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Marco Bazzoni
MARCO BAZZONI UNA RISATA CI SALVERÀ
Foto Claudia Casciani
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di DANIELE DETTORI Q ualcuno lo identifica con l’indimenticato lettore multimediale 4.0. Per altri è Gianni Cyano, il divo del “CAnto”. Per tutti è BAZ, al secolo Marco Bazzoni, classe 1979, sassarese e un’esperienza invidiabile maturata tra villaggi turistici, scuole di recitazione, palcoscenici nazionali e internazionali. Lo abbiamo raggiunto telefonicamente appena sceso dal treno, di ritorno a casa dopo uno dei numerosi viaggi che hanno fatto da sfondo alla tournée del suo ultimo spettacolo, La verità rende single . «È lo show che fino ad ora mi ha dato più soddisfazioni», racconta. «Non parlo tanto dei numeri quanto del risultato che ha sul pubblico, perché è uno spettacolo diverso dagli altri e le persone lo percepiscono. A fine serata mi dicono che non si aspettavano assolutamente qualcosa del genere. In senso positivo, naturalmente (ride, ndr)». Ecco, questo è Marco Bazzoni: il sorriso da eterno ragazzo e la battuta sempre dietro l’angolo. Facciamo allora un passo indietro nel tempo e cerchiamo di capire come dovesse essere il BAZ antelitteram, ai tempi della scuola. «Sono sempre stato un ca… un rompiscatole, questo si può scrivere, dai. Andavo a scuola vicino a casa perché da Latte Dolce allo Scientifico erano due minuti a piedi. In generale sono partito bene fin dalle elementari, ho mantenuto alle medie e, anche se la voglia di studiare non mi ha mai troppo caratterizzato, ho finito regolarmente lo Scientifico. All’Università ho mollato. Quella che volevo fare io non potevo permettermela: era il DAMSma si trattava di andare fuori. Così ho ripiegato su un qualcosa di più vicino e i ripieghi non sono mai la scelta giusta». Poi arriva la svolta: i villaggi turistici. «I villaggi sono stati un inizio, utilissimo per sma
liziarmi e anche per capire cosa volessi fare perché, in realtà, lì ricoprivo qualsiasi ruolo di cui ci fosse bisogno. La cosa di cui soprattutto mi sono accorto, però, è che mi piaceva stare sul palcoscenico. Successivamente ho capito che fare l’animatore non vuol dire fare il comico. La vera formazione in questo senso è arrivata quando sono fuggito a Milano per studiare recitazione, improvvisazione, e mi sono trovato a battere i locali, le bettole anche… sempre salendo un pochino di livello con il passare degli anni e con la preparazione. Lo studio è qualcosa che non deve mai terminare. Smettere di prepararsi per stupire il pubblico probabilmente vuol dire anche smettere di farlo ridere». Ci viene una curiosità: provenendo da una famiglia dove non c’erano precedenti in questo senso, come è stata accolta, in casa, l’idea di Marco di voler intraprendere la carriera dello spettacolo? «Avevo 19 anni quando sono andato via per iniziare a lavorare nei villaggi. All’inizio i miei genitori non ne volevano sapere. Quando però mi hanno visto sul palco – l’occasione è stata l’ultima mia stagione turistica in Egitto – hanno detto: “Forse stai seguendo la tua strada”. Subito dopo sono andato a Milano e, di nuovo, erano un po’ combattuti. Mio padre diceva ridendo a mia madre: “Fallo andare, che tanto fra sei mesi torna”. Però devo riconoscere che, al di là dei comprensibili dubbi e delle ansie che ha ciascun genitore, mi sono stati sempre molto vicino. Ricordo che mio padre non riusciva a vedere i primi dieci minuti dei miei spettacoli. Entrava sempre dopo perché temeva, soprattutto i primi tempi, che sbagliassi qualcosa nell’attacco. L’inizio di uno spettacolo è il momento più difficile dell’esibizione. Quando poi vedeva che era tutto a posto, allora entrava in sala». E dopo Milano è la volta dell’America. «Sì, trovo che lì i comici siano molto più valutati e che dietro la loro figura ci sia uno studio maggiore. Per contro, gli manca qualcosa che invece abbiamo sviluppato di più qua in Italia: noi siamo figli della commedia dell’arte. Loro distinguono molto la famosa standup comedy (il monologo, diciamo) dagli sketch con i personaggi, che vengono relegati invece a improvvisazione. In Italia, spesso c’è più commistione fra questi due aspetti». Marco confessa che stava per ripartire alla volta degli Stati Uniti quando è arrivata la chiamata, alla quale non ha saputo dire no, di RDS. «Siamo una grande famiglia dove le cose più divertenti succedono a microfoni spenti. Rossella già la conoscevo, Ciccio solo un pochino ma dal primo giorno c’è stato grande affiatamento. Considera che quando sono arrivato a RDS
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erano state programmate due settimane di prove per poter arrivare, diciamo, a un ideale feeling radiofonico. Il Direttore, dopo aver sentito la prima ora del primo giorno, ha detto: “Siamo a posto così”». A proposito di giornate, quando chiediamo a Marco come trascorre di solito le sue scopriamo che ha una tabella di marcia abbastanza fitta. «In buona parte è coperta dalla radio perché mi alzo prestissimo, vado in studio e preparo le cose anche per il giorno dopo.
Ma dipende dai periodi. Adesso, per esempio, conclusa la tournée dedicherò gran parte della giornata proprio alla ricerca e alla scrittura per un nuovo spettacolo. Ci vorrà almeno un annetto tra prove e composizione delle musiche. Poi mi dedico allo sport e sono malato di tecnologia. Per svagarmi, nel tempo libero scelgo solo film e serie tv che mi interessano». E in cucina? «Sono campione europeo di carbonara. Sia a prepararla che a mangiarla».
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