tesi La colonizzazione griffata: Branding vs. Civismo

Page 1

UNIVERSITA’ DEGLI STUDI DI URBINO “CARLO BO” DIPARTIMENTO DI LETTERE E FILOSOFIA ____________________________________________________________________________ Corso di laurea in Design e discipline della Moda

LA COLONIZZAZIONE GRIFFATA: Branding vs. Civismo

Relatore: Prof. Fabio Forlani

Candidato: Fausta Padula

________________________________________________________________________________________________

Anno Accademico 2012 / 2013


LA COLONIZZAZIONE GRIFFATA- BRANDING VS. ETICA INDICE -Introduzione - PRIMA PARTE: I 10 PECCATI CAPITALI DEL MARKETING TRADIZIONALE Capitolo 1 – NO PRODUCT 1.1 Orientamento al brand. Origine ed evoluzione del concetto di marchio 1.2 Il marketing esperienziale 1.2.1 Il caso pratico. Abercrombie & Fitch 1.3 L'ossessione per il logo 1.3.1 Il caso ptatico: GAP 1.3.2 Il caso pratico: I Paninari Capitolo 2 - NO PRODUCTION 2.1 L'outsourching 2.2 Le zone franche 2.2.1 Il caso pratico: La zona franca di Cavite Capitolo 3 – NO JOB 3.1 Il caso pratico: I lager del marchio 3.2 Il nomadismo delle imprese Capitolo 4 – NO SPACE 4.1 Il caso pratico: la sponsorizzazione delle rotatorie stradali Capitolo 5 – NO EDUCATION 5.1 Il caso pratico: Nike e Reebok 5.2 Il caso pratico: Il branding della ricerca Capitolo 6 – NO HISTORY 6.1 Il caso pratico: Il restauro del Ponte di Rialto targato Diesel Capitolo 7 – NO MEDIA 7.1 L'indipendenza illusoria dei media 7.1.1 Il caso pratico: Nike e la giornalista Baskin 7.2 Il Web, da strumento di potere dal basso alla trasformazione in “Quarto potere” aziendale 7.2.1 Il caso pratico: The Blonde Salad 7.2.2 Il caso pratico: Il potere del visual content al servizio dei marchi di moda Capitolo 8 – NO HERO 8.1 L'Hip Hop: da l Bling Bling alla creazione di artisti-marchio Capitolo 9 – NO ENVIRONMENT 9.1 Il caso pratico: Adidas e la pelle di canguro Capitolo 10 – NO MADE IN ITALY 10.1 Il caso pratico: Benetton ed Omsa - Conclusioni

• SECONDA PARTE: PROPOSTA DI AZIENDA DI MODA ETICA- “SABOTAGE” 1. 2. 3. 4. 5.

Naming Logo Target Concept Marketing Mix



INTRODUZIONe

Il presente elaborato è frutto di una ricerca interdisciplinare tra settori quali il marketing, la comunicazione d'azienda, la moda e l'etica: apparentemente distanti, in realtà intersecati tra loro nel momento in cui si analizzano le dinamiche alla base dei processi di branding nell'ambito del tessile e abbigliamento, e delle relative conseguenze a livello mondiale della contemporanea gestione aziendale. Per comprendere meglio l'argomento, è necessaria una premessa sulla natura dei bisogni a cui risponde la moda, ed al comportamento del cliente. I prodotti moda non soddisfano dei bisogni personali quanto piuttosto dei bisogni sociali: non si acquista un vestito, un paio di scarpe o un profumo perché si deve soddisfare una necessità primaria; lo si fa invece perché quell'abito, quelle scarpe e quel profumo appartengono al piacere di vita, all’aspirazione di realizzare un proprio desiderio inespresso.1 Si tratta quindi di ofrire un prodotto che sia al tempo stesso esteticamente bello e funzionalmente efficiente. Il giudizio sull’utilità e la bellezza di un prodotto diventa quanto mai relativo: esso acquista una sua funzionalità nella considerazione dell’individuo e non tanto sulla base di una valutazione oggettiva. L’accezione sociale della scelta dei prodotti moda è invece relativa al fatto che l’individuo tende a scegliere ciò che manifesta la propria identità. I capi d’abbigliamento sono degli strumenti di relazione, che consentono di trasformare in qualcosa di fisico la propria personalità e quindi di poterla comunicare agli altri.

2

Nel campo della moda la creazione di valore e di identità che gira attorno ad un marchio è di particolare rilievo, dal momento che nella società post-moderna in cui viviamo, la scelta/acquisto di un articolo di moda, oltre alla funzionalità, qualità ed al gusto (oserei dire spesso al posto di) rappresenta un'insieme di valori,di immagini, di identità e soprattutto emozioni. Ed è da questo assioma di base che aumenta l'importanza della creazione di brand identity e la necessità dell'advertising e della promozione. Le dinamiche comunicative dei luxury brand riescono ad assegnare ad un bene non necessario quel quid, che lo rende desiderabile e portatore di ideali normalmente non intrinsechi in un semplice oggetto; è vero che un bene di lusso e la 1

2

SIMMEL G. , Die Mode, 1911; tr. it. A cura di L. Perrucchi, Mondadori, Milano, 1998 CIETTA E., RICCHETTI M. (a cura di), Il valore della moda, BrunoMondadori, Milano, 2006, pp 288


sua particolare comunicazione tendono a trasformare un prodotto in un simulacro di emozioni, così potente da dettare un vero e proprio “modus vivendi” grazie alla scelta oculata di testimonial, slogan e particolari canali di comunicazione? La risposta a questo quesito costituisce il primo obiettivo dello scritto, raggiungibile attraverso lo studio del Brand management e della pubblicità-promozione da un punto di vista non elogiativo, come sarebbe proprio di un addetto al settore moda che raggiunge il successo grazie ad esso,ma con uno sguardo costruttivamente critico su ciò che sta distruggendo le realtà tessili che non appartengono a multinazionali (ad esempio il colosso LVMH), tipiche dell'assetto italiano ed in particolare portatori del tanto osannato Made in Italy, ormai prerogativa di pochissime aziende (o forse sarti e artigiani addirittura). Il Made in Italy può essere considerato un reale esempio del processo di accreditamento di valori all'oggetto, e, allo stesso tempo, diviene simbolo di tutto ciò che c'è di menzoniero dietro le quinte degli spot e delle pagine patinate dei giornali. Una garanzia di qualità legata al brand che, invece, nella maggior parte dei casi in Italia non ha altro che la sede principale ma nessun tipo di produzione. Questi processi non più orientati sul prodotto e sulla sua qualità, ma al contrario sul contesto esterno e sulla rappresentazione di un'identità o stile di vita, bloccano anche l'ingresso nel mondo della moda di noi giovani designer che già negli anni dell'università appendiamo al chiodo il nostro sogno di creare una nostra linea, un nostro marchio. Con tutta l'amarezza di chi vede un sogno di una vita infrangersi davanti agli occhi, si realizza che per far carriera o diventare un personaggio infuente del fashion system non si può che lavorare per un brand consolidato, interiorizzare la sua immagine e la sua identità e donare il proprio spirito creativo ad una fredda ed impersonale multinazionale che costruirà un sogno intorno a quell'abito. La grande marca può fare leva sull' inconscia deduzione che per diventare grandi occorre avere qualità, ma può anche puntare sulla strategia spesso vincente che associa ad un intrinseco concetto di qualità anche una spiccata capacità di essere “IN” cioè di fare tendenza, capacità non legata ad un concetto di grande ditta ma di grande brand, in grado di interpretare la moda “giusta”, e questa capacità può essere detenuta indipendentemente dalle dimensioni dell'azienda. Il consumatore viene assolto in tal modo dalla faticosa scelta dell'oggetto da indossare, e delega la tranquillità di avere scelto bene al brand che funge da garanzia e dispone della fiducia del cliente. Questa necessità di creazione di valore intrinseca nel bisogno sociale, si rifette soprattutto in ambito comunicativo, causando uno stravolgimento delle priorità aziendali: il prodotto


e la qualità sono spodestati dal trono aziendale, per cedere il posto al marketing.

3

La prima parte di questa tesi approfondisce proprio il fenomeno contemporaneo della “colonizzazione grifata” degli spazi (fisici e mentali), presentando le tecniche di promozione e le conseguenze causate: lo stravolgimento di alcune sfere vitali della società come i media, il lavoro, le strutture produttive, l'arte, la storia, i personaggi pubblici, l'ambiente e gli esseri viventi, fino a quella devastazione della società e della natura che è ormai visibile a tutti.

La pubblicità, arma del marketing, è l’arte di

vendere qualsiasi cosa a chiunque e con qualsiasi mezzo. Per la precisione, è il marketing nella sua dimensione comunicazionale. La critica alla pubblicità si estende quindi alla critica contro il marketing e contro la comunicazione: questi tre fagelli compongono insieme il sistema pubblicitario. Ma questo sistema è stato generato dal capitalismo industriale, che finanzia i media di massa di cui orienta il contenuto. Il problema perciò non si riduce all’abbrutimento pubblicitario, include anche la disinformazione mediatica e la devastazione industriale. Non bisogna illudersi: la pubblicità è solo la punta dell’iceberg del sistema pubblicitario, ovvero di quell’oceano glaciale nel quale si sviluppa ed espande la società consumista con la sua crescita devastante. E se siamo contro tale sistema e tale società, è perché il nostro stile di vita sta uccidendo il mondo. L’efetto principale della pubblicità è la propagazione del consumismo. Basato sull’iperconsumo, questo stile di vita riposa sul produttivismo, e dunque implica lo sfruttamento crescente delle persone e delle risorse naturali. Tutto ciò che consumiamo comporta meno risorse e più scarti, più nocività e più lavoro depauperante. Il consumismo selvaggio porta così alla devastazione del mondo, alla sua trasformazione in deserto materiale e spirituale: un ambiente dove sarà sempre più difficile vivere e sopravvivere in modo umano. In questo deserto prospera la miseria fisica e psichica, sociale e morale. Gli immaginari tendono ad atrofizzarsi, le relazioni sono

disumanizzate,

la

solidarietà

si

decompone,

le

competenze

personali

diminuiscono, l’autonomia sparisce, i corpi e le menti vengono standardizzati. La miseria umana della pubblicità 4 è, dunque, sia questa vita impoverita che esalta una pubblicità onnipresente, sia la miseria degli ambienti pubblicitari stessi, che illustrano in modo caricaturale l’impoverimento morale di cui sofre la società mercantile. Dobbiamo iniziare a renderci conto che la crescita, divenuta fine a se stessa, invece di corrispondere ai nostri bisogni è prima di tutto crescita di nocività e di diseguaglianza.La pubblicità è indissolubilmente legata alla devastazione del mondo, di 3 4

VALDANI E., Marketing management. Progettare e creare valore per il cliente, Egea, 2011 Gruppo MARCUSE, Miseria umana della pubblicità. Il nostro stile di vita sta uccidendo il mondo, 2006


cui è uno dei motori. Essa vi contribuisce doppiamente: spingendo l’iperconsumo di merce industriale, favorisce lo sviluppo di un’economia devastatrice; e dissimulandone le conseguenze, frena una presa di coscienza ogni giorno più urgente se si vuole evitare il peggio. Essa deve dunque essere oggetto di una critica radicale, cioè di un’analisi che risalga fino alle sue radici. La storia insegna che ciò che può spezzare vecchie catene spesso forgia nuove schiavitù. L’industria avrebbe potuto risparmiarci i lavori più penosi, ma di fatto ci ha asservito a un lavoro senza tregua. La pubblicità ha giocato un ruolo di catalizzatore in questo ribaltamento: inoculandoci l’incessante voglia di consumare, ci ha trasformati in servi di quella macchina che si supponeva fosse al nostro servizio. Al tempo stesso, tuttavia, essa non ha fatto altro che rivelare, aggravandoli, i pericoli inerenti a questo modo di produzione. Per fortuna ancora oggi i pubblicitari non hanno piena conoscenza delle conseguenze delle azioni promozionali, e rimane ancora vera l’afermazione di un pioniere dei supermercati: “Metà del mio budget di pubblicità è sprecata. Il problema è che non so di quale metà si tratti” (John Wanamaker)5. E in un mondo competitivo e in crisi come questo, probabilmente la pubblicità sprecata è molta di più e mette a rischio la sopravvivenza di molte aziende. Fino a questo punto, ci si è occupati di individuare gli errori commessi dal marketing durante la colonizzazione, ma una critica può essere utile e costruttiva solo se le opinioni negative divengono spunto per la ricerca di una soluzione alternativa, con conseguente formulazione della stessa. Per questa ragione, nella seconda parte del testo, le multinazionali ed i loro scandali, lasciano il posto alle soluzioni, alle alternative alla gestione egoista e sfruttatrice delle grandi imprese. Dopo le analisi della prima parte, ci si rende conto che il punto comune rispetto a cui le aziende hanno sbagliato, anche se in contesti diametralmente opposti, è sempre relativo al campo dell'etica: non è etico lo sfruttamento dei lavoratori, della natura, degli animali; non è etica l'appropriazione di spazi pubblici quali la scuola, l'università, lo sport, i monumenti, le opere d'arte; non è etica la mancanza di spazio non pubblicizzato, non è etica la menzogna della pubblicità, non è etico il non potersi sottrarre ad essa: il libero arbitrio è sottomesso alle necessità aziendali. Conseguentemente, ciò che può cambiare il sistema odierno sembra essere un cambiamento fondato sull'etica. Per ribaltare il sistema contemporaneo è necessario comprendere i nuovi fenomeni del consumo critico, della moda e della produzione eco-sostenibile e rispettosa dei diritti umani, le nuove tecniche di marketing meno dispendiose del product placement 5

KLEIN N. , No logo, Baldini & Castoldi, 2001


multimiliardario e delle sponsorizzazioni (ad esempio il guerrilla marketing). La soluzione è di sostituire la tranquillità data dal marchio come garanzia di qualità e coolness, con la certezza di una politica aziendale “pulita”, con una coscienza libera dal peso di lavoratori sfruttati, inquinamento, deforestazione, invasione pubblicitaria e tutte le conseguenze dell'era dell'iper-consumismo. Una rivolta del cliente ritenuto ingannabile da chi pratica il marketing di vecchio stampo, una liberazione da chi mente e ci nasconde le fasi produttive, una ribellione alle spese multimiliardarie di una pubblicità invadente e ripetitiva che ci costringe a sorbirla contro la nostra volontà, una soluzione concreta ai problemi ambientali e sociali. Il cardine di questo scritto è una semplice considerazione: quante più persone verranno a conoscenza dei segreti della rete globale dei marchi e dei logo, tanto più la loro indignazione alimenterà il grande movimento politico che si sta formando, cioè una vasta ondata di contestazioni che prenderà di mira proprio le società transnazionali, in particolare quelle con i marchi più conosciuti. 6 Devo sottolineare che il logo, per forza dell'onnipresenza, è divenuto ciò che più si avvicina ad un linguaggio internazionale, più riconosciuto e compreso in molti paesi della stessa lingua inglese. Gli attivisti antiaziendali sono ora liberi di muoversi come ragni/spie su questa ragnatela di marchi: trafficando informazioni su condizioni di lavoro, inquinamento chimico, crudeltà verso gli animali e commercio non etico in tutto il mondo. Ed è nell'ultima parte della tesi, che le proposte precedenti prendono forma, attraverso un tentativo di costituzione di una azienda etica. Prendendo spunto dai casi pratici presentati come sbagli nei primi capitoli, tenterò di impostare una diversa visione dell'azienda e dello stesso concetto di moda. L'etica del sistema moda da me proposto, di conseguenza, non deve essere relativo solo ai materiali utilizzati ed alle tecniche di produzione, ma deve anche liberarci dalle bugie e dal fardello della pubblicità ingannevole e invadente. Per fare ciò, analizzerò i vari aspetti gestionali proponendo alternative eticamente valide a quelle preesistenti. Con l'augurio che il mio punto di vista possa in futuro essere uno spunto per coloro che intraprendono la strada della moda, sperando di non farsi risucchiare dalla morsa della pubblicità e dal marketing di vecchia data, affinché si mettano in discussione, facciano tabula rasa e rinnovino non solo le forme dell'abbigliamento ma anche gli aspetti contingenti, come ad esempio l'advertising, scegliendo in base alle proprie esigenze e non schiavi di un branding selvaggio promotore di stili di vita 6

KLEIN N. , No logo, Baldini & Castoldi, 2001


preconfezionati. Non sarà la mia azienda forse utopica e irrealizzabile a stravolgere l'ordine mondiale, ma sono convinta che l'educazione e l'informazione del consumatore sia il mezzo più potente ed efficace per un cambiamento reale. Arrivati al traguardo della consapevolezza di ciò che indossiamo, sarà il cliente a decidere tra una capo etico ed un abito grifato, avendogli già fornito gli strumenti e le informazioni di cui ha bisogno per efettuare la scelta, non ci comporteremo come la pubblicità invasiva intaccando il libero arbitrio. Sono realista nell'afermare che le ultime scie eredi dei “paninari” pro-logo e appassionati fans dei fashion blogger non si estingueranno con una modesta e semplice opera di informazione, ma spero che conoscere i segreti dei marchi possa creare una clientela consapevole, il primo passo per una rivoluzione dei comportamenti di consumo.


PRIMA PARTE: I PECCATI CAPITALI DEL MARKETING TRADIZIONALE

Ogni volta che Lora Jo Foo, presidente di Sweatshop Watch 7 , tiene un seminario sulle fabbriche sfruttatrici, tira fuori un paio di forbici e chiede ai partecipanti di tagliare le etichette dei propri abiti. Poi le cuce su un grande telo bianco dove è riprodotta la mappa del mondo e ogni volta la maggior parte dei rettangolini (Banana Republic, Gap, Benetton, Ralph Lauren, Calvin Klein, Nike, per fare qualche esempio) si concentra in Asia e America Latina. Così vanno le cose nell' era della globalizzazione. L' emisfero dei poveri produce i beni dei ricchi e alle grandi multinazionali del Nord non resta che il lato «fi losofi co» del business: identifi care il proprio marchio con uno stile di vita il più possibile desiderabile. Nella nuova economia il prodotto non è che uno strumento di marketing: quello che si vende è il marchio (branding). Chi compra un paio di Nike si porta a casa una dose di cooliness (sensazione di essere «giusti»), con un vestito Calvin Klein un' allure di eleganza discreta. Non ci è voluto molto perché si spegnesse l'eccitazione ispirata da questa lettura eccessivamente entusiastica della globalizzazione, rivelando le crepe e le spaccature che si celano dietro l'aspetto lucente. Negli ultimi anni, qui in Occidente abbiamo avuto sempre più la percezione di un'altra faccia del villaggio globale, dove il divario economico è sempre più ampio e sempre più ridotte sono le scelte culturali. Si tratta di un villaggio in cui, alcune multinazionali, lungi dal voler livellare e uniformare le regole del gioco con lavoro e tecnologia per tutti, stanno invece sfruttando i paesi più poveri per ottenere guadagni inimmaginabili. E' il villaggio dove siamo davvero collegati tra noi da una rete di marchi, ma il lato non manifesto di questa rete rivela “ghetti firmati”. Sarebbe da ingenui credere che i consumatori occidentali non abbiano tratto profitto da questa divisione del mondo fin dall'inizio del colonialismo. Il Terzo Mondo, dicono, è sempre esistito per le comodità dell'Occidente. Si sta tuttavia sviluppando un interesse a scoprire cosa avviene davvero in quei luoghi senza marca in cui si producono prodotti di marca. In questa ricerca siamo risaliti a ritroso lungo il percorso degli abiti e degli accessori, giungendo fino alle fabbriche. Questa tesi è un tentativo di esprimere una posizione contraria alla politica delle multinazionali, che a mio parere si 7

Organizzazione no-profit che si occupa delle condizioni dei lavoratori a basso costo e della loro tutela. http://www.sweatshopwatch.org

Sito web:


sta manifestando tra molti, attivisti e non. Le rivelazioni della stampa, anche se in maniera graduale, ci hanno fornito la rara opportunità di dare un'occhiata dietro le quinte del mondo firmato. A pochi è piaciuto ciò che si è potuto vedere. Un miscuglio disgustoso di marchi famosi e misere condizioni di lavoro ha trasformato le aziende più potenti in metafore di un nuovo e brutale modo di fare afari. L'immagine della fabbrica-lager che produce i grandi marchi racconta già di per sé la storia delle scandalose disparità su cui prospera l'economia globale: gli stipendi multimilionari e spesso inconcepibili di direttori d'azienda, i compensi stratosferici dei testimonial ed i budget miliardari spesi in pubblicità si reggono su un mondo fatto di baracche, stabilimenti squallidi, miseria e sogni calpestati di giovani che lottano per sopravvivere. E' come se la catena di produzione globale fosse basata sul presupposto che i lavoratori dell'emisfero Sud ed i consumatori dell'emisfero Nord non riusciranno mai a trovare un modo per comunicare tra loro, e che , nonostante la frenesia informaticotecnologica, solo le multinazionali dispongono di una efettiva mobilità a livello globale. E questa estrema arroganza ha reso gran parte dei marchi così vulnerabili alle due principali strategie utilizzate dagli attivisti anti-aziendali: presentare i “paperoni” del mondo del brand ai lavoratori delle recondite zone produttive e togliere i paraocchi ai consumatori portando lo squallore del processo produttivo davanti alla porta delle loro case.8 Per rendere possibile questa rivelazione del lato oscuro delle grife, bisogna prendere in esame tutti i contesti in cui esso si inserisce, e tutti i cambiamenti nelle strutture già esistenti e l'inserimento di altre ex novo, in un'analisi che parte dai nuovi canoni produttivi per comprendere e sintetizzare tutti quelli che sono gli errori del marketing tradizionale in uso; in modo da fornire un'alternativa valida, ma soprattutto più etica di sistemi produttivi relativamente al settore della moda.

8

KLEIN N. , No logo, Baldini & Castoldi, 2001



Negli anni 80, spinte dalle recessione, alcune aziende si sentirono “esageratamente grandi”: possedevano troppo ed avevano a carico troppi dipendenti. Da questa considerazione, il processo produttivo cominciò a sembrare un fardello inutile, uno sbarramento alla via del successo e dei profitti. Ed è in questo periodo che nascono Nike e Tommy Hilfinger, precursori dello slogan “Marchi non prodotti!”; sfruttando la liberalizzazione del commercio e le riforme delle leggi sul lavoro per appaltare a terzi la fabbricazione; sostenendo che ciò che producono non sono cose, ma immagini. Il loro vero lavoro consiste nel marketing, in una continua corsa al “peso zero” (chi possiede meno, ha meno dipendenti fissi e produce le immagini vince la corsa) per sbarazzarsi della produzione di cose. Per proseguire su questa strada bisogna quindi operare

una

trasformazione

anche

all'interno

dell'organizzazione

dell'azienda,

perseguendo principalmente obiettivi non più focalizzati sul prodotto ma sulla comunicazione, parte integrante del processo di acquisizione di valore del marchio. Da questo momento, un gruppo di grandi aziende ha tentato di svincolarsi dal mondo materiale delle merci in quanto, secondo l'ottica dell'orientamento al brand chiunque può produrre beni, di conseguenza tali umili compiti possono essere affidati ad appaltatori, la cui unica preoccupazione deve essere quella di evadere l'ordine nel minor tempo ed al minor prezzo possibile. In questo modo, i manager aziendali sono liberi di concentrarsi sulla questione più importante: creare una mitologia aziendale sufficientemente

potente

da

infondere

significato

agli

oggetti

apponendovi

semplicemente il proprio nome. 1.4Orientamento al brand. Origine ed evoluzione del concetto di marchio Potrebbe risultare utile fare un passo indietro per comprendere dove ha avuto origine l'idea del branding9. Sebbene i termini branding (difusione del marchio) e advertising (pubblicizzare) siano spesso utilizzati in maniera intercambiabile, corrispondono in realtà a due processi diversi: promuovere un determinato prodotto è solo una parte del vasto programma di “difusione del marchio”, perseguendo l'immagine come significato chiave della grande industria moderna e la pubblicità come veicolo per difonderne il significato. Le prime campagne di marketing significative furono condotte nella seconda metà del XIX secolo, ma erano molto simili alla pubblicità più che al branding. Di fronte ad una 9

l'utilizzo delle tecniche di marketing per la creazione, la gestione e lo sviluppo di una marca


serie di prodotti altamente innovativi, i pubblicitari avevano compiti più immediati, dovevano cambiare il modo di vivere della gente. Di conseguenza, gli annunci pubblicitari informavano il consumatore delle nuove invenzioni, ed anche se molti dei prodotti portavano il marchio delle aziende produttrici, questo non costituiva un aspetto rilevante dato che, costituendo una novità, il prodotto era automaticamente pubblicizzato. Nel momento in cui inizia la lavorazione in fabbrica, però, oltre agli oggetti tecnologicamente innovativi, vengono prodotti anche beni già esistenti che necessitano un rinnovo di forma per permettere lo smaltimento della produzione industriale, ed è in questo periodo che il marchio assume un ruolo di rilievo. Il branding competitivo diventa un'esigenza, data l'enorme difusione dei prodotti in serie, pressochè indistinguibili tra loro, che possono essere diversificati solo in base all'immagine. Il ruolo della pubblicità si trasforma: da informazione circa l'esistenza di prodotti a valorizzazione dei brand. 10 Il primo step consiste nel conferire nomi propri a prodotti fino ad allora generici, mirando a suscitare un senso di familiarità e fiducia, in modo da superare il preoccupante anonimato, sostituendo il commerciante con un elenco di marche. Nasce così la “personalità” del brand, espressa attraverso confezione e pubblicità. Alla fine degli anni '40 inizia già a difondersi il concetto di marchio in senso contemporaneo11: non è una qualità legata al prodotto, ma il fulcro dell'identità dell'azienda. L' “essenza del marchio” ha gradualmente dissolto i pubblicitari dai singoli prodotti e dalle loro caratteristiche per concentrarle sull'analisi psicoantropologica di ciò che i brand significano nella cultura e nella vita del singolo. Sono necessari decenni prima che il mondo industriale si adegui a questo mutamento, legato com'era alla produzione, ma negli Anni '80 esplode una vera e propria ossessione per il marchio. Questo fenomeno conduce ad un'importante novità per le aziende finora restie all'investimento pubblicitario data la sua astrattezza, che iniziano a concepire la pubblicità come investimento in patrimonio reale. Da questa considerazione si sviluppa tutto il filone delle sponsorizzazioni e della ricerca di nuovi spazi fisici e mentali su cui apporre il proprio nome. Nel processo quasi nulla è stato lasciato senza logo, e le spese pubblicitarie sono aumentate a dismisura anno dopo anno, alla continua ricerca del nuovo zenit per superare il record mondiale dell'anno precedente in un clima di accanita concorrenza. 10 11

Marketing - J. Paul Peter, James H. Donnelly Jr., Carlo Alberto Pratesi. McGraw-hill TUNGATE M., Storia della pubblicità. Gli uomini e le idee che hanno cambiato il mondo, Franco Angeli, 2010


Ma nel 1993 la marca ha subito un momento di crisi, messa in discussione proprio dai marchi che l'industria stava costruendo: la Philip Morris annuncio la riduzione del 20% del prezzo delle Marlboro per competere con gli altri prodotti “non di marca”. Dal “Venerdì nero della Marlboro”12 le azioni in borsa di tutti i brand più prestigiosi crollano. L'ossessione per il marchio si rivolta contro se stesso: le aziende puntavano a creare un valore, uno stile di vita per i clienti, ed una volta creato (ad esempio con il “Marlboro man”) vogliono distruggerlo attraverso la riduzione del prezzo per competere con la concorrenza. I produttori non avevano ancora compreso che anche il sovrapprezzo era parte integrante di quella rete di valori che avevano creato attorno al brand. E che a pagarne le conseguenze fosse un'azienda da primati come la Philip Morris non poteva che causare efetti collaterali a livello globale. Il panico post- “Venerdì nero” è stato l'epilogo di anni di cambiamenti drastici nelle abitudini dei consumatori, i quali, duramente colpiti dalla recessione degli anni 90, iniziano a prestare maggiore attenzione al prezzo, piuttosto che al prestigio dei prodotti conferitogli dalle campagne pubblicitarie. Il mercato attraversa il fenomeno conosciuto nell'industria dell' “indiferenza al marchio”. Ed è questo processo che la Marlboro ha intuito, ma non era l'azienda adatta a concentrarsi sulle promozioni, dato il suo background prestigioso. Infatti, l'indiferenza al marchio è superata attraverso la politica delle oferte speciali: investimenti nella riduzione dei prezzi invece che in comunicazione, la quale subisce il crollo più grande dei suoi 50 anni di vita. Come prevedibile, di conseguenza, le agenzie pubblicitarie impanicate ed abbandonate dai propri prestigiosi clienti cercano di convincere le aziende ad operare un aumento del marketing. Come siamo passati dai necrologi della Marlboro all'attuale esercito di manifesti pubblicitari ? Chi ha “dopato” il marchio per riportarlo in vita? Le aziende che sono sopravvissute meglio alla crisi sono proprio quelle come Nike, Calvin Klein e Gap che si erano concentrate sul perfezionamento del marchio e con esso si identificano totalmente. Ad esempio, Benetton, Calvin Klein, Nike mirano i loro investimenti in proposte relative allo stile di vita, associando le loro linee ad arte e politica progressista, in annunci altamente concettuali in cui apparivano a stento gli indumenti. Come sostiene Naomi Klein in “No Logo”:“Il marchio si era reinventato sotto forma di spunto culturale, capace di assorbire dall'ambiente e di modellarvisi”. In questo contesto, catene come Gap si difusero a macchia d'olio, trasformando 12

KLEIN N., No Logo, 2001


magistralmente merci anonime in prodotti firmati, soprattutto attraverso un'estetica audace e curata dal punto di vista dell'identità e l'idea di creare un'esperienza o emozione per i clienti alla ricerca di legami emotivi. “Nike, per esempio, fa leva sul profondo rapporto emotivo che le persone hanno con lo sport ed il ftness. Con Starbuck's, vediamo come il cafè abbia un'intima collocazione nella vita delle persone, e questo ci dà l' opportunità di far leva su un fattore emotivo. Un grande marchio si distacca dagli altri: aggiunge propositività all'esperienza, che si tratti della sfda a dare il meglio nello sport e nel ftness o dell'afermazione che la tazza di cafè che stai bevendo ha davvero importanza ”- Scott Bedbury (vicepresidente del marketing di Starbuck's prima responsabile marketing alla Nike) 13. Questo sembra essere il segreto del successo: “Marchi non prodotti” diviene lo slogan della rinascita del marketing; con il Venerdì della Marlboro, il marchio non era morto, ne era uscito fortificato, dopato dalle aziende che si dichiarano “promotrici di significati”. Ciò che cambia è il prodotto venduto, secondo questa concezione di azienda, la pubblicità reclamizza il prodotto, il branding avanzato, invece, supera i confini aziendali proponendo il marchio come esperienza e stile di vita. Come spiega Phil Knight, amministratore delegato della Nike: “Per anni abbiamo pensato a noi stessi come ad un'azienda orientata alla produzione, mettendo tutta la nostra enfasi nel design e nella fabbricazione del prodotto. Ma ora comprendiamo che la cosa più importante è commercializzare il prodotto. Abbiamo cambiato opinione: la Nike è una compagnia orientata al marketing e il prodotto è il nostro più importante strumento di marketing”.14 Questo progetto è stato successivamente portato ad un livello ancora più avanzato con la comparsa di giganti aziendali on line come Amazon.it e Zalando. I migliori marchi vengono creati direttamente on line: liberati dai pesi del mondo reale dei negozi e della produzione, questi sono liberi di elevarsi, proponendosi non tanto come difusori di merci o servizi quanto come immaginari collettivi. Di conseguenza, anche le agenzie pubblicitarie non possono più accontentare i clienti con singole campagne, ma divengono “accuditori del marchio”, incaricandosi di individuare, articolare, sviluppare e proteggere l'anima delle aziende. Un esempio della corsa al “peso zero” può essere rappresentato da Tommy Hilfinger già agli inizi degli anni Novanta. Questa azienda produce il nulla assoluto: essa è gestita completamente con contratti di appalto, commissionando i suoi prodotti ad una serie di altre aziende: la Jokey International produce l'intimo, Pepe Jeans London i 13 14

New York Times, 20 Ottobre 1997, in merito al discorso di Bedbury all'Associazione nazionale dei Pubblicitari Gerardine E. Willigan, High performance marketing: an interview with Nike's Phil Knight, Harvard Business review, 1992, pp. 92


jeans, le Oxford Industries le camicie, la Stride Ride le calzature. 15 “Le aziende globali sono saltate sul carro del marchio con un fervore quasi religioso. Mai più il mondo industriale si sarebbe piegato all'altare del prodotto; d'ora in poi avrebbe venerato solo le immagini dei media. -Marchio!marchio!marchio!- è questo il messaggio degli anni '90” (Naomi Klein, No logo) . 1.2 Il marketing esperienziale Un’esperienza è un legame emozionale tra un brand, lo spazio e le persone. Le esperienze creano memorie ed infuenzano le future scelte e preferenze. I consumatori memorizzano una proposta semplificata, così il messaggio proposto resta limpido e chiaro. I visitatori non necessitano di conoscenze per interagire con l’ambiente circostante. Il visitatore diventa ospite e l’ospite diventa attore nell’ambiente che lo circonda. 16

All'esaltazione del logo si unisce il marketing esperienziale, forma ancora più avanzata della rinuncia al prodotto, si pone come obiettivo quello di uscire dagli schemi e coinvolgere l’interlocutore stesso all’interno dell’esperienza che gli viene proposta; questo sia che si tratti di una proposta commerciale in senso stretto, sia che si tratti di un Museo che racconta la storia dell'azienda; sia che venga presentato un prodotto in uno showroom o un corner, sia che si tratti di un evento. Il messaggio viene rivolto alla persona ed è teso a coinvolgerne le emozioni individuali. Due sono le linee su cui opera il Marketing Esperienziale, tendenzialmente alternative tra loro: il cosiddetto “strong branding” ( l’invito è quello di lasciarsi coinvolgere in uno stile di vita che caratterizza il brand che lo propone) ed “experience”( l’invito rivolto è quello di essere protagonista dell’esperienza, parteciparvi quale personaggio. L’ospite diventa

protagonista,

il

cosiddetto

“comunicattore”).Giovanni

Anceschi,

nella

prefazione al libro di Dina Riccò “Sinestesie per il design”, parla di come nella nostra ‘cultura dell’artificiale’ l’impoverimento sensoriale sia dovuto a due spinte: da un lato, alla de-corporalizzazione cui ci spinge la tecnologia; dall’altro, al frastuono sensoriale che domina i luoghi pubblici e il mondo dei media. La progettazione opererà allora nel 15

Paul Smith, "Tommy Hilfinger in the Age of mass customization” in "No sweat:fashion, free trades and the right of garnment workers”, a cura di Andrew Ross, Versus, New York, 1997, pp. 253

16

Schmitt Bernd H. - (a cura di) Ferraresi Mauro, Il marketing esperienziale, Franco Angeli, 2012


senso di una ricostruzione sensoriale, creando ambienti in cui i cinque sensi cooperino armoniosamente alla percezione, anziché venire narcotizzati (per mancanza di stimoli) o storditi (per eccesso di stimoli). Teorizzato da Bernd Schmitt, professore alla Columbia University, il “marketing esperienziale” è così chiamato in quanto si basa più sull’esperienza del consumo che sul prodotto in sé; per intenderci, non è ritenuto importante il prodotto o il luogo, bensì l'esperienza che si prova utilizzando quel determinato prodotto o visitando quel determinato luogo. Obiettivo primario della strategia di marketing sarà allora quello di individuare che tipo di esperienza valorizzerà al meglio il prodotto (o luogo). Secondo Schmitt esistono cinque diversi tipi di esperienza (da lui detti SEMs, o Strategic

Experiential

Modules):
SENSE

experiences

ovvero

esperienze

che

coinvolgono la percezione sensoriale;
FEEL experiences ovvero esperienze che coinvolgono i sentimenti e le emozioni;
THINK experiences ovvero esperienze creative e cognitive;
ACT experiences ovvero esperienze che coinvolgono la fisicità. Realizzare uno spazio espositivo in grado di variare ogni volta si abbia la necessità di comunicare qualcosa di nuovo, creando contesti anche a 360° attorno ai nostri interlocutori. Riprodurre un ambiente storico, geografico come pure un ambiente espositivo che si fa incontro al visitatore e lo trasporta in una dimensione afascinante e coinvolgente, attraendone integralmente l’attenzione. 1.2.1 Il caso pratico: Abercrombie & Fitch 17 Il famoso marchio americano di abbigliamento casual per teenagers, torna a far parlare di sé, ma questa volta non per decretare l’ennesimo successo tra i titoli borsistici o per parlare delle fessioni che impone ai suoi commessi tutte le volte che commettono un errore. Al contrario, il colosso della moda giovanile nel giro di pochi mesi sta assistendo a un negativo arretramento del suo valore borsistico. 
Il blog americano Huffington Post annuncia una perdita di appeal dei consumatori nei confronti del brand, tanto che entro il 2015 negli USA è prevista la chiusura di 180 negozi (che si sommano a quelli chiusi nel 2011) a causa delle loro diminuite performance di vendita. Le tanto studiate, nonché ben riuscite, strategie di marketing che hanno per anni attirato i giovani clienti sembrano essere un lontano ricordo. Abercrombie spera che la chiusura degli store possa alzare il livello della sua brand image e aumentare così i suoi margini di profitto.
 17

http://www.ilpost.it/2012/09/03/abercrombie-felpe/


Nonostante questo calo negli USA, vengono comunque aperti nuovi punti vendita in Europa (Monaco, Dublino, Amsterdam, Milano): come ha dichiarato il presidente Mike Jefries, “le vendite europee rimangono una sfida in un contesto macroeconomico molto difficile, ci auguriamo di poter contare su una forte crescita degli utili nella seconda metà dell’anno”.
Anche il mercato asiatico sembra essere immune al crollo americano delle vendite, tanto da diventare la prossima frontiera commerciale del marchio, con negozi aperti a Hong Kong (agosto 2011) e Singapore (dicembre 2011).
 È lecito a questo punto chiedersi: perché il brand riesce a mantenere il suo successo “solo” estero?
Risponderemo al quesito analizzando da vicino uno degli strumenti vincenti del brand A&F ovvero il punto vendita. I fagship store sono punti vendita che per la loro collocazione spaziale e per le loro particolari caratteristiche rappresentano l’evoluzione del punto vendita per un brand. Ambienti di prestigio con una grande superficie espositiva, vasto assortimento e unicità dei prodotti, attenzione all’esposizione molto scenografica della merce, atmosfera unica e suggestiva sono alcune delle caratteristiche che distinguono questi “negozi ammiraglia”. Spesso il motivo principale per cui vengono aperti non è solamente economico, ma mira anche a raforzare l’immagine del brand, facendo diventare lo shopping un’esperienza unica attraverso lo spettacolo e l’intrattenimento, portando così all’estremo il brand concept.
Il fagship store rappresenta uno dei migliori strumenti a disposizione di un’impresa per presentarsi senza intermediari al pubblico e fidelizzarlo, diventando a volte una meta ambita al pari di una cattedrale o di un museo. Lo shopping diventa un’esperienza unica, un evento da ricordare e rievocare con orgoglio sottolineando che “io ci sono stato”.
 Il primo fagship store è stato aperto da Ralph Lauren nel 1989 a New York: ambienti lussuosi e perfettamente ricostruiti come all’interno di un set cinematografico; successivamente vennero aperti i Nike Town, punti vendita dove provare degli attrezzi ginnici all’avanguardia; fino al culmine con l’Epicenter Prada, creato a New York (poi Tokyo e Los Angeles) nel 2001: un punto vendita “unico” in quanto spazio commerciale progettato

per

diventare

anche

spazio

culturale,

al

fine

di

coinvolgere

i

clienti/spettatori in un’esperienza irripetibile e fidelizzarli al marchio. L'organizzazione, che oggi è comunemente nota come la A&F, è stata fondata nel 1892 a Manhattan, da David T. Abercrombie e Ezra Fitch. Inizialmente il brand era conosciuto per il suo abbigliamento sportivo di classe e per l’abbigliamento d’élite. Nel corso degli anni la società Abercrombie & Fitch sembrava andare verso il fallimento, fino al 1988 quando divenne una società a responsabilità limitata, riposizionandosi sul


mercato dell’abbigliamento casual che lo ha reso uno dei brand del settore riconosciuti oggi in tutto il mondo. 
Sono state poi create altre linee d’abbigliamento dirette ad un pubblico più ampio, inspirate dalla stessa filosofia: Abercrombie per i più piccoli (“Abercrombie Kids”), “Hollister Co.” per i teenagers fino ai diciotto anni e “Ruehl n. 925” per i giovani professionisti (ora sostituito da “Gilly Hicks”, specializzato nell’abbigliamento femminile). Il punto vendita più famoso si trova a New York sulla Fifth Avenue, celebre per i suoi negozi di lusso; in Italia il brand è invece approdato nel 2009 con un unico store nel quadrilatero della moda milanese (in Via Matteotti) e da subito si è saputo distinguere come un fagship store di successo grazie alle sue sapienti strategie di marketing esperienziale. All’interno di uno store Abercrombie prendono vita le strategie di marketing esperienziale che, sapientemente costruite e in armonia tra loro, hanno dato vita all’unicità del marchio. Come vedremo, accanto a tali strategie sussiste a livello più ampio una comunicazione di marca che ha l’obiettivo di completare i tasselli dell’immaginario che si costruiscono nello store. In primis approfondiremo il tema della comunicazione all’interno del fagship store, ovvero come le peculiarità del punto vendita riescono a trasformare i visitatori in clienti e allo stesso tempo come riescono a veicolare i valori del brand.
Le strategie comunicative che vengono utilizzate riescono ad entrare nella mente dei consumatori e servono a creare un’esperienza e un’atmosfera singolari, nonché a rendere riconoscibile il fagship store.
Il punto vendita di Milano (l’unico in Italia) è uno spazio innovativo e inusuale.
Per quanto riguarda il layout esterno, esso sorge all’interno di un palazzo ad angolo (progettato nel 1939 da Giò Ponti, con richiami che rimandano all’estetica fascista del tempo), sotto ad una galleria - spesso occupata interamente dalla lunga coda che si forma all’entrata. È interessante notare lo stacco cromatico tra il bianco del marmo e il nero delle grate che oscurano le vetrine, che non hanno la funzione di mostrare e anticipare al cliente i capi che troverà all’interno, ma aumentano il desiderio di andare a scoprire cosa si può trovare dentro allo store.
Per quanto riguarda il layout interno, non si ha l’impressione di trovarsi in un negozio di abbigliamento (musica molto alta, buio, profumo, modelli che ballano davanti agli occhi dei clienti), ma in un locale alla moda. L’attrazione principale - che spesso supera il fascino dei vestiti - è infatti data dal “contorno” (foto con i modelli, unicità del luogo) più che dal reale richiamo della merce venduta. 
Tra le strategie utilizzate c’è sicuramente l’attenzione alla particolarità del layout


interno, con degli arredamenti insoliti per un negozio di abbigliamento: poltrone in pelo di animale, alce imbalsamato ( simbolo del brand che crea un sistema di identità visive nel negozio e sui vestiti), canoe, palme. Lo straniamento provocato stimola spesso l’acquisto, che diventa modo per “gratificare” il brand di ciò che ha fatto vivere ai clienti, ma anche un modo per ricordarsi sempre di ciò che si è vissuto. 
I modelli, uno dei simboli distintivi del fagship store in questione, sono anche una strategia di comunicazione che favorisce la creazione della particolare esperienza; per esempio le frasi in inglese che i modelli rivolgono ai clienti (How’re you doing? Hi guys, what’s going on? Thanks for coming!) sembrano dare un tocco di internazionalità al negozio e consentono di vivere un’esperienza analoga a quella che vivrebbero stando nel negozio sulla Fifth Avenue. Inoltre la gentilezza con cui si rivolgono alla clientela e i continui ammiccamenti fanno aumentare l’autostima di quest’ultima, rendendo l’acquisto un “evento” e non prestando più molta attenzione al prezzo e alla qualità. 
La richiesta dei modelli di fare una foto con i clienti diventa uno stratagemma appositamente studiato per immortalare il momento in cui ci si è recati nel negozio, una testimonianza che rimane nel tempo e fa nascere in chi ci è stato un senso di nostalgia per un’esperienza unica e particolare, spingendo a ritornarvi. E’ anche una strategia pubblicitaria perché mostrando ad altri la foto è possibile che vengano invogliati a vivere personalmente quella sensazione e si rechino quindi nel negozio.
 Un’ulteriore strategia di marketing, nonché simbolo di riconoscimento di A&F, è l’inconfondibile profumo che aleggia anche all’esterno del negozio e impregna i vestiti. È un profumo particolarmente forte che potrebbe anche infastidire il cliente, ma nonostante questo sembra essere molto apprezzato tanto che all’interno dello store è possibile acquistarlo in faconi di diverse misure.
 Altra particolarità che rende originale Abercrombie è l’efetto coda continuo: c’è la coda per entrare nello store (a volte può durare anche ore), la coda ai camerini, alle casse, il tutto per rendere il prodotto ancor più desiderabile, senza badare al prezzo; il prezzo diventa anch’esso una vera e propria strategia di marketing: essendo elevato caratterizza il prodotto come di “qualità” e gratifica quindi chi lo acquista e lo indosserà. Bisogna ricordare che un brand non comunica solamente attraverso il suo fagship store, ma anche costruendo delle sapienti reti di comunicazione attorno a sé. A livello della comunicazione del brand, si può notare che A&F comunica principalmente attraverso

il

passaparola,

sia

faccia-a-faccia,

sia

virtualmente

sul

web.

È

principalmente sul web che il marchio comunica con il suo pubblico di riferimento: per i giovani clienti serve infatti un canale di comunicazione giovane, come lo è la Rete.


Abercrombie approda sul web con un sito ufficiale che trasmette i valori del marchio, come avviene nei punti vendita: pagina web sulle tonalità del grigio, quindi colori scuri come l’atmosfera del negozio, tranne il bianco e il rosso del nome del brand.
 Abercrombie inoltre è presente su Twitter e su Facebook: news sul brand e sui prodotti, concorsi on line, sondaggi e foto, commenti degli utenti, rendono questa pagina una sorta di sito web istituzionale parallelo, che mira ad aumentare e consolidare la relazione con i soggetti, avvicinandoli ulteriormente al brand.
 Abercrombie è anche blog: si presenta come un brand blog, creato dagli utenti e non dall’azienda, con vari topic e commenti attorno al mondo del brand e dei suoi simboli (tra cui i modelli), con delle regole precise per permettere la comunicazione tra gli appassionati del marchio e della sua cultura e fidelizzarli maggiormente. Si crea una community on line che si muove su diverse piattaforme virtuali, è un mondo parallelo brandizzato A&F. Altra novità comunicativa vincente del brand è il lancio di un video virale in Rete, in particolare su Facebook e su Youtube: i protagonisti sono i giovani modelli dei fagship store A&F sparsi per il mondo (sullo sfondo del video) che ballano - filmandosi con il cellulare - sulle note di “Call Me Maybe” di Carly Rae. Tutti i filmati raccolti hanno formato video virale, con due punti di forza: da un lato una delle “canzoni dell’estate”, dall’altro l’avvenenza dei giovani modelli; entrambi traini non indiferenti che hanno portato il video superare i 13 milioni di visualizzazioni, centinaia di commenti e migliaia di “like”. In questo modo viene aumentata la brand awarness con una comunicazione low cost, ma molto efficace. Il fagship store di Abercrombie è un luogo di incontro, di “shopping visivo” e di esperienza, prima di essere un luogo di acquisto, infatti sembrano proprio essere l’atmosfera e l’esperienza che si vive, il fatto che sia un posto famoso e alla moda ad invogliare le vendite nello store milanese. Un insieme di attente strategie comunicative a vari livelli, create sia all’interno dello store, sia nell’ambiente virtuale che si combinano tra di loro e aumentano l’appeal emotivo del brand così come del fagship store stesso. Perché queste strategie riescono ancora a far vendere nel resto del mondo e non nel Paese in cui sono state create? 
Probabilmente il motivo del successo all’estero ruota attorno all’accostare l’immagine del brand al fascino del mondo americano visto con gli occhi di chi vive sull’altra sponda dell’oceano rispetto agli USA, dove gli store sono dei “normali” negozi di abbigliamento frequentati perlopiù da turisti che vogliono immortalare il momento in cui, colmi di borse logate, escono dallo store accompagnati da un giovane


modello.Business Week ha provato a delineare altre ragioni che spiegherebbero il successo in decadenza negli Stati Uniti, rispetto al fervore inarrestabile nel resto del mondo.
Probabilmente è il cambiamento culturale in atto oggi tra i giovanissimi americani - a causa anche dell’uso dei social network - che premia la distinzione piuttosto che l’omologazione: vengono messe in atto scelte di consumo più diversificate, ci si vuole distinguere per l’unicità delle proprie azioni, anche nello scegliere un capo d’abbigliamento. Sono queste le scelte che vanno ad intaccare anche i marchi più in voga tra i più giovani come appunto Abercrombie. Nel resto del mondo, invece, sembra avere la meglio il nostalgico “sogno a stelle e strisce” che rivive negli store esperienziali brandizzati Abercrombie.
Per quanto riguarda l’Italia, Abercrombie ha deciso di ampliare l’oferta per i suoi clienti, non creando nuovi fagship store brandizzati A&F, ma facendo sbarcare Hollister Co., brand californiano della stessa catena: abbigliamento casual, a prezzi più bassi rispetto ad A&F, musica ad alto volume, profumo intenso e bagnini al posto dei modelli, sempre con fisici scultorei e infradito, tutto in perfetto stile californiano.

5.3L'ossessione per il logo Data la superiorità della comunicazione rispetto al prodotto, acquisisce importanza anche il concetto di brand con il relativo utilizzo del logo ed il delicato processo del naming. Un logo è la scritta che solitamente rappresenta un prodotto, un servizio, un'azienda o un'organizzazione. Tipicamente è costituito da un simbolo o da una versione o rappresentazione grafica di un nome o di un acronimo che prevede l'uso di un lettering ben preciso.18 Un logo professionale è ormai diventato una necessità: infatti permette di riconoscere l'azienda a cui esso si riferisce con efetto quasi immediato. Il suo ruolo è quello di ispirare fiducia e superiorità rispetto a un altro marchio. Al giorno d'oggi si tende ad affiancarlo ad uno slogan che aiuta a raforzare la brand identity. Gli anni '50 furono i primi a vivere la comparsa di piccoli segni all'esterno, limitato al solo settore dell'abbigliamento sportivo. Negli anni '70, i marchi erano generalmente nascosti alla vista, posizionati discretamente all'interno; ma, alla fine del decennio la tenuta da circolo sportivo diventa stile di massa. Il giocatore di polo della Ralph 18

https://it.wikipedia.org/wiki/Logo


Laurent e l'alligatore della Lacoste scappano via dai campi da golf e se ne vanno in giro per le strade, ben in evidenza sulle t-shirt e le camicie. Questi logo avevano la stessa funzione del cartellino del prezzo attaccato al capo: tutti sapevano esattamente quale sovrapprezzo per il nome era disposto a pagare chi indossava quell'indumento. A metà degli anni '80, a questi brand si aggiungono Calvin Klein, Esprit, Roots e la maggior parte dei grandi marchi attualmente in circolazione trasformando il logo in un accessorio di moda. Estremamente eloquente era il fatto che il logo stesse aumentando di grandezza, dai due centimetri alle dimensioni dell'intero torace. Ed il suo processo di infazione prosegue fino alle t-shirt Dolce e Gabbana ed alle cinture con maxilogo Moschino riproposte ancora per le collezioni fino al 2013. Tale ambizioso progetto fa di esso l'anima di ogni cosa che tocchi, non un complemento o un'associazione, bensì l'attrazione principale: l'alligatore (logo Lacoste) si è letteralmente mangiato la polo. 1.3.1 Il caso pratico: GAP 19 Ma la percezione del logo salito al trono delle imprese si ha soprattutto in quei casi in cui esso diviene la causa o la rovina del rapporto tra il cliente e l'impresa. A titolo di esempio possiamo descrivere l'evoluzione del logo Gap: azienda americana di abbigliamento che possiede anche marchi come Banana Republic e Old navy è stata dirottata dai suoi clienti. GAP, ratailer fashion americano presente in tutto il mondo dal 1969, ha deciso nell'Ottobre 2010 di rinnovare la sua immagine attraverso l’adozione di un nuovo logo più contemporaneo e moderno. Quello che è accaduto, in seguito alla condivisione del nuovo logo nei social media, merita una rifessione per approfondire la tematica del ruolo fondamentale del logo di cui discusso. Il nuovo logo GAP ha preso in considerazione dei fattori esterni ai suoi consumatori, basandosi essenzialmente su un trend comune a tutti i brand: la contemporaneità e la modernità. Il risultato è stato disastroso con centinaia di messaggi su twitter e facebook contro il nuovo logo da parte dei consumatori. GAP ha deciso di rimediare all’errore cercando di coinvolgere gli utenti nella creazione del design del nuovo logo. Questo intento di crowdsourcing tuttavia non è servito a nulla visto che vari progetti User-Generated si erano già sviluppati: un fake logo contest, una parodia attraverso un account twitter e un sito per creare il tuo logo: l’errore principale è stato quello di voler rispondere al mercato e non ai propri consumatori. Oltre ad un risultato piuttosto scadente da parte dell’agenzia, le conversazioni online dimostrano che nessuno riusciva a rispecchiarsi nella nuova 19

http://money.cnn.com/2010/10/08/news/companies/gap_logo/index.htm


identità dl brand. In ogni caso, tutti quelli che si sono trovati a dover fare o rivisitare il logo del proprio brand sanno come sia un processo penoso, difficile, che porta grandi confitti in azienda. Ma per le grandi marche come GAP la strada è ancora più in salita: dall’avvento della network society e dei social media lo spazio interno all’azienda è reso permeabile ai consumatori che si sentono attaccati nel profondo se una marca , a cui hanno affidato parte della propria identità, decide improvvisamente di cambiare strada. La persone sentono le marche come parte del proprio Sè e si sentono violentate, tradite, se non ne condividono le scelte. Ma la mia analisi non vuole muovere un'accusa alle sole aziende per le responsabilità della situazione attuale. Se le multinazionali non avessero trovato riscontro presso i clienti con la loro conversione quasi religiosa al logo, sicuramente avrebbero dovuto efettuare un cambio di rotta. Ma nei mitici anni '80 coloro che ricevevano il messaggio non fecero che accoglierlo a braccia aperte, alimentando lo stesso fervore delle aziende, dato l'edonismo trionfante, il consumismo e la mancanza di coscienza sociale presso i giovani. 1.3.2 Il caso pratico: i Paninari Il movimento pro-logo si incarna perfettamente nell'unico movimento sottoculturale di origine italiana: i Paninari. Negli anni '80 l'Italia era un Paese produttivo, l'ottimismo economico era difuso, la ricchezza (anche presunta) era ostentata vigorosamente. Milano in quel periodo era una delle capitali economiche mondiali e qui i discendenti dell’alta borghesia, dopo il silenzio ed il terrore degli anni di piombo, esibivano il loro status, coltivando apparenza e banali abitudini di casta. In questo contesto nasce il Paninaro. I Panozzi sono stati il primo e unico caso di gruppo giovanile acceso non da uno spirito di protesta o ribellione, ma al contrario da un’irrefrenabile spinta a esasperare certe caratteristiche addirittura fondanti dello status quo. Ventenni nella Milano da bere, i Paninari sono ipermaterialisti in una società materialista, ipersuperficiali in un decennio riconosciuto come superficiale. Il loro è un movimento tutto rivolto al presente, che vive in nome di un edonismo puro e si preoccupa solo del qui ed ora, mentre qualunque altro movimento giovanile cui personalmente riesca a pensare in questo momento guarda (bene o male) al futuro. Banale dire degli idealismi politici del ’68, e delle sgargianti utopie degli hippie. Persino i punk, nichilisti in trappola nel vicolo cieco dell’Inghilterra


thatcheriana, alludono al futuro nel loro slogan più rappresentativo, il nostro adorato no future . Il Paninaro no, il Paninaro non ci pensa perché non ci vuole pensare, non gli serve pensarci. Per il Panozzo esiste solo il presente anche perché, dettaglio fondamentale, il Panozzo si ritiene il padrone del presente. Contento del mondo così com’è, il Paninaro ha con la generazione precedente un rapporto assai meno confittuale rispetto al giovane iscritto al registro di una qualunque altra sottocultura. Il genitore è tutto sommato inofensivo, e in più dispensa i soldi per comprarsi la Zundapp, il Moncler, le Timberland. Al contrario, è proprio con i suoi coetanei che il Paninaro vive il contrasto più aspro: in fin dei conti, tutti gli altri gruppi giovanili contestano ciò in cui il Panozzo sguazza contento. Il Panozzo prende a bandiera tutto quello che le altre sottoculture rifiutano violentemente; egli non ha sensi di colpa, consacra l’esistenza al materiale e al superficiale, e non si fa problemi per esempio ad ammettere il ruolo fondamentale dell’indumento come ratifica di un’appartenenza a un gruppo. Di più, è sfrontato a tal punto da attribuire questo ruolo in maniera esclusiva a una precisa marca. Questo perché se l’elitarismo di altre sottoculture si legava di più all’attitudine, con i paninari il discrimine è il censo, e nella sua espressione più elementare, ovvero lo status symbol. Ed infatti quello dei Paninari è il primo movimento di massa di giovani ricchi. Ricchi e violenti. Con un culto del territorio da cui escludere i “nemici” – caratteristica che ricorda la malavita o la Lega Nord. Non ho memoria di un’altra sottocultura giovanile che non abbia prodotto assolutamente nulla dal punto di vista artistico. Non esiste musica Paninara (se non nell’accezione di musica ascoltata dal Panozzo). Non esistono letteratura, pittura, scultura Paninare. Persino la moda dei Paninari non era in realtà nulla di originale, ma solo un mero accumulo di vestiti (e accessori) grifati. Il paninaro coltivava una maniacale attenzione per il proprio stile, rigorosamente di marca. L'abbigliamento del paninaro prevedeva giacconi imbottiti (es. Moncler, Henry Lloyd), stivali da mandriano (es. Frye o Durango), le prime scarpe da barca Docksides by Sebago, & Sperry Topsiders, jeans (es. Armani, Levi's, Uniform, Rife in velluto millecoste, Avirex, Americanino, Stone Island ), tra le felpe (byAmerican, Best Company), maglioni (es. Marina Yachting), cinture di pelle (es. El Charro), camicie a quadri (es. Naj-Oleari), calzini decorati a rombi della Burlington per i ragazzi, e


colorati della Naj-Oleari per le ragazze e scarponcini (es. Timberland), Celini oppure scarpe sportive Superga colorate, Vans (rigorosamente senza stringhe) e più tardi New Balance e Nike. La moda dei paninari nasce in ogni caso partendo dal fondo. Il primo indumento comune ai primi paninari furono gli scarponcini di lavoro in pelle scamosciata della Timberland, seguiti poi dal giubbotto da aviatore bomber della Avirex, poi dal giubbotto di jeans foderato di finto pelo all'interno della Levi's, dal Moncler, da altri tre tipi di giubbotti da aviatore (Schott, bomber canadese e RAF), dalla giacca da vela Henri Lloyd. Per circa tre anni impazzarono anche le toppe sui jeans di Naj-Oleari e Fiorucci, così come le sue borse e parecchi accessori per le ragazze. Il negozio di El Charro in via Monte Napoleone divenne una sorta di paradiso degli acquisti, importando dozzine di indumenti in stile texano, prodotti principalmente dalla Lyntone Belts Inc. (Edmond - Oklahoma). Aspetto curatissimo e abbigliamento grifato sono il biglietto da visita di un vero gallo: scarpe Timberland o Converse All Star, stivali Durango, cintura El Charro, occhiali Ray-Ban, giubbotto Scott, cerata Henri Lloyd, jeans Levi’s o Armani appena sopra le caviglie, maglione Les Copains, maglietta Lacoste o Mistral, calze Burlington a rombi, felpa Best Company, zainetto Invicta a righe sono i cardini del vestiario di un vero paninaro. Credo che la nascita di questo movimento sottoculturale non sia che lo specchio di ciò che stava succedendo a livello aziendale, una conferma che le imprese che puntavano al brand si stavano muovendo nella direzione giusta, affiancate dal popolo di ventenni ipergrifati che non attendevano altro che il lancio del loro nuovo status symbol. E come biasimare le aziende di moda che non si sono fatte sfuggire quest'occasione e cogliendo la palla dei paninari al balzo hanno operato il processo di trasformazione delle aziende in multinazionali produttrici di loghi, sogni, status sociali, in un mercato giovanile orientato al solo presente e che non comprendeva le conseguenze globali dei loro acquisti.



CAPITOLO 2- NO PRODUCTION Il sentimento di disprezzo nei confronti della produzione spinge a considerare la fabbrica ed il lavoratore come una “zavorra” da lasciarsi alle spalle. Le conseguenze dello slogan “marchi, non prodotti!” si riscontrano soprattutto nella tendenza all'outsourching che caratterizza le decisioni aziendali dell'ultimo ventennio. Per svincolarsi dal peso materiale dell'azienda ed entrare a pieno nella nuova era dei “marchiosauri”, ci si deve sbarazzare della produzione, renderla una componente esterna attraverso appalti e subappalti. Per non “sporcarsi le mani” con il prodotto, l'unica soluzione è “rinnegare la fabbrica”, liberarsi dal fardello di strutture fisiche ingombranti. La causa è semplice: la creazione di un supermarchio è estremamente dispendiosa, richiede gestione oculata e finanziamenti continui. Come sempre è una questione di priorità, le quali, però, stanno cambiando. Come ha spiegato Hector Liang, ex presidente di United Biscuit: “I macchinari si usurano. Le auto arrugginiscono. Le persone muoiono. Ma i marchi sopravvivono sempre”. Ed è da questi presupposti che le grandi aziende non si accontentano della “fuga” di posti di lavoro verso altri stati, l'outsourching non è uno spostamento fisico, ma una nuova modalità produttiva: la forza lavoro dell'impresa viene sostituita dall'appaltatore, gli operai non dipendono più dalla multinazionale che si libera anche di tutti i doveri sindacali e gli stabilimenti vengono sostituiti dagli ordini commissionati al fornitore, che a sua volta può girarlo ad una rete di subappaltatori, perdendo così qualsiasi collegamento con la marca. 2.1 L'outsourching L'esternalizzazione, anche detta outsourcing (parola inglese traducibile letteralmente come "approvvigionamento esterno"), è in economia l'insieme delle pratiche adottate dalle aziende di ricorrere ad altre imprese per lo svolgimento di alcune fasi del processo produttivo.20 Benché aziende specializzate nella fornitura di servizi produttivi alle imprese esistano sin dai primi anni sessanta, il termine venne usato per la prima volta solo nel 1982. Come spesso accade nella teoria economica, specialmente quella legata al ramo aziendalistico, negli anni novanta il termine diventò di colpo molto popolare tra i manager. Le imprese cercano di bypassare la fase produttiva: invece di fabbricare direttamente 20

http://it.wikipedia.org/wiki/Esternalizzazione


gli articoli nei propri stabilimenti li acquistano da terzi. Gli stabilimenti già esistenti vengono chiusi e la produzione viene totalmente data in appalto, principalmente a società asiatiche. In tal modo, insieme ai posti di lavoro, svanisce anche la responsabilità del produttore rispetto alla forza lavoro ed alla merce, rendendo così possibile il completo distacco dalla materialità per la totale focalizzazione sul marchio. Le multinazionali scaricano le responsabilità sulle spalle dei fornitori, i quali devono produrre gli articoli richiesti al minor prezzo possibile, in modo da lasciare alle grandi imprese ampi margini per gli investimenti destinati al branding. Un ruolo importante tra le determinanti dell' esternalizzazione, in particolare internazionale, è giocato dalle diferenze nel costo del lavoro. Per quanto riguarda i confini interni, si argomenta che l'esternalizzazione di fasi di produzione, diminuendo la dimensione delle imprese coinvolte nel processo, diminuisce così anche il grado di sindacalizzazione degli operai, indebolendone la forza relativa nelle

rivendicazioni

salariali.

Ma

i

diferenziali

salariali

giocano

un

ruolo

indubbiamente più importante nelle decisioni di delocalizzazione, che a volte comportano anche esternalizzazione internazionale, operate dalle imprese dei paesi più sviluppati che sfruttano così i vantaggi comparati dei paesi in via di sviluppo nella produzione dei beni ad alta intensità di lavoro. Si discute in particolare su quale sia stato l'efetto delle decisioni di delocalizzazione e esternalizzazione sulla cresciuta diseguaglianza sociale sperimentata dall'economie sviluppate negli ultimi anni. Tutto ciò non preoccupa molto il cittadino, che si sente protetto da un sistema di leggi costituito in qualunque stato si voglia spostare la produzione. In realtà, però, ci sono alcune zone franche che non devono rispondere agli obblighi giuridici degli stati, e sono proprio queste che diventano miniere d'oro per gli outsourcher internazionali. 2.2 Le zone franche Una zona franca è un'area geograficamente o amministrativamente limitata al cui interno le attività produttive beneficiano di un regime particolare in materia doganale e fiscale.21 Le zone franche esercitano una forte attrattiva per investimenti in infrastrutture e servizi logistici, stimolando, a determinate condizioni, la crescita dei territori che le ospitano in termini di valore aggiunto, occupazione, esportazioni e trasferimento tecnologico. Nell'attuale contesto di globalizzazione e specializzazione economica, le attività svolte in queste aree fanno generalmente parte di filiere produttive e distributive internazionali basate sul principio di frazionamento dei 21

http://www.trevisoglocal.it/informazione/approfondimenti/mappatura-zone-franche.aspx


processi e facilitate da innovazioni nelle tecnologie dell'informazione e dei trasporti , sempre più spesso, è qui che si localizzano non solo grandi multinazionali, ma anche piccole

e medie imprese che

agiscono da subfornitori per

queste ultime.

Esistono due diverse tipologie a cui corrispondono diversi tipi di efetti giuridici e, più in generale, diverse regole di funzionamento, soprattutto in sede di costituzione. zone franche classiche, caratterizzate essenzialmente dall'esonero dei diritti di dogana e, a volte, da quello delle imposte indirette. Tale categoria comprende le zone franche commerciali, le zone franche industriali d'esportazione, i porti franchi, i magazzini franchi. - zone franche d'eccezione, ove possono ofrirsi altri tipi di agevolazioni fiscali (imposte dirette, tributi locali), vantaggi finanziari e amministrativi per le imprese ed anche altri incentivi di natura economica e sociale. A tale categoria si ricollegano le zone economiche speciali, le zone d'impresa e l'insieme delle zone di riconversione economica. Negli ultimi trent'anni, il fenomeno si è sviluppato rapidamente a livello internazionale. Nel 1970 solo pochi paesi ne erano dotati, ma già nel 1996 l'Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico (OCSE) stimò in circa 500 le zone franche industriali d'esportazione localizzate in ben 73 paesi, mentre l'elenco internazionale elaborato nel 1997 dalla World Economic Processing Zones Association (WEPZA) indicava in ben 830 il numero totale di zone franche d'esportazione e zone franche commerciali sparse in tutto il mondo. Gran parte di tali zone sono inoltre localizzate in paesi in via di sviluppo e concentrate in tre macroaree geografiche: Asia sud-orientale, America centrale e Mediterraneo meridionale. Tali stime sono state confermate anche da un recente censimento a livello mondiale della International Labour Organization (ILO). Le Zone Franche sorgono oggi in nazioni recentemente industrializzate dell'Asia orientale - Corea del sud, Hong Kong, Singapore e Taiwan, che devono parte della loro rapida industrializzazione all'attuazione dei vari schemi di protezione, tra cui le Exporting processing zone (EPZ), dove gli organizzatori operano con speciale normativa fiscale, monetaria, doganale e al fine di captare valuta straniera e creare posti di lavoro.
 I precursori delle zone franche risalgono all'antichità, epoca in cui si riservavano strisce di costa del bacino del Mediterraneo a cui avevano libero accesso navi e merci. Tiro e Cartagine funzionavano in questo modo, facilitando il movimento commerciale


della regione, a cui si unirono nel 1242 le città di Hamburg e Lubecca , poi Brema, per dare vita alla lega anseatica . 
Il secolo XVI ha assistito alla creazione di aree portuali di caratteristiche simili, pratica estesa anni più tardi a importanti città d'Europa, come Trieste, Genova e Marsiglia, convertite in zone franche con franchigie doganali quasi esclusivamente dedicate al commercio, come è stato anche il caso di Aden, Gibilterra e Singapore. Tra l'altro, dalla metà del secolo scorso (1948) esiste la Zona Libre o Franca de Colon nella Repubblica di Panama, una delle più importanti nel mondo di oggi. Ad esempio In Cina attualmente esistono 15 zone franche, situate nei pressi o all'interno dei maggiori porti.22 Le più importanti sono Tianjin, Shenzhen, Shangai, Zhangjigang, Dalian, Guangzhou, Xiamen, Haikou, Fuzhou, Qingdao, Ningbo e Shantou. Con riferimento a queste ultime zone, è in generale prevista l’esenzione dal pagamento dei dazi doganali, dell’IVA, della tassa sui consumi per i prodotti destinati a lavorazioni per esportazione. Inoltre in queste zone non sono normalmente necessarie licenze di importazione ed esportazione. Solitamente si tratta di aree di 6-10 chilometri quadrati che prevedono lo svolgimento di numerose attività commerciali al proprio interno: immagazzinamento delle merci, transazioni e scambi commerciali con l'estero, lavorazione, trasformazione e trasporto delle merci. Al fine di attirare gli investimenti stranieri, le autorità locali hanno altresì costituito delle Aree Economiche Speciali, caratterizzate da particolari esenzioni doganali ed agevolazioni fiscali, quali la riduzione dell'imposta sul reddito dal 33% al 15%. Una delle piu’ importanti Bounded Zones della Cina e’ la Shanghai Waigaoqiao Free Trade Zone. Localizzata in prossimità dell’ala nord-est della nuova area metropolitana di Pudong, con una superficie di 10 chilometri quadrati, essa e’ rapidamente divenuta sede di oltre 9,300 imprese provenienti da 72 diversi Paesi (incluse 135 fra le multinazionali che compaiono nella lista “Fortune 500”).
Le operazioni economiche che vi hanno luogo spaziano dal commercio internazionale, alla trasformazione per l’esportazione, alla logistica, al trasferimento delle merci.
Al fine di poter operare nell’area, le imprese straniere devono costituire un’entità legale indipendente e ottenere una licenza per l’esercizio dell’attività’ di trading.
 
La Shanghai Waigaoqiao Free Trade Zone ha promosso, a partire dal 2003, la politica del “going first and trying first”, la quale ha comportato un’innovazione del sistema nel suo complesso, volta ad attrarre un maggior numero d’investimenti stranieri, raforzare la competitività dell’area, ridurre i costi operativi delle aziende che vi operano, nonché a migliorare lo sviluppo delle tre attività prevalenti: commercio internazionale, 22

http://www.mincomes.it/fondi_strutturali/studi_ricerche/free_zone.pdf


trasformazione per l’esportazione e servizi di logistica
. Tutti questi sforzi hanno portato a una rapida e duratura crescita dell’area, manifestata dal forte incremento (in media oltre al 20% l’anno) dei principali indici economici. Ciò permette di attribuire alla “Shanghai Waigaoqiao Free Trade Zone” un ruolo sempre più importante nella promozione dello sviluppo del Nuovo Distretto di Pudong cosi’ come dell’intera citta’ di Shanghai. Ci sono inoltre Special Economic Zones in aree geografiche nelle quali le leggi vigenti che regolano le materie economiche sono contraddistinte da una minore rigidità rispetto al resto della Cina, originando maggiori vantaggi per le imprese che vi operano.
In queste aree, situate generalmente nei pressi delle frontiere o dei maggiori porti/aeroporti internazionali, le merci possono essere scaricate, lavorate e riesportate senza alcun interferenza da parte delle autorità doganali del Paese; solo nel caso in cui dette merci fuoriescano dalla Special Economic Zone per entrare nel mercato cinese saranno soggette alle normali regole doganali. Le imprese che vi operano godono, come le altre zone, di rilevanti benefici fiscali. L 
 a creazione di zone speciali, che spesso ha generato numerose critiche per la sproporzione di benefici concessi agli investitori stranieri rispetto ai locali, ha permesso a Pechino di attrarre numerosi capitali stranieri e allo stesso tempo di controllare e gestire la crescita, valutando con quale modalità e in quali settori spingere il Paese. In sintesi : -Vantaggi I vantaggi oferti dallo sviluppo di una ZF sono: Diminuzione dei costi per l’impresa investitrice grazie alle agevolazioni; Maggiori investimenti nel territorio Sviluppo generale dell’economia del territorio. - Svantaggi Gli svantaggi causati dall’introduzione di una ZF sono: Condizioni di lavoro dei dipendenti, con riferimento alle esperienze asiatiche; Se non correttamente gestite si tramutano in aree di illegalità. Le multinazionali giustificano il loro comportamento dichiarando di comportarsi come comuni compratori alla ricerca di buoni afari nel mercato globale puntando al prezzo più basso; non sono interessate alle strutture organizzative che permettono questo sottocosto, problema scaricato sui fornitori nel momento in cui ci si sbarazza della produzione. E questa violazione dei diritti umani è possibile grazie a questi veri e propri paradisi fiscali della produzione.


L'idea che le EPT potessero giovare alle economie del Terzo Mondo, si afermò nel 1964 con una risoluzione delle Nazioni Unite che le appoggiava in quanto strumento di promozione e crescita per il commercio in Paesi in via di sviluppo. Il progetto prende piede negli anni '80, quando l' India introdusse le prime agevolazioni fiscali a favore di società che investissero nel Paese. Le promesse su cui si basa questa tipologia particolare di outsourching è l'eccezione rispetto alle tasse ed alle leggi operata dai paesi ospitanti in funzione della prosperità futura. Il castello in aria su cui poggiano le zone franche è senza dubbio la promessa dell'industrializzazione; una realtà legale ed economica “tra parentesi”, separata dal Paese a cui appartengono, come se ciò che accade all'interno fosse solo temporaneo ed “irreale”. Una negazione collettiva particolarmente di rilievo in Paesi Comunisti nei confronti dell'espressione più selvaggia del capitalismo. La frenesia attuale nei confronti delle ETP si basa sui successi economici della Corea del Sud e Taiwan, prime zone di esportazione. In questi Stati i salari crescevano a ritmi costanti, le tecnologie venivano efettivamente trasferite e le tasse erano introdotte gradualmente. L'economia globale è divenuta molto più concorrenziale da quando queste “Tigri Asiatiche” hanno trasformato le industrie a basso costo salariale in specializzate.

Diferentemente, oggi intere zone vengono trasformate in bassifondi

industriali e ghetti di manodopera a basso costo sotto la minaccia della fuga degli stabilimenti che blocca salari e normative. "Le zone franche fanno parte di un processo volto a "ritagliare" lembi di territorio nazionale per trasformarli in "aree denazionalizzate". Poco importa che tali aree denazionalizzate, provvisorie e irreali si espandano continuamente inghiottendo spazi sempre più vasti"- Sassen, 1998. 2.2.1 Il caso pratico: Zona Franca di Cavite

Naomi Klein, nel suo libro “No logo” descrive l' EPZ di Cavite, situata alla periferia della città filippina di Rosario, 90 miglia a sud di Manila. Si tratta di una zona recintata di 682 acri, comprendente 207 fabbriche che occupano circa 50.000 lavoratori, e vengono svolti lavori per grandi multinazionali: Nike, Gap, Old Navy, Liz Claibourne ecc. Che l’obiettivo di produrre ricchezza nei paesi dove vengono stabilite le EPZ sia solo una copertura, lo si capisce subito dal fatto che nonostante la grande quantità di merce assemblata nelle fabbriche, la città di Rosario non riesce a fornire alla sua cittadinanza


nemmeno i servizi sociali minimi (fogne, elettricità, scuole moderne, servizi sanitari). Questo è dovuto ad alcuni fattori determinanti: le “agevolazioni” fiscali, la competenza dei controlli da parte delle autorità e la gestione della forza lavoro. Ormai, le varie nazioni asiatiche si fanno la gara per strappare contratti alle grandi multinazionali, ovviamente in cambio di tangenti, quindi c’è una corsa a ribasso su affitti (a Cavite pagano 11 pesos per piede quadrato, meno di 1 centesimo di dollaro), salari, regole lavorative e pressione fiscale. Il Governo filippino ha approvato delle norme che consentono alle fabbriche delle EPZ di non dover pagare tasse né sul reddito né sulla proprietà per 5 anni, nello Sri Lanka sono previsti addirittura per 10 anni. Di conseguenza, qui arrivano enormi quantità di materiale dalle multinazionali straniere, le quali non pagano tasse d’ingresso, le materie prime sono lavorate senza pagare oneri per i relativi guadagni, infine i prodotti rispediti senza spese per l’uscita, senza contare che nemmeno per la proprietà dei capannoni vengono versato denaro. Il risultato è che nonostante gli enormi guadagni per le multinazionali e le loro collaboratrici, niente viene versato nelle casse dei comuni che le ospitano, col risultato che le città non traggono alcun profitto. Nemmeno il termine dei 5 anni serve, in quanto le ditte chiudono e riaprono con un altro nome ricominciando a godere delle agevolazioni fiscali. Per evitare che le autorità locali possano indagare su ciò che succede all’interno, la EPZ sono poste sotto giurisdizione esclusiva del Dipartimento Federale del Commercio e dell’Industria delle Filippine.



CAPITOLO 3- NO JOB Lavorare in questo mondo “tra parentesi” Nonostante il tentativo riduttivo, 27 milioni di persone vivono e lavorano “tra parentesi”, che sembra siano decise ad allargarsi invece di chiudersi. Le multinazionali hanno il coltello dalla parte del manico, proprio in virtù della corsa a ribasso di cui scritto, impongono contratti poco vantaggiosi per le ditte appaltatrici, le quali a loro volta si rifanno sulla manodopera. Anche la gestione interna delle aziende è fuori da ogni senso dell’umanità. Intanto le assunzioni avvengono tramite “uffici del lavoro” posti all’interno della EPZ, le quali regolarmente raccolgono gli stipendi e prima di versarli ai lavoratori intascano una tangente. I lavoratori all’interno delle fabbriche sono quasi sempre ragazze che arrivano dalle campagne, a volte per il miraggio di un tenore di vita migliore a volte come in Cina perché il governo centrale “espropria” le loro terre per costruire dighe utili alle industrie. I salari sono bassissimi, molto spesso al di sotto della soglia di sussistenza, col risultato della nascita di baraccopoli alle periferie della città. I gruppi sindacali afermano che un salario che consenta ad un operaio cinese la sopravvivenza dovrebbe aggirarsi attorno agli 87 centesimi di dollaro all'ora; in Occidente i lavoratori del settore tessile ricevono tra i 10 ed i 19 dollari all'ora. Nonostante gli enormi risparmi sui costi del lavoro, i fornitori si rifiutano di pagare anche gli 87 centesimi di minimo sindacale, arrivando anche a soli 13 centesimi. Gli orari di lavoro sono massacranti. Nelle Filippine la norma è di 12 ore al giorno (12 in Indonesia, 14 nello Sri Lanka e 16 in Cina) per 6-7 giorni alla settimana, ma in caso di ordini grossi o di scadenze imminenti si lavora ad oltranza, anche perché le multinazionali inseriscono penali altissime in caso di ritardi nelle consegne. La Philips, una ditta che esegue lavori in appalto per la Nike e la Reebok, prevede il licenziamento in caso gli operai si rifiutino di svolgere straordinari qualora venga loro richiesto. Addirittura in Cina vi sono stati casi di turni ininterrotti per 3 giorni consecutivi, ed in Honduras sono state somministrate anfetamine agli operai affinché lavorassero 48 ore consecutivamente. Anche i minimi diritti sindacali sono negati nelle EPZ. L’organizzazione di sindacati è vietata o fortemente scoraggiata, attraverso minacce od uccisioni; spesso non vengono versati i contributi previdenziali; vengono fatte trattenute arbitrarie sui salari giustificandole con presunti regali; viene vietato di andare in bagno, tanto che a volte gli operai sono costretti ad urinare in sacchetti posti sotto i macchinari( Gap, Guess,


Old Navy); vengono attuate politiche fortemente discriminatorie nei confronti di donne che potrebbero rimanere incinta: controllo degli assorbenti, obbligo ad assumere pillole contraccettive,contratti della durata di 28 giorni in modo da poterle licenziare in caso di ritardi del ciclo,ecc. Il problema è che anche fabbriche che avevano “normali” impianti all’esterno, ora li hanno chiusi e riaperti nelle EPZ per poter approfittare di questo “regime speciale”, come la Marks & Spencer che ha trasferito la sua fabbrica che si trovava a nord di Manila nella zona franca di Cavite. In conclusione, si può afermare che la “delocalizzazione” è in realtà la forma di schiavismo del nuovo millennio, e se da un lato porta a crisi economica ed insicurezza nei paesi occidentali, dall’altro non serve certo a migliorare le condizioni di vita nei paesi poveri o in via di sviluppo, finendo con l’arricchire solo le multinazionali sfruttatrici. 3.1Il caso pratico: I lager del marchio Menzionando grandi grife quali Banana Republic, Gap, Guess, Jones New York, Eddie Bauer, May Co, Macy's, Cachi, Liz Claiborne, Ellen Tracy, Head, LeQ, Ruf Hewn, Ralf Laurent e Benetton, il nesso con l'accusa di omicidio sembra impossibile ed infondato. Ma non è così. E' necessario smettere di proteggerle, malcelate dietro strutture di subappalto, dietro l'apparente scintillio del mondo fashion non ci sono altro che ingranaggi ad hoc per lo sfruttamento. Le suddette grandi marche dovrebbero apporre la loro firma, o meglio il loro logo, anche sulle morti avvenute nelle fabbriche. La storia di Carmelita Alonzo 23 è solo una delle tante a cui i media non hanno dato ascolto. Carmelita era una cucitrice presso lo stabilimento V.T. Fashion, che confeziona abiti per i marchi citati nel paragrafo precedente. L'operaia morì dopo una lunga serie di straordinari notturni durati più di una settimana, a cui si aggiungevano due ore di viaggio per tornare dalla propria famiglia. Afetta da polmonite (malattia molto difusa in questi stabilimenti caldi di giorno ed umidi di notte), il suo capo le negò il riposo richiesto. Alonzo fu ricoverata in ospedale dove morì l'8 Marzo 1997, giorno in cui il resto del mondo celebra la libertà e l'emancipazione della donna, chiaramente non raggiunta. Gran parte dello stress del lavoro straordinario potrebbe essere risolto con l'assunzione di un maggior numero di dipendenti e con la divisione della giornata 23

Klein N. ibidem


lavorativa in due turni più brevi. Ma perchè gli stabilimenti dovrebbero assumere più personale se un grosso ordine potrebbe essere sostituito da un giorno all'altro con un periodo di inattività? Ed è qui che la responsabilità torna anche sulle spalle delle grife che commissionano il lavoro. E quest'ultima situazione rappresenta il “rovescio della medaglia”: quando uno stabilimento attraversa un periodo di stagnazione, i lavoratori vengono lasciati senza paga, quasi per mesi. La regola “niente lavoro niente paga”: è questa che insieme alle altre inefficienze crea una nuova concezione del lavoro identificato come un rapporto saltuario e occasionale, la crepa che fa crollare tutte le teorie pro-EPZ. Il problema fondamentale è che i lavoratori di Cavite e di tutte le altre zone di esportazione non stanno ereditando i lavori di coloro che sono stati licenziati in occidente, ma, al contrario, le multinazionali che investono in questi Paesi hanno creato un tipo di occupazione temporanea ed a breve termine. L'occupazione nel settore del tessile e delle calzature, secondo uno studio efettuato dall'organizzazione Internazionale del Lavoro, è passata da posti fissi a tempo pieno a lavori temporanei e part-time, mentre aumenta notevolmente anche il ricorso al lavoro a domicilio ed a piccoli laboratori, ancor meno controllati delle fabbriche. Non si tratta, quindi, di una fuga di posti di lavoro, né tantomeno gli asiatici stanno rubando il lavoro ai paesi occidentali. Fattori quali ingenuità ed insicurezza semplificano il subdolo lavoro dei dirigenti, consentendo un più facile mantenimento della disciplina. Ciò porta gli appaltatori a preferire soprattutto lavoratrici giovani, spesso licenziate all'età dei 25 anni in modo da ridurre al minimo il numero delle madri. Non sono rari casi di donne che mettono al mondo figli con bruciature derivanti dal lavoro in reparto stiratura, o addirittura morti perché a contatto con i processi tossici della produzione della plastica; rifiuto da parte dei dirigenti di concedere permessi per le visite mediche, lavori pesanti fisicamente atti a favorire l'aborto, turni di notte, pillole contraccettive, controllo del ciclo, aborti obbligati, contratti di 28 giorni, enorme pressione psicologica che spinge in alcuni casi all'uccisione del figlio pur di non perdere il proprio posto di lavoro. La maternità diventa fagello e il nuovo afare per le imprese consiste nella totale mancanza di accordi. Una forza lavoro senza prole ed il nomadismo delle fabbriche sono le dirette conseguenze di questi fenomeni.

3.2 Il nomadismo delle imprese

Oltre alle violazioni dei diritti umani, questo sistema produce un altro efetto


collaterale: le multinazionali erranti. I lavoratori non sono gli unici soggetti di passaggio, anche gli stabilimenti (cosiddetti “rondine”) sono costruiti all'insegna della massima fessibilità e mobilità estrema dal momento che di fronte a richieste di aumenti salariali, normative ambientali e imposte, le fabbriche “migrano” in luoghi più convenienti.

Un esempio sono la Corea del Sud ed il Giappone: pionieri

dell'outsourcing, negli anni '80 capitali delle scarpe da ginnastica Reebok e Nike, agli inizi degli anni '90 i lavoratori hanno iniziato a ribellarsi ed a costituirsi in sindacati. La risposta dell'industria è stata la fuga verso Indonesia e Cina o altri Paesi a basso costo. Questa politica delle fabbriche migratorie funge anche da monito per i lavoratori, spesso frenati nella rivolta in quanto consapevoli che la loro ribellione non porterà alla conquista di alcun diritto, ma solo alla perdita di innumerevoli posti di lavoro. La situazione è alquanto assurda: anche se non possiedono nulla a livello locale, i grandi marchi sono comunque onnipresenti. In realtà, proprio perchè non sono proprietari degli stabilimenti, le multinazionali hanno poteri maggiori sulla produzione. I marchi non si preoccupano afatto delle condizioni che si nascondono dietro gli afari conclusi, si limitano ad approfittare delle opportunità e nel frattempo mantengono i fornitori sulle spine valutando miriadi di oferte diferenti. La transitorietà delle zone di libero scambio è l'estrema manifestazione dell'abbandono del mondo del lavoro da parte delle aziende. Il fenomeno dell'outsourching non è una questione di fuga dei posti di lavoro ma dai posti di lavoro da parte delle imprese.



CAPITOLO 4- NO SPACE Il branding del paesaggio urbano Se nei confronti dei lavoratori e dell'occupazione il marchio “fugge”, l'atteggiamento è diametralmente opposto nei riguardi dello spazio: ponendosi come fine ultimo la conquista della mente del consumatore, il processo di branding inizia in una variante più semplice, l'occupazione dello spazio fisico. La prima

forma tangibile di questa

invasione sono i cartelloni pubblicitari disseminati nelle strade; ma il Fürher aziendale non si accontenta di un poster ad un incrocio trafficato. La sua invasione consiste in una spietata eliminazione dei luoghi unbranded, da colonizzare prima della concorrenza. In questa sfida all'ultimo lembo di terra non colonizzata, ogni azienda ha la sua arma per rendere l'esistenza dei potenziali clienti completamente sponsorizzata; creando come obiettivo la riconoscenza del cliente verso il brand, anche se il meccanismo logico condurrebbe alla conclusione inversa. Quest'ultima afermazione può essere chiarificata tramite la spiegazione di un caso emblematico che riassume tutta la pericolosità di questo processo: nel 1997 la Regent Street Association di Londra si ritrova senza fondi per le luminarie natalizie. Yves Saint Laurent approfitta di questa situazione ofrendo di prendersi carico di suddette spese in cambio della presenza del suo logo sulle illuminazioni. La sponsorizzazione del Natale, si rivela però una pura campagna promozionale con loghi di granlunga più grandi rispetto alle dimensioni concordate: 5 metri e mezzo, per ricordare ai londinesi chi aveva “portato il Natale”. L'indole espansionistica del brand finisce per usurpare l'evento, creando alienazione e risentimento nell'animo dello spettatore. Questo fenomeno dell'estetizzazione dell'ambiente quotidiano è legato alla sensazione di piacere dello spettatore, il quale attraverso l'esperienza vissuta nel luogo si sente automaticamente legato e riconoscente al brand. L'eliminazione della linea di confine tra attività artistiche e quotidiane è uno dei principali componenti della definizione di postmodernità: realtà ed immaginazione si confondono e la ricerca del piacere estetico diviene onnipresente. 4.1Il caso pratico: le sponsorizzazioni delle rotatorie La legge è uguale per tutti, ma non per la pubblicità Percorrendo qualunque tratto stradale italiano, anche urbano, ci si imbatte spesso in rotatorie; con la stessa frequenza, visitando i siti dei vari comuni e province italiane si notano bandi di concorso per la sponsorizzazione di un'area verde o rotonda rivolta alle


aziende. La sponsorizzazione è presentata in questi documenti come “adozione” di area verde che comprende la realizzazione, la cura e la manutenzione della suddetta, identificata da parte del privato interessato; la visibilità dello sponsor è garantita dall'esposizione di cartelli pubblicitari ad hoc, realizzati secondo il formato standard approvato. Prima dell'affidamento dello spazio, lo sponsor deve presentare un progetto che verrà successivamente approvato dal servizio comunale preposto. 24 La sponsorizzazione viene sempre più individuata come l'unico metodo adatto e semplice per reperire fondi per le opere di urbanistica necessarie per i comuni e sempre meno finanziabili dallo Stato. Un modo ideale per bypassare la burocrazia infinita per la richiesta di fondi pubblici, un risparmio per le casse comunali e per le tasche dei cittadini. La “svendita” delle zone verdi a privati, che ne guadagnano in visibilità, non preoccupa il cittadino, al contrario, aumenta il suo senso di gratitudine nei confronti delle aziende. Ma quando c'è di mezzo la pubblicità, dietro ogni azione sembra esserci in agguato un piano più complesso. Come sottolinea Fabio Balocco, reporter per il fattoquotidiano.it, sarebbe interessante quantificare il consumo di suolo agricolo o comunque integro che è stato sacrificato in questi ultimi dieci, quindici anni per realizzare rotonde stradali. 25 Inizialmente, esse sembrava dovessero eliminare i semafori ed erano limitate essenzialmente ai centri abitati. Fin qui, niente da dire, salvo il fatto che spesso sono state realizzate senza una vera necessità, e pertanto fuidificano solo il traffico lungo una certa direttrice, formando rallentamenti e code nelle altre. Poi, come le metastasi di un cancro, esse si sono moltiplicate a dismisura, appunto consumando ettari ed ettari di terreni a lato delle strade e costringendo molto spesso le aziende di servizi a spostare le linee sotterranee per consentire la loro realizzazione. La causa di questa “conversione” alla rotonda non riesce a spiegarsi. C’è chi dice che le rotonde vengano realizzate per far rallentare le auto agli incroci, ma spesso, la rotonda viene realizzata all’incrocio tra una strada principale ed una secondaria in cui di auto ne passano tanto poche ogni ora che basterebbero le dita delle mani per contarle. E poi, se davvero l’intento fosse di far rallentare gli automezzi, perché non mettere delle cunette artificiali sull’asfalto, che sono molto meno costose e non mangiano terreno intorno? E comunque, per evitare gli scontri, non sono sufficienti i vecchi e cari segnali di stop all’incrocio tra una strada principale ed una secondaria? Ed allora quale può essere la motivazione che spinge 24 25

Sponsorizzazione rotonde ed aree verdi, sito ufficiale del Comune di Reggio Emilia- 15/02/2013 Fabio Balocco, “Ma cosa si nasconde dietro le rotonde stradali?”- www.ilfattoquotidiano.it 13/01/2013


amministrazioni che sono tra l’altro sempre più prive di fondi a realizzare in ogni dove costosissime rotatorie? Forse la pubblicità può costituire una spiegazione, un legame che colleghi le amministrazioni con le aziende. Ma la commistione tra politica e aziende non è il solo problema che riguarda la pratica dell' “adozione delle rotatorie”, a mettersi da ostacolo c'è anche il Codice della strada. L'articolo 23 del Codice recita: “Sulle isole di traffico delle intersezioni canalizzate è vietata la posa di qualunque installazione diversa dalla prescritta segnaletica”. 26I cartelli pubblicitari installati all’interno delle rotatorie: distraggono gli automobilisti e non rispettano una fondamentale norma del codice della strada. La provincia di Milano è stata la prima ad essere incriminata: in un servizio dell'8 Febbraio 2010 del tg satirico “Striscia la notizia”, l'inviato Valerio Stafelli denunciò l'illegalità di centinaia di rotonde. La situazione ha causato non pochi problemi all'amministrazione provinciale, costretta a sborsare soldi pubblici per rimuovere le installazioni e soprattutto risarcire le aziende, le quali avevano sottoscritto un regolare contratto. Stesso iter anche per Sassari, dove però la Guardia di Finanza ha emesso cinque multe per un totale di 1950 €.27 Si da il caso quindi che le istallazioni vadano contro la legge. A dirlo è il Regolamento di attuazione del codice della strada (Decreto Presidente della Repubblica 16 Dicembre 1992 nr.495 aggiornato al D.P.R. 6 marzo 2006, n.153) con l’articolo 51 al comma 3 (lettera b) e 4 che letti congiuntamente recitano che “il posizionamento di cartelli, di insegne di esercizio e di altri mezzi pubblicitari entro i centri abitati, ed entro i tratti di strade extraurbane per i quali, in considerazione di particolari situazioni di carattere non transitorio, è imposto un limite di velocità non superiore a 50 km/h, salvo i casi specifici previsti ai successivi commi, è vietato in corrispondenza delle intersezioni” come appunto sono considerate le rotatorie. Lo stesso articolo 4 prevede delle eccezioni ponendo delle distanze oltre le quali si potrebbero situare dei cartelli pubblicitari,

che

però

li

porterebbero

ad

essere

distanti

dalla

rotatoria.

L'illecità della pubblicità nelle rotatorie è ribadita dal parere del Ministero delle Infrastrutture e Trasporti N.0034023 del 19 aprile 2010. Ad essere obiettivi leggendo gli articoli citati del Codice della Strada sarebbero fuorilegge la quasi totalità dei cartelli pubblicitari presenti sulle strade cittadine italiane, ma la legge al riguardo, 26

27

Per delucidazioni sulla normativa www.filibertoputzu.it , Filiberto Putzu, “Le pubblicità sulle aiuole delle rotatorie sono vietate dal codice della strada”, 19/02/2010 www.bergamonews.it, “Sponsor sulle rotatorie della Provincia, violano il codice,rischio maximulta”- 28 Luglio 2010


sebbene troppo severa, è chiara e non aggirabile. Pertanto probabilmente i Comuni italiani, nel protestare contro il Governo per la recente pesantissima serie di tagli alle proprie amministrazioni farebbero bene ad inserire nelle richieste anche la modifica di quegli articoli del Codice della strada. Altrimenti dovranno rinunciare ad un’altra parte del proprio bilancio, anche se cominceranno a sentirsi più vicini ai semplici cittadini che ogni giorno hanno a che fare con leggi cervellotiche che impediscono di lavorare liberamente e contribuire alla crescita ed allo sviluppo di questo Paese. Intanto fino ad allora gli sponsor delle rotatorie dovranno accontentarsi della "eventuale visibilità sul sito internet del Comune”, ’apposizione del nome/marchio/logo su materiale informativo distribuito del Comune , oltre al diritto agli eventuali benefici fiscali previsti dalla normativa vigente"(come avvenuto a Jesi-AN). 28 Come al solito la pubblicità sembra essere il nuovo “intoccabile” della società, più potente di un massone, più tutelato di un parlamentare, più onnipresente di qualunque Dio.

28

Paolo Picci, www.viverejesi.it, “Il comune in cambio della manutenzione delle rotatorie concede spazi pubblicitari: peccato siano illegali”



CAPITOLO 5- NO EDUCATION “Sarete d'accordo sul fatto che il mercato dei giovani è una fonte di nuove entrate ancora non totalmente sfruttata. Sarete d'accordo, inoltre, che il mercato dei giovani trascorre gran parte della giornata all'interno delle strutture scolastiche. Ora il problema è: come raggiungere quel mercato?”- opuscolo della IV Annual Kid Power Marketing Conference. Tuttavia, nonostante il loro essere di tendenza e le loro pretese intellettuali, i marchi rimanevano sempre fuori dal cancello della scuola: una situazione intollerabile, che non sarebbe durata a lungo. Il consulente di marketing americano Jack Myers così descriveva un tale afronto: “In questo Paese (gli Stati Uniti) abbiamo due possibilità: fare in modo che il nostro sistema scolastico entri nell'era dell'elettronica e comunichi con gli studenti adottando metodi che si possano comprendere e con i quali riescano a relazionarsi; oppure lasciare che le nostre scuole continuino ad utilizzare sistemi di comunicazione antiquati e diventino “prigioni diurne” per milioni di giovani, come già è accaduto nelle zone più povere delle città”. Questo modus pensandi che mette allegramente sullo stesso piano l'accesso delle aziende a scuola e l'apertura alla moderna tecnologia, e, per estensione al futuro stesso, è il punto focale che ha permesso alle aziende di eliminare quasi del tutto la barriera tra pubblicità ed istruzione. E' stata la tecnologia a rinnovare l'urgenza di far fronte alla cronica mancanza di fondi che contraddistingue l'ultimo ventennio: nel momento in cui le scuole si trovavano ad afrontare tagli di bilancio sempre più drastici, i costi per fornire un'educazione moderna aumentavano in maniera esponenziale; costringendo molti istituti a cercare fonti di finanziamento alternative. L'incalzare della moderna infotecnologia ha fatto si che ci si aspettasse che gli istituti ,che non potevano neanche permettersi testi aggiornati, mettessero a disposizione apparecchiature audiovisive, videocamere, aule informatiche, i più recenti software, l'accesso a internet e impianti di videoconferenza. Anche se sempre più scuole si rivolgono al settore privato per finanziare l'acquisto di strumenti tecnologici, non significa che i governi abbiano definitivamente abbandonato il loro ruolo, per ciò che concerne la fornitura di pc a scuole pubbliche. Al contrario, un numero sempre crescente di politici fa del concetto “un computer in ogni banco” un punto chiave del proprio programma elettorale, anche se in collaborazione con aziende locali. Intanto, però, i consigli scolastici locali riducono i fondi per programmi come musica ed educazione fisica per finanziare il sogno hi-tech dell'istruzione, aprendo la


porta a sponsorizzazioni aziendali e forme di promozione diretta del marchio nelle mense e nei programmi sportivi. Catene di fast food, produttori di articoli sportivi e società informatiche si danno da fare per colmare le distanze, portando con sé i loro programmi educativi. Come sempre nel branding, non è sufficiente tappezzare gli edifici con qualche logo. Una volta messo piede nelle scuole, i brand manager iniziano a far ciò che hanno già fatto nel settore musicale, sportivo e mediatico: tentare di soprafare i “padroni di casa”, di conquistare una posizione di primo piano. Essi spingono affinché i loro marchi diventino materia obbligatoria, non un corso complementare. Le battaglie di marketing scolastico più violente si svolgono nelle palestre delle scuole superiori e delle università: le migliori squadre di pallacanestro sono sponsorizzate dalla Nike e dall'Adidas, che forniscono scarpe, tute e sacche con il loro logo. A livello universitario, la Nike ha concluso accordi di sponsorizzazione con più di duecento dipartimenti sportivi degli Stati Uniti e dodici canadesi. L'accordo standard conferisce all'azienda il diritto di stampare il proprio logo sulle uniformi, sull'attrezzatura sportiva, sui prodotti e sull'abbigliamento ufficiale delle università, sulle gradinate degli stadi e , fattore principale, sugli striscioni pubblicitari posizionati in maniera da trovarsi in primo piano nelle riprese televisive delle partite più importanti. Dal momento che gli studenti non possono ritirare compensi, in quanto appartenenti alla categoria dei dilettanti, sono gli allenatori che ricevono dalle aziende l'occorrente per vestire le proprie squadre con le marche giuste, rendendo le cifre in gioco molto più cospique. La Nike distribuisce tra gli allenatori delle università più note sotto il profilo sportivo, come la Duke e North Carolina, 1,5 milioni di dollari, somme che al confronto fanno sembrare gli stipendi degli allenatori simbolici spiccioli. Non sorprende che siano stati i pubblicitari della Nike World Campus ad elaborare il primo ibrido di pubblicità in aula avanzato: un esercizio di pubbliche relazioni ed un falso supporto all'insegnamento, la lezione “Air-to-Earth”. 29 Nel corso dell'anno accademico 1997-98, gli scolari di più di ottocento classi elementari si sono seduti in aula per scoprire che la lezione del giorno riguardava la costruzione di una scarpa da ginnastica della Nike, completa di logo e di approvazione di una star dell' NBA, definita dalla National Education Association un “utilizzo deprecabile ed a scopo promozionale del tempo in aula” e dalla Consumer Union “l'aberrazione dell'educazione”, il fai-da-te della Nike ha la pretesa di far conoscere il processo produttivo dell'azienda sotto il 29

http://www.peakinsight.com/insights_files/nike.pdf


profilo dell'attenzione al prodotto ed all'ambiente. Il manifesto “verde” della multinazionale insiste sulla componente di riciclo delle suole di vecchie scarpe da ginnastica per riutilizzarle nel fondo dei campi di basket nei ghetti, che, in una spirale di marketing post-moderno poi firma con il suo logo. In questo clima di ossessione per la ricerca della ricetta segreta di ciò che fa tendenza tra i giovani , vi sono ancora molte risorse sfruttabili all'interno delle scuole. Come i cool hunter insegnano, i ragazzi non sono semplici consumatori ma veri e propri campioni statistici della loro fascia d'età. Agli occhi del settore marketing delle aziende, ogni aula rappresenta un focus group che attende di essere studiato. Di conseguenza, ottenere l'accesso alle scuole significa molto più che vendere prodotti; è una vera e propria opportunità di andare a caccia di mode ma soprattutto di formare la mente dello studente verso il consumismo ed orientarlo al proprio brand. Questi descritti sono casi limite del mondo in cui accordi di sponsorizzazione aziendale reimpostano i valori fondamentali delle università pubbliche; ma gli efetti meno appariscenti sono altrettanto inquietanti. Molti docenti descrivono una continua invasione della mentalità da centro commerciale: più i campus assomigliano ai centri commerciali, più gli studenti si comportano come consumatori. Il professor Mark Edmundson (University of Virginia) scrisse su Harper's: “ La cosa che mi piace meno è il linguaggio da esperti consumatori che permea le risposte dei formulari di valutazione dei corsi sottoposti agli studenti. Mi disturba la serena convinzione che la mia funzione, ed ancora più importante quella di Freud, Shakespeare o Blake sia distrarre ed intrattenere”. 5.1 Il caso pratico: Nike e Reebok Fin dagli anni '90, la risposta della Nike alle accuse di sfruttamento dei lavoratori e dei minori, dell'ambiente e come reazione alle crescenti politiche di boicottaggio, è stato l'impegno nel sociale. La suddetta multinazionale si impegna ormai da decenni alla costruzione di campi da basket nelle periferie più povere dell'America, per donarli alle scuole che ne sono sprovviste. Questo tentativo umanitario è naturalmente ripagato dai maxiloghi delle strutture sportive, ma in particolar modo dalla riconoscenza dei potenziali clienti (adolescenti particolarmente infuenzabili data la loro giovane età e suscettibilità), i quali provano un senso di riconoscenza per il brand, data la donazione di un'infrastruttura che lo Stato e le istituzioni hanno negato. Il marchio benefattore non si accontenta di questa pubblicità tridimensionale, ultimo anello evolutivo dello


sviluppo delle affissioni pubblicitarie, insita all'interno dei pochi contesti ancora liberi dalla pubblicità manifesta: l'istruzione; essa si spinge ancora più in là,

fino

all'organizzazione autonoma di campi scuola formativi in diversi sport, quali basket, calcio, golf, softball, tennis. La mission di questa operazione di marketing viene identificata col “fornire agli atleti gli strumenti per migliorare ed amare uno sport tutta la vita”, illudendo l'adolescente con una full immersion sportiva grifata, in cui il brand viene identificato come garanzia, in unione con la notorietà dei partner dell'iniziativa: i più famosi allenatori americani. Ma a questo punto c'è da analizzare l'interpretazione Nike del disagio giovanile: per l'azienda, il brand ha funzione “messianica”, lo slogan “Just do it” è un messaggio da trasmettere ai ragazzi più poveri per rassicurarli. Per l'azienda le sue scarpe da 150 € sono un “talismano” che aiuterà i giovani neri ad uscire dal ghetto ed a migliorare la loro vita attraverso lo sport o la musica di cui si fa portavoce Nike. Ma non si può fare a meno di pensare che tutte le multinazionali che reinsaldano questi stereotipi sulla gioventù sono le stesse che portano via tutti i posti di lavoro: ecco perché fare rap ed andare a canestro sono le uniche alternative che rimangono ai giovani per uscire dalla provincia e dalla periferia. I membri del Congresso statunitense Bernie Sanders e Marcy Kaptur in una lettera rivolta all'azienda hanno scritto:” La Nike ha avuto una parte fondamentale nel fenomeno dell'esodo che ha caratterizzato i centri urbani. Essa è stata la prima ad abbandonare gli operai statunitensi e le loro famiglie... Pare che la Nike sia convinta che i lavoratori occidentali vadano bene per comprare le scarpe, ma non siano più degni di produrle.” Anche in Italia, la Nike ha intrapreso questa iniziativa di marketing a partire dal 2000.30 Al comune di Roma, ad esempio sono stati donati venti campi contraddistinti dallo swoosh. Ma dopo un anno il Comune, su richiesta di alcune delle scuole ha intrapreso una campagna di boicottaggio chiamata “Fuori la Nike dalle scuole”, provvedendo alla cancellazione dei loghi dai campi ed allo smantellamento di alcuni impianti. Il Coordinamento Cambia lo Sponsor (Cocs) e' intervenuto presso le scuole Piranesi di via Fabriano a Nuova Gordiani, S.Francesco di viale Ruspoli ad Acilia e presso la scuola di Largo Borghi a Prima Porta per cancellare gli ultimi loghi Nike presenti sui campetti donati dalla multinazionale statunitense al Comune di Roma. L'intervento non ha provocato alcun danno alle strutture sportive ed e' consistito esclusivamente nella copertura dei loghi tramite bombolette spray. Non un'operazione contro le scuole donatarie, ma un'azione di boicottaggio della Nike. Dei 20 campi 30

http://www.ecn.org/reds/donne/abitipuliti/abitipuliti0309nike.html


donati dalla Nike, sono innanzitutto state lasciate al mittente le 11 "gabbie", contrastanti con qualsiasi idea accettabile di spirito sportivo e di gioco per bambini. I 9 campetti "normali" installati nelle scuole sono rimasti al loro posto e si e' solo provveduto alla copertura dei loghi. Cinque scuole li hanno coperti autonomamente, dietro invito del Comune su cui avevamo fatto pressione; un campo e stato smobilitato del tutto; nelle restanti tre scuole e' intervenuto oggi il Cocs. Il passo successivo è stato quello di dotare il comune di una "Commissione Etica" di valutazione delle sponsorizzazioni affinchè si passi dall'impegno episodico , in cui si interviene su operazioni nate male per "limitare i danni", ad una fase di impegno stabile, che faccia veramente di Roma una Città Equa, esempio per gli altri enti locali e pungolo per le aziende che vogliano raccogliere la scommessa della "responsabilità sociale d'impresa". Per fare questo è necessario che l'amministrazione capitolina individui i principi etici di cui si chiede il rispetto alle aziende che sponsorizzano eventi e lavori pubblici e che forniscono beni e servizi al Comune. Da parte sua, il Coordinamento Cambia lo Sponsor continua a lavorare affinché ciò avvenga e prosegue nel suo impegno di sviluppo di una coscienza del "consumo critico", anche al fianco dei bambini, con la partecipazione alla Global March Against Child Labour e con la proposta alle scuole romane di un percorso ludo-didattico su diritti dei bambini e lavoro minorile, che partì ad ottobre 2003, culminando con un evento centrale a metà dicembre, in occasione della Festa dell'Altraeconomia organizzata in collaborazione con il Comune di Roma e con le altre associazioni impegnate nella costruzione di un altro mondo possibile. Con questa campagna, oltre al rifiuto della politica aziendale sfruttatrice, si è voluto soprattutto opporsi all'ingresso degli sponsor privati nella scuola pubblica, un fenomeno che, se da noi e' appena agli inizi, e' già dilagato negli Stati Uniti, con efetti devastanti ad esempio sulla libertà di insegnamento. Un

caso

ancor

più

emblematico

può

essere

individuato

nei

contratti

di

sponsorizzazione della Reebok nelle scuole americane, già da tempo entrate nel meccanismo della sponsorizzazione dell'istruzione. Nel maggio 1996, gli studenti ed i professori dell'University of Wisconsin, con sede a Madison, vennero a conoscenza del contenuto di un accordo di sponsorizzazione che l'amministrazione stava per sottoscrivere con la Reebok.31 E quel che scoprirono non piacque loro. Il contratto conteneva una clausola di “non-denigrazione”, che vietava ai membri della comunità accademica di criticare l'azienda di articoli sportivi. La clausola sanciva :” Per il 31

KLEIN N., ibidem


periodo di validità dell'accordo, e per un ragionevole periodo successivo alla rescissione dello stesso, l'Università non rilascerà dichiarazioni ufciali che denigrino la Reebok. L' Università, inoltre, intraprenderà ogni azione atta a controbattere qualunque

dichiarazione

da

parte

dei

dipendenti,

agenti,

rappresentanti

dell'Università, compreso l'allenatore, che denigri il marchio, i prodotti o l'agenzia pubblicitaria o terzi collegati all'azienda”. La multinazionale accettò di eliminarla solo dopo che gli studenti ed i membri del corpo accademico ebbero lanciato una campagna di sensibilizzazione sulla torbida storia dell'azienda in merito al riconoscimento ai diritti dei lavoratori del Sud-Est asiatico. L'eccezionalità di questa vicenda consiste nella particolarità che l'esistenza della clausola di non-denigrazione fu scoperta e denunciata prima che l'accordo fosse siglato. Ciò non è accaduto in altre università, i cui dipartimenti dello sport hanno stipulato accordi multimiliardari contenenti disposizioni simili, che limitano la libertà di espressione e di critica. L'accordo tra l'Università del Kentucky e la Nike, per esempio, prevede una clausola che stabilisce che l'azienda ha il diritto di rescindere il contratto quinquennale da 25 milioni di dollari se l'università denigra la marca o intraprende azioni non compatibili con il sostegno dei prodotti Nike. L' azienda nega di voler sofocare le critiche. “Se la gente riuscisse a sbarazzarsi dell'idea che la Nike si comporti in tal modo per controllare le università, capirebbe di ciò che stiamo parlando”, dice Steve Miller, direttore marketing del settore sport universitario della Nike. A prescindere dalle intenzioni, la libertà d'espressione nei campus spesso viene limitata nel momento in cui entra in confitto con gli interessi dell'azienda sponsorizzatrice. 5.2 Il caso pratico: il branding della ricerca Mentre le grandi aziende trasformano i campus e le scuole, è in corso anche il tentativo di porre sotto il controllo diretto delle aziende anche il settore della ricerca istituzionale: le università lasciano a disposizione delle imprese le loro infrastrutture di ricerca e la loro credibilità accademica per usarle a proprio piacimento. Questa deviazione della ricerca universitaria viene intaccata dalla potenza aziendale soprattutto nel campo medico e farmaceutico, ma arriva a controllare anche contratti di ricerca tra aziende ed università anche per l'ideazione di nuovi pattini (Nike), per l' appurazione della stabilità del mercato asiatico per conto della Disney, per citare solo alcuni esempi. Il caso più agghiacciante che concerne il campo tessile riguarda il professore associato


della Brown University di Rhode Island, il dottor David Kern. 32 Il professore che si occupava di medicina del lavoro presso l'ospedale affiliato all'università (Memorial Hospital- Pawtucket) era stato incaricato di indagare su due casi di malattie polmonari da lui curate presso la struttura ospedaliera. Il medico rintracciò altri sei casi della malattia all'interno della stessa fabbrica con 150 operai (di conseguenza l'incidenza sulla popolazione era di un caso ogni 40.000). Sul punto di pubblicare l'articolo con i risultati dello studio, l'azienda tessile lo minacciò, menzionando una clausola del contratto che impediva la pubblicazione di “segreti commerciali”. Le amministrazioni dell'Università e dell'ospedale si schierarono fermamente dalla parte dell'azienda, proibendo la pubblicazione e chiudendo il laboratorio in cui la ricerca era stata condotta. Il solo elemento che ci ha permesso di venire a conoscenza di quanto accaduto è stata l'integrità personale e l'ostinazione del singolo ricercatore, che ha permesso che la verità venisse a galla. Ma, per proteggere l'autonomia della ricerca, non ci si può affidare alla sola moralità ed al coraggio dei singoli, non in grado di garantire una protezione a 360°. Già a partire da uno studio del 1994, riconfermato da quelli successivi, sui contratti tra aziende e università ha rivelato che la stragrande maggioranza delle interferenze aziendali viene accettata senza proteste. Secondo lo studio, le aziende hanno il diritto di bloccare la pubblicazione nel 35% dei casi, ed il 53% degli accademici accetta l'eventuale ritardo della pubblicazione degli studi per cause aziendali. Un altro tipo di interferenza da parte delle aziende, oserei dire ancor più pericoloso, consiste nella trasformazione delle stesse in vere e proprie realtà aziendali, proponendo cattedre sponsorizzate da esterni in sintonia con indirizzi di ricerca, permettendo alle aziende di risparmiare sui costi della ricerca e della progettazione, e di avere a disposizione il docente della cattedra patrocinata anche per la formazione del personale. Il dubbio che sovviene riguarda i docenti, i consigli scolastici ed i genitori, il perchè essi non abbiano preso posizione rispetto alla presa del potere delle aziende. Mentre l'educazione sessuale e la religione hanno scosso l'opinione pubblica ed alimentato continui dibattiti, la tendenza a consentire l'ingresso della pubblicità tra i banchi non è stato frutto di un'unica decisione, ma di migliaia di piccoli provvedimenti scuola per 32

W. COHEN, R. FLORIDA, W.R. GOHE, University-Industry research centers in the United States, Carneige Mellon University Press, Pittsburgh 1994


scuola, con la maniacale attenzione delle agenzie pubblicitarie nel non creare discordanze con i programmi scolastici. Altro fattore culturale riguarda l'invasione pubblicitaria in tutti gli altri campi della vita dello studente: i giovani ed i genitori non riconoscono la pericolosità della pubblicità nelle istituzioni, dato il continuo bombardamento ricevuto dagli alunni in tutti gli altri contesti, dalla metro alla tv, che porta a credere che i ragazzi siano in grado di distinguere tra contenuti educativi e promozione in quanto già “addestrati” alla pubblicità. Quanto detto può spiegare l'introduzione all'interno delle scuole superiori, ma non si può allargare lo stesso discorso alle università. Il silenzioso e assecondante corpo accademico ha permesso passivamente che i partner aziendali violassero la libertà, pietra angolare della vita accademica. La trasformazione di studenti e corpo docenti in cavie del marketing è avvenuta silenziosamente mentre era in atto una diversa battaglia all'interno delle università: lo strascico degli anni '60-70 riguardo sesso, razza e politica. Nel continuo confronto con il corpo docenti riguardo queste scottanti tematiche, il brand è riuscito ad approfittare della distrazione per trasformare questi luoghi semi-sacri che ricordavano la possibilità dell'esistenza di spazi liberi dai marchi.



CAPITOLO 6- NO HYSTORY Inizialmente, gli accordi di sponsorizzazione sembravano addurre benefici alla comunità, la quale riusciva a trovare i fondi necessari attraverso l'accordo con un'azienda sponsor che veniva ripagata con forme di riconoscimento e tregua fiscale. Questi accordi erano una soluzione efficace per non alterare l'equilibrio tra l'indipendenza dell'istituzione ed il desiderio di visibilità dello sponsor. Spesso tra i critici della commercializzazione dilaga la tendenza a equiparare tutti i tipi di sponsorizzazione, come se la contaminazione con il marchio annulli o intacchi l'integrità del luogo. La concezione della sponsorizzazione come forma di controllo nascosto dietro una facciata filantropica è espressa da Mattew Mc Allister nel libro “The Commercialization of American culture”: “Mentre dà lustro all'azienda, la sponsorizzazione svaluta ciò che viene sponsorizzato, subordinato alla pubblicità. Non è tanto arte per arte ma arte per pubblicità. Agli occhi del pubblico l'arte viene strappata alla sua sfera distinta e teoricamente autonoma e collocata direttamente nella sfera commerciale... Ogni volta che il commercio si insinua nella cultura, la sua integrità viene sminuita dall'evidente intromissione della pubblicità”. Questa visione della promozione è anacronistica e generica, e prende in considerazione solo quella minoranza di artisti che fin dal passato hanno lottato per proteggere l'integrità della loro lavoro. La cultura e l'arte sono stati da sempre dipendenti dai potenti, fin dall'antichità, a partire dal poeta Orazio alla corte di Mecenate. Egli può essere considerato uno dei più antichi precursori del concetto contemporaneo di sponsorizzazione, perpetrata nei secoli da famiglie quali i Medici fino all'emancipata M.me de Stäel. La cultura è stata infuenzata da sempre dalla protezione e dai gusti di personaggi e famiglie illustri, il cui posto hanno preso oggi le multinazionali, trasformando il luogo di incontro: dai salotti letterari agli uffici aziendali.

Se ne

deduce, che non tutte le forme di sponsorizzazione dovrebbero essere oggetto di facile condanna, ma essere considerate semplicemente come strumento di marketing efficace. Il problema delle sponsorizzazioni subdole e falsamente filantropiche si crea soprattutto con l'aumento della dipendenza economica dell'industria culturale, si incrina l'equilibrio tra i due attori : dinanzi ad un bisogno imminente di fondi, le istituzioni culturali sono costrette ad accettare anche richieste sempre più esigenti di visibilità e controllo, fino a tagliare fuori l'ente intermediario. Ed è in questo momento che l'azienda si “mette in proprio”, sostituendo l'ente con un'organizzazione interna che permette maggiore libertà e controllo completo da parte dell'impresa,


trasformando così la sponsorizzazione in puro strumento promozionale. -La logica nascosta dietro questa politica aziendale non è che un prosieguo della corsa al “peso zero” già intrapresa nei confronti del prodotto: inizialmente un gruppo di aziende produttrici trascende il proprio rapporto con le merci, di conseguenza pone il marketing al centro delle proprie attività, cercando di trasformare la condizione di interruzione pubblicitaria in una continua integrazione culturale e sociale- Naomi Klein, No Logo.

L'efetto più pericoloso di questa trasformazione è la convinzione

generale secondo cui qualunque iniziativa abbia bisogno di uno sponsor per decollare. La storia stessa di un Paese, la sua arte, i suoi monumenti sono la nuova terra inesplorata per i brand. La storia, essendo parte del passato, sembrerebbe l'unica zona unbranded dell'esistenza odierna, l'unica scialuppa di salvataggio sopravvissuta alla tempesta del consumismo. Ma, essa è giunta ai posteri soprattutto grazie ad un'unica manifestazione tangibile a distanza di secoli e millenni: i monumenti e le opere d'arte. Il processo di branding selvaggio contemporaneo non si è lasciato di certo sfuggire questa considerazione. I monumenti rappresentano il punto di partenza per l'invasione del passato, data la conquista totale del presente; il bisogno di restauri delle antiche strutture costituisce l'occasione perfetta per assoggettare l'ultimo contesto libero dalla sponsorizzazione, ed, inoltre, rappresenta un'enorme fonte di visibilità per le imprese. L'Italia, culla dell'arte, è sicuramente il luogo più adatto per mettere in pratica tale strategia, data anche la scarsità di fondi a disposizione per i restauri. Per comprendere meglio come la storia possa giovare al branding nel campo della moda, prendiamo in esame alcuni recenti casi. Nel 2012 Della Valle (gruppo TOD'S) si ofre come sopraintendente e finanziatore dei lavori di restauro del Colosseo per un totale di 25 milioni di €. 33 In cambio, l'imprenditore marchigiano riceve l'esclusiva sull'immagine dell'Anfiteatro Flavio per 15 anni eventualmente prorogabili.34 Il monumento, simbolo di Roma e dell'Italia, e la relativa immagine vengono messi in “affitto” alla TOD'S, che gestirà anche i marketing del biglietto d'ingresso ed il centro accoglienza dell'associazione “Amici del Colosseo”.35 Il gesto, che Della Valle ha dichiarato completamente disinteressato, porterà al brand la disponibilità dei ponteggi per la pubblicità. Dove è finita allora la donazione 33 34

35

disinteressata?

Forse

in

un'altra

sponsorizzazione

dell'ennesimo

http://www.ilfattoquotidiano.it/2012/08/03/colosseo-restauro-da-25-milioni-di-euro-offerto-da-della-valle/313548/ http://www.beniculturali.it/mibac/export/MiBAC/sitoMiBAC/Contenuti/MibacUnif/Comunicati/visualizza_asset.html_366460572.html http://tg24.sky.it/tg24/cronaca/2012/01/12/restauro_colosseo_della_valle_caos_ministro_ornaghi.html


monumento? Ad esempio della Fontana di Trevi da parte del gruppo Fendi? Infatti, dopo il Colosseo, è il turno di un altro restauro grifato ad opera di un mecenate d'eccezione del campo della moda: la fontana di Trevi. Nel Gennaio 2013, 2,5 milioni di euro sono stati donati dal gruppo Fendi per il cantiere e per un piccolo intervento di pulizia del complesso delle Quattro Fontane. 36 Durante la conferenza stampa è stata chiarita l'assenza di qualunque ritorno pubblicitario per l'azienda, “esclusa” una targa di ringraziamento che fiancheggerà la fontana, e la visibilità garantita dall'attenzione mediatica all'evento. Fendi si impegna anche alla realizzazione di un volume fotografico a cura di Karl Lagerfeld, spingendosi anche nel campo dell'editoria per accumulare maggiori introiti. Ma, l'amministrazione comunale, nella persona del sindaco Alemanno, e l'azienda romana rappresentata dal suo direttore creativo Silvia Venturini Fendi hanno puntualizzato più volte il “puro mecenatismo” dell'iniziativa. Questi

due

esempi

rendono

possibile

la

comprensione

del

meccanismo

di

colonizzazione nascosto dietro queste azioni, ma per comprendere soprattutto i benefici che l'azienda riceve attraverso il patrocinio potrebbe risultare utile la vicenda del restauro del Ponte di Rialto di Venezia da parte di Renzo Rosso. 6.1 Il caso pratico: Il restauro del Ponte di Rialto targato Diesel 15 Febbraio 2013-“Renzo Rosso si è aggiudicato, attraverso la sua holding OTB, la gara d'appalto per il restauro del monumento per la somma di 5 milioni e 5 €.” Nonostante le lodi ed i ringraziamenti da parte dell'amministrazione comunale nei confronti dell'unico partecipante alla gara, è sufficiente leggere le prime pagine dei contratti per rendersi conto che l'operazione non è stata scelta per un particolare interesse nei confronti della tutela dei beni culturali o per un legame particolare con la città di Venezia, ma per pure ragioni di marketing. Nelle disposizioni generali del contratto è chiarito nell'articolo 1 (Oggetto del contratto), che la sponsorizzazione è “sotto forma di puro finanziamento”, ma al paragrafo successivo sancisce “allo scopo di promuovere il nome, il marchio e gli altri segni distintivi dello sponsor”. Di conseguenza, l'interesse fasullo dello sponsor per l'arte, decretato da un atto di pura donazione, è smentito dall'obiettivo promozionale citato. Per maggiori garanzie, il contratto sancisce che “lo sponsor resta sollevato da qualsiasi eventuale pretesa da parte di terzi, e da qualsiasi richiesta di risarcimento che possano essere avanzate”. Ciò dimostra che, anche nel caso in cui il marchio decida di apporvi una pubblicità ofensiva o irrispetosa, esso ne ha i diritti e non subirà 36

http://www.ilmessaggero.it/roma/cultura/fontana_di_trevi_restauro_fendi_comune/notizie/247650.shtml


alcun tipo di ripercussione. Nei comma successivi si esplica

l'organizzazione e la

durata dei lavori, con una particolare clausola n. 7 che chiarisce che in caso di un ritardo nello svolgimento dei lavori, “le forme di pubblicità autorizzate potranno essere installate a partire dalla stipula del contratto, non necessariamente coincidente con l'inizio dei lavori, ma della sola installazione del cantiere”. L'articolo 5 definisce le condizioni del ritorno d'immagine per il marchio, afermando: “l'amministrazione comunale si impegna a consentire allo sponsor di veicolare il proprio logo, la propria immagine ed il proprio marchio. Inoltre, lo sponsor, quale controprestazione per il finanziamento dell'intervento di ristrutturazione, può posizionare impianti pubblicitari propri su ponteggi o assiti di cantiere per circa il 33% della sua superficie complessiva, per una dimensione di circa 120 mq. L'esposizione pubblicitaria potrà interessare anche altre strutture di servizio fino ad un totale di 180 mq”. Nello stesso articolo, al comma 3 ritroviamo un'ulteriore agevolazione: “lo sponsor può efettuare proiezioni personalizzate per 4 turni di 7 giorni ciascuno e personalizzare n.2 imbarcaderi del servizio di trasporto pubblico locale mediante l'esposizione di n. 4 banner personalizzati di cm 200x260 cadauno, a partire dalla data di sottoscrizione del contratto, con turni di 14 giorni”, e “può personalizzare il rivestimento di n. 2 vaporetti, per una durata complessiva di 730 g.g. A partire dalla data del contratto”. Ma le controprestazioni per il finanziamento erogato continuano generose al comma 7, “lo sponsor può utilizzare per eventi e manifestazioni promozionali le seguenti location: Ca' Vendramin Calergi n. 4 volte, Teatro La Fenice n. 2 volte, Ca' Rezzonicco n. 2 volte, Palazzo Ducale n. 2 volte, Piazza San Marco un evento. Egli è inoltre autorizzato all'installazione di un Temporary Store durante i principali eventi veneziani, e riceve 10 posti riservati ed altrettanti accessi quotidiani al Carnevale di Venezia, e potrà assistere in tribuna autorità (Machina) alla Regata Storica”. Continuando la lettura ci si imbatte in ulteriori agevolazioni: “lo sponsor unico ha diritto di utilizzare le immagini dell'intervento

realizzato

su

patrimonio

pubblico

per

ogni

propria

esigenza

promozionale, anche tramite l'ideazione e l'utilizzo di un logo apposito per la durata del contratto e per i successivi 5 anni all'interno del sito web, e di apporre una targaricordo affinché anche in seguito alla fine dei lavori, lo sponsor possa essere riconosciuto

come

finanziatore

dell'intervento”.

Per

determinare

più

precise

disposizioni è stato varato un piano di comunicazione che conferma e chiarisce i benefit già analizzati nel contratto, specificando ulteriori interventi comunicativi quali conferenze stampa di presentazione del progetto, di presentazione del monumento restaurato e di uno spazio rilevante all'interno del sito del Comune fino alla possibilità


di eventuali accordi con l'ente per altre modalità pubblicitarie.

37

A questo punto, è chiaro il tornaconto aziendale per cui è stata intrapresa la sponsorizzazione. Sommando tutte le agevolazioni e la visibilità ottenuta con il restauro, appare chiaramente l'obiettivo dell'azienda. Se Renzo Rosso avesse scelto di non partecipare al restauro ed avesse scelto comunque di provvedere da solo alle medesime tecniche pubblicitarie, avrebbe speso la stessa cifra, se non addirittura superiore, e non ne avrebbe ricavato in visibilità e riconoscenza. Inoltre, attraverso scelte come questa, si giunge all'apposizione del logo su una tipologia non brandizzata, attraverso la targa-ricordo affissa sul ponte. Il medesimo meccanismo della storia, che giunge ai posteri attraverso le opere d'arte, viene adottato dai marchi: ancorandosi al monumento il logo giunge ad avere la stessa durata della storia a cui si aggrappa, guadagnando visibilità quasi eterna al pari dei popoli dell'antichità. Dopo quanto scritto, mi auguro che non ci sia ancora qualcuno che scambi il proprio tornaconto aziendale con l'ultimo barlume di filantropia.

37

http://www.comune.venezia.it/flex/cm/pages/ServeBLOB.php/L/IT/IDPagina/61191. Tutta la documentazione dei contratti è scaricabile in pdf al termine dell'articolo



CAPITOLO 7- NO MEDIa 7.1 L’indipendenza illusoria dei media
 Prima della metà del XIX secolo, i giornali venivano finanziati dai loro lettori e redattori, in quanto non si trattava di ricavarne un profitto, ma di formare un contropotere di fronte all’onnipotenza monarchica. Nel 1836 Émile de Girardin inaugura la pratica che fonda la stampa di massa moderna: introduce degli annunci a pagamento alla fine del giornale allo scopo di diminuirne il prezzo di vendita, quindi di accedere a un numero più ampio di lettori. Questa pratica si è generalizzata, oggi la maggior parte dei giornali dipende per il 50% dalla pubblicità, mentre alcuni vivono esclusivamente di pubblicità, come quei giornali «gratuiti» la cui funzione è esclusivamente di difonderla presso un pubblico più vasto. Ovviamente, i pubblicitari si felicitano per questa «associazione a scopo di lucro» in cui la pubblicità è il «partner dominante », in grado di «imporre il proprio linguaggio» e «parassitare» lo spazio dei giornali, ormai ridotti al ruolo di supporti pubblicitari. La simbiosi è ancora più marcata nelle riviste, trasformate in negozi virtuali che permettono di fare shopping restando seduti; appare incontenibile nelle riviste aziendali distribuite alla clientela; e diventa infine caricaturale nei magalogues, espressione di Naomi Klein derivata dalla fusione dei termini magazine (rivista) e catalogue (catalogo), cui la scrittrice ricorre per definire quelle «fanzines» con cui le grandi marche americane vendono i loro «stili di vita» ai propri «fan». È l’apoteosi di una sinergia industrial-mediatica particolarmente pericolosa per quanto riguarda l’informazione. La convergenza tra pubblicità e informazione è avvenuta mediante un doppio movimento. Da un lato, i pubblicitari mantengono la confusione dei generi imitando lo stile e l’impostazione degli articoli giornalistici. Per lottare contro tale pubblicità clandestina (stretto equivalente della propaganda nera che opera falsificando le fonti), la legge ha imposto che le pubblicità vengano presentate come tali; tuttavia esse continuano a camufarsi nella forma di «dossier pubblicitari», di «supplementi omaggio» ecc. Ma se la pubblicità scimmiotta l’informazione, l’informazione non si tira certo indietro. Alcuni sedicenti «giornalisti» accettano bustarelle per moltiplicare nei loro articoli i riferimenti a quelle marche che vogliono accrescere la propria notorietà; altri praticano il «reportage pubblicitario» o il «giornalismo promozionale»: ibridi linguistici


che oscurano la frontiera tra gli spazi promozionali e quelli redazionali. Il giornalismo diviene così un business come tutti gli altri, tanto che alcune redazioni si rivolgono ai consulenti

di

d’informazione».

marketing

per

Inevitabilmente

determinare la

politica

le

aspettative

viene

dei

considerata

«consumatori come

meno

fondamentale rispetto alle inchieste sul consumo e su altri «temi sociali» trasversali. Siamo entrati nell’era dell’infotainment, l’info-divertimento: l’informazione deve divertire (in inglese entertainment) piuttosto che istruire, tendenze particolarmente marcate nella televisione. Tramite la mediazione dei consulenti pubblicitari, gli inserzionisti organizzano, almeno in parte, i palinsesti della programmazione: più una trasmissione è seguita, più attira pubblicità e quindi denaro; viceversa, le trasmissioni meno adescatrici vengono relegate a orari impossibili. Gli inserzionisti infuenzano anche i contenuti, rifiutando che i loro spot siano abbinati a trasmissioni che suscitano emozioni negative, nel timore che queste ultime facciano impallidire i loro prodotti. Quanto alla carta stampata, gli inserzionisti impongono che gli annunci non siano inseriti in contesti che contengano critiche dirette alla marca o a ciò che le viene associato: il Paese d’origine, quello di produzione, ecc. La pubblicità raforza così il monopolio di fatto che tende ad avere sull’«informazione» in materia di prodotti. In questo caso i protagonisti sono i consulenti pubblicitari (cinghie di trasmissione tra padronato e redazioni) e, ancor più, le agenzie di vendita di spazi pubblicitari. Grazie ai «piani mediatici» (con i quali determinano i veicoli pubblicitari appropriati per raggiungere l’obiettivo prefissato, organizzando poi il bombardamento), sono infatti loro che possono infuenzare e ricattare le redazioni, minacciando di tagliare i viveri. Il loro potere di pressione è ancora più elevato per il fatto che questo settore è estremamente concentrato: in Francia cinque agenzie centrali hanno «il controllo di quattro quinti del volume totale». Poiché la pluralità degli inserzionisti, ritenuta garante della libertà di stampa, è un aspetto in efetti secondario e illusorio, l’argomento classico in favore della pubblicità dev’essere rimesso in discussione. Fieri di ricevere finanziamenti per la loro missione, che è quella di analizzare e criticare in piena autonomia, certi giornalisti rivendicano il legame che li collega alle grandi imprese. «La pubblicità, strombazza il direttore di ‘Le Monde’, è garante dell’indipendenza del giornale». Precisiamolo: di fronte ai poteri politici. Ma tale finanziamento comporta un’altra dipendenza: quella dalle potenze economiche. E se parrebbe logico, nel caso di un giornale finanziato dallo Stato, che il giornalista si trattenesse dallo sputare nel piatto in cui mangia, perché le cose dovrebbero andare


diversamente quando il piatto lo fornisce il capitale?
Circa mezzo secolo fa, il fondatore di «Le Monde» faceva questa dichiarazione: «Mi sembra pericoloso che la vita del giornale sia assicurata per una porzione eccessiva dalla pubblicità, perché ciò lo pone alla mercé di un ricatto». Il finanziamento da parte dei soli lettori è infatti l’unica garanzia di una completa indipendenza redazionale. È appunto per questa ragione che un giornale come «Le Canard enchaîné» rifiuta la manna pubblicitaria; non meraviglia dunque che sia il solo giornale che informa il pubblico sull’infuenza nociva di quest’ultima all’interno dei media. La giornalista Florence Amalou spiega bene come la pubblicità possa diventare un mezzo di pressione, o meglio di repressione, nelle mani degli inserzionisti intenzionati a infuenzare una linea editoriale: rappresaglie pubblicitarie (campagne annullate in seguito ad articoli troppo critici), boicottaggio dei nuovi titoli che si smarcano dal «pensiero unico» al servizio del padronato, giornalisti licenziati o messi alle corde dalle agenzie pubblicitarie, «limatura» o mutilazione dei loro articoli, che possono anche essere corretti o direttamente cestinati. Altre tecniche sono più dolci e sornione: richiami di tipo amicale, intimidazioni, connivenze, relazioni privilegiate con i vertici. Insieme al bastone, quelli che vogliono crearsi un «terreno mediatico favorevole » sanno anche agitare la carota della «lubrificazione pubblicitaria»; una volta interiorizzate, queste pressioni portano a un’autocensura che gli stessi giornalisti non negano. Ovviamente queste pratiche sono possibili solo da parte dei grandi inserzionisti, cosa che mette fortemente in discussione l’affidabilità dell’informazione che li concerne. E quanto più la stampa permane in una posizione di fragilità finanziaria, tanto più la pubblicità può comprarne il silenzio e la compiacenza. Più un inserzionista fa pubblicità, più le redazioni gli accordano un trattamento di favore. La dipendenza della maggior parte dei giornali nei confronti degli inserzionisti è ancora più problematica per il fatto che sono le marche, e non i politici, a essere oggi giuridicamente intoccabili. Le grandi imprese sono infatti le potenze politiche più nocive in assoluto, nel senso che sono loro a trasformare il mondo. Le decisioni che modificano o rischiano di modificare in profondità la vita quotidiana (OGM, nanotecnologie, ecosostenibilità, ecc.) non vengono prese in seno ad assemblee nazionali, ma a monte, vale a dire nei consigli di amministrazione e nei laboratori tecnico-scientifici; le istanze politiche tradizionali avranno tutt’al più il compito di far ingoiare la pillola.


Beninteso, ci sono notevoli diferenze tra i media e perciò diversi gradi di vassallaggio, ma guardiamoci bene dal credere che la pubblicità sopraggiunga a pervertirli dall’esterno. L’interconnessione è totale: i media hanno bisogno della manna pubblicitaria, quest’ultima ha bisogno del canale mediatico per rivolgersi alle masse. Ma soprattutto c’è una profonda analogia nel loro modo, pur problematico, di trasmettere i propri messaggi a masse di destinatari anonimi e atomizzati. E in efetti, più siamo connessi ai media in modo verticale e impersonale, meno siamo legati tra noi in modo orizzontale e personale. Un’atomizzazione che accresce la nostra dipendenza e la nostra vulnerabilità nei confronti dei mass media, che sono di fatto a doppio taglio: più costituiscono formidabili mezzi d’informazione «democratica» (accessibili a una larga audience), più favoriscono la concentrazione oligarchica della parola pubblica, conferendo un immenso potere di disinformazione a coloro che la detengono. Ofrendo «pane e giochi circensi», gli imperi mediatico-industriali minacciano la democrazia: la situazione dell’Italia berlusconiana di pochi anni fa non fa altro che manifestare in modo particolarmente acuto la norma che predomina ovunque. Il verme è nella mela. Se la pubblicità dirotta l’informazione, bisogna anche capire, come ci invita a fare Christopher Lasch, le insufficienze dell’informazione stessa:
Ciò che la democrazia esige, è un dibattito pubblico vigoroso, non informazione. Certo, essa ha anche bisogno di informazione, ma il tipo di informazione di cui ha bisogno può essere prodotto solo attraverso il dibattito. Non sappiamo quali cose abbiamo bisogno di sapere finché non abbiamo posto le domande giuste. Quando ci impegniamo in discussioni che catturano interamente la nostra attenzione e la focalizzano, ci trasformiamo in avidi ricercatori d’informazione

pertinente.

Altrimenti

assorbiamo

passivamente

l’informazione,

ammesso che lo facciamo. Era ora che la pubblicità provocasse una reazione proporzionata alla ripugnanza che ispira a molti di noi: la pubblicità è in sé infame, è propaganda industriale che si spaccia per informazione e talvolta passa per tale. È infame per ciò che promuove: lo sfruttamento del Sud del mondo, la diversificazione in classi sociali, il narcisismo delle apparenze, il disprezzo della diferenza e del passato non abbastanza cool. È infame soprattutto perché è un potente motore di quel consumismo e di quel produttivismo sfruttatore che sono all’origine del saccheggio della natura,dei valori e delle società, al quale contribuisce in misura ancora maggiore mascherando la devastazione del mondo che ne consegue e che, malgrado tutto, salta agli occhi. Non ci si può che rallegrare del lavoro di tutte quelle associazioni che si sforzano di


sensibilizzare la popolazione su questa peculiare nocività e che lottano compatte contro il suo imperialismo. Ma questa battaglia resta troppo spesso parziale; condotta per vie legali e giuridiche, essa è simile a quella di Sisifo contro il suo masso, che rotola sempre giù dal pendio. Non ci si può limitare a criticare la pubblicità, come ha ben capito l’associazione Casseurs de pub che, traendo le dovute conseguenze dalla sua attività iniziale,

pubblica un giornale intitolato « La Décroissance » ( La

Decrescita ). La pubblicità è in efetti intrinseca all’organizzazione della vita di cui tutti facciamo parte e che bene o male sopportiamo: essa ne è quindi inscindibile, in tutte le sue dimensioni. Criticare la pubblicità senza criticare questa organizzazione e senza voler uscire dalla trappola della crescita è contraddittorio.
La pubblicità è una componente a pieno titolo di quella produzione industriale su cui poggia il nostro laborioso comfort. È indissolubilmente legata alla divisione del lavoro, alla concentrazione economica, al ruolo del denaro nella nostra società; in breve, al fatto cruciale che noi affidiamo alle grandi imprese, dietro pagamento, il diritto di occuparsi della nostra vita al nostro posto. Non ci si può dunque accontentare di rompere la vetrina pubblicitaria, perché dietro di essa c’è il potere ideologico e pratico che esercitano le grandi marche sul nostro quotidiano, ed è questo che va messo sotto accusa. Non bisogna aspettarsi nulla dalle marche, soprattutto quando, come sottolinea Stuart Ewen, recuperano le critiche per darsi un’immagine di «imprese responsabili» che s’ingegnano per mettere una spruzzata di etica sulle loro etichette, o per passare una mano di pittura verde sulle lamiere ondulate delle loro fabbriche: La cultura di massa ci interpella nella stessa lingua della nostra critica, invalidandola giacché propone le soluzioni della grande impresa ai problemi della grande impresa. Finché non ci confronteremo con l’infiltrazione del sistema mercantile fin nei più reconditi meandri dell’esistenza, lo stesso cambiamento sociale resterà un prodotto della propaganda delle marche. Abbiamo assistito ai primi passi di una politica della vita quotidiana; ma questa politica è subito divenuta un pupazzo nelle mani della controparte. Bisogna restare vigili e rigettare ogni forma di progresso sostenuta dalle marche. Questo aumento di pressione deriva in parte dall'esplosione di prodotti mediatici sponsorizzati: riviste, siti web e programmi televisivi che invitano aziende sponsor a farsi coinvolgere nella fase di sviluppo di vere e proprie joint venture.


7.1.1 Il caso pratico: Nike e la giornalista Baskin 38 Uno dei primi scandali riguardanti la commistione tra pubblicità ed informazione può essere individuato nella vicenda che ha come protagonisti la rete televisiva Cbs e lo sponsor Nike ai giochi olimpici invernali di Nagano (Giappone) del 1998. La giornalista televisiva della rete Roberta Baskin notò che i suoi colleghi della redazione sportiva commentavano i giochi indossando giacche dal vistoso logo Nike. La multinazionale sponsor ufficiale dei servizi della rete alle Olimpiadi, forniva il suo equipaggiamento grifato a speaker e cronisti sportivi, i quali sembravano sostenere i suoi prodotti al pari di uno spot televisivo. La giornalista rimase “costernata e imbarazzata” dai colleghi, non solo per il loro atteggiamento promozionale quanto per ciò che esso rappresentava: un'ulteriore dissoluzione della demarcazione tra giornalismo e pubblicità; ed anche perché due anni prima la stessa Baskin aveva reso pubblica una situazione di sfruttamento dei lavoratori in una fabbrica di scarpe Nike in Vietnam. La giornalista accusò l'emittente televisiva di averle impedito di proseguire l'inchiesta e di aver cancellato la replica già in programma del suo servizio a causa del contratto tra Cbs e Nike. Andrew Hayward, presidente della Cbs News, negò ad oltranza di essersi chinato alle pressioni dello sponsor definendo “davvero assurde” le accuse della reporter; ma nel frattempo, fece sparire le giacche della discordia dai giornalisti durante i giochi. Per certi versi questi episodi non sono che versioni amplificate del solito vecchio tiro alla fune tra giornalismo e pubblicità di cui i giornalisti hanno esperienza da più di cento anni. Tuttavia se l'episodio della Baskin avvenne nel 1998, questo non può che farci comprendere che il fenomeno non si è arrestato, anzi è dilagato, inondando tutti i campi mediali. Oggi le aziende non si limitano a chiedere agli editori di diventare vere e proprie agenzie pubblicitarie di fatto, promuovendo prodotti in articoli e servizi fotografici; vorrebbero addirittura che lavorassero per loro aiutandoli ad ideare e progettare le pubblicità da inserire nelle loro riviste. Sempre più redazioni si stanno trasformando in istituti di ricerca di mercato, rendendo i lettori dei focus group, nel tentativo di ofrire ai committenti il “valore aggiunto” da loro più apprezzato: informazione demografica altamente dettagliata circa i propri lettori, accumulata attraverso indagini, questionari e sondaggi; fornendo alle riviste le informazioni sulle tipologie di lettori, per creare annunci pubblicitari fortemente mirati a seconda delle imprese inserzioniste e ridurre al minimo i rischi di fop. 38

KLEIN N. ibidem


7.2 il Web, da strumento per il potere dal basso alla trasformazione in “Quarto Potere” aziendale Per comprendere da dove nasce questo tipo di ambizione del marchio, bisogna cercare on line, dove non c'è davvero mai stata alcuna pretesa di divisione tra giornalismo e pubblicità. In rete, il linguaggio del marketing ha raggiunto il suo nirvana: la pubblicità libera dalla pubblicità. Ogni marchio con il proprio sito web possiede il proprio media virtuale, da cui espandersi in altri media non virtuali. Le aziende non vendono on line solo i propri prodotti, ma anche un nuovo tipo di rapporto fra i mezzi di comunicazione e le imprese che finanziano e sponsorizzano. In virtù della sua struttura anarchica, Internet ha creato lo spazio per la rapida realizzazione di questo modello, ma i risultati sono chiaramente concepiti per essere esportati al di fuori della Rete. Il fenomeno che più rispecchia questa evoluzione è quello dei fashion blog: costruiti sull'esempio del pioneristico “The Sartorialist”, milioni di giovani aprono blog inerenti al campo della moda. Di primo acchitto, questa blog-mania sembrerebbe rispecchiare la democrazia mediatica intrinseca nel concetto di Rete, in realtà, il blogging è adulto: fa marchette come il giornalismo e farà la sua stessa fine, perdita di credibilità e di inserzionisti; nonostante l'ingenuità dei lettori ancora non allenati a riconoscere le sponsorizzazioni all'interno dei look che sognano. Per analizzare in maniera più approfondita l'argomento, prendiamo ad esempio il caso della fashion blogger pià seguita d'Italia: Chiara Ferragni. 7.2.1 Il caso pratico: The Blonde Salad Il blogger, da strumento di democratizzazione, da simbolo di potere ed informazione dal basso, e metodo di ribalta per lo street stile non è più quello degli albori. Si è ormai trasformato in economico strumento di difusione dei prodotti moda da parte dei brand. Per un'azienda è più semplice e meno dispendioso sfruttare la visibilità di questi personaggi

fashion,

piuttosto

che

progettare

una

multimiliardaria

campagna

promozionale ed organizzare presentazioni standing in showroom e sfilate per i giornalisti, dal momento che può essere sufficiente regalare un paio di borse e capi alle fashion blogger più infuenti per far arrivare su tutti i pc le immagini del proprio prodotto, e ricevere i like e la venerazione da parte delle blogger più “cliccate” che esprimono la loro riconoscenza per il regalo ricevuto; proprio come avviene nell'Italia corrotta delle elezioni, con la compravendita dei voti, il mondo della moda di internet


si “svende”. Come chiarisce Manuela Rondi nel suo articolo su LINKIESTA:“La sensazione che si avverte è che una specie di “grandefratellismo” abbia invaso il mondo della moda:chiunque ne sa qualcosa, e deve a tutti i costi comunicarlo” 39. E' questo ciò che avviene sulle pagine di “The Blonde Salad”: non ci sono articoli giornalistici o reportage sugli eventi moda, non c'è informazione o comunicazione giornalistica ma solo una sfilza di borse firmate, secondo i più malpensanti addirittura a volte taroccate, in bella vista oltre alla protagonista Chiara Ferragni, nelle foto; non c'è esaltazione e scoperta di nuovi stili, nuove tendenze metropolitane, ma solo un'infinito lookbook personale, privo di descrizione degli outfit, dei tessuti, delle tecnologie innovative utilizzate per la realizzazione, non c'è l'ispirazione dello stilista. Un mero elenco dei marchi indossati dalla “Barbie girl” è il risultato. Questo blog non rappresenta che l'ultima frontiera del branding: la pubblicità priva anche del peso fisico di se stessa, la pubblicità occulta, forse malcelata. Ma, a tutelare il consumatore non c'è neanche l'ordine dei giornalisti o le associazioni dei consumatori dal momento in cui il blog può essere ritenuto personale e non imputabile di commistione o pubblicità occulta, anche se più cliccato e visitato delle versioni on line delle maggiori testate giornalistiche. E' come se lo stesso consumatore avesse spianato la strada ai marchi, un invito del cliente all'invasione pubblicitaria, regalando ai marchi anche gli ultimi spazi non logati, in un'ottica di autofagellazione inconsapevole. Infatti, la Ferragni non si limita neanche ad evitare le forme più palesi di promozione, come accadde in occasione del lancio di una linea da lei “disegnata” per il marchio Yamamay, di cui non ci risparmia il catalogo, postandolo tra le foto. Ma seguaci e hater si chiedono anche quanto riesca a guadagnare Chiara. La blogger ha dichiarato in un intervista che “per ospitare un banner pubblicitario siano necessari anche 3000 €”, ma ha poi puntualizzato “non mi piace dire quanto spendo, né tantomeno quanto guadagno in un mese”. In conclusione, se parlare di profitti è “cafone”, non lo è nel momento in cui l'azienda TBS Crew, da lei fondata insieme all'onnipresente fidanzato Riccardo Pozzoli, pubblica un annuncio relativo alle ricerca di uno stagista per il blog, ma, senza retribuzione, come ben insegnano le aziende di moda. Sul mondo delle fashion blogger ne ha parlato anche la nostra Anna Wintour all’italiana, la direttrice di Vogue Italia Franca Sozzani, con un articolo particolarmente duro nei confronti di coloro che si fanno chiamare Fashion Bloggers. La direttrice 39

Manuela Rondi - “Ferragni: ascesa e declino (?) di una fashion blogger”- sito LINKIESTA , link:


scrive il pensiero di Vogue sull'argomento, frasi come “Non hanno punti di vista, ma parlano solo di se stesse/i e si fotografano con abiti assurdi. Qual è il senso? Intanto io non so neanche chi siano, a parte qualcuno/a, perché sono tanti e tutti uguali, e così presi nel cambiare vestito per farsi notare, che automaticamente ai miei occhi diventano un gruppo e non delle singole persone“ dimostrano il suo disinteresse al fenomeno, da lei considerato come una moda passeggera. La Sozzani nel suo articolo è molto salda sull'argomento, ma allo stesso tempo considera il fatto che tra queste persone, apparentemente tutte uguali, si potrebbe celare un interesse, forse non guardando solo alla moda e agli scatti a volte bizzarri dei blogger (che ella definisce come un epidemia), ma valutando come le infuenze di queste persone possano essere anche di grande interesse per la moda, i designer e perché no, anche per i giornalisti. Questa premessa vuole focalizzarsi sul fatto che probabilmente, tra i blogs del mondo, ci sono si tante piccole Ferragni, ma anche tante persone capaci di dare giudizi infuenti e non semplici pose fotografiche, persone che hanno davvero stile e creatività. Ma tornando a lei, la regina delle fashion bloggers, Chiara Ferragni, su di lei grossi dubbi sorgono in fatto di originalità e soprattutto, individualità. Molte sono le persone dubitose del fatto che dietro “The Blonde Salad” si celi una sola persona, tante sono le teorie di marketing dietro questo spazio virtuale che ogni giorno emergono e vengono contestate. Si parlava della stessa macchina, la Fiat 500 (che la Ferragni spesso ha mostrato tra video e foto nel suo spazio virtuale) possibile regalo della FIAT alla Fashion Blogger in cambio di una pubblicità di notevole infuenza, visti i click giornalieri allo stesso Blog. Ora nuove presunte polemiche sulla campagna Silvian Heach di cui Chiara è testimonial; pare che i fans non abbiano gradito le foto sul blog, perché peccano di individualità e inserite a parer degli utenti, esclusivamente per contratto. L’ultima questione è quella che riguarda l’invito alla Blogger ad un evento Dolce&Gabbana, in cui avrebbe chiesto di avere in cambio la borsa Miss Sicily in edizione limitata, aggiungendo che non sarebbe stata contenta di un eventuale rifiuto da parte della Maison. Nonostante i suoi capricci, Stefano Gabbana e Domenico Dolce non hanno accolto il suo compromesso e per di più, hanno mostrato indiferenza ad averla anche in futuro come ospite durante i loro eventi.Pare che inizino a smontarsi alcuni miti e alcune basi della ragazza sicura di sé che appare soddisfatta e sorridente


sulle foto, ma in realtà, come è normale che sia, spesso attraverso le piattaforme virtuali riusciamo a costruire vite parallele e mondi che non ci appartengono, cosi facili da costruire, come facili da distruggere, forse è a questo che Franca Sozzani si riferisce dicendo che le bloggers “Non fanno grandi danni perché la maggior parte vive la vita di una falena…Una sola notte”.40 Ciò che resta da chiedersi a questo punto è: il talento in queste vicende dov'è? Dov'è la laurea in design, il sudore dello studio, il background culturale, la gavetta della futura stylist, fotografa, giornalista o scrittrice di moda? E' tutta una presa in giro, non da parte della sola Ferragni, ma dall'intero sistema della moda e dei media italiani che la corteggiano ed hanno espresso pareri positivi riguardo alla suddetta Barbiegirl, il cui unico obiettivo di vita pare potersi permettere il cuoricino di Tifany & Co. o l'ultimo paio di Laboutin, dal costo pari a quello della retta universitaria di uno studente di moda o degli stipendi che i pochi laureati occupati ricevono al mese. Da ciò si può facilmente dedurre una delle cause della fuga di cervelli che sta avvenendo in Italia: i giovani preparati non potranno mai trovare i loro spazi e opportunità se al loro posto si trovano quelli che tramite il denaro ottengono visibilità e riconoscimento, seguendo la linea stravolta della meritocrazia italiana. In “The Blonde Salad” non c'è cultura, non c'è conoscenza di ciò che si pubblica, non c'è storia del costume ma solo autocelebrazione narcisistica e “marchiocelebrazione”. Ma c'è un merito da assegnare all'equipe che svolge il vero lavoro del blog: il targeting. Coloro che seguono sono principalmente giovani dai 13 ai 18 anni: a diferenza delle campagne pubblicitarie, il blog fa leva sui compratori del futuro, crea la loro forma mentis, il loro background di marchi, garantendone un futuro prospero; crea il nuovo sogno, più vicino delle modelle degli spot, ma pur sempre irraggiungibili agli occhi di chi riceve il messaggio, continuando così l'opera di colonizzazione mentale intrapresa dai brand.

7.2.2 Il potere del visual content al servizio dei marchi di moda Instagram è l’applicazione di photo-sharing del momento: la magia di scattare una foto, ritoccarla con un filtro dal sapore rétro e condividerla con il proprio network online è alla base del suo successo, che conta oggi 15 milioni utenti e ad acquisisce sempre maggiore visibilità anche grazie all’integrazione nella timeline di Facebook. Uno strumento di pubblicazione e condivisione di immagini immediato e di forte impatto, che si inserisce pienamente nel trend “visual content is king”:Pinterest, Pose e 40

SOZZANI F., fashion blogger: un fenomeno o un'epidemia?, Vogue.it, 28 Gennaio 2011


altre piattaforme photo-based ci insegnano che l’asset visivo è un’efficace leva di marketing, capace di raggiungere gli utenti, amplificare la brand experience, comunicare i valori del marchio e il modello di lifestyle che incarna. I fashion brands lo sanno, e fanno di Instagram un alleato delle loro strategie di comunicazione. Tag, geolocalizzazione e condivisione sui principali social media si aggiungono all’efetto vintage delle immagini per accogliere l’utente nel reame del marchio e creare campagne di comunicazione coinvolgenti, di portata globale, che uniscono social sharing, marketing geolocalizzato e gamification. Come nel caso di Levi’s, primo marchio di moda a proporre un model casting via mobile: semplicemente scattando la propria foto ed aggiungendo l’hashtag#IamLevis. Il casting globale 2012 ha trasformato Instagram in uno strumento di crowd-sourcing che all’emozionalità di foto e collages dal tocco fashion ha unito la possibilità per gli utenti worldwide di diventare star per un giorno. Mix di gamification e promozione, invece, per la campagna Kiss-a-Gram di Aldo, realizzata per lanciare la linea di fragranze A is for Aldo del brand americano di footwear e accessori. Un esempio di comunicazione interattiva, curatissima, capace di creare un forte engagement presso gli insta-followers: posta una foto in tema love, condividila con il tuo network e potrai vincere un buono sconto di 100 dollari sulla collezione. Questa volta la campagna Instagram si integra con un minisito di prodotto, permettendo la partecipazione anche a chi non possiede l’app.41 Questa applicazione può essere ampiamente sfruttata dai brand soprattutto grazie agli utenti ed alla loro brand dipendenza, un po' come avviene per i blig, l'utente è completamente libero di postare e condividere sia le pubblicità delle stesse aziende sia le foto private spesso “sponsoreggianti”. Il cigno nero dell'advertising si rivela in tutte le sue forme.

41

Martina Gamalero- www.agendaweek.it- “Instagram: oltre la foto c'è di più”



CAPITOLO 8- NO HERo

La discussione sulle sponsorizzazioni non può tralasciare uno dei suoi principali componenti

intrinsechi:

la

creazione

di

“miti”

sportivi,

musicali,

artistici,

cinematografici e televisivi o al contrario la creazione di brand identity attraverso le personalità di “eroi” già afermati. Il campo in cui siamo maggiormente abituati ad imbatterci in situazioni di questo tipo è sicuramente l'ambito sportivo; dai loghi sulle maglie delle squadre di calcio e basket, agli stadi creati ad hoc per lo sponsor

42

fino alla progettazione a tavolino di personaggi

leggendari a cui collegare il marchio in automatismo. Questa e-voluzione (o involuzione) della pratica della sponsorizzazione fonda le sue radici negli anni '80, e più precisamente identifica come pionieri aziende come la Nike e personaggi del calibro di Micheal Jordan. La multinazionale di Portland nell'85 riuscì a mettere le scarpe ai piedi di un giovane cestista appena uscito dal college, tale Michael Jordan, destinato a diventare di lì a poco il giocatore più forte di tutti i tempi. Il modello "Air Jordan" (rosso e nero, subito proibito dalla Nba che calzava solo il bianco) andò immediatamente a ruba, anche perché la società dell'Oregon decise di lanciarlo con una campagna capace di bucare lo schermo: lo spot di Jordan che vola verso il canestro per schiacciarvi il pallone rimanendo in aria per 10 secondi colpì l'immaginazione anche di chi non aveva mai visto una partita di basket, facendo di scarpe, atleta, colori e logo un geniale video musicale. Quella di Jordan fu solo la prima delle grandi campagne promozionali per la tv con cui la Nike si trasformò in un'organizzazione di marketing, in grado di usare come testimonial del proprio marchio e del proprio stile gli atleti migliori di ogni sport. Nella seconda metà degli anni '80 il logo Nike diventò sinonimo di tutto ciò che era glamour, giovane e sportivo, esercitando un fascino ed un'attrazione paragonabili a quelli delle automobili nei decenni precedenti: nei ghetti poveri si sparava per un paio di "Air Jordan", neanche fossero piene di crack. Nell'88 prese il via il tormentone del "just do it" ("fallo"), il nuovo slogan destinato ad accompagnare per il decennio successivo tutti i prodotti Nike: qualunque cosa la gente volesse fare, Knight e compagni avevano pronto il giusto paio di scarpe. Bastava 42

Ad esempio le proposte della Nike per lo Juventus Stadium


soltanto farlo. La Nike aveva già perso a quel punto l'originaria venatura anticonformista e, con l'inizio degli anni '90, il passaggio da Davide a Golia era completato: nel '92, alle Olimpiadi di Barcellona, Michael Jordan ed altri componenti del Dream Team americano sponsorizzati dalla Nike annunciarono di non esser disposti a salire sul podio per ritirare la medaglia d'oro con le tute della Reebok (sponsor della nazionale Usa); alla fine accettarono di farsi premiare con i marchi ben coperti e Jordan (che lealtà) salì sul podio completamente avvolto nella bandiera a stelle e strisce. Gli utili sono arrivati a più di 7 miliardi di dollari l'anno, ma non sono riusciti ad allontanare le numerose ombre che hanno ofuscato il marchio e la percezione della Nike: persino i 39 membri del culto Heaven's Gate, che nel marzo '97 si suicidarono per intraprendere un viaggio spaziale verso la cometa di Hale-Boop, avevano tutti quanti pronto, insieme ad una banconota da 5 dollari, un paio di Nike nere nuove di zecca. Ma l'inganno delle sponsorizzazioni sportive è ormai saltato agli occhi di tutti, anche di coloro che sembrano essere afetti da “miopia da logo”, di conseguenza, le azioni promozionali svolte in ambito sportivo, anche se continuano ad esercitare un certo fascino, non costituiscono la variante più preoccupante della “formazione del background di loghi” per il pubblico contemporaneo. Al contrario, il settore musicale sembra spodestare dal trono il mito dell'atleta, con un'altra figura altrettanto afascinante e autorevole nella formazione delle coscienze commerciali dei giovani: il rapper. Ormai preferito all'atleta, l'artista hip hop lo supera in quanto detentore di un ulteriore potere: quello della parola, attraverso i suoi testi, ma anche per la mancanza di vincoli legati all'abbigliamento tecnico rispetto agli sportivi, quindi più duttile in ambito pubblicitario di uno sportivo. Se agli albori degli anni '80-'90 era il rapper ad inseguire il marchio, anche a costo di spacciare per le strade di Brooklyn pur di permettersi un paio di Air Jordan, nell'ultimo decennio il processo è diametralmente inverso. L'abbigliamento hip hop incarna alla perfezione le tendenze degli ultimi anni in ambito di streetwear, riuscendo addirittura ad infuenzare i grandi marchi dell'alta moda più conservatori(ad esempio Chanel), legandosi a marchi quali Vans, Nike SB (skateboard), OBEY, Supreme, Stussy, Adidas, Supra, Circa, DC, RDS e Emericas. Ma, il simbolo del ghetto afroamericano ha ormai cambiato residenza,entrando a far parte del “popolo di Seattle”43: dalle sponsorizzazioni dei tour da parte di marchi che in contemporanea 43

Definizione utilizzata per descrivere i no global


sfruttano le popolazioni africane da cui gli afroamericani hanno origine,dall'istigazione alla violenza all'abbigliamento “gangsta”, alla creazione di linee di abbigliamento firmate dai rapper che non rispettano le norme sulla certificazione delle pelliccie, fino all'ultimo step, la creazione dell'idolo e dei loghi ad egli connesso con una tempistica e priorità diverse. Per ciò che concerne la tematica della violenza, essa è spesso uno strascico della vita precedentemente disagiata dell'artista, ed anche se componente negativa, costituisce un background culturale rilevante, che non deve, però, divenire simbolo di forza e caratteristica di attrazione per il consumatore. Un caso emblematico in tal senso può essere rappresentato dalla richiesta avanzata dalla signora Lucy Cope di Londra, fondatrice del movimento Mother Against Guns, che ha chiesto il boicottaggio dei prodotti della Reebok dopo aver visto in TV uno spot dell'azienda di articoli sportivi con 50 Cent nei panni del protagonista. La Cope, il cui figlio Damian di 22 anni morì nel 2002 a causa di un colpo d'arma da fuoco, ha sporto un reclamo ufficiale all'ente britannico che vigila sui contenuti delle pubblicità, l'Advertising Standards Authority. L'ASA ha ricevuto, oltre a quello della donna, un'altra quarantina di reclami sullo spot in oggetto. La Reebok si è immediatamente difesa afermando che il messaggio veicolato nello spot è "positivo" e che "l'azienda è in prima fila da quasi vent'anni nella lotta per i diritti umani". La Cope tuttavia ha dichiarato che lo spot, della serie "I am what I am", è "disgustoso" perché "rende glamour la violenza". Ed ha aggiunto: "Mio fglio è morto per un proiettile, 50 Cent è molto fortunato ad essere stato colpito nove volte ed essere sopravvissuto. Dico che tutti i genitori dovrebbero boicottare la Reebok fno a quando non ritirerà lo spot". Questo esempio estremo racchiude in sé un concetto più ampio: coloro che innalziamo ad eroi per il testo di una canzone o il suo ritmo, non devono divenire personalità da seguire ed esaltare per la loro condotta, ma esclusivamente in quanto artisti. Purtroppo, i grandi marchi ed i pubblicitari sono a conoscenza dell'enorme fascino che questi personaggi possono esercitare attraverso il loro comportamento, e , seguendo l'insegnamento machiavellico “il fine giustifica i mezzi”, non si preoccupano, anzi tentano di ridimensionare ed occultare le conseguenze che l'esaltazione dei comportamenti violenti comporta nella formazione degli adolescenti. 8.1 L'hip hop: dal Bling Bling alla creazione di artisti-marchio A partire dagli anni '90, molti artisti hip hop hanno iniziato la creazione di propri


marchi di moda e linee di abbigliamento: Wu-Tang Clan (Wu-Wear), Nelly (Vokal e Apple Bottom Jeans), Russell Simmons (Phat Fattoria),Kimora Lee Simmons (Baby Phat), Diddy (Sean John e Enyce), TI (Akoo),Damon Dash e Jay-Z (Rocawear), 50 Cent (G-Unit Clothing), Eminem (Shady limited), 2Pac (Makaveli Branded), OutKast (OutKast Clothing) e Lil Wayne (Trukfit) e le infinite t-shirt e sneakers lanciate in concomitanza con l'uscita degli album (Salmo, Uzi Junkana, Twofingerz, Nex Cassel, Mr Phil, Abas, Noyz Narcos, Duke Montana ecc.) 44. La maggior parte di questi artisti che si cimentano nel campo della moda non sono designer che, avendo messo da parte un talento e/o passione per inseguire il sogno della musica, si cimentano nella creazione di una linea di abbigliamento, ma una pura copertura per una pubblicità a tutto campo per il marchio, una sorta di prestanome simbolo di garanzia di successo. Non è l'artista a creare le linee, presta solo il suo nome, è il marchio che sceglie, provando a non distaccarsi troppo dalla personalità dell'artista, spesso senza riuscirci e rivelando palesemente la falsità del progetto. Ciò è avvenuto già per Wiz Khalifa con la proposta del lancio di una nuova linea di Converse, l'e-commerce del suo merchandising e Big Sean con il lancio della sua collezione “Finally famous” .A livello italiano il fenomeno si rintraccia nella partnership tra i Club Dogo e Puma per il restyling delle Puma Suede, in cui non si riscontra nessun legame con lo stile del gruppo rap, il nesso tra le due parti è sintetizzato nella presenza nei lacci dei nomi dei componenti e nello stemma del gruppo, senza caratteristiche stilistiche hip hop, essendo il modello precedente alla stessa nascita della cultura rap (modello del 1968).45 Ma il capitolo dedicato agli eroi sponsorizzati e privi di etica non può bypassare una figura chiave dell'hip hop: Jay-Z. Di Shawn Corey Carter, in arte Jay-Z, è difficile elencare i primati. Basterà indicarne un paio: undici album numero uno nella classifica Billboard 200 e il titolo di miglior MC di tutti i tempi nella classifica di MTV. L’attuale album Watch the throne, in combutta con il più giovane Kanye West, è l’ultimo capitolo di una sfolgorante carriera che esemplifica a perfezione il sogno (afro)americano. Nato in una parte diseredata di Brooklyn, la sua è stata l’adolescenza di moltissimi giovani neri: cresciuto senza un padre, ben presto ricorre allo spaccio di crack per vivere. La musica lo avrebbe ben presto deviato da una traiettoria di malavita. Egli fonda assieme ad altri la Roc-a-Fella (assonanza tra il nome della famiglia Rockfeller e “rock a fellow”), casa discografica che avrebbe cambiato la faccia del rap. Ma Jay-Z è 44 45

http://www.hiphoprec.com/lifestyle-hip-hop/abbigliamento-hip-hop ibidem


protagonista di questa analisi soprattutto per la linea di abbigliamento da lui creata: la Rocawear. Proprio il suo marchio di abbigliamento è stato accusato di pubblicità non corretta per una giacca della collezione invernale 2011, avendo catalogato la pelliccia come sintetica, quando, in realtà, il capo conteneva pelliccia di un piccolo cane indigeno della Cina. La Humane Society degli Stati Uniti, che ha acquistato una delle giacche dal sito Web Rocawear, lo ha inviato a un laboratorio d'analisi per determinare se l'afermazione fosse vera. I risultati del test hanno dimostrato che la giacca in realtà conteneva pelliccia di cane procione, un piccolo furetto di origine asiatica. 46 Anche Sean "Diddy" Combs si è trovato a dover giustificare sempre con la Humane Society per l'utilizzo della stessa pelliccia di cane procione in una delle sue giacche di Sean John. Dopo la notizia, Diddy ha rilasciato pubbliche scuse, ed i grandi magazzini Macy hanno rimosso le giacche dai loro scafali. La stessa associazione sta facendo pressioni al Governo Statunitense per vietare l'importazione di tutte le pellicce di cane procione negli USA. Alla

sponsorizzazione

di

cantanti

che

hanno

già

raggiunto

il

successo

indipendentemente dal brand rappresentato, si preferisce ormai optare per una nuova pratica, sulla scia dell'esempio già attuato nello sport 47: una sorta di “investimento umano”. La svolta consiste nella creazione di un personaggio che rispecchi tutti i valori e soprattutto lo stile che il brand deve rappresentare, costruito, quasi fosse un personaggio dei cartoni animati, a tavolino, prima di procedere al suo inserimento nel settore musicale vero e proprio. Rappresentazioni di questo “branding della persona” possono essere considerate Lady Gaga o Rihanna, ma per rimanere nell'ambito dell'hip hop la nuova creazione grifata può essere considerata senza dubbio A$Ap Rocky. Questo 2013 sembra essere il suo momento d'oro: dopo il successo del primo album, ha conquistato copertine importanti come quella di GQ del Marzo 2013 e varie presenze televisive. L'ultima è quella del nuovo spot dell'Adidas per la campagna #QuickAintFair in cui con la dentatura dorata in primo piano racconta-canta la storia delle nuove scarpe da basket assieme alle giovani stelle dell' NBA.

48

Ma la nuova stella del rap

non si accontenta di essere il testimonial numero 1 dell'azienda sportiva tedesca, non si limita ad indossare le scarpe di Jeremy Scott (linea Adidas), ma inserisce i marchi che rispecchiano il suo lifestyle anche all'interno delle liriche, come avviene in “Out of This 46 47

48

http://www.xxlmag.com/xxl-magazine/2007/01/rocawear-accused-of-using-real-animal-fur-on La storia del tentativo fallito della Nike con due atleti keniani sponsorizzati per divenire campioni di sci (KLEIN N. ibidem) http://www.hiphoprec.com/lifestyle-hip-hop/abbigliamento-hip-hop/8899-a-ap-rocky-nel-nuovo-spot-delladidas.html


World”49, brano in cui nomina il medesimo designer, insieme a Bating Ape, Maison Martin Margiela e Gucci.

Anche alcuni artisti, sia all'interno che all'esterno della comunità hip-hop, hanno criticato il costo di molti dei corredi della moda hip hop: Chuck D dei Public Enemy ha riassunto la mentalità della moda hip hop di alcuni giovani con basso reddito come "Amico, io lavoro a McDonald, ma stare bene con me stesso ho avuto modo di ottenere una catena d'oro o ho avuto modo di avere una macchina, al fne di impressionare una sorella o qualsiasi altra cosa".Nella sua canzone del 1992 "Noi", Ice Cube decretò: "siamo negri, canteremo sempre il blues / perché 'il nostro mestiere è fare acconciature e indossare scarpe da tennis". Alcuni fan hanno espresso disappunto nei confronti dell'estenuante bombardamento pubblicitario di articoli costosi in riviste hiphop. In una lettera al direttore della rivista Source, un lettore ha scritto che la rivista dovrebbe "provare a mostrare alcune marche meno costose così da non creare trambusto, furti o spaccio solo per potersi permettere un cappello ". Infatti, sono molto frequenti i furti di articoli super-reclamizzati da artisti hip-hop: Guru dei Gang Starr è stato derubato del suo orologio Rolex a mano armata, a Queen Latifah è stata rubata l'auto, e Prodigy è stato derubato a mano armata di $ 300.000 in gioielleria, al punto che alcuni addetti ai lavori, come i membri di Public Enemy e Immortal Technique hanno fatto la scelta deliberata di non indossare gioielli costosi come dichiarazione contro il materialismo. Purtroppo i coscienziosi risultano essere ancora una minoranza, il resto degli artisti preferisce appoggiare la politica dei brand, che, seguendo la pratica della colonizzazione degli spazi, delle persone e degli eventi, come per le sponsorizzazioni delle ristrutturazioni di monumenti storici, giunge addirittura a “riesumare” i morti pur di sfruttarne le potenzialità commerciali. E' questo ciò che è successo con la linea di abbigliamento Monkey by Yuskee. Il brand ha creato uno snapback ed un paio di cuffie appositi per celebrare il defunto Nate Dogg50, morto nel 2011 all'età di 41 anni, con tanto di necrologio stampato in fronte “Rest in peace Nate Dogg” e precisando che il ricavato sarà donato alla famiglia del rapper scomparso. Falsa filantropia che nasconde i soliti interessi di profitti sembra essere la conclusione di qualunque contesto in cui la pubblicità contemporanea riesce a inserirsi. 49 50

Testo originale disponibile al link: http://rapgenius.com/Asap-rocky-out-of-this-world-lyrics http://www.hiphoprec.com/lifestyle-hip-hop/abbigliamento-hip-hop



CAPITOLO 9- NO ENVIRONMENt Madre natura non da una seconda possibilità

Con l’inizio del nuovo millennio, l'impatto dell’uomo sull’ambiente è sempre più evidente e difuso. Quasi il 40% della superficie terrestre è ormai adibito ad agricoltura e a pascolo permanente, e metà delle foreste tropicali sono state distrutte o danneggiate. Interi ecosistemi di acqua dolce e salata sono stati profondamente degradati da scarichi chimici, dallo scarico di liquami e da perdite di petrolio. Lo strato di ozono ha subito danni consistenti, e le emissioni di anidride carbonica causano smog e piogge acide e contribuiscono al riscaldamento globale e al cambiamento climatico; e si calcola che ogni ora tre insostituibili specie animali e vegetali si estinguano.Alla base del problema è la rapida crescita della popolazione e lo stile di vita insostenibile e consumistico

che

alcuni

di

noi

scelgono

di

adottare.

Nel mondo in via di sviluppo l’ambiente è sottoposto a sempre maggiori pressioni da parte degli abitanti, che vogliono assicurarsi almeno la pura sopravvivenza, mentre le abitudini consumistiche del mondo industrializzato dilapida le risorse più preziose, lasciandosi dietro una scia di residui tossici. La buona notizia è che possiamo proteggere il nostro mondo e la nostra sicurezza. Ma per fare ciò dobbiamo stabilizzare la popolazione, sviluppare sistemi energetici rinnovabili e non inquinanti e adottare tecnologie e pratiche produttive sostenibili. Questi traguardi non sono ne' difficili da un punto di vista tecnico ne' particolarmente costosi: potremmo fare tutto ciò con molto meno sforzo e denaro di quello che attualmente il mondo spende in armi e guerre e creando,

nel

processo,

un'economia

forte

e

sostenibile.

Ma, per poter raggiungere questo obbiettivo, dobbiamo definire e condividere la visione di un futuro positivo, sicuro e sano, ma, soprattutto, dobbiamo lavorare insieme per

crearlo.

Ma quanto inquina la moda?Onestamente a questa domanda non so rispondere completamente ma non mi pare difficile credere che alcuni dei colori sgargianti che vedo nelle vetrine siano poco naturali, che alcuni dei tessuti che mi danno fastidio al solo toccarli siano prodotti con materiali di dubbia qualità, che la quantità enorme di pacchetti, borse, pacchettini, contenitori in plastica e quant'altro si dovrebbe ridurre per evitare una sovrapproduzione che danneggia l'ambiente: sia consumandone in maniera inutile le risorse, sia inquinandolo con una serie di rifiuti che si sommano alle enormi quantità già prodotte per fini alimentari o industriali.


Greenpeace si è da anni battuta, attraverso varie iniziative, per salvaguardare l'ambiente dalle produzioni inquinanti del settore tessile; a partire dalla campagna “Abiti Puliti” con l'analisi dell'inquinamento delle risorse idriche cinesi pubblicata nel luglio 2011 in cui vennero messi sotto accusa Nike, Adidas, Puma, Calvin Klein, Converse, LaCoste ed Abercrombie&Fitch. L'associazione ha continuato a mettere sotto accusa vari nomi della moda, fino all'ultima azione del febbraio 2013. Si chiama “The Fashion Duel” la sfida internazionale al mondo dell’Alta moda che Greenpeace lancia insieme

alla

testimonial

Valeria

Golino.

Quindici le case di moda italiane e francesi che si sono viste recapitare il guanto della sfida

simbolo

della

campagna

di

Greenpeace,

rigorosamente

verde,

e

un questionario di venticinque domande su tre temi ambientali: politiche per gli acquisti della pelle, della carta per il packaging e produzione tessile, per scoprire l'impegno dell’Alta moda nell' evitare che i suoi prodotti siano responsabili della deforestazione e dell’inquinamento delle risorse idriche del Pianeta. Il risultato è una classifica in cui le aziende sono state valutate in base alla trasparenza delle filiere produttive, le politiche ambientali in atto e la disponibilità a un impegno serio per dire no alla deforestazione e all’inquinamento. In testa Valentino Fashion Group,

l’unico

brand

a

impegnarsi

per

raggiungere

gli

ambiziosi

obiettivi

Deforestazione Zero e Scarichi Zero nelle propria produzione. “Marchi come Chanel, Prada e Dolce & Gabbana sono nomi riconosciuti a livello mondiale e da oggi hanno l’opportunità di dettare il vero nuovo trend del settore: tutelare il nostro Pianeta – spiega Chiara Campione, responsabile del progetto The Fashion Duel di Greenpeace Italia. – A questi brand chiediamo di impegnarsi da subito per eliminare le sostanze chimiche pericolose dalla loro filiera produttiva e mettere in atto delle misure concrete per evitare il rischio di contaminazione da fenomeni come la deforestazione. Se uno dei leader dell’Alta moda come Valentino l’ha fatto, dagli altri non ci aspettiamo di meno”. Mentre Valentino è primo in classifica, marchi come Dolce&Gabbana, Chanel, Hermès, Prada e Trussardi non hanno nemmeno risposto al questionario. Proprio per spingere gli ultimi in classifica ad accettare la sfida per una moda più pulita Greenpeace chiede ai

consumatori

di

sfidare

le

case

d’alta

moda

firmando

la

petizione

sul

sito www.thefashionduel.com. Le

25

domande

si

concentrano

su

temi

quali:

- Politiche per gli acquisti della pelle; per scoprire se la pelle usata dalle case d’alta moda proviene dagli allevamenti di bestiame che deforestano l’Amazzonia. Infatti, per


far spazio agli allevamenti bovini l’Amazzonia viene distrutta: milioni di ettari di foresta vengono tagliati a raso e incendiati per produrre pelle che spesso finisce nelle nostre scarpe, borse e cinture. - Politiche per gli acquisti della carta; per svelare se la carta dei packaging di lusso è prodotta da multinazionali come quelle che in Indonesia distruggono le foreste pluviali e l’habitat delle ultime tigri di Sumatra, il quale viene convertito in packaging a basso costo

che,

una

volta

utilizzato,

finisce

nel

cestino

della

carta

straccia.

Inoltre, in Indonesia, multinazionali dell’industria cartaria, come APRIL (Asia Pacific Resources International Holdings Limited), stanno mandando al macero un patrimonio come le foreste pluviali indonesiane, trasformandole in carta, scatole e sacchetti per i nostri acquisti. - Produzione tessile; per controllare se la produzione e lavorazione dei tessuti d’alta moda utilizza sostanze tossiche che potrebbero compromettere le risorse idriche globali. In Cina, Messico e altre regioni del Sud del mondo, l’uso di sostanze chimiche tossiche nei cicli produttivi dell’industria tessile compromette gravemente le risorse idriche. Per ogni sezione è stata fatta una valutazione in base alla completezza delle risposte e al livello di impegno che queste aziende hanno preso per il raggiungimento degli obiettivi Deforestazione Zero e Scarichi Zero. I risultati relativi al questionario possono essere sintetizzati nella seguente classifica: -

BUONO Valentino

l'azienda si è impegnata a seguire politiche di acquisto e produzione ad obiettivo “deforestazione zero” sia per la pelle che per il packaging ed a “scarichi zero” all'interno della propria filiera produttiva. INSUFFICIENTE Giorgio Armani ; Dior ; Gucci ; Louis Vuitton


i brand hanno buone politiche di acquisto della carta ma non si sono impegnate nel controllo della filiera tessile. Ermenegildo Zegna ; Versace ; Salvatore Ferragamo le suddette aziende si impegnano nel packaging e nell'acquisto della carta, ma non sono in grado di rintracciare i propri acquisti fino all'origine riguardo la pelle e mancano di impegno nella produzione di tessuti privi di sostanze tossiche. PESSIMO Roberto Cavalli la grife toscana non ha fornito risposte precise e non ha assunto alcun impegno, non fornendo ai consumatori nessuna certezza riguardo il rispetto delle foreste e delle risorse idriche del pianeta. VOTO ZERO Chanel ; Dolce&Gabbana ; Hermès ; Prada ; Trussardi nonostante le molteplici richieste, queste firme dell'alta moda non hanno ritenuto opportuno fornire alcuna spiegazione riguardo la filiera, dimostrandosi non disponibili al dialogo, eticamente scorrette ed irresponsabili nei confronti dei consumatori. La classifica di “The fashion Duel” non fa che rifettere l'andamento della produzione tessile globale, nonostante analizzi solo alcuni aspetti specifici della produzione industriale tessile, che , in realtà, ha potenzialità antiambientali molto più vaste. Un esempio di quanto i capi di abbigliamento e gli accessori possano determinare la distruzione del Pianeta può essere rappresentato anche da un solo paio di scarpe: le “Predator” dell'Adidas. 9.1Il caso pratico: Adidas e la pelle di canguro


Le Predator sono un famoso modello di scarpe da ginnastica prodotte dalla Adidas che ha annunciato che dismetterà con efetto immediato il principale componente delle scarpe: la pelle di canguro. I dirigenti dell’azienda sono così stati a sentire le varie associazioni degli animalisti che hanno in questi anni premuto perché il canguro uscisse dalla filiera di Adidas.51 Negli ultimi anni in Australia i canguri uccisi per rifornire le aziende che producono scarpe atletiche sono stati mediamente 3 milioni all’anno. Ma nel 2001 il numero di vittime è salito a circa 5,5 milioni di canguri e quest’anno a ben 7 milioni, cifra nella quale non sono compresi i numerosi cuccioli che muoiono quando le loro madri sono colpite durante le battute di caccia notturna: i piccoli canguri vengono rimossi dai loro marsupi

e

massacrati

a

bastonate

dai

cacciatori.

“Il paradosso sta nel fatto che se la carne di canguro, il cui impiego per il consumo umano è consentito in Australia sin dal 1980, è generalmente rifiutata, molte persone, italiani inclusi, non si rendono conto che la maggior parte dei gol segnati nei campionati mondiali di calcio sono stati tirati con scarpe realizzate con pelle di canguro – sostiene Simona Cariati, responsabile settore pellicce della LAV – come la famosa scarpa da calcio Predator dell’Adidas, indossata da Alessandro Del Piero, David Beckham o Zinedine Zidane. Sul sito Internet viene dettagliatamente descritta una delle consuete ed agghiaccianti scene di caccia al canguro, che la LAV vuole far conoscere anche agli italiani: “immagina questo: una madre canguro con il suo bellissimo cucciolo, di notte, nell’entroterra australiano. E’ una scena vecchia milioni di anni. Quello che è nuovo è il rombo di una quattroruote. Lei si volta verso il rumore e viene abbagliata da un rifettore. Un fucile spara e un proiettile fa un buco nel suo collo. Lei cade soferente ed è incapace di proteggere il suo cucciolo, che si ritira nel marsupio per salvarsi. La prima cosa che fa il cacciatore è la ricerca della sacca e, quando sente il cucciolo dentro, lo tira fuori e lo calpesta sulla testa. Il piccolo si contorce in agonia. La madre lotta mentre la sua zampa viene aperta ed inserito dentro un gancio; viene caricata su un camion e muore lentamente. La scena si ripete ogni notte. Questa è la realtà dell’uccisione dei canguri. Ma la strage continua”. Per fortuna, la campagna “Boicotta l'Adidas” ha ottenuto risultati confortanti, costringendo l'azienda al cambio di materiale. Lo stesso David Beckham ha smesso di indossare scarpe di canguro dopo aver appreso la notizia della la crudeltà con cui questi animali venivano massacrati per 51

“Nessun canguro sarà più ucciso per Adidas”- www.giornalettismo.it 4 Settembre 2012


ricavarne pelle e scarpe: il canguro sarà espulso dalla macchina produttiva di Adidas per percentuali del 98% in 12 mesi. “Ci siamo impegnati con Adidas riguardo il loro uso della pelle di canguro. Abbiamo positivamente notato la transizione della linea Predator che ora non contiene più pelle di canguro, e che nei prossimi 12 mesi Adidas ridurrà la propria fornitura di pelle di canguro del 98%” dice la Co-op Asset Management, società di advising sempre attenta ai temi etici.



CAPITOLO 10 - NO MADE IN ITALy Secondo l’articolo 24 del codice doganale europeo (Reg. EEC 2913/1992), un prodotto che è stato realizzato in due o più paesi è considerato comunque originario del paese in cui l’ultima trasformazione o lavoro sostanziale ha avuto luogo. 52 “La norma, tra le altre cose, concede l'etichetta «Made in Italy» solo ai manufatti che hanno almeno due fasi di lavorazione su quattro di provenienza italiana. Prima di questa legge un'azienda che faceva fare i capi all'estero e metteva l'etichetta «Made in Italy» faceva una cosa illegale. Se il vestito era prodotto all'estero, era obbligatorio mettere l'etichetta di provenienza. Oggi, grazie a questo provvedimento le cose sono cambiate, naturalmente in peggio. La nuova legge dice: «Almeno due delle fasi di lavorazione di un capo dovranno essere obbligatoriamente italiane per avere l'etichetta "Made in Italy"». Per «fasi di lavorazione» si intendono però anche il finissaggio, il packaging, la provenienza del tessuto, le rifiniture. Stanno abilmente tentando di legalizzare ciò che era illegale fino a poco fa. I baroni della moda non sono i paladini del Made in Italy, ne sono gli afossatori. Producendo all'estero, hanno danneggiato in modo ormai irreparabile la realtà italiana del settore. Scompaiono, in silenzio. Attenzione, non si stanno trasformando in aziende specializzate come qualcuno vorrebbe farci credere. Muoiono e basta e non torneranno in vita, perché l'artigianalità e la manualità, una volta perse, non si recuperano più.” Giò Rosi, Made in Italy - Il Lato Oscuro della Moda Italiana

L'ultimo capitolo di questo esame a tuttotondo degli errori del marketing tradizionale non può che afrontare un delicato argomento per il nostro Paese. La moda italiana è riconosciuta a livello internazionale soprattutto per le caratteristiche associate alla sua 52

Approvato il disegno di legge (10.12.2009, n. 2624) sul made in Italy che punta alla valorizzazione delle aziende che realizzano la loro produzione interamente in Italia, con la legge dell’ 8 aprile 2010, n. 55, che riguarda “Disposizioni concernenti la commercializzazione di prodotti tessili, della pelletteria e calzaturieri”, pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale n. 92 del 21.


manifattura: il Made in Italy è sinonimo di qualità, ottima lavorazione, materiali provenienti dall'alto di gamma. Come un marchio, il Made in Italy rappresenta uno stile (nella moda e nella vita), un lusso particolare, proprio come avviene per un vero e proprio brand. Ma, quando il marchio tocca un oggetto, esso si comporta come l'alter ego di Re Mida, trasformando il tutto non in oro ma in falsa bigiotteria. Il processo di focalizzazione sulla sola apparenza è ciò che sta accadendo all'asso nella manica del nostro Paese: la moda. Acquistando capi di maison italiane, il cliente si aspetta di guadagnarne in forma e qualità, scegliendo di spendere di più pur di accaparrarsi queste caratteristiche peculiari. Ogni nazione ha il suo marchio distintivo dei propri prodotti e li fa risaltare per le loro caratteristiche esclusive: il Made in Germany per esempio è sempre stato sinonimo di robustezza ed affidabilità, il Made in USA è il segno dell’innovazione e l’avanguardia del prodotto; il Made in Japan simbolizza l’alta tecnologia e la funzionalità; il Made in Italy esprime, invece, l’eccellenza della creatività e della maestria. Nel campo della moda, l’Italia si distingue, ponendosi al primo posto per l’alta qualità dei prodotti tessili e per la perfetta eleganza e raffinatezza che permeano il prodotto rendendolo superiore, così come per la garanzia della qualità dei materiali utilizzati nella realizzazione dei beni. Il mondo intero ammira e confida in un prodotto Made in Italy e molte persone sono disposte a fare enormi sacrifici pur di essere in grado di acquistare un articolo di marca italiana da indossare con grande orgoglio. Ma che cosa significa esattamente il marchio “Made in Italy”? Significa che un prodotto è interamente realizzato in Italia, dalla progettazione e il lavoro su carta, fino al prodotto finito e pronto per la vendita. La denominazione Made in Italy dovrebbe indicare la totale ed efettiva provenienza e produzione italiana dell’articolo che porta il suo nome; “dovrebbe” perché sfortunatamente in molti casi non è così. In realtà molti prodotti possono portare il nome Made in Italy anche quando sono, invece, realizzati quasi interamente all’estero! Secondo l’articolo 24 del codice doganale europeo (Reg. EEC 2913/1992), un prodotto che è stato realizzato in due o più paesi è considerato comunque originario del paese in cui l’ultima trasformazione o lavoro sostanziale ha avuto luogo. 53 Ciò significa che se un articolo viene prodotto per il 70% all’estero e per il 30% in Italia (nel caso di una borsa, il 30% corrisponderebbe all’incirca all’assemblaggio dei manici e dell’etichetta con la borsa in sé), quel medesimo articolo può essere etichettato come Made in Italy. Ancor più sconvolgente è che un articolo che è stato addirittura completamente prodotto 53

http://www.gleni.it/it/marchio-made-in-italy.html


all’estero potrebbe recare il marchio Made in Italy se commissionato da un’azienda con sede in Italia. Questa situazione non può far a meno di penalizzare le piccole e medie imprese che invece producono il puro Made in Italy da generazioni e che vorrebbero continuare a farlo, ofrendo i loro prodotti ad una clientela che sa apprezzare veramente la qualità italiana, un prodotto di alta qualità prodotto dal vero artigianato, completamente fatto in Italia con costi di produzione piuttosto alti ma con la soddisfazione giornaliera di indossare un capo permeato di ricercatezza. Ovviamente la decisione di mantenere l’intero processo produttivo in Italia comporta costi di gestione molto più elevati: i lavoratori sono artigiani professionisti e, giustamente, è necessario remunerarli adeguatamente e tutelarli secondo la legge; le macchine devono garantire un elevato livello di finitura e devono essere quindi controllate regolarmente ed eventualmente rimpiazzate; infine i materiali hanno un determinato costo che varia a seconda dell’andamento economico del paese. Prendendo il settore del pellame come esempio, è stato calcolato che una borsa di ottima qualità, prodotta interamente in Italia con l’utilizzo di vera pelle, può benissimo raggiungere i 70-150 euro in costi di produzione, in opposizione ai 14-20 euro richiesti nel caso in cui la produzione venisse spostata in un laboratorio cinese o presso qualsiasi altro contraente estero. Da ciò ne deriva il fatto che questi articoli, che sono prodotti al 100% in Italia, vengono venduti a prezzi più alti risultando così non proprio accessibili a tutti. Le vendite crollano e così, molte ditte, soprafatte dalle tasse e completamente abbandonate dallo Stato, sono costrette a chiudere in quanto impossibilitate a competere con i bassi costi del mercato Cinese o di tutti coloro che antepongono il profitto e la ricchezza a discapito della qualità e della reputazione stessa del marchio Made in Italy. In tal modo, il piuttosto ambiguo art. 24 del Codice Doganale Europeo, (Reg EEC 2913/1992), spinge i produttori italiani ad efettuare una scelta tra due ben distinti livelli nella qualità dei loro “prodotti italiani”, una scelta che sicuramente non va a favore del prestigio del marchio, ma, al contrario, crea dubbi e confusione agli occhi degli acquirenti. La situazione che sta vivendo il settore del tessile abbigliamento italiano è molto preoccupante. Molti sembrano ancora non rendersene conto o, anche se consapevoli, sono bloccati in un immobilismo generale. La nostra filiera produttiva sta perdendo sempre più tasselli, e questo è un problema che ha e avrà ripercussioni non solo su chi produce in Italia, ma anche sulle aziende italiane che producono all’estero e che direttamente o indirettamente beneficiano a vario titolo del marchio


“Made in Italy”. Il Made in Italy è infatti riconosciuto come marchio internazionale, e in quanto tale porta in sé valori positivi e importanti; motivo per cui, oltre che utilizzato, andrebbe preservato, alimentato e protetto. Le aziende di abbigliamento che producono prevalentemente all’estero ritengono che in fondo la salvaguardia del Made in Italy non sia un loro problema, ma non è così: se in Italia viene a mancare una filiera rigogliosa, fresca, giovane e variegata, anche ciò che caratterizza il Made in Italy presto o tardi verrà a mancare. Questo semplicemente perché chi produce all’estero mantiene comunque in Italia la creatività, il design, la progettazione, l’innovazione; ma l’innovazione nasce e si sviluppa prima di tutto da uno scambio continuo con tutta la rete di fornitori e di piccole aziende specializzate insieme alle quali nascono le idee: una tintoria che propone un nuovo trattamento, una tessitura che suggerisce l’impiego di un nuovo tessuto, una filatura che ha messo a punto un filato “intelligente”, una nuova tecnica di stampa, un confezionista che mostra un nuovo tipo di cucitura, un ricamo particolare, e così via… Se questa filiera fondamentale si impoverisce, anche l’innovazione e la creatività dei designer si impoverisce, non ha più un bacino da cui prendere spunti per prodotti di alto livello e non può più arricchire quel Made in Italy che da questa innovazione è sempre stato caratterizzato e alimentato. E chi nella filiera riesce per qualche motivo a sopravvivere rischia di diventare una cattedrale nel deserto. Anche i più autorevoli addetti ai lavori ritengono sia necessario agire per la tutela del Made in Italy, come aferma Lorenzo Bolcato, direttore operativo di importanti aziende del settore:”È più che mai necessaria e urgente una presa di coscienza collettiva sul fatto che è il momento di agire, uno sforzo comune più difuso e concreto, affinché il Made in Italy non muoia e non diventi una mera parola, svuotata del suo prezioso contenuto culturale e produttivo con tutte le conseguenze economiche e sociali che questo comporterebbe”. 54 Tutto il mondo fashion e glamour della moda italiana sta in piedi grazie ai moderni schiavi piegati sulle macchine da cucire. L'enorme quantità di denaro che finisce nelle tasche degli stilisti ha alla base il comportamento tipico delle cavallette: sfruttamento indiscriminato di risorse e territori. Continuano a ripeterci che la «macchina del sistema moda Italia» rappresenta una ricchezza perché fa fatturato, crea indotto, è 54

Lorenzo Bolcato - Diplomato a Padova presso l’ITIS per periti confezionisti (Itis Natta) Lorenzo Bolcato si è sempre occupato di problematiche legate alla supply chain in qualità di Direttore Operativo presso importanti aziende/marchi del settore come C.P. Company/Stone Island, Giorgio Armani Simint, Chicco Artsana, Staff International (Dsquared, Martin Margela), ecc. È stato Presidente ANTIA e oggi ne è consigliere. In questa carica, ma non solo, è sempre stato molto attento alla formazione dei giovani e anche a quella di chi è già impiegato nel settore.


linfa vitale per le migliaia di aziende medio-piccole che di questo vivono.E' vero?Crea indotto per chi?Per chi e per che cosa è linfa vitale? L'indotto non lo crea, anzi lo distrugge e per la precisione lo sta distruggendo da vent'anni a questa parte, con un sensibile inasprimento negli ultimi cinque o sei anni. Si investe nella «ricerca», vero, nella ricerca di posti sempre più sperduti per produrre a basso costo. E allora chiamiamolo con il suo vero nome questo «sistema» che tra uno stilista e l'altro se ne va in televisione a presentare collezioni, sfilate e iniziative di «beneficenza» e che contemporaneamente è disposto a sfruttare il lavoro nero e afama la povera gente. Definiamolo meglio, con un nome più appropriato, chiamiamolo «Sistema Moda-Mafia Italia».55 10.1 Il caso pratico: Benetton e Omsa Benetton, la multinazionale veneta sostenitrice della multiculturalità oltre ai soprusi sui popoli che ne ospitano la produzione(ad esempio il popolo mapuche), sembra volersi distaccare senza alcuno scrupolo anche dal Paese che le ha dato i natali e la reputazione:

l'Italia.

Infatti,

Benetton

liquida

il

Made

in

Italy

«Rischia di produrre esclusivamente costi». Il presidente del gruppo ha afermato alla convention con i soci a Ponzano Veneto: poteva funzionare alcuni anni fa, con un mercato-moda euforico. Ora vanno tenute in conto le esigenze locali. Insistere con la logica del «made in Italy» in ogni Paese del mondo rischia soltanto di «introdurre costi ed inefficienze». Il marchio tricolore e il suo «liquidatore» che risponde ad una domanda a margine dell’assemblea dei soci Benetton, il presidente del gruppo di Ponzano, Luciano Benetton, ha messo in soffitta la strategia del «fatto all'italiana». 56 Ma il gruppo veneto aveva già iniziato la sua opera di migrazione dal Made in Italy con l'attuazione di alcune proposte relative agli stabilimenti italiani del brand ed ai suoi dipendenti. Il gruppo si era impegnato nel 2012 in una campagna provocatoria “Il disoccupato dell'anno” con un concorso per i giovani tra i 18 e i 30 anni che non hanno ancora un lavoro fisso: questi potevano inviare il loro progetto alla fondazione e i 100 più meritevoli finanziati con 5.000 euro dalla Unhate Foundation.

Ma la befa di

57

Benetton si rivela un anno dopo: il piano di trasformazione comunicato dai vertici del Gruppo Benetton che coinvolge circa 450 lavoratori, 228 dei quali nelle sedi di Ponzano 55

Giò Rosi, Made in Italy - Il Lato Oscuro della Moda Italiana , Ecco cosa si nasconde dietro questo business miliardario 56 57

“Benetton liquida il Made in Italy”- corrieredelveneto.it 22 Aprile 2010 “Benetton e il concorso di provocazione “Il disoccupato dell'anno””- Il messaggero 18 Settembre 2012


Veneto e Castrette di Villorba.58 Il numero di esuberi, infatti, appare notevolmente superiore rispetto alle prime dichiarazioni che indicavano la rimodulazione dell’organico in poco più di un centinaio di addetti. E per i sindacati non sembra assolutamente sufficiente, a parziale attenuazione della manovra di tagli al personale, il contestuale annuncio di 280 assunzioni in Italia nella rete di negozi della casa trevigiana. I lavoratori che Benetton intende escludere dalla forza occupazionale italiana sarebbero

rappresentati

per

un

centinaio

di

elementi

da sviluppatori

di

prodotto mentre i rimanenti sono tecnici e personale impiegatizio. Un contingente all’incirca della stessa portata numerica è invece quello che riguarderà i dipendenti Benetton nelle varie sedi estere. Benetton ha anche fatto sapere che intende rescindere i contratti di fornitura rispetto a 135 laboratori terzisti, soprattutto veneti. Per l’amministratore delegato a cui è stata affidata la riconfigurazione della base occupazionale,Biagio Chiarolanza, la misura “non era più procrastinabile” ai fini di un rilancio dell’azienda a lungo termine. Questo

è

un

ennesimo

esempio

di

imprenditoria

italiana.

Benetton ha mantenuto il suo prodotto, stanco, logoro e sorpassato per anni,senza nessun investimento in ricerca e sviluppo appoggiandosi esclusivamente sul made in Italy. Ora che il made in Italy, soprattutto nel pronto moda si ritrova davanti competitors del calibro di Zara ed H&M, si svegliano, gli imprenditori si accorgono che i punti di quota perduti non sono più recuperabili se non con grandi investimenti. Peccato però che le risorse per attuare queste azioni siano state bruciate in comunicazione con le campagne pubblicitarie “antirazziste” e negli ultimi anni puramente provocatorie firmate Benetton, mentre i suoi operai muoiono in Bangladesh per il crollo del palazzo chiaramente non a norma in cui avveniva la produzione dei capi.59 Ma l'etica del gruppo Benetton non è la sola ad essere sotto accusa, anche altri marchi che da sempre si sono effigiati del Made in Italy, in realtà non sono che sanguisughe, che succhiano sangue dal sistema italiano imponendosi come concorrenti di realtà produttive più piccole le distruggono, ma da abili parassiti non riportano l'occupazione, né tantomeno i profitti all'interno del territorio italiano.

58 59

“Benetton vara il “piano trasformazione” e taglia 450 lavoratori”- ilfattoquotidiano.it 6 Febbraio 2013 “Bangladesh, strage di lavoratori tessili. E le foto “accusano” Benetton”- ilfattoquotidiano.it 30 Aprile 2013


E' questo il caso di Ermenegildo Zegna, Armani

, Moschino, Phylosophy by Alberta

60

Ferretti e Gucci, ma l'elenco potrebbe allargarsi alla maggior parte delle case di moda italiane, come testimoniano le denominazioni delle etichette: basta cercare su internet un articolo delle suddette marche per trovarvi la sorpresa del Made in. Un'altro episodio di imprenditorialità amorale è stato il caso mediatico

del

licenziamento in tronco delle 239 lavoratrici della Omsa di Faenza. La Omsa produce calze e collant e ha deciso di delocalizzare la produzione in Serbia, dove il lavoro costa meno. Ha licenziato tutti con un fax: un mezzo arcaico per una decisione senza appello. La battaglia appassionata, organizzata e ben comunicata delle lavoratrici Omsa ha reso questa vertenza assai popolare sui media, un vero caso nazionale. Per questo motivo è diventata un simbolo della ‘resistenza’ del lavoro e dei lavoratori italiani alla tendenza centrifuga della globalizzazione. In un sistema aperto, le regole mondiali del mercato del lavoro e di quello dei consumi sono spesso più importanti della tutela del diritto dei lavoratori del posto di lavoro nella valutazione degli imprenditori, soprattutto quando devono decidere tra la propria salvezza e il fallimento. Le operaie della Omsa hanno chiesto a tutte le donne italiane di aiutarle nella lotta boicottando i prodotti dell’azienda che sono quelli a marchio Philippe Matignon, SiSi, Omsa, Golden Lady, Hue donna e uomo, Saltallegro e Serenella. 61 Valentina Drei, 35 anni, lavora nella fabbrica da 10 anni come assemblatrice e racconta “Golden Lady è un grande gruppo, non è possibile che a Mantova facciano gli straordinari mentre noi dal 18 dicembre non abbiamo più potuto mettere piede in azienda. Questo ci fa davvero imbufalire.”62 Omsa deve dunque accettare l’idea che un cliente reale o potenziale dei collant possa decidere di non acquistare più prodotti a causa delle proprie scelte aziendali: una befa, perché per risparmiare sui costi si perderebbe ulteriore fatturato. Lo slogan più conosciuto della costellazione dei prodotti Omsa è il ‘I’m lost without you’ con cui, secondo l’azienda, le donne italiane comunicavano la necessità di avere una calza Golden Lady, oggi potrebbe essere uno sfottò dei consumatori verso Omsa, che sarebbe ‘persa’ se i clienti smettessero di comprare i loro prodotti a causa della delocalizzazione. Le aziende italiane devono accettare l’idea che scelte poco concilianti nei confronti dei dipendenti possono avere ripercussioni molto problematiche sui “Turchia, rischia licenziamento chi si iscrive a sindacato in una fabbrica di camicie "made in Italy" www.controlacrisi.org 1 Febbraio 2013 61 https://www.facebook.com/bomsa.boicottaomsa 62 Link: http://www.investireoggi.it/finanza/licenziamenti-omsa-faenza-le-donne-oltre-alle-gambe-mostrano-identi/#ixzz2Ryd84LXq 60


bilanci. I consumatori italiani, pur obbligati a muoversi in binari sempre più stretti a causa della recessione e dei sacrifici chiesti dal ‘governo’, allargano sempre più lo spettro delle variabili da considerare prima di acquistare un prodotto. Il prezzo diventerà sempre più importante in tempi di crisi, ma si afacciano anche altre valutazioni pre-acquisto come l’impatto ambientale della produzione, le condizioni di lavoro dei dipendenti, l’origine del prodotto e la sua qualità. I concorrenti italiani di Omsa, inoltre, hanno davanti a loro una grande opportunità: per attaccare l’attuale leader di mercato possono giocarsi la carta dell’italianità, del rispetto delle condizioni di lavoro, della resistenza in un mercato più costoso e a condizioni più difficili pur di non mandare lavoratori italiani per strada. Queste valutazioni sono assai più facili da efettuare che in passato: se ci pensate, ognuno di noi, attraverso Internet potrebbe chiedere ai clienti Omsa se i loro prodotti meritano comunque di essere acquistati o se questa decisione strategica è sufficiente per cambiare marca e tutti potrebbero leggere le risposte pubbliche per farsi un’idea più precisa. Sarei curioso di sapere se i dirigenti Omsa, prima di prendere la decisione di delocalizzare, hanno valutato l’impatto in termini di marketing di questa scelta e come pensano di rispondere a questa campagna difusa di screditamento del marchio. Ma la vicenda Omsa sembra non fermarsi, un'altra doccia fredda arriva un anno dopo: la condanna in primo grado di Franco Tartagni, presidente della Atl Group di Forlì, il nuovo proprietario dell’Omsa per sfruttamento di manodopera cinese. 63 La condanna è arrivata in seguito all’accertamento di una strutturale violazione delle norme della sicurezza sul lavoro. Nell’intesa criminale tra imprenditori forlivesi e cinesi l’imperativo categorico era abbattere i costi di produzione, bypassando le disposizioni più elementari sui diritti degli operai in fabbrica: ciò significa turni di lavoro da Inghilterra del ‘700: gli operai, perlopiù cinesi, erano costretti a lavorare per 18-20 ore, in ambienti spesso inadeguati, senza servizi igienici, né tutele di alcun tipo. La pausa pranzo ovviamente era un optional.

63

“Sfruttava manodopera cinese, condannato il nuovo proprietario dell’Omsa”- ilfattoquotidiano.it 11 Luglio 2012



CONCLUSIONi Come abbiamo visto nell'analisi degli errori del marketing tradizionale, le grife sono divenute metafore di un sistema economico globale andato storto. Le multinazionali si sono trasformate in strumento educativo più efficace del pianeta. Nel tentativo di rinchiudere la nostra cultura sociale in bozzoli firmati, queste aziende hanno provocato l'ondata di protesta dell'attivismo anti-aziendale. L'abbandono del loro ruolo tradizionale di datori di lavoro, per lanciarsi nei voli pindarici del marchio, ha fatto perdere loro quel sentimento di fedeltà che una volta li proteggeva dalla collera dei consumatori. Ma anche se sono state le aziende a condurci in questo labirinto, ciò non significa che dobbiamo necessariamente contare su di loro per uscirne, esse sono una sorta di nuove e sfavillanti vie d'accesso, che ci aprono la strada nel mondo assai complesso e molto meno afascinante della legislazione internazionale. Ma, anche se non sarà facile, né tantomeno rapido, noi, in quanto cittadini, riusciremo a trovare da soli la nostra via d'uscita. Forse all'inizio ci sentiremo come Teseo, che stringeva il suo filo mentre entrava nel labirinto del Minotauro, ma non c'è altra scelta. Le soluzioni politiche, che possono essere spiegate alla gente e possono essere fatte rispettare dai loro rappresentanti eletti, meritano un'altra opportunità prima di gettare la spugna ed accontentarsi di codici aziendali, controllori indipendenti e della privatizzazione dei nostri diritti collettivi di cittadini. Questo compito ci atterrisce, ma presenta anche un lato positivo: il claustrofobico senso di disperazione ,che spesso ha accompagnato la colonizzazione dello spazio pubblico e la perdita di posti di lavoro sicuri, inizia ad attenuarsi quando si valutano le possibilità di una società davvero globale, con una visione che consideri non solo l'economia ed il capitale, ma anche i cittadini globali, i diritti globali e le responsabilità globali. Per molti di noi, ci è voluto del tempo per trovare una collocazione in questa arena internazionale, ma oggi siamo più vicini che mai all'obiettivo, soprattutto grazie al corso accelerato che abbiamo ricevuto dai marchi. Quando ho iniziato a scrivere questa tesi, onestamente non sapevo se mi stavo occupando di una resistenza marginale e frammentata o della nascita di un potenziale movimento su vasta scala. Ma, mentre redigevo lo scritto, ciò che ho visto con chiarezza è stata una protesta che si andava formando sotto i miei occhi. Tutto ciò ci fa comprendere, che prima della globalizzazione economica e commerciale, fosse necessaria una “globalizzazione etica” dei popoli, un'operazione di educazione globale sui principi base del rispetto, dei diritti umani di ogni uomo; una mission globale


perseguita contemporaneamente da Istruzione, leggi, Stati e aziende. Solo in tal modo non saremmo giunti alla situazione odierna, apparentemente irreparabile. In questo mio “pamphlet”, l'intento, forse utopico, è la formazione del cliente, in particolare dei più giovani, di quel ragazzo che in futuro diverrà imprenditore, operaio, stilista, politico, sindacalista... Solo un'opera di ri-educazione, una tabula rasa dei preconcetti istituiti dai marchi, potrà condurre ad una svolta reale ed al rispetto tra uomo e uomo, uomo e ambiente-spazio e uomo ed animali. In caso contrario, il caos attuale non potrà che risucchiare il mondo fino a divenire, come già sta accadendo, “normalità”, ed anche coloro i quali, se informati, si schiererebbero all'opposizione, non potranno che farsi inghiottire dai diktat del marchio, e seguire il gregge grifato guidato dai pastori media e società del consumo, senza rendersi conto che la tanto glorificata globalizzazione altro non è che la solita storia di colonizzazione: il boss ha solo scambiato la sua divisa militare e la sua bandiera con un abito firmato, un i-phone ed una grife. “L'educazione

è

il

pane

dell'anima.”

Giuseppe Mazzini “Io credo che l’educazione sia il metodo fondamentale del progresso e della riforma sociale. Io credo che tutte le riforme che si appoggiano solo su una minaccia di sanzioni penali non prevedano che cambiamenti nell’ordine meccanico e esteriore, non siano che cose efmere e sterili. Solo per mezzo dell’educazione la società può tracciare un suo chiaro disegno in vista dell’orientamento verso il quale essa desidera muoversi.” J. Dewey “Poiché in una democrazia è il popolo che decide, i potenti uomini dell'industria e dell'economia si mobilitano per istruire la società afnché scelga e decida in modo assolutamente autolesionista.” Carl William Brown



PROPOSTA DI AZIENDA ETICA

NAMING Ogni nome scelto rappresenta un'immagine ben definita, che racchiude in sé, una storia, un destino e che ha un senso. Per questo motivo la scelta di un nome, che sia di persona, di un servizio pubblico o di un prodotto industriale, è il frutto di un’operazione strategica di marketing che prende in considerazione sia la qualità dell’oggetto da denominare sia il possibile utilizzo nel contesto stabilito. Nella dominazione industriale si deve agire sempre in modo tale da creare un’immagine che sia aderente al prodotto e che si presti ad essere utilizzata facilmente nella campagna pubblicitaria. I primati di una campagna pubblicitaria, infatti, passano anche

attraverso

l'individuazione e l'identificazione di un nome che sia vincente. Tale scelta è una delle principali variabili che definiscono una strategia di marca. Sarà infatti il nome a costruire la storia stessa di un prodotto e della sua azienda e a definirne il posizionamento nel mercato e l'eventuale business. La ricerca del nome deve essere studiata e analizzata, in modo specifico, quando ci si trova in presenza di aziende multinazionali o con una serie di prodotti e servizi venduti in diversi mercati geografici. Indipendentemente dalla lingua, il nome dovrà essere quindi di facile pronuncia e di chiaro significato, così da non generare equivoci e rispettare caratteristiche sociali e culturali del luogo di vendita. Una scelta sbagliata o non adeguatamente attenta, potrebbe essere causa di ambiguità, tale da condizionare negativamente le vendite del prodotto e di conseguenza l'immagine dell'azienda. Scelto il nome, si tratterà anzitutto di esprimerlo graficamente, di canalizzare il rinvio semiotico del nome industriale anche mediante il logotipo. Esso può produrre degli efetti di senso che possono aumentare il valore strategico del nome stesso. Il naming ha anche lo scopo di orientare l’identità e l’immagine di un prodotto verso i bisogni, le esigenze le richieste


della collettività e quindi di interpretare e tradurre le sue aspettative anche in senso culturale mediante la produzione di simboli sia iconici sia linguistici. Perciò ogni qualvolta si crea un nuovo nome, automaticamente nascerà e si delineerà anche la sua storia e l'immagine che questo avrà nella società e nella memoria visiva del consumatore, che tramite il nome identificherà anche le caratteristiche o le funzioni di quest'ultimo. Ad un determinato nome, quindi, sarà sempre collegata l'immagine dell'azienda che lo ha prodotto. Il successo di un prodotto o di un servizio risiede anche nel nome e nella sua definizione, veicolo necessario per l'immagine ed il futuro del prodotto. Da queste considerazioni, la scelta del nome dell'azienda: saboTAGe. La scelta è ricaduta su questo nome per il suo significato: Il sabotaggio è una deliberata azione volta all'indebolimento ed eventualmente anche alla confusione del nemico attraverso la sovversione, l'intralcio, il disordine e/o la distruzione. Il nome proviene dalla rivoluzione industriale, i telai a vapore venivano danneggiati dai tessitori licenziati gettando nei loro ingranaggi zoccoli di legno (sabots in lingua francese). In guerra la parola è usata per descrivere l'attività di un individuo o di un gruppo non associato con i militari (ad esempio un agente segreto o un partigiano), in particolar modo quando le azioni portano alla distruzione o il danneggiamento di infrastrutture produttive o vitali come armamenti, fabbriche, dighe, servizi pubblici o magazzini. A diferenza degli atti di terrorismo, le azioni di sabotaggio non hanno come primario obiettivo il maggior numero di morti, ma non lo escludono. L'azione di sabotare, esprime quindi l'intento in senso

figurativo dell'azienda: sabotare, attaccare e

distruggere il vecchio tipo di azienda analizzata nella prima parte dello scritto, ma senza caricarsi del rovescio violento del sabotaggio. Inoltre, il vocabolo contiene al suo interno la parola “tag”, con significato di etichetta, il vocabolo rappresenta il logo, la grife, l'azienda non etica del passato. assumendo un significato più completo. Inoltre, l'efficacia di “saboTAGe” si rivela anche grazie al mantenimento della medesima radice nelle principali lingue, rendendolo comprensibile a livello internazionale: in italiano “sabotaggio”, in francese, tedesco, danese, olandese, svedese ed inglese “sabotage”, in spagnolo “sabotaje”, in albanese “sabotim”, in ceco e sloveno “sabotàze”, in croato e lettone “sabotaža”, in finlandese “sabotoida”, in norvegese “sabotere”, in rumeno “sabotaj”, in turco “sabote”.


LOGO

Il nodo gordiano64 incarna perfettamente quella che è la rivolta anti-brand che si vuole portare in passerella, simboleggiando con il nodo inscindibile il problema del branding tradizionale, su cui ognuno dovrebbe interrogarsi e ricercare una possibile soluzione, proprio come l'azienda sta cercando di fare, e richiedendo in tal modo anche l'interazione con il cliente che diviene parte integrante del processo. Inoltre, la ciclicità del simbolo rappresenta anche la dedizione del brand al riciclo ed alla minimizzazione della quantità di rifiuti, creando cosi un circolo, riassunto dal logo.

TArGeT

Il cliente a cui l'azienda si rivolge non viene identificato attraverso una fascia d'età, ma attraverso il suo approccio al consumo ed al suo stile di vita. Di conseguenza, i destinatari possono essere individuati in coloro che vengono definiti “consumatori critici”, attenti agli aspetti ambientali ed etici dei marchi che acquistano. Inoltre, il target a cui ci si vuole proporre comprende anche coloro che amano lo stile casual derivante dallo sport, soprattutto i giovani, ma riesce a comprendere anche una fascia di età maggiore grazie alla preziosità dei tessuti. Particolare interesse potrebbe rivestire il brand per coloro i quali si interessano e/o si occupano di arte, anche grazie alla vicinanza del brand alla street art ed alla sua promozione.

L'espressione nodo gordiano trae origine da una tradizione letteraria e leggendaria a cui è legato anche un aneddoto sulla vita di Alessandro Magno. Con il tempo, l'espressione ha assunto, in varie lingue, una valenza metaforica, andando a indicare un problema di intricatissima soluzione, che si presta ad essere risolto, alla maniera di Alessandro, con un brutale taglio. 64


CONCePT La collezione proposta tenta di riassumere tutti i concetti chiave della gestione etica e ecosostenibile dell'azienda - L'assenza di un logo visibile che renda riconoscibile il capo; in tal modo l'associazione è realizzata tramite una particolare attenzione ai tagli, alle proporzioni, ai colori, allo stile ed è solo tramite questi elementi che il capo può essere ricondotto allo stilista. - La sostituzione dell'etichetta recante il nome del brand con un nodo gordiano su cui viene inciso il prezzo del capo, seguito da una matricola che ne permette il riconoscimento; un segno di riconoscimento che non diviene logo in quanto variabile, sempre diverso e oserei dire alquanto iconoclasta, esso rappresenta una provocazione, significa "sto comprando un capo, non la sua pubblicità o la grife". - Le linee, i tagli, la rigidità e le fantasie geometriche sono la carta d'identità della linea, una collezione che rifiuta la pubblicità tradizionale, il logo, il concetto di brand tradizionale non può che evitare inutili orpelli decorativi, affidandosi alla semplicità, al minimalismo ed alla perfezione delle forme geometriche; - I colori : il bordeaux, il mostarda, il rosso, il petrolio, il bianco il grigio antracite e l'insostituibile nero. Una palette cromatica che ritorna al classico, forse un po' vintage, dal sapore naturale, ripecchiando la filosofia dell'azienda e rifiutando tutti quei toni fuo, cosi evidentemente chimici e inquinanti; - I tessuti: L'idea riferita ai colori si rifette anche nella scelta dei materiali: un futuro che reinventa, riattualizza il passato coniugandolo perfettamente con l'innovazione. Le preziose sete, la maglieria artigianale dell'autentico Made in Italy lavorato a mano, la naturalezza del lino, la versatilità infinita del cotone biologico sono affiancate dalle fibre più innovative come la lorica, la fibra di eucalipto ed il filato ricavato dal latte ; il gusto retrò della maglieria ai ferri si sovrappone all'anima urban della pelle e delle nuove fibre ecosostenibili in outfit basati sul contrasto, le lunghezze ridotte e l'ampiezza delle forme, un alternarsi di incontri che creano movimento nella collezione. -Una liberazione dalla pubblicità e dalla comunicazione nelle sue forme tradizionali ed obsolete simbolizzata dallo spogliarsi delle decorazioni superfue affidando la propria femminilità (una femminilità sicura,più matura e consapevole di sé) a linee che non evidenziano le curve del corpo, ma le sfiorano appena.


Una moda etica, onesta (che non "ruba" ai clienti attraverso prezzi elevati giustificati dagli investimenti in comunicazione e branding), che il potenziale cliente non acquista inconsapevolmente guidato dall'advertising(e spesso un po' "fashion victim"), ma ha una sua personalità specifica e non segue un'idea racchiusa in un marchio ma uno stile particolare,

il

lifestyle

dettato

dal

senso

di

civismo

che

dovrebbe

ormai

contraddistinguere il cittadino globale.

MARKETING MIX PrODOTTO - MATERIE PRIME I tessuti sono tutti rigorosamente di provenienza italiana, per rispettare la tradizione del vero Made in Italy e facilitare la completa tracciabilità dei processi produttivi e dei materiali attraverso l'utilizzo della filiera corta. Inoltre, essi sono tutti contraddistinti da una produzione biologica, cruelty free ed ad impatto zero sull'ambiente e la fauna o anche riciclati da vecchi tessuti, ed alcuni sono il frutto di recenti ricerche su nuove fibre non ancora applicate nell'ambito del fashion. Seta biologica e cruelty free : l'azienda SABA ha piantato 600mila gelsi con lo scopo di creare una condizione ideale per il baco da seta che si nutre quasi esclusivamente delle foglie di questi alberi. Il progetto mira a garantire una maggiore biodiversità in quanto si tratta non di una monocultura ma di una consociazione di tipo biodinamico che implica l’integrazione con altri alberi, tra cui quelli da frutto, e in quanto prevede la rinuncia a concimi di origine sintetica, agli antibiotici e agli ormoni della crescita ampiamente utilizzati nelle colture convenzionali. Inoltre sembra che, in virtù dell’alimentazione equilibrata, i bachi producano dei filamenti di pregio. Il consumatore avrà la garanzia di un prodotto esente da sostanze nocive, certificato anche per le fasi di lavorazioni secondo il GOTS, Global Organic Textile Standard. Ciò permetterà di realizzare capi in seta etica, ovvero cruelty-free perchè realizzata senza ricorrere alla tradizionale bollitura dei bachi ma raccogliendo ciò che rimane dei bozzoli dopo che sono nate le farfalle.


Cotone riciclato: l'azienda non utilizza cotone biologico in quanto la produzione biologica della suddetta fibra non riduce la quantità di acqua ed è necessaria una maggiore superficie di terreno per coltivarlo e non riduce il problema dello smaltimento dei rifiuti tessili 65. Per ovviare a questo problema, saboTAGe utilizza cotone rigenerato, così come avviene per la lana prodotta a Prato,

a

marchi

“Remade

in

Italy” 66.

I prodotti Remade

in

Italy sono

contraddistinti da un marchio che contiene le informazioni sulle caratteristiche di sostenibilità ambientale del prodotto, in termini di risparmio di materie prime, riduzione di consumi energetici e contenimento delle emissioni di CO2.Esso è il primo marchio per la certificazione di prodotti e materiali derivanti dal riciclo e dal riuso, realizzati in Italia, nato per rispondere alle esigenze del consumatore, sempre più orientato verso modelli di acquisto rispettosi dell’ambiente. Lino biologico:

l'azienda italiana equi(x)eden67 ofre

proposte in lino

biologico, fibra proveniente da una pianta che nasce e cresce in campi mai trattati con preparati chimici e la cui trasformazione rispetta severe disposizioni biologiche. Il tutto controllato da laboratori indipendenti. Nelle fasi successive il filato viene trattato con prodotti che rispettano severe disposizioni biologiche, preservando durante tutto il processo produttivo le caratteristiche organiche della materia prima utilizzata. In questo modo, il cliente può riconoscere chiaramente

un

prodotto

organico,

ispezionato

e

certi ficato.

Gli impianti di processo del Linificio sono quindi in grado di preparare cicli di produzione personalizzati, atti a sviluppare un prodotto biologico, ben distinguibile dalle produzioni convenzionali. I fornitori sono aziende agricole presenti nell’area olandese dei polders (terreni conquistati al mare e bonificati), che

il

governo

ha

messo

loro

a

disposizione.

Sono in grado di sostenere una produzione di materia prima liniera con metodologie organiche. Tutto questo si è potuto realizzare grazie ad un elaborato sistema di vie di irrigazione ed infrastrutture atte alla realizzazione di campi di nuova concezione. Queste aziende hanno sviluppato nuove tecniche, frutto di studi iniziati negli anni ’70 e perfezionati nel tempo, per combinare i vantaggi della produzione su larga scala e la salute ambientale. Lorica(pelle artificiale): L’idea di creare una pelle artificiale è nato una 65 66 67

“Il cotone bio?inquina più delle altre fibre e rende meno”- www.linkiesta.it 26 maggio 2012 www.remadeinitaly.it http://www.equixeden.com/


ventina di anni fa all’interno di una importante conceria italiana con l’obiettivo di realizzare un materiale man-made a cui conferire e potenziare le stesse caratteristiche di lavorabilità, resistenza e traspirabilità della pelle animale. Da questo si è sviluppata una ricerca scientifica e tecnologica che ha portato alla messa a punto di un processo produttivo simile a quello conciario (poi brevettato da Lorica che quindi è l’unica azienda a poterla produrre) che si basa sulla lavorazione di microfibre non tessute che si trasformano in un materiale molto simile a quello naturale.Lorica si presenta, allo stato grezzo, in fogli dall’aspetto molto elastico e con una soffiatura evidente: sin dalla prima analisi della sezione di Lorica al microscopio si può vedere la grande similitudine con la pelle, sebbene si tratti di un prodotto totalmente di sintesi. Si è così pensato di affiancare la tecnologia dei polimeri alla tecnologia conciaria. Si è intervenuto sul Lorica grezzo, composto da poliuretano e microfibra di poliammide, molto adatto a subire la profonda trasformazione necessaria a renderlo “vera pelle hitech” Lorica è stata studiata non solo per soddisfare le richieste più svariate ed esigenti del mercato attuale, ma anche per rispondere al principio della salvaguardia ambientale. I prodotti utilizzati nelle varie fasi di lavorazione di Lorica, infatti, non sono né tossici né nocivi sia per l’uomo sia per l’ambiente. Lorica è un materiale innovativo, testato a livello biomedico con ottimi risultati: le analisi efettuate in centri specializzati confermano che Lorica è un prodotto anallergico, non sensibilizzante e non irritante. Inoltre, l'utilizzo di questo tipo di pelle si ritiene particolarmente etico in quanto l'azienda, situata nella provincia di Nuoro, è afitta da deficit economico a causa degli alti costi soprattutto di trasporto dovendo rifornire soprattutto clienti stranieri. Di conseguenza, diventare fornitore di un'azienda italiana con produzione in loco ridurrebbe notevolmente i costi di trasporto, e potrebbe, forse, salvare l'azienda sarda, unica detentrice del marchio. Fibra di Eucalipto: Tencel ® Lyocell è il marchio depositato di un nuovo tipo di tessuto ecologico ricavato dalla polpa di legno di eucalipto ed è attualmente considerato la fibra cellulosica artificiale in assoluto più compatibile con l’ambiente. L’azienda lo produce utilizzando esclusivamente cellulosa di alberi di eucalipto certificati dal Forestry Stewardship Council (FSC) e la fibra porta il sigillo di qualità del Pan-European Forest Council (PEFC). L’eucalipto è noto soprattutto come albero preferito dai koala per nutrirsi e trovare rifugio. E


anche per la fragranza degli oli essenziali che si ricavano dalle sue foglie. A diferenza di quanto avviene per una fibra come quella prodotta dalle piante di cotone, la polpa dell’eucalipto è legnosa e richiede una notevole immissione di energia nel processo di conversione per essere trasformata in una fibra morbida utilizzabile per la tessitura. Il processo di trasformazione dell’eucalipto in un tessuto è assai simile, ma meno inquinante di quello della fibra di bambù, che viene considerata una fibra naturale semi-sintetica. La polpa del legno viene ridotta in una viscosa di cellulosa che viene estrusa in filiera. Le lunghe fibre che escono dagli ugelli vengono filate e intessute a formare il Tencel, un tessuto morbido, leggero e traspirante. L’unica sostanza chimica utilizzata nel processo produttivo è il solvente non tossico ossido d’ammina, che consente di riutilizzare il 99% della sostanza in un processo a ciclo chiuso che minimizza l’impatto sull’ambiente, risparmiando energia e acqua. Anche i fumi e le acque inquinanti che derivano dal processo sono così scarsi da essere considerati praticamente innocui. Inoltre, la fibra di Lyocell è ecologica anche nel senso che i prodotti con essa tessuti possono essere riciclati. Ed è biodegradabile perché si tratta di una fibra cellulosica. L’Unione Europea ha premiato questo processo di lavorazione nell’anno 2000 con l’Environmental Award nella categoria ‘tecnologia per lo sviluppo sostenibile’. I tessuti di Lyocell hanno delle eccellenti caratteristiche fisiche: una morbidezza setosa, una notevole versatilità e un drappeggio elegante. I capi risultano estremamente lisci, dai colori intensi, con un eccellente potere assorbente. E poi sono intrinsecamente igienici poiché impediscono la proliferazione dei batteri.

- FINISSAGGI - Lavaggio all'ozono: la sabbiatura del jeans è considerata ormai pericolosa dato l'enorme rischio di silicosi per i lavoratori che se ne occupano, ed è inoltre poco ecosostenibile dato il grosso dispendio di acqua per eseguirla. Il lavaggio all'ozono permette di ridurre notevolmente la quantità d'acqua utilizzata, e non produce alcun rischio per i lavoratori che se ne occupano. Laser wash68: la Replay ha lanciato questo tipo di lavaggio per i jeans per sostituirlo alla sabbiatura. Il lavaggio a laser non richiede l'utilizzo di acqua, non inquina e non nuoce alla salute degli operai. 68

“Jeans Brand Replay Introduces Water-Free Laser Wash”- www.sustainablebrands.com 30 Novembre 2011


Stampa ad inchiostri senza ftalati : Le attrezzature per la stampa serigrafica su indumenti in genere utilizzano inchiostri con PVC chiamati plastisol, una mescolanza di particelle di PVC colorate con una quantità di plastificante sufficiente a conferire la fuidità di un liquido. Sebbene le stampe siano polimerizzate a caldo sull’indumento, è possibile che gli ftalati filtrino all’esterno sulla pelle di chi indossa il capo di abbigliamento o nella bocca di un bambino. Gli ftalati in sé sono privi di colore, ma nelle persone allergiche o con pelle sensibile possono manifestarsi eruzioni cutanee in corrispondenza del punto di contatto diretto con la zona stampata.69 Gli inchiostri privi di PVC e ftalati sono composti da polimeri acrilici colorati in base acquosa senza altri solventi. AVANTEX 70è una linea di inchiostri plastisol a norme Oekotex esente da plastificanti ftalati classificati nocivi secondo le attuali normative europee e statunitensi. Ottima coprenza, elasticità e solidità con una particolare mano soffice e morbida sviluppata appositamente per ottenere eccezionali risultati visivi e di indossabilità nella stampa di tessuti colorati e scuri. Particolare finitura opaca/satinata con aspetto serico della stampa studiata per il settore moda. Alta velocità di essiccazione sotto cappa IR di tutte le tinte ed ottima pastosità facilmente lavorabile e stampabile degli inchiostri già da vaso. Sistema completo di ricettazione con tutte le tinte Pantone sia coprenti per fondi scuri sia trasparenti per fondi chiari.

- ETICHETTE Codice qr per tracciabilità “dal seme al negozio”. L'etichetta deve contenere le caratteristiche produttive ed il luogo e azienda di produzione relativi sia al tessuto che al capo; essa deve inoltre specificare l'adesione a “Isko for earth” che implica che la filiera sia a basso impatto ambientale ed inoltre la griglia di misurazione della sostenibilità “Higgs sustainable Index” 71, composta dalle tre fasi: brand concept (ciclo di vita dei materiali utilizzati), production waste (indica i metri di stofa scartati nel taglio e gli eventuali agenti chimici e finissaggi aggiunti al tessuto) ed il facilities module (analisi del consumo di acqua ed energia e le politiche di trattamento dei rifiuti). Inoltre l'etichetta deve specificare l'eventuale riciclo del tessuto utilizzato, la sua biodegradabilità e capacità di riciclo. Per ovviare al problema 69 70 71

http://www.patagonia.com/pdf/it_IT/pvc_printing_inks_and_phtalates_IT.pdf http://www.advantex-inc.com/ http://www.apparelcoalition.org/higgindex/


di un'etichetta troppo grande per contenere tutte le informazioni dettagliate, essa sarà sostituita

da

un

codice

qr,

(in

inglese QR

Code).

Essoè

un codice

a

barre bidimensionale (o codice 2D), ossia a matrice, composto da moduli neri disposti all'interno di uno schema di forma quadrata. Viene impiegato per memorizzare informazioni generalmente destinate a essere lette tramite un telefono cellulare o uno smartphone. In un solo crittogramma sono contenuti 7.089 caratteri numerici o 4.296 alfanumerici, ciò permetterebbe di ridurre le dimensioni dell'etichetta, ma nello stesso tempo, non rinunciare al servizio di tracciabilità e di informazione per il cliente.

PrODUZIONe - FINANZIAMENTI La prima fabbrica dell'azienda nasce in Basilicata, regione del Sud Italia dimenticata dal suo Stato ma non dalle compagnie petrolifere. Sono presenti vari fondi europei per facilitare l'apertura di nuove aziende nelle regioni del Sud Italia, ed altri per le imprenditrici donne. Sfruttando queste agevolazioni sarebbe possibile ricevere un diverso trattamento riguardo le tasse che si ridurrebbero al solo 0,50%, secondo la legge 215/92 . Se l’impresa fa un business plan in cui prevede di fare investimenti per l’acquisto

di macchinari

e attrezzature varie pari a 180.000 euro, la legge

215/92 stabilisce che: il 50% di 180.000 euro

cioè

90.000 euro vengono

dati

all’imprenditrice sotto forma di contributi in c/capitale cioè sono ” a fondo perduto” e non devono essere restituiti. Il rimanente 50% di 180.000 euro cioè gli altri 90.000 euro vengono concessi sotto forma di finanziamento agevolato cioè vengono prestati all’impresa e devono cioè essere restituiti in massimo 10 anni ad un tasso di interesse bassissimo ( 0,50%) rispetto al tasso di interesse applicato di norma dalle banche.Le spese per investimenti ammesse a queste agevolazioni sono: 1.le spese che si sostengono per creare nuove attività: per esempio la realizzazione ex novo di una fabbrica 1.le spese per l’acquisto di attività economiche già esistenti: l’acquisto di attività già avviate da altri imprenditori; 2.i costi per l’acquisto di impianti, di macchinari, di attrezzature, di brevetti, di software 3.le spese sostenute per le opere murarie e relativi costi di progettazione e direzione lavori


4.i costi sostenuti per gli studi di fattibilità cioè per redigere il business plan 5.le spese per servizi volti ad aumentare la produttività aziendale e l’innovazione organizzativa 6.i costi per le ricerche di mercato 7.i costi per lo sviluppo di sistemi di qualità Queste agevolazioni non prevedono la copertura di costi per le spese di gestione; ovvero non sono finanziate le spese per gli affitti, i costi per i salari e gli stiependi, le spese per le utenze, i costi amministrativi e commerciali nonchè i costi per l’acquisto di materie prime e/o prodotti. Per eventuali spese o finanziamenti aggiuntivi. L'azienda si rivolgerà ad istituti bancari indipendenti et etici: Banca Popolare etica, Banca Etica, Eticredito Banca etica adriatica.

- FABBRICHE - FONTI DI ENERGIA La regione è ricca di pale eoliche data la presenza di vento quasi costante, seconda solo alla zona pugliese di Foggia, possiede 5600 impianti. Installare gli impianti produttivi in prossimità di fonti di energia eolica permetterebbe di ridurre al minimo i consumi per il trasporto dell'energia, che sarebbe convertita direttamente all'interno dell'impianto. Inoltre, la regione prevede varie agevolazioni anche riguardo l'utilizzo di impianti fotovoltaici da istallare sulla superficie della fabbrica ed al suo spazio esterno. La combinazione di queste due energie non inquinanti e rinnovabili permetterebbe di sostenere completamente il fabbisogno energetico della produzione, ed inoltre, la realizzazione di una struttura produttiva che possieda ampie aperture e finestre, ed i turni unicamente diurni permetterebbe un risparmio di energia soprattutto relativo all'illuminazione.

- ARTIGIANATO La presenza nella collezione di maglieria ai ferri, pone l'artigianato come parte integrante del processo produttivo. Il territorio italiano era negli anni addietro pieno di magliaie, che oggi si vanno estinguendo. L'idea di integrare le poche rimaste all'interno dell'azienda permetterebbe di creare una futura generazione di artigiani attraverso la formazione da parte di magliaie esperte. La Basilicata rurale salvaguarda


inconsapevolmente queste figure all'interno dei piccoli centri, rendendo più semplice il reperimento per l'inserimento in azienda.

- PROGETTI CON LE CASE CIRCONDARIALI Tramite l'accordo con cooperative sociali che si occupano del reinserimento dei detenuti nell'ambito lavorativo, l'azienda si propone per affiancare le detenute in un percorso di formazione nelle attività di sartoria, taglio e modellistica all'interno delle case circondariali. Secondo i dati del ministero della Giustizia i detenuti che non partecipano al programma di reinserimento, una volta usciti dal carcere, hanno il 70 per cento di possibilità di tornare a commettere reati. Chi invece ha potuto riavvicinarsi alla società attraverso un impiego, soprattutto esterno, ha solo due probabilità su dieci di sbagliare ancora. Con questo intento prende il via un progetto rivolto ai detenuti del carcere che ha come scopo quello di attrezzare un laboratorio di sartoria stabile all’interno della casa circondariale per insegnare loro una nuova professione, così da riabilitarli nella società civile ed emanciparli economicamente. Questi progetti sono già stati avviati nel carcere di Rebibbia di Roma 72 ed in quelli di Bologna e Trani, seguiti da altre carceri di minore dimensione. Il legame tra esclusione lavorativa ed esclusione sociale è evidente. Agevolare dunque l’inserimento lavorativo di donne sottoposte a misure detentive, in collaborazione con l’amministrazione penitenziaria, costituisce un obiettivo di grande rilevanza in quanto rappresenta il passaggio da uno stato di emarginazione sociale, al un primo passo verso il reinserimento sociale del detenuto. La conclusione di un programma rieducativo dovrebbe coincidere con l’ingresso nel mondo del lavoro e quindi con l’acquisizione di un ruolo, con il riconoscimento di uno status sociale e con la riconferma della dignità della persona. Nel Mezzogiorno, dove già la disoccupazione e la detenzione rappresentano problemi cruciali, l’inserimento nel mondo del lavoro di persone sottoposte a pena detentiva è un problema ancora più grave. Il progetto si inserisce in questo contesto e si pone quale finalità primaria quella di un’azione formativa innovativa e qualificata, integrata con azioni di counseling, orientamento per favorire l’inserimento nel mondo del lavoro. Al termine del percorso formativo, le partecipanti acquisiranno la qualifica di Operatore dell’artigianato sartoriale, figura professionale che sarà provvista di competenze tecniche ed imprenditoriali e che dovrà saper coniugare la propensione all’innovazione sia dal punto di vista produttivo, sia da quello della promozione e della commercializzazione del prodotto finito. La figura, oltre alle 72

“Dopo il carcere ago e filo. A Rebibbia si studia da sarta”- www.affariitaliani.it 29 Aprile 2013


specifiche conoscenze delle tecniche relative alle diverse fasi produttive e le tecnologie di preparazione, cucito e riparazione, necessita di conoscere anche le funzioni degli acquisti e della commercializzazione dei prodotti e del loro confezionamento. Dovrà inoltre acquisire capacità gestionali, organizzative e relazionali che rappresentano, oggi, un fattore determinante per il successo di quelle attività che comportano un costante rapporto con il sistema distributivo e con la clientela che individua, non un nuovo mestiere, ma una rivisitazione al passo coi tempi, rendendo innovativo tale risultato. Infatti consentirà ai destinatari di diventare protagonisti di una modalità originale di proporre il Fashion con tutta la creatività necessaria. Questo elemento oltre ad incuriosire il pubblico, ofrirà ai destinatari un efficace esercitazione di outing per tutte le capacità particolarmente nascoste e sopite dovute al disagio interiore ed esteriore degli stessi. Il percorso permetterà di formare operatrici in grado di soddisfare la crescente richiesta, da parte del comparto tessile, di manodopera capace e volenterosa, ma anche di operatrici competenti e professionali e creative, al fine di raggiungere standard di qualità che oggi sono divenuti requisiti minimi. La trasformazione del capo, rendendolo un capo di moda, attuale ed interessante, diventerà un simbolo della trasformazione anche delle detenute stesse destinatarie di quest’attenzione, ofrendo loro una chance a dimostrazione della forza di reagire a contesti difficili o meno fortunati. Successivamente alla fase di formazione, le detenute potranno continuare ad apprendere e lavorare per la realizzazione dei capi, e coloro che usciranno dal carcere avranno la possibilità di entrare a far parte dell'azienda divenendo le sarte di saboTAGe.

DISTrIBUZIONe e VeNDITA - La distribuzione avverrà preferibilmente attraverso la rete ferroviaria nei luoghi in cui è possibile. La scelta rifette la politica di riduzione dell'impatto dell'azienda sull'ambiente, essendo la suddetta

modalità di trasporto l' unica a non produrre

inquinamento da carburante, nella speranza di usufruire in futuro di un servizio che raggiunga infine l'obiettivo di impatto zero sull'ambiente attraverso l'alimentazione dell'energia elettrica completamente dalle fonti rinnovabili. - SHOP MONOMARCA I negozi monomarca del brand saranno posizionati nelle vicinanze di parchi nelle


maggiori città italiane, inizialmente Milano e Roma. Essi svolgeranno, inoltre, anche la funzione di centri assistenza per il cliente come approfondiremo insieme alle proposte relative

all'assetto

dei

punti

vendita

nel

paragrafo successivo

relativo alla

comunicazione. - PUNTO VENDITA INTERNO ALLA FABBRICA Il negozio all'interno della fabbrica riprende l'arredamento ed il concept dei monomarca, ampliandolo con la possibilità d visitare l'azienda e ricevere informazioni sul suo funzionamento, ma si pone anche l'obiettivo di non limitare la difusione del marchio alle sole città principali italiane, integrandolo anche in realtà più rurali e divenendo causa di incremento del turismo per la Basilicata attraverso uno spazio interno al punto vendita in cui si proporranno le attrazioni della regione e la possibilità attraverso un tour operator di prenotare eventuali soggiorni in regione, con uno sconto particolare per i clienti di saboTAGe. - G.A.S. (Gruppi di acquisto solidale)73 Utilizzati come outlet, i G.A.S. Permetterebbero lo smaltimento delle collezioni passate ed un veicolo di promozione anche nei luoghi in cui non sia presente il punto vendita monomarca. Inoltre, la scelta ricade sui gruppi di acquisto solidale in quanto garanti di un'eticità vicina a quella aziendale, evitando l'eventuale analisi di altri punti vendita plurimarca rispetto ai brand proposti ed alla loro eticità, e scegliendo così un canale alternativo alla tradizionale rete distributiva.

· COMUNICAZIONe La comunicazione aziendale non si avvarrà delle tradizionali ed invasive tecniche di comunicazione, ma utilizzerà processi alternativi e non colonizzerà spazi pubblici.

NO OBSOLESCENZA PROGRAMMATA I punti vendita (compreso quello interno alla fabbrica) svolgeranno la funzione di centri assistenza: per ovviare al problema sempre più pressante dell'obsolescenza programmata degli oggetti, l'azienda si impegna a fornire una garanzia della durata di 3 anni dalla data di acquisto, entro cui, in caso di danneggiamento e/o 73

http://www.retegas.org/


malfunzionamento del capo non a causa di un'errato utilizzo o conservazione da parte del cliente, i capi e/o accessori saranno sostituiti o riparati gratuitamente dallo staf aziendale. Al termine della garanzia, il cliente potrĂ comunque usufruire del servizio dietro minimo pagamento relativo alle spese di spedizione in azienda ed all'ammontare della retribuzione di un singolo operaio relativo ad un'ora del suo lavoro. La contrafazione sarĂ impedita grazie al numero impresso sul nodo che costituisce il logo dell'azienda, il quale, inserito nel sistema operativo aziendale, fngerĂ da codice per il riconoscimento del capo.

ARREDAMENTO PUNTI VENDITA

I punti vendita arredati seguendo la logica del riciclo, e coniugandola con l'educazione del cliente attraverso la grafica. Gli arredi saranno composti interamente in cartone riciclato dell'azienda Corvasce Design (Via Bruxelles, 7, Barletta- Living room via Scalarini, 7, Milano), la quale realizza furniture completamente riciclata 74. Ad esclusione degli specchi che saranno realizzati utilizzando gomma di pneumatici come cornice. I camerini saranno creati attraverso pareti mobili in cartone

mattoncini in toni del bianco. Le pareti restanti saranno dipinte successivamente all'apertura

tramite

l'accordo

con

eventuali writer disponibili ad utilizzare questi 74

spazi

www.corvasce.it

espositivi

esclusivamente

riciclato

che

riproducono

muri

di


attraverso l'utilizzo di bombolette spray non dannose per l'ambiente. 75 Le poltroncine e i tavoli della sezione dedicata all'intrattenimento, allo scambio di informazioni ed alla musica, collocato nell'angolo destro della vetrina saranno prodotte da Boris Bally, artista che ha prodotto una linea di poltrone riutilizzando cartelli stradali. 76 In questo spazio del locale sarà possibile per i clienti utilizzare alcuni macchinari base per la cucitura, in modo da permettere al consumatore di provvedere da solo ad eventuali modifiche e/o riparazioni sartoriali in caso non ritenga opportuno rivolgersi al servizio di assistenza(“free mending”). Lo stesso spazio sarà aperto all'accoglienza di eventuali musicisti o deejay professionisti e non che si proporranno per accompagnare lo shopping con la loro musica, dato il rifiuto del negozio di riprodurre radio o musica che non sia strettamente dal vivo.

VETRINE Le vetrine saranno decorate con disegni sui vetri realizzati attraverso tappi di bottiglie, ed i manichini si presenteranno come writers intenti a completare il murales riprodotto sul vetro, rigorosamente armati di bomboletta spray.

PACKAGING Il packaging degli articoli sarà costituito da una scatola in cartone riciclato decorata con le immagini della campagna pubblicitaria, al termine della sua funzione per il trasporto, sarà quindi possibile riutilizzarla come complemento d'arredo, o nell'evenienza il coperchio utilizzabile come quadro da affiggere sulle pareti. Inoltre, le shoppers saranno realizzate completamente in canapa e iuta, ed a coloro che riporteranno la stessa shopper negli acquisti successivi, sarà efettuato uno sconto di 1 € sul capo acquistato. Gli scontrini fiscali saranno rigorosamente stampati su carta riciclata, come anche i cataloghi pubblicitari. L'azienda utilizzerà questo tipo di carta anche all'interno degli uffici, della produzione e dei punti vendita.

Solventi non tossici: le vernici che non contengono solventi aromatici come Toluene o Xilene presenti nella maggior parte delle bombole sul mercato e ormai ampiamente riconosciuti come dannosi per la salute dell’uomo e dell'ozono 76 Www.borisbally.com 75


CAMPAGNA PUBBLICITArIA Presenza in fiere dell'ecosostenibile: Fà la cosa giusta- Milano77 Eos expo- Udine e Gorizia78 Zero emissioni – Roma79 Campionaria- Padova80 Progetti di educazione all'interno delle scuole e delle università Rifiuto affissioni pubblicitarie ed inserzioni nelle testate giornalistiche, l'azienda adotterà dei muri di cemento all'interno delle città su cui sarà dipinta la campagna pubblicitaria, priva di riferimenti al marchio, sarà presente solo in basso a destra lo slogan “follow your heart”, attraverso cui, cercando nei vari motori di ricerca della rete, tramite il tag si potrà individuare il sito di saboTAGe. Pubblicità itinerante: escludendo la possibilità “colonialista” ed inquinante dell'affissione su mezzi pubblici della campagna pubblicitaria, l'azienda propone di acquistare una decina di biciclette per ogni punto vendita sul cui cestino sarà raffigurata la campagna pubblicitaria con le stesse modalità grafiche relative ai murales. Questi mezzi saranno “affittati” a costo zero per l'intera giornata a coloro che vorranno utilizzarli in sostituzione dell'auto.

77 78 79 80

http://falacosagiusta.terre.it/ http://www.eosfiera.it/ http://www.zeroemissionrome.eu/ http://www.campionaria.it/


Turn static files into dynamic content formats.

Create a flipbook
Issuu converts static files into: digital portfolios, online yearbooks, online catalogs, digital photo albums and more. Sign up and create your flipbook.