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MISSIONE ELEVATION PER PAUL & SHARK: «SIAMO SOLO A METÀ DEL FIUME MA NELLA DIREZIONE GIUSTA»

Andrea Dini, ceo della Dama, proprietaria del brand Paul & Shark, e terza generazione della famiglia. Capostipite fu Gian Ludovico Dini: il 4 marzo 1957 il Maglificio Dacò, fondato nel 1921, riprese le attività grazie al suo intervento. Nei primi anni Settanta Paolo Dini, il figlio maggiore di Gian Ludovico, durante un suo viaggio nel Maine si trovò per caso nel cortile di un velificio e il suo sguardo cadde su una vecchia vela da lavoro, che riportava la scritta "Paul & Shark". Da lì ebbe inizio l'avventura.

Da qualche stagione a questa parte Andrea Dini, terza generazione della famiglia, sta riposizionando il brand, con lo scopo di fargli fare un altro salto di qualità e portarlo in quel territorio «dalle grandi potenzialità» che si colloca tra il premium e il luxury: un upgrading (non sempre indolore) a livello di prodotto, distribuzione e comunicazione. Gli abbiamo chiesto a che punto è, quali i risultati finora raggiunti, gli obiettivi e le sfide. E come immagina la Paul & Shark del futuro

DI ANGELA TOVAZZI

Andrea Dini, pur avendo base a Varese, ama il mare. Ce l’ha nel sangue. Impressa nella sua memoria c’è la figura del nonno Gian Ludovico, toscano di nascita, che in inverno amava sostare sulle spiagge deserte di Viareggio e in silenzio guardare le onde, ascoltare il vento e con ossequioso rispetto spingere lo sguardo fino all’orizzonte. In questo fotogramma, con l’immaginario valoriale che rappresenta, c’è tutta la Paul & Shark, come ci racconta l’imprenditore, ceo dell’azienda dal 2000: «Il mare è più forte di noi, contro il mare non si vince mai». Come diceva Ernest Hemingway in quel capolavoro che si chiama Il vecchio e il mare: «Lo conosco quasi a memoria. Quando non sappiamo che decisioni prendere, rileggiamo qualche pagina». E allora partiamo da qui: da una decisione presa qualche stagione fa di alzare l’asticella, ridefinendo e riposizionando la propria identità verso l’alto, e adeguare tutte le espressioni del marchio (dal prodotto alla distribuzione, fino alla comunicazione) a quello che Paul & Shark stava diventando e voleva diventare. Partendo in primis dal nome.

Collezione Riviera di Paul & Shark per la Fall-Winter 2024/2025

Paul & Shark ha perso la parola Yachting, che lo caratterizzava sin dal 1976. È già una dichiarazione d’intenti?

Ci sono più motivi all’origine di questa scelta. Da un lato la volontà di semplificazione, sulla scia di quello che hanno fatto altri marchi, anche perché il mercato nel frattempo se n'era già dimenticato della parola "Yachting". Dall’altro di ribadire la nostra brand identity di leisurewear legato non tanto all’universo della vela, come ci hanno spesso classificato, ma al mondo del mare e ai suoi valori. Le radici della mia famiglia sono toscane, come ricorda bene il nostro cognome. Paul & Shark è partito dall'amore per il mare e a quell'ispirazione vogliamo restare fedeli.

Il mare è il vostro elemento naturale e rappresenta l’heritage, ma siete nel bel mezzo di un importante cambiamento. In che direzione state andando?

Verso l’alto. Puntiamo a collocarci in quel territorio, a mio avviso ancora poco esplorato, che collega il premium e il luxury. Attenzione: non vogliamo trasformare Paul & Shark in un marchio del lusso nel senso stretto della parola, ci sono già dei big in questa arena. Intendiamo invece portarlo in un ambito ancora poco popolato, puntando su un prodotto che mi permetto di definire favoloso, ma con un prezzo appealing rispetto a quello proposto dalle griffe del lusso, molte delle quali entrate in una spirale di inarrestabile aumento dei listini. Ci sono molti consumatori con disponibilità di spesa che per tante ragioni non hanno più voglia o addirittura si sentono a disagio nello spendere cifre esorbitanti. Ecco, noi ci rivolgiamo a loro. Con la promessa di un prodotto al top di gamma.

Questo upgrading come lo state traducendo a livello di prodotto?

In passato avevamo una strategia piuttosto market-oriented e le collezioni venivano strutturate pensando in primis ai mercati a cui erano destinate. Oggi non è più così: l’offerta è ancorata ai nostri valori fondanti, quelli legati a mio nonno e al mare, e si sviluppa in modo coerente. Tutto ciò che non era in linea, parlo del 30-35% dei capi, è stato sfrondato. I pillar sono sempre gli stessi: giubbotteria, maglieria, camiceria e pantaloni, ma sono cambiate le dimensioni. Le collezioni sono più piccole e mirate. Il logo è meno enfatico e quasi impercettibile. In quanto azienda manufatturiera abbiamo sempre fatto e continuiamo a fare una grande ricerca sul fronte dei tessuti, ma anche in questo caso abbiamo puntato su un'elevation. Cito solo un esempio: la nostra tecnologia Typhoon, una membrana ultra-soft dalle alte performance, che è stata abbinata, oltre a tessuti di nylon, anche a materiali nobili come cashmere, lino e seta.

Dal punto di vista della distribuzione questa operazione di trading up non sarà stata indolore…

Da qualche stagione a questa parte la nostra parola d’ordine è “riqualificazione”, soprattutto del mercato europeo, quello che presidiamo da più tempo, mentre aree come Middle East e Asia, approcciate più di recente, erano già ben impostate. Abbiamo sospeso partnership commerciali con il 35% dei clienti multimarca in Europa: persone perbene, amici e perfetti pagatori, ma che non erano più coerenti con il nuovo corso di Paul & Shark. Con molto dispiacere e rispetto, non via e-mail, ma andandoli a trovare di persona, abbiamo spiegato loro le nostre nuove strategie. Ci siamo capiti e lasciati nel migliore dei modi. Lo stesso vale per le catene distributive: alcune sono state abbandonate perché non avevano più il brand mix che reputavamo in linea con il nostro marchio o non erano disposte a spostarci nelle aree considerate da noi più adatte. Anche in questo caso abbiamo preso strade diverse in maniera pacifica, con la promessa di rincontrarci in futuro, se e quando i tempi saranno maturi.

Quali sono stati i mercati europei maggiormente coinvolti in questa operazione di “bonifica”?

Sicuramente Germania e Inghilterra. In totale abbiamo terminato la collaborazione con un centinaio di multimarca e più della metà erano in Germania. Oggi nel Vecchio Continente, che genera il 50% del nostro giro d’affari, contiamo circa 400 clienti su un totale di circa 1.500 a livello internazionale. Per noi il wholesale riveste un’importanza cruciale. Crediamo sia la palestra migliore per misurare e mettere alla prova le strategie di un’azienda.

Ora a che punto siete di questo percorso di riposizionamento?

Al mio entourage dico che siamo a metà del fiume. In piena corrente. E non tocchiamo. Ma siamo convinti di stare andando nella giusta direzione per traghettare l’Europa dall’altra parte del guado. Naturalmente certe scelte sono state penalizzanti dal punto di vista del fatturato e dunque abbiamo cercato di bilanciare accelerando in altri mercati, come Middle East, Sud-Est asiatico, India, Africa, in modo da assicurare all’azienda la giusta dose di benzina per crescere. Guarda caso abbiamo in cantiere nuove aperture di negozi monomarca, che si aggiungeranno agli attuali 150: a breve apriremo un paio di store in Cina e sbarcheremo a Lisbona, Riyad, Luanda in Angola, Marassi in Egitto, oltre ad ampliare il negozio di New Dehli.

Quindi che prospettive di fatturato avete per il 2024?

Abbiamo chiuso il 2023 con circa 150 milioni di euro di ricavi, in aumento del 6-7% rispetto all’anno precedente. Nei primi quattro mesi di quest’anno l’incremento è stato intorno al 4-5%. Mi sento abbastanza tranquillo nell’affermare che verrà confermato il trend dell’anno scorso, ma preferisco non sbilanciarmi: come sappiamo, le condizioni geo-politiche non sono favorevoli e le turbolenze proseguono. Sono comunque ottimista: Middle East e Nord America stanno andando molto bene, in India abbiamo un business eccellente, seppur non enorme, e continuiamo a credere nell’Africa. Questo continente è un mio “pallino”. È un’area con un miliardo di persone, grandi risorse naturali, una classe media che si sta formando e che ha voglia di spendere. Stiamo espandendo la nostra presenza, oltre che in Sudafrica e nei Paesi affacciati sul Mediterraneo, in Angola, Congo, Costa D'Avorio, Nigeria. Tutte aree promettenti. Quanto all’Europa, credo ci vorranno ancora due-tre anni per completare l’opera di riqualificazione che abbiamo iniziato e poi sono sicuro riprenderemo a crescere anche lì.

Negli ultimi anni Paul & Shark ha lavorato molto sul fronte dell’ecosostenibilità. I vostri tessuti sono per la maggior parte riciclati, vi siete impegnati nella riduzione del consumo di acqua ed elettricità. Ora su cosa vi state concentrando?

Quello legato alla sostenibilità è un percorso infinito. Ci sono tantissime azioni che si possono intraprendere, mattoncino su mattoncino, per migliorarsi sotto questo aspetto. Credo che il nodo più difficile da sciogliere sia ancora quello legato al trasporto, responsabile di una parte significativa della nostra carbon footprint. Non possiamo essere sostenibili senza una logistica più sostenibile. Noi per esempio stiamo utilizzando il treno per il trasporto dei tessuti tecnici, che prendiamo in Giappone e in Corea. Li portiamo a Shanghai e da lì viaggiano sulla Transiberiana. In circa due settimane arrivano ad Amburgo. È sicuramente un mezzo meno inquinante rispetto alle navi porta-container con motori Diesel.

Parliamo del futuro. Quello di Paul & Shark resterà un business di famiglia o siete interessati ad aprire il capitale?

Io non aprirò mai ai fondi. Sono consapevole che il mercato è dominato dai colossi e che con risorse esterne la crescita sarebbe più veloce ma i fondi, per loro natura, dopo un po’ rivendono e per guadagnare devono spingere sui fatturati, contenere i costi, magari tagliare risorse. E poi, me lo dice il mondo del wholesale, i clienti hanno ancora piacere nel lavorare con un’azienda di famiglia, che non impone budget e che se hai un problema ti viene incontro.

Insomma, non fa per voi…

Non fa per me. Io non sono eterno. In azienda sono entrati recentemente i miei figli Alessandro e Francesca. In futuro saranno loro a decidere. Ma quello sarà un altro capitolo della storia. 

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C'è un filo rosso nella "saga" di Paul & Shark: un’eredità di valori e knowhow, ma anche, come dice Andrea Dini, una «promessa» del brand verso il suo pubblico, che va avanti da oltre mezzo secolo. Sottolineare questo "testimone" passato attraverso le quattro generazioni della famiglia è stata l'ispirazione per le campagne delle ultime stagioni, con testimonial come Mark Vanderloo e Mark Vanderloo Jr., oppure Pierce Brosnan e suo figlio Paris. «Un parallelismo con la famiglia Dini – spiega il ceo – che ha coinciso con la volontà di elevare l’immagine del marchio, ma anche di allargare il nostro bacino di consumatori con i più giovani». Alla domanda se tornerà ancora questa formula comunicativa (messa in pausa per la prossima stagione) Dini risponde che sì, crede molto in questo filone di padre-figlio, ma «è fondamentale trovare la coppia giusta». Nel frattempo prosegue invece con un altro capitolo (il terzo) il progetto di customizzazione di location turistiche. Dopo Sestri Levante e Cortina, lo squalo è appena approdato a Formentera, per “vestire” il ristorante Juvia per tutta la stagione estiva 2024. «Si tratta di un veicolo per comunicare con efficacia e velocità il nostro cambiamento», spiega l’a.d., sottolineando che anche questa volta si tratta di un’iniziativa legata a doppio filo con un progetto di sostenibilità, in collaborazione con Vellmarì, associazione locale che si occupa di ricerca e protezione della natura e dell'ecosistema marino: «Noi dobbiamo tutto al mare - conclude Dini - e quindi abbiamo contribuito a ripopolare la zona con 700 esemplari di posidonia, una pianta acquatica tipica dell'isola messa a repentaglio dall'ancoraggio delle barche».

Alcune immagini del nuovo flagship store londinese, aperto da Paul & Shark lo scorso settembre in Regent street: uno spazio di 240 metri su due piani, con l'oltre 80% dei materiali utilizzati riciclati. Il marchio distribuisce le proprie collezioni per il 90% all'estero in una ottantina di Paesi attraverso 150 monobrand, di cui 15 a gestione diretta, circa 1.500 multimarca e mediante l'ecommerce, che genera il 7,5% del fatturato
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