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ANTONIO DE MATTEIS E IL MOMENTO D’ORO DI KITON: «I NUMERI SONO IMPORTANTI, MA PER NOI VIENE PRIMA LA QUALITÀ»
L'azienda di Arzano cresce a doppia cifra, nonostante il rallentamento del lusso, e ora punta ad alzare l'asticella, muovendosi tra due poli: la fedeltà alla sua tradizione napoletana di alta sartoria e la spinta all'innovazione, grazie a un modello produttivo verticalizzato. Il ceo racconta i nuovi investimenti, i progetti in cantiere e la visione della Kiton del futuro, nel solco degli insegnamenti di Ciro Paone
DI ANGELA TOVAZZI
Quando entriamo nell'elegante Palazzo Kiton in via Pontaccio a Milano, Antonio De Matteis, per tutti Totò, ci accoglie con la consueta cordialità di stampo napoletano, vestito con un impeccabile completo (ovviamente) Kiton, ma leggermente zoppicante a causa di una scarpa ortopedica: «Un banale incidente, mi sono fatto male praticamente da fermo», racconta. Un inconveniente nel bel mezzo della campagna vendita, con l’andirivieni dei clienti internazionali: «I buyer vengono tutti qui, ne abbiamo in visita dai 10 ai 20 al giorno», dice l'imprenditore, ceo dell’azienda dal 2007 e, quando libero da impedimenti fisici, globetrotter per vocazione. Gli piace ricordare il fatto che nel maggio 2020, dopo il primo lockdown, fece 60mila chilometri in lungo e in largo per l’Italia, visitando di persona oltre 150 negozi, circa il 70% dei quali non ancora clienti. «Mio zio Ciro Paone diceva “Non ho mai visto una valigia viaggiare da sola, ci vuole sempre chi la porta”», giusto per rendere l’idea di quanto siano importanti le relazioni dirette per Kiton che, portando avanti l’imprinting del suo carismatico fondatore, sin dal 1968 ha costruito la propria fortuna su valori immateriali come la coesione familiare, la cura del capitale umano, il savoir-faire in tutte le sue accezioni. Sul sito della casa di moda la mission aziendale è messa nero su bianco: «Essere il brand preferito dai sofisticati intenditori di ogni generazione». Ad Arzano, alle porte di Napoli, i sarti confezionano ancora tutti i capi rigorosamente a mano, assemblando pezzo dopo pezzo, cucitura dopo cucitura. Qui l’eleganza è espressione di cultura, la perfezione maniacale della manifattura il termometro dell'eccellenza. Indossare un capo Kiton deve essere in primis un’experience, per usare il gergo di oggi. «Negli ultimi tre anni l’azienda è raddoppiata, nonostante le incertezze geopolitiche e la perdita di un mercato fondamentale per noi come la Russia - racconta De Matteis -. Nel 2023 abbiamo superato i 205 milioni di euro, con un incremento del 26%, e nel primo trimestre di quest’anno abbiamo conquistato un +16%. Tanto da poter ipotizzare un +10% per l’intero 2024». Un momento d’oro per l’azienda partenopea, anche se a gareggiare nella stessa arena del menswear haut-de-gamme ci sono nomi del calibro di Ermenegildo Zegna (1,3 miliardi il fatturato 2023 del segmento Zegna) e Brunello Cucinelli (1,1 miliardi), oltre alle griffe più blasonate, con i capitali e le spalle coperte dai colossi del lusso. «Noi rispetto a questi siamo un marchio di nicchia, anzi di supernicchia - risponde De Matteis -. Naturalmente vogliamo continuare a crescere, però non solo nei numeri. I numeri sono importanti, ma in primis ci interessa migliorare in qualità, innovazione e relazioni, pilastri della nostra storia imprenditoriale». La ricetta della crescita ha tanti ingredienti, come spiega l’imprenditore, che parla a più riprese di «sperimentazione, formazione, qualità senza compromessi». Belle parole che dalla Kiton hanno trovato la loro concretezza grazie alla progressiva costruzione di un modello produttivo verticalizzato: «Negli ultimi tempi si è parlato molto di crisi della supply chain. Noi la supply chain ce la siamo creata in casa. Le aziende che lavorano per noi sono tutte di nostra proprietà e questo ci garantisce l’altissimo standard qualitativo dei manufatti, la possibilità di sperimentare, che è sempre più importante, e di consegnare bene ai nostri clienti». Anche i tessuti provengono per la maggior parte dal Lanificio Carlo Barbera, acquisito nel 2008, dove si studiano tipologie e disegnature esclusive: «Siamo l’unico marchio della moda che ha costruito una filiera con un processo inverso rispetto ad altri player, partendo dal prodotto finito per arrivare alla materia prima».
Un network manifatturiero che a breve si amplierà con una nuova struttura nel Nord Italia, dedicata esclusivamente alla produzione di borse. Top secret ancora il nome: «Abbiamo già stipulato un accordo per l’acquisizione, che dovrebbe concludersi entro i prossimi due anni. Un’operazione che, anche in questo caso, ci permetterà di sperimentare e metterci alla prova su nuovi modelli e soluzioni». Attualmente il business degli accessori (che include, oltre alle borse, le scarpe e la piccola pelletteria) vale l’8-9% del fatturato, ma sta crescendo. Come del resto sta accelerando a grandi passi anche il segmento donna, «un altro piccolo miracolo», secondo De Matteis. «Grazie al lavoro fatto da mia cugina Maria Giovanna Paone, presidente e direttrice creativa del womenswear, negli ultimi cinque anni la collezione femminile ha continuato a conquistare posizioni, fino a generare il 20% del fatturato e ora l’obiettivo per il prossimo quinquennio è di farla arrivare fino al 50%». Una sorta di “par condicio” espressa anche con i negozi, visto che tutte le ultime aperture hanno previsto un piano dedicato all’uomo e uno per la donna: «Idea vincente, perché ci siamo accorti che spesso le consumatrici, quando entrano nelle nostre boutique, comprano per se stesse e contemporaneamente per i loro mariti e fidanzati». La scommessa dei prossimi anni coinvolgerà naturalmente anche il menswear, core business di Kiton, in quanto la sfida più difficile, per chi fa capi maschili di matrice sartoriale, è proprio risultare innovativi. «Per essere all’avanguardia - tiene a sottolineare l’imprenditore - abbiamo trasformato le nostre aziende. Oggi a essere diversi sono i tessuti, le modellistiche, le lavorazioni, i dettagli. Tra le camicie che si vendevano dieci anni fa e quelle che si vendono oggi c’è un abisso. Lo dico sempre: se un’impresa si ferma e non investe in innovazione, ha gli anni contati».
Camminando in mezzo ai circa 1.200 pezzi della nuova collezione in bella vista nella showroom milanese, De Matteis mostra i nuovi completi in colorazioni inedite come l’arancio salmone, i giubbini in nylon giapponese foderati di cashmere, i raffinati pull in seta e cashmere prodotti dal loro lanificio e, tra le novità di stagione, i jeans strappati che invece strappati non sono: «Lo strappo è solo stampato, una specie di illusione ottica. Questa si chiama ricerca. Ecco perché vogliamo disporre di aziende di nostra proprietà per la produzione». La Kiton non è certo conosciuta per il jeanswear, ma i consumatori apprezzano: «Mentre i buyer tendono a essere conservatori, preoccupati prima del budget, i clienti finali sono più ricettivi e aperti alle novità». Del resto si tratta di un cluster di consumatori - i cosiddetti true-luxury - che non si fanno certo spaventare dal prezzo: dai 7mila euro in su per un abito, dai 3-4mila euro per un giubbino, dagli 800 ai 1.000 euro per un paio di pantaloni, fra i 700 e gli 800 euro per una camicia. Fino ad arrivare ai 50mila euro per il capo più caro, il cappotto nella pregiatissima vicuña, di solito disegnato su misura per il singolo acquirente. «Sul fronte dei listini siamo al top della piramide, tra le aziende più costose ma, glielo assicuro - ribadisce l'a.d. - abbiamo la qualità più bella del mercato. E quando parlo di qualità non parlo di stile. Lo stile è soggettivo, la qualità no». Il termine “qualità” ha un significato molto ampio nella testa di De Matteis e include valori intangibili come “relazioni”, “cortesia”, “servizio”: «Oggi si parla tanto di servizio, ma noi è da 30 anni che portiamo avanti questa filosofia, ce l’abbiamo nel dna. Andiamo a casa dal cliente, gli mandiamo il sarto, lo coccoliamo quando viene a trovarci a Napoli, portandolo in barca o nei veri ristoranti tipici, perché, come diceva mio zio, “Tutto parte dallo stomaco”». Un trattamento di riguardo, riservato non solo ai facoltosi avventori dei negozi Kiton ma anche ai dipendenti, che «abbiamo pagato sempre di più dei nostri concorrenti», dice senza girarci intorno. Come informa De Matteis, se la paga media nel mondo delle aziende manufatturiere è tra i 23mila e i 27mila euro l’anno, ad Arzano oscilla tra i 43mila e i 45mila. «Se si moltiplica questa differenza per 850, il numero dei nostri addetti, come risultato si hanno circa 10-15 milioni di ebitda che la nostra azienda distribuisce a tutti i suoi collaboratori. Non faremo il 30% di ebitda, questo è sicuro, ma quando andiamo a dormire, dormiamo sonni tranquilli, perché chi lavora da noi sta bene». Un altro baluardo di sostenibilità sociale e welfare ante litteram, introdotto a suo tempo già da Ciro Paone, fermamente convinto che i dipendenti dovessero avere la «capa fresca», come si dice in napoletano, ossia la testa libera da preoccupazioni, soprattutto economiche. È per questo che, negli anni Duemila, quando il fondatore della Kiton ebbe l’intuizione di creare una scuola di alta sartoria interna per formare i nuovi artigiani, capì subito che non solo doveva essere gratuita, ma anzi che gli allievi dovevano essere incoraggiati con un salario minimo: «È stato il più importante investimento che potessimo fare. 25 anni fa fu faticoso radunare dieci ragazzi per far partire il progetto, ma per l’ultimo corso siamo stati sommersi da oltre 150 domande per 25 posti». Il passaparola ha fatto molto, aggiunge De Matteis, che ricorda come dei 200 allievi formati fino a oggi, tutti abbiano trovato una collocazione: 160 da Kiton, 37 in realtà napoletane e tre in una sartoria creata in proprio. «Ma non siamo gelosi, anzi». Ciò che importa è mettere in sicurezza il know-how di oltre mezzo secolo di storia, mantenendo le posizioni acquisite. Anche sul fronte della governance.
Oggi in azienda, accanto ai cinque soci - oltre a Totò De Matteis e Maria Giovanna Paone, Raffaella Paone (responsabile risorse umane), Antonio Paone (presidente Kiton Corp.) e Silverio Paone (responsabile delle produzioni) - sono già sei gli eredi scesi in campo a rappresentanza della terza generazione: i gemelli Walter e Mariano De Matteis, designer della collezione KNT, i fratelli Martina (women's sales) e Ulderico Klain (Accessories Brand manager and Sales) e le sorelle Margherita (Communications department) e Adelaide Alfano (Retail department): «Hanno voglia di fare e sono convinto che trasformeranno l’azienda, come a suo tempo abbiamo fatto noi». Tra le sfide ci saranno quella di prolungare il momento d'oro di Kiton, anche quando (e se) tramonterà la stella del quiet luxury, e di valorizzare la narrazione del brand, partendo in primis dalla sua napoletanità. Alla domanda se in futuro possa essere contemplata la quotazione, De Matteis dribbla con un «Ci pensiamo sì, ma non è una cosa da fare domani mattina». «Ai nostri figli - conclude - vogliamo lasciare una società strutturata e c’è da tenere presente che il più grande ha 32 anni e il più piccolo 12, c’è un grande divario d’età. Chissà se tutti vorranno lavorare in azienda. La Borsa potrebbe essere un modo per essere più liberi e garantire libertà a tutti».