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trimestrale dell’associazione Diabolus in Musica

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numero 2 _ Speciale Eterotopie altri luoghi 08

FIORENZA BRIONI • PAOLO GIANOLIO • ENRICO VOCERI • MICHEL FOUCAULT • MYLICON/EN • GIOVANNA VENTURINI • ALESSANDRO CAPPABIANCA • LETIZIA MICHIELON • GYÖRGY LIGETI • CARLO SERRA • MAURO GRAZIANI • CORRADO ROJAC • PAOLO PEREZZANI • MICHELE EMMER • EDWIN ABBOTT • RICCARDO MASSARI SPIRITINI • PAOLO CAVINATO • GIORGIO SANCRISTOFORO • SIMONA BERTOZZI • CELESTE TALIANI • MATTEO MOLINARI • MICOL FERRETTI • IGOR STRAVINSKIJ • LUIGI MANFRIN • LEONARDO ZUNICA • ENRICO ALBERINI


trimestrale dell’associazione Diabolus in Musica

numero 2 _ Speciale Eterotopie altri luoghi 08

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editoriale Come

uno scoglio di roccia calcarea, l’arte è sfaccettata, ambigua, polimorfa, insidiosa, complessa: presuppone una tensione costante, un’idea di salita, di conquista, di espugnazione. È un luogo fisico di attraversamenti, è una frontiera. La salita implica un rischio, è fatta di tappe, slanci, battute d’arresto e, finalmente, di vittoria sul limite. Come lo scoglio, i linguaggi contemporanei dell’arte nascono e muoiono in un terreno favoloso e leggendario, che sfugge alla cronologia, alla possibilità di una definizione, vivono negli interstizi delle parole, nel luogo senza luogo dei sogni. Eterotopie è esso stesso scoglio e roccia. Rappresenta la ricerca di altri modi, l’invenzione di uno spazio reale ed utopico allo stesso tempo, in cui la musica dialoga con le sue possibilità di reinventarsi, il gesto di farsi comprendere, l’immagine di evocare. Eterotopie, giunto alla quinta edizione, prosegue il suo itinerario accettando, candidamente e seriamente, la sfida complessa del contemporaneo. Il crescente consenso del pubblico, la significativa partecipazione delle istituzioni, il sostegno degli sponsors, l’attenzione di importanti enti culturali, accompagnano e rendono possibile la realizzazione di questo progetto, che si sta configurando come punto di riferimento di giovani artisti e compositori emergenti che, silenziosamente e coraggiosamente, descrivono e creano il paesaggio sonoro e visivo del nostro tempo. Diabolus in musica

Editoriale

redazione Leonardo Zunica Giovanna Venturini Micol Ferretti grafica Paola Pradella editing Paolo Vanini Mariangela Mattioli Ivan Fiaccadori hanno collaborato Fiorenza Brioni Paolo Gianolio Enrico Voceri Alessandro Cappabianca Letizia Michielon Carlo Serra Mauro Graziani Corrado Rojac Paolo Perezzani Michele Emmer Riccardo Massari Spiritini Paolo Cavinato Giorgio Sancristoforo Simona Bertozzi Celeste Taliani Micol Ferretti Matteo Molinari Luigi Manfrin Enrico Alberini

Contributi di F. Brioni, P. Gianolio, E. Voceri

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Piccolo dizionario degli artisti

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Utopie Eterotopie di Michel Foucault

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La Grande Guerra di Enrico Alberini

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mercoledì

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si ringraziano Adelphi edizioni Cronopio edizioni EDT edizioni ISBN edizioni Antonio Galuzzi Roberto Piccinini stampa FDA Eurostampa di Borgosatollo BS in copertina “Scoglio/R” foto di Leonardo Zunica Associazione Culturale Diabolus in Musica Via Eremo, 37/A 46010 Curtatone MN

venerdì

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www.diabolusinmusica.org www.eterotopie.it www.myspace.com/eterotopie

transatlantico.mn@gmail.com Registrato presso il Tribunale di Mantova N. 4/2008 Registro di stampa in data 16 Giugno 2008 Direttore responsabile Leonardo Zunica Stampato in 5.000 copie

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sommario

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Cartoline dal Vietnam di Mylicon/EN Societas Raffaello Sanzio Madrigale Appena Narrabile di Giovanna Venturini Il corpo (filmico) della musica di Alessandro Cappabianca Sintesi interculturale e teatralizzazione del tempo negli Études pour piano di György Ligeti di Letizia Michielon

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sabato

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La mia posizione di compositore oggi di György Ligeti

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Spazio Visivo #3 - Soglia di Paolo Cavinato

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Corpo Sonoro e risonanza di Carlo Serra

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Omaggio a Oliver Messiaen Uno scrigno di ricordi e polvere di Mauro Graziani

12 martedì

Liturgia e Catarsi di Corrado Rojac

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With drum and colors e addio di Paolo Perezzani

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Editoriale

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L’avventura di un povero quadrato di Michele Emmer

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Of the nature of Flatland di Edwin A. Abbott

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Cadenze oblique di Riccardo Massari Spiritini

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Tech Stuff di Giorgio Sancristoforo

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Sonorika V - Riverberi di Giovanna Venturini

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Terrestre in progress n°1 di Simona Bertozzi e Celeste Taliani

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The Spook Speaks II Intervista a El Gallo Rojo di Micol Ferretti

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Il mondo magico di Ladislas Starewitch di Matteo Molinari

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Le Sacre du Printemps Ricordi e commenti di Igor Stravinskij

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To the end of surfaces di Luigi Manfrin

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Un incontro perfetto di Leonardo Zunica

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Fiorenza Brioni (Sindaco di Mantova)

Paolo Gianolio (Vicesindaco e Assessore alla Cultura del Comune di Mantova)

I linguaggi dell’arte più recenti e incontaminati, più inesplorati dalla critica e quindi generalmente meno accessibili al

pubblico, stanno assumendo, in questi ultimi anni di attività del Centro Internazionale d’Arte e di Cultura di Palazzo Te, un ruolo tutt’altro che secondario nella sua programmazione artistica. Conosciuto come cuore organizzativo di grandi eventi espositivi dedicati ai nomi e ai periodi più significativi della storia dell’arte antica e moderna, il Centro di Palazzo Te accoglie infatti, sempre con maggiore passione, gli stimoli e la ricchezza delle espressioni più attuali sia della pittura, sia delle forme qui meno frequentate come il teatro, musica e danza, e sostiene con determinazione i progetti che mettono in luce gli aspetti più originali e notevoli. L’occasione di misurarsi in queste nuove esperienze è spesso offerta dalle proposte di giovani artisti, mantovani e non, che con il loro lavoro creano una rete di stimolanti collegamenti tra le varie discipline e interconnessioni temporali: citano il passato, e ci presentano i concetti, i metodi e i risultati artistici del domani. Alla loro creatività va rivolta un’attenzione particolare che subito deve tradursi in gesto di incoraggiamento e disponibilità economica. Con questo spirito viene promosso il festival Eterotopie, altri luoghi curato da Leonardo Zunica e Giovanna Venturini, che riuniscono a Mantova i talenti eterogenei di danzatori, musicisti, attori e artisti noti ed emergenti. Enrico Voceri (Presidente Centro Internazionale d’Arte e di Cultura di Palazzo Te)

c o n t r i b u t i

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lcuni studi recenti ritengono che la nozione moderna di paesaggio, quale luogo privilegiato della cultura del territorio, sia nato in Europa nel XVI secolo contestualmente alla prospettiva rinascimentale. Mantova che, con il suo patrimonio storicoartistico e la sua azione di conservazione e valorizzazione, è stata riconosciuta dall’Unesco patrimonio mondiale dell’umanità, ha l’opportunità di porsi come esempio di riferimento, incentivando l’azione di conservazione del suo “paesaggio culturale” e introducendo un ordine inedito nel territorio. E’ un disegno culturale virtuoso che comprende l’ unicità dei beni naturali e materiali, delle risorse economiche e culturali, delle relazioni umane, dei rapporti con l’esterno. E’ una scelta coraggiosa e non facile, che può essere vincente solo con l’apporto di tutti, con la consapevolezza che ogni atto di carattere innovativo, dinamico e creativo debba poggiare la sua incisività sul rispetto e sulla conoscenza approfondita dell’ambiente e del territorio della nostra città e sull’analisi dei complessi e articolati elementi di cui è plasmata la nostra identità. Il governo degli equilibri, nel rispetto del passato e con la prospettiva di un futuro del fare e del vivere di qualità, deve trovare corrispondenza nella raffigurazione di un mondo fatto di spazi che alludono ad altri spazi, di luoghi che prevedono altri luoghi, di riflessioni e pensieri che rispondano alle esigenze della comunità. Eterotopie è la declinazione nel presente e nel contemporaneo di questa argomentazione, con la convinzione profonda che l’arte sia un concetto aperto le cui condizioni mutano con il mutare dei contesti e grazie alla creatività umana. La musica, la danza, il teatro, le arti multimediali contemporanee, i movimenti e le avanguardie rispecchiano una percezione della realtà, la forza potente dell’inventiva e la capacità di creare nuove prospettive e visioni del mondo. Di tutto ciò dobbiamo sempre tenere conto sostenendo e promuovendo la contemporaneità, pur con tutte le difficoltà di approccio e comprensione, che sono sì un limite ma anche una sfida.

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Piazza San Francesco, 7 - 46100 Mantova Tel 0376 220318 Fax 0376 225770 info@grupposicla.com

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PICCOLO DIZIONARIO DEGLI ARTISTI

Mauro Graziani. Compositore. Dice di sé: “Come molti altri ho due vite, a tratti tenute insieme con colla di bassa qualità, ma che a volte si fondono dandomi quasi l’impressione di percorrere un’unica strada. In realtà, so fare bene una cosa sola: trattare con i computers. Questo è quello che mi viene naturale e facile. Che poi questa dote abbia trovato applicazione nel campo dell’ICT (sono analista free-lance, consulente e formatore da più di 20 anni) e in quello musicale (attività compositiva, di ricerca e di insegnamento da più di 1/4 di secolo), è una questione secondaria.

Simona Bertozzi. Danzatrice. Tra le più accreditate nell’ambito della danza contemporanea italiana. Lavora dal 2005 nella Compagnia Virgilio Sieni Danza, prendendo parte a numerosi progetti e produzioni tra cui: Mi difenderò (2005), Five Dreams (2006), Piega Canova (2006), Un Respiro (2006-2007), Tregua (2007-2008). Con Terrestre N.1 (2008), partecipa al Festival di Santarcangelo. Massimo Biasioni. Compositore. Ha composto musica orchestrale e da camera, per strumenti tradizionali ed elettronici, musica per teatro e per video. Suoi brani sono stati incisi su compact disc, radiotrasmessi dalla RAI e da altre emittenti ed eseguiti in importanti manifestazioni fra cui “World Music Days” (ISCM) a Yokohama, festival “Synthèse” di musica elettroacustica a Bourges, festival L.I.M. a Madrid, “Sonopolis” a Venezia, Teatro Argentina a Roma, Festival Musica ‘900 Trento. Alessandro Cappabianca. Architetto. È nel direttivo di “Filmcritica”. Per la collana “Il Castoro cinema” ha scritto una monografia su Erich von Stroheim e su Billy Wilder. Con M. Mancini è autore di Ombre urbane. Set e città dal cinema muto agli anni ‘80 e, con M. Mancini e U. Silva, di La costruzione del labirinto. Ha curato, con altri, il volume Michelangelo Antonioni. Architetture della visione. Flavia Casari. Pianista. Talento emergente della scena pianistica italiana, si dedica particolarmente alla musica del XX e del XXI secolo, eseguendo autori come Webern, Schönberg, Messiaen, Cage, Crumb, Xhuvani, Perezzani. Segue gli insegnamenti di K. Bogino, V. Pavarana e A. Ambrosini. Nel marzo 2007 si è laureata col massimo dei voti e lode alla facoltà di Filosofia presso l’università degli studi di Verona con una tesi su John Cage. Paolo Cavinato. Artista. Ha recentemente creato installazioni per la 9 Biennale d’Istanbul. Nel 2006 ha partecipato ad eventi espositivi quali: Salone Satellite di Milano; Bigscreen Italia a Kunming in Cina; Intimate Spaces alla CVB Gallery di New York; Benin Sultanahmetim all’Istituto Veneto di Cultura di Venezia. Nel 2008 è vincitore del Premio Fondazione Arnaldo Pomodoro. El Gallo Rojo. Collettivo musicale. Tra i gruppi più attivi sulla scena italiana, è un contenitore senza etichette stilistiche, un collettivo di musicisti con una naturale inclinazione alla sperimentazione e all’incrocio linguistico. Attorno ad una etichetta discografica, scambiano idee, consigli, esperienze d’ascolto. Realizzano performance. Michele Emmer. Professore di Matematica all’Università La Sapienza di Roma. Si occupa inoltre di cinema scientifico, di arte e scienza. Ha organizzato mostre, convegni e realizzato film e video. Ha realizzato 18 film della serie Arte e Matematica che hanno fatto il giro del mondo. Di essi ricordiamo Il nastro di Moebius, Flatlandia e uno spettacolare Bolle di sapone. Ha vinto nel 1998 il premio Galilei per la divulgazione scientifica. Cecilia Fontanesi. Giovane danzatrice. È da anni impegnata nell’ambito della danza contemporanea, completando la sua formazione in Italia e all’estero. Ha al suo attivo diversi spettacoli e performances. Lavora presso il Centro di formazione professionale Opus Ballet (Firenze).

Luigi Manfrin. Compositore. Nasce in Australia. Le sue composizioni sono state eseguite in festival e rassegne internazionali fra le quali: Milano Musica, Nuove Sincronie (Milano), Societè de Musique Contemporaine (Losanna), Gaudeamus Music Week (Amsterdam). I suoi lavori sono stati trasmessi da RAI 3, dalla Radio Svizzera Francese, e sono editi dalla casa editrice Suvini e Zerboni di Milano. Letizia Michielon. Pianista. Ha suonato per numerose associazioni, tra cui la Fondazione Teatro La Fenice, la Società dei Concerti di Milano, Amici della Musica di Padova, Amici della Musica di Venezia, Amici della Musica di Vicenza, Fondazione G. Cini di Venezia e la Società del Quartetto di Busto Arsizio. Si è esibita al Teatro la Fenice di Venezia, al Conservatorio “G. Verdi” e al Teatro delle Erbe di Milano, al Teatro Euclide (Roma), alla Sala Mozart (Bologna), al Mozarteum (Salisburgo), al Festsaal di Freiberg, al Teatro di Epinal (Francia) e all’Abravanel Hall (Salt Lake City). Sue registrazioni sono state trasmesse dalla RAI, dalla Radio di Salt Lake City e dalla NHK di Tokyo. Carlo Miotto. Percussionista. Lavora presso l’Orchestra dell’Ente Lirico dell’Arena di Verona. È direttore artistico del Festival Variazioni di Pressione (Verona). Si dedica all’esecuzione di musiche di autori contemporanei, come Bartòk, Stravinsky, Cage, Carter, Crumb, Xenakis. Mylicon/En. Duo formato da Lino Greco e Daniela Cattivelli. È impegnato nella sperimentazione di modi alternativi di concepire il live audio-video, recuperando performatività e concretezza attraverso l’uso di dispositivi analogici, digitali e meccanici. Federico Mosconi. Chitarrista. Collabora con Mauro Graziani al progetto S.N.O.W. (Sound, Noise and Other Waves), risultato di improvvisazioni, viaggi nell’immaginario, dialoghi attraverso il suono, costruzione (elaborazione) di scenari aperti ad ogni possibile variazione, stratificazioni di idee o scarti improvvisi verso altri scenari e soluzioni”. Paolo Perezzani. Compositore. Dopo aver iniziato la propria formazione musicale come autodidatta, inizia a studiare composizione con Salvatore Sciarrino. Nel 1992 vince il Concorso Internazionale di Composizione di Vienna con Primavera dell’anima (per orchestra), lavoro che è stato eseguito dalla Gustav Mahler Jugendorchester nell’ambito del Festival Wien Modern, con la direzione di Claudio Abbado. Alcune sue composizioni sono state diffuse dalla RAI e da diverse Radio nazionali di altri Paesi. Corrado Rojac. Fisarmonicista e compositore. Ha suonato per Aspekte (Salisburgo), Biennale di Zagabria, Chromas (Trieste), Musicarte (Torino), Novurgia (Milano), Aterforum (Rimini), Mundus (Reggio Emilia), Estate musicale sorrentina (Napoli), La Fenice (Venezia), Amici della musica (Padova), Rive-gauche (Torino, 2001), Spazionovecento (Cremona), Nuovi spazi musicali (Roma), Festival Pontino. Oleksandr Semchuk. Violinista. È stato insignito nel 2001 del titolo di “Artista Nazionale Ucraino”. Ha suonato come solista e in formazioni da camera in Russia, Ucraina, Svezia, Germania, Corea, Svizzera, Australia, Stati Uniti. Insegna presso la Scuola Superiore di Musica di Fiesole: tiene numerosi corsi di perfezionamento in città italiane come Mantova e Bergamo. I suoi allievi sono stati premiati in importanti concorsi internazionali.

Carlo Serra. Filosofo della musica. Si occupa di morfologie dello spazio musicale e dell’analisi delle strutture ritmiche, a cui ha dedicato numerose pubblicazioni tra cui: Intendere l’unità degli opposti (CUEM 2003), La rappresentazione fra paesaggio sonoro e spazio musicale (CUEM 2005). Insegna presso il DAMS di Arcavacata di Rende e presso l’Università degli Studi di Palermo. Dirige con Giovanni Piana, Elio Franzini e Paolo Spinicci il sito “Spazio Filosofico”. Socìetas Raffaello Sanzio. Compagnia teatrale italiana. Nata a Cesena nel 1981 dall’incontro dei fratelli Claudia e Romeo Castellucci e Chiara e Paolo Guidi ha dato vita ad un teatro lucidamente visionario e provocatorio con un uso estremo del corpo e il concepimento di complesse macchine teatrali. Rossella Spinosa. Pianista e compositrice. Si è esibita come solista e in diverse formazioni presso i più importanti teatri e festival (tra cui il Teatro degli Arcimboldi di Milano, il Teatro Sociale di Como, il Teatro Dal Verme di Milano, la Sala Santa Cecilia dell’Auditorium Parco della Musica di Roma, il Teatro Comunale di Benevento, Festa Europea della Musica di Roma, Festival Novecento in Musica di Ancona, Sistema Musica di Torino, Compositori a confronto di Reggio Emilia, Centro Culturale di Stato di S. Pietroburgo, Festival Internazionale di Benevento) in Europa, Russia, Stati Uniti e Canada. Riccardo Massari Spiritini. Compositore, sound artist, performer. Il suo lavoro è aperto alle continue trasformazioni e spesso connesso con la poesia, il teatro, il video. Collabora con il collettivo di artisti visivi Obliqua. Vive e lavora a Barcellona. Cristiano Tassinari. Artista visivo. Realizza numerose mostre personali, tra cui: Doppio Sguardo, a cura di Daniele Masini, presso il Foyer Teatro Diego Fabbri di Forlì (2004), Opera incisa, alla Galleria Graffio di Bologna (2005); Heads, a cura di Andrea Bondanini, presso la Libreria Bocca di Milano (2007). Nel 2006 è il vincitore del Premio Italian Factory per la giovane pittura italiana. Nel 2008 prende parte alla collettiva La Nuova Figurazione Italiana To be continued... che presenta le ricerche pittoriche figurative di questo ultimo decennio alla Fabbrica Borroni, Bollate (Milano). Vive e lavora a Berlino. Tobor Experiment (alias Giorgio Sancristoforo). Sound designer, tecnico del suono e docente di Sintesi al SAE International Technology College, ha all’attivo musiche per il cinema, televisione, una lunga serie di collaborazioni a progetti di sound art in tutto il mondo. Il suo sito è gleetchplug.com Stefano Trevisi. Compositore. Sue composizioni sono state eseguite in rassegne come Gaudeamus Music Week. (Amsterdam), Internationale FerienKurse (Darmstadt), Acousmania 06 (Bucarest), Zeppelin (Barcellona), Rai Nuova Musica 2006, Synthèse 2006 (Bourges), 51a Biennale di Venezia. I suoi lavori sono editi per Rai-Trade. Giovanna Venturini. Danzatrice e perfomer. Svolge da oltre un decennio attività nell’ambito della danza contemporanea e del teatro danza. Apprezzata interprete, ha collaborato con figure importanti della scena contemporanea italiana, tra i quali Monica Francia, Daniele Ziglioli, Nicola Laudati. Con il lavoro Pensatoio Tre Cubi (06 - Produzione Diabolus in Musica) ha ottenuto la menzione speciale al 33° Festival di Bourges. Leonardo Zunica. Pianista. Svolge attività concertistica in Italia e in Europa. Si è esibito in sale come FestSaal di Vienna, Rachmaninov Saal di Mosca, Teatro Romano di Fiesole, Teatro Bibiena di Mantova, Sala Maffeiana di Verona. È stato ospite in festival e stagioni concertistiche come Società dei Concerti di Milano, Amici della Musica di Verona, Società della Musica di Mantova, Festival Galuppi di Venezia, International Festival di Poreç, Kiev Music Festival. È direttore artistico del festival Eterotopie altri luoghi.

presso Zanzara - lungo lago di Porta Mulina

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UTOPIE ETEROTOPIE di Michel Foucault

Ci sono dunque paesi senza luogo e storie senza cronologia; città, pianeti, continenti, universi, di cui sarebbe certo impossibile

trovare traccia in qualche carta geografica o in qualche cielo, semplicemente perché non appartengono a nessuno spazio. Probabilmente queste città, questi continenti, questi pianeti sono nati, come si suol dire, nella testa degli uomini o, a dire il vero, negli interstizi delle parole, nello spessore dei loro racconti o anche nel luogo senza luogo dei loro sogni, nel vuoto dei loro cuori; insomma è la dolcezza delle utopie. Credo tuttavia che ci siano – e questo in ogni società – delle utopie che hanno un luogo preciso e reale, un luogo che si può localizzare su una carta; utopie che hanno un tempo determinato, un tempo che si può fissare e misurare secondo il calendario di tutti i giorni. E’ molto probabile che ogni gruppo umano, quale che sia, si ritagli dei luoghi utopici nello spazio che occupa, in cui vive realmente, in cui lavora, e dei momenti ucronici nel tempo in cui si affaccenda e si agita. Ecco che cosa voglio dire. Non si vive in uno spazio neutro e bianco; non si vive, non si muore, non si ama nel rettangolo di un foglio di carta. Si vive, si muore, si ama in uno spazio quadrettato, ritagliato, variegato, con zone luminose e zone buie, dislivelli, scalini, avvallamenti e gibbosità, con alcune regioni dure e altre friabili, penetrabili e porose. Ci sono le regioni di passaggio, le strade, i treni, le metropolitane; ci sono le regioni aperte della sosta transitoria, i caffé, i cinema, le spiagge, gli alberghi, e poi ci sono le regioni chiuse del riposo e della casa. Ora, fra tutti questi luoghi che si distinguono gli uni dagli altri, ce ne sono alcuni che sono in qualche modo assolutamente differenti; luoghi che si oppongono a tutti gli altri e sono destinati a cancellarli, a compensarli, a neutralizzarli o a purificarli. Si tratta in qualche modo di contro-spazi. I bambini conoscono benissimo questi contro-spazi, queste utopie localizzate. L’ angolo remoto del giardino, la soffitta o, meglio ancora, la tenda degli indiani montata al centro della soffitta, e infine – il giovedì pomeriggio – il grande letto dei genitori. E’ in quel letto che si scopre l’ oceano, perché tra le sue coperte si può nuotare; ma quel letto è anche il cielo, perché sulle sue molle si può saltare; è il bosco, perché ci si può nascondere; è la notte, perché fra le sue lenzuola si diventa fantasmi; ed è il piacere, perché al ritorno dei genitori si verrà puniti. Questi contro-spazi non sono, in verità, soltanto l’invenzione dei bambini: semplicemente perché i bambini non inventano mai niente; sono gli adulti, invece, che hanno inventato i bambini e sussurrato loro mirabili segreti, anche se poi restano sorpresi quando i bambini glieli urlano a loro volta nelle orecchie. La società adulta ha organizzato anch’essa, e ben prima dei bambini, i suoi contro-spazi, le sue utopie situate, i suoi luoghi reali fuori da tutti i luoghi. Ci sono i giardini, i cimiteri, i manicomi, le case chiuse, le prigioni, i villaggi del club Méditerranée e molti altri. Sì, sogno una scienza – dico proprio una scienza – che abbia come oggetto questi spazi diversi, questi altri luoghi, queste contestazioni mitiche e reali dello spazio in cui viviamo. Questa scienza non avrebbe il compito di studiare le utopie, perché bisogna riservare questo nome a ciò che veramente non ha nessun luogo, ma le etero-topie, gli spazi assolutamente altri; la scienza in questione dovrebbe necessariamente chiamarsi, anzi si chiamerà, si chiama già, etero-topologia. tratto dal volume “Utopie Eterotopie” di Michel Foucault (2006) Gentilmente concesso da Cronopio Edizioni

cartoline dal vietnam Cortile Meridionale dalle ore 20.00

mercoledì 27_8 C

osa rimane dell’immagine del Vietnam a 30 anni dalla vittoria della guerra? Che rimosso rappresenta oggi nell’occidente un paese che è stato il simbolo di una rivoluzione vittoriosa contro l’impero americano? Poco si è parlato del Vietnam in questo anniversario. Il Vietnam diviene opaco, complesso,

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contraddittorio. In questi loop abbiamo tentato di lavorare sul filo dell’immagine e della memoria di un esotico che fa resistenza. Esotizzazione, differenza, ma anche flusso, movimento... Cartoline dal Vietnam è un progetto in corso di Mylicon/En dedicato ai 30 anni dalla guerra piú mediatizzata e “cinematografica” di tutti i tempi. Le Cartoline sono dei loop con microvariazioni interne, il congelamento di gesti e movimenti, non si procede se non con scarti minimi. Tutto si ripete all’infinito e diventa quasi astratto. Ogni Cartolina ha il nome di un villaggio sperduto nella foresta nel nord del Vietnam, vicinissimi alla Cina, li nella Casa/ Capanna del capovillaggio è facile trovare le medaglie al valore per i servigi prestati durante la guerra, di fianco alla foto di Ho Chi Min. “Questo non è un film sul Vietnam, questo è il Vietnam” recitava il sottotitolo di “Apocalypse

di Mylicon/EN Now” di Francis Ford Coppola, il film che per molti critici ed intellettuali sancisce definitivamente la fine della storia e l’ingresso nello “spettacolo”. Tutti conoscono il Vietnam, Saigon, il Fiume Rosso e il Mekong, i Viet Cong - Charlie - e Ho Chi Min, lo zio Ho. Il Vietnam ha smesso di esistere nella storia e nella geografia per entrare nell’immaginario e nell’immaginazione collettiva. Il Vietnam che porta ancora i segni dell’orrore, Napalm e non solo, il Vietnam che orgoglioso rivendica la sua “vittoria”, il Vietnam degli anziani che parlano in Francese, il Vietnam che non ha mai vissuto lunghi periodi di pace, il Vietnam che è riuscito a fermare Gengis Khan e la sua orda. E’ facile imbattersi oggi a Saigon come ad Hanoi nell’Apocalypse Now Bar.


Socìetas Raffaello Sanzio madrigale appena narrabile Fruttiere di Palazzo Te ore 21.00 e 22.30

mercoledì 27_8 Socìetas Raffaello Sanzio Madrigale Appena Narrabile (2007) per voce e violoncello Claudia Castellucci, testi Scott Gibbons, musica Chiara Guidi, drammaturgia Eugenio Resta, violoncello voci Marco Andreetti Angela Burico Alessandro Cafiso Mara Cassiani Agata Castellucci Eva Castellucci Teodora Castellucci Maria Costantini Rascia Darwish Gabriella Maria Gasparri Simona Generali Diego Invernizzi Margareth Kammerer Sabina Laghi Sandro Mabellini Sara Masotti Caterina Moroni Alessandra Pasi Eugenio Resta Eleonora Ribis Gregorio Valducci

di Giovanna Venturini

Madrigale fa pensare a qualcosa di antico, porta con sé un immaginario d’altri tempi. La parola colpisce per la sua sonorità aperta e persino vagamente solenne. La sua origine è a tutt’oggi discussa, se ne ipotizza l’etimologia dal latino volgare mandria-mandrialis in riferimento al contenuto rustico e pastorale. Ma è presente anche nel Provenzale, nell’antica lingua d’oc, mandra gal, canto di pastori o ancora nello spagnolo mandrugada, canto dell’alba. Altri attribuiscono l’origine del nome Madrigale al termine materialis, ovvero cose di argomento profano, in contrasto con spiritualis.Tecnicamente il madrigale è una composizione poetica, di carattere profano, composta da otto o quattordici versi, per lo più endecasillabi, divisi in terzine e legati da rime baciate, scritte per essere musicate. Il madrigale era un genere molto praticato durante il Trecento, visse un momento di eclissi nel Quattrocento e raggiunse il suo apogeo nel corso del XVI secolo, in cui i compositori dedicavano una cura particolare alla corrispondenza tra suono e testo, attraverso ricerche cromatiche ed espressive, con effetti d’eco e di contrappunto. Madrigale appena narrabile di Chiara Guidi e Scott Gibbons sui testi di Claudia Castellucci è la presentazione sperimentale di un madrigale nuovo, un madrigale contemporaneo. Si tratta di una partitura musicale intessuta attorno a testi brevi ed essenziali, che sviluppano il tema di un incontro fortuito tra un uomo e un cane. Il canto corale si unisce alla recitazione, la parola incontra la musica senza alcuna struttura gerarchica, ogni elemento si colloca in un punto di consistenza “appena narrabile”. Il fraseggio sincopato si muove attorno ad un’espressione prossima al singulto, così come le frasi mozzate sono proprie di un compianto. Non si tratta della gamma completa di una voce colta nel pianto, ma il senso integrale viene restituito dall’insieme sinfonico formato dalla frase nella sua verità. C’è un silenzio attonito, c’è attesa, trattenimento, voce racchiusa, voce che scorre nella sua fluidità, dallo scoppio al soffio sottile. Occorre grande attenzione a quello che sta prima e a quello che sta dopo le mutilazioni sonore. Occorre ascoltare cosa scaturisce da quel punto protetto e inaccessibile in mezzo al proscenio, circondato da sedici figure raccolte in un’ensemble polifonica. Occorre concentrazione per cogliere le sfumature del racconto, che scorre tra i respiri e le pulsazioni gutturali. Occorre una profonda disponibilità a cogliere le parole, le poche rimaste, le sole che sembrano ancora possedere qualche segreto, qualche mistero. Questo madrigale del XXI secolo appare dunque come un concentratissimo esperimento che porta l’eco di una tradizione antica fin dentro la contemporaneità, un esperimento coraggioso, nato da una delle più importanti e significative compagnie del teatro di ricerca italiano, la Raffaello Sanzio.

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Sintesi interculturale e teatralizzazione del tempo negli Études pour piano di György Ligeti. di Letizia Michielon

Sala dei Cavalli ore 21.00

giovedì 28_8 Letizia Michielon, pianoforte Fabio Grasso Étude - Impromptu, Hommage à Ligeti (2007) György Ligeti Études pour piano, premier livre (1985) 1. Désordre 2. Cordes à vide 3. Touches bloquées 4. Fanfares 5. Arc - en - ciel 6. Automne à Varsovie Frédéric Chopin 12 Studi op. 25 (1829-1836) 1. Allegro sostenuto 2. Presto 3. Allegro 4. Agitato 5. Vivace 6. Allegro 7. Lento 8. Vivace 9. Allegro assai 10. Allegro con fuoco 11. Lento. Allegro con brio 12. Molto Allegro, con fuoco

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el linguaggio poliedrico di György Ligeti si fondono abilmente immaginazione musicale, interculturalità, interessi scientifici e suggestioni estetiche tra le più varie, che donano vita ad universi sonori intrecciati saldamente alla tradizione, ma nel contempo proiettati verso un orizzonte futuro che si tinge di tratti utopici e visionari. Gli Études pour piano, premier livre, opera cruciale della produzione ligetiana, pubblicata nel 1985, incarnano emblematicamente lo stile stratificato del maestro ungherese, giunto in quegli anni alla piena maturità creativa. Dopo il primo periodo di formazione nella terra di origine - ove, pur in un’atmosfera culturalmente e politicamente repressiva, opera ancora con estrema vitalità la feconda lezione di Bartók e Kodaly - e la scoperta rivelatrice, negli anni Cinquanta, delle più recenti intuizioni di Cage, Boulez e Stockhausen, Ligeti inventa, tra la fine degli anni Cinquanta e i primi anni Sessanta, un proprio percorso espressivo coerente, teso alla ricerca di nuove architetture compositive che ripensano alla radice i parametri del tempo e dello spazio sonoro. Lo sperimentalismo prosegue con le opere degli anni Sessanta e Settanta , nei quali si approfondiscono la ricerca micropolifonica e l’interesse per le componenti melodiche e ritmiche. Tra il 1978 e il 1982 Ligeti matura un ritorno critico alla tradizione, arricchito da una curiosità sempre più versatile che riesce a connettere tra loro riflessioni estetiche e scientifiche. Tre anni dopo le Drei Phantasien su testi di Hölderlin e il celebre Trio per violino, corno e pianoforte, dedicato alla memoria brahmsiana, viene pubblicata la prima raccolta degli Études per pianoforte, considerati unanimemente, per originalità di scrittura e innovazione della tecnica pianistica, uno dei capolavori della letteratura musicale del secondo Novecento. Il ciclo si compone di sei brani, parti di un organismo unitario, frutto di una prodigiosa capacità di sintesi che riesce ad amalgamare in uno stile personale i modelli estetici ereditati dalla tradizione musicale colta (in particolare Chopin, ma anche Liszt, Schumann, Brahms, Debussy, Ravel, Bartók), gli spunti tratti dal folclore ungherese, rumeno, balcanico, portoricano e africano, la conoscenza delle opere per pianoforte meccanico realizzate da Conlon Nancarrow, il linguaggio jazzistico e le suggestioni evocate dalle teorie scientifiche di quegli anni. Se la raccolta di Studies for Player Piano di Nancarrow rappresenta una sfida avvincente per realizzare, nei limiti imposti a un interprete umano, le sovrapposizioni e progressive gradazioni di velocità raggiunte dal compositore americano con i pianoforti meccanici grazie all’utilizzo di una particolare perforatrice, saranno soprattutto le teorie esposte da Simha Arom nei saggi etnomusicologici dedicati alle poliritmie sub-sahariane a rendere possibile la sovrapposizione di periodi musicali complessi, la cui unità di fondo viene garantita dalla continuità di una pulsazione isocrona. A tali desuete fonti di ispirazione, Ligeti unisce l’attrazione esercitata da alcune fondamentali intuizioni matematiche e fisiche di quegli anni: il pensiero generativo del computer (da cui sorge l’idea di dare vita a forme musicali “vegetali”), la teoria del caos (che propone un’interpretazione dei fenomeni caotici fondata sulla progressiva alternanza di ordine e disordine) e il fascino evocato dalla geometria frattale, sorta di arte astratta in grado di restituire visivamente la sensazione di un tempo incantato, quasi congelato. Nonostante Ligeti dichiari di avere voluto realizzare, con la prima collana di Studi, brani di carattere eminentemente virtuosistico, estranei ad ogni categoria stilistica predeterminata, è possibile comunque delineare alcuni dei principi estetici e compositivi che caratterizzano l’intera raccolta.


Emerge innanzitutto una concezione del suono inteso come realtà vibratoria che fa appello alla globalità del gesto percettivo, grazie alla convergenza tra la seduzione sensitiva e la facoltà conoscitiva. Il suono appare come forma in movimento, soggetta ad un processo di trasformazione continua, sospeso in trame spazio-temporali multiple, senza centro né gerarchie, simili a sistemi infiniti e aperti. Il ramificarsi di forme in espansione verso architetture sempre più complesse può essere assimilato ad un processo di cristallizzazione, durante il quale lo sfumare di una sezione nell’altra appare sempre estremamente morbido, in ossequio al principio di massima gradualità descritto dalla teoria del caos. L’illusionismo sonoro generato dalla variazione continua delle cellule musicali germinali riverbera come un’eco delle zone più sottili della coscienza, traccia preziosa di un tempo interiore divelto dal tempo cronologico ed immerso in una mescolanza fluida ove si fondono esperienze vive e proiezioni immaginative fantastiche. In questa sorta di mondo virtuale, dove nulla si crea e nulla si distrugge, in un continuo trasparire di presenze - assenze che emergono e si riassorbono nel silenzio, il tempo sembra ingoiato, staticizzato in un divenire immobile popolato da figure dalla latente drammaturgia. La teatralizzazione del tempo, con le sue diverse maschere, si rivela così il tema nascosto dell’intera raccolta, dinamizzata dal conflitto innescato grazie alla polarità ordine-caos. Tutti i sei studi, infatti, iniziano con formule musicali molto elementari che progressivamente si complicano approdando ad una dimensione caotica. L’apparente ordine con cui si apre il primo studio (Désordre), si allontana sempre più dalla chiarezza percettiva attraverso il sapiente utilizzo del décalage (ovvero lo slittamento prodotto dalla sottrazione o aggiunta progressiva delle pulsazioni che sorreggono il tessuto ritmico di crome), la biforcazione dei registri attuata tra le due sequenze melodiche affidate alla mano destra (sui tasti bianchi) e alla mano sinistra (sui tasti neri) e il crescendo irresistibile che sfocia nel finale. Il disordine, sorta di deviazione imprevedibile all’interno di un percorso infinitamente ripetitivo, è vissuto come una necessaria discontinuità che genera nuova energia e nuove possibilità di vita, proiettate verso un universo immaginario ove convivono armoniosamente Essere e Divenire. Ne scaturisce un effetto acustico spiraliforme che coniuga in sé la dimensione spaziale e la dimensione temporale, articolata in una sovrapposizione di diversi livelli di velocità. In Cordes à vide la ricerca sul fenomeno della turbolenza si concentra nell’esplorazione delle più intime profondità dell’inconscio, in un’indagine che mira a restituire i percorsi magnetici racchiusi nel flusso di coscienza e nella memoria. La complessità ritmica dona ora voce alle misteriose sovrapposizioni del tempo interiore, nutrito di desideri, sogni, ricordi, ansietà, silenzi, attese. Presente passato e

futuro convivono e si intersecano all’interno di un amalgama psichico cangiante, connesso grazie ai tenui fili tracciati dai percorsi della memoria. La dimensione dell’ascolto, dilatato fino a sfiorare le soglie di udibilità più sottili, si approfondisce ancor più nel terzo studio (Touches bloquées), costruito sul geniale intarsio di suoni e silenzi, ottenuti percuotendo alternativamente con una mano alcuni dei tasti tenuti abbassati dall’altra. Ne scaturiscono grappoli di cellule ritmico-melodiche che germinano espandendo il materiale tematico grazie all’utilizzo di abbellimenti e voci in contrappunto libero. La quinta sezione, l’unica a non presentare tasti bloccati, rivela, con le sue vertiginose pause, il senso recondito del

il ciclo che si era aperto con le spirali ascensionali di Désordre si conclude con il cedimento ad una forza dal potere oscuro che magnetizza l’energia del suono e la ingoia vorticosamente nel buio del nulla. brano e insieme dell’intero ciclo: il processo trasformativo del materiale tematico evoca per analogia le metamorfosi dei processi vitali che, privi di una precisa destinazione, precipitano tragicamente nell’abisso del nulla e del vuoto. Il silenzio rappresenta così l’esito del processo autosoppressivo del suono e contemporaneamente l’ombra preziosa che consente l’accrescersi dell’intero organismo compositivo. Le note mute suonate fin dalle prime misure evocano infatti spettri annichilenti che se da un lato consumano il suono, dall’altro ne rendono possibile l’evoluzione, incarnando il principio negativo necessario alla dialettica polare su cui si regge lo sviluppo del materiale tematico. Il tempo che si autodistrugge, confondendosi con il silenzio, si trasforma, in Fanfares, in un tempo che diventa spazio denso di compresenze. L’intuizione goethiana dell’istante capace di concentrare in sé la totalità dell’Essere si concretizza in questo contesto attraverso un gioco di specchi che moltiplica le identità tematiche. Giocando sulla rotazione dell’ostinato costruito sulla successione ritmica di 3+2+3 crome, la sequenza tematica affidata alle due fanfare appare teatralizzata in una polispazialità che irrora il suono di luce e leggerezza, avviando

alle rarefazioni meditative di Arc-en-ciel (Arcobaleno), apice contemplativo dell’intera raccolta. Le soluzioni ritmiche e armoniche ispirate al jazz generano infatti in questo brano un tessuto sonoro ove gli accordi appaiono simili a raggi di luce trascolorante che si rifrangono in cristalli purissimi. Si rimane incantati da questa atmosfera assolutamente libera da ogni rete concettuale preordinata, sospesa in una beatitudine immateriale, fuori dal tempo e dallo spazio . Al fascio di luce iridescente che sfiora lievemente il tempo cristalizzato di Arc-en-ciel, segue il lamento di Automne à Varsovie, ultimo tassello del polittico ligetiano, emergente dallo sfondo di una pioggia incessante, simbolo di un pianto infinito, in cui si consumano volti, identità, desideri. La progressiva saturazione delle velocità sorge da una cascata di ramificazioni ritmiche incastonate l’una sull’altra. L’implosione dello spazio acustico approda inesorabilmente al crollo finale: il ciclo che si era aperto con le spirali ascensionali di Désordre si conclude con il cedimento ad una forza dal potere oscuro che magnetizza l’energia del suono e la ingoia vorticosamente nel buio del nulla. L’ultima maschera indossata dal tempo, sintesi estrema di un pensiero compositivo che sorge sullo sfondo di un orizzonte umano e culturale sconfinato, conduce dunque paradossalmente al collasso nell’indifferenza e alla tragica auto-negazione dell’identità sonora: riflesso drammatico, forse, di una civiltà che non sempre sa rispettare le diversità e che ha scoperto nella distruzione uno dei principi polari su cui si regge il processo di sviluppo della vita. Ad alcune cellule motiviche utilizzate in Automne à Varsovie e nel Concerto per pianoforte e orchestra di Ligeti si ispira l’Étude-Impromptu (2007) di Fabio Grasso, ideato come Hommage al compositore ungherese. L’indagine sugli impasti timbrici generati dalla sovrapposizione dei registri estremi della tastiera, la ricerca sulla stratificazione temporale e l’articolazione in strati sonori multipli caratterizzano questo lavoro del giovane compositore e pianista vercellese, vincitore del Concorso internazionale di musica contemporanea di Orleans, formatosi alla scuola di Gorli, Donatoni e Manzoni. Posto ad ideale chiusura di serata, il ciclo chopiniano dell’op. 25, elaborato tra il 1829 e il 1836, descrive, a differenza della raccolta ligetiana, un’architettura slanciata eroicamente verso il vertice drammatico rappresentato dai tre studi conclusivi. Tutte le risorse tecniche più complesse si alternano in un crescendo sempre più ardito di difficoltà, sorretto da un piano armonico straordinariamente complesso e variegato. Anche in questo caso il virtuosismo compositivo e quello pianistico si trasfigurano in intuizione poetica capace di evocare, attraverso la magia del timbro, il rapimento suscitato dalle nuances psichiche più sottili.

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la mia posizione di compositore oggi di György Ligeti

Viviamo in tempi artisticamente pluralistici. Il modernismo e perfino l’avanguardia sperimentale esistono ancora ma movimenti artistici “postmoderni” si manifestano sempre più frequentemente. Quella di “premoderni” sarebbe tuttavia per questi movimenti una definizione piu idonea, perchè gli artisti che ne fanno parte mirano alla restaurazione di elementi e forme storiche: il naturalismo in pittura, colonne, cupole e timpani in architettura e, nella musica, una tonalità ritrovata unitamente a figurazioni ritmico-melodiche impregnate di pathos espressionista. La sintassi del diciannovesimo secolo è presente in tutte le arti. Questa nozione rétro dopo un periodo di sperimentazione e di modernità è comprensibile, e così pure il pathos soggettivo dopo un’era costruttivista. Comprensibile ma non perdonabile. Noi viviamo alla fine del ventesimo secolo in un mondo di microprocessori, di biotecnologia, di televisione, di manipolazione delle masse e di burocrazia, di dittature totalitarie espansioniste che fronteggiano democrazie populiste e società di consumi. Non siamo più alla fine del diciannovesimo secolo con le macchine a vapore, i becchi a gas, le masse povere di contadini e di operai, la ricca élite borghese decadente e viziata, le rivalità nazionaliste e i movimenti sociali operai. E il modernismo e l’avanguardia sperimentale degli anni Cinquanta e Sessanta, non appartengono forse anch’essi al passato, alla storia, all’accademia? Rifiutando del pari il rétro e la vecchia avanguardia mi dichiaro per un modernismo di oggi. Per me questo vuol dire in primo luogo una precisa distanza rispetto al cromatismo totale e alle dense tessiture micropolifoniche che caratterizzavano la mia musica tra la fine degli anni Cinquanta e l’inizio dei Sessanta. Questo significa anche sviluppo di una polifonia fatta di una rete di voci ritmicamente e metricamente complesse e al tempo stesso di un’armonia trasparente e consonante che non intende tuttavia ristabilire la vecchia tonalità. Per la ritmica e la metrica ci sono stati due influssi determinanti sulla mia musica degli anni Ottanta: la complessità polimetrica degli Studies for Player Piano di Conlon Nancarrow e la grande diversità delle culture musicali non europee. Tra queste ultime due in particolare mi hanno interessato: la musica dei Caraibi, alla quale mi ha introdotto nel 1979 un mio exallievo, il compositore portoricano Roberto Sierra, e, nel 1982-83, i folclori Banda Linda e Pigmeo della Repubblica Centroafricana. Si tratta di una musica polifonica di ricchezza ritmica incomparabile che ho conosciuto grazie alle ricerche del musicologo israeliano Simha Arom. Questo non significa affatto che la mia musica sia folclorica. Solo le tracce delle idee di base delle culture etniche agiscono sul mio pensiero musicale; la musica resta autonoma. Il mondo ritmico di Nancarrow, dell’America latina e dell’Africa centrale si amalgamano nella mia immaginazione con elementi del folclore ungherese e rumeno dei quali sono impregnato fin dalla mia gioventù e si trasformano nella mia musica in concezioni che non hanno nulla di folclorico ma restano individuali e costruite in maniera personale. C’è poi un altro settore della cultura contemporanea che ha influito in maniera ancora più decisiva sul mio pensiero musicale e si tratta del computer e delle modalità di pensiero scaturite dalla sua utilizzazione. Non è il computer in sè a influire sulle mie concezioni musicali ma piuttosto il tipo di pensiero che si forma intorno al computer: un pensiero strutturato a differenti livelli di astrazione, un pensiero che si manifesta in segnali, super-segnali e super-super-segnali che ci vengono consegnati dall’informatica e dall’intelligenza artificiale. Più precisamente si tratta di adottare un tipo di pensiero la cui composizione è generativa, un tipo di pensiero nel quale alcuni principi di base funzionano come i codici genetici producendo forme musicali “vegetali”; un procedimento analogo dunque alla crescita degli organismi viventi. In questo campo il mio pensiero musicale è stato profondamente influenzato dalle idee di Jacques Monod e di Manfred Eigen, nonchè dai libri di Douglas Hofstaedter. Per quanto riguarda la computer-music, alla quale mi hanno introdotto John Chowning e Jean-Claude Risset, aspetto con impazienza i risultati di centri di informatica musicale, quali l’università di Stanford e l’IRCAM. Una ulteriore sollecitazione scientifica, i cui risultati entusiasmanti esercitano sulle mie concezioni musicali un’influenza decisiva, è costituita dal mondo della geometria frattale sviluppata da Benoît Mandelbrot, ed in special modo mi interessa la rappresentazione grafica dei limiti complessi, realizzata recentemente da alcuni gruppi di matematici. Il pensiero e i metodi della scienza sono talmente diversi da quelli dell’arte che non sono certo la tecnologia e le matematiche ad assumersi il compito di creare opere d’arte. I dati della scienza potrebbero invece fecondare il pensiero e l’immaginazione artistica raggiungendo in questo modo un risultato capace di incidere in maniera decisiva sullo sviluppo di una nuova arte visuale e di una nuova musica. Un’arte di questo genere sarebbe perfettamente in sintonia con lo spirito e la concezione della vita del nostro tempo. Dal volume “Ligeti” Autori vari, a cura di Enzo Restagno, 1985. Gentilmente concesso da EDT edizioni

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omaggio a olivier messiaen nel centenario della nascita Sala dei Cavalli ore 21.00

venerdì 29_8 Corrado Rojac, fisarmonica Oleksandr Semchuk, violino Leonardo Zunica - Flavia Casari, pianoforte Mauro Graziani, live electronics e regia del suono Olivier Messiaen Fantaisie (1933) per violino e pianoforte Thème e variations (1932) per violino e pianoforte Sofia Gubaidulina De profundis (1978) per fisarmonica Corrado Rojac Liturgia (2008) Murato nell’immobilità Infinitamente è e diviene per fisarmonica, violino e pianoforte Olivier Messiaen Da “Vingt Regards sur l’Enfant-Jésus” (1944) I. Regard du Père IV. Regard de la Vierge XVI. Regard des prophètes, des bergers et des Mages per pianoforte Paolo Perezzani With drum and colors e addio (2008) per pianoforte e fisarmonica Mauro Graziani Uno Scrigno di Ricordi e Polvere (2008) per pianoforte amplificato e live electronics in quattro movimenti senza soluzione di continuità

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uno scrigno di ricordi e polvere di Mauro Graziani

In un momento in cui la musica è in cerca di idee e le trova nel lavoro sul suono e nella multimedialità, si può ancora scrivere per uno strumento dal suono così poco manipolabile da parte dell’esecutore come il pianoforte? Le motivazioni di questo brano sono molteplici: • • • • •

un gioco basato sulla corrispondenza lettere/note nel nome di Olivier Messiaen; il ricordo di un pezzo che avevo iniziato qualche anno fa e poi abbandonato; il ricordo delle emozioni suscitate dalla scoperta della musica di Messiaen, molti anni fa; la ripresa di alcuni frammenti dalle opere di Messiaen, principalmente dal Catalogue d’Oiseaux; lo studio dell’interazione pianoforte/elettronica dal vivo.

La trasformazione delle lettere in note è una consuetudine che esiste da molti secoli. Quella utilizzata qui, però, non si basa sui nomi delle note anglosassoni, ma sulla loro codifica digitale. Nel computer, infatti, le lettere vengono trasformate in numeri con un codice basato sul vecchio ASCII (A=65, B=66, etc.) mentre per le note si può utilizzare il MIDI nel quale il DO centrale è 60 e si prosegue aggiungendo o togliendo 1 per ogni semitono verso l’alto o il basso. L’applicazione di questo metodo al nome del nostro ha prodotto un risultato curioso:

Lettere

O

L

I

V

I

E

R

M

E

S

S

I

A

E

N

ASCII

79

76

73

86

73

69

82

77

69

83

83

73

65

69

78

Note

Sol

Mi

Do#

Re

Do#

La

Sib

Fa

La

Si

Si

Do#

Fa

La

Fa#

La sorpresa viene dalla traslitterazione del nome: rivoltando la serie e ignorando il doppio Do#, si ottiene La, Do#, Mi, Sol, Sib, Re cioè una limpida e innocente successione di terze che, peraltro, è un accordo congeniale al linguaggio di Messiaen, in bilico fra la tonalità, l’atonalità e la modalità. Così questo accordo è diventato l’asse portante di questo brano, anzi, queste sei note, nelle varie ottave, sono le sole utilizzate. Il brano, infatti, vive nell’immobilità armonica più assoluta perché, sebbene commemori la nascita del nostro (1908), non dimentica che Messiaen è cadavere dal 1992. Immobilità che è temperata dall’uso di tecniche di filtraggio della scala, che consistono nello sviluppare piccole sezioni focalizzate solo su alcune

note e sulle loro relazioni intervallari, tecniche ben conosciute e applicate, da Berg fino ai nostri giorni. In questo brano, l’elettronica utilizza gli stessi concetti trasposti a livello timbrico. Il suono, infatti, è elaborato e filtrato per selezionare alcune componenti basate sull’una o sull’altra nota della scala di cui sopra. I suoni del pianoforte vengono espansi grazie alla riverberazione e poi filtrati per evidenziare delle componenti spettrali tipiche di altre note. Ad esempio, in un accordo formato da La, Do# e Sib, l’elettronica evidenzia le componenti tipiche del Sol costruendo, così, un suono spurio, armonicamente non identificabile, caratterizzato dalle assenze. Perché l’assenza e il vuoto sono il senso ultimo di questo pezzo. Vale la pena di notare, infatti, che tutte le altre

motivazioni fanno perno sul ricordo. Perché i ricordi sono quello che ci resta quando qualcuno, che per noi significa molto, ci lascia. E non valgono tutte le storie secondo cui i ricordi conservano la presenza. Quando qualcuno sparisce dalla tua vita, quello che resta è il rimpianto per le cose non dette e non fatte (per es. avrei potuto andare a conoscerlo, come ho fatto con altri compositori per me importanti) e per quello che sarebbe potuto essere. Sì, ci sono anche i ricordi, che però sono immateriali e vengono rivissuti, rielaborati, analizzati e spezzettati fino a diventare polvere. E quando la polvere si posa resta la consapevolezza che qualcuno non c’è più e quello che rimane è solo un gran vuoto...

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In

alcune regioni della Russia orientale non è insolito vedere persone che piangono durante la messa. Lì, il rituale non è solo un costume figlio di liturgie di volta in volta più sbiadite, è ancora un luogo mistico, un’occasione di catarsi. Un tramite verso l’Assoluto, nonostante si percepiscano i limiti del dogma, il perimetro delle chiese. E poi pensavo a Olivier Messiaen, alle sue composizioni, a quel Verbo transustanziato in partitura musicale, a quel ritmo, per molti ancora apocrifo. Liturgia è un riferimento a queste due suggestioni, nell’orizzonte della poetica del maestro francese, alla quale ho dovuto confrontarmi nel momento della mia composizione, che nasceva appunto come tentativo di omaggio all’opera di Messiaen. Liturgia è un dittico suddiviso in due movimenti, dai titoli Murato nell’immobilità e Infinitamente è e diviene, due versi di Mario Luzi, poeta che sento affine all’atmosfera mistica che voglio descrivere. Si intuisce che il primo pezzo sarà nervoso, una disperata peripezia per sfuggire a una situazione di oppressione, che nel secondo movimento darà invece spazio a un’insolita cantabilità eterea, a un clima sereno, a una percezione di catarsi, a una partitura, in questi ultimi passaggi, davvero debitrice a Messiaen. Tutto ciò con l’intenzione, mai trascurata, di comporre una musica che fosse il più possibile vicina alle sonorità, a me familiari, del violino di Oleksander Semchuk e del pianoforte di Leonardo Zunica. Da qui l’entrata del violino, veemente e bizzarra, che vuole trascinarci con sé; altrettanto, verso la fine del primo movimento, i solo del pianoforte che ascendono verso un acuto quanto mai brutale, per poi ricadere di nuovo e di nuovo risalire verso un’uscita soltanto intravista, che infine appare nel secondo movimento, e il tutto si stempera. Anche qui la musica irrompe, ma sono esplosioni di gioia, non di angosciosa rabbia. In tutto questo, la fisarmonica si pone come un trait d’union, partecipa soffre e, in ultimo, si rasserena con entrambi gli altri strumenti, al termine di un labirintico percorso sonoro che si interpone, tra esecuzione ed ascolto, come tappa ineliminabile di quella meta che è la musica contemporanea. È una consuetudine non troppo onesta che

With drum and colors e addio

liturgia e catarsi transatlantico14

di Corrado Rojac

ci ha abituati a considerare l’ascolto come qualcosa di immediato, se non semplice per lo meno estemporaneo quanto, e non di più, del momento dell’esecuzione. Ridurre la musica a null’altro che svago è alienare una delle maggiori avventure intellettuali dell’uomo per esiliarla nell’ambito del superfluo. Mi piace ricordare che Newton

di Paolo Perezzani

Questa

musica vorrebbe agire sulla vostra psiche e sul vostro corpo: come può agire la musica quando non rinunci a farsi evento capace di provocare il nostro stupore e di aprirci perciò all’ascolto. Vorrebbe inoltre agire nel contesto della configurazione artistica del nostro tempo, e per questo ha anche a che fare con la verità:

credeva che, nell’universo, ci fosse corrispondenza fra la distanza dei pianeti e i rapporti della scala musicale. Ma quello di Newton non era ancora un cosmo che, come accadrà a partire dal ‘900, si era fatto carico della “gravitazione dell’inconscio”, gravitazione alla quale ha dovuto render conto la stessa arte, e dunque la stessa musica. Abbiamo perso l’illusione che tra due punti ci sia una e una sola retta. Nell’opera di Messiaen sento il presentimento di questa distanza, che probabilmente avrebbe chiamato Assoluto. Una distanza che si confonde nell’orizzonte del sacro. Una distanza liturgica.

“ogni verità è invenzione. Una verità è una procedura artistica inaugurata da un evento” (A.Bodiau). In un contesto che oggi non pare disposto annettere rilevanza alla dimensione estetica, e tanto meno in rapporto alla musica, non mi pare eccessivo o scontato ripartire da qui: e anche per quanto riguarda il senso del mio lavoro, il suo senso anche sociale, o politico. Costruire, far apparire, permettere il manifestarsi di una forma capace di dare vita alla materia sonora non può che comportare un continuo esercizio di assunzione di responsabilità, una infinita serie di scelte volte all’accadere di una effettiva esperienza estetica. Anche questa composizione, nel darsi all’ascolto (nell’aprirsi alla significatività) aspira intanto a dire della potenza della musica, e della sua capacità di rimetterci ogni volta in movimento, quando, reagendo al turbamento dell’incontro con la sua alterità, siamo disposti a prestarle attenzione, rispondendo al suo appello, completandola. Il titolo viene da un verso di Giovanni Raboni, e vuole anche essere un omaggio al poeta e all’uomo di cultura scomparso di recente. Parla dell’irrompere di qualcosa e del suo fulmineo scomparire (“With drum and colors” è un modo di dire traducibile con qualcosa di simile a “con gran fracasso”). Ha a che fare con la morte, ma dicendola senza disperazione, con sapiente e quasi divertito distacco. Il pianoforte e la fisarmonica agiscono soprattutto come un solo strumento dalle potenzialità alquanto nuove e singolari: da qui le dinamiche indipendenti e la costante tendenza alla costruzione di un unico suono complessivo, in continua trasformazione. Il suono del pianoforte viene inoltre trasformato anche attraverso l’azione, all’interno della cordiera, di un terzo esecutore impegnato a determinare una sorta di “preparazione mobile” dello strumento mentre il pianista agisce sulla tastiera. Lo scuotimento della fisarmonica e i cluster di entrambi gli strumenti contribuiscono al carattere fondamentalmente fragoroso e a tratti aggressivo di una composizione al cui interno si aprono però momenti di silenzio pressoché assoluto, quasi un invito a tentare l’avventura di allargare le nostre facoltà percettive: alla fine è da lì che emergeranno piccoli cenni di movimento, acutissimi frammenti di un melodiare infantile appena riconoscibile.


cadenze oblique meshes of the afternoon - at land Cortile Meridionale ore 21.30

sabato 30_8 Cadenze Oblique (2006) Riccardo Massari Spiritini, piano elettrificato, strumenti autocostruiti ed elettronica Meshes of the afternoon At land (B.N. - New York 1943-1944) due film di Maya Deren con musica originale di Riccardo Massari Spiritini

di Riccardo Massari Spiritini CADENZA/E (wikipedia) - Parte di un concerto alla fine del primo movimento dove lo strumento solista puó mostrare il suo virtuosismo. Nel XVIII secolo, quando i compositori interpretavano le proprie opere, questa sezione si improvvisava. A partire dal XIX secolo, si scriveva completamente. (Spiritini) - esibizione di abilitá e virtuosismo, spettacolo mediatico, espressione di potere. OBLIQUO/A (Spiritini) trasversale, non parallelo, non in linea, che deforma l’originale, indiretto, sovversivo.

La composizione di Spiritini si é trasformata fino a cristallizzarsi nella forma attuale che include la coreografia del movimento e degli oggetti frutto anche del lavoro con il collettivo OBLIQUA di Barcellona.

Cadenze Oblique È una performance per pianoforte ed elettronica dove il gesto, la presenza del corpo, e l’uso di oggetti sono integrati in un unico mezzo espressivo. È una composizione ironica, agrodolce, profonda e sottilmente sovversiva che riflette sul concetto di “pianismo” e quindi sulla cultura occidentale e la dimensione globalizzata della musica classica. La figura del musicista é qui in continuo dialogo con i suoni “invisibili” dell’elettronica ai quali reagisce non solo con il gesto sonoro, ma anche con l’assenza ed il movimento silenzioso. Ne nasce un interrogarsi sul ruolo delle arti, sulla musica occidentale di oggi e sugli stereotipi culturali che marcano sempre piú profondamente il mondo umano.

“Meshes of the Afternoon” procurò alla sua autrice una certa notorietà presso i circoli dell’avanguardia newyorkese gravitanti intorno al Greenwich Village. In quegli anni Deren ebbe modo di conoscere e frequentare intellettuali come la scrittrice Anaïs Nin, l’artista Marcel Duchamp, il compositore John Cage e il filosofo Gregory Bateson, al quale si legò anche sentimentalmente per un breve periodo.

Paolo Cavinato Stefano Trevisi

impianto audio 5.1 + 8 circuito luminoso Dimensioni 140 x 640 x 210 cm Materiali legno, cartoncino, specchio, pellicola specchiante

“At Land”, fu realizzato nel 1944, sempre in 16mm. Le due pellicole di Deren sono caratterizzate da un uso poetico delle immagini, legate tra loro non secondo criteri (crono)logici, ma simbolici e associativi. In esse si può scorgere l’influsso degli autori del Surrealismo, come Luis Buñuel e Jean Cocteau.

di Paolo Cavinato

Spazio visivo #3 - Soglia Installazione Suono

Meshes of the afternoon - At land Maya Deren (Kiev 29 aprile 1917 - New York 13 ottobre 1961) fu una regista statunitense di origine ucraina, attiva negli anni quaranta e cinquanta del XX secolo.

Soglia, è un’installazione percorribile a misura d’uomo. Si tratta di un parallelepipedo circondato da scaffali nei quali sono riposte e assemblate tra loro centinaia di scatole diverse: ideali contenitori della vita quotidiana della persona. Riposte su mensole l’una accanto all’altra, contengono mondi nascosti, concetti, oggetti, emozioni, visioni, percezioni, idee, soggetti, ecc.. Ogni Scatola è un sistema a se stante, e insieme alle altre Scatole crea nuovi sistemi. Ogni Scatola è siglata da un numero. In ogni Scatola vi è una breve descrizione del contenuto, il peso in grammi. Ogni Scatola vuole evocare. Aprire la mente dello spettatore. Aprire l’immaginazione. Aprire una piccola, anche se pur breve Visione. In un primo momento il fruitore è libero di camminare attorno e all’esterno dell’installazione. Egli osserva l’involucro esterno: una miriade di scatole diverse assemblate, incastrate o appoggiate tra loro. Una miriade di

suoni frammentari compongono la galassia della quotidianità fatta di tanti piccoli eventi effimeri. Il secondo passo avviene nel momento in cui la persona decide d’entrare fisicamente nella cavità dell’installazione: una Soglia attraversabile si affaccia su un profondo corridoio, entro il quale una prospettiva lineare ordinata conduce all’infinito. All’interno del passaggio avviene una metamorfosi. Dapprima, il fruitore vede se stesso nell’immagine riflessa all’interno. Poi, essa si liquefà lasciando posto al vuoto della prospettiva centrale. Qui, un sibilo acustico continuo, sottolinea e dilata la dissoluzione della propria immagine nello Spazio Vuoto Interno. La ricerca scava il percorso che l’uomo compie entro se stesso nel concetto dell’Uno e del Molteplice, all’interno e all‘esterno di se stesso. La Soglia tra Finito e Infinito.

Loggia di Davide

Spazio Visivo #3 - Soglia venerdì 29, sabato 30 e domenica 31_8 transatlantico15


Sonorika V Riverberi Fruttiere di Palazzo Te ore 21.00

domenica 31_8 Sonorica V - Riverberi Evento sonoro per live set e movimento (2008) Ideazione e realizzazione Mauro Graziani Giovanna Venturini Cecilia Fontanesi Musica e live set S.N.O.W. Mauro Graziani, Max MSP Federico Mosconi, chitarra elettrica Incursioni coreografiche Giovanna Venturini Cecilia Fontanesi

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di Giovanna Venturini Tecnicamente il riverbero è un fenomeno acustico legato alla riflessione del suono da parte di un ostacolo posto davanti alla fonte sonora. Molti studiosi, musicisti e compositori si sono occupati e hanno cercato di definire la riverberazione, non solo come effetto da utilizzare in fase compositiva o esecutiva, ma soprattutto come interessante sorgente di informazioni sulla natura stessa del suono e sul nostro sistema percettivo. Immaginiamo di entrare in una sala e di ascoltare dei suoni, solo una piccola parte di questi ci arriva come suono diretto, la maggior parte finisce nel riverbero, che viene a costituire così una caratteristica della percezione molto importante per determinare l’atmosfera emozionale collegata ai vari suoni. I suoni giungono quindi al nostro sistema orecchio-cervello irradiandosi da un angolo di ampio raggio, attraverso una sorta di rimbalzo, di filtro determinato da tutti gli elementi che vanno a costituire lo spazio. Suono che si colloca in uno spazio implica necessariamente una riverberazione, ma anche il corpo in relazione ad un suono si può definire come riverbero, elemento attraverso cui il suono filtra e si trasforma, diventando azione, movimento, presenza fisica. Il riverbero si definisce quindi come un fenomeno acustico che può essere analizzato in maniera molto tecnica e precisa, ma riverbero è anche qualcosa di molto più sfumato e indistinto, che presuppone l’idea che ogni contatto, ogni relazione possa riverberarsi nel corpo, condizionando il movimento e determinandone la qualità, non nella ricerca di una forma, ma nella percezione della fluidità, della mutevolezza, della totalità, del collegamento costante delle parti con il tutto, e dell’insieme con lo spazio, della non semplice comunicazione tra interno ed esterno, percezione e azione. Il progetto SONORIKA V che vede impegnati due musicisti e compositori, Mauro Graziani e Federico Mosconi e due danzatrici, Cecilia Fontanesi e Giovanna Venturini, prende vita proprio dal desiderio di esplorare il concetto del riverbero, inteso non solo nel suo significato strettamente musicale, ma allargando la riflessione e la ricerca ad un ambito più ampio e complesso. Tradurre in senso fisico e dinamico la relazione esistente tra corpo e oggetto, esplorando come il movimento sia mediato dalla presenza di elementi scenici che occupano lo spazio in maniera tanto casuale quanto simbolica, significa far sì che il corpo riverberi della loro presenza, ne sia trasformato e condizionato. Oltre al riverbero che gli oggetti possono avere sul corpo esiste anche il riverbero del linguaggio. Come il corpo reagisce a stimoli sonori, così avviene nei confronti della parola, perché ciò che viene detto in qualche modo ci riguarda e il corpo diventa l’elemento attraverso cui la parola filtra. Il corpo è l’ostacolo, ciò che sta in mezzo, ciò che si fa attraversare e percorrere dalla parola. Solo in uno spazio veramente sgombro e scarno il corpo cessa di essere elemento che riverbera in relazione ad elementi esterni e risuona in sé stesso, costruendo forme che partono da stimoli e suggestioni puramente fisici. Tuttavia anche in questa dimensione il corpo si definisce come riverbero, in quanto il movimento di una parte si riflette sul tutto, un contatto si riverbera in quello successivo. Non è possibile sfuggire alla rete che ci colloca in una matassa intricata di stimoli, relazioni, scambi, contatti, rimandi, memorie. Tutto riverbera, anche se non tutto è udibile. Legittimo chiedersi se sia un male o un bene.


Terrestre in progress n°1 Fruttiere di Palazzo Te ore 21.00

domenica 31_8 Terrestre in progress n.1 Anno di Produzione 2008 Durata 30’/35’ Progetto Simona Bertozzi e Marcello Briguglio Coreografia e Danza Simona Bertozzi Musica, Ambienti sonori e luci Roberto Passuti Scenografie e costumi Simona Bertozzi, Marcello Briguglio e Ilaria Barelli Terrestre, movement in still-life Anno di produzione 2008 Durata 10’ Lavoro vincitore del premio Videodance - Moving Virtual Bodies 2008 / Riccione TTV festival Opera Video di Celeste Taliani Concetto Simona Bertozzi, Marcello Briguglio e Celeste Taliani Regia Celeste Taliani Opera realizzata nell’ambito del Progetto Internazionale Choreoroam sostenuto da: British Council / The place, Operaestate Festival / Veneto Dansateliers / Rotterdam Vincitrice dell’ultima edizione premio GD’A - Giovani Danz’Autori dell’Emilia Romagna.

Azione e memoria di Simona Bertozzi

Azione che abita lo spazio della memoria e diviene interpretazione organica della plasticità, in quanto capacità di trasformazione del corpo. Dall’immagine complessa e stratificata della maturità biologica ed emotiva, al segno dell’antropomorfo e dell’animalità. Terrestre è una figura colta in atto di ri-composizione-evoluzione, reminiscenza e straniamento. All’inizio è un corpo incompleto, instabile che può rispondere a stimoli ambientali ma con una motricità semplice, parziale, quasi imposta. E’ disarmonico e biologicamente costretto ad una reazione meccanica; costruisce la propria azione nel presente dell’esercizio ambientale e incede spazialmente rivelando un atto evolutivo dal taglio enciclopedico. Poi è un corpo che riappare nella sua completezza, “già fatto”, e significativo per sostanza emotiva ed esperienziale. Il suo tempo ha una presenza liquida e scandisce il dialogo con il ricordo fuoriuscendo e rientrando per interstizi articolari, prolungamenti della colonna vertebrale, dispiegamento e vibrazione degli arti. Ha una percezione predisposta all’inatteso-irriducibile che esprime procedendo da lunghe stasi a formule dinamiche più ampie e strutturate, reiterazioni e soluzione di ripartenza, per lasciare-lasciando, scolpito nello spazio, un reticolato di affezioni profonde, fantasmi di sopravvivenze. Movimento del corpo e della mente che rinnova le immagini per non rimanere chiuso nella storia. L’atto finale è una condizione di sintesi; il tentativo di dare un volto a ciò che resta della compenetrazione animale/umano e dell’umano a tu per tu con il suo destino al di là della storia. Risucchiare dalla memoria biologica ed motiva il nucleo centrale e informare il corpo sulla morfologia che può assumere in una condizione di congelamento temporale, in cui l’azione si relaziona con lo spazio non più per conoscenza ma per rappresentazione. Incapace di incedere per compenetrazione armonica, il corpo balza, tonfa da uno stato a quello successivo esasperando lo sforzo fisico e la ricerca di una cristallizzazione della forma. Terrestre sembra sostenersi in virtù della sua stessa instabilità. Nella precarietà del suo sostegno trova l’equilibrio. Mira all’essenzialità per purezza di forma e alla bellezza che il contenuto di una rinascita sa imprimere.

terrestre, movement in still-life di Celeste Taliani

Che cosa del tempo se non la sua qualità. Nell’attualizzazione del suo pensiero-movimento, un corpo sta tra le scansioni di ritmo, di colore e di intensità, come in un maestoso tentativo di equilibrio fra ciò che è, ciò che è stato, e ciò che potrebbe essere. Così, nel rinnovamento continuo delle sue immagini, si apre alle possibilità ellittiche offerte dalla memoria biologica dell’umano e dalla sua natura terrestre, con traiettorie incostanti e di velocità variabile. Che cosa dello spazio se non la sua quantità. In un luogo atono per saturazione, uniforme per disomogeneità delle forme, in un continuo ribaltamento dello zenit e del nadir, la memoria circoscrive con i movimenti la scena della sua rappresentazione, ma non lascia modo di intravedere alcuna fine alle sue possibili (virtuali) rappresentazioni. Anzi nella sua quantificazione spaziale, la memoria agisce per scegliere, dividere e compenetrare, alcune delle immagini generate dal ricordo biologico, e le attualizza in un unico luogo. In una casualità assolutamente non caotica, dove le potenzialità dell’azione non si esplicano per intero, la memoria si sente libera dalle limitazioni imposte dall’interazione di un corpo con uno spazio determinato, dalle limitazioni imposte dall’interazione di un pensiero con il suo ricordo (pre)determinato, e può finalmente tentare di rappresentare se stessa.

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el gallo rojo the spook speaks II Cortile Meridionale ore 21.00

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Massimiliano Sorrentini, batteria e percussioni Pasquale Mirra, vibrafono Stefano Senni, contrabbasso Francesco Bigoni, sax tenore e clarinetto Gerard Gschlössl, trombone El Gallo Rojo The Spook Speaks II Sonorizzazione live di film muti estratti cinematografici da L. Starewich e J. Epstein

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Intervista di Micol Ferretti Come molte realtà indipendenti, El Gallo Rojo è anzitutto un gruppo di amici musicisti che convivono una stessa esperienza ed hanno in comune una certa idea musicale. I dischi dell’etichetta veronese vengono autoprodotti e autofinanziati. Questo permette grande libertà, implicando allo stesso tempo grande sacrificio. Hanno all’attivo 20 album e molte altre cose bollono in pentola. Sembrerà paradossale produrre dischi con l’attuale crisi del mercato musicale, ma i loro cd non vengono venduti a più di 12 euro, e i canali preferenziali, oltre a negozi di fiducia in Italia e all’estero, sono Internet e i concerti. Abbiamo fatto qualche domanda a Massimiliano Sorrentini e Francesco Bigoni, membri del collettivo El Gallo Rojo. Come nasce, e di cosa si ciba, questo animale esotico chiamato El Gallo Rojo? M. Sorrentini: Nel 2004 Zeno de Rossi e Danilo Gallo, i due da cui deriva il nome dell’etichetta, mi contattarono per far parte di un’idea che avevano avuto in Messico qualche mese prima: un collettivo di musicisti che potesse essere anche un’etichetta indipendente nel panorama del jazz italiano e della musica di ricerca. Nacque così El Gallo Rojo. A breve il collettivo si allargò insieme a Francesco Bigoni, Enrico Terragnoli, Alfonso Santimone e Stefano Senni. Attualmente è formato da 14 musicisti italiani, sparsi nel nord e centro Italia: oltre i già citati, fanno parte delle nostre fila anche Beppe Scardino, Piero Bittolo Bon, Achille Succi, Nelide Bandello, Simone Massaron, Dimitri Sillato e l’unico non musicista, Martino Fedrigoli. Direi che l’esperienza de El Gallo Rojo è una comune attitudine alla trasversalità della musica, il che non significa che abbiamo tutti le stesse idee o gli stessi gusti, ma significa condividere tutti il senso di una direzione comune che la nostra musica e la nostra ricerca musicale deve avere. A pensarci bene, questa sorta di sodalizio silenzioso è la stessa cosa che accade quando ci capita di suonare insieme: pur senza dire o stabilire in anticipo nulla, la nostra musica prende spontaneamente una direzione in cui tutti ci sentiamo a nostro agio divertendoci. Come è cambiato il vostro modo di porvi rispetto al mercato musicale, vissuto prima da musicisti e, oggi, da realtà presente e viva sui palchi e nei negozi specializzati? M. Sorrentini: Credo sia rimasto sostanzialmente lo stesso, è cambiato solo il rapporto con le persone, che per fortuna è più diretto e proficuo. Quando cominci a suonare con una certa assiduità la musica diventa anche la tua forma di sostentamento. Nello stesso momento ti rendi conto che devi fare una scelta nel tuo percorso artistico e la faccenda a volte si complica. Diciamo che l’autoproduzione e l’essere un collettivo indipendente non ti pone il giogo del guadagno monetario: anzi, devo dire che già il pareggio a fine anno è un risultato eccellente! L’investimento che si fa come musicisti indipendenti è una forma di amore e di rispetto verso la propria musica e la possibilità di dare al pubblico una musica non soggetta a regole di mercato. In ogni campo il mercato ha le sue leggi, e queste sono dettate da mode o trend più o meno accentuati dai media. Ma per fortuna, negli ultimi anni, qualcosa sta cambiando: le major si sono accorte che non possono più fare il bello e il cattivo tempo, e ciò anche grazie ai musicisti indipendenti e a tutti coloro che gli gravitano intorno. In questa direzione anche Internet può essere un ottimo strumento di divulgazione che ti permette di poter vendere la tua musica senza passare per la grattugia degli speculatori: questo stabilisce un nuovo tipo di rapporto tra gli artisti e il pubblico. F. Bigoni: Concordo con Massimiliano sul fatto che il rapporto sia rimasto il medesimo. Siamo un collettivo, un’etichetta sui generis, e quindi il nostro punto di vista resta quello del musicista. È evidente, poi, che chi faccia una scelta come la nostra abbia il fine - oltre a quello pratico, di natura produttiva - di perseguire un progetto culturale e trasmettere un’idea di cultura: l’organizzazione “dal basso”, l’autoproduzione, la produzione a basso costo, il prezzo politico, la scelta attenta del materiale grafico e musicale. Insomma, l’“impegno” dell’artista, con la sua pluralità di significati. Spesso si sconta il ruolo di esporsi come profeti in patria. Come hanno risposto le istituzioni squisitamente italiane rispetto alla vostra proposta? F. Bigoni: Direi che abbiamo avuto un buon riscontro da parte della critica italiana, che - oltre a riconoscere il nostro valore artistico e premiare l’intraprendenza - è stata sensibile alla chiara politica produttiva - basse tirature, ma molti titoli e cura del dettaglio. E all’estero c’è molta curiosità rispetto al nostro lavoro: i nostri punti vendita nel resto d’Europa e negli Stati Uniti funzionano a pieno regime. Di “istituzioni” musicali vere e proprie, poi, nell’ambito del jazz - della musica creativa, improvvisata e che dir si voglia - in Italia non ce ne sono. La vostra scelta sottintende che ha ancora senso firmare per una casa discografica. In un clima musicale in cui la rete gestisce gran parte delle sorti dei gruppi emergenti, che identità possiede questo doppio volto legato da una parte al sostegno materiale del disco e dall’altra alle esibizioni live? M. Sorrentini: Non credo che la nostra scelta sottintenda l’esigenza di “firmare per una casa discografica”. Direi l’esatto contrario. La scelta di avere un’etichetta indipendente è ancor prima


la scelta d’essere un collettivo di musicisti. Prima viene il rapporto umano, lo scambio musicale ed artistico, poi vengono gli album. In questi anni ci è capitato e ci capita spesso di ricevere cd e proposte di musicisti esterni al nostro collettivo: le ascoltiamo sempre e se, i soldi e le nostre produzioni ce lo permettono, li pubblichiamo. Il messaggio che possiamo dare non è, quindi, quello di firmare per un’etichetta, bensì quello di inventarsi la propria etichetta, stringendo collaborazioni e lavorando con musicisti che si ritengano affini al proprio percorso artistico. L’album è solo una minima parte del percorso di un musicista, il cd che si pubblica è un momento necessario per confrontarsi con il lavoro passato e quello futuro, ma poi viene il resto. La vera dimensione di cui vive un musicista è quella dal vivo, insieme agli altri musicisti e con il pubblico che ti accoglie o ti rifiuta. F. Bigoni: Sebbene non si possa - e non si voglia - delineare un manifesto estetico che abbracci tutte le produzioni de El Gallo Rojo, abbiamo un preciso interesse a far percepire i nostri lavori discografici come parte di un tutto - il progetto collettivo - che è diverso dalla somma delle parti. La nostra non è un’etichetta per cui si “firma”, ma un gruppo col quale - e all’interno del quale - si instaura un rapporto umano. Questo dal punto di vista discografico. I nostri gruppi, poi, sono ospitati nei maggiori festival e rassegne italiani, e non solo. Di recente, ad esempio, una nostra delegazione è stata impegnata in un piccolo tour newyorchese che ha visto, tra l’altro, un paio di formazioni italo-statunitensi esibirsi in concerto allo Stone - spazio patrocinato da John Zorn che è ormai il punto di riferimento della scena downtown della città. Tuttavia, organizzare uno sforzo di promozione concertistica collettiva è più problematico, per ragioni economico-logistiche, anche se vari nostri progetti condividono in parte - o del tutto - i musicisti. Dai dischi alla vostra esibizione. Il jazz e il cinema, penso alle sonorizzazioni di Bill Frisell sulle pellicole di Buster Keaton, sono parenti lontani e tuttavia pressoché inseparabili e attuali. Che ruolo gioca l’improvvisazione strumentale sul montaggio di un film nato senza la banda sonora? E, se esiste, qual è il nome di questa contagio sempreverde tra arti differenti? M. Sorrentini: Non so se esista un nome per questo contagio ma so che è una delle più belle malattie che mi sia capitato di avere! La sonorizzazione di un film, così come certa parte della musica jazz, ha diversi approcci, tra cui spiccano, semplificando molto, quello compositivo e quello improvvisativo. Certo questi due aspetti possono compenetrarsi o rimanere autonomi: direi che è semplicemente una scelta artistica dettata da un determinato approccio al materiale cinematografico e visivo. La mia esperienza musicale mi spinge a stringere un contatto sempre più vivo con le immagini e il loro universo rovesciato: mi piace suonare una musica che liberi immagini, che dia anche la possibilità di visualizzare ciò che sto suonando, in una compenetrazione e immersione corporea totale. Credo che una musica che si rivolga solo a se stessa sia autoreferenziale e diventi terribilmente noiosa. F. Bigoni: Mi piace pensare che la colonna sonora soprattutto se si tratta della sonorizzazione di un film muto - aggiunga qualcosa all’immagine in movimento, piuttosto che commentarla. Che quest’esito si ottenga tramite il ricorso alla composizione di una partitura oppure l’improvvisazione, si tratta sempre di due aspetti complementari di uno stesso processo. L’improvvisazione, del resto, così come è intesa in uno dei suoi approcci fondamentali, è una forma di composizione istantanea.

Ladislas Starewitch è uno dei padri del cinema d’animazione tridimensionale. Nato in Russia nel 1882, in seguito alla Rivoluzione del 1917 è fuggito in Europa e dal 1920 si è stabilito in Francia dove è vissuto fino al 1965. Starewitch si è affermato come uno dei registi più originali nella sperimentazione della tecnica dello stop motion. Si tratta di una tecnica fondamentalmente semplice ma richiede un’applicazione meticolosa e costante. Nata fin dalle origini del cinema con i “trucchi” di Georges Méliès, l’animazione tridimensionale comporta l’utilizzo di pupazzi che vengono mossi di pochi millimetri dalla mano del regista prima dello scatto di ogni singolo fotogramma. Durante la proiezione, facendo scorrere 24 fotogrammi al secondo, si crea l’illusione dei pupazzi viventi. Starewich ha iniziato a sperimentare questa tecnica cinematografica dalla fine del primo decennio del ‘900 impiegando pupazzi articolati (in francese “marionnettes”) a forma di insetti ma dotati di caratteristiche antropomorfiche. I pupazzi erano intagliati nel legno e venivano ricoperti di pelle di camoscio che aderiva al

L’interesse per l’entomologia ha portato Satarewitch ha costruire le marionnettes con molta cura non solo per i dettagli anatomici, ma soprattutto per i comportamenti degli insetti. Tutti i movimenti fatti dai personaggi hanno una sorprendente verosimiglianza. Quando sono irati scuotono le antenne e sollevano le corna e camminano nervosi come gli esseri umani. Talvolta i pupazzi hanno la recitazione esasperata propria di molti attori del muto, ruotano gli occhi o esagerano le espressioni della bocca. Anche la mimica dei corpi si ispira ad attori celebri. Starewitch era un appassionato spettatore dei film di Charlie Chaplin. Apprezzava le caratteriche del personaggio di Charlot: gli atteggiamenti del corpo, l’ingenuità, l’espressione pudica ma parlante. In alcuni film (Amour noir et blanc, 1923) Starewitch ha inserito un pupazzo con le sembianze di Chaplin che interviene come deus ex machina per risolvere i problemi. Nel corso degli anni ’20 Starewitch ha fatto interagire attori in carne ed ossa con i pupazzi. La sua attrice preferita è stata Nina Star, alias Jeanne Starewitch, figlia del regista. La bambina funge spesso da cornice: la si vede all’inizio attenta ad ascoltare una fiaba che le viene raccontata o come piccola addormentata che inizia a sognare. Poi, all’improvviso, il suo corpo umano incotra i corpi bizzarri degli insetti-marionettes nello stesso spazio ed inizia ad interagire con loro. Per ottenere tali risultati il regista ha fatto uso di vari effetti speciali, soprattutto quello della doppia esposizione. La presenza di Nina Star nei film di Starewitch è importante per comprendere la poetica del regista. Si deve passare attraverso lo sguardo di un bambino per penetrare nell’universo di Starewitch. Il mondo fantastico e visionario nel quale lo spettatore viene immerso altro non è che la trasfigurazione del mondo reale di Matteo Molinari in cui si manifeatano le emozioni, i sentimenti e i pensieri degli uomini. Sono piccoli racconti morali che mettono a nudo la natura più profonda dei comportamenti umani con una descrizione poetica, malinconica e fiabesca. La cicala e la formica (La cigale et la fourmi, 1911, remake: 1927) è una riflessione carica di commozione e compassione sul conflitto fra due modi inconciliabili di intendere la vita. La spensieratezza leggiadra della cicala si scontra con la laboriosità e l’egoismo inflessibile della formica. L’immagine triste dei fiocchi di neve candida che si depositano freddi e leggeri sul violino abbandonato della cicala conclude il film. Anche Nelle grinfie del ragno (Dans les griffes de l’araignée, 1920) è una favola che esemplifica, non senza ironia, una riflessione etica. La mosca di campagna, poverella e bruttina, desidera diventare bella ed elegante come la falena di città. Ma corpo dei personaggi ed offriva loro una straordinaria levigatezza una volta arrivata a Parigi viene sedotta e ingannata dall’avido unita ad un’efficacissima “fotogenia”. L’altezza dei pupazzi varia e bitorzoluto ragnaccio che le promette grandi ricchezze e la dai 10 ai 60 cm. Le marionnettes di Starewitch tuttora esistenti imprigiona nella sua tela terrificante. È lo sgraziato scarabeo, da appartengono a Léona Beatrice Starewitch, nipote del regista, e sempre innamorato di lei, che si sacrifica per salvarla. Ma, tornata a suo marito François Martin. Léona e François possiedono anche in campagna, la mosca viene considerata una puttanella di città e, le pellicole dei film che Starewicth ha realizzato da quando si è respinta dalla famiglia, muore al freddo tutta sola. trasferito in Francia. Insieme al marito, Léona si è occupata del Starewitch libera l’immaginario proprio dell’infanzia facendo restauro delle pellicole del nonno e della loro distribuzione nei un uso straordinario delle possibilità espressive del linguaggio Festival del cinema di tutto il mondo. Vale la pena di ricordare cinematografico. L’effetto speciale dello stop motion rende l’importante retrospettiva dedicata al regista che si è tenuta credibili, grazie al realismo intrinseco del mezzo filmico e al nell’ottobre del 2007 a Pordenone durante Le Giornate del movimento, i mondi fantastici che ogni uomo si porta dentro. Cinema Muto. Per l’occasione, oltre alla proiezione delle pellicole, Lo spettatore è calato in un sogno ad occhi aperti: si emoziona, è stata organizzata una divertentissima mostra delle marionnettes, sorride e soffre di fronte alla complessità dei comportamenti consentendo agli spettatori di conoscere dal vivo le star dei film! umani e, con lo sguardo limpido e incantato del bambino, segue i Le storie che Starewitch racconta sono inventate e scritte dal percorsi infiniti della fantasia senza esprimere giudizi categorici. regista stesso oppure derivate dalla tradizione fiabesca e letteraria Starewitch è considerato un maestro indiscusso da alcuni (La cicala e la formica, Le rane vogliono un re, etc.). È notevole importanti registi che hanno continuato e sviluppato la tecnica l’influsso che le favole, patrimonio folklorico della cultura russa, dell’animazione tridimensionale: Ray Harryhausen che ha animato hanno avuto nella formazione del regista. i mostri in molti film di fantascienza americani degli anni ’50, e Una delle storie più divertenti è quella della Vendetta del Tim Burton. Il regista californiano ha realizzato due lungometraggi cameraman (Mest’ kinematogrficheskogo pperatora). Una in stop motion, Nightmare Before Christmas (1993) e La sposa commedia deliziosa e licenziosa in cui un adulterio fra insetti cadavere (The Corpse Bride, 2005). La tecnica dei pupazzi animati è reso lampante dall’utilizzo del cinematografo. Una piccola ha consentito a Burton di rendere verosimile la “normalità” del storia alquanto audace che già nel 1911 sviluppa una riflessione mondo dei suoi “freaks”, e ha confermato, grazie al grande metalinguistica. successo ottenuto dai film, l’eccezionale modernità delle I film sono mediamente di breve durata e sono realizzati invenzioni del cinema di Starewitch. con effetti speciali sorprendenti. Ad esempio quando un

il mondo magico di Ladislas Starewitch

personaggio corre in un senso, l’impressione della velocità viene rafforzata da una scenografia che scorre in senso inverso; o, meglio, due scenografie scorrono a velocità differenti suggerendo un movimento della macchina da presa. Vengono utilizzati degli specchi per dilatare e amplificare le profondità di campo, per moltiplicare la presenza degli attori, o per disegnare anamorfosi in funzione delle loro deformazioni.

NOTA: L’ortografia Ladislas Starewitch è quella scelta dal regista stesso per il suo nome nel momento in cui si è installato in Francia. La traslitterazione corretta dal cirillico è Wladislaw Starewicz.

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le sacre du printemps Fruttiere di Palazzo Te ore 21.30

martedì 02_9 Rossella Spinosa Leonardo Zunica, pianoforti Carlo Miotto Didier Bellon, percussioni Luigi Manfrin, live electronics Cristiano Tassinari, video Massimo Biasioni, regia del suono Igor Stravinskij Le sacre du Printemps (I parte) L’Adoration de la terre 1. Introduction 2. Les augures printaniers (Danses des adolesentes) 3. Jeu du rapt 4. Rondes printanieres 5. Jeux des cites rivales 6. Cortege du Sage 7. Adoration de la terre (Le Sage) 8. Danse de la terre

Luigi Manfrin To the end of surfaces (2008) Igor Stravinskij Le sacre du Printemps (II parte)

di Igor Stravinskij

L’

idea della Sagra mi venne mentre stavo ancora componendo l’Uccello di fuoco. Avevo sognato una scena di un rito pagano in cui una vergine sacrificale danza fino a morirne. Questa visione non si accompagnò a concrete idee musicali, e siccome fui ben presto gravido di un’altra concezione puramente musicale che andò sviluppandosi, così credevo, in un Konzertstück per pianoforte e orchestra, fu quest’ultimo che cominciai a comporre. Avevo già parlato a Djagilev della Sagra prima che venisse a trovarmi a Losanna alla fine del settembre 1910; ma non sapeva niente del Petruška, che è come chiamai il Konzertstiick, pensando che lo stile della parte pianistica suggeriva il burattino russo. Se Djagilev fu deluso di non ascoltare musica per “riti pagani” non lo diede a vedere: Petruška gli piacque moltissimo, e mi incoraggiò a svilupparlo in un balletto prima di intraprendere la Sagra. Nel luglio 1911, dopo le prime rappresentazioni di Petruška, partii alla volta della tenuta di campagna della principessa Teniševa vicino a Smolensk, per incontrare Nikolaj Roerich e progettare la sceneggiatura della Sagra della primavera. Roerich conosceva bene la principessa, e ci teneva che vedessi le sue collezioni di arte popolare russa. Da Ustilug raggiunsi Brest-Litovsk, e scoprii che avrei dovuto aspettare due giorni il prossimo treno per Smolensk. Corruppi perciò il macchinista di un treno merci perchè mi lasciasse viaggiare in un carro bestiame, dove mi trovai solo a tu per tu con un toro. L’animale era imbrigliato da un’unica fune non molto rassicurante, e poichè mi guardava con cipiglio e sbavava mi barricai dietro la mia solitaria valigetta. Quando a Smolensk uscii da questa corrida, spazzolandomi vestito e cappello, con la mia valigia lussuosa o almeno non da vagabondo, dovevo fare un buffo effetto, ma certo sarò apparso sollevato. La principessa Teniševa mi ospitò in una foresteria accudita da domestici in belle uniformi bianche con fascia rossa e stivali neri. Mi misi al lavoro con Roerich, e in pochi giorni il piano d’azione e i titoli delle danze furono pronti. Mentre eravamo là Roerich abbozzò anche i suoi famosi fondali di tipo polovesiano, e disegnò i costumi basandosi su costumi veri della collezione della principessa. A questo punto il nostro titolo per il balletto era Vesna Svjaschennaja (“Primavera sacra“ o “Primavera santa”). Il titolo Le sacre du printemps [“La sagra della primavera”] è di Bakst. In inglese, The Coronation of Spring si avvicina più di The Rite of Spring al mio significato originario. [...]

Le Sacrifice 9. Introduction 10. Cercles mysterieux des adolescentes 11. Glorification de l’elue 12. evocation des ancetres 13. Action rituelle des ancetres 14. Danse sacrale (l’Ilue)

Roerich aveva disegnato un fondale di steppe e cielo, la terra incognita, l’hic sunt leones dell’immaginazione degli antichi cartografi. Lo schieramento di dodici bionde ballerine dalle spalle quadrate contro questo paesaggio formava un insieme notevole. E i costumi di Roerich, a quanto si diceva, erano storicamente esatti, oltre che felici scenicamente. Roerich venne a Parigi per la prima, ma riscosse assai poca attenzione, e presto scomparve, sdegnato, immagino, tornando in Russia. Non l’ho più rivisto; ma durante l’ultima guerra non mi meravigliò sapere delle sue attività segrete e dei suoi curiosi rapporti col vicepresidente americano Wallace nel Tibet. Aveva l’aria di uno che avrebbe dovuto fare il mistico o la spia. [...]

Co-produzione Diabolus in Musica Eterotopie altri luoghi 08 e Centro Musica Contemporanea di Milano

Dal volume “Ricordi e commenti” di Igor’ Stravinskij e Robert Craft, 2008. Gentilmente concesso da Adelphi edizioni .

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to the end of surfaces di Luigi Manfrin

To the end of surfaces è una composizione per due pianoforti ed elettronica scritta appositamente per il Festival Eterotopie 2008 di Mantova. Il punto di partenza di questo brano è il richiamo a Le Sacre du Printemps di Igor Stravinskij, in particolare alla versione a quattro mani per due pianoforti realizzata dallo stesso compositore russo e che sarà proposta all’interno della stessa serata della prima di To the end of surfaces in modo da porre le due composizioni direttamente a confronto. Non si tratta, tuttavia, di un semplice accostamento tra un classico del primo novecento con uno contemporaneo che s’ispira liberamente ad esso; ciò che si vuole mettere in scena è piuttosto un processo generativo che nasce da opera musicale preesistente – il Sacre - e che s’innesca su essa senza mai citarla direttamente, per poi procedere altrove seguendo dei percorsi sonori propri. Si può paragonare tale processo ad una sorta di viaggio immaginario avventuroso, che inizia da un luogo noto per trasferirsi successivamente in zone sempre meno conosciute o familiari; nel caso in questione i territori da esplorare riguardano il suono o il timbro dei due pianoforti e la derivazione da esso di un disegno formale variegato, a partire da alcuni oggetti sonori noti e riconoscibili, ricavabili, appunto, dal Sacre. Com’è noto, il soggetto del balletto di Stravinskij concerne la rappresentazione di un rito sacrificale pagano nella Russia antica all’inizio della primavera; ciò nonostante, rispetto a questa tematica, il piano compositivo di To the end of surfaces volge in un tutt’altro senso o direzione. Innanzitutto, come già detto, non c’è l’impiego di citazioni o materiali provenienti esplicitamente dal Sacre, ma solo la derivazione di alcune Gestalten o «immagini sonore» adottate per generare morfogeneticamente il brano sia dal punto di vista degli oggetti musicali che dei processi compositivi. Il riferimento principale è la Danse de la Terre che chiude la prima parte, ovvero L’Adoration de la Terre, ma le immagini sonore scelte, premesse del lavoro compositivo, fanno riferimento solo in parte alle sonorità e ai gesti pianistici ben congegnati da Stravinskij per la sua riduzione dall’organico orchestrale, essendo esse state particolarmente pensate per originare altre sonorità complesse, in bilico tra la tastiera e la cordiera del pianoforte. Centrale è il lavoro sulla ripetizione, elemento importante dal punto di vista generativo per il Sacre. La periodicità impiegata inizialmente in To the end of surfaces, in effetti, ripresenta continuamente le immagini sonore principali, intese come corpi sonori da deformare e tendere in una ricorrenza insistente e pulsata di reminiscenza Stravinskijana, ma

ulteriormente frammentata fino a divenire in alcuni momenti caotica, con violenti sbalzi sconnessi di piani e d’intensità, secondo diversi livelli di compenetrazione e con oscillazioni e alternanze di blocchi accordali, organizzate in modo intermittente con gradi d’irregolarità crescente. Essenziale, soprattutto, è l’aspetto temporale con cui è organizzato l’intero impianto dell’opera: estraendo determinate durate delle singole parti e dall’insieme del L’Adoration de la Terre, e derivando matematicamente una progressione graduale di valori in espansione comprendente queste durate, si procede nel corso del brano verso tempi sempre più ampi e distesi. L’intento è oltrepassare il senso terrestre del Sacre, decostruendone progressivamente il rituale o, meglio, facendone un punto d’installazione verso flussi temporali insieme allentati e concentrati – tempi che suggeriscono unitamente universi stellari e quantistici –, ossia verso dimensioni del suono sempre più ampie ma cariche di velocità infinitesimali o virtuali, ulteriormente dilatabili. Si può, pertanto, paragonare la forma di To the end of surface ad un’immaginaria lente d’ingrandimento che amplia a poco a poco gli oggetti sonori impiegati distendendoli sempre più nel tempo, simile ad una successione di zoomate man mano più ampie; dunque, un viaggio fino ai confini estremi delle superfici sonore tracciate da Stravinskij per il suo Sacre. In questo senso la predominanza iniziale delle tastiere, contraddistinta dal gioco convulsivo dei blocchi ritmici-accordali sobbalzati sull’intero spazio delle frequenze a disposizione, lascia a poco a poco campo all’interazione con la sintesi elettronica dei suoni tramite risonanze, modulazioni, sgranamenti ed espansioni rielaborate del timbro; quest’ultimi affiorano per gradi dalle superfici sonore schizzate dai pianoforti, necessitando così di tempi sempre più rallentati in modo da lasciare spazio alla percezione di un’ampia aura acustica in cui la materia sonora diviene capace - per dirla con Deleuze - di captare forze non sonore come la durata e l’intensità, assecondando il proposito di voler «rendere la Durata sonora».

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un incontro perfetto di Leonardo Zunica

Nel

1910, Erik Satie, non si sa con quale dispositivo, spiana Claude Debussy e Igor Stravinskij sulla carta fotosensibile. La foto, agli occhi meno sofisticati, non sembra ben riuscita. Debussy guarda alla nostra sinistra. Non ne penetriamo lo sguardo, ci sfugge. “Facciamone un’altra”. Debussy amava sfuggire. Le sue tarde esecuzioni al pianoforte ci rivelano, a quanto si dice, un suono felpato, che scansava esso stesso ogni definizione consueta: il pianoforte veniva chiuso e spesso avvolto da una coperta. Nascosto. Debussy “parlava a voce bassa e calma, e le sue frasi finivano in un mormorio quasi impercettibile”. Stravinskij, invece, ci coglie frontalmente, come in quasi tutti i ritratti fotografici che ci sono pervenuti, almeno in quell’epoca. Anche le sue varie raccolte di memorie vogliono essere precise, puntuali, nette. In quella foto Debussy ci avverte involontariamente che c’è qualcun altro, dietro o a fianco l’occhio fotografico. Sentiamo una certa inquietudine, un certo ritmo. Una certa asimmetria. Forse cogliamo l’ombra di Satie, il suo voler uscire dalla rappresentazione. Il binomio, quel “binomio” doveva apparire allo stesso Satie quasi perfetto. Stravinskij dal canto suo, registrerà il proprio ricordo del “mammifero”: “Verso la fine della sua vita (Satie, ndr) si era volto alla religione e aveva cominciato a comunicarsi. Una mattina lo incontrai dopo una funzione religiosa, e con quel suo tono tranquillo mi disse: “Alors, j’ai un peu communiquè ce matin”. Si ammalò d’improvviso, e morì poco dopo, quietamente” (Igor’ Stravinskij e Robert Craft, Ricordi e Commenti - Adelphi, Milano 2008). Un paio d’anni dopo Debussy e Stravinskij s’incontrano di nuovo, ancora a Parigi. Non ci è dato di sapere quanto fosse sincero il loro legame. Viene da pensare che, difficilmente, due geni si possano dichiaratamente stimare. Di quell’incontro ci dà un dettagliato

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resoconto Louis Laloy, orientalista, musicologo e biografo di Debussy: “Nella primavera del 1912, grazie ad un chiaro pomeriggio, io facevo due passi nel mio giardino di Bellevue con Debussy. Stavamo aspettando Stravinskij. Come ci vide, il musicista russo corse, con le braccia in avanti, ad abbracciare il maestro francese che, sopra la sua spalla, mi gettò uno sguardo divertito e al tempo stesso commosso. Egli aveva portato con sé la riduzione per pianoforte a quattro mani del suo nuovo lavoro, Le Sacre du Printemps. Debussy acconsentì a suonare il basso sul pianoforte Pleyel che ancora oggi possiedo. Stravinskij aveva domandato il permesso di togliersi il colletto. Con lo sguardo, immobilizzato dagli occhiali, che dal naso puntava verso il pianoforte, a momenti accennando con la voce una parte, egli trascinava in un torrente sonoro le mani agili e molli del suo collega che seguiva senza intoppi e sembrava infischiarsene delle difficoltà. Quando ebbero terminato, non ci fu più ragione di abbracci e neppure di complimenti. Eravamo muti, messi a terra come dopo un uragano giunto, dalla profondità dei tempi, a strappare la nostra vita alle radici”. Quell’incontro non verrà ricordato nelle memorie stravinskiane. Debussy invece, scriverà una lettera all’amico russo, prima della fatidica rappresentazione parigina del Sacre: “Ho ancora in mente il ricordo dell’esecuzione del vostro Sacre du printemps in casa di Laloy. Mi ossessiona come un bell’incubo e inutilmente cerco di riprovare la terribile impressione. Per questo ne attendo la rappresentazione come un bambino goloso al quale sia stata promessa della marmellata”. A noi, comunque, rimane l’immaginazione che quell’esecuzione del Sacre sia stata un clamoroso caso di incontro perfetto.


la grande guerra di Enrico Alberini

I

n passato le generazioni si alternavano con costante regolarità alla guida della civiltà: quella degli adulti prendeva il testimone da quella degli anziani, mentre i giovani erano educati a sostituirsi nel tempo ai genitori. Nel XX secolo il progressivo innalzamento dell’età media e l’affrancamento della donna da un ruolo sussidiario a quello maschile, hanno mutato la secolare successione delle generazioni. Inoltre nelle società occidentali degli ultimi cinquant’anni, grazie alla relativa assenza di conflitti bellici e al costante calo delle nascite, i confini temporali di una generazione si sono dilatati di almeno dieci anni, creando situazioni ibride, per cui oggi non è chiaro come in passato definire chi ha il piacere e la responsabilità di comandare il gioco della storia. In Italia in particolare, a differenza di quanto sta succedendo in altre nazioni europee, i ruoli del potere politico, economico e culturale raramente sono ricoperti da quarantenni, a mala pena qualche cinquantenne guida un’azienda, un’amministrazione pubblica o un ente culturale e quindi padroni del vapore sono uomini (donne anziane e potenti ancora non se ne vedono) che hanno più di sessant’anni, se non settanta, un’età che se raggiunta da un nonno del primo dopoguerra, lo trovava comodamente o meno seduto su una poltrona in casa con i propri figli, senza alcuna possibilità, né ambizione di determinare le sorti della nazione. Focalizzando ora l’attenzione su quanto accade nel piccolo mondo antico mantovano, mentre si notano deboli segnali di rinnovamento nei ruoli decisionali della politica e dell’economia, in campo culturale si assiste a un curioso fenomeno dove, avendo rinunciato i cosiddetti adulti al ruolo di protagonisti, i giovani faticano a sconfiggere l’ostinazione con cui gli anziani continuano a vestire i panni di padri, o meglio nonni, nobili della cultura. Alla ferrea volontà di attempati trentenni, non spesso supportata invero da corrispondente fantasia d’idee o qualità di proposte, di assurgere a faro del processo culturale locale, si oppone quella non meno ferrea della geronto-intellighenzia nel chiedere uguali diritti (contributi pubblici e sponsorizzazioni private per le proprie iniziative) e doveri (posti d’indirizzo culturale, garantiti fino al decesso). Che fare? Poiché non è augurabile che i giovani siano più aggressivi e meno democratici, almeno gli anziani siano più generosi, riscoprano il ruolo di maestri dietro le quinte, abbandonino quello di protagonisti sulla scena, aiutino chi dimostra di avere più energie e motivazioni a inventare il futuro, mettendolo in guardia a non ripetere gli errori del (loro) passato, evitando così di celebrarlo oltre misura.

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giovedì 28_8

di Alessandro Cappabianca

filmico

il corpo

della musica Un incontro con Alessandro Cappabianca sul rapporto fra suono e immagine. Un tentativo di porsi all’ascolto dei film, considerandone gli elementi temporali e ritmici. Un’indagine sulla durata, nella disposizione spaziale del suono, come se non si trattasse solo di udirlo, e neppure solo di vederlo, ma quasi di toccarlo...

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I N C O N T R I

Loggia Meridionale ore 19.00

Contrariamente ad un’attitudine diffusa (particolarmente virulenta in Italia, patria del doppiaggio, dove fino a non molti anni fa si era capaci perfino di doppiare le canzoni di certi musical americani), occorre prendere l’abitudine di porsi all’ascolto del film – il che significa poi acquisire la percezione d’una sfera sonora in cui musica, parole, rumori e quant’altro, entrano a far parte di quello che Deleuze ha chiamato, nelle ultime pagine dell’Immagine-tempo, “continuum sonoro”, elaborato tanto a partire dal lavoro di Straub e Huillet, quanto riflettendo su certe esperienze di Godard, di Margherite Duras e sulla collaborazione del musicista Michel Fano con Robbe-Grillet (in veste di regista): “Il continuum sonoro smette dunque di differenziarsi secondo le appartenenze dell’immagine visiva o le dimensioni del fuori campo e la musica non garantisce più una presentazione diretta di un tutto presupposto”.1 In L’Eden et aprés, diretto nel 1970 da Robbe-Grillet, gli studenti della facoltà di matematica che frequentano il bar Eden, si dilettano a organizzare all’interno dei suoi spazi labirintici, tra pareti rivestite di specchi, alcune messe in scena derisorie (un finto stupro, una finta roulette russa, un finto avvelenamento), un po’ per scherzo, un po’ sul serio, tanto per passare il tempo. Si bevono aperitivi color rosso-sangue, circola cocaina. Alla scena dell’avvelenamento, segue la finta morte d’uno studente di nome Boris, per il cui “funerale” occorre dunque improvvisare una sorta di marcia funebre. Il “compositore” di questa marcia è Michel Fano, musicista, abituale collaboratore di Robbe-Grillet, per il versante sonoro dei suoi film. Ma cos’è una “marcia funebre”? Michel Fano e Robbe-Grillet ne discussero ai Colloqui di Cerisy dedicati nel ’75 proprio a Robbe-Grillet.2 Jean Ricardou, coordinatore dei colloqui, osservava che una marcia funebre dev’essere “lenta” per accordarsi alle necessità pratiche d’un funerale (al suo “tragitto”). La lentezza della marcia permette l’esecuzione pratica della cerimonia “ma, in più, essa significherà la tristezza stessa”.3 Musica a programma, certo, cliché abusato. E Fano replicava: proprio per questo, occorre pervertire il tragitto. Nella marcia funebre per Boris, Fano elabora una musica per oggetti, in cui si pone il problema (che lo ossessiona da sempre) del trattamento musicale dei suoni non-musicali, legati comunque (a suo giudizio) a un sistema referenziale. Il funerale di Boris è un finto funerale, perché Boris è morto “per finta”. Così i suoni e i rumori che si ascoltano, è possibile elencarli in rapporto alla presentazione visiva degli oggetti


che li producono (o che sembrano produrli): le corde pizzicate d’una chitarra, il tintinnio di una posata su un bicchiere vuoto, le battute di un tamburo, due bottiglie che si urtano, due bicchieri di metallo, due piatti, due vassoi, un cucchiaio su una bottiglia piena, un cucchiaino e una tazzina, i tasti di un pianoforte (premuti “a caso”), una mano che batte sul muro, una che struscia su un vassoio, infine la mano del “morto” che batte il tempo sul catafalco. Ma siamo sicuri che questi suoni o rumori siano veramente prodotti dagli oggetti corrispondenti? Certo non possiamo sapere a quali modificazioni (di altezza, di intensità, di timbro) Fano e RobbeGrillet li abbiano sottoposti. Del resto, forse, non è importante saperlo: la fonte del suono è ancora più indecidibile della realtà dei corpi e degli oggetti che crediamo di vedere sullo schermo, a maggior ragione nell’odierna era elettronica. La perversione sonora può assumere anche la forma d’una frustrazione delle attese spettatoriali. Per esempio, l’arrivo all’Eden dell’enigmatico Straniero non è sottolineato da alcuna musica “misteriosa” (secondo la prassi del cinema commerciale), ma dal silenzio. Gli avventori del bar tacciono all’improvviso. Non si sente risuonare altro che il rumore amplificato dei suoi passi. Altra forma di perversione sonora: l’utilizzo “fuori contesto” di materiali musicali preesistenti. TransEurop-Express (del ’66) è un meta-film dalla struttura complicata, sulla quale non è il caso di soffermarsi qui – ma a livello esplicito, può presentarsi come la storia di un trafficante di droga (Jean-Louis Trintignant) che trasporta la sua merce in treno (nell’Europ-Express) da Parigi ad Anversa, ed è anche un killer sadico, stupratore e strangolatore di donne. Il film comincia in stazione, a Parigi. Rumori realistici, tipici di una stazione ferroviaria. Il fischio di un treno, però, sfuma quasi insensibilmente, tramutandosi in un famoso brano verdiano, “Amami Alfredo” della Traviata. Il brano continua sui titoli di testa, su Trintignant che cammina per i corridoi del metrò, e finisce esattamente in contemporanea con l’attore che esce dalla sotterranea (tornano allora i suoni “realistici”). Durante un incontro erotico, fortemente venato di sadismo, tra il killer e una ragazza, ad Anversa, Trintignant si avvicina lentamente al letto dove la donna è legata e si ode solo il rumore dei suoi passi, che risuonano nella stanza. Poi, in corrispondenza del (presumibile) stupro, parte un brano dolcissimo della Traviata. Primi piani della ragazza che si dibatte. Inserti di binari ferroviari. Continua la musica molto dolce, che poi si interrompe bruscamente. I due parlano tranquilli, distesi sul letto: sembra che lo

“stupro” sia terminato, in concomitanza con la fine della musica4. Nei momenti “forti”, insomma, la colonna sonora ci propone sempre brani famosi della Traviata. Qual è il loro ruolo? Il pompierismo di una musica operistica talmente popolare da risultare ormai quasi inascoltabile, ma che Robbe-Grillet amava, corrispondeva al soggetto apparente d’un film di genere – ma non solo: è una musica le cui connotazioni emotive più immediate vengono poste metodicamente in contrasto con il carattere delle sequenze cui si accompagnano (per esempio: dolcezza VS violenza ecc.). Jeu avec le feu (1975) è invece, a mio parere, il film di Robbe-Grillet il cui versante visivo si avvicina più pericolosamente a un certo erotismo patinato (allora di moda), riuscendo a sfuggirgli solo grazie all’ironia e ai lampi d’intelligenza che malgrado tutto lo costellano. La storia è ingarbugliata, i nessi narrativi rifiutano programmaticamente di chiarirsi – però il nucleo del film (nucleo drammatico, ma anche scenografico e sonoro) sono le scene del bordello per pervertiti in cui viene tenuta prigioniera Carolina (Anicée Alvina), figlia del ricco banchiere De Saxe (Philippe Noiret), col pretesto di salvarla da un minacciato rapimento. Ciò che i presunti rapitori minacciano di fare, per convincere il padre a non chiamare la polizia e a pagare un riscatto, è di consegnare la ragazza alle voglie dei clienti sadici e, infine, di bruciarla viva. E’ appunto il tema del fuoco (presente già nel titolo) a operare, sul piano sonoro, il collegamento con l’orrendo fuoco del Trovatore verdiano, un cui brano interviene fin dall’inizio, quando Noiret osserva alla finestra la scena del rapimento di un’altra ragazza. Nei lunghi corridoi del bordello, invece, Carolina apre porte misteriose sulle quali sono scritti nomi di ragazze e si trova ad assistere (come fosse invisibile) a scene di perversione e sadismo – ma alla fine apre una porta che immette in una specie di teatro d’Opera (senza pubblico), sul cui palcoscenico una cantante lirica sta provando appunto una scena del Trovatore... Nel complesso del film, comunque, il gioco di RobbeGrillet e Michel Fano coinvolge tre “generatori musicali”: il Trovatore (con citazioni sonore quasi “fedeli”, che poi man mano vengono scientemente deformate), una canzone brasiliana (Carolina) e una marcia militare tedesca (Erika) – detti “generatori” formano, intersecandosi e sovrapponendosi, quella che Robbe-Grillet chiama una struttura di contaminazione. Non mancano, come in altri film del regista francese, citazioni wagneriane, peraltro qui difficilmente

avvertibili: solo da alcune dichiarazioni di Fano si può capire (o almeno, io non ci riesco) che il canto dell’uccello del secondo atto di Sigfrido si mescola al canto degli uccelli veri, fino a diventarne indistinguibile, in una sequenza che si svolge, all’inizio, nel parco della villa del banchiere. Altri esempi, anche dovuti ad altri registi, potrebbero e dovrebbero essere portati. Ma si può arrivare, a questo punto, a una prima conclusione provvisoria: le nozioni di continuum sonoro, di inquadratura audio-visiva, di film da vedere/sentire, vanno nel senso di una feconda contaminazione tra universo del vedibile e universo dell’udibile, che rientra nella natura basicamente eterogenea del cinema. Sentire le immagini, vedere i suoni... paradossali sinestesie, rese possibili dall’inquadratura sonora. E’ in questo senso, che Fano parla di “film-opera”, usando il termine con un significato ben diverso da quello corrente (così come faceva Robbe-Grillet, in quanto scrittore, col termine “cine-romanzo”). E’ un fatto, però, che il versante sonoro è stato sempre trascurato (salvo poche eccezioni) dai teorici del film – e oggi il pubblico è letteralmente assordito dal frastuono insostenibile dei blockbuster, a base di effetti speciali e meraviglie elettroniche. In questo, esiste anche una responsabilità dei critici (per quanto poco contino), che se (in rari casi) hanno occhi, sembrano comunque non avere orecchie. Allora, porsi all’ascolto del film, significa collegare il tempo, il ritmo, la durata, alla disposizione spaziale del suono, come se non si trattasse solo di udirlo, e neppure solo di vederlo, ma quasi di toccarlo. Se è vero che il cinema, basicamente, si fa (o si faceva, prima dell’elettronica) con i corpi, quello che esso dovrebbe essere in grado di materializzare è il corpo (filmico) della musica.

1 G. Deleuze – L’immagine-tempo (Ubulibri – Milano, 1989) – p.287. 2 Cfr. in Robbe-Grillet: Analyse, Théorie - vol.1°- (Union Général d’Editions – Paris, 1976), la relazione di Michel Fano, “L’Ordre Musical chez Alain RobbeGrillet” e la conseguente discussione (pag. 173-213). 3 Id.- p.200. 4 A proposito di passi. I “rumoristi” (giustamente, dal loro punto di vista) tendono a sfumarne il rumore, man mano che un personaggio si allontana dalla mdp (e ad aumentarlo, quando si avvicina). E’ un “realismo” al quale Robbe-Grillet ha spesso ribadito di non essere interessato. A maggior ragione, non gli interessava la ripresa del suono in presa diretta, che invece occupa un posto centrale nella poetica di Straub/Huillet.

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venerdì 29_8

Corpo sonoro e risonanza: verso una concettualizzazione del piano sensibile dell’esperienza

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di Carlo Serra

I N C O N T R I

Loggia Meridionale ore 19.00

Cos’era quel rumore strano, che ha echeggiato or ora? Nell’appartamento sopra al mio è caduto qualcosa, qualcosa di pesante, e quel rumore è assai diverso dal fragore evocato dalla caduta dello stesso oggetto nel mio appartamento. Il suono ha il carattere di un rumore, sordo, immodulabile, che rimanda immediatamente alla materia stessa della cosa, a sua volta un corpo, e sollecita un bagaglio di inferenze che si muove per comprendere di cosa si tratti. Un evento ha rotto uno sfondo, che misteriosamente ha preso forma e si è consumato: mi sto intrecciando per comprendere di cosa si tratti e, anche se potessi dire che il senso del fenomeno, la sua valenza logica, il suo significato, è irrimediabilmente connesso al modo in cui esso si presenta, dovrei immediatamente riconoscere che, allo stesso modo, essa non sembra esaurirsi nel suo orizzonte interno, mette in moto un serie di problemi, che giocano con la sua posizione spaziale, e la sua intensità. Un suono può essere vicino, incombente, oppure risuonare in una distanza attutita, come quello avvertito. L’emergere di una sorgente puntiforme, e tenue, porta con sé una serie di pensieri: il primo, più ovvio, è che quel piccolo evento stava aprendo una direzione, che si è subito chiusa. Attendevo un decorso, che quel suono si ripetesse, acquistando maggior intensità, e perciò rimandando ad un processo il cui senso interno coincidesse con il farsi avanti di cosa che andava avvicinandosi, di cui quel suono era un aspetto. All’identità della cosa corrispondeva, in concordanza, un intensificarsi degli aspetti timbrici, rumoristici di quel suono, un progredire della sua plasticità dimensionale. Avrei potuto pensare un oggetto, che si preannunciava grazie all’incremento sonoro della sua presenza. Sul piano dell’immaginazione, la mia aspettativa immediata si lega ad uno schema in cui identità oggettuale ed incremento del volume coincidono, fissando la continuità dell’incremento come una regola interna alla gradualità del fenomeno e del movimento. Ma la cosa non è andata così, quel suono lontano


Che rapporti intreccia la musica con lo spazio in cui risuona? Quali tracce lascia la vibrazione del corpo quando appare un suono? La dimensione concreta, legata alle modalità con cui i suoni si espandono nello spazio, sembra appartenere al mondo dell’acustica, ma il timbro narra qualcosa, fa scivolare l’ascolto dal piano della passività a quello della sintesi delle immagini. Un itinerario del corpo sonoro tracciato da Carlo Serra, attraverso le visioni di Antonin Artaud, Edgar Varèse, Gustav Mahler, della popolazione dei Kaluli, dei Pink Floyd.

mi ha chiamato verso di sé, lasciandomi sulla soglia del corso, su un inizio che non ha avuto sviluppi, ed ora mi volgo verso l’opacità, come una serie di potenzialità che non si è ancora concretizzata. La distanza è inghiottita nel suono, offre solo una direzione, ma non riesce a coagularsi su un punto. Potrei individuare, con forte approssimazione, il punto in cui è caduto, ma il carattere di quel rumore, si è già svincolato dal riferimento puntuale alla cosa. Il suono è fuggente: ma cosa lascia dietro di sé, qual è il suo residuo? Un suono è stato ascoltato, si è imposto alla nostra attenzione, un suono fatto così e così, che ha caratteristiche ben determinate, e che si è staccato da un gruppo di suoni che lo circondavano (il silenzio assoluto è evento raro, quasi impossibile, siamo costantemente circondati da un pulviscolo sonoro, che sollecita sottotraccia). Esso, naturalmente, si intrecciava ad altre fonti, ma è stato portato in primo piano per la sua stranezza, per la sua familiarità, per il fatto che si collegava in qualche modo ad altri, perché emergeva assieme ad una serie di correlati; forse diremmo che ci ha attirato solo perché ci ricordava qualcosa. Siamo portati a guardare le reazioni a quell’evento: forse abbiamo impercettibilmente spostato la testa in quella direzione, oppure siamo sobbalzati (con il nostro corpo abbiamo espresso insofferenza, o paura, per l’ennesimo trillo di telefono). Un gesto inutile, che racconta una reazione immediata, che non abbiamo saputo controllare, ma che esprime bene la tensione verso quell’evento. Abbiamo accennato ad una serie di reazioni, che hanno in comune il fatto di essere semplicemente possibili. Quella possibilità, tuttavia, non vuol essere rinchiusa nelle maglie di una descrittiva psicologica, racconta semplicemente che, di fronte ad un suono, il corpo può avere una reazione di tipo espressivo. Vi è però un piano opaco: una reazione rispetto a cosa? Forse potremmo porre la questione così: il suono porta con sé un suo senso che si preannuncia con lui, e a quel senso reagisce il corpo, con una postura irriflessa. Se le cose stanno così, non udiamo propriamente nulla, ogni dato si preannuncia con una coda di significato, che ci pone di fronte ad un suono, a un gruppo di suoni ed alla sua opacità. Comincia così a delinearsi una nozione,

la nozione di corpo sonoro, che, sulle prima, non sembra immediatamente doversi condensare in una valenza esclusivamente musicale. L’espressione corpo sonoro designa, in generale, le componenti espressive legate alla dimensione del timbro, intese come portato ritmico, legato all’attacco del suono, come amplificazione che rimanda all’orizzonte organologico del corpo dello strumento, e quindi anche del corpo umano, inteso come strumento musicale. Nozione ampia, che si correla in modo immediato alla dimensione qualitativa dell’ascolto, e che presenta molti lati sfuggenti, proprio per quel rimando alla nozione di corporeo che dovremmo intendere sempre come risonanza musicale determinata da un’azione, o meglio da un gesto, che amplifica le possibilità espressive, fino al rumoristico, insite nell’emissione di un suono da uno strumento musicale o da una fonte sonora. Il rimando alla nozione di formante, da questo punto di vista, se rimanda ad una caratteristica fisica dell’emissione dell’onda sonora, può essere assunto anche come riferimento espressivo ad un nucleo qualitativo del suono, che trasfigura il concetto di corpo in risonanza, o corpo sonoro. I due concetti che stiamo accostando possono creare immediatamente il senso di una lacuna, di un salto fra elementi messi in sequenza. La nozione di corpo sonoro rimanda così al significato strutturale di tutti gli aspetti sensibili in cui si muove il piano dell’ascolto, e che costituisce un mondo di giochi linguistici, che estrinsecano il valore di una struttura musicale. Sono giochi poveri, assolutamente elementari e, su questo piano, primitivi, e sono basati su una materia evanescente come il suono, ma la loro sottigliezza cattura l’ascoltatore, e veicola con forza un significato. Un evento intonativo, un passaggio di registro, lo spessore timbrico di un evento sonoro sono i riferimenti corporei attraverso cui la grammatica della musica ci porta dentro di sé. Tali aspetti emergono anche dalla storia terminologica degli elementi che sostengono la teoria musicale come accade, per fare un piccolo esempio, con la nozione di accento. Cercando attorno alle occorrenze di accentus verifichiamo, già in epoca classica, l’esistenza di una serie di metafore corporee, che emergono nella storia di un termine tecnico, che solitamente accostiamo

ad ambiti sublimati, come la metrica: accentus nella lingua latina indica il prender spessore di qualcosa, un evento che altera lo stato di un corpo senziente, come accade per una febbre, o, sul piano musicale, l’emergere di una voce sulle altre, in un costrutto polifonico. Alla generalità della nozione di passaggio di stato, si affianca così un restringimento del termine, che va rendendosi sempre più avvertibile, modificando il piano del significato in senso qualitativo. In altri contesti, un poco più tecnici il riferimento all’accento va a toccare una peculiarità di ordine timbrico, che stacca la voce che canta dal contesto che la circonda: si tratta di un piccolo arricchimento alle valenze possibili dell’espressione ad cantus, che rimandava al modo in cui un suono si trasforma rispetto agli altri, e prende rilievo rispetto all’attacco, e ai suoi precipitati timbrici. Allo stesso modo, l’espressione ictus designa tanto la rottura, il morso, lo strappo, che rompe un regime di continuità, come accade per l’emergere di una struttura ritmica che fa marciare il tempo, dandogli un andamento, uno scambio, una forma di circolazione, il mantenimento di un ordine alterato: in entrambe i casi, potremmo pensare ad un’emergenza, legata ad un incremento di spessore fonico, o connessa ad una posizione saliente sul piano ritmico, in cui la metafora del corpo sonoro, indica il rilievo che porta in primo piano un evento all’interno di una struttura temporale. Non vogliamo giocare con le valenze metaforiche delle parole, ma stiamo entrando in una dialettica legata al costituirsi di un ambito di tipo formale, a partire da una serie di azioni, di giochi linguistici che trovano il proprio assetto dentro al consolidarsi delle regole che tengono assieme, o mettono in fibrillazione, una struttura. In altri termini, la nozione teorica, formale, di ictus o di accentus, rimandano certamente ad aspetti grammaticali dell’articolazione ritmica di una scansione, ma rimandano anche al prendere forma di un evento, che ci trascina dentro di sé, attraverso una serie di portati espressivi, che devono trovare una forma descrittiva adeguata proprio nel gioco che la materia del suono intreccia con il tempo sul piano della sua enunciazione, della costruzione della sua materialità timbrica e risonante.

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quadrato, la sua apparizione, quasi archetipica nell’arte e che, pur con la scoperta degli spazi non-euclidei e le nuove possibili trasformazioni geometriche, resiste e diventa uno dei simboli della

Loggia Meridionale ore 19.00

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modernità. Fino al sogno di un povero quadrato.

l’avventura di un povero quadrato Pochi possono vantare una storia così interessante, lunga, misteriosa, affascinante, antichissima e pur modernissima. La sua prima descrizione ufficiale è probabilmente in uno di quei libri che sono alle base del pensiero occidentale, e non solo: gli Elementi di Euclide, scritti circa 2000 anni fa. Nel libro primo, nella definizione 22, Euclide definisce che cosa sia un quadrato, lo battezza insomma. Ma delle figure di quattro lati una è detta quadrato, “il qual quadrato è de lati equali, e de angoli retti” (Nicolò Tartaglia, prima edizione in italiano, Venezia, 1565. In greco tetragonon) Kandinsky ha definitivamente affermato la grande importanza del quadrato nell’arte e nella cultura del Novecento; non solo lui certo, tanti altri lo hanno fatto prima e dopo l’artista russo. Nel 1978 Bruno Munari nella collana “Quaderni di design“ dedica un volume alla storia del quadrato: “Nel campo delle arti visive il quadrato è il modulo spaziale nel quale o col quale operatori visuali, ricercatori e sperimentatori trovano vari modi di strutturare le loro opere. Queste misure, compresa la famosa sezione aurea, derivano da interventi sul quadrato, modificandolo in base a precise regole di scomposizione e di ricomposizione, derivate dalla suddivisione logica delle sue stesse dimensioni, sia dello spazio interno al quadrato sia riportando all’esterno alcune sue misure intere o frazionate con l’uso del compasso e della riga. Nel campo della grafica il quadrato aiuta a strutturare molti lavori grafici, dai marchi di fabbrica ai simboli e ai segnali.” Alcuni esempi di artisti: Josef Albers, Max Bill, Franco Grignani, Paul Klee, Le Corbusier, El Lissitskij, François Morellet, Kasimir Malevich e tanti altri, includendo alcune opere dello stesso Munari, come “Concavo-convesso” del 1948. Una storia quella del quadrato e l’arte del Novecento che parrebbe una palese contraddizione con il mutare dell’idea di spazio iniziata nella geometria dell’ottocento con la scoperta delle geometrie non euclidee e continuata nel Novecento sino all’avvento dello spazio-tempo e la teoria della relatività. Un mutamento, certo non l’unico fattore, che ha profondamente influenzato le avanguardie artistiche Parigi, russe, italiane e tedesche. Pur con l’ampliamento degli Spazi e le nuove possibili trasformazioni geometriche quella forma nata migliaia di anni fa resiste ed anzi diventa uno dei simboli della modernità. Quella forma semplice, arcaica, immutabile del quadrato resta, vittoriosa. Un archetipo, verrebbe da dire. Come vittorioso era stato il quadrato rosso di El Lissitskij. Nel 1922 Lissitskij pubblica su “De Stijl”, la rivista di Mondrian, la storia del Quadrato rosso che sconfigge il Quadrato nero, il Quadrato rosso che riporta l’ordine nel caos. Un Quadrato rivoluzionario, un Quadrato bolscevico che sconfigge il transatlantico28

I N C O N T R I

Michele Emmer ci guida in un viaggio attraverso la storia del

“Gli angoli retti in contatto tra loro non possono essere più di quattro. Attraverso il contatto dei lati divergenti si creano superfici rettangolari, nel caso più regolare il quadrato. L’elemento freddo-caldo del quadrato e la sua chiara natura di superficie ci suggeriscono subito il rosso; non per nulla negli ultimi tempi si vedono tanti quadrati rossi. Le tre superfici triangolo, quadrato, cerchio sono prodotti naturali del punto che si muove secondo un piano”. W. Kandinsky

di Michele Emmer male oscuro, nero. L’apoteosi del Quadrato che, sulle note dell’Internazionale, cambia il mondo. Non sempre la storia del Quadrato è stata una storia a lieto fine. Un altro quadrato ha avuto una grande influenza non solo sulla matematica, ma anche nella letteratura, nell’arte, nell’informatica. Nel Ventesimo secolo, ovviamente. Una grande influenza il Quadrato di cui si parla, ma una vita “letteraria” si intende, molto sfortunata. Come tutti coloro che hanno la possibilità di immaginare il futuro, di capire che non esiste un solo punto di vista dominante, ma che le cose possono cambiare, in meglio. Che è possibile mettere in discussione lo stato delle cose, che nulla è immutabile. Un sognatore, un veggente molto lucido, quel Quadrato. Il Quadrato di cui si parla è naturalmente il protagonista del libro di Edwin A. Abbott “Flatland: a Romance of Many Dimensions”, pubblicato anonimo a Londra nel 1884 e da allora ristampato migliaia di volte in molte lingue del mondo. Il primo libro in assoluto in cui si parla di superamento della geometria euclidea tridimensionale, della possibilità di ipotizzare se non vedere oggetti di uno spazio a quattro, cinque, sei dimensioni, in un ansia di conoscenza che il Quadrato incarna, come un moderno Prometeo. Il primo libro “letterario” che parla di più di tre dimensioni possibili, che i matematici pochissimi anni prima avevano incominciato ad immaginare mondi a più dimensioni. Mettendo così in discussione in modo definitivo la struttura “assoluta” dello spazio così come era stato pensato e codificato dagli Elementi di Euclide 2000 anni prima. Ed ecco cosa immagina il Quadrato di Flatland, che ha appena scoperto le gioie dello spazio a tre dimensioni, non più costretto a vivere nel suo spazio piatto a due dimensioni: (si rivolge alla Sfera che lo ha visitato facendolo salire nello spazio a tre dimensioni) “IO [il quadrato]: Che cosa c’è, dunque, di più facile che condurre ora il suo servo in una seconda spedizione, questa volta verso la beata regione delle Quattro Dimensioni, donde ancora una volta mi chinerò con lui su questa terra delle Tre Dimensioni, e vedrò l’interno di ogni cosa tridimensionale, i segreti della terra solida, i tesori delle miniere di Spaceland e le viscere di ogni creatura solida vivente, anche delle nobili e venerabili Sfere? In una dimensione un Punto in movimento non generava una linea con due punti terminali? SFERA: Ma dov’è questa terra delle Quattro Dimensioni? IO: Io non lo so, ma senza dubbio il mio Maestro lo sa. SFERA: No. Un paese simile non esiste. La sola idea che possa esistere è assolutamente inconcepibile. IO: Non è inconcepibile per me, mio Signore, e perciò ancor meno inconcepibile per il mio Maestro. No, non dispero che

anche qui, in questa regione delle Tre Dimensioni, l’arte della Signoria vostra possa rendermi visibile la Quarta Dimensione proprio come nella terra delle Due Dimensioni l’ingegno del mio Maestro ha saputo aprire gli occhi del suo cieco servo alla presenza invisibile di una Terza Dimensione, benché io non la vedessi”. Naturalmente, nel paese di Flatland è impossibile «alcunché di quel che voi chiamate solido». Gli abitanti di Flatland non possono nemmeno immaginare l’esistenza di oggetti a tre dimensioni, dato che per misurare un oggetto tridimensionale bisogna poter disporre di una unità di misura tridimensionale; dal loro punto di vista, è il caso di dire, esistono solo linee luminose che rappresentano loro stessi, cioè gli abitanti, le case, gli alberi di Flatland. Ma alcuni degli abitanti, come il Quadrato, sanno osare, e immaginano, l’inimmaginabile: “Un orrore indicibile s’impossessò di me. Dapprima l’oscurità; poi una visione annebbiata, stomachevole, che non era vedere; e vedevo una Linea che non era una Linea; uno Spazio che non era uno Spazio; io ero io, e non ero io... Questa è follia o l’Inferno!”. Ma l’angoscia lascia presto il posto alla meraviglia: “Un nuovo mondo! Ecco che avevo davanti a me, visibile e corporeo, tutto quanto prima d’allora avevo dedotto, congetturato, sognato, intorno alla perfetta bellezza circolare. Quello che pareva il centro della forma dello straniero si apriva ora al mio sguardo... un qualcosa di bello e di armonioso che non sapevo come chiamare; ma voi, miei lettori di Spaceland, lo chiamate la superficie di una Sfera”. L’autore del libro, un teologo inglese, studioso di Shakespeare e insegnante di matematica, di nome Edwin Abbott Abbott (1838-1926), pubblicò la prima edizione senza il nome dell’autore perché non era molto convinto che fosse conveniente per lui, studioso della Bibbia e di Shakespeare, avere scritto un libro del genere. Abbott fu studente alla City of London School e al St. John’s College dell’Università di Cambridge. A ventisei anni divenne rettore della City of London School e vi rimase sino al 1889, quando si ritirò. Quando scrisse Flatland era già stato rettore per vent’anni e aveva scritto più di venti libri su diversi argomenti. Il suo libro più importante, “A Shakespearian Grammar”, pubblicato nel 1870, voleva essere una introduzione a Shakespeare per gli studenti dell’età vittoriana. Oltre che un affascinante racconto, l’avventura del Quadrato è una “sceneggiatura”, una storia perfetta per il cinema. Con musiche di Satie e Milhaud (oltre ad un cammeo di Ennio Morricone) ho pensato di realizzare un film d’animazione. Anche se tra il dire e il fare ci sono voluti anni!


Riproponiamo qui sotto il primo capitolo della seconda edizione inglese di “Flatland, romanzo a più dimensioni” di Edwin A. Abbott

FLATLAND

A romance of many dimensions by Edwin A. Abbott (1884) and you will find the penny becoming more and more oval to your view, and at last when you have placed your eye exactly on the edge of the table (so that you are, as it were, actually a Flatlander) the penny will then have ceased to appear oval at all, and will have become, so far as you can see, a straight line.

Part I: THIS WORLD “Be patient, for the world is broad and wide.”

1. Of the Nature of Flatland

I CALL our world Flatland, not because we call it so, but to make its nature clearer to you, my happy readers, who are privileged to live in Space. Imagine a vast sheet of paper on which straight Lines, Triangles, Squares, Pentagons, Hexagons, and other figures, instead of remaining fixed in their places, move freely about, on or in the surface, but without the power of rising above or sinking below it, very much like shadows--only hard with luminous edges--and you will then have a pretty correct notion of my country and countrymen. Alas, a few years ago, I should have said “my universe”: but now my mind has been opened to higher views of things. In such a country, you will perceive at once that it is impossible that there should be anything of what you call a “solid” kind; but I dare say you will suppose that we could at least distinguish by sight the Triangles, Squares, and other figures, moving about as I have described them. On the contrary, we could see nothing of the kind, not at least so as to distinguish one figure from another. Nothing was visible, nor could be visible, to us, except Straight Lines; and the necessity of this I will speedily demonstrate. Place a penny on the middle of one of your tables in Space; and leaning over it, look down upon it. It will appear a circle. But now, drawling back to the edge of the table, gradually lower your eye (thus bringing yourself more and more into the condition of the inhabitants of Flatland),

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The same thing would happen if you were to treat in the same way a Triangle, or a Square, or any other figure cut out from pasteboard. As soon as you look at it with your eye on the edge of the table, you will find that it ceases to appear to you as a figure, and that it becomes in appearance a straight line. Take for example an equilateral Triangle--who represents with us a Tradesman of the respectable class. Figure 1 represents the Tradesman as you would see him while you were bending over him from above; figures 2 and 3 represent the Tradesman, as you would see him if your eye were close to the level, or all but on the level of the table; and if your eye were quite on the level of the table (and that is how we see him in Flatland) you would see nothing but a straight line. When I was in Spaceland I heard that your sailors have very similar experiences while they traverse your seas and discern some distant island or coast lying on the horizon. The far-off land may have bays, forelands, angles in and out to any number and extent; yet at a distance you see none of these (unless indeed your sun shines bright upon them revealing the projections and retirements by means of light and shade), nothing but a grey unbroken line upon the water. Well, that is just what we see when one of our triangular or other acquaintances comes towards us in Flatland. As there is neither sun with us, nor any light of such a kind as to make shadows, we have none of the helps to the sight that you have in Spaceland. If our friend comes closer to us we see his line becomes larger; if he leaves us it becomes smaller; but still he looks like a straight line; be he a Triangle, Square, Pentagon, Hexagon, Circle, what you will--a straight Line he looks and nothing else. You may perhaps ask how under these disadvantages circumstances we are able to distinguish our friends from one another: but the answer to this very natural question will be more fitly and easily given when I come to describe the inhabitants of Flatland. For the present let me defer this subject, and say a word or two about the climate and houses in our country.

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Cortile Meridionale ore 21.00

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Flatlandia (1987) di Michele Emmer

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Regia Michele Emmer Soggetto dal libro di Edwin A. Abbott, Flatland (1884) Animazione Roberto Bianchi Montaggio Lina Drovetti Musica Erik Satie

Flatlandia

un film di Michele Emmer transatlantico29


di QOOB (ISBN Edizioni). Una raccolta di testi e documentari per un agile e divertente compendio della musica elettronica, i segreti tecnici, le questioni filosofiche, i progetti e le geniali intuizioni dei protagonisti che hanno scritto la storia della musica elettronica, dal Moog, al Theremin, al linguaggio MIDI.

TECH STUFF di Giorgio Sancristoforo

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Moog! Alla scoperta di un genere musicale Un anno dopo Carlos registrò il prosieguo ideale di Switched on Bach: The Well Tempered Synthesizer, che conteneva brani di Scarlatti, Monteverdi, Händel e Bach. Nel 1972, Carlos realizzò il capolavoro con l’apoteosi beethoviana di Arancia meccanica, commissionata da Stanley Kubrick, e lo stesso Kubrick collaborò con Carlos alla stesura del disco per il quarto movimento dell Nona sinfonia. Il sound moog, si diffuse in tutti i generi musicali. Nei primi anni settanta erano molto popolari i dischi di cover strumentali. Case discografiche grandi e piccole producevano numerose cover record, spesso di altissima qualità. Il sintetizzatore moog si stava affermando fra i musicisti -

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vremmo potuto parlarvi del Transistor Ladder low Pass Filter brevetteto da Robert Moog, ma niente al mondo è in grado di illustrare precisamente cosa sia un moog come la musica prodotta con esso. Abbiamo quindi deciso di condurvi in un bizzarro viaggio sul giradischi. In principio era Walter Carlos, un cliente della prima ora della R.A.Moog Co. Carlos era un musicista dotato e visionario, che intuì con grande preveggenza le potenzialità del sintetizzatore come strumento musicale nel senso più tradizionale. Nei primi anni sessanta, la musica elettronica e il sintetizzatore erano ancora sconosciuti al pubblico pop; per la maggior parte si trattava di musica sperimentale elettroacustica, che per ovvie ragioni non aveva una vasta diffusione sul mercato musicale di massa. Ma nel 1968 avvenne l’evento, la CBS pubblicò Switched on Bach, un album di musica classica interamente realizzato con un sistema modulare moog e un registratore a quattro piste su nastro. L’album interamente dedicato a Bach, comprendeva la famosa “Aria sulla quarta corda” e parte dei Concerti brandeburghesi. Il successo fu immediato. Le 500 mila copie vendute fecero schizzare l’LP ai primi posti di vendita, un evento assolutamente insolito per la musica classica. Il sintetizzatore usciva così definitivamente allo scoperto, bucando le barriere della musica sperimentale per raggiungere finalmente il grande pubblico. Era appena nata la musica moog, la pietra miliare più felice e innovativa dell’easy listening, dopo la nascita della stereofonia.

Loggia Meridionale ore 19.00

I N C O N T R I

Giorgio Sancristoforo presenta il libro/dvd della prima produzione integrale

grazie alla geniale miniaturizzazione del Minimoog model D e la musica moog era il nuovo sound accattivante e ideale per i dischi cover strumentali che spopolavano fra le generazioni post-hippy. Ecco spuntare come funghi dischi tipo Switched on Rock dei Moog Machine e l’ottimo Music to Moog di Gershon Kingsley che dà alla luce il famoso brano “PopCorn”. Anche la Chess, leggendaria etichetta blues di Chicago, non si fece sfuggire l’occasione pubblicando Moogie Woogie della Zeet Band. Jean Jaques Perrey realizzò per la Vanguard Moog indigo, mentre la star della strange music Martin Denny pubblicò Exotic Moog, che contiene la rivisitazione elettronica del celebre “Quiet Village” di Les Barxter: un classico del lounge

dei primi anni della stereofonia. Ogni successo pop doveva essere assolutamente eseguibile in versione elettronica e “moog” era la parola d’ordine che veniva stampata a caratteri cubitali su una serie infinita di album. Probabilmente il miglior LP di questa ondata è Moog! di Claude Denjean. All’interno troviamo Beatles, Simon & Garfunkel, Creeddence Clearwater revival, Dylan, Shocking Blue e una versione commovente di “House of the Rising Sun”. originariamente chiamato Electronic Experience, Moog! fu pubblicato dalla London (Decca per l’italia) per la famosa serie Phase 4 Stereo Spectacular. Nel disco Denjean è accompagnato da un’eccellente band e il moog si sposa meravigliosamente con le melodie, dando vita a interpretazioni molto originali e accattivanti. Un’altra perla del genere (anche se non dello stesso livello) è Moog Grooves della Electronic Concept Orchestra che stupisce con versioni elettronicamente cheesy di Oh Happy Day e Aquarius, quest’ultima tratta dal famoso musical Hair. Naturalmente in questa collezione non poteva mancare Burt Bacharach, l’uomo lounge per eccellenza. Christopher Scott pubblicò quindi Switched on Bacharach, una piacevole raccolta dei brani più famosi del compositore in versione moog. Fra gli Lp più bizzarri citiamo God is a Moog, raccolta di musiche yiddish in chiave moog del già citato Gershon Kingsley, il delirante Country Moog (sottotitolato Switched on Nashville) e Switched on Santas, per chi è veramente coraggioso. Anche nel nostro paese vantiamo brani in chiave moog grazie a compositori come Piero Umiliani e Mariano Detto. Se state pensando che la musica moog sia solo un feticcio degli anni settanta vi facciamo subito cambiare idea con il bellissimo disco dei Moog Cookbook che, negli anni novanta, ripropose in versione moog brani dei Nirvana, Soundgarden, Weezer, Green Day, REM, Pearl Jam e Tom Petty (!!). Non vi resta che mettervi in cerca di queste stravaganti opere musicali e di godervi il vero spirito moog, se vi sentite pronti e abbastanza temerari da affrontare questo viaggio di persona.

Da “Tech Stuff, sussidiario di musica elettronica”, 2007 Gentilmente concesso da ISBN edizioni


Sede di Mantova Via Cavour, 94 46100 Mantova Tel: 0376 321865 Fax: 0376 288317 www.ferraripartners.it info@ferraripartners.it

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Comune di Castel d’Azzano

ZANZARA

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Biglietti spettacoli euro 8 Biglietto Madrigale Appena Narrabile euro 15 Incontri ingresso gratuito In caso di maltempo gli eventi proposti nel Cortile Meridionale avranno luogo presso le Fruttiere.

prevendita Spazio Mtt via S. Longino, 1/b MN Tel. 0376 363079 eterotopie@gmail.com www.eterotopie.it

Tel. 320 1136464


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