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AFTERCARE IN PRIMO PIANO

L'AFTERCARE NON È PIÙ UNA SECCATURA

Da servizio a strumento di engagement duraturo

Trova spazio nei negozi, è protagonista delle app

La repair economy diventa cool: aggiustare è un buon business, ma servono creatività e tech

Da Bottega Veneta a Golden Goose, cresce il numero di aziende che offrono ai clienti servizi evoluti di riparazione pensati per prolungare il ciclo di vita dei prodotti. Intanto gli investitori continuano a finanziare startup impegnate nell'assistere aziende e consumatori Ma costi e logistica restano le barriere prinipali all'afferrmaziojne su larga scala della repair economy

DI ANDREA BIGOZZI

Nei tre Forward Store aperti da Golden Goose nel mondo i clienti possono riparare capi di qualsiasi marchio

C’è un’espressione che recentemente continua a saltare fuori più e più volte nelle conversazioni sulla moda e l’impegno alla circolarità: “repair economy”. Rispetto a concetti come il re-sell, la riparazione è sembrata a lungo una misura scomoda per le aziende del settore, forse perché, più di ogni altra pratica di durabilità dei capi, sfida la visione di lunga data secondo cui “più è sempre meglio”. Non è un caso che i marchi dell’alto di gamma l’hanno tradizionalmente offerta alla clientela, ma sempre come fosse un’operazione secondaria, tenuta quasi nascosta e mai mediaticamente sbandierata o commercialmente incentivata, anche perché è una pratica costosa e time-consuming. Ora la repair economy inizia a trovare spazio nei flagship store delle capitali della moda e a spuntare sui titoli dei giornali attraverso le interviste ai ceo. Anche i social hanno iniziato a presentare questo genere di servizi attraverso app realizzate dalle startup innovative con spiegazioni e tutorial che fanno appello alla Gen Z,. A spingere le aziende del lusso, ma anche di brand più democratici a cavalcare questo argomento, non sono solo le richieste di un segmento sempre più vasto di consumatori, più inclini a riparare anziché a buttare, ma anche la consapevolezza che in prospettiva si faranno sempre più insistenti le pressioni da parte delle autorità di regolamentazione e degli investitori nell’assicurarsi che gli aspetti di circolarità siano affrontati in modo non greenwashing. Ma come si traduce in pratica questa rivalutazione della repair economy? Principalmente nell’offerta da parte di brand della moda e del lusso di servizi post-vendita, che non impatti troppo sui conti, ma che anzi creino valore. Uno degli esempi più evidenti di questi servizi è l’introduzione, all’interno di alcuni punti vendita, di un’area dedicata alla riparazione. Una funzionalità questa, che secondo la Circular Fashion Survey di PwC è in vetta alla classifica delle funzionalità ritenute più rilevanti da Millennials e GenZ. Uniqlo, per esempio, a fine 2022 ha portato anche nel flagship store di Milano (dopo quelli New York e Londra) il ReUniqlo Studio, uno spazio ad hoc dove clienti possono portare i capi che necessitano di ritocchi (i prezzi partono da 3 euro). Una strategia che sta seguendo, ma con una visione ancora più in grande, Golden Goose, che ha creato un format retail - già presente a Milano, Ney York e Londra e in piena fase di espansione - dove si riparano scarpe da ginnastica e abbigliamento (di tutti i marchi e non solo del proprio), grazie alla presenza nel punto vendita, di calzolai e sarti. «Era

Oltre a potenziare la capacità tecnica, i brand del lusso stanno investendo per rendere l’aftercare cool, come già accaduto con il resale

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pensato come servizio, ma sta diventando un business», ripete il ceo del marchio Silvio Campara a chi gli chiede di raccontare l’esperienza del Forward Store. I dati che il brand veneto ha condiviso con Fashion sui primi feedback del progetto confermano a pieno le parole del manager: attualmente il 30% delle transaction del Forward Store di Milano provengono dai servizi offerti (calzoleria e sartoria), con l’attività repair, principalmente legata alle sneaker, in cima alle richieste dei clienti. Con alcuni casi record, citati dallo stesso ceo nelle interviste ai giornali: «Un cliente ha 69 paia di sneaker che sta portando ad accomodare a cicli di tre, spendendo centinaia di euro ogni volta e magari acquistando anche modelli nuovi». Anche altri marchi di spicco, come Louis Vuitton e Bottega Veneta, non solo stanno espandendo la loro capacità tecnica di offrire riparazioni, ma anche cercando di creare coolness intorno a questo servizio. Bottega Veneta ci prova con il Certificate of Craft, un programma di garanzia a vita, attivo da novembre, che si presenta come una carta fisica associata al numero di serie del singolo prodotto e offre un numero illimitato di interventi di ripristino. Con 500mila borse riparate ogni anno, 11 centri dedicati e 1.200 riparatori professionisti, l’arte della riparazione è un affare serio per Louis Vuitton, che annuncerà nuovi servizi entro il 2023 per potenziare e sviluppare la riparabilità dei prodotti. Intanto negli Usa i clienti del brand possono richiedere appuntamenti di riparazione online e chat video con un esperto. «In Mulberry gestiamo questo aspetto direttamente: attualmente lavorano 11 persone che eseguono circa 10mila riparazioni l’anno non legate a difetti del prodotto ma per l’uso, visto che l’età media di una borsa è 15 anni e ci piace l’idea di prolungare ulteriormente il ciclo di vita dei nostri articoli, tanto da renderli transgenerazionali», ha raccontato Thierry Andretta durante la Ceo Roundtable di Fashion, rias-

1. Farfetch fa parte della lista di brand partner di The Restory, startup specializzata nell’aftercare di lusso, che raddoppia i volumi anno su anno 2. Louis Vuitton dal 2023 potenzierà e svilupparà i servzi di riparabilità, intanto negli Usa è già possbile richiedere appuntamenti di riparazione online e chat video con un esperti 3. Da novembre Bottega Veneta ha lanciato un programma di garanzia a vita delle sue borse 4. Il brand di maglieria Nitto fornisce ad ogni acquirente un set self care che assicura al capo una vita più lunga

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sumendo i numeri di successo del brand di pelletteria di cui è ceo nel campo delle riparazioni e aggiustamenti. Anche Kering si è impegnata a espandere e consentire un accesso più facile ai servizi di riparazione come parte della sua strategia di circolarità rilasciata a maggio 2021. La domanda presso il suo centro di riparazione specializzato di Shanghai è in crescita: nel corso del 2020 sono stati riparati 20mila articoli e il numero è in aumento. L'elenco di altri marchi che offre riparazioni continua a crescere rapidamente, da Patagonia a Barbour e Dr Martens a Christian Louboutin e Church's, a cui si è appena aggiunta la new entry Hugo Boss, che ha iniziato a offrire il servizio alcuni store selezionati in Germania, con la prospettiva di estenderlo presto ad altri mercati chiave. Di fatto si tratta di una strategia doppiamente vantaggiosa per le aziende, in quanto consente loro non solo di aumentare la fe-

1. Da fine 2022 Uniqlo ha attivato anche nel negozio di Milano, il Re.Uniqlo Studio, spazio dedicato a chi preferisce aggiustare e non buttare i propri abiti 2. Mulberry gestisce direttamente il business delle riparazioni: ogni anno 11 specialisti eseguono 10mila interventi di ripristino. 3. Al Black Friday del 2022 Mykita anziché fare sconti e incentivare gli acquisti, ha chiuso il suo shop online e sostenuto il servizio post vendita Mycare, attivo tutto l'anno in store

deltà e il coinvolgimento dei consumatori, ma anche (e lo stanno capendo a seguito dopo il boom del resell) per mantenere i clienti nell'ecosistema del marchio più a lungo. Per Mykita fornire ai clienti migliori servizi post-vendita non cannibalizza le vendite di nuovi prodotti (principale preoccupazione per le aziende che devono registrare una crescita continua) ma anzi aiuta a convertire nuovi clienti, che sono disposti a spendere di più, quando sanno che il loro acquisto offre una serie di garanzie. Per questo il marchio di occhialeria in occasione dell’ultimo Black Friday ha sospeso l’attività globale di e-commerce, enfatizzando la possibilità di riparare anziché acquistare qualcosa di nuovo. «Volevamo far sapere ai nostri clienti, che siamo lì per loro - racconta Xenia Glutz von Blotzheim, Csr director del marchio di occhialeria - e che siamo consapevoli che le nostre montature e le nostre lenti non sono usa e getta, ma un investimento che possono indossare per molti anni e che quindi questo investimento ripagherà». «Per noi - prosegue la manager - offrire questo genere di assistenza è fondamentale e va al di là del numero di riparazioni effettuate. Siamo convinti che il consumo consapevole sia il futuro e speriamo che diventi il new normal». Ma per poter parlare di successo è necessario che la repair economy esca dalla nicchia (attualmente l’incidenza delle pratiche di circolarità in genere, secondo uno studio Ambrosetti sono confinate al 3,5% del

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mercato) e diventi un fenomeno su larga scala, alla portata di tutti i brand e dei retailer, e non solo uno strumento di engagement in mano alle aziende del lusso, che possono sostenere gli alti costi logistici e di forza lavoro. Un asse portante che potrebbe trainare e democraticizzare il settore nei prossimi anni è quello delle startup tech, che sta portando alla nascita di numerose app specializzate nell’offrire servizi di riparazione direct to consumer e su cui negli ultimi mesi si stanno concentrando gli investemti di diversi venture capitale. É il caso The Restory, piattaforma B2C che conta anche collaborazioni B2B importanti con Selfridge's, Manolo Blahnik e Farfetch, che dal 2017 (anno di nascita) continua a raddoppiare il giro d’affari anno su anno e che a settembre è stata protagonista di un round di finanziamento di 4,5 milioni di sterline.

L’aftercare non è solo un servizio per i big brand da quando sono entrate nel sistema diverse startup direct to consumer, scelte anche per il B2B

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I fondi hanno partecipato pochi mesi fa anche nell’aumento di capitale di Sojo, un'app direct to consumer (con diverse partnership B2B all’attivo, come quella con Ganni), che a Londra è diventata nota come la "Deliveroo delle riparazioni di abbigliamento" e che vede nella compagine azionaria diversi addetti ai lavori tra cui ex manager di Pangaia e Tom Ford. Mentre è in grande ascesa la piattaforma Toast che, durante la London Fashion Week, ha offerto un servizio di riparazione gratuito, realizzato in collaborazione con giovani e talentuosi artigiani. Ma nonostante le startup stiano dando una mano alla diffusione della “repair economy”, il vero ostacolo verso un futuro mainstreaming resta il fatto che non esiste un approccio “matematico” alla riparazione: i tempi sono variabili, spesso superiori alle aspettative del cliente, e talvolta gli interventi di aggiustamento comportano una “customizzazione” (ad esempio una micro toppa) che non rispecchia gli standard dei brand. C’è chi, come The Restory, sta provando a regolamentare l’arte della riparazione, mettendo a punto un protocollo che identifichi degli standard di servizio, chi invece, come il brand sostenibile Nitto, ha pensato bene di far leva sulla sensibilità del cliente e sul fai da te. Il marchio di maglieria fatta a mano, nato per avere il minor impatto possibile e la massima durabilità nel tempo, fornisce a ogni acquirente un set self care che assicura alla maglia una vita più lunga. «ll cliente che decide di sostenere il brand, attraverso l’utilizzo del kit, ne sostiene anche la durata - fanno notare i fondatori Giorgia Colleoni e Stefano Bucci -. Offrire uno strumento come questo non ha solo una valenza pratica, ma serve soprattutto a spiegare il valore che diamo alle maglie che realizziamo. Pensiamo che spiegare al cliente finale il motivo per cui vale davvero la pena riparare un capo sia un passaggio obbligato per indurlo a un acquisto consapevole». 

ULTURALE: UNA STORIA TUTTA ITALIANA CHE INVESTE SUL DOMANI

---------Trasformare la cravatta in un accessorio con una forte identità e unicità: Vincenzo Ulturale è riuscito nell’impresa, partendo dal laboratorio sartoriale della sua famiglia a Napoli. Apprezzato nel mondo del gifting di alto livello ma non solo, il marchio Ulturale è pronto a fare di più, ampliando e diversificando l’offerta, sondando nuovi mercati e nuovi consumatori e sviluppando l’e-commerce, supportato dal pool di soci che lo affianca dal 2014.

Quella di Ulturale è una storia di passione e creatività tipicamente italiane, capace di risollevarsi più forte di prima dal periodo della pandemia grazie all’ingegno del fondatore, Vincenzo Ulturale, e alla lungimiranza dei soci che nel 2014 hanno deciso di affiancarlo, affascinati dalla storia del marchio e dalle sue potenzialità, molte delle quali tuttora da valorizzare. Tutto ha inizio nel 1948 a Napoli dal laboratorio dei genitori di Vincenzo, che come lui stesso racconta lo hanno cresciuto a pane e sartoria. «Già da piccolo mi sentivo a mio agio tra macchine da cucire e tavoli da taglio - racconta -. Era un po’ la mia stanza dei giochi, che già dai 15 anni in poi è diventata qualcosa di più». Nasce da qui il suo amore per le cravatte, che la piccola azienda famigliare inizialmente produceva conto terzi per i migliori negozi napoletani e campani ma che con il tempo, grazie alle intuizioni di Vincenzo, si sono trasformate in un business unico nel suo genere partito ufficialmente nel 1985, quando è stata fondata la società Ulturale. Un marchio che ha seguito e sta seguendo una strada propria, senza fretta ma con la consapevolezza di voler distinguersi dagli altri, grazie non solo ai contenuti di qualità e manualità insiti in un prodotto 100% made in Italy, tessuti compresi, ma anche alle intuizioni azzeccate di Vincenzo: dalla cravatta sette pieghe Tiè, che nasconde un minuscolo cornetto rosso, alla 00TIè con un taschino interno, fino al recente modello Vattinn’ con una mascherina incorporata, senza dimenticare Femmena, ultima creazione con cui Ulturale cavalca il genderless, adeguandosi ai tempi moderni che non vedono più distinti uomo e donna. Modelli in grado di rendere divertente e personalizzato un accessorio comunque ideale per le occasioni formali: un’alchimia che ha reso Ulturale leader nel settore gifting, dalle grandi aziende fino al Quirinale e alla

Presidenza del Consiglio. Uno degli elementi di forza del brand è la famiglia: «Le mie figlie mi affiancano nell’attività - racconta il fondatore -, portando una ventata di nuove idee a livello di grafica, modellistica e disegnature su misura». L’altro cardine sono i soci di Torrent, che detengono la maggioranza del marchio e ci credono profondamente. «L’incontro con Vincenzo - spiega il CEO di Ulturale, Tancredi Pasero - è avvenuto proprio in seguito alla curiosità che le sue cravatte, ricevute in regalo per una ricorrenza, hanno acceso. E quando una cosa riesce a emozionarti, vale la pena di approfondirla: basta assistere a un trunk show di Vincenzo, dedicato alla realizzazione delle sue cravatte, per restarne affascinati». «Abbiamo messo la nostra esperienza di imprenditori, attivi sia nelle risorse umane che nella gestione aziendale, per sviluppare il brand - prosegue Pasero - che prima del Covid era già avviato verso la quotazione all’Aim di Borsa Italiana. Superate le rapide della pandemia, siamo ripartiti con forza, basandoci su cinque linee di business: il corporate, che costituisce la parte prevalente del fatturato; il retail, che al momento si articola nei tre monomarca di Roma (in via Bocca di Leone 89), Napoli (in via Poerio 115) e Milano (inizialmente in via Bigli e ora, con una boutique più ampia, in via Borgospesso 23); il wholesale, che ha raggiunto quota 100 punti vendita; il già citato gifting; e, non ultimo, l’e-commerce, che da quattro anni a questa parte ci sta dando grandi soddisfazioni, anche grazie a uno storytelling mirato e incisivo, in grado di conquistare anche fasce più giovani di consumatori». Il mondo Ulturale è in espansione su tutti i fronti a partire dal prodotto, «che non si limita più alle cravatte - interviene Vincenzo Ulturale - ma abbraccia i copricapi invernali in cashmere, i guanti uomo e donna con finiture di primo livello, le calzature “furlane” con i nostri disegni esclusivi, alcune proposte di maglieria e persino le cover dei cellulari». Alla voce distribuzione, l’Italia mantiene un ruolo centrale ma si stanno aprendo possibilità anche in Francia, con un focus sulla Costa Azzurra, Germania e Regno Unito, mentre il legame con Giappone e Corea è già saldo. «Stiamo pianificando uno sviluppo wholesale rivolto a una clientela sensibile alla qualità e altospendente - anticipa Pasero - e non dimentichiamo l’obiettivo che ci eravamo posti in epoca pre-Covid, ossia lo sbarco sull’Aim. Un altro traguardo che ci poniamo è il ritorno a Pitti Uomo nel giugno prossimo anche per spingere l’estivo che, storicamente, per Ulturale è meno forte dell’invernale». Non si tratta di semplici sogni nel cassetto. Grazie alla sinergia tra l’esperienza e l’intraprendenza della famiglia fondatrice e la solidità dei soci, il 2022 si è chiuso all’insegna della crescita, recuperando quasi completamente i numeri prepandemia e gettando le basi per un futuro in cui sarà ancora più strategico qualcosa che Vincenzo Ulturale ha dimostrato di saper fare molto bene: sapersi reinventare, tenendo la qualità e un dna forte come punti fermi.

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