di giovani, tra i 25 e i 30 anni (figli di quei personaggi facoltosi che hanno dato vita alle fondazioni), erediterĂ piĂš di 40 miliardi di dollari. La ricerca, prima nel suo genere, ha esaminato allora questo segmento chiave che dovrebbe rappresentare la prossima generazione dei principali donatori Usa. Attraverso un sondaggio online nazionale e interviste approfondite, lo studio

Inflation-adjusted corporate foundation giving has risen modestly in recent years

Corporate foundation giving accounted for just over one-tenth of all giving in 2011

Note: Figures estimated for 2011; due to rounding, figures may not total 100 percent. šExcludes giving by corporate operating foundations.

Fonte: The Foundation center 2012


ha esplorato l’orientamento filantropico del campione osservato, le priorità, le strategie d’azione, i processi decisionali e le attività. I risultati sono stati molto positivi e hanno rilevato come le prossime generazioni doneranno con più efficienza, diventando - con tutta probabilità - la “classe” di filantropi più significativa della storia. Un’indagine che forse trae conclusioni troppo nette e ottimistiche ma che tuttavia descrive bene la traiettoria del domani.

187 LE FONDAZIONI: NUOVI CHAMPIONS DELLA FILANTROPIA?

In Italia vince la forma, non la sostanza E la nostra Italia in questo scenario come si inserisce? Non abbiamo la tradizione americana e da noi lo Stato, ma anche la Chiesa o le associazioni di cittadini valgono molto di più rispetto al settore privato. Il ruolo delle aziende, poi, è scarso: le fondazioni di impresa sono povere, figlie - come dicevamo - più del risk management che della volontà di intraprendere percorsi sostenibili per la salvaguardia del futuro. Gli ultimi dati ne contano circa 2.000, di ogni genere, ma non sono l’espressione di veri e propri progetti legati al DNA dell’impresa: spesso rispondono a criteri allargati della Csr o si dimostrano semplici strumenti di ampliamento della conoscenza della propria area di lavoro. Navigando nei siti delle maggiori fondazioni, si scopre che molte mettono in atto programmi culturali (convegni, studi, ricerche etc.) legati al proprio settore e - oserei dire - alla loro area merceologica. Altre, anche le più importanti, hanno sposato tutti i parametri utili a ottenere i riconoscimenti ufficiali ma fanno poca attività sociale. Guardando le iniziative e leggendo le missioni, ci si rende conto che siamo lontani anni luce dal mondo delle fondazioni americane. Ma anche, ancor più gravemente, dalla consapevolezza che, continuando a operare in questo modo, si spoglia irreversibilmente il Pianeta delle sue ricchezze. I progetti, infatti, non sono ragionati e finalizzati; i fondi sono pochi - quasi tutti da grant maker, con qualche velleità di grant seeker più di forma che di sostanza - do-

Le prossime generazioni doneranno con più efficienza


188

Corporate Foundation Giving Patterns, 2010

DA PREDATORI A IMPRENDITORI

Note: Based on grants of $10,000 or more awarded by a sample of 192 larger corporate foundations. Excludes giving by corporate operating foundations. 1Includes civil rights and social action, community improvement and and voluntarism, and public affairs. development, philanthropy ²Includes religion and the social sciences.

Fonte: The Foundation center 2012

nati “a pioggia” a differenti organizzazioni, in un’azione che tuttavia non presenta un filo logico, né una visione strategica. Come se la filantropia - invece che un percorso studiato - fosse una forma di mecenatismo casuale top down. Più articolato, invece, è il ruolo delle fondazioni bancarie: nate sul territorio, hanno la funzione di restituire alcuni profitti delle banche ai territori di appartenenza. I membri di tali fondazioni sono tutti scelti politicamente e quindi, per essere rieletti, devono correttamente rendicontare al proprio territorio: considerato che resistono in media 25 anni sulla loro poltrona, si può asserire che lavorino in maniera apprezzabile.

Le fondazioni bancarie: uno strumento di redistribuzione clientelare Vorrei fornire qualche numero utile a inquadrare meglio il fenomeno: in totale le fondazioni finanziarie territoriali italiane sono 88: la stragrande maggioranza


(l’80%) è costituita proprio da quelle bancarie. Hanno un patrimonio complessivo di 53 miliardi di euro e finanziano circa 25.000 interventi l’anno, con un valore medio per iniziativa di 40.000 euro cadauna. Operano prevalentemente nel campo della ricerca, dell’assistenza sociale, dell’educazione, della filantropia e della tutela dei beni artistici, architettonici e archeologici (solo 7 dei 21 settori previsti dalla legge del 2000). Spesso secondo una logica clientelare. Dal 2000 al 2011, hanno investito 15,6 miliardi di euro, quindi circa 1,5 miliardi all'anno. Una cifra irrilevante se paragonata ai 4 miliardi di dollari donati dal solo Bill Gates annualmente.

Corporate Foundations by total Giving, 2010

Fonte: The Foundation center 2012

189 LE FONDAZIONI: NUOVI CHAMPIONS DELLA FILANTROPIA?


190 DA PREDATORI A IMPRENDITORI

Sembra quasi che il processo di sostenibilità sia qualcosa di estraneo alle nostre imprese

Tirando qualche somma possiamo dire che in Italia si ha l’impressione di una totale mancanza di consapevolezza da parte delle imprese. Non c’è la percezione dell’importanza, se volete anche strumentale, dell’utilizzo del sociale come parte della missione aziendale. Le fondazioni bancarie sono differenti ma solo perché la storia italiana le ha obbligate e comunque il germe clientelare le condiziona troppo. La tendenza generale, quindi, sembra essere solo quella di salvaguardare la forma e di limitarsi alle prescrizioni di legge. Sembra quasi che il processo di sostenibilità sia qualcosa di estraneo alle nostre imprese e quando viene innescato è solo perché dall’alto qualcuno lo impone. E lo farà sempre di più. Per legge. Perché lo chiederà l’Europa. Perché i cittadini cominciano a pretenderlo.



9


SOCIAL INNOVATION: INVESTIMENTI SOCIALI ED ECONOMIA SOCIALE

Questo capitolo tratteggia il percorso che un’impresa dovrebbe compiere per affrontare il problema della sostenibilità e per superarlo con la filantropia. Non certo per generosità o per buon cuore - o almeno, non soltanto - ma, come abbiamo già sottolineato, per ragioni ben più concrete. Ricordo che parliamo di aziende italiane grandi, medie e piccole, su cui si abbatteranno leggi sempre più severe e tasse sempre più alte. Il ragionamento è banale. Il mondo sta soccombendo sotto la pressione dell’incalzante crescita demografica, degli sconvolgimenti climatici, del sovra-sfruttamento del suolo e delle risorse naturali. Ed è schiacciato dal peso delle imprese che - per far fronte a una domanda sempre più elevata - sfruttano senza tregua terre emerse e mari. Certo, i consumatori continueranno ad aumentare. Tuttavia - visto che il Pianeta è uno solo e già adesso noi viviamo come se ne avessimo a disposizione quasi uno e mezzo - le materie prime scarseggeranno sempre di più e i prezzi dei prodotti si impenneranno. È inevitabile: di fronte a risorse limitate, l’offerta si abbassa, la domanda si alza e il costo del bene schizza alle stelle.

193


194 DA PREDATORI A IMPRENDITORI

Sarà sufficiente un video di segnalazione su You Tube per rovinare l’immagine di un’azienda e per far scattare la sanzione

A quel punto le imprese saranno costrette a modificare i loro comportamenti e vedranno ridursi i margini di profitto. Perché? Perché salirà anche la spesa di produzione dell’articolo, rincarata dalla già citata tassa di sostenibilità. Un tributo che consentirà la “rigenerazione” della risorsa utilizzata - non solo per garantire un futuro alle generazioni di domani - ma anche per permettere alle aziende di continuare a operare, evitando il collasso totale del sistema. A innescare questo circolo, come dicevamo, provvederà un movimento che si sta formando dal basso e che premerà sugli Stati affinché vengano fatte rispettare leggi più stringenti per la tutela ambientale e delle risorse. Funzionerà così: i cittadini si indigneranno, denunceranno i singoli casi e i Governi interverranno, “castigando” chi sgarra, appesantendo le regole e aumentando i tributi. Quando avverrà? Molto prima di quanto ci si aspetti. Basta sfogliare i giornali: gli esempi certo non mancano e coinvolgono realtà di tutte le dimensioni. Oggi si tratta di azioni mirate a contrastare singoli episodi, domani, di una mannaia che andrà a colpire in maniera generalizzata sia chi produce all’interno del proprio Paese, sia chi opera in altre nazioni. Sarà sufficiente un video di segnalazione su You Tube per rovinare l’immagine di un’azienda e per far scattare la sanzione proporzionale al danno arrecato. Ecco la molla che deve spingere, fin da subito, i vertici delle realtà aziendali a ragionare in maniera puntuale su piani che mettano al riparo da tali rischi. Nessuna trita Csr o maquillage green all’acqua di rose: occorrerà fare sul serio. Chi ci riuscirà, sarà vincente e darà lo stacco alla concorrenza. Lo potrà fare utilizzando la nuova frontiera degli investimenti sociali o dell'economia sociale.

La nuova frontiera: gli investimenti sociali Spicca, poi, un altro fenomeno che negli ultimi periodi è in uso: quello degli investimenti sociali. L’investimento sociale ha radici antiche: le origini risal-


gono addirittura al 1758 quando il movimento religioso dei Quaccheri, all’interno del suo meeting annuale, decise di vietare a tutti i fedeli l’acquisto o la vendita di esseri umani. Andando su wikipedia, è possibile trovare una definizione molto chiara: “L’investimento sociale responsabile - noto anche come investimento socialmente consapevole, "verde" o etico e sostenibile - è una strategia di investimento che cerca di considerare sia il ritorno finanziario che quello sociale. In generale, gli investitori socialmente responsabili incoraggiano pratiche aziendali che promuovano la tutela dell'ambiente, la protezione dei consumatori, i diritti umani e la diversità. Gli investitori responsabili non supportano aziende che commerciano alcol, tabacco o che sono coinvolte nel mercato del gioco d'azzardo, della pornografia e del traffico di armi. Le aree di interesse sono, invece, quelle che si occupano dell’ambiente e della giustizia sociale. Oltre alla partecipazione azionaria diretta o attraverso fondi comuni di investimento, gli investimenti possono anche essere fatti all’interno delle comunità”. Faccio un esempio per essere più chiaro: la città di Londra ha appaltato alla St Mungo’s - uno dei principali enti di beneficienza del Regno Unito a supporto delle persone senza fissa dimora - la cura di tutti gli homeless della metropoli. Per compiere questa operazione, l’organizzazione viene finanziata sia dal Comune che da una società che ha coperto i costi iniziali. In questo modo, la St Mungo’s riceve i fondi per accedere a tutti i servizi utili al reinserimento delle persone in difficoltà: dalle cure mediche e psicologiche fino all’assistenza per la ricerca di una casa e di un lavoro. Il budget è prefissato e per ogni obiettivo (condiviso con il Comune) raggiunto, viene stanziato un incentivo. Il sistema si è dimostrato sorprendentemente win-win: il Comune non ha mai avuto così pochi homeless e risparmia notevolmente sulle spese di assistenza. Parte di questo guadagno va a foraggiare il servizio che così cresce, opera ancor meglio e fa guadagnare anche la società che inizialmente ha finanziato l'organizzazione. A tal proposito, così riporta il quotidiano britannico The Guardian nel dicembre 2012: “Il successo di un modello

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L'organizzazione viene finanziata sia dal Comune che da una società che ha coperto i costi iniziali


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Gli investimenti etici e sostenibili sono raddoppiati

di governo sperimentale per il finanziamento dei servizi pubblici dipende in parte dalle sorti di una donna senzatetto che, negli ultimi due anni, ha trascorso la maggior parte delle notti dormendo sugli autobus notturni della capitale. Se i collaboratori della St. Mungo’s riusciranno a trovarle una casa per almeno 12 mesi e dimostreranno un suo minor accesso agli sportelli dell’Assistenza sociale, questo significherà un ritorno finanziario di diverse centinaia di sterline per gli investitori che hanno sostenuto il progetto” Un sistema efficiente che permette a tutti di guadagnare in modo socialmente utile. Un importante esempio di come si sia sviluppata un’azione sociale efficace che - se lasciata al solo volontariato - avrebbe rischiato di non essere incisiva e di non innescare un tale circolo virtuoso. La tendenza è riassunta in maniera egregia da un recente studio realizzato da Eurosif - il forum europeo degli investimenti sostenibili - intitolato “The european high net worth individuals (HNWIs)”. Dalla ricerca emerge come gli investimenti etici e sostenibili siano raddoppiati e come vengano privilegiati da famiglie facoltose (i famosi family offices) e da ricchi industriali. Il risultato è che gli investimenti di impatto, così come vengono anche chiamati, sono diventati ormai una disciplina finanziaria.

Grameen bank e altri esempi Il primo esempio eclatante di un’operazione di questo tipo è stato quello della Grameen Bank. Si tratta di una banca per lo sviluppo comunitario, una sorta di organizzazione di microcredito avviata in Bangladesh dal professor Muhammad Yunus - docente all'Università di Chittagong (la seconda città più grande del Paese) - e pensata per concedere piccoli prestiti alle persone senza reddito delle zone rurali. L’obiettivo è quello di garantire loro la possibilità di avviare un percorso lavorativo e di diventare indipendenti finanziariamente. Il capitale dei nuovi risparmiatori si trasforma a sua volta in prestiti, alimentando un circolo virtuoso. La banca è


completamente non-profit e trae finanziamenti da fonti diverse: inizialmente si trattava di ONG, poi si è inserita la fondazione Ford, fino ad arrivare alla banca centrale del Bangladesh. Recentemente, la Grameen, per sostenersi, ha iniziato a vendere titoli. Le obbligazioni sono però implicitamente sovvenzionate, in quanto garantite dal Governo e vendute al di sopra del tasso bancario. Un metodo che ha funzionato, consentendo a milioni di persone di uscire dalla povertà e alla Grameen Bank di diventare la prima banca del Paese. Grazie al successo ottenuto, sia l’organizzazione che il suo fondatore hanno vinto il Premio Nobel per la Pace nel 2006. Tra le sue tante attività, l’organizzazione è riuscita a coinvolgere anche la multinazionale francese Danone nella produzione “sociale”, quindi senza profitti apparenti, di uno yogurt in Bangladesh che ha avuto un grande successo di pubblico e di critica. Con un notevole ritorno di immagine per il colosso alimentare. Un altro caso emblematico è quello di Stonyfield Farm – produttore di yogurt 100% biologico del New Hampshire, negli Usa. L’azienda investe un'alta percentuale dei suoi profitti per sostenere diverse cause green. In questo modo, coniuga la lotta per la tutela delle risorse e dell’ambiente (che consentono poi di poter produrre in modo bio e sostenibile) alla genuinità del suo prodotto. L’investimento sociale, come abbiamo visto raccontando esperienze diverse, si declina in tante forme: c’è chi investe e guadagna, chi usa i suoi profitti per cause etiche e ambientali, chi utilizza strumenti capitalistici per offrire soluzioni sociali. L’obiettivo è però simile in tutti i casi.

Verso una economia più sociale L'economia sociale naturalmente avrà un costo - è impensabile che un’azienda si incammini sulla strada della sostenibilità senza preventivare una riduzione dei suoi guadagni - e richiede una visione che vada oltre l’immediato. Mi rendo conto che in un momento come quello attuale - in cui la mancanza di stabilità e sicurezza appannano la vista - i manager fatichino a immagina-

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Non si fanno affari su un Pianeta morto

re progetti a lunga scadenza, ma questa non può essere una scusa. Se un’azienda desidera fare economia sociale - e agire responsabilmente verso la società e il territorio in cui vive e lavora - deve partire dal presupposto che sia possibile quello che per il filosofo Severino era impraticabile: conciliare il profitto con la solidarietà. Occorre che l’imprenditore tragga la sua ispirazione dallo spirito di Yvon Chouinard, classe 1938, scalatore e ambientalista, prima che eccentrico fondatore e unico proprietario di Patagonia, il più famoso e rispettato brand di abbigliamento tecnico per climbing, pesca, surf, sci e trekking. Un uomo che ha fatto della responsabilità verso gli uomini e l’ambiente un modello di business tanto da rendere la sua azienda il paradigma della corporate responsibility. In che modo? Producendo in un’ottica green, controllando la sostenibilità di tutta la filiera, remunerando in modo equo i fornitori di materie prime (coltivate o reperite nel rispetto del territorio), preoccupandosi del benessere dei suoi dipendenti, limitando le emissioni di CO2 durante i trasporti e sostenendo cause ambientali importanti. Non a caso, entrando nei suoi uffici si legge la frase: “Non si fanno affari su un Pianeta morto”. Patagonia, poi, insieme ad altri importanti marchi del settore outdoor ha fondato la Conservation Alliance, un’associazione che ha coinvolto oltre 185 aziende con l’obiettivo di finanziare organizzazioni per la conservazione degli habitat minacciati. Nel 2013, il contributo alle cause ambientaliste sfiorerà 1,5 milioni di dollari. Un altro buon esempio a cui accostarsi è quello di Method Cleaning, azienda che si occupa di prodotti per l’igiene personale e della casa. Obiettivo dell’impresa è quello di mettere in circolazione solo articoli che possano diventare “un agente di cambiamento ambientale” grazie all’uso di materiali sicuri, sostenibili e responsabili. «Questo è il motivo per cui - si legge sul sito web dell’azienda - facciamo le nostre bottiglie in plastica riciclata al 100%, perché cerchiamo costantemente di ridurre il carbonio emesso dalla nostra attività (e perché abbiamo compensato il resto), perché non abbiamo mai sperimentato su animali, perché progettiamo prodotti


innovativi utilizzando ingredienti naturali e rinnovabili, perché abbracciamo una filosofia di trasparenza». Di casi virtuosi ce ne sono anche in Italia. Si pensi a Brunello Cucinelli, il re del cashmere made in Italy, l’imprenditore filosofo del capitalismo etico che sul sito della sua azienda riporta: «Oggi vediamo che la politica mondiale, le grandi religioni monoteistiche e il pensiero filosofico sostengono la necessità di un ritorno all’etica in ogni forma di attività. Non a caso, il nuovo orientamento dell’economia va puntando proprio sulla valorizzazione dell’uomo come mezzo per migliorare l’impresa e darle un senso che travalichi il profitto: è ciò che Brunello Cucinelli chiama “bene supremo”». Si tratta di società tutte basate su una filosofia “high giving, low profit” che però non impedisce a queste realtà di primeggiare nel loro settore e di rappresentare esempi di vero e proprio successo imprenditoriale. I fondatori sono dei visionari con un elevato senso del business, capaci di conciliare profitto e solidarietà e di restituire - in termini di servizi, donazioni, sviluppo e uguaglianza - ciò che hanno prelevato a livello di risorse. Alcuni quindi ce la fanno: oggi sono pochi, ma la tendenza come descrive lo studio di Grantcraft, intitolato Philantropy and The social Economy Blue Print 2013 - andrà a coinvolgere sempre più marchi.

Uno sguardo sul futuro prossimo Il rapporto Blue Print, scritto da Lucy Bernholz, una delle più grandi esperte di filantropia, spiega come sia cambiato il modo di investire i fondi privati per il bene pubblico. La filantropia, si legge nel report, non è più competenza esclusiva delle fondazioni o delle associazioni non-profit ma coinvolge anche altri attori e attività, come le imprese sociali, gli investimenti di impatto, il crowdfounding (sistema di finanziamento dal basso, un processo collaborativo in cui le persone mettono insieme il proprio denaro per supportare il progetto di una persona o di una organizzazione) e così via. A proposito di crowdfunding, il fenomeno si sta allargando, nessuno pensa che possa sostituire i progetti

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Il nuovo orientamento dell’economia va puntando proprio sulla valorizzazione dell’uomo come mezzo per migliorare l’impresa e darle un senso che travalichi il profitto


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miliardari di cui l’economia sociale avrà bisogno ma la forma è intrigante e innovativa. Ci sono siti come “Iodono”, “Buonacausa”, “Retedeldono” o “Terzo Valore”, per fare degli esempi, che presentano progetti del Terzo Settore a potenziali sostenitori. Se il progetto è attraente e innovativo, e non troppo costoso, il raggiungimento della cifra richiesta è spesso ottenuto. Quindi, a fronte di progetti semplici e facilmente comunicabili, parlare attraverso il crowfunding è un sistema molto democratico che permette a chiunque di partire senza dover costruire strutture con costi importanti. Da suggerire a coloro che vogliono fare il primo passo e poi strutturarsi.

La strada italiana verso l’economia sociale Prima, però, è opportuno soffermarsi su alcune considerazioni più generali. Dopo aver ripercorso i casi delle fondazioni americane, per non fare paragoni sterili, occorre analizzare gli elementi che caratterizzano il mercato delle imprese italiane e i loro percorsi di solidarietà. Partiamo dalle dimensioni aziendali. Il nostro Paese vanta numerosissime micro-imprese ma non possiede grandi aziende paragonabili a quelle americane o tedesche. Per intenderci, le grosse realtà italiane corrispondono a quelle medie di Stati Uniti e Germania e non sono molte. Abbiamo Eni, Enel e Finmeccanica, controllate dallo Stato, TelecomItalia e Fiat. Poi? Quasi nulla. E purtroppo bisogna dire che la dimensione, nei piani di filantropia, aiuta perché consente di avere risorse interne, cultura aziendale e sufficienti possibilità economiche per attuare piani adeguati. Le gigantesche multinazionali americane, con presenza in centinaia di Paesi del mondo, sono obbligate ad avere un’attenzione globale, sovranazionale. Noi stiamo iniziando adesso a esportare, le nostre imprese sono spesso piccole, a carattere familiare o padronale: è appunto il “padrone” che gestisce ogni cosa e, se decide di impegnarsi nel campo della filantropia, lo fa in prima persona, senza


tuttavia possedere gli strumenti e la cultura necessaria, né un contesto competitivo che lo circondi. Per dare un ordine di grandezza, la fondazione di Bill Gates dona in beneficenza in un anno tanto quanto Eni - la più grande azienda italiana - guadagna annualmente in termini di profitto netto. Questo il rapporto, si tratta di distanze siderali. Secondariamente, bisogna anche considerare l’aspetto culturale. Le aziende italiane sono cresciute in un Paese parrocchiale, missionario, assistenziale, sindacalizzato e statalista: in questo ambito, non hanno sentito il bisogno di supplire alle Istituzioni e di supportare la società attraverso la filantropia. Anzi, hanno lasciato carta bianca allo Stato, versando tasse e contributi importanti per sanità, pensioni, assistenza sociale e via dicendo. Spesso l’espressione massima di supporto al territorio si manifesta attraverso la sponsorizzazione della squadra di calcio del paese di appartenenza, qualcuno si spinge ad aiutare un vecchio conoscente imbarcatosi nel mondo del non-profit. I più attenti danno vita a fondazioni o appoggiano qualche causa onorevole in maniera non organica, né inquadrata in un percorso di sostenibilità più ragionato. Immagino che un Paperone d’America, intenzionato a creare una sua fondazione, vada prima a studiare la concorrenza. E davanti a sé trova esempi come Rockfeller, la Templeton Foundation, Bill Gates e tutta una storia iniziata da oltre 100 anni. Qui, invece, con che cosa ci si può confrontare? Forse con la Fondazione Agnelli e con dati fantasma. Non esistono strutture che facciano consulenza nel campo dell’organizzazione dei progetti di filantropia; che strutturino scenari; che conoscano i mercati e le best practices; che disegnino strategie e aiutino a definire le scelte di base; che seguano passo dopo passo la fondazione, la charity o la Csr, per esempio. Infine, dopo dimensioni e aspetti culturali, un altro male endemico, parlando di imprese italiane, è il clientelismo filantropico - gli aiuti elargiti agli “amici” - oltre che, come già precedentemente riportato, la mancanza di visione. Le nostre grandi aziende hanno infatti spesso sostenuto a pioggia una serie di associazioni senza un

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Il nostro Paese vanta numerosissime micro-imprese ma non possiede grandi aziende paragonabili a quelle americane o tedesche


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La fondazione di Bill Gates dona in beneficenza in un anno tanto quanto Eni guadagna annualmente

filo conduttore complessivo. Un esempio: basta leggere attentamente le iniziative della Fondazione Enel Cuore, la più importante per dimensione di spesa, con circa 5 milioni di euro investiti in donazioni. Non c'è un piano. Salta subito all’occhio una mancanza di cultura della filantropia che il mondo anglosassone o tedesco invece possiede. Se uniamo, quindi, il fattore dimensionale e padronale con quello culturale e “amicale”, ci troviamo a inquadrare uno scenario lontano mille miglia, non solo da quel percorso di sostenibilità a cui tutti dovrebbero tendere, ma anche dalla semplice filantropia tout court. Questo è il panorama italiano aziendale raccontato in modo radicale all’inizio di un’era che dovrà mettere lo sviluppo sostenibile in prima linea e fare della economia sociale il mezzo per evitare il tracollo globale. In che modo? Innanzitutto mutando la concezione stessa del lavoro e del profitto. Si parlava di HIGH GIVING – LOW PROFIT all’inizio del capitolo. In futuro, le imprese dovranno operare per la comunità che le circonda e per il Pianeta, rispettando le persone, l’ambiente e le risorse; dovranno mettere in gioco i propri guadagni per piani autonomi di filantropia; dovranno dimenticare uno Stato che assiste e lo dovranno anticipare. Meglio attrezzarsi da sé prima di venire duramente colpiti, aiutandosi con qualche buon esempio straniero e italiano.

PATAGONIA - Vera economia sociale Patagonia è una società a capitale privato con sede a Ventura, California, che progetta, sviluppa e commercia abbigliamento e attrezzature per una vasta gamma di sport outdoor e da viaggio o per il tempo libero. È soprattutto nota per il design innovativo, i prodotti di qualità e l'impegno a favore dell'ambiente. L’azienda è stata fondata nel 1972 da Yvon e Malinda Chouinard, appassionati alpinisti che iniziarono a porsi il problema dei danni ecologici legati all’arrampicata. Puntando sul principio del rispetto per l’ambiente nel business, i due danno origine al marchio Patagonia, che richiama l’idea di una terra incontaminata, di grandi spazi.


Oggi l’azienda è sinonimo di attenzione per l’ambiente e rappresenta una realtà all’avanguardia sia nell’utilizzo di tessuti organici come il cotone (dal 1996 l’azienda utilizza solo cotone derivante da coltivazioni biologiche) e la lana merino, sia nella ricerca e nella sperimentazione di materiali alternativi. Patagonia è fra le prime aziende a utilizzare il pile e successivamente brevetta il capilene, una fibra artificiale completamente riciclabile. Nel 1989, insieme ad altri tre partner statunitensi di abbigliamento outdoor (The North Face, Kelty, Rey), fonda The Conservation Alliance, fondazione che conta oggi più di un centinaio di membri attivi nella raccolta di fondi destinati alla difesa della biodiversità e del patrimonio naturale del continente nordamericano. Nel 2001, Yvon fonda con Craig Mathews (titolare di Blue Ribbon Files) l’associazione “1% For the Planet”, che raccoglie aziende impegnate a donare annualmente l’1% delle loro vendite a realtà ambientaliste. Nel 2005, parte il “Common Threads Recycling Program”, programma che consente di riciclare i capi Patagonia usati in pile, in capilene, in cotone organico e i pile Polatrec di altri marchi, portandoli nei punti vendita o ai rivenditori specializzati. È l’inizio di un circolo virtuoso del riciclo promosso da Patagonia. Nel 2008, Patagonia lancia il Footprint Chronicles, strumento interattivo che guida il consumatore lungo tutto il percorso della filiera produttiva, dalla materia prima alla distribuzione finale, e permette di individuare distanze, emissioni e impatti legati alla produzione. Sempre nel 2008, Yvon Chouinard annuncia il nuovo progetto: rendere riciclabile tutto l’assortimento Patagonia. “Non comprare la nostra giacca se non ti serve davvero. E se la compri e si sciupa, noi l’aggiusteremo. E se te ne stanchi, ti aiuteremo a trovarle un’altra casa o a venderla. E quando sarà distrutta potrai restituircela e noi la ricicleremo completamente per fabbricare nuovi indumenti. Ci assumeremo la responsabilità totale dei nostri prodotti, da culla a culla”. La mission di Patagonia è: "realizzare il prodotto migliore, non causare danni inutili, utilizzare il business per ispirare e implementare soluzioni per la crisi ambientale". In quest’ottica, fino a oggi, Patagonia ha devolu-

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Ci assumeremo la responsabilità totale dei nostri prodotti, da culla a culla

to circa 40 milioni di dollari in borse di studio, sovvenzioni e donazioni in natura a organizzazioni e gruppi ambientalisti. L’attenzione particolare per la filiera produttiva e per le aziende che fanno parte della catena di fornitura ha portato Patagonia a prevedere per il proprio staff una formazione continua sulle questioni di responsabilità sociale. In questo senso, nel 2007, l’azienda ha affidato a Verité - organizzazione non-profit internazionale di verifica, formazione e sviluppo delle competenze - l'organizzazione di un percorso formativo per i 75 dipendenti che prevede una visita alle fabbriche delle aziende fornitrici, allo scopo di far comprendere tutti i risvolti del Codice di Condotta nel posto di lavoro. Sempre per valorizzare ulteriormente l’approccio sostenibile, nel 2010, la posizione di manager per la responsabilità sociale è stata elevata a quella di direttore per la responsabilità socio-ambientale. Il team SER (Social/ Environmental Responsibility) di Patagonia ha la facoltà di opporsi all'impiego di una nuova fabbrica che non corrisponda a specifici requisiti (come del resto il team addetto alla qualità). Il personale del reparto approvvigionamenti ha partecipato a una formazione dedicata a pratiche responsabili per ridurre al minimo l'impatto negativo delle attività aziendali sui lavoratori degli stabilimenti e sull'ambiente. Infine, alle attività del personale SER partecipano anche i direttori di zona per la qualità.

CUCINELLI - Il cashmere buono Brunello Cucinelli, imprenditore umbro noto per l’amore per l’arte, l’estetica e la filosofia, è fondatore e proprietario dell’omonima azienda di abbigliamernto in cashmere e nel 2012 ha fatto una scelta insolita: dividere i 5 milioni di utili derivati dalla quotazione in Borsa dell’azienda con i suoi 783 dipendenti. L’azienda di Cucinelli ha un valore di 220 milioni di euro (il fatturato dei primi 9 mesi del 2012 registrano una crescita sul 2011 del 15,2%) e ha scelto di dare ai suoi collaboratori circa 6.385 euro, un esempio di anticonformismo rispetto alle tendenze di tagli di personale cui assistiamo oggi. I suoi dipendenti guadagnano quasi


il 30% in più rispetto a quelli di settori affini e attorno all'azienda ruota un indotto che complessivamente vale 3000 posti di lavoro. Spesso ha finanziato Borse di Studio nelle facoltà umanistiche di Perugia e sempre a Cucinelli si deve il primo Master Italia/Cina nel settore tessile. E proprio la passione per l’estetica, unita alle possibilità economiche, hanno spinto Cucinelli a restaurare l’intero antico borgo trecentesco di Solomeo, frazione di Corciano, dotandolo di un teatro da 200 posti (Teatro Cucinelli, appunto), di cui finanzia l’intera stagione, e dell’anfiteatro “Foro degli artisti” per le manifestazioni estive. Questo approccio e le tante iniziative legate, tra le altre cose, al benessere dei dipendenti e del territorio, rendono questo originale imprenditore un punto di riferimento necessario, specie negli attuali tempi di crisi, che aiuta a vedere al di là della crescita economica e a pensare a uno sviluppo umano e sostenibile. E proprio a proposito di sostenibilità ambientale, Cucinelli ha sottoscritto un accordo volontario con l'ex Ministro dell’ambiente Corrado Clini, avviando una collaborazione volta a promuovere iniziative per la valorizzazione della sostenibilità nella produzione tessile, maglieria e moda. In particolare, il progetto è finalizzato alla valutazione dell’impronta ambientale e sociale dei prodotti di punta della storica azienda di cashmere. La Brunello Cucinelli, unendosi ad altre eccellenze del settore tessile, si impegna a condurre la valutazione delle emissioni di CO2 all’interno della propria filiera produttiva, con l’obiettivo di ridurle secondo norme e standard internazionali.

TOD’s - Un inizio promettente Diego Della Valle ha annunciato recentemente che il gruppo destinerà l'1% degli utili a iniziative di solidarietà incentrate in particolare sul proprio territorio e ha lanciato un appello alle altre imprese in salute del Paese affinché facciano altrettanto. «Sono centinaia di milioni che possono essere messi subito a disposizione - ha spiegato Della Valle incontrando la

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I suoi dipendenti guadagnano quasi il 30% in più rispetto a quelli di settori affini


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I soci rinunciano al profitto eventuale della partecipazione

stampa - enormi risorse che possono essere messe a disposizione di chi ha bisogno in tempi brevissimi. Noi destineremo un componente del consiglio di amministrazione a questa iniziativa e destineremo l'1% dell'utile netto del nostro Gruppo a tutto quello che riguarda la solidarietà, con attenzione forte al territorio». Come linee prioritarie di intervento, l'imprenditore marchigiano ha sottolineato di voler sostenere «il mondo dell'infanzia, degli anziani e quello dei giovani che entrano nel mondo del lavoro». «Si tratta di una soluzione non utopica ma realizzabile, ha aggiunto - auspico che gli altri imprenditori fortunati insieme a noi comincino a capire che è una delle cose che noi possiamo fare. Significherebbe fare una finanziaria a modo nostro». Secondo Della Valle l'impegno degli imprenditori con aziende in utile è un intervento "doveroso". «La disperazione vera ha bisogno di avere un po' di conforto nella sostanza e nella forma» ha concluso.

VITA - In borsa socialmente «Vita - ci racconta Paolo Migliavacca, Amministratore Delegato del Gruppo - nasce nel 1994 dall’iniziativa di un gruppetto di giornalisti guidati da Riccardo Bonaccina, che si occupavano di tematiche relative al Terzo Settore. Inizialmente il progetto era puramente editoriale. Alcune grandi organizzazioni non-profit avevano sottoscritto abbonamenti a fermo per assicurare un minimo garantito e fare sopravvivere il giornale. Va specificato che Vita ha visto la luce già con una complessità di tipo giuridico: si tratta infatti di una società per azioni con la clausola della non distribuibilità dei dividendi. In termini più semplici: i soci rinunciano al profitto eventuale della partecipazione, per reinvestire nella realizzazione della mission. Il gruppo di azionisti inizialmente era costituito dai giornalisti “fondatori” e da alcuni loro amici insieme a qualche grande organizzazione non-profit. Tutti gli utili venivano reinvestiti nella missione: rinforzare l’attività di servizio al sistema informativo dedicato all’economia sociale e al mondo del non-profit. Il modello di business si è poi modificato sulla base della crescita delle competenze. Competenze maturate nel “fare racconto”, nello scrivere e nel pubblicare. Questa esperienza è stata riconosciuta


dal mondo del non-profit ma anche da quello del profit, sempre più interessato a interfacciarsi con queste tematiche. Vita ha cominciato così a essere presa come punto di riferimento per varie consulenze. L’intuizione brillante del Gruppo, a questo punto, è stata quella diversificare il ruolo di racconto da quello di società di consulenza, facendo nascere la prima srl interamente partecipata. Il processo si avvia nel ’99 e si consolida nel 2001. Vita fin dall’origine si caratterizza per assetti proprietari aperti, che nel tempo hanno visto l’ingresso di soci nuovi e risorse fresche. Nel corso degli anni hanno contribuito diverse figure: dai privati interessati alla mission ai sistemi istituzionali, come le centrali cooperative e le banche di credito cooperativo, fino ai grandi editori (Carlo Caracciolo ha investito in Vita personalmente). Tra gli investitori anche Enzo Manes, a capo di Kme Group, importante realtà che produce semilavorati e leghe di rame. Alcuni soci, poi, come per esempio i fondatori o Manes, hanno inserito le loro azioni nella Fondazione Vita, rinunciando a ogni possibilità di eventuali guadagni futuri. Gli azionisti sono così diventati 80 e il 50% del capitale è ancora detenuto da individui e ONP. Per coinvolgere ulteriormente gli stakeholder è stato poi istituito un comitato editoriale che coinvolge le 68 organizzazioni non-profit e che detta le linee di massima della politica editoriale, portando all’attenzione bisogni, necessità e tematiche care al mondo della cooperazione e del volontariato. Queste organizzazioni hanno cominciato a partecipare attivamente, condividendo buone pratiche, esperienze, istanze. Il comitato spesso ha espresso posizioni condivise da tutto il Terzo Settore ed è diventato un luogo di policy making e di advocacy, in cui i rappresentanti delle organizzazioni si confrontano e avviano iniziative comuni. Su questa scia, Vita è cresciuta e si è trovata davanti alla necessità di reperire nuove risorse. Così, nel 2010, sempre in una logica partecipata, è venuta l’idea, al limite della follia, di quotare la società in borsa con il vincolo che i profitti vadano sempre reinvestiti. Mi sono occupato di questa operazione, abbastanza complessa dal punto di vista giuridico-regolamentare, insieme a una serie di collaboratori interni ed esterni, che hanno “sposato la causa”: si tratta infatti della prima impresa sociale quotata in Europa. Un’operazione di dimensioni ridotte ma

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Alcuni soci hanno inserito le loro azioni nella Fondazione Vita


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Si tratta della prima impresa sociale quotata in Europa

con un grande valore simbolico. Un’operazione che, nonostante il momento non proprio felice a livello globale, ci ha permesso di arrivare “in piedi” al 2013. È un traguardo importante se si pensa che l’anno prossimo compiamo vent'anni. Oggi Vita è ancora in edicola, anche se questa presenza ha più un valore simbolico che economico, ma si difende bene con gli abbonamenti (ha tuttora 19-22 mila abbonati che ricevono il mensile). Oltre a Vita.it, il Gruppo gestisce anche portali verticali di informazione come “vitaeurope.org” (l’hub del settore non-profit europeo), “Yallaitalia.it” (il mensile delle seconde generazioni) e “Afronline.org” (La voce dell’Africa). Abbiamo comprato l’anno scorso la società Sisifo che si occupa di sostenibilità ambientale, un settore che seguiamo ma su cui avevamo minori competenze, partendo da radici più sociali. Tutte le società di consulenza del gruppo, a breve, si fonderanno in un’unica società, “Vitamaker”, centrata su stakeholder management, sostenibilità sociale e ambientale per il mondo profit e non-profit. ll Gruppo lavora anche come produttore di contenuti per terzi: realizziamo, per esempio, il giornale della Lega del filo d’oro e del Wwf. Abbiamo un accordo con Feltrinelli per una collana in co-branding (i primi due titoli sono già usciti) sulle tematiche che trattiamo quotidianamente. Infine, abbiamo aperto un ufficio a Bruxelles. Da un lato perché riteniamo che l’internazionalizzazione sia un requisito fondamentale per sopravvivere, dall’altro per rappresentare e far valere gli interessi e le istanze del mondo che ci ha originato a livello europeo. Per mantenere la struttura e tutti i dipendenti ci appoggiamo ai lavori sui servizi editoriali (25% del fatturato), alle consulenze (40%) e ai nostri prodotti editoriali che ora rappresentano il 35% dell’attività, contro il 75% iniziale. Per conservare le nostre dimensioni è stato importantissimo riorientare il nostro portafoglio di attività».

ALESSI - Un'azienda viva nel territorio Nicoletta Alessi ci racconta in una giornata calda di questa estate calda perché si deve legare la propria azienda al territorio. Se vai a Omegna - comune italiano sul Lago d’Orta, sede dello storico marchio - la percorri, leggi i nomi del-


le strade e guardi le opere, ti rendi conto che la società Alessi ha lavorato con e per il territorio. Che è dentro la vita cittadina. Che ne è parte sostanziale. È una sensazione tangibile. E capisci che la storia di questa azienda centenaria - di successo, nota in tutto il mondo - vive nella sua piccola comunità e con la sua comunità. Nicoletta ci parla dell’ultima innovazione del loro rapporto con il territorio. Un’iniziativa che ha risolto due problemi, creando un’opportunità per tutti. Da un lato, c’è infatti il comune di Omegna che il sindaco Adelaide Mellano descrive così in questi tempi: “il bilancio si trova in condizioni critiche. Abbiamo dovuto sospendere le attività straordinarie e tagliarne anche alcune ordinarie... il lavoro non manca. Mancano i soldi...” Dall’altro, c’è l’azienda, Alessi, in un periodo di sovraccapacità produttiva. La società va bene, tuttavia la stagionalità spingerebbe alla cassa integrazione. Ecco allora che Alessi, per far fronte alla situazione, inventa e sovvenziona il progetto “Buon lavoro-la fabbrica per la città”. Un progetto atto a destinare un considerevole numero di ore lavoro regolarmente remunerate dei dipendenti (che sarebbero stati messi in cassa integrazione) a supporto delle opere comunali che il Comune non riesce più a sostenere. Fino a novembre 2013. L’azienda, prima di procedere, ha chiesto ai dipendenti se fossero d’accordo. Ben 286 hanno risposto positivamente. Quasi l’85% del totale. Per ognuno di loro sono state riservate all’iniziativa da una a otto giornate di lavoro normalmente retribuito per un totale di 9000 ore al servizio della comunità. Della loro comunità. E i dipendenti, tramutatisi in operatori pubblici, hanno realizzato per sé, per la città e per i concittadini: la tinteggiatura e il riordino di 3000 mq della scuola De Amicis e la manutenzione ordinaria degli spazi pubblici, dei giardini e dei parchi del lungolago. Non solo. Hanno anche affiancato gli operatori sociali nell’accompagnamento dei bambini, degli anziani e dei disabili nelle attività quotidiane.

209 SOCIAL INNOVATION: INVESTIMENTI SOCIALI ED ECONOMIA SOCIALE


210 DA PREDATORI A IMPRENDITORI

Tutta l’iniziativa è stata, come si dice ora, win-win: vantaggiosa per tutti, per l’azienda, per i cittadini e per il Comune. Una virtuosa continuazione della bella storia di Alessi a sostegno della sua città e del suo territorio. Un esempio concreto nel senso della nuova filantropia che dovrà arrivare.



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IL GRANDE VIAGGIO VERSO L’ECONOMIA SOCIALE

Le cose dovranno comunque cambiare. Per sapere come, occorre immaginarsi un lungo viaggio, in cui l’azienda e la sua leadership siano i protagonisti. Un viaggio diviso in sei tappe che renderà importante chi saprà seguirlo. Occorre organizzarlo con precisione: sceglierne la meta, trovare i compagni giusti, raccontarlo, condividerlo e valutare l’impatto che avrà in futuro. Sei passi per decidere di spostarsi sul binario della sostenibilità. Non importa la dimensione dell’impresa: se è piccola farà un viaggio piccolo, se è grande percorrerà un cammino più lungo. Il metodo resta lo stesso. Proviamo a imbarcarci insieme: tre, due, uno. Partiti!

Passo 1: definire il viaggio Per iniziare, occorre prima di tutto analizzare in maniera puntuale l’identità aziendale, la natura dei prodotti realizzati, la catena di fornitura utilizzata e il sistema di distribuzione. Non tutti nascono alpinisti e visionari come il fondatore di Patagonia che, praticamente, ha costruito il suo abbigliamento ideale, rendendolo apprezzato da tutti. Valutati questi elementi, un’operazione che ogni

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214 DA PREDATORI A IMPRENDITORI

L'azienda si trova di fronte a un bivio: può decidere di attaccare “un’appendice sociale”, oppure di calarsi nella economia sociale

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buon Csr manager è in grado di effettuare, bisogna lavorare per ottimizzare il processo produttivo, laddove non risulti efficiente. Solo a tal punto sarà possibile definire l’obiettivo a cui tendere per perseguire la social economy. Ovviamente in maniera funzionale al contesto in cui la realtà aziendale opera, alle sue dimensioni, al suo personale percorso e al mercato di riferimento. Grazie alla considerazione di queste molteplici variabili, si comincerà a scegliere il mezzo con cui effettuare il viaggio: a piedi, in bici, auto, nave o aereo, secondo il proprio desiderio. E quindi, una sponsorizzazione filantropica, un piccolo progetto per la comunità gestito “in casa”, piuttosto che una media o grande campagna di Csr, la creazione di una fondazione oppure una decisa virata verso la social economy, che diventa colonna portante dell’impresa. Semplificando, l’azienda si trova di fronte a un bivio: può decidere di attaccare “un’appendice sociale” alla sua struttura - e quindi galleggiare in attesa che lo Stato la obblighi a compiere passi più decisi - oppure di calarsi nella economia sociale, usando il profitto per lavorare con la comunità in cui e con cui vive, considerando gli azionisti il giusto ma anteponendo gli interessi del Pianeta e dei soggetti che gravitano intorno alla impresa stessa. Come sono stati in grado di fare Patagonia e Grameen Bank, per citarne due. Nel primo caso, l’azienda propenderà per una campagna filantropica in linea con la Csr o per la creazione di una

Definire il Viaggio

Ottimizzare i processi produttivi


fondazione, in presenza di filosofia e budget adeguati. Nel secondo caso, tutto è più semplice perché il sociale diventa parte integrante dello spirito imprenditoriale.

IL GRANDE VIAGGIO VERSO L’ECONOMIA SOCIALE

Passo 2: scegliere la meta Stabilita l’essenza del viaggio, occorre definire la destinazione, che poi è il punto clou. Ogni itinerario ha una meta: è entusiasmante partire, ma inutile se non si sa dove andare. Qualcuno diceva che il bello del viaggio è programmare la meta: disegnarla, viverla, vederla con gli occhi dell’anima. Nel caso delle imprese, pensare a dove inserirsi, con quali finalità e con che attese. Per una società che opera nella farmacologia la scelta è quasi obbligata: dovrà indirizzare i suoi sforzi nella ricerca medica, donare alle onlus che si occupano di malattie particolari, soprattutto se nuove e ancora poco conosciute, oppure supportare in maniera programmata specifici reparti ospedalieri. Per essere più chiari: è necessario attivare un progetto, un programma pluriennale che colleghi l’impresa al tessuto in cui opera. Tuttavia, non sempre è così semplice. Spesso un'impresa non ha un tessuto sociale di riferimento. In questo caso, può agire direttamente sulla comunità in cui opera, o anche definire una missione che si radichi nel proprio core.

• Prodotto • Produzione • Aspetti sociali • Supply chain

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A Appendice sociale Decisione

B Economia sociale

È necessario attivare un progetto che colleghi l’impresa al tessuto in cui opera


Fare esempi in tal senso non è difficile, anche se li vorrei evitare perché potrebbero risultare riduttivi. Ne uso uno solo per spiegare come il viaggio possa diventare lungo, articolato, talvolta complesso. Prendiamo la fondazione Ford, sul mercato da quasi un secolo. Gli obiettivi delle sue donazioni sono tanti e differenziati: • Amministrazione democratica e responsabile • Equità economica • Istruzione e borse di studio • Libertà di espressione • Diritti umani • Opportunità metropolitane • Diritti sessuali e riproduttivi • Sviluppo sostenibile

216 DA PREDATORI A IMPRENDITORI

C’è da spaventarsi? Il viaggio si fa troppo arduo? Analizziamo: la Ford Foundation possiede un patrimonio di circa 11 miliardi di dollari che ogni anno viene donato a diverse associazioni operanti nei settori sopraelencati. In questo modo aiuta circa un centinaio di Paesi in America del Nord e del Sud, in Asia ma anche in Africa: tutti quelli in cui storicamente la grande azienda ha operato e in cui in qualche caso ha prodotto danni all’ambiente, alla società o alle popolazioni locali. Ma si preoccupa

La Ford Foundation possiede un patrimonio di circa 11 miliardi di dollari che ogni anno dona a diverse associazioni

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Scegliere la meta

Quale obiettivo del viaggio?

Definizione Area di intervento


anche di opportunità metropolitane, alla base dello sviluppo delle smart city e della mobilità sostenibile. Mobilità sostenibile che rappresenta il futuro di chi produce automobili. Inserirsi in questa nicchia è fondamentale perché si tratta della nuova frontiera del mercato. Una nicchia che la fondazione intelligentemente incoraggia, appoggiando innovative ONG e associazioni ambientaliste e tenendo in grande considerazione le intuizioni di queste realtà, la loro capacità di comprendere in anticipo i bisogni e i diritti sottesi, in modo tale da trarne ispirazione, nonché pratici suggerimenti per lo studio di nuovi modelli. Le “aree di intervento” di questo colosso sono quindi da un lato, legate al mondo dell’auto, dall’altro, al desiderio di restituire quanto sottratto, in maniera più o meno consapevole in 100 anni di storia, ai Paesi meno sviluppati. Per questo rientrano tra gli obiettivi della Fondazione la tutela della democrazia, dell’equità economica, dell’educazione e dei diritti umani. Il viaggio, in questo caso, ha subito delle correzioni ma è rimasto lineare nella consapevolezza che un importante risvolto sociale doveva essere sviluppato intorno al contesto in cui l’auto si muoveva. Un sistema che funziona e che ha sviluppato un fronte filantropico ampio, pensato e ben strutturato. Anche in Italia, come abbiamo già visto, non mancano esempi di viaggi virtuosi.

A

Tempo di viaggio Da un anno a 100

B

Investimento Peanuts o profitto reale

217 IL GRANDE VIAGGIO VERSO L’ECONOMIA SOCIALE


218 DA PREDATORI A IMPRENDITORI

Passo 3: trovare i compagni Fare un viaggio da soli è sempre poco piacevole, meglio trovare dei compagni d’avventura. Il percorso si può intraprendere con altre organizzazioni, tante o poche in base al mezzo con cui si è deciso di partire. Se l’azienda ha optato per la realizzazione di una fondazione, il viaggio sarà dispendioso e i compagni numerosi. Se invece si è indirizzata verso una semplice donazione da ripetere nel tempo, il compagno sarà uno e il viaggio breve e poco oneroso. Su questo aspetto mi vorrei soffermare a ragionare. So di ripetermi ma visto che certi concetti fatico io stesso a immaginarli calzanti per un’azienda italiana, seguo il caro vecchio repetita iuvant. Noi non vogliamo suggerire un modello di viaggio che preveda una piccola donazione alla ONG più comoda. Stiamo cercando di spiegare che un’impresa del futuro dovrà mettere sul tavolo una buona fetta dei suoi profitti e investirli nel sociale per risarcire i danni arrecati al Pianeta, per evitare che i cittadini comincino il loro percorso di denuncia e per prevenire ricadute dall’alto. A chi controbatte, dicendo che siamo in recessione e che mancano gli utili, rispondo che oggi è vero, che l’onda lunga della crisi viene da lontano e chi non se n’è accorto è stato miope. Tuttavia, aggiungo anche che l’Italia si riprenderà e che un viaggio si può organizzare

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Trovare i compagni

Scelta dei partner / players


anche quando si è in bolletta, anzi il bello è immaginarlo in attesa di poterlo realizzare. Senza dimenticare che proprio questo viaggio potrebbe essere la storia per cui l’impresa verrà ricordata, più dei profitti e addirittura dei prodotti. Di fronte a un interlocutore senza buona volontà, invece, replicherei che, evitando di investire, si pagheranno molte più tasse e che, ragionando solo in termini di profitto, non si lascerà alcuna scia, alcun ricordo, alcuna storia da raccontare. Le ricchezze, gli stessi prodotti, consumati velocemente dall’avanzamento tecnologico, bruciati dal gusto che cambia, verranno dimenticati. Le storie, no. Ecco perché occorre “dare”. Il ricordo è uno dei veri asset del futuro di un’impresa. Oggi ricordiamo ancora l’Olivetti, non certo per i suoi prodotti di design, ma per il modo unico e innovativo con cui Adriano Olivetti ha condotto la sua fabbrica, creando un equilibrio tra solidarietà sociale e profitto, tanto da contenere un'idea di felicità collettiva che generava efficienza. E tornando ai compagni: una storia bella non può che essere creata da gente virtuosa. La scelta dei partner è, infatti, uno dei temi più delicati nel mondo della beneficenza. È difficile riuscire a realizzare l’intero progetto contando solo sulle forze dell’impresa, occorre affidarsi ad altri che condividano lo stesso viaggio. Nei capitoli precedenti abbiamo analizzato tutti i player di cui un’azienda ha bisogno - la storia viene scritta anche grazie a loro. Proprio per tale ragione, oc-

• ONG • ONLUS • Strutture pubbliche • Consulenti

A

Strutturali

B

Casuali

219 IL GRANDE VIAGGIO VERSO L’ECONOMIA SOCIALE

Il ricordo è uno dei veri asset del futuro di un’impresa


corre conoscerli, capirne le tendenze e i ruoli. Operazione che noi speriamo di aver contribuito a definire più chiaramente.

220 DA PREDATORI A IMPRENDITORI

Passo 4: raccontare la storia

Raccontare il percorso è un dovere

È come aggiornare il blog di un viaggio. L’azienda deve raccontare giorno per giorno la sua esperienza, in corso d’opera. Se vi è mai capitato di leggere dei diari di bordo, potreste averli trovati o veramente noiosi o molto elettrizzanti. Tutto dipende da chi scrive, ma soprattutto dal tipo di viaggio che ha intrapreso. Raccontare il percorso è un dovere in questo ambito: serve a documentare il lavoro svolto, offre dati e informazioni, aiuta a misurare l’impatto sociale. E, non secondariamente, contribuisce a donare trasparenza a tutta l’operazione. Così il viaggio continua all’infinito, si arricchisce di tappe e incontri. Sul sito di Stonyfield Farm, l’azienda che produce yogurt bio a cui accennavamo nel precedente capitolo, è raccontata la storia del suo fondatore Gary Hirshberg: un campione del green e della sostenibilità che ha iniziato la sua avventura con una manciata di mucche ed è arrivato a fatturare 370 milioni di dollari con una impresa sociale. Non solo, ha dato vita - con l’Università del New Hampshire - a un istituto per imprenditori sociali che così

4 Raccontare la storia

Il blog del viaggio: un lungo racconto


viene presentato: “L'Istituto Stonyfield per imprenditori è stato concepito da Gary Hirshberg, nel 1998, a partire dalla sua esperienza diretta nella Stonyfield Farm, Inc., iniziata umilmente nel 1983 con 7 vacche e arrivata oggi a registrare 370 milioni di dollari di vendite annuali. Grazie a una collaborazione con il Professor Michael Swack e a una partnership con il Carsey Institute dell’Università del Hampshire e la Whittemore School of Business and Economics, Hirshberg è riuscito a creare un luogo altamente interattivo per lo scambio di competenze, per il confronto e per la condivisione dei problemi in ambito di imprenditoria sociale. Un istituto in cui centinaia di imprenditori possono conoscere gli strumenti di finanziamento messi a disposizione, le strategie di marketing e il percorso per mutare tipologia di gestione: tutti temi fondamentali per la crescita di una realtà aziendale. Chi si iscrive ha la garanzia di portare a casa un patrimonio di idee e tecniche per far crescere in modo pragmatico e utile la sua impresa”. La fama di questo imprenditore illuminato viene alimentata dalla credibilità della scuola, la scuola, parallelamente, racconta la storia della sua impresa. E il racconto diventa giornaliero, secondo un metodo molto intelligente e tutt’altro che banale: per leggerlo basta un click su una piccola icona posizionata tra i prodotti in esposizione all’interno del sito web dell’azienda. Attenzione, però: rendere noto il proprio viaggio non significa ragio-

• Web • Editoria • Libri • Social • Adv • Wom

Non una comunicazione che diventa storia

221 IL GRANDE VIAGGIO VERSO L’ECONOMIA SOCIALE

Un vero racconto! Una storia vera! Una storia di sentimento Una storia che diventi comunicazione!


nare in termini di campagne di comunicazione, pensando, per esempio, al numero di persone da raggiungere, al target di riferimento e al quantitativo di spot da lanciare. In questo caso, la storia e il suo racconto si costruiscono da soli, senza una precisa strumentazione o impalcatura. Ed è importante che avvenga: un libro, se non viene scritto, non esiste. Bello o brutto, se rimane chiuso in cassetto della mente, è inutile. Così la storia di una attività sociale diventa tale solo se narrata e poi discussa, e magari anche criticata. Quindi la storia è verbo che si ripete, non pubblicità atta a fare immagine. L’immagine ne guadagna di riflesso ma solo se la storia è bella e ben raccontata.

222 DA PREDATORI A IMPRENDITORI

Passo 5: condividere la storia

L’immagine ne guadagna di riflesso ma solo se la storia è bella e ben raccontata

A questo punto si entra nella modalità social insegnataci da Internet. Per chi lavora nel sociale e vuole dare risonanza alla sua storia, diventa indispensabile riunire attorno a sé una comunità di persone, di enti e di organizzazioni che aiutino a condividere e quindi a diffondere il racconto, aggiungendo anche la propria autorevolezza. Questa attività - se fossimo nel campo della Csr - sareb-

5 Condividere la storia

Socializzare la storia Scegliere gli strumenti


be chiamata in burocratese “coinvolgere gli stakeholder” e quindi i soci, le banche, le Istituzioni, le società di certificazione, le persone vicine all’impresa, i dipendenti. Tanti piccoli bersagli verso cui sparare tutti i dati dell’operazione sociale. Gli esempi in tal senso sono migliaia. Sfogliando un qualsiasi annuario delle good causes di Sodalitas, l’Istituto italiano che premia la Csr di impresa, si incontra molta di questa burocrazia, così come vi si incappa se si prende il coraggio di leggere i bilanci sociali delle grandi aziende italiane. Ma quante di queste attività sono storie che poi effettivamente vengono ricordate? Quasi nessuna. Dell’Eni non si ha memoria di alcun racconto di filantropia o di business sociale, eppure l’azienda possiede una fondazione che lavora sui “ territori” e per le buone cause. Eni produce un bilancio sociale di centinaia di pagine - un tomo contenente tutte le certificazioni di rito che gli permettono di essere definita sempre e comunque “buona” e “pulita”. Ma nessuno si ricorda mai nulla, né in Italia, né all’estero dove opera. Fatta eccezione per le sue colonie degli anni ’60, in cui i dipendenti andavano in vacanza con i propri bambini. È stata una bella storia, di aiuto sociale. Peccato che sia anche stata l’unica. I bilanci sociali non servono se

Imprinting dell'azienda: una storia buona e pulita che riempie di sociale l'azienda. (lo si deve sapere... ma senza gridarlo)

La storia per cui l'azienda sarà ricordata

223 IL GRANDE VIAGGIO VERSO L’ECONOMIA SOCIALE


si possiede una bella esperienza da condividere. I soci, i territori, i dipendenti, gli azionisti, come fossero degli amici su Facebook, faranno in modo che si diffonda, raccontandola a loro volta.

224 DA PREDATORI A IMPRENDITORI

Passo 6: controllare la storia

I soldi donati alle charity - nell’ordine di qualche trilione di dollari all’anno nel mondo - vengono spesi senza alcun riscontro

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In un libro di Ken Stern, intitolato “With Charity for all” (uscito da poco negli Stati Uniti), viene denunciata in maniera esasperata l’assenza di controllo nel mondo della beneficenza. Il tema è attualissimo. I soldi donati alle charity - nell’ordine di qualche trilione di dollari all’anno nel mondo - vengono spesi senza alcun riscontro, né rendiconto realmente avallato da enti terzi indipendenti che abbiano valore legale e di sanzione. Come avevamo già sottolineato precedentemente, questo rappresenta un grande limite per le organizzazioni senza scopo di lucro. Le aziende, se sbagliano, generalmente devono pagare. Perché il mercato le castiga o perché la guardia di finanza le coglie in fallo. Per le organizzazioni che fanno del bene, invece, il discorso è diverso: non c’è il controllo del mercato che misura l’efficienza, né quello fiscale che accerta un’eventuale evasione.

Controllare la storia

DATI REPORT EFFICIENZA IMPATTO CONTINUITÀ


Ognuno si regola da solo e non ci sono parametri di riferimento, né dati di paragone perché ogni charity evita di rendere realmente noti i suoi numeri. Quindi, tornando alla nostra storia, è necessario che i fatti siano verificabili. Ci vogliono dei valori di partenza e un continuo ossessivo controllo per accertarsi che si raggiungano i risultati desiderati. Le famose colonie dell’Eni furono costruite sulla base del numero di dipendenti, del numero di figli e della redemption di utilizzo. Un numero, tante colonie: efficienza nella gestione, tutto qui. Più difficile è invece controllare l’efficienza della Fondazione Ford, per esempio, sulle azioni a tutela dei diritti sessuali e riproduttivi nei Paesi in difficoltà. Anche in questo caso, tuttavia, sarà possibile stabilire dei parametri che diano un riferimento per capire se il risultato sia stato raggiunto o meno. Per tale ragione, è fondamentale definire una misura iniziale quando si vuole cominciare a raccontare una storia di sostenibilità e business sociale da aggiornare man mano che il progetto avanza. Altrimenti si rischia di rendere la narrazione errata e non comunicabile. Perché alla fine, quello che conta, è dare notizia di come sia mutato l’impatto sociale, con dati chiari e trasparenti. Senza dati, senza controllo, senza una comunicazione forte e semplice, la storia non decolla.

La storia va controllata e misurata nei successi e negli insuccessi

Raccontare con dati e trasparenza

Fin

225 IL GRANDE VIAGGIO VERSO L’ECONOMIA SOCIALE

È fondamentale definire una misura iniziale da aggiornare man mano che il progetto avanza


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LASCIARE UN SEGNO

Tutti possono vedere, oggi, se un seme viene piantato. Allo stesso modo, tutti, un domani, sapranno se da quel seme è cresciuta una pianta sana e forte oppure no. Questa è la morale della storia. Ognuno di noi dovrebbe lasciare un segno nella vita: un ricordo, una testimonianza del suo passaggio su questa Terra. Un’impronta che - soprattutto se dedicata agli altri - permetterà a chi la lascia di venire ricordato per lungo tempo. Una traccia che può avere svariate forme, alcune delle quali da noi raccontate nel libro: l’adozione di un bambino a distanza, l’aiuto a una organizzazione di fiducia, la creazione di una fondazione. Una traccia da lasciare come singoli, come comunità, come imprese, seguendo - come un faro - il principio della sostenibilità. Nei precedenti capitoli abbiamo ripercorso le motivazioni che spingono le persone a donare; abbiamo analizzato il fenomeno straordinario del volontariato, una forma di altruismo in cui il tempo offerto vale ancora di più del denaro; abbiamo esaminato il ruolo delle imprese, spronandole a compiere passi più incisivi in termini di “risarcimento”, considerato l’impatto spesso devastante che esercitano sui territori in cui operano; abbiamo raccontato la nascita del movimento della sostenibilità,

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228 DA PREDATORI A IMPRENDITORI

costituito da quell’insieme di persone che ora timidamente, ma domani con grande vigore, si dimostreranno le sentinelle del benessere globale; abbiamo avvertito le aziende delle conseguenze che tale fenomeno produrrà sul loro operato (e sulle loro finanze); abbiamo visitato le “stanze” del Terzo Settore, narrando la storia, le sperimentazioni, le conquiste ma anche la burocratizzazione, il declino e gli sprechi delle ONG, l’archetipo di tutte le organizzazioni; abbiamo tracciato l’evoluzione dell’apparato, parlando delle fondazioni, specie quelle americane; infine abbiamo cercato di esplorare le nuove tendenze che consentiranno di piantare buoni semi e di fare crescere robusti alberi. E così siamo giunti alla fine, ma prima di passare alle considerazioni conclusive, vorrei portare all’attenzione del lettore due elementi chiave che stanno già veicolando la “filiera del bene” verso più positive sponde: l’efficienza dei processi di beneficenza, che sta cominciando a essere valutata, e il digitale, che amplifica la diffusione delle informazioni relative al grado di trasparenza delle realtà che donano.

La mancanza di controlli di ogni tipo

In Usa, per ben 1.100.000 organizzazioni senza scopo di lucro, ci sono poco più di 100 persone che si occupano di eseguire valutazioni

Parla di efficienza, denunciandone la mancanza nelle charity statunitensi, Ken Stern, Presidente della Palisades Media Ventures - una società che si occupa di sviluppo innovativo dei media - nel suo libro “With charity for all: why charities are failing and a better way to give”. Nel volume, purtroppo non ancora tradotto in italiano, l’autore discute i problemi del settore non-profit, segnalando, con dovizia di particolari, i bassi livelli di trasparenza e di controllo che caratterizzano questo mondo. Leggendo il risguardo del testo, infatti, si può apprendere come in Usa, per ben 1.100.000 organizzazioni senza scopo di lucro (cui peraltro lo Stato dona 500.000 milioni di dollari), vi siano poco più di 100 persone che si occupano di eseguire valutazioni. Per fare un paragone, si pensi che, nel mondo dei fondi di investimento, gli addetti al controllo e al rating sono 150.000. Come avevamo già precedentemente sottolineato nel capitolo che si è occupato dei bilanci delle ONG, non esiste


nessun valido strumento che documenti il livello di funzionalità di una organizzazione senza scopo di lucro. La deriva ottocentesca di questo frangente è paradossale in un’epoca in cui praticamente ogni cosa viene certificata, in cui le società che si occupano di eseguire ricerche finanziarie e di analizzare le attività di imprese commerciali e statali (come Moodys e Standard & Poors) la fanno da padrone e in cui la tecnologia consente di valutare l’efficienza anche nei suoi più piccoli recessi. Una deriva che vede così proliferare gli sprechi oltreoceano e anche in Italia, come ha riportato Valentina Furlanetto nel suo libro “L’industria della carità”. Il problema, a ogni modo, comincia a essere trattato con maggior frequenza e in qualche (ancora raro) caso affrontato. Così facendo la consapevolezza comune aumenta e la ricerca di efficienza nel settore - grazie anche alle nuove tecnologie digitali - inizia a prendere piede. Negli Usa, esiste per esempio un sito, chiamato Charity Navigator, che raccoglie tutti i dati sulle realtà senza scopo di lucro, producendo diverse raffinate classifiche. Un punto di riferimento interessante (indubbiamente per l’Italia, la patria dei dati fantasma, ancora lontana da questo traguardo) che tuttavia presenta dei grossi limiti: i valori, infatti, sono riportati così come vengono forniti, senza prima essere verificati.

GiveWell: la prima risposta alla necessità di controllo e di una certificazione terza La vera risposta al bisogno di trasparenza arriva invece da GiveWell, una vera mosca bianca, la prima organizzazione non-profit che si occupa di valutare le charity e di indirizzare le persone intenzionate a donare verso gli enti di beneficienza realmente meritevoli. È stata creata nel 2007, quando Holden Karnofsky e Elie Hassenfeld, due analisti finanziari della Bridgewater Associates (compagnia di investimenti di New York), decisero di devolvere in beneficenza parte dei loro averi. Per “deformazione professionale” cominciarono a cercare dei parametri - simili a quelli usati nella valutazione delle aziende comprate o sostenute per lavoro - che consentis-

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230 DA PREDATORI A IMPRENDITORI

sero loro di scegliere l’organizzazione migliore, ma non li trovarono. Decisero a quel punto di stilare una lista di criteri grazie ai quali certificare il livello di efficienza di una charity e di avviare questa innovativa, tanto necessaria, attività. I più virtuosi enti di beneficenza individuati da GiveWell sono caratterizzati dai seguenti requisiti : 1) Forte evidenza dell’impatto positivo che producono sulla vita delle persone 2) Attività efficienti: grandi realizzazioni a ridotto costo 3) Effettiva capacità del programma che seguono di usare più produttivamente i finanziamenti dei donatori 4) Trasparenza e responsabilità verso i donatori con la condivisione di informazioni approfondite sul loro lavoro, tanto da consentire la valutazione secondo i criteri appena descritti

GiveWell è la prima forma di certificazione terza e indipendente del mondo del non-profit

Inizialmente hanno trovato resistenza, disinteresse e scarsa informazione da parte delle diverse associazioni, ma, forti della loro intuizione, hanno perseverato, arrivando ad analizzare centinaia di charity. GiveWell è, in pratica, la prima forma di certificazione terza e indipendente del mondo del non-profit. Tuttavia, nonostante gli anni trascorsi e i passi avanti effettuati, le persone che si occupano dell’organizzazione sono solo sette, su un mercato che supera il trilione di dollari, molto vischioso e raramente trasparente. Ancora troppo poco! Anche se non mancano esempi virtuosi di grandi realtà che si sono imposte, strutture efficienti e modalità d’operazione limpide. Tra queste, la Fondazione Gates ma anche New Profit, associazione senza scopo di lucro per i fondi sociali che, grazie ai suoi partner e a una rete di filantropi, spinge al cambiamento sistemico nel campo dell’educazione e dell’istruzione, della assistenza medica ma anche dell’occupazione; oppure Robin Hood, organizzazione che combatte la povertà a NYC, facendo ricorso a un sistema di valutazione di parte terza e avvalendosi di metriche che offrono un potente strumento di diagnostica con cui isolare i fattori specifici di successo o insuccesso di un programma rispetto a un altro, rendendo possibile una comparazione. Tuttavia, manca ancora un sistema di certificazione terza


su larga scala: dagli esempi fatti si intuisce che il percorso intrapreso è quello giusto ma stiamo ancora compiendo i primi passi. Primi passi favoriti dal digitale che rende tutto più immediato, chiaro e disponibile: il solo fatto di dover essere presenti sul web, obbliga le organizzazioni perlomeno a un grado minimo di efficienza e di trasparenza. La rete poi farà il resto: mi immagino una sorta di TripAdvisor che commenti l’efficacia e il valore dei programmi che le persone visioneranno in giro per il mondo, programmi magari non raccontati dai siti web. Su questa positiva scia, la richiesta di certificazione aumenterà e gruppi come GiveWell aiuteranno o obbligheranno le charity a entrare nel secolo della efficienza.

Summing up Fatta questa premessa, ora ci chiediamo: quale orientamento seguirà il settore nel suo complesso? In un Paese avanzato, le tendenze - che abbiamo già evidenziato - sono sostanzialmente quattro: 1. Le organizzazioni e le charity, nella loro accezione più ampia, dovranno avviare un processo che limiti la burocrazia e punti sull’efficienza e la trasparenza 2. Le fondazioni, che spesso appoggiano e sostengono le charity, hanno già espresso - attraverso i giovani figli dei fondatori - la loro volontà di continuare nell’esercizio della donazione, ma con più certezza di efficienza e controllo 3. Il social investment sta facendo la sua apparizione sul mercato e spinge i governi locali a privatizzare molti servizi sociali attraverso efficienti charity che producono un guadagno per chi li finanzia. I social bond saranno una nuova frontiera della finanza 4. La social economy avanza ed è la vera sfida che le imprese dovranno cogliere, investendo larga parte dei loro profitti. Le aziende che si sottrarranno perderanno in competitività e verranno scavalcate dalle realtà virtuose, oppure tartassate dallo Stato sotto la pressione del movimento della sostenibilità.

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Lo Stato passerà da forte donatore a controllore e legislatore

Occorrono nuove leggi per un'economia sociale In merito a questo, lo Stato avrà un ruolo molto importante: passerà da forte donatore (ruolo che le attuali ristrettezze economiche limitano) a controllore e legislatore; avrà una funzione ancor migliore, più chiara e meno mistificatoria anche per la politica estera. E saranno fondamentalmente tre le ipotesi di legge di cui lo Stato si dovrà occupare: • Una nuova legge per l’impresa sociale: rivedendo completamente quella attuale che è mistificatoria e inutile, la legge potrà stimolare tutte le aziende in positivo ad avviare un percorso di economia sociale. La legge prevederà una riduzione della tassazione per chi, in maniera virtuosa, devolverà profitti a iniziative sociali. Mentre dovrà sanzionare con tasse più alte (una sorta di Tobin tax della sostenibilità) quelle imprese che invece non si impegneranno in questo senso. • Una legge contro l’accumulo: lo Stato dovrà spingere i cittadini, soprattutto nei Paesi in cui il ruolo delle fondazioni è minore, a reinserire nel circolo produttivo il surplus di risorse economiche accumulate durante la vita. Mi spiego: se una famiglia, grazie al suo lavoro, riesce a creare e conservare un discreto patrimonio, allora dovrà reinvestire la parte super-eccedente i suoi bisogni in iniziative produttive mettendo in circolo denaro, valuta e iniziative. In questo modo la famiglia otterrà dei profitti che potrà utilizzare come vuole. La tassazione sui profitti derivati da questi investimenti potrebbe essere più bassa nel caso in cui gli stessi fossero fatti nel campo sociale. La teoria del “non accumulo” vuole eliminare le rendite parassitarie, ridurre il potere della finanza (che lavora prevalentemente per chi i soldi li ha già, diminuendo gli investimenti dell’economia reale) e spingere la gente a essere produttiva con i propri risparmi. Accumulare è importante, ma, in modo eccessivo, non produce benefici né a chi possiede, né alla società nel suo complesso. Del resto, quando si muore, i soldi non servono più: meglio allora investirli, guadagnarci anche, ma creare un processo produttivo.


• La terza legge è relativa ai controlli fiscali e di efficienza delle charity. Non penso che la rete internet da sola possa fare un miracolo, occorre una regolamentazione che consenta di controllare operativamente le Onlus, ponendole sullo stesso piano delle aziende. Per farlo, basterebbe realizzare degli studi di settore e obbligare le imprese di charity ad allinearsi a standard di efficienza, di profitto e di risultati accertati. Sono dunque tre le leggi necessarie per dare al “comparto” una maggiore modernità e un superiore impulso alla socialità e alla sostenibilità. Siamo così giunti alla fine del nostro libro, con una piccola morale per chiudere il cerchio: non bisogna mai dimenticare che fare un passo importante verso il bene comune consente alle aziende, ma anche ai singoli cittadini, di lasciare un segno nel mondo. Una grande soddisfazione e un’opportunità, probabilmente una delle poche, per venire ricordati nel tempo. I soldi vanno, le opere rimangono.

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EPILOGO

No food, no good! L’eredità dell’Expo Quest’anno un amico pubblicitario, Emanuele Nenna dell’agenzia Now Available, ha avuto una bella idea di fund raising per la nostra ONG, Alice for Children. Ha organizzato un’asta da Sotheby’s con le idee che i clienti non avevano accettato negli ultimi anni. E che spesso - lo dico io che sono del mestiere - sono le migliori. Il costo dell’acquisto, battuto magistralmente dall’amico Filippo Lotti, patron milanese di Sotheby’s, ha coperto quote di educazione per i nostri bambini. È stata una bella serata. E una bella iniziativa. Tra le idee, c’era il marchio NO FOOD, NO GOOD che ho voluto acquistare per concludere questo libro. Dice in sintesi una cosa che tutti pensiamo: non è giusto che un miliardo di persone, spesso bambini, non mangino. Non è una cosa buona. E che un miliardo sia obeso, gravando sulla società, sulla sanità e su tutti noi perché il consumismo e una cattiva educazione lo hanno spinto a ingrassare. Non è una cosa buona.

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Ma oggi abbiamo una grande occasione e l’abbiamo proprio qui in Italia: l’Expo e il suo tema. Feeding the Planet. Energy for life. L’Expo sta per partire. La gente comincia - specie a Milano - a capire che sarà un evento memorabile: 20 milioni di visitatori, oltre 130 Paesi espositori, miliardi di euro investiti, la città rinnovata, forse una nuova primavera per il rilancio dell’economia italiana. Questo sarà l’Expo. Questa, la sfida che ci attende. Ma l’elemento più importante è il tema dell’alimentazione. La possibilità non solo di dibattere, ma anche di sensibilizzare il mondo sul tema più importante che esiste. Tra i problemi cardine che gravano sul nostro Pianeta l’incremento demografico, il cambiamento climatico, lo sfruttamento onnivoro delle risorse della Terra, la globalizzazione commerciale e dei diritti - quello dell’alimentazione è forse il più evidente e più toccante. L’immagine di un bambino che non mangia o, peggio, che muore di fame è una immagine che nessuno, nei Paesi “grassi”, vuol vedere. O ricordare. Eppure è un’immagine costante nei Paesi più poveri. È un’immagine che accompagna tutto il lavoro che fanno le organizzazioni governative e non. È un’immagine ricorrente. Ma è un’immagine che strazia. Quindi iniziare seriamente a cambiare la politica dell’alimentazione, andando oltre le parole di cui si sono riempite le conference room di tutte le organizzazioni che si interessano del problema, è una esigenza pressante. Le analisi sono state fatte. Da tanti. Da troppi. Ora sarebbe l’occasione di iniziare a mettere in fila un po’ di cose da fare. Quale occasione più bella, più interessante, più globale, più “ghiotta” dell’Expo che arriva? Ed è un'occasione giusta per il nostro Paese. Per l’Italia. È l’occasione non solo per mostrare al mondo la nostra capacità di rinnovare l’economia, ma soprattutto per mostrare al mondo la nostra capacità di cuore e di sentimento, dando riposte concrete sul tema della mancanza


di cibo, della diseguaglianza, dello strazio di chi è senza cibo o acqua. Forse è l’occasione più interessante anche dal punto di vista dell’immagine italiana. Mostrare che ce l’abbiamo fatta a risorgere è bello, ma se mostriamo anche il nostro cuore con qualche ricetta per cominciare a estirpare il male più grande del futuro prossimo, l’impresa risulterà più significativa. Una battaglia per combattere la fame è una storia che vale la pena di raccontare e ricordare. È una bella storia. Di quelle che rimangono nella mente più delle immagini del grande evento. Speriamo che l’Expo la faccia sua.

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Appendice


LE RISORSE DEL NON-PROFIT E DELLE FONDAZIONI IN USA

LE FONDAZIONI Council of Foundations (www.cof.org). Organizzazione associativa nazionale rivolta alle fondazioni e ai programmi di donazione delle corporazioni. Forum of Regional Associations of Grantmakers (www. givingforum.org). Organizzazione associativa che include le associazioni regionali più grandi della nazione che erogano donazioni. Philanthropy Roundtable (www.philantrophyroundtable.org). Organizzazione associativa che si basa sul principio dell’azione volontaria.

SETTORE FILANTROPICO BBB Wise Giving Alliance (www.give.org). Coalizione che fornisce servizi di reportistica e consulenza. Charity Navigator (www.charitynavigator.org). Rappresenta il misuratore di associazioni non-profit più largo e più usato della nazione.

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The Foundation Center (www.foundationcenter.org). Una risorsa essenziale per coloro che cercano informazioni riguardanti gli enti erogatori di donazioni adatti a loro programmi. GuideStar (www.guidestar.org). La sua missione è rivoluzionare la pratica della filantropia e del non-profit attraverso l’informazione. Independent Sector (www.independentsector.org). La missione di questa coalizione non-profit è quella di creare un forum nazionale per incoraggiare le donazioni e il volontariato da parte sia dei singoli individui che delle organizzazioni. Indiana University Center For Responsive Philanthropy (www.philantropy.iupui.edu). Centro accademico dedicato ad aumentare la comprensione della filantropia e a migliorare la sua pratica attraverso la ricerca, l’insegnamento e il servizio pubblico. National Committee for Responsive Philanthropy (www. ncrp.org). Collabora con i leader della comunità filantropica e i destinatari delle donazioni per aumentare la responsabilità da parte dei filantropi.

LE FAMILY FOUNDATIONS 21/64 (www.2164.net). Divisione di consulenza The Andrea And Charles Bronfman Philantropies. Association of Small Foundations (www.smallfoundations.org). Organizzazione associativa che fornisce informazioni e assistenza alle fondazioni con pochi o nessun membro dello staff. Council of Foundations (www.cof.org). Organizzazione associativa per le fondazioni e i programmi di donazione aziendale. National Center For Family Philanthropy (www.ncfp. org). Centro di ricerca nazionale interessato a questioni riguardanti le famiglie che svolgono attività filantropiche.


LE FONDAZIONI LOCALI Community Foundation of America (www.cfamerica.org). Fondazione nata per offrire alle community foundations gli strumenti e l’ambiente per eccellere. Community Foundation Networks in the United States. Alcuni stati hanno reti locali che forniscono servizi alle fondazioni locali.

LE FONDAZIONI AZIENDALI E I PROGRAMMI DI DONAZIONE Association of Corporate Contributions Professionals (www.accprof.org). Organizzazione che aiuta le aziende ad identificare e adottare le migliori pratiche non-profit. Business Civic Leadership Center, US Chamber of Commerce (www.uschamber.com/ccc/about/default). Assiste le imprese americane nei loro bisogni e aspirazioni di tipo civico, umanitario e filantropico. Business For Social Responsability (www.bsr-org). Associazione imprenditoriale non-profit che aiuta le compagnie di settori diversi e dimensioni diverse a raggiungere il successo nel dimostrare rispetto per i valori etico-sociali. CenterFOr Corporate Citizienship at Boston College (www.bc.edu/centers/ccc/indiex.html). Risorsa leader che provvede alla ricerca, l'educazione, la consulenza e l'organizzazione di convegni su questioni riguardanti la cittadinanza attiva. Committee Encouraging Corporate Philanthropy (www. corporatephilanthrophy.org). Unico forum dedicato ad amministratori delegati e presidenti che perseguono missioni di filantropia aziendale. The Conference Board (www.conference-board.org). Consiglio che, oltre a creare e distribuire conoscenze manageriali, predispone il mercato per aiutare le imprese a rafforzarsi e servire meglio la societĂ .

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DONATORI INTERNAZIONALI CIVICUS (www.civicus.org). Associazione con membri in circa cento Paesi il cui scopo è rafforzare l’azione della società civile. Council Of Foundations (www.cof.org/international). Consiglio il cui scopo è facilitare la donazione responsabile ed efficace di fondi per progetti internazionali. European Foundation Centre (www.efc.be). Associazione internazionale di fondazioni e donatori aziendali dedicata alla creazione di un ambiente legale e fiscale favorevole per le fondazioni. Global Philanthropists Circle (www.synergos.org/philantropistcircle). Network di filantropi internazionali coordinato da Synergos Institute che appoggia progetti contro la povertà. Global Philanthropy Forum (www.philanthropyforum. org). Organizzazione associativa che assiste le fondazioni e le agenzie di donazione governative nel trovare partner filantropici globali. Grantmakers Without Borders (www.gwob.net). Rete composta da amministratori fiduciari e staff delle fondazioni private e pubbliche e da donatori individuali che praticano filantropia globale per il cambiamento sociale. Worldwide Initiatives for Grantmaker Support (www. wingsweb.org). Il suo scopo è quello di rafforzare le infrastrutture della filantropia in tutto il mondo, creando una rete globale di enti donatori e organizzazioni di supporto. Risorse affini che assistono specifici gruppi di interesse si trovano in tutto il mondo.

LAVORO DELLE FONDAZIONI IN MODI DIVERSI ABFE (www.abfe.org). Partnership filantropica per le comunità afroamericane che incoraggia l’aumento delle donazioni dedicate ai problemi degli afroamericani.


Asian Americans/Pacific Islanders in Philanthropy (www.aapip.org). Istituzione che informa le comunità filantropiche delle problematiche che di recente stanno emergendo all’interno delle comunità panasiatiche sul suolo Americano. Disability Funders Network (www.disabilityfunders. org). Rete che condivide informazioni a proposito delle opportunità di donazione e le problematiche attuali dei disabili. Emerging Practitioners in Philanthropy (www.epip. org). Ente la cui missione è rafforzare la prossima generazione di donatori. Foundations and Donors interested in Catholic Activities (www.fadica.org). Consorzio di fondazioni caritatevoli private e di donatori individuali che condividono l’interesse per la filantropia religiosa. Funders For Lesbian and Gay Issues (www.lgbtfunders. org). L’obiettivo del gruppo è aumentare la conoscenza filantropica e la comprensione dei bisogni critici della comunità. The Gathering (www.gatheringweb.org). Fondazione che organizza e tiene sia conferenze che forum per individui, famiglie e fondazioni che donano annualmente un minimo di $200.000 ai ministri del culto cristiani. Hispanic Philanthropy (www.hiponline.org). Rete di supporto alla filantropia verso le comunità latinoamericane. Jewish Founders Network (www.jfunders.org). Organizzazione di donatori individuali e istituzionali impegnati nell’allargare la base e lo scopo della filantropia ebraica. Joint Affinity groups (info@jointaffinitygroups.org). Coalizione di associazioni donatrici che si impegnano nel campo filantropico per sfruttarne il pieno potenziale, promuovendo una distribuzione più equa delle risorse. National Center For Black Philanthropy (www.ncfbp. net). Centro che promuove le donazioni e le attività di

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volontariato all’interno della comunità afroamericana. Native Americans in Philanthropy (www.nativephilanthropy.org). Fondazione che promuove la comprensione e la presenza delle organizzazioni filantropiche nella comunità dei nativi americani. Women & philanthropy (www.womenphil.org). Fondazione che fornisce la leadership alle fondazioni per creare un mondo più giusto e migliore attraverso il coinvolgimento di donne e ragazze. Women’s Funding Network (www.wfnet.org). Partnership tra fondi, donatori e sostenitori internazionali dediti alla giustizia sociale e al riconoscimento del valore delle donne.

IL PROCESSO DI ASSEGNAZIONE DEI FONDI Arti e cultura Grantmakers in the Arts (www.giarts.org). Sostenitori della filantropia nel campo delle arti. Grantmakers in Film and Electronic Media (www.gfem. org). Promotori della comprensione delle tecnologie digitali. Istruzione Grantmakers For Education (www.edfunders.org). Organizzazione associativa per donatori pubblici e privati che sostengono l’istruzione dalla scuola primaria a livelli più avanzati. Ambiente Evironmental Grantmakers Association (www.ega.org). Associazione di fondazioni donatrici nell'ambito del volontariato e dei programmi ambientali. Salute Funders Concerned About AIDS (www.fcaaids.org). Organizzazione che mobilita la leadership e le risorse filantropiche su territorio domestico e internazionale.


Funders Network on Population, Reproductive Health & Rights (www.fundersnet.org). Organizzazione il cui scopo è quello di assicurare a tutti l’accesso alle informazioni e servizi per monitorare la propria fertilità e promuovere la salute sessuale. Grantmakers in health (www.gih.org). Organizzazione il cui scopo è migliorare la salute della nazione attraverso il rafforzamento della loro conoscenza, capacità ed efficienza. Servizi sociali Coalition of Community Foundations For Youth (www. ccfy.org). Coalizione con l'obiettivo di rafforzare la capacità di leadership delle associazioni al fine di migliorare la vita dei bambini e delle famiglie nelle comunità. Grantmakers in Aging (www.giaging.org). Fondazione che promuove le donazioni a supporto degli anziani. Grantmakers For Children Youth & Family (www.gcyf. org). Associazione che promuove l’azione per risolvere le problematiche riguardanti i bambini, i giovani e le loro famiglie. Grantmakers Concerned with Immigrants And Refugees (www.gcir.org). Fondazione che promuove la sensibilizzazione e la comprensione dei donatori a proposito delle questioni riguardanti gli immigrati, i rifugiati e le policy pubbliche, facilitando lo scambio di informazioni in proposito. Neighborhood Funders Group (www.nfg.org). Organizzazione associativa di donatori che, tramite la filantropia organizzata, cerca di sostenere le comunità locali impegnate nel riorganizzare e nel migliorare il tessuto sociale delle aree urbane più disagiate. Relazioni Internazionali (Africa Grantmakers’ Affinity Group (www.africagrantmakers.org). Gruppo che cerca di stimolare un metodo più efficace di donazione da parte delle fondazioni nei confronti del continente africano. Grantmakers Concerned with Immigrants And Refugees (www.gcir.org). Si promuovono la sensibilità e la com-

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prensione dei donatori a proposito delle questioni riguardanti gli immigrati, i rifugiati e le policy pubbliche, facilitando lo scambio di informazioni rilevanti. Grantmakers Without Borders (www.internationaldonors.org o www.gwob.net). Progetto congiunto tra International Donor’s Dialogue e International Working Group of the National Network of Grantmakers che cerca di accrescere le donazioni filantropiche al di fuori dei confini degli Stati Uniti. International Funders for Indigenous People (www.internationalfunders.org). Progetto che intende garantire una sede per la comunicazione e la condivisione di risorse tra i donatori internazionali delle popolazioni indigene. International Human Rights Funders Group (www.hrfunders.org). Associazione di donatori dedita al sostegno degli sforzi per la diffusione e l’applicazione dei diritti umani presenti nella Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo. Peace And security Funders Group (www.peaceandsecurity.org). Gruppo interessato allo sviluppo di tecniche filantropiche efficaci per la promozione della pace e della sicurezza internazionale. Benefici per la società Alliance Of Justice (www.afj.org). Associazione nazionale delle organizzazioni in difesa dei diritti civili e ambientali, della salute mentale, delle donne, dei bambini e dei consumatori. Funders’ Network For Smart Growth and Livable Communities (www.fundersnetwork.org). Rete la cui missione è rafforzare le abilità collettive e individuali dei donatori per sostenere le organizzazioni che promuovono una crescita sostenibile delle comunità. Grantmakers Income Security (www.gistfunders. org). Associazione che promuove a livello di donatori, la comprensione delle problematiche riguardanti la sicurezza del reddito e la ricerca di strategie innovative nell’ambito.


Grassroots Grantmakers (www.grassrootsgrantmakers.org). Gruppo che connette e sostiene organizzazioni di beneficenza impegnate con le associazioni della società civile. National Networks of Grantmakers (www.nng.org). Associazione di individui impegnati nel sostegno della giustizia economica e sociale attraverso la ridistribuzione di ricchezza sia negli Stati Uniti che all’estero. Neighborhood Funders Group (www.nfg.org). Rete nazionale di fondazioni e organizzazioni filantropiche i cui membri sostengono gli sforzi della società civile per migliorare le condizioni economiche e sociali delle comunità più povere. PACE: Philanthropy for Active Civic Engagement (www. pacefunders.org). Organizzazione che cerca di ispirare l’interesse, la comprensione e promuovere gli investimenti nei confronti la società civile.

LE FONDAZIONI PIÙ EFFICIENTI Alliance for No profit Management (www.allianceonline.org). Associazione professionale dedita al miglioramento del management e governance tra le organizzazioni non-profit. Center For Effective Philanthropy (www.effectivephilanthropy.org). Organizzazione non-profit interessata allo sviluppo di dati comparativi per aumentare la presenza di donatori importanti. Grantmakers for Effective Organizations (www.geofunders.org). Fondazione che lavora per promuovere l’apprendimento e il dialogo riguardanti l’efficienza delle organizzazioni non-profit. Innovation Network (www.innonet.org). Rete che aiuta le organizzazioni non-profit a generare sia conoscenza sia capacità e a rafforzare l'apprendimento attraverso gli strumenti di valutazione partecipativa.

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LO STAFF Association of fundraising Professionals (www.afpnet. org). Associazione che rappresenta più di 127mila capitoli negli Stati Uniti, Canada, Messico e Cina con lo scopo di aumentare i volumi della filantropia attraverso il patrocinio di ricerca, istruzione e programmi di certificazione. The Communications Network (www.comnetwork. org). Rete che promuove la comunicazione come una componente essenziale del processo di donazione. Ai donatori vengono dunque offerti servizi e risorse per una comunicazione domestica e internazionale più efficace. Consortium of Foundation Libraries (www.foundationlibrariers.org). Consorzio nato per rinforzare l'apprendimento, condividere le risorse e coordinare i servizi d’informazione tra le fondazioni e gli archivi. Foundations Financial Officer's Group (www.ffog.org). Organizzazione associativa del settore non-profit per i reparti finanza e investimenti di grandi fondazioni private domestiche ed estere. Giving Institute (www.aafrc.org). Istituto che pubblica annualmente Giving USA, un volume sulla filantropia americana e sostiene la ricerca e l'istruzione. GrantCraft (www.grantcraft.org). Fonte di consigli pratici per i donatori sugli strumenti e sulle tecniche più efficaci del processo di donazione. Grants Managers Network (www.gmnetwork.org). Forum per lo scambio di informazioni riguardanti la gestione delle donazioni e l'importanza di concessioni fatte velocemente ed efficacemente. Thechnolgy Affinity Group (www.tagtech.org). Forum tecnologico per professionisti della filantropia.


I CONSIGLI DIRETTIVI BoardSource (www.boardsource.org). Associazione internazionale che si concentra sul rafforzamento dell'efficacia dei consigli direttivi del settore non-profit fornendo informazioni, risorse e servizi di consulenza. Trustee Leadership Development (www.tld.org). Fondazione la cui missione è sviluppare una leadership individuale e organizzativa che possa essere sia etica sia responsabile e capace di raggiungere il suo più alto potenziale per contribuire al bene comune.

LA NUOVA GENERAZIONE 21/64 (www.2164.net). Divisione di consulenza dell'organizzazione Andrea And Charles Bronfman Philanthropies, specializzata in filantropia intergenerazionale e donazioni strategiche. Resource Generation (www.resourcegeneration.org). Gruppo che offre una serie di programmi per giovani benestanti interessati a esplorare i modi in cui le loro risorse finanziarie possono servire alla giustizia civile e mette a loro disposizione gli strumenti per entrare in azione. Leverage Alliance (www.leval.org). Alleanza che cerca di espandere una comunità globale di futuri leader con rilevanti risorse finanziarie nella quale si possano condividere conoscenze, network e una visione per la creazione di specifici progetti dall’impatto sociale positivo. Youth On Board (www.youthonboard.org). Consiglio che prepara i giovani a essere leader delle loro comunità e li aiuta, rafforzando il loro rapporto con gli adulti. Youth Leadership Institute (www.yli.org). Istituto che costruisce comunità dove giovani e adulti possano ritrovarsi e creare un cambiamento sociale positivo.

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FILANTROPIA – PERIODICI Advancing Philanthropy. Rivista bimestrale pubblica dall'associazione Fundraising Professionals. Alliance Magazine. Rivista mensile che informa e fornisce analisi di ciò che avviene nei settori della filantropia e dell'investimento sociale in tutto il mondo. Associations Now. Rivista mensile per i dirigenti delle associazioni pubblicata dall'American Society of Association Executives e dal Center For Association Leadership. BBB Wise Giving Guide. Rivista trimestrale pubblica dalla BBB Wise Giving Alliance. BoardSource. Una newsletter elettronica che riporta notizie e informazioni per i leader del non-profit. Chronicle Of Philanthropy. Giornale per il mondo non-profit che propone notizie e informazioni per i leader delle associazioni, fundraiser, donatori e tutti gli altri attori che partecipano nel settore filantropico. Contributions. Rivista di consigli pratici per chi lavora nelle organizzazioni di beneficenza americane che si concentra su tutte le sfaccettature della raccolta fondi e della gestione organizzativa. Corporate Philnathropist. Rivista trimestrale pubblicata dal Committee Encouraging Corporate Philanthropy che propone le migliori pratiche e prospettive degli AD sulla filantropia aziendale. Council on Foundations. Fondazione che pubblica una serie di newsletter elettroniche trattando questioni d’interesse per la comunità dei donatori. Alcuni argomenti sono disponibili solo per i membri del Consiglio, quali: Risorse Per le Fondazioni Comunitarie; Aggiornamenti Aziendali; Questioni di Famiglia; Dateline Internazionale; Washington Quarterly. Effect Magazine. Principale pubblicazione dell'Euro-


pean Foundation Center sul mondo delle fondazioni europee con un riguardo speciale per i suoi membri.

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Forbes. Si concentra sul top management e su chi aspira a posizioni di leadership aziendale negli affari.

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FundRaising Success. Una guida pratica alle organizzazioni del non-profit fondata nel 2003. Grantsmanship Center Magazine. Contiene informazioni su come pianificare, gestire, assumere personale e finanziare i programmi delle organizzazioni non-profit e delle agenzie governative. Grassroots Fundraising Journal. Rivista bimestrale pubblicata dal Grassroots institute of Fundrasing Training, un'organizzazione multietnica che promuove la connessione tra raccolta fondi, giustizia sociale e la creazione di un movimento. Inspire Your World. La prima rivista rivolta al lettore dedicata al volontariato, all'avvicinamento dei leader delle varie comunità , dei personaggi noti, degli AD e delle persone comuni che condividono il medesimo interesse di restituire al prossimo il bene che hanno ricevuto. Journal For Nonprofit Management. Rivista annuale pubblicata dal Support Center For Nonprofit Management rivolta a coloro interessati a sviluppare l'eccellenza nella gestione delle organizzazioni non-profit. Nonprofit and Voluntary Sector Quarterly. Giornale trimestrale dedicato all'azione volontaria e al rafforzamento della nostra conoscenza delle organizzazioni nonprofit, filantropiche e di volontariato tramite la pubblicazione di innovative ricerche, discussioni e analisi del settore. Nonprofit Board Report. Una newsletter che offre brevi articoli per aiutare i consigli direttivi del non-profit a lavorare assieme in maniera piÚ efficace. Nonprofit Quarterly. Rivista trimestrale nazionale il cui scopo è rafforzare il ruolo delle organizzazioni non-profit nell'attivare azioni democratiche.


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Nonprofit World Magazine. Rivista bimestrale pubblicata dal 1983 che fornisce consigli facilmente implementabili da parte dei dirigenti sotto forma di articoli concisi e pratici. Responsive Philanthropy. Rivista trimestrale pubblicata dal National Committee For Responsive Philanthropy. Offre una copertura dei trend e delle questioni critiche riguardanti la filantropia delle fondazioni e aziendale. Stanford Social Innovation Review. Rivista trimestrale dalla Stanford Graduate School of Business, il cui scopo è condividere una considerevole quantità di punti di vista ed esperienze pratiche che potranno aiutare chi lavora a migliorare la società. Trust And Foundation News. Rivista trimestrale della Association of Charitable Foundations' che contiene news, punti di vista, informazioni e briefing aggiornati su questioni riguardanti i processi di donazione nel Regno Unito. Voluntas: International Journal of Voluntary and Nonprofit Organizations. Rivista pubblicata a nome dell'International Society For Third-Sector Research, una grande organizzazione internazionale promotrice della ricerca e dell'educazione nei campi della società civile, della filantropia e del settore non-profit. Worth. Rivista rivolta a personalità importanti e ai loro consiglieri, riporta questioni riguardanti la gestione del benessere complessivo, includendo anche opportunità d'investimento, private banking, servizi finanziari, buisiness ownership, succession planning e filantropia.

I PROGRAMMI ACCADEMICI Columbia University Business School, Institute For NotFor-Profit Management (www4.gsb.columbia.edu/execed/inm). Istituto che per più di trent'anni ha preparato organizzazioni pubbliche e del settore non-profit a essere pronte alle sfide imposte dagli ambienti dinamici contemporanei.


Harvard University, Hauser Center for Nonprofit Organizations, Jhon F. Kennedy School of Government (www. hks.harvard.edu/hauser). L'Hauser Center intende ampliare la comprensione del pensiero critico in materia di società civile tra gli accademici, policymakers e un pubblico più ampio, incoraggiando la ricerca, lo sviluppo di nuovi curricula e incoraggiando l’apprendimento reciproco di accademici e professionisti. Indiana University, Center on Philanthropy (www.philanthropy.iupui.edu). Il centro è stato il capostipite degli studi accademici sulla filantropia, spiegando ed esplorando dal punto di vista teorico e pratico come funziona il settore filantropico. Johns Hopkins University Center For Civil Society Studies, Institute For Policy Studies (www.jhu.edu/simbolodisimileccss/). Lo scopo del centro è migliorare la comprensione e l'efficacia del settore non-profit, filantropico e della società civile negli Stati Uniti e nel resto del mondo in modo da rafforzare il contributo che queste organizzazioni possono dare per la democrazia e la qualità della vita umana. Maxwell School Of Syracuse University, Campbell Pubblic Affairs Institute (www.maxwell.syr.edu/campbell). Programma di studi sul settore non-profit istituito con l'auspicio di creare e facilitare la condivisione di conoscenze a proposito della sua governance, gestione e policy. New York University, Heyman Center for Philanthropy and Fundraisong, School of continuing & professional Studies (www.scps.nyu.edu/areas-of-study/philanthropy-fundrasing). Uno dei centri più eminenti per la formazione di fundraiser e donatori. Offre una solida base accademica del settore e contemporaneamente aiuta gli studenti a sviluppare la loro filosofia di fundraising attraverso studi di alto livello sulla storia e sulla teoria di quest'industria. New York University, Robert F. Wagner Graduate School of pubblic Service (http://wagner.nyu.edu). Nato nel 1938, questo istituto offre programmi avanzati che

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formano i leader futuri del settore non-profit, pubblico, delle istituzioni sanitarie e delle organizzazioni private presenti nel settore pubblico. Northwestern University Kellogg School of Management Center For Nonprofit Management (www.kellogg. northwestern.edu/research/nonprofit/index.htm), fondato nel 1998. La missione del centro, è diventare una risorsa riconosciuta a livello internazionale nel campo dell'istruzione alla gestione del settore non-profit attraverso programmi post lauream specifici. Stanford University Graduate School of Business, Center for Social Innovation (www.gsb.stanford.edu/csi). Scuola di economia che sente la responsabilità di insegnare ai propri studenti a essere leader innovativi, etici e arguti in grado di cambiare il mondo. University of California at Berkeley, Center For Nonprofit and Pubblic Leadership (http://groups.haas.berkeley.edu/nonprofit). Il centro prepara futuri leader con nozioni pratiche di economia per creare, dirigere e gestire organizzazioni pubbliche e non-profit per il bene comune. University of Southern California School of Policy, Planning And Development Center Philanthropy and Public Policy (www.usc.edu/schools/sppd/philanthropy). Il centro vuole porsi come motore per la comprensione e l’azione filantropica, a metà strada tra settore privato, pubblico e non-profit, fornendo ai decision-makers dei tre settori informazioni e analisi accurate. UCLA Center For Civil Society (www.spa.ucla.edu/ ccs). Il centro è il cuore dei corsi della UCLA's School of Public Affairs in materia di leadership e gestione nel settore non-profit a sostegno delle associazioni della società civile, delle organizzazioni non governative e della filantropia.



Glossario


501 (c )(3). A tax-exempt nonprofit or charitable organization established to promote human, societal, or environmental welfare. These donations are tax-deductible. 501 (c )(4). A tax-exempt nonprofit organization that, according to the International Resources Service (IRS), must be working for the promotion of social welfare with all its net income devoted to charitable, educational or recreational purposes. Such gifts do not entitle individuals to tax deductions. Advocacy. In a philanthropic environment, it means attempting to change the behavior of an institutions or group individuals by working to raise awareness of those issues and taking action to change regulations and policies in an area of concern. Articles of incorporation. A legal document that creates a specific type of organization under the laws of a particular state. All nonprofits must file articles of incorporations as part of the process of legally established themselves as organizations. Ballot initiative. It allow citizens who have gathered sufficient numbers of signatures to propose legislative measures or a change in the law to be voted on by elected officials. Bequest. A gift to be disbursed upon the death of a donor. Blog. A personal or professional online journal and commentary that is intended for public consumption. Blogosphere. The online world of blogs.

Business plan. In the context of philanthropy, it is the summary of what a nonprofit plans to do and how it will do it, including a mission statement, description of services or products, to be offered, description of the problem they will address, results of a needs analysis, description of how the nonprofit will me organized and managed, marketing and fundraising strategies, list of potential funding sources and an annual and projected budget. Capacity-building funds. Funding that helps build up an organization’s infrastructure in order to run more efficiently and effectively. Capital. An organization’s or donor’s financial, intellectual, human, or social resources. Change agent. An organization or individual who acts as a catalyst for change. Changemaker. Term used referring to individuals and social entrepreneurs developing new system-changing ideas along with models of implementation. Charitable lead annuity trust (CLAT). An irrevocable trust directed by appointed trustees who each year allocate funds to high-impact nonprofits. At the end of the trust, the remaining funds revert to the donor’s heirs. Charitable lead unitrust (CLUT). An irrevocable trust through which your chosen nonprofit receives an annual income for specified time of period and at the end of this period the trust’s remaining assets go to the donor’s heirs, another noncharitable beneficiary, or a charitable beneficiary.

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Charitable remainder trust (CRT). An irrevocable trust that provides an annual income stream for a set period of time to the one whose assets are used to set up the trust. At the end of the trust, the remaining principal goes to a designated nonprofit or other charitable entity. Charitable remainder unitrust (CRUT). The income stream is based on an annual valuation of the trust’s remaining principal. You can also contribute additional funds. At the end of the trust, the remaining principal goes to a designated nonprofit or other charitable entity. Charity. Aid for those in need, particularly, given to relieve immediate suffering. Civil society. Collective description of society’s voluntary, nonprofit, religious, and NGOs as well as advocacy groups. Collaborative funding. When a foundation or donor partners with other funders on a specific social initiative or grants thus increasing the overall funding amount as well as potentially sharing evaluation and administration costs. Community-based organization (CBO). A public foundation that manages philanthropic funds established by individual donors, families, or corporations. It generally focuses on a specific geographic area, usually no larger than a state, and has an endowment dedicated to that areas’s community needs that the foundation’s program staff deploy. Crowdsourcing. Using the general public to provide funding or other resources, which are usually contributed online.

Deduction. In the context of philanthropy, the total amount of charitable donations that are subtracted from the donor’s income at the end of a tax year, resulting in lower amount of taxable income for donors. Development. The process of raising funds for a nonprofit organization. Development director. The staff member in charge of managing fundraising for a nonprofit. Direct lobbying. Presenting a case for or against a piece of legislation and asking a legislator to vote a certain way. Direct public support. Financial contributions received directly from the public including funds received from individual donors, foundations, trusts, corporations, estates, public charities, or raised by a professional fundraiser. Discretionary grants. A certain amount of money that a member of the foundation’s staff or board can grant each year without seeking formal approval from the CEO or board. Diversity policy. An inclusive hiring policy an organization follows to ensure that its staff and board members include individuals from a range of different geographical, ethnic, religious, sexual orientations, and disabilities backgrounds. Donor. An individual who gives time, money, knowledge, expertise, or gifts towards social good. Donor intent. The explicit intentions of a philanthropist for how a certain gift or bequest should be used or allocated.


Endowment. The financial gifts, resources, and bequests, that a foundation or nonprofit posses, also known as corpus or principal. Equivalency determination. When an international grant is made from a private foundation or a donor-advised fund, the grantor must prove that the foreign grantee is equivalent to a U.S. public charity. Alternatively, the grantor can conduct a thorough evaluation of where the grant dollars go and how they are used, and then report them to the IRS for approval. Evaluation. A formal, often external assessment of the internal practice of a foundation or a nonprofit and its effectiveness. Executive committee. A subset of the trustees on a board with higher level of authority and decision-making power than the others. Executive director. The highest-ranking staff position at a nonprofit, often abbreviated as ‘ED’. Expenditure Responsibility. An assurance that is legally required of a foundation when it is funding an organization not classified by the IRS as a public charity. Family foundation. A foundation whose funds are derived from member of a single family, with at least one family member serving as officer or board member. Fiduciary duty. The le gal duty of a board member to act in the best interests of the nonprofit or foundation, including overseeing investments, allocation of financial resources, and

grantmaking in transparent and fiscally responsible manner.

259

Foundation. A nongovernmental entity whose primary purpose is to make grants to other organizations for scientific, educational, cultural, religious, or other charitable purposes. Legally, there are two types of foundations: private foundation, which derives its money from a family, individual, or corporation, and a grantmaking public charity, or a public foundation, which derives the majority of its money from diverse sources.

GLOSSARIO

Funding intermediary. A grantmaker that pools the resources of its donors and, according to its organizational mission, distributes them to nonprofits, NGOs, or social entrepreneurs. General operating support. Unrestricted funding that nonprofit can use for any purpose. Giving circle. A group of individuals, who meet regularly to pool their donations, teach themselves about causes and issues, make grants collectively and seek deeper engagement in the process of giving. Governance. Legal, financial, and managerial oversight of an organization, generally administrated by the board of directors. Grant agreement. Formal agreement made between a foundation, or donor, and nonprofit grantee on how the funds will be used and possibly evaluated. Grant proposal. A document written and submitted by a nonprofit or an individual


260 DA PREDATORI A IMPRENDITORI

to apply for funding from a foundation or individual. Grant round. A competitive process in which a nonprofit submits a grant proposal to a foundation in effort to obtain funding from a grantmaking organization. Members of the grantmaking organization decide which applicant is the most appropriate recipient of the funding. Grantee. An individual or organization that receives a grant. Grantor. An individual or an organization that makes a grant. Grassroots lobbying. Encouraging the public to urge their elected officials to support a stated position on an issue. Human capital. A person’s ability to perform labor and intellectual capabilities, in philanthropy, it is donated through volunteering time, skills, or expertise. Impact. The change in society that occurs as a result of a philanthropic gift and the effect of a program or set of activities. Income. For a foundation, income can include investment interests, capital gains, or other financial returns. Indirect public support. Indirect donations from the public that are generated by the campaigns of federated fundraising agencies or by an affiliated organization. In-kind contribution. A donation of goods or service rather than money. Intellectual capital. This is knowledge, skills, and experience that can be put to work to accomplish goals.

Junior board. A grantmaking board established by a family foundation for younger family members. These can be set up for training purposes and members are legally part of the main foundation board. Lobbying. Interacting with elected officials and their staff to express a position on a particular piece of legislation or influence their policy decisions. Matching grant. A grant gift made with the specification that the amount donated must be matched on a one-for-one or two-for-one basis or according to some other formula. Microfinance. Offering financial resources such as loans to low-income populations to start and run their business, manage their risks, and become economically independent. Mission creep. It often occurs when a donor offers a significant gift to start a new program that is not aligned with the organization’s existing services and social objectives. Mission-related investing. Funds invested by a foundation in way that is strategically aligned with its social mission. Mission statement. A description of the declared goals of the nonprofit or foundation and how it intends to fulfill them. Needs assessment. The process by which a nonprofit determines whether or not there is a need for the services it proposes to provide. Nongovernmental organization (NGO). A nonprofit organization pursuing social goals that operates independently from government, often in countries outside the United States.


Nonprofit. Tax-exempt orga- Philanthropist. Anyone who nization that uses its resources gives any personal resource, reto pursues social goals. gardless of its amount or form. Operating principles. The way a foundation implements its strategic goals. Such principles also include how foundations assess grants, what types of grants are made, what programs are created, and what research will be generated.

Philanthropy. Charitable efforts to improve the welfare of others.

Planned giving. A method through which a donor can commit to a gift of money or assets to be made at a future date or upon a death such as a Operating programs. Activi- bequest and charitable remainties through which an organi- der trusts. zation aims to accomplish its Pledges and grants receimission and goals. vable. Money that has been Organizational capacity. An promised to a nonprofit from organization’s ability to apply foundations, individual doits human and physical infra- nors, and others, and that has structure to accomplish its mis- not yet been received by that sion and goals. nonprofit. Organizational strategy. An Private endowed foundation. organization’s plan for achie- A foundation that uses income ving impact. from its endowment to make grants or funds programs. The Partner. A member of a ven- law currently requires a 5 perture philanthropy partnership cent of its net investment assets who donates not only money to be distributed annually. but also time, knowledge, experience, and skills. Private operating foundation. A foundation that uses Patient capital. Funding that most of its resources on prolies between profit-driven in- grams or services such as runvestment and charity and is de- ning a library, museum, or hisigned to jump-start innovative storic property. ideas with social or economic benefits, generating social ra- Program officer. A staff memther than financial returns. ber of a foundation or corporate giving program. Payment requirement or minimum distribution. The mi- Program-related investment nimum amount that a private (PRI). Investments that a foundation has to spend for foundation makes in nonprofit charitable purposes each year or individuals to further the as required by laws and the IRS. foundation’s social mission. Program. Clusters of activities Perpetuity foundation. A though which an organization foundation that plans to exist aims to accomplish its mission. indefinitely. Re-grant. A funding intermePhilanthropic strategy. An diary takes the money given by overarching plan for how to a donor and distributes it to soachieve desired social, envi- cial entrepreneurs, nonprofits, ronmental, or other change. or NGOs.

261 GLOSSARIO


262 DA PREDATORI A IMPRENDITORI

Report out. Nonprofit executives present organizational updates including finance, operations, programs, and development to the board. Request for proposal (RFP). A funder’s invitation to as nonprofit to submit a grant proposal. Ruling year. The year that the IRS grants an organization its 501 ( c)(3). Seed money. A grant or loan used to start a new project, organization, or enterprise. Self-dealing. Activities of a foundation that financially benefit one of the board members or donors. It is illegal, and it includes practices such as a lending money, selling or leasing properties, making unreasonable compensations to board members, providing scholarships, and funding family travel expenses to ‘disqualified persons’. Services. The programs a nonprofit provides to benefit society. Site visit. A visit made to a grantee to better understand the organization and its operations and activities. Social entrepreneur. Someone who seeks to apply marketbased approaches to address social and economic problems and create solutions that are self-sustaining and do not rely entirely on philanthropic funding. Social innovator. An individual or organization devising new ways of tackling social and economic problems. Spend down or sunset. A foundation’s decision to pay out all of its assets and close its doors by a certain date.

Strategic philanthropy. A type of philanthropic practice that may include the following elements: having clear goals, a strategy by which to achieve those goals, and measurement metrics to assess progress toward those goals and the resulting social return on investment. Succession planning. Formal process by which an organization plans for a future leadership transition. Tax saving. The reduction in taxable income allowed to a donor as a result of a charitable deduction. Technical assistance. Help given to a nonprofit to improve its management and operations in areas such as budgeting and financial planning, legal and tax matters, fundraising, IT, or marketing. Theory of change. A hypothesis or theory about how to create a specific social change. The equivalent to a ‘strategy’ in the corporate sectors; refers to the relationship between actions taken and their effects. Trustee. A foundation board member or office who exercises fiduciary responsibility, employs the chief executive, sets policy, approves strategy, and helps plan and approve budget. Unrestricted or undersigned gifts. Donations that a donor does not require to be used for specific purposes. Venture philanthropy. A form of high-engagement and highimpact giving that includes the following elements: investment of financial, intellectual, and human capital; multiyear grants designed to build


organizational capacity; outcomes-based measurement of mutually determined strategic objectives; annual evaluation; exit strategy; and mutual accountability between the grantor and the grantees. In addition, venture philanthropy funders give grantees management support and strategic advice.

human capital from donors to execute venture philanthropy. Donors work closely with the partnership grantees to build up their organizational capacity.

Venture philanthropy partnership. An organization that pool financial, intellectual, and

Volunteering. Giving one’s time without receiving payment.

Virtuous capital. Money invested in order to bring about improvement in society or environment.

263 GLOSSARIO



#NEXTGENDONORS: EXECUTIVE SUMMARY PUBBLICATO DAL JOHNSON CENTER FOR PHILANTHROPY AND 21/64.

Who are the next generations of major donors? The next generations of major philanthropists, those who fit into “Gen X” (born 1964-1980) or “Gen Y/Millennial” (born 1981-2000) generational cohorts, will have tremendous influence on the direction of and support for efforts to improve local communities and solve global problems over the next several decades. Corporations want to know how to hire and supervise these next generation members, parents want to know how to engage them, and everyone - nonprofit and for-profit - wants to know how to attract their dollars. However, we have not heard much from these highcapacity next gen donors themselves, outside of a couple of interviews with Forbes magazine or the occasional conference presentation. We use the term “Millennials” throughout this report for ease of reference, but the name for that generation is still in flux. For descriptions of the general features of Gen X and Gen Y/Millennial members, see Howe and Strauss (1991, 2000).

265


266 DA PREDATORI A IMPRENDITORI

Respecting Legacy, Revolutionizing Philanthropy Considering how much of our future is in their hands, we have set out to understand how next gen major donors think about philanthropy, what and how they want to learn about it, and how and with whom they want to be engaged in philanthropy. We need to know even more, but we hope this report offers a good starting place. So, who are the next gen major donors of today and tomorrow? While there certainly are entitled, wealthy kids out there, we have discovered many people, mostly inheritors and some earners, who are serious and responsible, who work hard to educate and prepare themselves because they know they are poised to become the most philanthropic donors in history. While they are not necessarily more charitably-minded than members of previous generations, the sheer volume of funds, foundations, and other giving among people from high-net-worth families is expanding to unprecedented levels. And the Gen X and Millennial members of those families stand to become the decision-makers for those unprecedented resources over the next several decades. Even with the recent economic downturn, the trend of the last several decades toward increasing wealth concentration among the highest net-worth families in the United States has continued. Scholars calculate that the U.S. is currently undergoing a massive “wealth transfer” process, as historic amounts of accumulated assets pass from one generation to another. Scholars project that at least $41 trillion will transfer as bequests to the post-Baby Boom generations over the first half of the 21st century. This large amount of wealth, along with assets passed to descendants through pre-bequest transfers and the amount of new wealth being created, has led some observers to predict a new “golden age of philanthropy” (Havens and Schervish, 1999) as much of this wealth becomes available for charitable purposes. Alongside this expansion in philanthropic assets is a simultaneous expansion in philanthropic innovation and entrepreneurial passion. New social entrepreneurs attract people to philanthropy who might not otherwise dedicate as much time, talent, or treasure to doing good.


More money and more diverse ways to engage can grow and change philanthropy in ways we have not seen since the advent of modern philanthropy in the time of John D. Rockefeller and Andrew Carnegie. These major donors during the earlier golden age of philanthropic expansion and innovation focused on creating enduring institutions such as universities, libraries, and foundations, and devising “scientific philanthropy” techniques to guide their decisions. What will the major donors of our current era of significant philanthropic change look like? What kind of philanthropists will they be or become? This research seeks to understand who these next gen donors are and how they think. It aims to: • Reflect back to these donors what we hear them saying about themselves in order to help them become more proactive donors, stewards, grantmakers, and agents of social change; • Encourage and inform conversations among multiple generations involved in philanthropy today and in the future; • Help those who seek to engage and assist these next gen donors to do so in more effective and productive ways, to inspire them and help them make change. This report is based on first-of-its kind data, listening to members of the next generations of major donors, ages 21 to 40, in their own voices. A national online survey (310 total responses) and indepth interviews (30 total) have revealed the following key findings: 1. Driven by Values, Not Valuables: Because these next gen donors come from families with wealth and philanthropic resources, are members of generations experiencing rapid social changes, and are currently in important developmental stages of their lives, many readers may expect them to be entitled by privilege, careless with legacy, and eager for change. However, we have discovered quite the opposite. Values drive these next gen major donors, not valuables – values they often say they have learned from parents and grandparents. They are mindful of the privilege they have inherited or that co-

267 #NEXTGENDONORS


268 DA PREDATORI A IMPRENDITORI

mes with the wealth they are creating. They seek a balance between honoring family legacy and assessing the needs and tools of the day. They fund many of the same causes that their families support and even give locally, so long as that philanthropy fits with their personal values. They give using many of the same methods that their families use, but they want to explore new philanthropic and investing tools as well. They are eager to share in lifting the mantle of responsibility, along with other members of their families, and to put their resources to work for social good. Yet while they feel a commitment to philanthropy that comes from the past, they plan to meet that commitment in somewhat different ways in the future. Most of all, they are ready to be donors – and all that the term entails – now. 2. Impact First: The word “strategic” is used – probably over-used – in many different ways in the field of philanthropy these days. But these next gen major donors highlight the importance of strategy for the future of the field. They see philanthropic “strategy” as the major distinguishing factor between themselves and previous generations. They intend to change how decisions are made and how research and due diligence are conducted, utilizing multiple sources for information and all of the “tools in the toolbox,” as one of them describes it. They see previous generations as more motivated by a desire for recognition or social requirements, while they see themselves as focused on impact, first and foremost. They want impact they can see, and they want to know that their own involvement has contributed to that impact. They want to use any necessary strategies, assets, and tools – new or old – for greater impact. 3. Time, Talent, Treasure, and Ties: Once engaged, these next gen major donors want to go “all in.” Giving without significant, hands-on engagement feels to them like a hollow investment with little assurance of impact. They want to develop close relationships with the organizations or causes they support; they want to listen and offer their own professional or personal talents, all in order to solve problems together with those whom they support. They have grown up volunteering, and they still want to offer their time, but in more meaningful ways, not just


holding a seat on a gala organizing committee. Like other Gen Xers and Millennials, these next gen donors are highly networked with their peers. They learn about causes and strategies from their peer networks and enjoy sharing their own knowledge and experiences with their peers. They believe that collaborating with peers makes them all better donors, and extends their impact. Put simply, they want to give their full range of their assets – their treasure, of course, but also their time, their talents, and even their ties, encouraging others to give their own time, talent, treasure, and ties. 4. Crafting Their Philanthropic Identities: As much as they discuss what and how they think about philanthropy and what they definitely want to do when they take over, these next gen major donors are still figuring out who they will be as donors. Many are in their twenties, experiencing a move from adolescence to emerging adulthood and developing a sense of self. All are from high-capacity families, where wealth does not always transfer easily to the next generation, and where many adolescents come of age feeling like children waiting to inherit independence on many levels. And lastly, events and conditions specific to these historical generations have left lasting impressions that must affect how they act as donors. How do you craft a philanthropic identity amid these three forces? Mostly, these donors say, through personal experience. They learn most from seeing and doing, or even hearing from others about their own authentic experiences of seeing and doing. Rather than waiting until the sunset of their lives to decide who they are as philanthropists and what legacies they want to leave, these next gen major donors actively craft their identities now and actively think about their own legacies. The process of identity formation is important to all generations in all parts of society. But the process of philanthropic identity formation among these particular next gen major donors is especially significant, not just for the field of philanthropy, but for everyone affected by major philanthropy in our society. Again, these generations of major donors have the potential to become the most significant philanthropists in history. Providing a glimpse into their emerging philanthropic identities is

269 #NEXTGENDONORS


270 DA PREDATORI A IMPRENDITORI

the purpose of this study. What we have found should help us all be less afraid as they take the reins. These next gen donors do not plan to let the legacies of philanthropy wither away. However, while they respect their families’ legacies and continue to give to similar causes and in similar ways as their families, they are also eager to revolutionize philanthropy. They want to make philanthropy more impactful, more handson, more networked. While these next gen donors want to change things fundamentally, they want to do so in responsible ways, honoring the past while improving the future. They take their roles as major donors seriously. And as they grow into these roles, they are also eager to be taken seriously.


WORLD GIVING INDEX 2012

271

Tabella della classifica dei venti Paesi nel mondo che hanno dimostrato una percentuale pi첫 elevata di donazioni filantropiche.

WORLD GIVING INDEX 2012

Top 20 countries in the World Giving Index, with score and participation in giving behaviours Country

World Giving Index Ranking

World Giving Index Score (%)

Donating money (%)

Volunteering time (%)

Helping a stranger (%)

Australia

1

60

76

37

67

Ireland

2

60

79

34

66

Canada

3

58

64

42

67

New Zealand

4

57

66

38

68

United States of America 5 57 57 42 71 Netherlands

6

53

73

34

51

Indonesia

7

52

71

41

43

United Kingdom 8 51 72 26 56 Paraguay

9

50

48

42

61

Denmark

10

49

70

23

54

Liberia

11

49

12

53

81

Iran

12

48

51

24

70

Turkmenistan

13

48

30

58

56

Qatar

14

47

53

17

71

Sri Lanka

15

47

42

43

55

Trinidad and Tobago 16 45 44 30 62 Finland

17

45

50

27

57

Philippines

17

45

32

44

58

Hong Kong

19

44

64

13

56

Oman

19

44

39

22

72

Only includes countries surveyed in 2011. Data relate to participation in giving behaviours during one month prior to interview. World Giving Index scores are shown to the nearest whole number but the rankings are determined using two decimal points.


272 DA PREDATORI A IMPRENDITORI

Considerando il livello di donazioni internazionali, la seguente tabella mostra la posizione e il punteggio ottenuto da tutti i Paesi del mondo in ordine alfabetico.

Countries listed alphabetically with region, World Giving Index ranking and score Country Region

World Giving Index Ranking

World Giving Index Score (%)

Afghanistan Southern Asia 48 35 Albania Southern Europe 144 13 Algeria Northern Africa 125 18 Angola Middle Africa 30 40 Argentina South America 93 24 Armenia Western Asia 119 19 Australia Australia and New Zealand 1 60 Austria Western Europe 28 41 Azerbaijan Western Asia 76 28 Bahrain Western Asia 65 31 Bangladesh Southern Asia 109 22 Belarus Eastern Europe 91 25 Belgium Western Europe 54 34 Belize Central America - na Benin Western Africa 134 15 Bolivia South America 61 32 Bosnia and Herzegovina Southern Europe 115 20 Botswana Southern Africa 105 22 Brazil South America 83 27 Bulgaria Eastern Europe 137 15 Burkina Faso Western Africa 130 17 Burundi Eastern Africa 140 14 Cambodia South Eastern Asia 40 37 Cameroon Middle Africa 67 30 Canada North America 3 58 Central African Republic Middle Africa 99 23 Chad Middle Africa 102 23 Chile South America 34 38 China Eastern Asia 141 13 Colombia South America 42 37 Comoros Eastern Africa 79 27 Congo Middle Africa 83 27 Costa Rica Central America 48 35


Country Region

World Giving Index Ranking

World Giving Index Score (%)

Cote d'Ivoire Western Africa - na Croatia Southern Europe 132 16 Cyprus Western Asia 21 44 Czech Republic Eastern Europe 98 24 Democratic Republic of the Congo Middle Africa 130 17 Denmark Northern Europe 10 49 Djibouti Eastern Africa 113 21 Dominican Republic Caribbean 24 43 Ecuador South America 128 17 Egypt Northern Africa 105 22 El Salvador Central America 108 22 Estonia Northern Europe 79 27 Ethiopia Eastern Africa - na Finland Northern Europe 17 45 France Western Europe 54 34 Gabon Middle Africa 78 28 Georgia Western Asia 128 17 Germany Western Europe 34 38 Ghana Western Africa 44 36 Greece Southern Europe 145 13 Guatemala Central America 48 35 Guinea Western Africa 66 31 Guyana South America - na Haiti Caribbean 67 30 Honduras Central America 31 40 Hong Kong Eastern Asia 19 44 Hungary Eastern Europe 94 24 Iceland Northern Europe - na India Southern Asia 133 16 Indonesia South Eastern Asia 7 52 Iran Southern Asia 12 48 Iraq Western Asia 91 25 Ireland Northern Europe 2 60 Israel Western Asia 54 34 Italy Southern Europe 57 33 Jamaica Caribbean 32 39 Japan Eastern Asia 85 26 Jordan Western Asia 110 21 Kazakhstan Central Asia 115 20 Kenya Eastern Africa 40 37 Kosovo Southern Europe 79 27 Kuwait Western Asia - na Kyrgyzstan Central Asia 99 23

273 WORLD GIVING INDEX 2012


274 DA PREDATORI A IMPRENDITORI

Country Region

World Giving Index Ranking

World Giving Index Score (%)

Lao People's Democratic Republic South Eastern Asia - na Latvia Northern Europe 74 29 Lebanon Western Asia 67 30 Lesotho Southern Africa 64 32 Liberia Western Africa 11 49 Libya Northern Africa - na Lithuania Northern Europe 105 22 Luxembourg Western Europe 28 41 Madagascar Eastern Africa 134 15 Malawi Eastern Africa 52 34 Malaysia South Eastern Asia 76 28 Mali Western Africa 102 23 Malta Southern Europe 21 44 Mauritania Western Africa 72 29 Mauritius Eastern Africa 23 43 Mexico Central America 75 28 Mongolia Eastern Asia 46 35 Montenegro Southern Europe 145 13 Morocco Northern Africa 126 18 Mozambique Eastern Africa 111 21 Myanmar South Eastern Asia - na Namibia Southern Africa - na Nepal Southern Asia 115 20 Netherlands Western Europe 6 53 New Zealand Australia and New Zealand 4 57 Nicaragua Central America 89 25 Niger Western Africa 119 19 Nigeria Western Africa 58 33 Norway Northern Europe - na Oman Western Asia 19 44 Pakistan Southern Asia 85 26 Palestinian Territories Western Asia 123 19 Panama Central America 58 33 Paraguay South America 9 50 Peru South America 94 24 Philippines South Eastern Asia 17 45 Poland Eastern Europe 94 24 Portugal Southern Europe 119 19 Puerto Rico Caribbean - na Qatar Western Asia 14 47 Republic of Korea Eastern Asia 45 36 Republic of Moldova Eastern Europe 88 26 Romania Eastern Europe 119 19


Country Region

World Giving Index Ranking

World Giving Index Score (%)

275

Russian Federation Eastern Europe 127 18 Rwanda Eastern Africa 141 13 Saudi Arabia Western Asia 87 26 Senegal Western Africa 118 20 Serbia Southern Europe 137 15 Sierra Leone Western Africa 33 39 Singapore South Eastern Asia 114 20 Slovakia Eastern Europe 79 27 Slovenia Southern Europe 34 38 Somaliland (Region) Eastern Africa 27 42 South Africa Southern Africa 70 30 Spain Southern Europe 72 29 Sri Lanka Southern Asia 15 47 Sudan Northern Africa 43 36 Swaziland Southern Africa 48 35 Sweden Northern Europe 37 38 Switzerland Western Europe - na Syria Western Asia 58 33 Taiwan Eastern Asia 52 34 Tajikistan Central Asia 61 32 Thailand South Eastern Asia 26 42 The former Yugoslav Republic of Macedonia Southern Europe 104 23 Togo Western Africa 141 13 Trinidad and Tobago Caribbean 16 45 Tunisia Northern Africa 94 24 Turkey Western Asia 137 15 Turkmenistan Central Asia 13 48 Uganda Eastern Africa 46 35 Ukraine Eastern Europe 111 21 United Arab Emirates Western Asia 37 38 United Kingdom Northern Europe 8 51 United Republic of Tanzania Eastern Africa 99 23 United States of America North America 5 57 Uruguay South America 89 25 Uzbekistan Central Asia 24 43 Venezuela South America 123 19 Vietnam South Eastern Asia 70 30 Yemen Western Asia 134 15 Zambia Eastern Africa 37 38 Zimbabwe Eastern Africa 63 32

WORLD GIVING INDEX 2012


276 DA PREDATORI A IMPRENDITORI

SITOGRAFIA RESPONSABILITÀ SOCIALE E SOSTENIBILITÀ D’IMPRESA World Business Council for Sustainable Development WBCSD. Business solutions for a sustainable word, www.wbcsd.org United Nation Global Compact, www.unglobalcompact.org TriplePundit. Planet, profit, people. Media Company for the business community, www.triplepundit.com CSR Manager Italia, www.csrmanagernetwork.it Guardian Sustainable Business. Ideas and insights for progressive business leaders, www.guardian.co.uk/sustainable-business CSRWIRE. The Corporate Social Responsibility Newswire, www.csrwire.com The European business review. Sustainability, www.europeanbusinessreview.com Sustainable Business, www.sustainablebusiness.com Sustainable Business Institute, California. www.sustainablebusiness.org University of Oregon. Office of sustainability, sustainability.uoregon.edu BILANCI SOCIALI E DI SOSTENIBILITÀ GRI - Global reporting Initiatives, www.globalreporting.org GLOBAL COMPACT Communication on Progress, www.unglobalcompact.org GBS - Gruppo di studio per il Bilancio Sociale, www.gruppobilanciosociale.org Linee Guida per il Bilancio sociale delle ass. non-profit, www.celivo.it


Bilancio Sociale: linee guida per le amministrazioni pubbliche - Formez, bilanciosociale.formez.it Accountability, www.accountability.org Bilancio Sociale, www.bilanciosociale.it Linee guida per l'integrazione tra bilancio ambientale e sistema di gestione ambientale, docs.google.com Il Bilancio Ambientale negli Enti Locali, www.isprambiente.gov.it SOCIETÀ CIVILE E PROCESSI DI SVILUPPO SOSTENIBILE DAL BASSO DESIS - Design for Social Innovation towards Sustainability, www.desis-network.org EU-CSS "Civil Society on Sustainability", www.project-css.eu OccupyWallStreet, occupywallst.org Movimento decrescita felice, decrescitafelice.it Associazione per la decrescita. Verso una società equa, sostenibile, pertecipata, www.decrescita.it WWOOF Italia - scambio mano d'opera/vitto e alloggio in fattorie biologiche nel mondo, www.wwoof.it ItaliaFutura, www.italiafutura.it RIVISTE, BLOG, SOCIAL NETWORK Decrescita felice Social Network, www.decrescita.com Sustainableman, sustainableman.org GreenMe.it, www.greenme.it Welcome to EcoTeams. Start living a greener life, together, ecoteams.org.uk Sostenibilità e partecipazione, marraiafura.com Zoes, www.zoes.it Altraeconomia. Economie solidali, diritti, nuovi stili di vita, www.altreconomia.it Valori. Periodici di economia sociale, finanza etica e sostenibilità, www.valori.it

277 SITOGRAFIA


278 DA PREDATORI A IMPRENDITORI

Reporter 2.0, www.reporter2dot0.com BottomUpThinking. The Ugly side of conservation and development, bottomupthinking.wordpress.com

ALTRA ECONOMIA E COMMERCIO EQUO Fairtrade Italia, www.fairtradeitalia.it Fairtrade International, www.fairtrade.net AltroMercato. Commercio equo e solidale, www.altromercato.it Rete di Economia Solidale. Un percorso da tracciare verso un'economia, www.retecosol.org Gruppi di acquisto solidale - GAS, www.economia-solidale.org Solidarius, www.solidarius.com.br Farmer markets. Mercati del contadino, www.mercatidelcontadino.it La terra Trema, www.laterratrema.org Associazione italiana per l’agricoltura biologica, www.aiab.it La via Campesina, International peasant’s Movement, viacampesina.org/en Finansol.it. promozione della finanza solidale, www.finansol.it Urgenci - Partenariati locali solidali tra produttori e consumatori, www.urgenci.net

EVENTI E FIERE Fa’ la cosa giusta! Fiera del consumo critico e degli stili di vita sostenibili, falacosagiusta.terre.it Terra Futura - mostra/convegno sulle buone pratiche di vita - Firenze, www.terrafutura.it Quattro passi verso un mondo migliore - Fiera per un'economia di giustizia - Treviso, www.4passi.org Dal dire al fare. Il salone della responsabilità sociale dell’impresa, www.daldirealfare.eu


MEMBRI ASSEMBLEA TWINS Lilliana Autelli, Socio sostenitore Donatella Bosio Sostenitrice e Genitore a Distanza Umberto Camera Tesoriere Alberto Cattaneo Founding Partner Cattaneo Zanetto & Co. Tomaso Davico Responsabile Servizio Sviluppo Nuovi Mercati in Italease Gestione Beni S.p.A. Corrado Di Mattina Avvocato Ernesto Di Sarro Socio Sostenitore e Vice Presidente Davide Frezzato Rappresentante volontari e Genitori a Distanza Massimo Guffanti Avvocato Diego Leveghi, CFO QlikView Alessandra Manuli Amministratore Delegato di Hedge Invest SGR Elisabetta Manuli Vice Presidente Hedge Invest SGR Diego Masi Presidente e socio fondatore Armyne Needham Sostenitrice Daria Oggioni Socia Sostenitrice e fondatrice Edmond Opondo Oloo Director and founder of Grapesyard Organization NGO Marco Pontini Direttore Generale Marketing e Commerciale Gruppo Radio Italia Alice Riva Segretaria e presidente GapYear Onlus Daniela Rolandi Matrix SPA Massimo San Giuseppe CEO di QlikView

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