architetture della memoria via crucis gavardo e vobarno

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Architetture della Memoria in Valle Sabbia Via Crucis e cappelle votive tra Gavardo e Vobarno

Ente Promotore Comunità Montana di Valle Sabbia Assessorato alla salvaguardia delle tradizioni, usi, costumi ed identità locali Assessorato alla Cultura Con il Patrocinio della Provincia di Brescia Organizzazione Pro Loco del Chiese – Gavardo Daniele Comini Michele Vezzola Testi Angelo D’Acunto (pp. 6-37) Andrea Crescini (pp. 38-41) Mario De Ruitz (pp. 42-67) Immagini Enrico Buccella Daniele Comini Mario De Ruitz Giorgio Romani Progetto grafico e stampa Tipografia Vobarnese Via Comunale, Vobarno - Bs Collaborazione tecnica per la sistemazione delle santelle di Gavardo Chiodi Giuseppe Ramazzini Andrea Benedetti Pietro Si ringraziano Don Giacomo Bonetta, Parroco di Gavardo Don Gabriele Banderini, Parroco di Degagna Gruppo Alpini di Gavardo Andrea Codurri

Comunità Montana di Valle Sabbia

È

insolito che una Comunità Montana si avventuri in una produzione editoriale legata ad un tema religioso. Si preferisce generalmente stare su tematiche più leggere e colorite quali il gusto, i vini, i sentieri, i colori di un arazzo o le forme d'arte più varie e disparate. Scegliere di approfondire la Via Crucis gavardese o le belle e semplici cappelle votive di Vobarno è sicuramente più rischioso: si può apparire dèmode, fuori luogo, financo 'bacchettoni'. Questo libro è invece una valorizzazione che vuole preservare l'eredità di una lunga storia, di una cultura e, oso dire, di una civiltà. "Non c'è civiltà senza religione" ha detto recentemente un noto politico d'oltralpe. Non ci dobbiamo vergognare delle nostre origini, della nostra cultura, della nostra religione. Anche di fronte alle recenti provocazioni il nostro attaccamento verso il senso religioso che pervade le nostre comunità non viene meno. Possiamo affermare che l'opera realizzata a Gavardo vent'anni addietro e prima ancora i manufatti della Degagna costituiscono un complesso artistico e storico di notevole importanza come espressione della religiosità popolare e come manifestazione dell'arte sacra contemporanea. Un grazie agli autori, alla Pro Loco del Chiese di Gavardo ed una buona lettura a tutti voi. Emanuele Vezzola, Assessore alla Cultura Giorgio Bontempi, Vice Presidente Ermano Pasini, Presidente

Maggio 2008

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’ uomo è viandante. Questa condizione, che appartiene alla struttura stessa dell’ esistere, è felicemente illustrata nella Bibbia dalla presenza di tanti personaggi senza fissa dimora, da Adamo, espulso dall’Eden per il suo atto di disubbidienza, ad Abramo, padre nella fede, volontario pellegrino per obbedienza. E come dimenticare Mosè che ha fatto di Israele un popolo pellegrinante? Anche i cristiani, che rappresentano il nuovo Israele, portano dentro di sè la vocazione di pellegrini, come se dimorassero nella carovana e nella tenda, perché la loro patria è nei cieli. Nella prima lettera di Pietro c’ è una frase che definisce i cristiani come “stranieri e pellegrini”. Del resto non potrebbe essere diversamente se si pensa che Dio, secondo la Bibbia, si è fatto anche lui pellegrino seguendo il suo popolo nel deserto verso la terra della libertà e che Gesù è “l’uomo in marcia”, come l’ha definito Christian Bobin: l’uomo è sempre in cammino, proteso verso una meta che sta oltre ogni possibile meta. “Sempre oltre, sempre oltre la tenda: il tuo infinito cammino sia il nostro” diceva Padre Giovanni Vannucci, contemplando il prodigarsi di Cristo lungo il percorso che si inoltra nella dimensione inesauribile del divino. La parola pellegrinaggio, come suggerisce l’ etimologia della parola (da per egre) che a sua volta rimanda a per agros, attraverso i campi, fuori dall'abitato” è sentirsi perennemente nomadi, con la consapevolezza che nessun luogo di questa terra può mai diventare la meta definitiva. Chi ha costruito con fatica e tenacia queste Via Crucis forse non aveva fatto questo ragionamento, ma senza saperlo era entrato nel cuore della vita cristiana. Percorrere la strada di Gesù nel momento più difficile, condividere la sua avventura di amore. Accompagno con queste mie poche righe la pubblicazione che illustra, dopo 20 anni, questo meraviglioso cammino, augurando che resti sempre un segno di quella pietà e condivisione di vita che le Via Crucis rappresentano.

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’essere umano nel suo continuo vagare su questa terra ha da sempre bisogno di punti di riferimento. Così ha imparato a guardare le stelle nel cielo la notte e le linee dei crinali dei monti di giorno. Ma ci sono altri segni, e sono quelli religiosi, capaci di fare sintesi fra terra e cielo ed allo stesso tempo indicare la via. Così da sempre noi troviamo ai crocevia delle strade e lungo i percorsi dell’uomo dei riferimenti architettonici o iconografici che richiamano la realtà di coloro che hanno abitato questa terra ed ora sono cittadini del cielo. E’ chiaro per i cristiani il riferimento alle figure di Santi, della Vergine Maria o dello stesso figlio di Dio sulla Terra che con abbondanza si trovano sugli antichi percorsi e a lato delle moderne strade carrozzabili. A volte una serie di queste icone, ben disposte e numerate, ci ricordano che il nostro cammino in questo modo è sí di sofferenza, ma che questo travaglio è stato con noi condiviso dal Dio fatto Uomo: è quel percorso della devozione popolare che tutti conosciamo come Via Crucis. Qualcuno potrebbe pensare che in questa nostra epoca dell’informatica tutte queste rappresentazioni per motivi pratici o forse anche ideali non hanno più motivo di essere. Accade invece che si assista ad un fenomeno strano: che questi segni, queste immagini, queste sacre rappresentazioni, non solo sempre più spesso vengono recuperate, restaurate, ridipinte, ma che anche se ne vedano apparire di nuove, a lato di strade di recente tracciate, presso abitazioni moderne. Perché questo? E’ un senso di nostalgia di un tempo perduto? E’ il desiderio di non perdere delle testimonianze storiche? Può essere. Ma con più certezza si tratta del motivo di sempre: l’uomo che da questo suolo alza lo sguardo al cielo per cercare punti di riferimento. E’ dunque ancora la risposta ad una domanda di senso che si vuole collocare in una storia, in una tradizione, in una appartenenza: per noi questa nostra civiltà cristiana. Don Gabriele Banderini, parroco di Degagna

Don Giacomo Bonetta, arciprete di Gavardo

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La venerazione della croce

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CIRILLO DI GERUSALEMME, Catechesi X, n°19, IV n° 10.

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EGERIA, Pellegrinaggio in Terra Santa, Città nuova, Roma 1992.

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Ibidem, p. 163 AMBROGIO, De obitu Theodosii, 41 ss.

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PAOLINO DI NOLA, Ep. 31 ad Severianum.

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a Passione di Cristo è oggetto di intensa venerazione da parte dei fedeli fin dall’epoca delle origini cristiane. In particolare dal secolo IV, quando Elena, madre dell’Imperatore Costantino, ritrovò nei pressi del Calvario, in una cisterna asciutta, i resti della croce di Gesù, il popolo non cessò di venerare il prezioso legno come ci attestano sia S. Cirillo di Gerusalemme1, sia la pellegrina Egeria2. In particolare, quest’ultima descrive il rito che ogni anno la comunità cristiana di Gerusalemme celebrava il venerdì santo: la cassetta d’argento dorato contenente la reliquia della croce viene posta su un tavolo coperto da un lino sotto le ampie volte del Martirion, la celebre basilica costantiniana, costruita sul luogo della morte di Cristo. Tutti i fedeli sfilano davanti al prezioso legno e si chinano a baciarlo con profonda venerazione mentre il vescovo e i diaconi vigilano attentamente affinché nessuno osi appropriarsi di un qualche frammento, giacché “si narra che un tale con un morso abbia portato via un pezzo del Santo Legno” 3. Ambrogio da Milano, nella sua orazione per la morte di Teodosio, pronunciata nel 395, racconta con vivaci accenti il ritrovamento della croce da parte di Elena e precisa che la santa “adorò il Re: non adorò certo materialmente il legno, bensì colui che era stato appeso al legno del patibolo…” 4. Il rito agiopolista che, come attesta San Paolino, attirava enorme concorso di popolo5, venne imitato in molte chiese d’Oriente e d’Occidente, soprattutto in quelle che avevano il privilegio di possedere una reliquia della vera croce. A Roma, fin dal sec. V, sono presenti frammenti della croce di Cristo in particolare nella Basilica di S. Croce in Gerusalemme, detta anche Basilica Sessoriana in quanto fatta costruire da Elena, che apparteneva all’antica famiglia dei Sessorii. La più antica descrizione della cerimonia romana si trova nell’Ordine di Einsiedeln, sede del celebre monastero benedettino svizzero, composto nell’VIII secolo, che riproduce, nelle sue austere semplicità, quella di Gerusalemme: il Papa verso l’ora ottava (ore 2 p.m.) dal patriarchio lateranense, a

piedi scalzi, accompagnato dai sacri ministri, si avvia verso la basilica di S. Croce agitando un turibolo fumigante in onore della preziosa reliquia della vera Croce, portata a spalle dallo stesso pontefice in una teca contenente un balsamo molto profumato; entrati in basilica e deposta la reliquia sull’altare, il pontefice, il clero e gli uomini si avvicinano all’altare per adorare e baciare il legno della vera croce. Anche le donne possono compiere questo gesto di profonda venerazione, restando nei posti loro assegnati, giacché dei suddiaconi recano loro la preziosa reliquia6. Analoga celebrazione veniva ripetuta all’ora nona (ore 3 p.m.) nelle altre chiese romane. Il rito si estese poi a tutta la cristianità: all’adorazione dei fedeli venne però offerta, in luogo della preziosa reliquia, una croce che, ancor oggi, viene scoperta ed onorata con una triplice prostrazione. Il semplice ed austero rito della liturgia romana venne gradualmente drammatizzato ed enfatizzato, in particolare nella Gallia e nella Spagna; parallelamente si assiste alle composizioni di inni propri, caratterizzati da liriche espressioni; fra questi il “Pange lingua” e il “Vexilla regis” di Venanzio Fortunato.

M. RIGHETTI, Storia liturgica, III, Ed. Ancora, Milano 1946, p. 161 s.

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Il Dramma Sacro

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Ibidem, p. 255.

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l senso drammatico insito nell’uomo ha sempre trovato nel culto un ambiente quanto mai favorevole per esprimersi e svilupparsi. La liturgia cattolica, colle sue antifone, i suoi inni ricchi di immagini e di sentimento, con le suggestive sequenze spesso segnate da una trama dialogica, con l’alternarsi dei cori nel canto del salterio e dei responsori, conteneva, pur in forma embrionale, tutti i quattro elementi fondamentali del teatro: il verbale, il musicale, il mimico o d’azione, e quello scenico, costituito da un ambiente suggestivo e incomparabile come la cattedrale o la basilica. Tutti questi elementi hanno solidamente concorso alla nascita del dramma sacro che, nella sua forma primordiale, non è altro che un tropo liturgico amplificato e dialogato, messo in scena con intensa partecipazione dei fedeli, pur nella massima semplicità, prima della celebrazione eucaristica di grandi solennità. Il primo dramma sacro conosciuto è la “Visitatio Sepulchri” che rappresenta l’incontro tra l’Angelo e le donne al sepolcro, la mattina di Pasqua: un diacono rivestito della dalmatica e due sacerdoti rivestiti di piviale, impersonificando rispettivamente l’angelo e le due pie donne del vangelo, mettono in scena la breve ma serrata scena drammatica dell’annuncio della resurrezione del Cristo; quali effetti speciali di scena si hanno i tipici segni liturgici: il fumo profumato dell’incenso e il suono gioioso delle campane cui si uniscono le voci del coro; una situazione pregna di pathos ideale e sentimentale, tale da toccare immediatamente il cuore di tutti i presenti. La “Visitatio Sepulchri” è attestata in Francia già nel secolo X; in Italia la ritroviamo a Cividale, a Sutri, ad Aquileia, a Piacenza, a Brescia, nel Monastero Montecassino, a Cremona e a Genova7. Come l’episodio della resurrezione a Pasqua, anche altre feste liturgiche si prestano facilmente per esser ridotte ad argomento scenico; i veri drammi vengono rappresentati tra il X e il XII secolo in chiesa o attorno alla chiesa, dinanzi alla raccolta e commossa attenzione dei fedeli. Dette rappresentazioni possono essere suddivise in tre cicli:

- il ciclo pasquale con la “Visitatio Sepulchri” e il “Ludus paschalis” per la domenica di Pasqua, l’ “Officium Peregrini” per il lunedì dopo Pasqua, il “Ludus de Passione” e il “Planctus Mariae” per il Venerdì Santo; - il ciclo natalizio con l’ “Officium Pastorum” per il Natale, l’ “Ordo Rachelis” per la festa dei Santi Innocenti il 28 dicembre, l’ “Ordo Prophetarum” per il Capodanno e l’ “Officium Stellae” per l’Epifania. - Il ciclo biblico Santorale con varie rappresentazioni rievocanti altri fatti notevoli della vita di Cristo o Miracoli di alcuni Santi; in particolare di San Nicola. Questo complesso di drammi sacri rappresenta un primo stadio di sviluppo, che va dal principio del sec. X fino alla metà del sec. XII: durante quest’epoca essi vengono solitamente rappresentati in chiesa, da preti o da monaci che impersonano anche le parti femminili. A cominciare dalla seconda metà del sec. XII si avverte uno sviluppo del dramma sacro tendente ad allontanarlo dalla sobrietà scenica fino ad allora osservata per scostarlo dalla liturgia. Preti e monaci vengono sostituiti nella rappresentazione da laici, studenti soprattutto; la scena viene ben presto trasferita o nel chiostro monastico o sul sagrato della chiesa assumendo un respiro che si può già definire teatrale. La liturgia latina, propria della liturgia, è parzialmente sostituita da lingue volgari. È proprio nel contesto del nuovo fermento che caratterizza la vita degli Stati europei, sia in ambito religioso, sia sulla parte culturale e sociale, che nasce il nuovo teatro religioso: i “Ludi Scholares” nei paesi transalpini, la “Lauda drammatica” in Italia. I primi, sotto la spinta dell’iniziativa studentesca, diventano delle composizioni teatrali vere e proprie a soggetto religioso, tratte generalmente dalla Sacra Scrittura, o dall’agiografia, o dai testi patristici. La “Laude drammatica” è, invece, una composizione poetica in volgare, cantata presso compagnie di Flagellati o di Disciplinanti e rappresentata come vero e proprio spettacolo presso gli oratori delle medesime compagnie: vengono, perciò, compilati “Libri di Laude” o “Laudari”, contenenti, per ordine, la serie di tutte le Laudi che la Compagnia recitava e cantava lungo tutto il corso dell’anno liturgico.

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La Via Crucis

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ALVAREZ DI CORDOVA, si fece domenicano nel convento di S. Domenico di Cordova nel 1368 e lavorò con grande successo in Andalusia, Francia e Italia. Stimato dalla regina di Castiglia Caterina, divenne tutore del futuro re Giovanni II. Morì intorno al 1430 e fu proclamato beato nel 1741.

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Heirich Seuse, latinizzato in Suso, nacque forse a Costanza nel 1293 circa e morì a Ulma nel 1366. Entrato nel convento dei domenicani a Costanza, già a 18 anni ebbe la prima esperienza estatica:

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ra i pii esercizi con cui i fedeli cristiani venerano la Passione di Gesù pochi sono tanto amati quanto la Via Crucis. Attraverso il pio esercizio i fedeli ripercorrono con partecipe affetto il tratto ultimo del cammino percorso da Gesù durante la sua vita terrena: dal Monte degli Ulivi, dove nel “podere chiamato Getsemani” (MC 14, /32) Gesù fu “in preda all’angoscia” (LC 22, /44) fino al Calvario dove fu crocifisso tra due ladroni (LC 23,33), fino al giardino dove fu deposto in un sepolcro nuovo, scavato nella roccia (GV 19/40 - 42). Già S. Girolamo, che trascorse parecchi anni in Palestina, attesta, con accenni entusiastici, che i cristiani della Terra Santa e poi i numerosi pellegrini si recavano a venerare la “Via Dolorosa”. Dopo le crociate, il percorso compiuto da Gesù sotto il peso della croce dal Pretorio di Pilato fino al Monte Calvario fu universalmente conosciuto, visitato e venerato. Non potendo tutti portarsi in Palestina, s’introdusse in Occidente l’usanza di commemorare la Passione del Redentore percorrendo un dato cammino e soffermandosi di tanto in tanto dinnanzi a una rappresentazione (cappella, altare, scultura, pittura) dei vari episodi. Svoltosi storicamente lungo le vie di Gerusalemme, quest’uso fu portato in Spagna dal Beato Alvaro di Cordova8, frate domenicano, nel 1420 al suo ritorno dai Luoghi Santi. L’Alvaro fece riprodurre alcune scene della Passione di Gesù nel convento di S. Domenico a Cordova, dove egli era priore. Dopo di lui i frati minori francescani che dal 1342 avevano in custodia la Terrasanta, e che solevano percorrere personalmente o coi pellegrini la “Via Dolorosa”, portarono in Europa e propagarono ovunque queste rappresentazioni della Passione di Gesù, dette “Stazioni”. Il terreno era stato reso fertile per l’introduzione di tale pratica devozionale anche dalle intense visioni del mistico tedesco Enrico Suso9, il quale in alcuni momenti di profonda preghiera, andando in estasi, seguiva con il cuore e con la mente il Cristo nel suo tragitto verso la croce, meditando la Passione, qua-

si rivivendo fisicamente il procedere di Gesù lungo la Via del Calvario, partecipando ai dolori del Redentore e della Vergine Madre addolorata. Le descrizioni riportate sia dai pellegrini sia dai francescani iniziarono a contenere riferimenti della scoperta archeologica di nuovi tratti della “Via Dolorosa”. Nel racconto di Felice Fabbri del 1480 si narra che la Vergine Maria fino alla sua morte aveva seguito le stesse tappe percorse dal Cristo il Venerdì Santo e poi dai pellegrini in visita a Gerusalemme. Tale percorso era in parte definito sia dalla collocazione dei vari santuari conosciuti fin dal sec. IV, sia dalle richieste delle autorità turche con le quali i frati francescani mantennero discreti rapporti. Dall’epoca della narrazione di Felice Fabbri si assistette al sorgere di altre testimonianze che contribuiscono alla codificazione delle classiche quattordici stazioni della Via Crucis: il cammino verso il Golgota, la storia del sudario della Veronica conservato come preziosa reliquia in San Pietro in Vaticano, la storia di Simone di Cirene obbligato a portare la Croce di Gesù, la caduta sotto il peso della Croce, l’incontro con le donne di Gerusalemme. Il termine “stazione”, proveniente dal linguaggio militare, già presente nell’uso liturgico romano, venne utilizzato per la prima volta da William Wej, un pellegrino inglese che visitò la Terra Santa nel 1478 e nel 1482: egli con il termine “stazione” indicò unicamente i luoghi visitati a Gerusalemme e non le altre località della Palestina o dintorni della città santa. Per questo dalla fine del ‘400 alcuni avvenimenti della “Via Dolorosa” vennero chiamati “stazioni”. Martin Ketzel, scultore tedesco di Norimberga, si recò in pellegrinaggio in Terra Santa nel 1468; al ritorno realizzò sette sculture che raffiguravano sette avvenimenti della Passione di Gesù, da lui definite “sette cadute di Gesù”, dalla condanna nel Pretorio alla deposizione nelle braccia di Maria. Avendo egli dimenticato l’esatta distanza tra l’inizio e la fine del percorso della “Via Dolorosa”, fece ritorno a Gerusalemme in pellegrinaggio, annotando con cura le varie distanze; una volta tornato in Patria, dispose su un tragitto pari a quello della “Via Dolorosa”, le sette sculture, ricostruendo così le tappe della salita di Gesù al Calvario.

iniziò allora lo “sposalizio spirituale con “l’Eterna Sapienza”. Scolaro di Eckhart, difese il maestro contro le accuse di eresia, interpretandone il pensiero nella più ortodossa tradizione tomista. Il suo “Libro dell’Eterna Sapienza” è un classico del misticismo tedesco e viene tuttora stampato. Fu proclamato beato nel 1831.

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Nato a Porto Maurizio sulla Riviera Ligure nel 1676, Leonardo studiò nel Collegio Romano dei gesuiti e si fece francescano della più stretta osservanza nel convento di Bonaventura sul Palatino a Roma. Ordinato sacerdote, fu zelante missionario nelle predicazioni del popolo; fu altresì scrittore ascetico prolifico. Morì a Roma nel 1751. Fu canonizzato dal Beato Pio IX nel 1867.

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Alfondo Maria de’Liguori nasce a Napoli nel 1696 da illustre famiglia; brillante avvocato si fa sacerdote e si impegna nelle missioni al popolo specie fra i contadini delle

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Le sette rappresentazioni del Ketzel furono più volte copiate lungo tutto il sec. XVI, anche se le scene ritratte variavano da serie a serie. Nel 1563 a Lovanio venne pubblicato “Il Pellegrinaggio Spirituale” opera postuma del priore dei carmelitani di Malines, Jan Van Paesschen, che descrive un pellegrinaggio spirituale in Terra Santa della durata di un anno, presentando ogni giorno una scena e fornendo il testo spirituale su cui meditare Quando il lettore giunge mentalmente a Gerusalemme, il frate Carmelitano lo conduce lungo la “via Dolorosa” e lo invita a meditare su quattordici scene, esattamente corrispondenti a quelle che oggi conosciamo come le classiche quattordici stazioni della Via Crucis. Il buon carmelitano fornisce anche dettagli geografici e topografici, indicando con precisione le distanze tra una stazione e l’altra; ma dette misure corrispondevano al percorso realizzato dal Ketzel a Norimberga, in quanto il Paesschen non si recò mai in Palestina. Il Pellegrinaggio a Gerusalemme fin dall’epoca delle Crociate era arricchito dalla concessione dell’indulgenza plenaria. Nel 1731 papa Clemente XII stabilì che tutti i fedeli che, con animo devoto, avessero adempito alla pia pratica della Via Crucis avrebbero ottenuto le medesime indulgenze come se avessero visitato i sacri luoghi della Passione del Cristo. Tale concessione fece sì che l’esercizio della Via Crucis si diffondesse ovunque. Fu in particolare San Leonardo da Porto Maurizio10 a farsi apostolo e diffusore di tale devozione in tutta la penisola italiana: fece erigere le stazioni della Via Crucis in ben 572 città: fra queste quella celeberrima del Colosseo a Roma il 27 dicembre del 1750: in tal modo l’antico anfiteatro Flavio, che vide il martirio di tanti cristiani dati in pasto alle belve feroci, divenne luogo sacro interrompendo così la graduale demolizione dell’edificio romano che, complici i vari terremoti, era divenuto una cava che forniva blocchi di travertino già squadrati. Fra i testi utilizzati per meditare sulla Passione di Gesù mentre si percorrono i tratti della Via Crucis, il più diffuso era quello ricavato dagli scritti di Sant’Alfonso Maria de’ Liguori11, con l’aggiunta delle strofe dello “Stabat Mater” la celebre sequen-

za mariana, attribuita a Jacopone da Todi (1230-1306). La grande diffusione di questo pio esercizio è dovuta al fatto che la Via Crucis è sintesi di varie devozioni fin dall’alto Medioevo: il pellegrinaggio in Terra Santa, durante il quale i fedeli visitano devotamente i luoghi della Passione del Signore; la devozione alle “cadute di Cristo” sotto il peso della Croce; la devozione ai “cammini dolorosi di Cristo” esplicatasi nel procedere da una chiesa all’altra in ricordo dei percorsi compiuti dal Cristo durante la sua Passione; la devozione alle “stazioni di Cristo”. Nel pio esercizio della Via Crucis confluiscono altresì varie caratteristiche della spiritualità cristiana: la concezione della vita come cammino o pellegrinaggio; il considerare l’esperienza della vita terrena come un passaggio attraverso il mistero della Croce; il desiderio di conformarsi profondamente alla Passione di Cristo; l’esigenza della “Sequela Christi” per cui il discepolo deve camminare dietro il Maestro, portando quotidianamente la propria croce (cf. Lc. 9, 23). La forma tradizionale prevede quattordici stazioni che, nella forma tipica, sono così ritualmente celebrate: I

Gesù è condannato a morte;

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Gesù è caricato della Croce;

III

Gesù cade per la prima volta;

IV Gesù incontra sua madre; V

Simone di Cirene aiuta Gesù a portare la Croce;

VI Una pia donna asciuga il volto di Gesù; VII Gesù cade per la seconda volta; VIII Gesù consola le donne di Gerusalemme; IX Gesù cade per la terza volta; X

Gesù è spogliato delle sue vesti;

XI Gesù è inchiodato sulla croce; XII Gesù muore sulla croce; XIII Gesù è deposto dalla croce; XIV Gesù è sepolto

zone rurali; ciò lo portò a fondare la Congregazione del Santissimo Redentore. Nel 1762 viene costretto dal Papa ad accettare la carica di Vescovo di S. Agata dei Goti. Muore nel 1787. Canonizzato nel 1839, viene dichiarato dottore della Chiesa nel 1871, anche alla luce delle numerose opere ascetiche, teologiche e storiche da lui composte.

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Esistono però forme alternative della Via Crucis approvate dalla Sede Apostolica e talvolta pubblicamente utilizzate dal Romano Pontefice. Inoltre è bene sottolineare che la Via Crucis, pur essendo la meditazione itinerante della Passione di Cristo deve restare aperta all’attesa, piena di fede e di speranza, della resurrezione, così come i fedeli a Gerusalemme concludono la “Via Dolorosa” all’”Anastasis”, la basilica circolare che fin dall’epoca di Costantino protegge il Santo Sepolcro, il luogo per eccellenza della resurrezione. I fedeli, per poter lucrare fruttuosamente l’indulgenza, devono attenersi a quanto disposto dall’Autorità ecclesiastica. Ecco quanto prevede l’Enchiridion indulgentiarum12. Esercizio della Via Crucis (Viae Crucis exercitium) Si concede l’indulgenza plenaria al fedele che compie il pio esercizio della Via Crucis. Il pio esercizio della Via Crucis rinnova il ricordo dei dolori che il divino Redentore patì nel tragitto dal pretorio di Pilato, dove fu condannato a morte, fino al monte Calvario, dove per la nostra salvezza morì in croce. Per l’acquisto dell’indulgenza plenaria valgono queste norme:

5. I fedeli che sono legittimamente impediti potranno acquistare la medesima indulgenza dedicando alla pia lettura e meditazione della passione e morte di nostro Signore Gesù Cristo un certo spazio di tempo, ad esempio, un quarto d’ora; 6. Al pio esercizio della Via Crucis sono equiparati, anche per quanto riguarda l’indulgenza, gli altri pii esercizi, approvati dall’Autorità competente, nei quali si commemora la passione e la morte del Signore, sempre mantenendo la divisione in quattordici stazioni; 7. Presso gli Orientali, dove non esista l’uso del pio esercizio, per l’acquisto di questa indulgenza, i Patriarchi ne potranno stabilire un altro in memoria della passione e morte di nostro Signore Gesù Cristo;

1. Il pio esercizio deve essere compiuto dinanzi alle stazioni della Via Crucis legittimamente erette; 2. Per l’erezione della Via Crucis occorrono quattordici croci, alle quali si sogliono utilmente aggiungere altrettanti quadri o immagini che rappresentano le stazioni di Gerusalemme; 3. Secondo la più comune consuetudine il pio esercizio consta di quattordici pie letture, alle quali si aggiungono alcune preghiere vocali. Tuttavia per il compimento del pio esercizio si richiede soltanto la pia meditazione della passione e morte del Signore, senza che occorra fare una particolare considerazione sui singoli misteri delle stazioni; Manuale delle Indulgenze, Libreria Editrice Vaticano, Città del Vaticano 1996, p. 91 s.

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4. Occorre spostarsi da una stazione all’altra. Se il pio esercizio si compie pubblicamente e il movimento di tutti i presenti non può farsi con ordine, basta si rechi alle singole stazioni almeno chi dirige, mentre gli altri rimangono al loro posto;

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La Via Crucis di Gavardo

I «La cena del Giovedì Santo»

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l tutto nasce da un’idea del gavardese Egidio Moreni nel 1985. Gavardo, comune posto all’imboccatura della Valle Sabbia, vede il suo territorio segnato e caratterizzato sia dal percorso sinuoso del fiume Chiese, sia dalla presenza di numerose colline di origine morenica; fra queste, proprio a ridosso del centro storico, la collina denominata “Monticello”, già sede dell’antica struttura di tiro al bersaglio e perciò soprannominata semplicemente “Bersaglio”. La sommità della collina è facilmente raggiungibile, attraverso varie strade e sentieri, direttamente dall’abitato; e, pur essendo così prossima all’area urbanizzata e in quegli anni ancor più segnata dal pesante traffico veicolare della strada 45 bis, conserva una natura boschiva pressoché intatta, quasi bucolica. La collina si prestava, perciò, alla realizzazione di una monumentale Via Crucis attraverso la via che principiando da Via Monte sale fino alla sommità per poi ridiscendere attraverso la via del Bersaglio, poi denominata Via degli Alpini, nel borgo delle Fornaci. Egidio Moreni, geniale quanto concreto, condivise il progetto con i sacerdoti della parrocchia gavardese, in particolare con l’arciprete don Francesco Zilioli, oltre che con gli amministratori comunali, in particolare con il Sindaco Ing. Gianpaolo Mora. Egidio fu incoraggiato a proseguire e subito, senza indugio, si mise all’opera. Contattò numerosi artisti bresciani chiedendo loro di dipingere, a titolo gratuito, una stazione della Via Crucis: i vari artisti si impegnarono a fornire la propria collaborazione e puntualmente, tranne in un caso, consegnarono la propria opera nei primi mesi del 1988. Egidio fu poi infaticabile nel coinvolgere tante persone che, sempre a titolo volontario, contribuirono alla realizzazione dell’opera: fra questi l’Ing. Luigi Avanzi che curò l’aspetto progettuale delle varie cappelle e gli infaticabili collaboratori del Moreni: Beppe Comini e Arturo Amadei. Egidio seppe poi coinvolgere nell’iniziativa anche i proprietari

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dei terreni che, ancora una volta, a titolo gratuito, donarono le aree dove vennero innalzate le varie cappelle; parimenti associò all’impresa un buon gruppo di donne, nominate sul campo “madrine”, cui affidò la cura e la pulizia delle cappelle una volta realizzate. Circa il tema delle varie stazioni e, di conseguenza, delle varie raffigurazioni pittoriche, si dovette tener conto sia della morfologia del percorso, sia del fatto che in quegli anni si era cominciato ad aggiungere una XV stazione per concludere la meditazione della Passione di Cristo in prospettiva pasquale, nel ricordo della risurrezione di Gesù. Tenendo poi conto del percorso, si decise di collocare otto cappelle nel tratto che da via Monte sale fino alla sommità del colle: una cappella, di più vaste dimensioni, proprio nel punto in cui la strada in salita si congiunge a quella che discende dal Tesio e le altre sei cappelle nel tratto in discesa fino in prossimità dell’abitato del borgo delle Fornaci. Alla luce di tutte queste considerazioni e in aderenza sia al testo evangelico, sia alla tradizione, chi scrive, allora fresco di studi teologici romani, con l’approvazione dell’autorità ecclesiastica, stese l’elenco dei temi da raffigurare nelle quindici cappelle della Via Crucis:

II «Gesù nell’orto dei Getsemani»

I La cena del Giovedì Santo (dipinta da Giovanni Tabarelli di Vestone)

II Gesù nell’orto dei Getsemani (dipinta da Silvio Venturelli di Gavardo)

III Gesù davanti ai tribunali (dipinta da Albino Ranesi di Gavardo)

IV Gesù incoronato di spine (dipinta da Oscar Di Prata di Brescia) V Gesù accetta la croce (dipinta da Domenico Giustacchini di Gavardo)

VI Gesù cade sotto la Croce (dipinta da Gianfranco Caffi di Brescia)

VII Gesù aiutato dal Cireneo (dipinta da Augusto Ghelfi di Brescia)

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VIII Gesù asciugato dalla Veronica (dipinto da Romeo Bellucci di Gussago)

III «Gesù davanti ai tribunali»

IX La resurrezione di Gesù (cappella centrale) (dipinta da Luigi Salvetti di Brescia)

X Gesù incontra la Madre e le donne di Gerusalemme (dipinta da Angelo Rossini di Concesio)

XI Gesù spogliato e inchiodato in Croce (dipinta da Pierino Tramonta di Bovezzo)

XII Il buon ladrone (dipinta da Girolamo Battista Tregambe di Botticino)

XIII La Madonna e Giovanni ai piedi della croce (dipinta da Luigi Salvetti di Brescia)

XIV Gesù muore in croce (dipinta da Ugo Vinetti di Brescia)

XV Gesù è deposto nel sepolcro

(dipinta da Ornella Lucchi di Toscolano)

Don Oliviero Faustinoni, in un opuscolo del 1994, così spiega la successione dei temi delle stazioni della Via Crucis Gavardese: “La tradizionale pratica della Via Crucis è scandita in 14 stazioni: dalla condanna a morte di Gesù alla posa nel sepolcro. Oggi si suol proporre come ultima stazione la Risurrezione. Ma il pellegrino che visita le “santelle” lungo il tragitto del Monticello, salendo da via Monte si troverà davanti a una successione alquanto diversa. All’inizio viene presentata la stazione della Cena del Giovedì Santo, seguita dalla preghiera di Gesù nell’orto di Getsemani e da Gesù davanti ai tribunali. Al termine della salita si arriva a un’ampia spianata dove sorge la grande cappella della Risurrezione. Poi la strada ridiscende su via Fornaci dove si incontrano altre stazioni che riprendono i momenti più salienti della crocifissione e della morte di Gesù. Questa anomala disposizione delle stazioni non è del tutto arbitraria ed è giustificata dalla configurazione del percorso. Difatti la partecipazione all’Eucaristia – memoriale della pas-

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sione e della morte di Gesù – è il punto di partenza della nostra esperienza quaresimale. Essa approderà, al culmine, con la celebrazione della Pasqua alla Risurrezione del Signore. La ripresa, poi, del nostro cammino dentro le difficoltà del vivere quotidiano non sarà più segnata da stanchezza e da rassegnazione, ma incoraggiata e guidata verso la Pasqua eterna dalla costante presenza accanto a noi di Cristo sofferente, crocifisso e risorto. Potrà così avverarsi anche per noi quanto S. Paolo diceva per sé: “Porto a compimento, nella mia carne, quello che manca alla Passione di Cristo per l’edificazione del suo Corpo che è la Chiesa”12. Davanti alla Cappella centrale, quella della risurrezione, venne posto un altare in pietra con una pregevole mensa in marmo di Botticino, offerta dai Fratelli Guarda di Paitone e una altrettanto pregevole scultura realizzata dal medico scultore Luigi Corti. La monumentale Via Crucis venne inaugurata il 20 novembre 1988; così annuncia l’evento “Il Ponte”, il periodico della comunità gavardese.

O. Faustinoni, La Via Crucis del Monticello, Edizioni “Il Ponte”, Gavardo 1994, p. 5

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IV «Gesù incoronato di spine»

“Fra i più bei ricordi che i pellegrini al ritorno da Lourdes conservano nel proprio cuore, vi è certamente quello relativo alla suggestiva “Via Crucis” le cui stazioni, con statue bronzee a grandezza naturale, sono disseminate lungo una tortuosa strada che sale sulla sommità del cosiddetto “Calvario”. Ora anche Gavardo ha la propria “Via Crucis” monumentale ed intima ad un tempo: le quindici artistiche cappelle che celebrano il mistero della Passione e della Risurrezione del Cristo si snodano sulle pendici delle nostre modulate colline, assurte “ad hoc” a “Calvario gavardese”, lungo la strada che proseguendo oltre Via Monte si congiunge a Via degli Alpini. L’opera che ha veramente le caratteristiche della monumentalità è stata realizzata grazie all’umile attività del volontariato: un gruppo di generosi cittadini guidati con passione da Egidio Moreni ha costruito, su disegno progettuale dell’Ing. L. Avanzi, la nutrita serie delle cappelle che successivamente sono state affrescate gratuitamente da alcuni insigni artisti gavardesi e bresciani. L’opera realizzata è certamente un insigne monumento d’arte: senza peccare di retorica, possiamo affermare

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ch’essa costituisca un complesso artistico di notevole importanza come espressione della religiosità popolare e come manifestazione dell’arte sacra contemporanea. La felice dislocazione della “Via Crucis” nel contesto naturale delle nostre colline favorirà la riflessione di quanti vorranno meditare sulla passione del Signore, avendo pure l’occasione di respirare un po’ di aria buona”.

V «Gesù accetta la croce»

Il periodico riporta anche l’elenco delle madrine cui fu affidata la cura e la pulizia delle quindici cappelle:

Attualmente le madrine sono: Bresciani Santa ved. Moreni, Poletti Patrizia, Ferrari Irene, Vezzola Piera, Grazioli Caterina, Bodei Amalia, Carnevali Caterina, Rota Maria, Cristiani Gemma, Perugini Silvana, Scassola Mary, Mabellini Iside e Matilde, Vezzola Iris, Tebaldini Rosa, Ferretti Erminia.

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Bresciani Santa in Moreni, Molinari Rita in Vincenzi, Ferrari Irene in Chiodi, Piera Vezzola Comaglio, Bodei Amalia in Bresciani, Grazioli Caterina in Vezzola, Tagliani Gabriella, Carnevali Caterina ved. Grumi con altre coinquiline del condominio in Via Monte 29, Chiodi Orsola in Maioli, Scassola Lena ved. Parolini, Perugini Silvana in Biemmi, Tebaldini Rosa in Franzoni, Vezzola Iris in Comini, Mabellini Iside in D’Acunto e Matilde ved. Abeni, Scassola Maria in Zorzini, Ferretti Erminia ved, Candido. 13 Il giorno dell’inaugurazione vedeva non ancora realizzato il dipinto dell’XI stazione che era stato affidato al pittore Dino Decca, quest’artista non riuscirà a consegnare l’opera che verrà realizzata da Pierino Tramonta. Purtroppo la Cappella centrale, dipinta da don Luigi Salvetti, fu deturpata da atti vandalici, che rovinarono irreparabilmente l’immagine sacra e perfino l’intonaco dell’affresco. Ancora una volta l’infaticabile Egidio Moreni seppe motivare un nuovo artista, il pittore Natale Doneschi di Virle, che affrescò interamente la Cappella della Risurrezione, associando al Cristo risorto il sacrificio dei soldati morti per la libertà della nazione italiana.

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L’opera, particolarmente pregevole, venne inaugurata il 29 agosto 1993. Anche la XV Cappella vide deteriorarsi la bella immagine pittorica della deposizione; il pittore Augusto Oliva, gavardese, realizzò, su modelli classici, il nuovo dipinto che fu dedicato alla memoria di Egidio Moreni che, nel frattempo, dopo breve malattia, aveva concluso la sua esistenza terrena. La Via Crucis gavardese è diventata nel tempo meta di visitatori e pellegrini: in particolare il Venerdì Santo, in tarda serata, diventa oggetto di riflessione e di preghiera per tutta la comunità gavardese che percorrendo il cammino del Monticello, vero “Calvario” gavardese, medita sulla Passione e Morte del Redentore.

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IX «La resurrezione di Gesù»

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VII «Gesù aiutato dal cireneo»

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VIII «Gesù asciugato dalla Veronica»

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X «Gesù incontra la Madre»

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IX «La resurrezione di Gesù»

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XI «Gesù spogliato e inchiodato in Croce»

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XII «La crocifissione di Gesù e il buon ladrone»

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XIV «Gesù muore in croce»

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XIII «La Madonna e Giovanni ai piedi della croce»

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XV «Gesù e deposto nel sepolcro»

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Sostituita per deteriorata

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Giovanni Maria Caccianiga (Cazzaniga) un pittore gavardese

“Il 9 Agosto 1855 270. Giovanni Caccianiga dei predecessi N.N, di Gavardo colà domiciliato ma qui esistente da 13 giorni per l’esercizio di sua professione qual Pittore, dopo d’aver rifrescato da due giorni il Medaglione di S. Martin in questa Chiesa sulla volta del Coro sopra l’altare maggiore, ieri 8 Agosto alle ore 6 pomeridiane, a causa di Colera, cessò di vivere in età d’anni 55, munito però dei SS.mi sacramenti Penitenza ed eucarestia, ed in oggi, trascorso il voluto tempo, venne il di cui cadavere senza onori Funebri tumulato in questo S. Campo parrocchiale. la morte dell’anzidetto pittore fu ufficialmente notiziata al Reverendissimo Arciprete Gentili di Gavardo per l’analoga iscrizione nei di Lui parroc-

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chiali Registri sotto la data 12 agosto 1855. Buccio Stefano Parroco” Arch. Parr.le di S. Martino di Degagna, Morti a Cecino 1802-1855, n. 270; ibidem, Libro degli Atti di Morte della Parrocchia di S. Martino dal 1816, alla data.

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’8 agosto 1855 moriva di colera a San Martino di Degagna in Casa Viani, in via Ceresigno, il pittore Giovanni Maria Caccianiga. Era celibe e due giorni prima aveva terminato di affrescare sulla volta del coro della parrocchiale il “Medaglione di S. Martin”1 Figlio di Giuseppe Antonio fu Paolo e di Angela fu Giuseppe Fiorino Piccini, era nato a Gavardo il 19 giugno 1799 e venne battezzato nella Chiesa Arcipretale il 21 seguente2. Aveva quindi compiuto da neanche due mesi 56 anni di età. L‘affresco realizzato da Giovanni Caccianiga al centro della volta absidale della chiesa parrocchiale di San Martino di Degagna rappresenta la gloria del santo vescovo di Tours. Lo stato di conservazione dell’opera non è buono, avendo subito nel corso degli anni varie infiltrazioni d’acqua, le quali sono state malamente risarcite da un intervento di Ranesi, nel quale si è tentato, senza riuscirvi, di reintegrare sottotono le lacune. Probabilmente contestualmente a detto intervento altre parti dell’affresco vennero ritoccare o addirittura ridipinte. Il santo patrono della comunità di Degagna è rappresentato paludato negli abiti pontificali propri del potere vescovile, al quale era giunto per acclamazione popolare da parte degli abitanti della cittadina francese di Tours. Martino viene rapito verso la gloria del Paradiso da uno stuolo di cherubini festanti, due dei quali recano la mitria e il pastorale, le insegne vescovili, mentre un altro suona la tromba. Al momento non sono conosciute altre opere realizzate sicuramente dal maestro Caccianiga, e la ricerca di eventuali confronti è resa più ardua dalla situazione in cui versa quest’opera, di sicuro l’ultima da lui realizzata prima della morte. Stando a ciò che è possibile vedere, il nostro pittore aveva una mano discreta, dalla resa degli incarnati immediata e vivace, com’è dimostrato dai tratti giovanili, quasi da eroe romantico delle saghe bretoni, del volto di san Martino. Sono da notare al-

L’epidemia di colera del 1855 fece in Val d’Agna dal 19 luglio al 15 settembre almeno 31 vittime: 16 a S. Martino - Cecino; 14 a Eno e 1 sola a Carvanno (ma le annotazioni del parroco sono qui usualmente incomplete). L’atto di morte è registrato a Gavardo in data 12 agosto 1855” (Archivio Parrocchiale dei santi Filippo e Giacomo, Registro dei morti dal 1° Genn. 1845 al 31 dicembre 1877, n.689/2 Chiesa di S. Martino di Degagna “Medaglione di S. Martin”, affresco di G. M. Caccianiga, 1855 (ritoccato)

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“21 giugno 1799 “Giovanni Maria Figlio del Signor Giuseppe Antonio Caccianiga quondam Paolo e della Signora Angela quondam Giuseppe Fiorino Piccini sua moglie fù battezzato dal molto Reverendo Signor Don Giovanni Comincioli Curato. Conpadre fù il Signor Cristofero Negroni. Naque il giorno 19 detto alle ore 20 circa”, (ibidem, Registro dei nati dal 16 Giugno 1784 al 31 Dicembre 1844, alla data) cioè alle 16,45 circa, la prima ora del giorno terminando a quei tempi un’ ora dopo il tramonto del sole del dì 18.

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12 Agosto 1855 N° 689/20 Caccianiga Giovanni quondam Giuseppe e Picini Angela colpito dal morbo Colera moriva ieri l’altro in Degagna Parrocchia di S. Martino come consta da lettera di quel Parroco 12 and.e Agosto 1855.

trettanto, tuttavia, alcune sproporzioni anatomiche specie nei corpi degli angeli, forse causate dall’esuberante gioia di vivere che pervade l’insieme, relegando in secondo piano la perfezione formale rispetto a quell’emozione trascendente che il pittore voleva conferire all’affresco.

Atti di nascita e di morte di Giovanni Maria Caccianiga (Arch. Parr.le dei santi Filippo e Giacomo di Gavardo:

Andrea Crescini - Mario De Ruitz

a Registro dei nati dal 16 Giugno 1784 al 31 dicembre 1844, alla data. b Registro dei morti dal 1° gennaio 1845 al 31 dicembre 1877, n. 689/20)

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Mario De Ruitz

Testimonianze di pietà popolare in Degagna Dipinti murali

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primari segni di devozione religiosa in Degagna sono ubicati – così come altrove – lungo le antiche strade comunali e consorziali e agli incroci. Non vanno pertanto cercati nel tratto della comunale che collega San Martino al Ponte Sacca, costruita negli Anni Cinquanta del secolo scorso, mentre invece sono presenti nella vecchia “Comunale di Eno”, che vi giunge passando per Cecino (V., come esempio, l’edicola settecentesca raffigurata alle pp. 46 e 47). Sono espressioni di pietà individuale o della comunità, generalmente opere di madonnari itineranti di modesto valore artistico, ma, sovente, testimonianza viva e significativa di spontaneità popolare. Questo breve saggio ne illustra solo alcune, prescegliendo gli affreschi su edifici e in edicole e nicchie che raffigurano scene della vita di Gesù, della Madonna e del Vangelo e santi patroni di interesse locale. I pittori che li eseguirono erano verosimilmente di origine bresciana, fors’anche valsabbina, posto che le dimensioni dei dipinti ben concordano con le misure premetriche bresciane (V., per esempio, gli affreschi di cui alle pp. 50, 52, 58…). Di loro abbiamo cercato traccia – e non inutilmente – in aree vicine alla Valle dell’Agna: in Bassa e Alta Val Sabbia, lungo la riviera benacense, a Tignale, Tremosine, a Capovalle…, estendendo le ricerche al Basso Trentino. A Vico di Capovalle, in Via Maggiore, v’è un dipinto, datato 1785, raffigurante una Madonna col Bambino fatta da un frescante che abbiamo chiamato Madonnaro della cornice a cordone perché correda i suoi lavori di una cornice a modanatura bresciana secentesca, che completa con sciolti tratti di pennello di due colori (p.51).Il madonnaro lo troveremo in Degagna tre lustri più tardi: a Dargnù, con una Crocifissione, e a Nevràs con una Deposizione con Pietà che, come a Vico, corona di ramoscelli fioriti (pp. 48-50). Opere mediocri entrambe, invero, ma di rilevante pittoricità, poiché esprimono nei volti e nei gesti dei protagonisti i sentimenti di pietà, di dolore, ma specialmente di fede cristiana e di dedizione alla Divinità che

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devono comunicare a chi le guarda con devozione. La scena della Deposizione e l’isolato fienile di Nevràs dov’è dipinta sono oggetto di una curiosa credenza locale. Sono detti dai valligiani la Ca’ e la Madóna dei porsèi (‘Casa e Madonna dei porci’), poiché si vuole che a un uomo di Eno, che scendeva a piedi per lavoro a Nevràs, sia successo che per tre giorni di seguito si accompagnasse lungo la via un porcello, che misteriosamente scompariva quando vi giungeva, per poi apparire alla sera e riaccompagnarlo verso Eno. Si racconta poi che quelli che si avvicinavano al fienile venivano accolti con grugniti minacciosi provenienti dall’interno e assaliti talvolta e messi in fuga da una torma di porci infuriati. Di un altro affreschista che fu attivo a Carvanno forse nell’ottavo decennio del XVI secolo abbiamo trovato opere a Bagolino, alla Nozza e a Casto. Si tratta del Madonnaro della Colegna, così da noi denominato per la sua Madonna col Bambino fra i Santi Domenico e Rocco della Té§a Schivalocchi in località Colegna di Bardolino, datata 1574 (pp. 52 e 53). L’affresco di Carvanno, riprovevolmente restaurato nel 2001 o 2002, presenta scrostature dell’arriccio non colmate in fase di restauro. Rappresenta la Vergine assisa in trono con il Bimbo in grembo fra i Santi Antonio Abate e Giovanni Battista, composizione a tre figure che è tipica del madonnaro e lo distingue fra i molti altri di cui non conosciamo il nome che operarono nel Bresciano. L’opera, inquadrata in cornice dipinta a tralci fogliferi, è racchiusa in un’altra a listello di stucco modanato dell’epoca. La ricchezza dell’inquadratura non ha però purtroppo suggerito al proprietario dell’edificio dove si trova di curarne con maggior cautela e sensibilità il restauro. Del medesimo madonnaro è la Madonna col Bambino fra i Santi Antonio Abate e Luigi IX re di Francia affrescata in Via Sardello alla Nozza (p. 54). Il sovrano v’è rappresentato coperto di bubboni, quale protettore, insolito, contro la peste. Questo dipinto e il precedente sono di misura premetrica bresciana. Ciò che induce a credere che il pittore fosse d’origine bresciana. Un più comune protettore valsabbino contro la peste è San Rocco, che però non troviamo raffigurato in Degagna. Qui, ol-

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tre al titolare della chiesa di Cecino, San Martino di Tours, presente alla Fucina Nuova e in una nicchia laterale dell’edicola dell’Angele Dei (V. alle pp. 47 e 55), si trovano piuttosto due più necessari protettori: Sant’Antonio Abate, per il bestiame, una delle principali risorse economiche della Valle, e Sant’Agata di Catania per le balie, che nei secoli passati furono numerose perché vi si inviavano comunemente a baliatico gli infanti esposti alla Pia Casa di Brescia (pp. 55 e 56).

degli Anni Sessanta del Novecento da alunni della scuola elementare di Eno; le figure erano scolorite, visibili solo in parte. Ma a sufficienza perché si potessero conservare, nel restauro, le loro dimensioni e la costruzione della scena. Ciò che fece fedelmente il pittore vicentino Miraldo Beghini, già assistente di Vedova all’Accademia di Venezia. Anche l’intensità dei colori originali fu da lui rispettata.

La Madonna è presente un po’ ovunque, nel fondovalle e nelle alture. A Lizzane, la sua intercessione al Signore per la famiglia che risiede nell’edificio in cui è raffigurata con il Figlio è richiesta dai Santi Antonio di Padova e Domenico, inginocchiati ai suoi piedi (figura di p. 57); al mulino di Carvanno si trova sotto il titolo di Madonna del Rosario (pp. 59); a San Martino mentre, Ancilla Domini riceve l’annunzio della nascita di Gesù (p. 58); all’Ortèl di Eno ancora, e due volte, come Madonna del Carmine e del Rosario (pp. 60-66). Qui, a 590 metri di altitudine, una bellissima edicola di stile roccocò accoglie la Vergine col Bambino sulle nuvole, nell’atto di porgere uno scapolare, al disopra dei Santi Giuseppe e Antonio da Padova, che stanno inginocchiati in adorazione del Figlio infante disteso sul prato ai loro piedi. Fa da sfondo alla scena la Valle dell’Agna così come si vede dal posto. Il dipinto e quello della Madonna del Rosario in una nicchia ricavata nel vicino muro di cinta della casa di Tonolini sono opere di una stesso affreschista, che abbiamo denominato Madonnaro dell’Ortèl. Il primo gli venne commissionato dall’enese Giovanni di Innocenzo Maffei (1673 ca. – 1743) probabilmente intorno alla fine degli Anni Trenta del XVIII secolo, che fece iscrivere il suo nome a pennello lungo il cornicione dell’edicola: “Gioan Maffei […]Fece Fare” (In mezzo doveva esserci l’anno d’esecuzione). L’edicola venne restaurata una prima volta nel 1799, come fa fede una iscrizione graffita su supporto di malta fresca sul retro; una seconda nell’inverno del 2005 e nella primavera seguente dal muratore Valentino Tonolini, proprietario della nicchia con la Madonna del Rosario. L’affresco era in pessimo stato di conservazione: i volti della Vergine e del Figlio erano stati deturpati ad acrilico alla fine

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L’Angele Dei di Cecino rammenta al devoto passante il giudizio universale. Nella parete di fondo della nicchia è raffigurato l’Angelo del Signore, con in mano la tromba, al di sopra d’una scena di morte e devastazione causata dalla catastrofica alluvione del 1587 descritta da Bongianni Grattarolo nella Historia della Riviera di Salò, edita a Brescia nel 1599.

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L’edicola dell’Angele Dei a Cecino (XVIII sec.)

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Il Fenìl de Dargnù in una fotografia del 1985 circa. È situato a 150 metri circa i linea d’aria a Nord-Est del Ponte Sacca, presso l’antica Strada Comunale di Eno che da Cecino mette a Eno, l’attuale comunale che da Vobarno porta a questa località. Era un tempo dei Federici Sàca di Cecino ed oggi appartiene alla Famiglia Bartoli. Sul fronte, volto ad Est, v’è dipinta la scena della Crocifissione con la Madonna e i Santi Giovanni Evangelista e Maria Maddalena. L’iscrizione sottostante è mutila della quinta riga, dove probabilmente v’era la data dell’esecuzione e il nome o le iniziali del committente: certo Federico di Giuseppe Federici (Cecino, 1777 - Pompegnino, 1838). È databile al 1800 circa ed è opera del pittore itinerante che distinguiamo come Madonnaro della cornice a cordone per la cornice a modanatura bresciana del XVII sec. che contorna gli affreschi che di lui conosciamo

La Crocifissione di Dargnù

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La Deposizione con Pietà e i Santi Giuseppe d’Arimatea e Giovanni Evangelista al Fenìl de Nevràs Anche questo affresco del Madonnaro della cornice a cordone si trova a breve distanza dalla strada comunale che da Vobarno mette a Eno, a 700 metri circa a Nord del Ponte Sacca, sulla riva sinistra del Torrente Agna. È esposto a occidente (260° O-S-O), a una altitudine di 430 m s.l.m. L’iscrizione basale, su 5 righe, è illeggibile, fatta eccezione per la quinta, dove, seppur con somma difficoltà, si rileva il millesimo dell’esecuzione: [M]D[C]CC (1800). Fu commisionato al frescante da un Federici di discendenza diversa dal committente del contemporaneo dipinto di Dargnù: Federico di Antonio (1735 circa - 1810), che lo corredò delle sue iniziali: F F F [ F] (Federici Federico Fece Fare). Il madonnaro era forse di origine bresciana, posto che le dimensioni dell’affresco sono a misura premetrica bresciana: 5 piedi 4 once (= 5 piedi e 1 terzo) x 2 piedi 9 once (= 2 piedi e 3 quarti), corrispondenti a 253,28 x 130,75 cm (misurati 235,5 x 131,0 cm).

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La Madonna col Bambino sulle nuvole del Madonnaro della cornice a cordone, datata 1785, a Vico di Capovalle, in Via Maggiore.

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L’affresco della Colegna, a Bagolino, datato 1574, è protetto in parte da un tettuccio di due lastre di granito locale, tagliate mediante fiammelle. È dipinto sulla facciata della Tè§a Schivalocchi, a 945 metri circa d’altitudine. Dello stesso pittore, che chiamiamo Madonnaro della Colegna, sono un affresco a Carvanno, in Degagna, e un altro a Nozza (Vedilo raffigurato alla p. 54). Le dimensioni di tutti sono a misura premetrica bresciana. Questo della Colegna fa all’incirca 3 piedi e 1 terzo x 3 piedi e 2 terzi, pari a 158,49 x174,34 cm; quello della Nozza 4 piedi e 1 quarto (all’origine) x 4 piedi 10 once e 1 terzo d’oncia, pari a 202,07 x 231,13 cm. L’affresco mostra la Madonna col Bambino fra i Santi Domenico e Rocco. Tipologicamente affine, v’è a Casto un altro affresco d’una Madonna col Bambino fra i Santi Sebastiano e Rocco, già entrambi protettori contro la peste (XV sec.), risalente all’ultimo terzo del XVI secolo. Staccato, si trovava all’origine in vicolo Uberti, all’esterno d’una casa demolita intorno al 1995.

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L’affresco della località Colegna

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La cinquecentesca Madonna della Nozza, attribuibile al Madonnaro della Colegna, è affiancata dai Santi Antonio Abate, protettore del Bestiame domestico, e Luigi IX re di Francia, che, molto religioso, prega con la corona del Rosario e, coperto di bubboni, è assunto qui quale protettore contro la peste, essendo morto di tale malattia, nel 1270, guidando una crociata in Oriente.

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È un affresco di difficile datazione, a motivo di un restauro fatto intorno al 1960, questo della Fucina Nuova, lungo la strada che da Vobarno mette a Eno. Mostra la Madonna con il Bambino sulle nubi e i due santi più invocati un tempo nel Centrovalle: Martino di Tours, il titolare della chiesa locale, e Antonio Abate, protettore del bestiame domestico.

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La Santa di Cecino. In piedi sulle nuvole, ha il capo lievemente reclinato e tiene nella mano sinistra la palma dei martiri e nella destra, su un vassoio, due mammelle. L’occhio sinistro le è stato cavato. Ma altri due stanno al disopra della mano destra e stanno per finire nel vassoio. Le mammelle recise sono l’attributo di Sant’Agata di Catania, protettrice delle balie, che in Degagna erano un tempo tante poiché gli esposti dell’Ospital Maggiore di Brescia venivano inviati numerosi a baliatico nella Valle. Gli occhi sul vassoio sono invece l’usuale attributo della martire di Siracusa.

L’affresco di Cecino, datato 1794, si trova sulla facciata d’una casupola adibita a legnaia e a stalla in Via Castello, dove ha inizio l’antica strada comunale che da qui mette al Monte Verde, ossia al Passo della Fobbia, snodandosi lungo il versante orografico destro della Valle del Prato della Noce.

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La Madonna col Bambino di Lizzane. Nimbati e in raggiera di gloria, Madre e Figlio sono invocati dai Santi Antonio di Padova e Domenico, fondatore dell’Ordine dei Predicatori, in ginocchio ai loro piedi. L’affresco, datato 1842, si trova sulla facciata della quattro-cinquecentesca casa padronale con portico ad archi ribassati seisettecentesco di proprietà di Bruna Gioromel, che fu dei fratelli Elio e Tiziana Tabarelli, sita a 505 metri di attitudine. È esposta a 119° E-S-E.

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La Madóna del mulì di Carvanno. In località Molino, lungo la strada che da Rango mette a Carvanno, a 531 metri di altitudine, v’è l’edificio dell’antico mulino da grano della famiglia Zani, inattivo dai primi anni del Novecento. Sulla parete frontale, a sinistra del portoncino d’ingresso, è dipinta a fresco la Vergine del Rosario con il Bambino in grembo.

La Madonna del mulìno di Carvanno.

La settecentesca Annunciazione con SS.ma Trinità di San Martino. È dipinta a fresco in una finestra cieca della facciata della Casa Viani, in Via Ceresigno, dell’altezza di 3 piedi 9 once bresciani (= 3 piedi e 3 terzi, pari a 178,30 cm) e con base di 2 piedi 4 once (= 2 piedi e 1 terzo, pari a 110,94 cm. Misurati 177-178 x 111 cm). L’Ancilla Domini, genuflessa a un inginocchiatoio davanti a un padiglione, riceve l’annunzio della nascita di Gesù dall’angelo Gabriele (Lc 1, 26-38), che le sta eretto di fronte con il giglio-non più visibile-nella mano sinistra e con la destra levata al cielo a indicare la SS.ma Trinità. Dove, sulle nuvole e fra cherubini, c’è Dio Padre, aureolato, e, sotto di lui, il Figlio bambino con il capo raggiato che dà fiato a uno strumento musicale. La colomba dello Spirito Santo, più sotto, discende in raggi di gloria verso Maria, L’architrave e i fianchi della finestra, adorni di rosette dipinte, incorniciano la scena.

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L’iscrizione soprastante, solo in parte e con difficoltà leggibile, data l’affresco al 1705. Abbreviata, si scioglie in [...] DA PROVAGLIO (?) FECE FARE PER SUA DEVOZIONE 1705. La cornice del dipinto fa in altezza 121,5 - 122,5 cm, che sono 2 piedi 6 once e 2 piedi 7 once bresciani, e di base 102 cm, pari a 2 piedi 1 oncia (121,5-122,8 x102,03 cm). L’affreschista era quindi forse di origine bresciana. La Madonna, nimbata, è seduta con il Bambino in grembo e offre con la mano sinistra la corona del Rosario. Il Bambino ha il capo raggiato e tiene sulle ginocchia un mazzo di tre rose di due colori e fra le dita della mano destra un’altra corona. La cornice, di gusto rococò, con conchiglie ai vertici e nella mezzeria dei lati, è molto scolorita.

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La Madóna de l’Ortel, in elegante edicola settecentesca di stile rococò, e, nel muro a destra, in nicchia risalente forse al Cinquecento, affresco del XVIII sec. con la raffigurazione della Madonna del Rosario fra i Santi Zeno e Domenico, restaurate entrambe nel 2005-2006 (Eno, località Ortèl, all’incrocio di due antiche strade: la consorziale detta Vicolo dei Filippini - che continua nella Via Longa, la Strada Vecchia di Eno, che da Cecino mette a Eno —, e la Via Pesèna).

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L’ edicola della MadĂłna de l’Ortèl come si presentava prima del restauro...

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... e durante i lavori di restauro murario eseguiti nel rigoroso rispetto della forma e dimensioni originarie dal muratore Valentino Tonolini di Eno sotto la direzione dello scrivente.

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L’ edicola di Eno pronta per essere ridipinta...

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...e a lavoro compiuto. Opera del pittore vicentino Miraldo Beghini, l’acrilico mostra la Vergine del Carmine sulle nuvole al disopra dei Santi Giuseppe, suo Sposo, e Antonio di Padova in adorazione del Bambino.

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La Madonna del Rosario di Casa Tonolini all’Ortèl di Eno dopo i lavori di restauro eseguiti nel 2006.

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