Expo'92: Pabellón de Japón

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E x p o ' 9 2 : P a b e l l o nd eJ a p o n

P o l i t e c n i c od i M i l a n o A . A . 2 0 1 3 2 0 1 4 C o r s od i s t o r i aec r i t i c a d e l l ’ a r c h i t e t t u r ac o n t e mp o r a n e a P r o f . e s s aM a r i aT e r e s aF e r a b o l i F e d e r i c oZ a p p e l l a


Indice Exposición Universal de Sevilla 1992…………………………………………………………………………………………………….…2 Introduzione…………………………………………………………………………………….……………………………………………2 Cenni storici: perché a Siviglia?..........................................................................................................2 Opera di convincimento………………………………………………………………………………………………………………..3 Uno sguardo sull’expo…………………………………………………………………………………………………………………..3 Tadao Ando…………………………………………………………………………………………………………………………………………….5 Dicono di lui………………………………………………………………………………………………………………………………….5 Japan Pavilion…………………………………………………………………………………………………………………………………….....6 Una rapida introduzione..…………………………………………………………………………………………………………….6 I motivi della scelta materica.……………………………………………………………………………………………………….6 Idea di partenza..………………………………………………………………………………………………………………………….6 Architettura del padiglione..…………………………………………………………………………………………………………9 Organizzazione del padiglione.……………………………………………….……………………………………………………13 Altri padiglioni……………………………………………………………………………………………………………………………………….19 Padiglioni significativi………………………………………………………………………………………………………………….19 Padiglioni nazionali………………………………………………….………………………………………………………………….30 Stato Attuale…………………………………………………………………………………………………………………………………………37 Bibliografia…………………………………………………………………………………………………………………………………………..50 Sitografia……………………………………………………………………………………………………………………………………………..50

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Exposición Universal de Sevilla 1992 Introduzione “L’esposizione universale Siviglia 1992 rappresenta una sintesi e una speranza, costituendo un campione delle capacità umane e una promessa per il futuro, rintracciando il cammino che abbiamo percorso e che delinea già quello che ci attende, in costante continuità. A Siviglia si incontrano passato e futuro, rendendosi reciprocamente leggibili e intrecciandosi in modo dialettico e positivo. Allo storico 1492, che trasformò la coscienza dell’umanità in coscienza universale, si sono succeduti cinquecento anni di scoperte, una grandiosa avventura scientifica, tecnologica e umana durata cinque secoli che, nonostante alcuni arretramenti verso forme di barbarie, di guerre e di ingiustizia sociale, ci autorizza ad affermare a ragion veduta la possibilità di una speranza.”

S.M. Juan Carlos I, re di Spagna Da quando, nel 1851, si tenne a Londra la prima delle grandi esposizioni internazionali, queste manifestazioni non hanno mancato di catalizzare l’interesse del pubblico e delle nazioni. Sono state e sono tuttora soprattutto espressione e testimonianza delle rispettive epoche. Dopo centocinquant’anni di grandi esposizioni, anche la Spagna volle rendere omaggio alla meravigliosa capacità inventiva dell’uomo e lanciare nel contempo a tutti i popoli un messaggio di pace e di speranza per un nuovo ordine mondiale. Si celebrò nella capitale dell’Andalusia (Spagna) nell’anno 1992 e fu conosciuta popolarmente come “Expo’92” o “la Expo”. Come tutte le esposizioni universali posteriori al 1931 fu organizzata e sviluppata dall’ufficio internazionale di esposizioni. Ebbe una durata di sei mesi, cominciò il 20 aprile e terminò il 12 ottobre successivo coincidendo con la data del quinto centenario della scoperta dell’America, in onore di questo il motto fu: “La Era de los Descubrimientos” ovvero l’epoca delle scoperte. Furono rappresentate più di 100 nazioni, vennero utilizzati 250 ettari1 per svilupparla e il totale dei visitatori fu pari a 41.814.541.2 Al termine dell’esposizione le infrastrutture di cui si era usufruito furono convertite in un parco tecnologico chiamato “Cartuja 93” e in un parco tematico chiamato “Isla Mágica”, inoltre furono adibite a usi amministrativi, universitari e di interesse comune per la città. Cenni storici: perché a Siviglia? L’idea di realizzare questa esposizione è frutto di un progetto di lavoro di diversi anni. Tutto iniziò durante la prima visita ufficiale del re di Spagna Juan Carlos I a Santo Domingo (Repubblica Dominicana) il 31 maggio 1976; qui si manifestò la volontà del sovrano di mostrare al mondo le qualità dello stato spagnolo e dei paesi ibero-americani; era sua intenzione sfruttare il quinto centenario della scoperta dell’America, ormai prossimo a quell’epoca, e omaggiarlo nella dovuta maniera. Era un momento difficile per il paese per via della complicata situazione politica che stava per assistere alla fine della dittatura franchista e l’inizio di una transizione verso la democrazia. Per capire meglio il periodo che si stava vivendo basti pensare che l’allora presidente del governo3, al quale mancavano poche settimane alla fine del mandato si dimise lasciando il messaggio: “Io non voglio che il sistema democratico di convivenza sia, una volta ancora, una parentesi della storia spagnola”; il suo successore4 fu nominato e votato liberamente però durante la cerimonia di investitura ci fu un colpo di stato per mano di guardie civili armate che irruppero in parlamento pretendendo di fermare il processo democratico.5

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La zona eletta fu il barrio de la Cartuja dove sorgeva l’omonimo monastero che da rovina fu ri-abilitato. BIE Website. 3 Adolfo Suárez. 4 Leopoldo Calvo-Sotelo. 5 Il “golpe” è conosciuto come 23-F e fu guidato dal tenente colonnello Antonio Tejero. 2

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Il 26 gennaio 1981 il comune di Siviglia approvò la petizione per presentarsi come sede ospitante dell’esposizione. Il 3 marzo 1982 il governo spagnolo sollecitò formalmente l’ufficio internazionale delle esposizioni in coincidenza con la proposta di Chicago, per questo motivo venne cambiato il regolamento rendendo possibile l’esecuzione contemporanea di due esposizioni. Il 31 maggio 1982 l’istituto di cooperazione ibero-americano creò il progetto “Sevilla 1992” dando perfino un nome a quello che succedette in seguito. Nel 1983 Spagna e USA si unirono a Parigi per presentare i loro progetti che vennero valutati con 183.733 milioni di pesetas6. Nel 1985 Chicago comunicò problemi organizzativi lasciando l’onere e l’onore di organizzare l’expo solo ed esclusivamente a Siviglia. Al fine di accogliere nel miglior modo possibile tutti i visitatori e convincere il mondo intero delle capacità spagnole fu necessario modernizzare urbanisticamente la città costruendo una nuova rete viaria, autostrade, circonvallazioni, una nuova stazione dei treni e fu ampliato l’aeroporto. Questi cambiamenti furono un gran impulso per tutto il paese che incominciò ad ammodernarsi e, per esempio, a sviluppare l’alta velocità su rotaia. Opera di convincimento Negli anni ’80 vi fu molta diffidenza nei confronti dello stato spagnolo in particolare nei riguardi della sua capacità di sviluppare e portare a termine un progetto tanto esteso e ambizioso. Al fine di convincere gli stranieri a partecipare fu eletta una mascotte che per anni viaggiò per il mondo al fine di vendere il progetto; il suo nome è “Curro” e fu disegnata da un illustratore e disegnatore tedesco, Heinz Edelmann che vinse un concorso a cui parteciparono 23 progetti provenienti da 15 paesi differenti.

Fig. 1 Curro, mascotte dell’expo.

Fig. 2 I 112 paesi che parteciparono.

La mascotte è un picchio con cresta e becco multicolore e zampe di elefante, simbolo di stabilità. Il simbolo eletto diede un forte impulso e contribuì a portare 112 paesi, 23 organismi internazionali, 6 imprese e le 17 comunità autonome spagnole all’Expo. Tutt’oggi l’immagine di questa mascotte è viva nella popolazione andalusa ed è la versione “animalesca” del nome Francisco. Uno sguardo sull’Expo Nella zona occidentale di Siviglia, dove il Guadalquivir si divide in due bracci e circonda l’isola della Cartuja venne allestita l’esposizione. La fine dell’isolamento della Cartuja rispetto il centro storico, il recupero e l’inserimento all’interno del tessuto urbano è il primo decisivo contributo dell’Expo. La Cartuja quattrocentesca insieme alle sotterranee, invisibili strutture logistiche e di telecomunicazione adombrano l’immensa trama di una città del futuro pensata per convivere con le testimonianze del passato. Non solo ragioni tecniche e di pianificazione del territorio hanno presieduto la scelta dell’isola quale scenario, infatti vi è un dato storico determinante: qui dimorò Cristoforo Colombo prima 6

Il cui tasso di cambio irrevocabile era 166,386 ESP per un euro.

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d’intraprendere il viaggio d’America e qui, probabilmente, concepì la grande avventura. Colombo fu ospite del monastero di Santa Maria de las Cuevas, edificio storico che costituisce il punto di riferimento centrale dell’Expo. Il complesso monumentale della Cartuja (Certosa, 1400) è il cuore simbolico di Expo92, si tratta di un monastero che si è espanso col passare degli anni e fu completamente restaurato e ristrutturato per l’occasione. Pare che le prime macchine a vapore agricole si videro all’opera proprio qui e contribuirono alla ricchezza della struttura che riuscì a evolversi e ampliarsi; nel XIX secolo fu installata una fabbrica di ceramiche, tutt’oggi è possibile vederla con le inconfondibili ciminiere che non han mai cessato di lavorare e producono splendide porcellane che ottengono larghi consensi. L’altro punto focale dell’expo, che dovremmo chiamare asse direttore è il Viale delle Scoperte che simboleggia il cammino dello sviluppo scientifico, tecnologico e culturale. Un’impostazione espositiva cui si conformarono i contributi dei singoli partecipanti e organicamente sviluppata nei Padiglioni e nelle mostre. Il Viale presentava poi una panoramica complessiva delle realizzazioni umane: per citarne alcune soltanto, una macchina a vapore, la nave che per prima circumnavigò il globo, la prima carta geografica d’America, un acceleratore di particelle, una rampa spaziale… Insomma, un’ampia rassegna delle invenzioni e delle scoperte cui gli essenziali apporti delle scienze umane e della cultura, nel senso più ampio del termine, conferirono completezza e unità. Il progetto di sistemazione dell’area dovette tener conto che al termine dell’Expo si sarebbe dovuto riconvertire il tutto nel principale centro di sviluppo tecnologico ed economico della regione. Il perimetro e l’area del Recinto furono strutturati in forma di reticolato geometrico in grado di assolvere a una duplice funzione: dapprima struttura espositiva, quindi autentico spazio urbano. L’area fu fornita di tutti i servizi necessari, dai più elementari e generici fino a quelli più specializzati, indispensabili per l’esposizione: opere infrastrutturali, reti generali di approvvigionamento, igieniche, elettriche, di distribuzione del gas, di telecomunicazioni, di irrigazione e antincendio, nuovi grandi ponti che collegano la Cartuja con la città e otto ponti minori all’interno del recinto espositivo. E poi, due stazioni di rifornimento idrico, due centrali elettriche, un lago, un canale principale, due porti, un terminal per il treno ad alta velocità, una teleferica, un treno monorotaia sopraelevato, un eliporto, oltre a strade, viali e corsi larghi da 50 a 80 metri, parchi e giardini che un’intensa campagna di rimboschimento e sistemazione del verde popolò di 25000 alberi e 300000 arbusti di mille specie e varietà, pergolati a coprire una superficie di 50000 metri quadrati di ombra, sistemi di nebulizzazione dell’acqua per alleviare la calura estiva. Fu un evento unico: in un solo luogo riunirono tutta la produzione architettonica mondiale, con le tendenze più innovative e le nuove proposte rivolte al futuro. Uno scenario particolare, da un lato, la massima libertà creativa concessa agli architetti incaricati di progettare gli spazi e gli edifici espositivi; dall’altro lo sforzo di dare coerenza agli spazi pubblici: l’arredo urbano, i ristoranti, i servizi, i negozi, i pergolati, le zone verdi, gli ampi marciapiedi, tutti obbediscono a una concezione omogenea ma in pari tempo flessibile e rifuggente ogni forzata omologazione.

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Tadao Ando Tadao Ando (安藤 忠雄 Andō Tadao) è un self-taught architect. Nasce il 13 settembre 1941 a Minato-ku, Osaka, Giappone e cresce nella cittadina di Asahi-ku. Conduce una vita movimentata, lavora come pugile e camionista prima di scoprire la vocazione per l’architettura dove non riceve formalmente un’educazione. Viaggia per il mondo e osserva opere dei più grandi architetti del XXI secolo come Frank Lloyd Wright, Le Corbusier, Ludwig Mies Van der Rohe e Louis Kahn. Nel 1968 torna in Giappone e stabilisce il suo personale studio di architettura col nome di “Tadao Ando Architect and Associates” a Osaka, sua città natale. Decide di seguire questo percorso al secondo anno di scuole superiori dopo aver visitato l’Imperial Hotel di Wright presso Tokyo. Ando ha un forte legame con la cultura giapponese. La sua terra natia lo influenza sia nello stile di vita sia nella sua architettura e design. Tipico dei suoi lavori è l’effetto “haiku”7 con il quale enfatizza la bellezza della semplicità e degli spazi vuoti e scarni. La semplicità delle sue opere enfatizza le sensazioni e le esperienze fisiche che si hanno in contatto con esse. Un tratto distintivo dei suoi lavori, quasi una firma, è l’influenza Zen.8 Crede che mediante la ‘buona’ architettura si possa riformare la società promuovendo spazi e cambiando identità di luoghi. In accordo con l’idea di praticare la via della semplicità utilizza spesso il calcestruzzo a vista evocando un senso di pulizia e pesantezza al tempo stesso. Lo spazio interno, invece, viene pensato più complesso però sempre al fine di “sensibilizzare al bello”. Una variante al suo stile è l’utilizzo del legno, soprattutto in ambito religioso, che necessita di continua cura e manutenzione; questa posizione di Ando è in netto contrasto con l’idea di altri architetti per cui la architettura ecclesiastica dovrebbe essere il più possibile immortale e duratura. Il suo stile è stato catalogato e descritto come “regionalismo critico”9 ovvero un approccio all'architettura con il quale si cerca di opporsi all'idea di mancanza d'identità e/o di appartenenza di alcune architetture moderne avvalendosi del contesto geografico dell'edificio.10 Un altro tratto distinguibile dell’architettura di Ando è l’associazione con la natura; è una maniera per creare facilmente un’esperienza spirituale e di bellezza naturale attraverso gli edifici. È solito usare molto la luce naturale e creare forme in accordo con l’ambiente circostante, seguendo le forme naturali pre-esistenti in modo da non disturbarsi a vicenda. Come già detto prima, Ando è abituato a progettare percorsi di circolazione interni particolarmente articolati in tre dimensioni che intersecano l’edificio in modo da influenzare il risultato estetico dell’esterno stesso. Dicono di lui “Tadao is a kind of Japanese brother for me. We have almost the same age, the same anti-academic background and the same taste for Sushi bars. Of course, we are very different as architects and we have different inspirations: but we have the same stubbornness in pursuing details. I love the magic of the Gallery for Japanese Screen at the Art Institute of Chicago. I love the suspended atmosphere of the Meditation Space at UNESCO in Paris. I love the serene and powerful calm of the Modern Art Museum of Forth Worth, the beauty of the Pulitzer Foundation for the Arts in St. Louis and the subtleties of the new Palazzo Grassi in Venice. They are all gems of perfect proportion.”

Renzo Piano 7

Brevi poesie giapponesi. Una scuola di Buddismo Mahayano, sviluppato in Cina e molto comune in oriente. 9 Il termine fu introdotto dai teorici dell'architettura Alessandro Tzonis e Liane Lefaivre, successivamente, con un significato leggermente diverso, fu utilizzato dallo storico-teorico Kenneth Frampton. 10 La categorizzazione è stata opera di Francesco Dal Co, storico dell’architettura italiano. 8

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Japan Pavilion Una rapida introduzione Questo padiglione è stato progettato per l’esposizione universale del 1992 tenutasi a Siviglia. Seguendo il tema de “l’Età delle scoperte” cercava di riunire la cultura giapponese con la moderna e avanzata tecnologia, presentando se possibile una possibile interazione tra quest’ultimo fattore e le nazioni attuali. Il padiglione era lungo 60m, largo 40m e raggiungeva un’altezza massima di 25m con quattro piante in alzato partendo da terra fino al terzo piano sopra il quale vi era un telo di copertura traslucido in teflon supportato da una struttura in legno laminato. L’esterno è caratterizzato da alti muri massicci di pannelli in legno che racchiudono l’edificio. Necessario per questo padiglione era esprimere la cultura giapponese ed evocare lo spirito nazionale. La cultura giapponese è “raw nature”11 infatti per le finiture si è usato solo legno naturale senza alcuna colorazione o trattamento invasivo. Attraverso la tecnica di lavorazione e trattamento dei materiali Ando esprime la maniera giapponese di percepire la natura. I motivi della scelta materica Durante la progettazione del padiglione viene eletto un materiale insolito per la Tadao Ando Architect and Associates. La domanda più frequente che è stata posta ad Ando quando ha realizzato l’opera è stata: “perché il legno?”, una spiegazione sembra doverosa dopo moltissimi lavori in calcestruzzo. Si è accennato nella prima parte all’uso dei materiali da parte di Ando ma non si è approfondito adeguatamente. Il calcestruzzo non è il tema sul quale lo studio lavora; la loro preoccupazione è piuttosto rappresentata dallo spazio involucrato nel calcestruzzo. Alla stessa maniera impiegando il legno, non è il suo uso il problema o la parte su cui soffermarsi troppo ma bensì lo spazio che si estrae dalla costruzione e la sensazione estetica che ne deriva. La posizione di Ando pare chiara e in accordo con quanto afferma il sempreverde Bruno Zevi12 il quale invita a soffermarsi sullo spazio interno e non su rivestimenti e forme particolari poiché senza una sapiente e corretta progettazione degli interni non si ha architettura ma altre forme d’arte come ad esempio la scultura.13 Un forte motivo che giustifica la scelta è che nel quadro di una esposizione internazionale l’architettura di un padiglione nazionale esprime meglio di quanto esposto al suo interno la cultura del paese, con l’edificio di Siviglia si tenta di interpretare la cultura giapponese e la sensibilità estetica della popolazione ricorrendo a una costruzione lignea. Si cerca di creare una sorta di contrasto tra architettura in legno e le tipiche costruzioni europee in pietra e muratura. Idea di partenza Il tempio di Ise del VII secolo ha rappresentato il riferimento di base. In questa architettura semplice e severa, circondata da un bosco di alberi sottili e di cryptomeria14 giganteschi, la volontà di costruire degli uomini si manifesta nella forma più primitiva. In questo tempo prende forma una concezione estetica potente e severa, diversa dalla bellezza delicata che il Giappone ha prodotto negli ultimi secoli. Nel tempio di Ise due lotti sono approntati uno accanto all’altro per consentire di ricostruire l’edificio ogni vent’anni. Si esprime in tal modo una aspirazione all’immortalità, l’eterna aspirazione del Giappone alla purezza, di cui è simbolo la ricostruzione rituale, shikinen sengu15, che permette la rinascita di un nuovo edificio ogni due decenni – un’idea di immortalità assai diversa da quella che si manifesta in Occidente con costruzioni totalmente differenti. Vent’anni è il tempo nel corso del quale le conoscenze tecniche necessarie per 11

Natura cruda. Architetto, urbanista e politico italiano, noto soprattutto come storico e critico d'architettura. 13 Saper vedere l'architettura, Einaudi, Torino 1948. 14 Albero sempreverde di grandi dimensioni fino a 40 m d'altezza, tipico dell’asia. 15 Cerimonia sacra della ricostruzione del tempio, serve a ricordare ai fedeli che tutto muore e risorge. Si svolge ogni 20 anni da 1300 anni. 12

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costruire un tempio possono essere trasmesse e apprese, ed è un lasso di tempo che coincide con quello durante il quale il legno mantiene inalterato il proprio colore chiaro. Una grande energia, astrazione e compressione del tempo trovano espressione nell’uso del legno nel tempio di Ise, del tutto diverse dalle qualità che si evidenziano nell’architettura della casa da tè. Realizzando il padiglione di Siviglia Ando volle esprimere una forma analoga di pensiero con strumenti formali differenti. Dette una dimostrazione di una concezione spaziale all’interno dei limiti imposti dall’uso di un unico materiale, il legno, impiegato sia internamente che esteriormente e realizzare al contempo il valore dei grandi pilastri. Per ottenere questo risultato utilizzò qualità formali e cromatiche dei materiali. La tradizione giapponese prevede la costruzione di diversi spazi con l’utilizzo di materiali naturali differenti che offrono ammirevoli effetti cromatici. Data la grandissima esperienza maturata con anni e anni di studi e lavori sul calcestruzzo Ando pensò che i colori della natura, del legno, della terra, della pietra possano venire ridotti a monocromia senza appiattire l’opera ma, bensì, arricchendola di profondità ed esaltandola. Secondo Tadao l’architettura giapponese ha nello stile ‘sukiya’16 il vero cuore; caratterizzato dall’impiego manieristico di materiali rustici e dall’associarsi alla cultura della cerimonia del tè e quindi alla configurazione della casa del tè.

Fig. 3 e 4 Interni di una casa del tè.

Questo tipo di stile, utilizzato anche nelle case residenziali, crea spazi vitali aggraziati e raffinati con proporzioni delicate, ampio uso di materiali locali, integrazione di spazi interni ed esteriori e crea un senso generale di eleganza, quiete e armonia. La moderazione è la chiave per comprendere la struttura. Oltre ad elementi snelli lignei e la mancanza di ostentazione lo stile ‘sukiya’ si sforza di non sommergere ma, al contrario, armonizzare l’ambiente con la scala umana e la percezione dei soggetti che vivono o visitano i locali. Affascina, questa architettura, per il carattere coinvolgente degli spazi oppure per il controllato impiego della luce, per la capacità di utilizzare il contrasto tra oscurità e luminosità. L’essenza dell’architettura sukiya, d’altro lato, si basa sul controllo della natura e su effetti essenzialmente superficiali. Per il modo di intendere attuale di un giapponese l’architettura in legno è rappresentata dalle costruzioni sukiya e dalle case da tè; sono quindi archetipi della cultura orientale. La casa del tè, spazio denso, ove i pensieri del progettista si riflettono dappertutto e ove la vita del costruttore sembra occupare ogni dettaglio. Questo aspetto artigianale ha esercitato un’influenza enorme sull’architettura contemporanea giapponese ed è, questo, un fatto di notevole importanza. Ando afferma dunque che è stato di notevole interesse combattere la riduzione della sensibilità sukiya a effetti di superficie e al piacere del dettaglio per tentare invece di recuperare dalla tradizione le premesse per modi di espressione contemporanei.

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Nel 1587 Toyotomi Hideyoshi (1536–98) assunse il ‘Maestro del tè’ Sen no Rikyū come consulente per questioni estetiche. Nel complesso di ‘Hideyoshi's imposing Jurakudai’ (Kyoto) Rikyū disegnò un edificio denominato ‘Coloured Shoin’ che divenne il primo esempio di architettura sukiya-zukuri. L’architettura sukiya-zukuri incorpora estetiche case del tè e altri tipi di edifici inclusi ristoranti, ville, alberghi e abitazioni private.

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Fig. 5 Sezioni verticali di una casa del tè. Relazione tra interno e esterno.

Le opere antecedenti a questo stile esprimono la propria eleganza nella libertà che si manifesta all’interno di un rigoroso sistema compositivo nel contesto di limiti ben definiti. Come già accennato anteriormente un altro elemento focale per l’ispirazione della realizzazione del padiglione di Siviglia è stato il Tempio di Ise; si tratta di un santuario shintoista17 consacrato dalla dea del sole18.

Fig. 6 e 7 Viste esterne dei santuari.

Ufficialmente conosciuto semplicemente come Jingū, cioè “il Santuario”, è in effetti un enorme complesso costituito da ben 123 santuari autonomi, suddivisi in due zone principali: Gekū , "Santuario esterno" (di cui fanno parte 32 santuari) e Naikū o "Santuario interno" (formato da 91 santuari). Una via di pellegrinaggio lunga 6 chilometri collega i due complessi. Nel santuario di Ise è contenuto un tesoro nazionale, il Sacro Specchio raffigurante Amaterasu. Ciò lo rende il sito più importante e sacro allo Shintoismo. Solo una cerchia ristrettissima di persone può accedere alla vista dello Specchio, sul quale opera la sua vigilanza la Grande Sacerdotessa. Al pubblico è solamente concesso di vedere il tetto delle costruzioni che si stagliano dietro a 3 alte recinzioni di legno.

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Lo Shintō o Shintoismo (talvolta italianizzato in Scintoismo) è una religione nativa del Giappone. Prevede l'adorazione dei Kami, un termine che si può tradurre come divinità, spiriti naturali o semplicemente presenze spirituali. Anche le persone illustri, gli eroi e gli antenati divengono oggetto di venerazione dopo la morte e vengono a loro volta annoverati tra i kami. 18 Amaterasu-ō-mi-kami (天照大御神? letteralmente "Grande dea che splende nei cieli"), generalmente abbreviato in Amaterasu, è la dea del Sole (divinità da cui discendono tutte le cose) nella religione shintoista. È considerata la mitica antenata diretta della famiglia imperiale giapponese.

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Fig. 8 Vista aerea del santuario.

Lo stile architettonico del santuario di Ise è conosciuto come shinmei-zukuri, caraterizzato da un’estrema semplicità e antichità. Gli edifici che compongono il santuario sono costruiti secondo una variante di tale stile, chiamato Yuitsu-shinmei-zukuri, che non può essere usato nella costruzione di nessun altro santuario. I vecchi santuari vengono smantellati e ricostruiti su un sito adiacente in modo da rispettarne le esatte caratteristiche ogni 20 anni di modo che gli edifici siano per sempre sia antichi che originali. Ciò ha inoltre lo scopo di passare le tecniche di costruzione alle generazioni future e segue la credenza shintoista del ciclo continuo della morte e rinnovamento, nonché della temporaneità di tutte le cose, il wabi-sabi. Le odierne costruzioni sono state erette nel 2013 e sono la sessantaduesima ricostruzione. Architettura del padiglione Uno dei più grandi edifici in legno mai costruiti al mondo; se non il più grande in assoluto. Le dimensioni sono già state citate ma vale la pena ripeterle: 60 metri di facciata e 40 di profondità per delimitare la superficie del padiglione, che nel punto più alto tocca i 25 metri. L’interno è disposto su quattro piani, compreso il pianterreno, con sovrastruttura sostenuta da colonne e travi di legno laminato.

Fig. 9 e 10 Dettagli della struttura e del soffitto.

La struttura non è realizzata completamente in legno ma racchiude diverse tipologie di materiali, utilizzati in maniera interessante, come ad esempio parti in calcestruzzo mobili e rotanti, o strutture composite per le aree maggiormente caricate, o ancora acciaio per giuntare gli assi di legno e tensionare la copertura.

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Fig. 11 e 12 Vista del cantiere durante la messa in opera del telaio.

Il tetto è, anch’esso, differenziato a livello materico poiché consiste di una nervatura d’acciaio ricoperta da un telone di teflon semitrasparente, mentre, sempre parlando di chiusure, le pareti esterne sono ricoperte da elementi a dorma arcuata di legno laminato. L’argomento copertura apre una interessante parentesi riguardante i giochi di luci e ombre, nonché gli effetti che si vogliono ottenere con determinati materiali, aperture e oscuramenti. Ando si interroga sull’uso della luce e lo studia meticolosamente. La luce è l’origine di tutto: quando colpisce la superficie delle cose ne delinea i profili; producendo le ombre dietro agli oggetti ne coglie la profondità. I confini tra luce e oscurità articolano gli oggetti nella loro forma specifica e li predispongono alle relazioni e ai rapporti; la luce garantisce l’autonomia delle cose ma ne prescrive al contempo le relazioni. La luce coglie l’individualità di una differenza in un contesto di relazioni, ed è la luce che crea le connessioni che formano il mondo. Secondo Tadao l’architettura coglie della luce l’essenza, ritaglia porzioni che fissa in un luogo e crea sensazioni in colui che visita l’opera. La luce garantisce sempre nuove forme alle cose e nuovi rapporti agli oggetti. Queste idee sono frutto del background tradizionale che l’architetto ha, nelle case da tè i rapporti tra gli spazi sono sottili dovuti ai delicati telai lignei rivestiti di carta e quindi la luce ne fa da padrone in questi ambienti; filtrata da questi diaframmi, la luce abbondante dell’esterno si diffonde dolcemente negli interni e si dilata, si mescola all’oscurità e da forma a spazi dalle gradazioni cromatiche. La luce dona vita allo spazio. Viene anche rivista sotto un punto di vista differente, quello orientale, l’architettura millenaria occidentale che ha impiegato massicce murature in pietra per separare interni e esterni insieme a finestre ritagliate che, uniti, sembrano un rifiuto del mondo esterno. Le aperture si sostituiscono alla luce stessa brillando negli ambienti chiusi e questo, forse, simboleggia l’aspirazione alla luce di uomini condannati a vivere nell’oscurità. Un raggio di luce attraverso quell’oscurità poteva suonare come una invocazione e le finestre erano concepite non per il piacere del vedere, ma semplicemente per consentire l’ingresso della luce nella forma più diretta; questa entrando negli ambienti configura spazi solidi e severi, quasi scultorei. Oggi le finestre sono libere da ogni costrizione strutturale ma ciò non ha comportato la liberazione della luce. L’architettura moderna ha prodotto un mondo eccessivamente trasparente, omogeneamente illuminato, unicamente brillante, privo di oscurità. Ando vuole dedicare cure e precauzioni all’uso della luce, ritenendo il suo ruolo come fondamentale. Si sforza di guidare la luce all’interno delle architetture al fine di dare in tal modo profondità allo spazio e rendere stimolanti gli ambienti.

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Fig. 13 Studio della luce nel padiglione in base all’inclinazione dei raggi solari.

La luce da sola non produce illuminazione però. Alla luce è necessario si accompagni l’oscurità. Le sue attenzioni sono rivolte al rapporto luce-oscurità; nell’oscurità la luce appare come un gioiello. Quando progettò la chiesa della luce19 immaginò una scatola chiusa con muri in calcestruzzo, una “costruzione dell’oscurità”.

Fig. 14 Effetto interno della chiesa della luce.

Qui un taglio nel muro consente alla luce di penetrare a patto di sottostare a rigorose costrizioni e un raggio taglia l’oscurità. I muri, i pavimenti e il soffitto intercettano la luce che ne rivela la presenza e ne individua, rimbalzando riflessa dall’uno all’altro, le complesse relazioni, dando vita allo spazio.

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La chiesa della luce (茨木春日丘教会), realizzata nel 1989, è una chiesa cristiana nel quartiere di Ibaraki ad Osaka. È una delle architetture più famose di Tadao Ando.

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Fig. 15, 16 e 17 Studi della luce nel padiglione giapponese.

Queste riflessioni riguardanti la luminosità degli spazi e l’uso della luce zenitale portarono al risultato che si può vedere nelle immagini, una sorta di soffitto svuotato, composto da una struttura a listelli lignei totalmente permeabile alla luce zenitale che crea numerosi giochi di ombre all’interno della struttura. La copertura è coronata, come già detto da un telo in teflon; il teflon è un materiale polimerico liscio al tatto e resistente alle alte temperature (fino a 200 °C e oltre), usato nell'industria per ricoprire superfici sottoposte ad alte temperature alle quali si richiede una "antiaderenza" e una buona inerzia chimica. Risulta perciò idoneo al clima caldo spagnolo e, inoltre, non essendo opaco ma semitrasparente permette una diffusione soffusa della luce naturale, lo stesso effetto che si ha nelle case giapponesi grazie alle pareti interne a telaio ligneo rivestite in carta; è dunque un chiarissimo richiamo alla cultura che rappresenta il padiglione.

Fig. 18 Dettaglio di facciata, ponte, struttura e copertura.

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Basato su tecniche costruttive giapponesi, questo edificio si apre al resto del mondo completandosi con la partecipazione di artigiani di tutte le nazioni che collaborano apportando materiali, processi e tecniche costruttive e di assemblaggio in loco. In altre parole, si sperava che un nuovo modo di pensare l’architettura in legno potesse essere scoperto attraverso il dialogo e il lavoro tra queste figure tanto diverse tra loro. Ando definì addirittura il processo costruttivo come un grosso evento culturale. Organizzazione del padiglione Giunti al padiglione, i visitatori salivano al piano più elevato attraversando un ponte ad arco che nella cultura giapponese si chiama taiko-bashi. Il ponte è inoltre una connessione sull’asse est-ovest dell’edificio e funziona anche da connessione figurata tra i “due mondi”.

Fig. 19 Primo concept dell’accesso alla struttura.

Si tratta di un elemento essenziale per l’architetto che lo pensa ancor prima dell’edificio e ne fa il fulcro del suo concept basico. È un elemento ad arco di 11 metri di lunghezza che domina il centro del padiglione guidando gli spettatori al piano alto.

Fig. 20 Sezione trasversale.

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Lo stimolo fisico e mentale di attraversare questo ponte rappresenta la esperienza di ripercorrere le varie fasi storiche e culturali che si sono succedute fino a quel momento. La gente che passava sul ponte e arrivava all’edificio, dove vi era un vasto spazio aperto che faceva da galleria, doveva, nell’immaginario degli addetti ai lavori, esser capace ed esser stimolata a pensare ad un eventuale nuovo mondo, ad una nuova epoca che sarebbe iniziata da lì in poi.

Fig. 21 e 22 Viste frontali diurna e notturna dell’ingresso.

Il ponte è realizzato come la struttura intera in teakairoko, una specie tropicale del teak. Vi sono ai lati dei corrimano in acciaio. Il ponte era servito da una scala mobile e andava ad affacciarsi su una balconata posta sull’altro lato dell’edificio.

Fig. 23 Balconata sul fronte opposto all’ingresso

L’accesso è situato sulla facciata nord, la più celebre. Per quanto riguarda gli interni Ando divide gli ambienti su più livelli sfruttando i grandi spazi.

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Fig. 24 Dettaglio di facciata e ponte.

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L’analisi viene fatta partendo dai livelli più alti in quanto l’architetto pensa i percorsi in questa maniera abbastanza inusuale. Si accede al quarto piano attraverso il ponte e ci si trova in galleria dove ci si può soffermare per una pausa o procedere negli spazi espositivi organizzati su più livelli e posti sulla sinistra, invece a destra vi è un grande vuoto speculare che porta alla scalinata. Gli ambienti sono alti 17 metri in modo da sfruttare i giochi di luce creati dalla copertura.

Al terzo piano trova posto sempre una parte museale più dei vuoti e un vano tecnico per servizi. Si vede una scalinata nella parte sinistra come quella che porta dal 4° al 3° piano e sotto la galleria vi è un’ulteriore scalinata.

Il secondo piano è simile al 3°, viene a mancare un grande spazio espositivo poiché vi è l’ingombro del grande auditorium a doppia altezza.

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Infine al piano terra sorgono più locali piccoli per garantire tutti i servizi dovuti quali auditorium, locale per lo staff, negozi, ristorante, foyer e bar. Abilità di Ando fu quella di abbinare vari spazi di grandezze e tempi di visita differenti.

Come si può vedere meglio in pianta, l’edificio, che normalmente viene presentato come un parallelepipedo, risulta più complesso. Nei fronti laterali infatti la forma viene mutata passando dall’esser lineare a qualcosa di curvilineo che sembra nascondere spazi interni circolari o semi; di fatti all’interno vi è su un lato un grande auditorium dalla classica forma tondeggiante, a doppia altezza che per simmetria viene ripreso con lo stesso linguaggio sull’altro lato dove si nascondono le scale. Nelle sale espositive si potevano ammirare innumerevoli oggetti di raro interesse; l’attrazione principale era la ricostruzione in scala naturale della parte superiore (i piani 6° e 7°) del castello di Azuchi20 (secolo XVI): il sesto piano, dipinto di rosso, era a forma ottagonale, mentre il settimo, a pianta quadrata - colore dominante il nero – recava pitture in lamina d’oro sulle tipiche porte di carta giapponesi.

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Il castello di Azuchi (安土城 Azuchi-jō?) fu costruito tra il 1576 e il 1579 per volontà di Oda Nobunaga. L'edificio venne eretto su di una collina sulle sponde del Lago Biwa nell'antica provincia di Omi (oggi compreso nella prefettura di Shiga), la posizione aveva un alto valore strategico poiché consentiva alle truppe che vi erano stanziate di raggiungere in poco tempo la capitale Kyōto.

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Fig. 25 Castello di Azuchi in una stampa antica.

Il visitatore poteva inoltre respirare l’atmosfera del Giappone accostandosi alle arti tradizionali - fra queste l’origami21 - e alle diverse acquisizioni scientifiche.

Fig. 26 Vista di un interno.

Un’altra attrazione era costituita dal teatro girevole, diviso in cinque ambienti distinti, dove vennero proiettate alcune interessanti pellicole realizzate con l’impiego di filmati, cartoni animati e grafica computerizzata. Un parallelo importante e simbolico fu fatto con Sasuke, eroe ninja leggendario giapponese che, come Don Chisciotte e Sancio Panza22, simboleggia presente e futuro del Giappone.

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Con il termine orìgami si intende l'arte di piegare la carta (折り紙 o-ri-gami, termine derivato dal giapponese, ori piegare e kami carta) e, sostantivato, l'oggetto che ne deriva. Esistono tradizioni della piegatura della carta anche in Cina (Zhe Zhi" 折纸), tra gli Arabi ed in occidente. 22 Don Chisciotte della Mancia (titolo originale in lingua spagnola: El ingenioso hidalgo don Quijote de la Mancha) è la più rilevante opera letteraria dello scrittore spagnolo Miguel de Cervantes Saavedra, e una delle più importanti nella storia della letteratura.

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Altri padiglioni Padiglioni significativi Vengono presentati ora alcuni dei padiglioni più importanti che furono realizzati al fine di creare un parallelo con quello in oggetto.23 Parliamo di padiglioni significativi perché rappresentanti più paesi, associazioni e enti internazionali, tematici e anche privati. Padiglione Piazza Africa. Il progetto, realizzato da Alvaro Navarro e Miguel de Castilla, occupa quasi 5000 metri quadrati di suolo per un totale di più di 14000 metri quadri costruiti. Ha un’altezza massima di 25 metri. Fu commissionato dalla confederazione di imprenditori di Andalusia e fu pensato per convertirsi poi in sede dell’ente. Ospitò numerosi paesi africani e si posiziona di fronte a Porta Italica. Si costituisce di due zone, una occupata dal padiglione a cui si accede con una passerella coperta, posta sopra un laghetto artificiale che costeggia un corpo geometrico di cristallo. È un luogo dove si evidenziarono le enormi differenze del continente ma voleva essere, per sei mesi, il punto d’incontro per i popoli africani.

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Vengono analizzati solo i più importanti perché l’expo, con 111 partecipanti, fu la più grande mai realizzata fino a quel momenti e di molti edifici non vi sono dati reperibili.

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Padiglione Piazza America. Progettato da Castañón Díaz, Zapata y Gómez si erge per 24.8 metri e ha una superficie costruita di più di 40000 metri quadri. Fu l’edificio più grande costruito dallo stato, attualmente è la sede della scuola di ingegneria industriale. Durante l’expo ospitò 16 paesi. Fu concepito come una sintesi di varianti bioclimatiche e architettoniche di coerente armonia. Luce controllata, acqua in distinte forme e patii per distribuire la circolazione e la luce artificiale, questi elementi danno la figura architettonica del complesso. Possiede 4 piani principali e due mezzanini, al pianoterra e primo ammezzato vi sono i servizi, i padiglioni distribuiti sugli altri livelli e piano attico per ristoranti, caffè e belvedere. Fu scelta come piazza privilegiata di manifestazioni d’arte e di cultura come concerti e recital, mostre e riunioni, teatro e balli. Piazza America è una sintesi armoniosa e coerente delle peculiarità dei paesi che rappresenta. Si trova al nord dell’isola della Cartuja, all’angolo tra Camino de los Descubrimientos e via Enrique de Rivera.

Padiglione della Comunità Europea. Il complesso consta di diversi interventi, presenta 12 torri che simboleggiano i paesi membri, un padiglione centrale translucido dove si possono vedere esternamente le bandiere, sempre dei membri, che lo rivestono e Corso Europa, una via disegnata appositamente per far si che l’ambiente sembri il più europeo possibile, che abbia i caratteri del vecchio continente. Fu la prima volta che tutti gli stati membri presenziarono a un’esposizione con un proprio spazio, ciononostante la struttura compositiva rappresenta la volontà dei popoli di mostrarsi al mondo uniti. Le torri, che si ispirano al monastero della Cartuja, si collegano con velature sospese che evocano il legame di unità tra i diversi paesi. Autori del progetto sono gli studi d’architettura Hennin & Normier e Lippsmeier & Partners. La concezione del padiglione centrale è dovuta a Karsten Krebs, architetto di Hannover. Una torre a forma conica, alta circa 50 metri, 20 in più delle torri singole, che simboleggia un “faro” che ha il compito di guidare i paesi membri della comunità.

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Padiglione dei Paesi Arabi. Costruzione di 2420 metri quadri con copertura realizzata con vetro altamente refrattario che filtra la luce esterna, e pergolati che si appoggiano su colonne incoronate da grandi calici a caratterizzare il portico d’ingresso. Lo spazio espositivo si distribuisce lungo una via interna, l’accesso a ciascun settore è contraddistinto da lucernari scalati in forma di piramidi, quasi a suggerire l’origine dei partecipanti. I temi proposti dal padiglione si incentravano sulla musica e la danza tradizionali e contemporanee, mentre una mostra esibiva reperti archeologici (sculture e ceramiche) provenienti dalle più prestigiose collezioni dei musei arabi: pezzi che rappresentavano una novità in terra europea, alcuni risalenti al sesto millennio prima di Cristo.

Padiglione Spagnolo. Fu una sfida singolare; sintetizzare la ricchezza, la varietà e la complessità di un paese come la Spagna nell’ambito di una rassegna nella quale è imprescindibile intrattenere e meravigliare. Situato sempre nell’area nord, sulle rive del lago si erge una facciata bianca di calce e marmo che risalta una cupola semisferica e un voluminoso cubo. Il padiglione vuole affermare l’identità di un popolo che s’è meritato un posto nella storia e al contempo esaltare tutte le sue scoperte. L’edificio ha struttura razionale, bianca, rivestita in pannelli di ceramica smaltata e vi sono portici in marmo bianco con pavimenti sempre in pietra e marmo. L’architetto fu Juan Cano Lasso. Nel cubo vi era una mostra di arte classica con tesori universali, a dimostrazione della trascendenza dello straordinario retaggio culturale spagnolo. Un cammino corredato di tecniche audiovisive e scenografiche che accompagnavano il visitatore inculcandoli l’idea di un paese antico che si è trasformato per adattarsi al mondo odierno. Nella cupola, invece, vi era un cinema con sistema di proiezione sferico e sedili mobili per ricreare la sensazione di vivere in prima persona ciò che si sta guardando.

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Padiglione Andaluso. Su progetto di Juan Ruesga, il padiglione di casa si alza per 34.4 metri e occupa un lotto da 2500 metri quadri. Pensato per essere permanente, oggi è sede della Radiotelevisione Andalusa (RTVA). Possiede un basamento di marmo bianco de Macael dal quale sorge un edificio a pianta ellittica, in pietra arenosa di Padul. Esternamente sembra un cilindro inclinato, rivestito in ceramica smaltata azzurra che si ispira alle torri tipiche mussulmane. È implicita la volontà di far conoscere la regione come un luogo che vuole integrarsi nel dinamismo del mondo moderno senza rinunciare ai propri tratti caratterizzanti: pertanto, lo slogan Andalusia, tradizione e cambiamento, è l’espressione del desiderio diffusamente avvertito di entrare nella modernità, ma continuando a restare fedeli a ciò che ci contraddistingue.

A parte fu allestito un giardino di plastici architettonici per i bambini, composto da 80 edifici e monumenti in scala 1:33, collocati in 10000 metri quadri, che rappresentano la totalità del territorio andaluso. La visita al parco era fatta con un trenino sopraelevato su un binario di 527 metri con portata di 2000 persone all’ora. Ora la zona fa parte del parco di divertimenti Isla Magica.

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Padiglione Piazza del Futuro. Questa struttura fu creata dagli architetti Martorell, Bohigas, Mackay y Peter Rice e fu edificata su una superficie di 25000 metri quadrati. Questa grande opera si trova in una zona privilegiata, al lato del fiume e vicino ai giardini. Il padiglione è strutturato in 4 edifici differenti che durante l’esposizione furono i padiglioni di: medioambiente, energia, telecomunicazioni e universo. Fin dalla città è possibile ammirare il porticato con archi di granito rosa sostenuti da pilastri che svettano al di sopra del tetto fino a quota 36 metri. Ciascuna mostra nei vari padiglioni era autonoma, si accedeva da diversi ingressi e vi erano diverse modalità espositive. Tutte intendevano sollecitare l’immaginazione senza abdicare al rigore scientifico, e tutte perseguivano il medesimo obiettivo: descrivere la situazione presente e le prospettive dello sviluppo scientifico e tecnologico, come pure i problemi sociali che ne derivano e la possibilità di progettare gli scenari prossimi venturi. Rassegne di strumenti ed esperienze tecnologiche adeguatamente supportate dalla spiegazione scientifica, mai dimentiche tuttavia della realtà sociale e della solidarietà umana.

Il tema del padiglione dell’ambiente era la coniugazione della salvaguardia della natura con il benessere economico di tutti i popoli. Nella mostra si descriveva l’evoluzione della vita sulla terra, la varietà di forme e la complessità biologica. Successivamente si poteva vedere una pellicola che illustrava i problemi conseguenti dell’attività umana e alcune soluzioni possibili. Il padiglione dell’energia si incentrava sullo sfruttamento delle fonti e l’uso efficace di queste per mantenere alto il tenore di vita attuale. Il padiglione evocava una gigantesca macchina. Vi era un percorso che dall’alto guidava il visitatore con aiuti audiovisivi e faceva riflettere sulla sostenibilità e sullo sfruttamento delle risorse energetiche. Il padiglione delle telecomunicazioni aveva come obiettivo il mostrare la sofisticata rete di comunicazioni che consente oggi di definire il nostro pianeta un “villaggio globale”; e di segnalarne i riflessi sul miglioramento della qualità della vita individuale e collettiva. Infine, il padiglione dell’universo metteva a disposizione, in una rassegna che svela i segreti della vita e della materia, esperienze insolite e affascinanti: addentrarsi nell’avventura cosmica di un viaggio interstellare, ricevere un bagno di particelle provenienti dalle regioni più remote del cosmo, verificare l’estrema leggerezza dell’aerogel, il materiale solido più leggero al mondo.

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I padiglioni di universo e ambiente salvano, tutt’oggi, gran parte dei loro contenuti, mentre gli altri hanno perso una grossa percentuale del materiale espositivo. Nel progetto iniziale questi spazi dovevano convertirsi in museo scientifico-tecnologico, tuttavia non si realizzò nulla e finì tutto in mano al parco di divertimenti Isla Magica che lo usa occasionalmente. Attualmente è in forte declino e stato di abbandono, per questo è ripartito il dialogo coi proprietari per donare tutto alla città come luogo di svago e ozio. Padiglione del secolo XV. Questo padiglione tematico, attualmente in disuso, non soffrì nessun tipo di intervento e salva gran parte dei suoi contenuti all’interno. Opera di Francisco Torres, superficie di 3300 metri quadrati per un’altezza di 12 metri, si struttura con un patio e un edificio, il quale, a sua volta, si compone di quattro sale. Nel patio vi è immagazzinata tutta la segnalizzazione che si usò e tuttora rimane una parte del giardino rinascimentale che fu messa in scena durante l’expo. Durante la fiera il compito di questa struttura era portare i visitatori indietro nel tempo, precisamene 500 anni prima, nel lasso di tempo tra il 3 agosto e il 12 ottobre 1492 facendo rivivere i momenti in cui Cristoforo Colombo cambiò la storia. Previamente si era introdotti attraverso una serie di conquiste scientifiche, tecnologiche, storiche e geografiche che portarono l’uomo a spingersi verso nuovi commerci e, inaspettatamente, mondi. L’edificio sta attualmente aspettando di esser riutilizzato prossimamente.

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Padiglione della Natura e Giardino delle Americhe. Questa zona si poneva come contributo alla crescente consapevolezza della necessità di preservare gli ambienti naturali, con particolare riguardo a quelli americani. L’intento era mostrare al visitatore i sistemi naturali dell’America latina, il loro ruolo e la loro importanza nel contesto mondiale e i relativi problemi di conservazione da una prospettiva attuale e su base scientifica. La prima sala, dedicata alla foresta amazzonica, era costituita da una grande serra che ricostruisce una porzione di foresta amazzonica, affrontando inoltre in dettaglio gli aspetti rilevanti della vita nella foresta stessa. La varietà dell’ambiente latino americano era il tema della seconda sala, dove stando su una piattaforma trasparente il visitatore poteva studiare un modello in scala della geografia fisica del subcontinente. “Natura da scoprire” titolava la sala audiovisiva posta al primo piano. Privo di commento, il documentario metteva a confronto immagini del vecchio e del nuovo mondo. Al pianterreno, invece, la sala “conserviamo la natura” lanciava un messaggio in favore della salvaguardia della natura, nella consapevolezza che l’uomo è il principale agente di distruzione. Completavano infine le vicende delle spedizioni dei naturalisti spagnoli in America. Il Giardino delle Americhe voleva invece essere un omaggio e un riconoscimento verso le specie, di origine americana, che sostanzialmente cambiarono le condizioni di vita agli europei. Il complesso, progettato da Luis Fernando Gómez Stern, oggi mantiene un solo edificio che accoglie il consolato del Marocco e la sede del centro di educazione ambientale. Oggi vi è un progetto per recuperare il giardino che è in totale stato di abbandono e la serra che al tempo era una delle più sofisticate al mondo.

Padiglione della Navigazione e Torre Schindler. Il tema trattato era “il cammino delle scoperte marittime e della tecnica nautica dall’estremo scorso del secolo XV al tempo presente e i riflessi universali di questa singolare avventura umana”; per questo motivo parliamo di un’architettura ancorata alla riva del fiume. Nel padiglione era possibile vedere i metodi di navigazione precedenti al 1492, sia dei paesi civilizzati sia dei paesi “selvaggi” come la Polinesia e i Paesi scandinavi popolati dai vichinghi. Il secolo XV ne fa da padrone, poiché è il periodo in cui si costituì l’immagine odierna del pianeta. In estrema sintesi i contributi che si potevano ammirare erano avventura, scienza, tecnica, lotta per l’egemonia, comunicazione, merci e uomini condotti attraverso i mari e gli oceani, interdipendenza… questi i messaggi che si volevano inviare ai visitatori. Architettonicamente questo gran edificio fu disegnato da Guillermo Vazquez Consuegra e imita la chiglia invertita di un’imbarcazione, costruito in acciaio, vetro e legno. Nella facciata verso il fiume si inscenò il Porto delle Indie dove si collocarono repliche delle imbarcazioni note come la Nao Victoria e le caravelle Nina, Pinta e Santa Maria. Oggi le tre caravelle sono a Huelva. La Nao Victoria, invece, rimase fino al 2005 a Siviglia dove fu restaurata e preparata per riprendere il mare; il progetto era farle fare il giro del mondo. Attualmente la struttura ospita uffici e conserva parte dell’esposizione marittima poiché in un futuro verrà convertito tutto in museo navale.

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La Torre Schindler, opera dello stesso architetto presenta un concept simile, a forma di imbarcazione rovesciata è situata ai lati del padiglione poiché formò un complesso con questo. Fu costruito nel letto del fiume. È servita da due ascensori che in quei giorni erano tra i più rapidi del pianeta. La torre fu inaugurata con ritardo durante il 1992 e attualmente è in attesa che la compagnia Schindler, costruttrice di ascensori, la utilizzi in qualche maniera.

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Padiglione delle scoperte e cinema spaziale Omnimax. Dei padiglioni presenti questo era l’unico non monografico, una sintesi della capacità creatrice dell’umanità negli ultimi 5 secoli. Uno dei messaggi di maggior portata era la messa in guardia nei confronti del progresso e della mera scommessa tecnologica. Il padiglione avvertiva sui rischi sempre incombenti di un regresso dell’umanità a stadi di barbarie. Proponeva un itinerario ideale che partiva dalle caravelle e si concludeva con lo Sputnik. Ammoniva sopra l’incertezza dei processi industriali, le relazioni di dominio, la manipolazione dei mezzi di comunicazione; e un richiamo all’impegno per la conservazione della terra. Il padiglione prese fuoco e non poté trasmettere direttamente questi messaggi; tuttavia a dissipazione di tante aspettative fu un’occasione per meditare su quanto si sarebbe ricavato dal discorso espositivo. Anche ciò che è fortuito, inatteso, incontrollato fa parte della storia. Un monito a non confidare eccessivamente nel cieco ottimismo. Si può dire che questa struttura passò 14 anni nel dimenticatoio per via dell’incidente, nel 2006 fu totalmente demolita. L’anno prima ci furono due progetti: convertire il tutto in un luogo di svago con cinema annesso funzionante e l’altro che prevedeva la demolizione per edificare un grattacielo di 150 metri d’altezza. Javier Feduchi fu lo sfortunato architetto, tuttavia rimase per anni operativa la struttura a sfera che era il cinema spaziale. Struttura avveniristica capace di coinvolgere lo spettatore inondandolo di immagini, effetto ottenuto inclinando le poltroncine, ma soprattutto grazie alla forma semisferica dello schermo con ben 24 metri di diametro.

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Padiglione delle arti. Ultimo dei padiglioni senza bandiera è quello delle arti di cui però non è stato possibile rintracciare né l’architetto né una foto. Era un punto di incontro dell’arte contemporanea, dava spazio alla creatività offrendo un panorama delle più svariate tendenze internazionali d’avanguardia: pittura, scultura, videomontaggi, installazioni, fotomontaggi, action painting, body art, arazzi, ceramiche, giochi d’acqua, luci colori e altro ancora che ogni 22 giorni cambiava dando spazio alle opere del successivo paese esponente. Il padiglione è stato demolito. Padiglione del Comitato Olimpico Internazionale. In occasione dei giochi olimpici di Barcellona 1992, il COI, per la prima volta nella sua storia, è stato rappresentato in una rassegna di respiro mondiale. Obiettivo principale era divulgare le finalità del movimento olimpico e dimostrare la connessione di sport e cultura, nella prospettiva dell’incessante miglioramento delle qualità fisiche, morali e spirituali dell’umanità. Pensato da Rafael de la Hoz, questo edificio, oggi, si è convertito in discoteca, una delle più in voga a Siviglia. Combina armoniosamente forme classiche con strutture avanguardiste. Chiaramente ispirato a un tempio greco, simbolo delle origini delle olimpiadi, ha pianta rettangolare e si articola in un atrio d’ingresso, in un vestibolo e, di seguito, un salone d’esposizione. L’ingresso è attraverso un porticato sorretto da due pilastri. All’esterno vi era un tripode dove ardeva la fiamma olimpica. L’edificio venne modificato internamente ed esteriormente per essere convertito.

Padiglione della croce rossa e della mezzaluna rossa. Questa struttura, di carattere permanente, trasmetteva il proprio messaggio sia attraverso la forma architettonica sia attraverso ciò che ospitava: la prima riproduce la forma modificata di una barca che sopravvive alle tempeste grazie alla solidarietà umana. Il programma espositivo documentava in modo esauriente le attività dell’organizzazione in occasione di disastri naturali e conflitti bellici. L’architetto fu Miguel Martinez Garrido.

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Padiglione delle Nazioni Unite. Si tratta di un cubo circondato da una sfera con la quale si volle simbolizzare il mondo, invece la base cubica simboleggia l’umanità. Due delle facciate son scolpite in calcestruzzo, una tecnica che al tempo era innovatrice. Vi sono dei murales dipinti in giallo-verde che tuttora si conservano bene. Le rimanenti facciate erano courtain-wall vetrati. L’edificio prevede 5 sale che oggi han subito una riforma per ospitare una palestra. L’edificio di Jose Rodriguez Gautier voleva essere un messaggio di speranza, accessibile a tutti, composto di immagini e di suoni e che rinuncia alla mediazione della parola.

Padiglione della Fondazione ONCE. Questo padiglione fu commissionato a Gilbert Barbany y Sebastián Mateli da un organismo di carattere associativo, con forte radicamento storico, che inizialmente si è occupato, su delega statale, delle problematiche legate ai non vedenti. Con le facciate di cristallo e cinque piani comunicanti per mezzo di ascensori panoramici che favoriscono l’accesso ai visitatori, il padiglione mostra le tecnologie più avanzate per eliminare le barriere architettoniche, così da favorire l’integrazione dei diversamente abili. Consiste basicamente in due parallelepipedi vetrati, uniti da un percorso diagonale dove vi sono i servizi per facilitare gli spostamenti sui piani. Sia per la chiusura verticale che per l’orizzontale si è utilizzato un sistema con doppio serramento vetrato che proporziona una luminosità eccellente e permette di godere della visuale dall’interno. L’edificio non ha subito modificazioni.

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Padiglioni nazionali Vengono esposti alcune delle architetture rappresentanti un solo paese che hanno singolarità o, semplicemente, avuto grande successo. A campione sono presi rappresentanti di ogni parte del mondo. Padiglione Italiano. Ideato da Gae Aulenti e Pierluigi Spadolini il nostro padiglione è anche conosciuto come “Palazzo Italia”. Alto 38 metri ed edificato su un lotto di 6000 metri quadrati fu pensato di carattere permanente ed oggi è serie di ben 3 aziende. L’edificio è rettangolare (90x50m), si eleva per tre livelli ed è scavato solo per uno. La struttura è a doppio perimetro, consiste in un muro di 25 metri che crea l’effetto di una città fortificata e protegge la costruzione vera e propria. Il tema proposto si articola in quattro grossi argomenti, che delineano una sorta di sequenza conoscitiva, l’avventura dello sguardo che si allarga progressivamente da ciò che è più vicino a ciò che è più lontano: il corpo, il cosmo, la tecnica intesa come processi e prodotti ed infine la cultura, memoria e progetto. Un ulteriore importante compito era quello di celebrare il genio italiano, da Colombo a Vespucci, da Leonardo a Galilei, da Volta a Fermi; visto il tema generale dell’expo risulta di grande interesse il nostro padiglione. La struttura, purtroppo, è stata definita di basso interesse architettonico rispetto a molte altre e per questo non si trovano facili informazioni e foto. Si sviluppa intorno a una grande galleria centrale che si può vedere sovrastare l’edificio al centro con una copertura triangolare vetrata; ogni lato detiene inoltre due spazi espositivi che sono anch’essi evidenziati e illuminati dallo stesso tipo di copertura della galleria, sebbene riproposta più bassa.

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Padiglione Portoricano. Un’architettura avanguardista, il disegno corrisponde a tre volumi geometrici: uno triangolare, di pietra naturale con grandi fori, simula una fortezza militare Portoricana; uno cilindrico, di metallo, con pelle in rame e vetro; e per ultimo uno più consistente in una struttura di vetro bianco porcellanato. L’edificio è completato con degli stagni intorno. Il padiglione, progettato da Segundo Caedona Colom, Luis Sierra e Alberto Ferrer non ha sofferto modificazioni, ad eccezione del cambio delle lettere che da PUERTO RICO diventarono CORREOS, ovvero poste, in quanto oggi si trova qui la sede sivigliana.

Padiglione del Kuwait. Edificio rettangolare a due piani, circondato da due laghetti. I suoi tre elementi principali, una galleria di esposizioni, una piattaforma e un tetto mobile sostenuto da 16 bracci, interagiscono su tre livelli differenti per creare spettacolari forme architettoniche, non a caso è un lavoro di Santiago Calatrava che gioca molto con la luce lungo il percorso del padiglione. La costruzione perdura anche ai giorni nostri ed è occupata da una impresa che si occupa di riciclare materiale elettronico. La copertura oggi non si muove più.

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Padiglione Neo Zelandese. L’edificio è formato da una riproduzione di 13 metri d’altezza di ciò che si volle simboleggiare come il primo paesaggio avvistato dal capitano James Cook quando arrivò in Nuova Zelanda. La “scultura-scogliera” riproduceva cascate, brezze marine, onde, piante, uccelli e animali meccanicamente. Inoltre vi erano attori Maori che ballavano e cantavano. Il progetto è opera di Peter Hill. L’ideatore volle replicare e migliorare il successo dell’area espositiva di Brisbane ’88 che fu definita da tutti semplicemente spettacolare. Lo spettatore entra attraverso un ponte in una grotta, si trova quindi al cospetto di 4 teatri che narrano racconti del passato e del presente neozelandese. Vi erano anche delle mostre di oggetti tipici e assaggi della cucina locale non contaminata dall’inquinamento del mondo moderno. Allo stato attuale delle cose il padiglione è identico, della scogliera rimangono solo le rocce.

Padiglione Cileno. Interamente costruito in legno e rame, è una grande opera architettonica che propone soluzioni nuove nell’impiego di tecnologie appropriate e di materiali naturali. L’economia delle forme e le linee belle e semplici delimitano un grande spazio interno che attenua il sole sivigliano e sfuma la luce. È stato ideato da Germán del Sol e José Cruz. Presenta una galleria di legno di pino laminato con contorni lievemente ondulati, coperta con un tetto di color rosso fabbricato con placche di rame. È orientato secondo l’asse nord-sud come il paese che rappresenta. Oggi ha subito alcune riforme interiori e il legno ha mutato il suo colore inscurendosi; è sede di una ditta privata.

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Padiglione Marocchino. Si tratta di un edificio permanente affacciato su un giardino andaluso che ospitava esposizioni di arte tradizionale, di arte contemporanea, di arte popolare e un ristorante panoramico. Progettato da Michel Pinseau, ha struttura in calcestruzzo armato dal quale si staccano le decorazioni tipiche arabe quali colonne decorate e opere in ceramica. Non ha sofferto lavori di rimodellazione ed oggi è sede della fondazione “tre culture del mediterraneo”, la quale promuove l’incontro tra popoli e culture.

Padiglione USA e URSS. Curiose storie entrambe. La federazione Russa si presenta a Siviglia con un edificio singolare a forma di scalinata che richiama le grandi tribune degli stadi yankee. Lo strano richiamo è opera di Juris Poga y Aigars Sparans, i progettisti. Esternamente questo edificio risultava molto vivo e vivace poiché cambiava colore spesso durante la giornata. I fatti più interessanti sono che fu progettato sotto regime e durante l’esecuzione furono costretti a cambiare la grande scritta che distingueva l’edificio dagli altri.

Il padiglione si sviluppava in maniera da esaltare tutte le scoperte scientifico - tecnologiche del paese durante i 500 anni passati. Interessante fu come si relazionarono anche alla Spagna, realizzando una mostra dedicata alle relazioni tra i paesi che fino a poco tempo prima erano politicamente all’opposto. Un’ulteriore fatto da segnalare fu l’esaltazione delle scoperte scientifiche avvenute durante la guerra fredda, che inevitabilmente avevano un grosso ruolo visto il tema dell’expo, e l’evitare i riferimenti all’URSS appena caduta.

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Gli Stati Uniti videro assegnarsi dalla Spagna un ruolo di primo ordine, con un lotto gigantesco. Inizialmente nel 1992 dovevano esserci due esposizioni universali, una delle quali a Chicago. USA decisero inizialmente di creare un progetto faraonico approvando 45M di dollari come finanziamento, sicuri dei rientri economici dovuti all’esposizione nella propria terra. Fu chiamata la Barton Myers Associates per dar vita all’edificio, fu pensato di riprodurre un’enorme caravella corredata da un porto e percorsi acquatici. Vi era una grande cortina d’acqua che simboleggiava l’Atlantico e una grande piazza centrale con 3 vele simboliche che accoglievano i visitatori. Nel 1990 fu votata una riduzione del budget a 13M e si dovettero cambiare i piani, furono proposte due cupole geodetiche (come quella di Montreal ’67 di Buckminster Fuller) inserite in un corpo regolare. Myers si rifiutò di firmare il progetto, il quale, con disgusto, fu sistemato da Barry Howard. Gli USA avrebbero dovuto avere un ruolo importante poiché, in pratica, sono il paese in oggetto dell’expo; si pretendeva che portassero qualcosa di grandissimo interesse e che facessero uno sforzo per onorare l’evento. Per salvare il tutto vennero usati finanziamenti privati in cooperazione con lo stato. Successivamente verrà bollata l’esperienza come un fiasco dagli addetti ai lavori che aggiunsero che mai più avrebbero dato così tanta importanza agli USA in una manifestazione mondiale. Il presidente Bush invece smorzò i toni definendo il tutto un successo e ponendo l’attenzione sul fatto che gli altri paesi avessero sperperato denaro; stati come l’Italia puntarono molto sull’offerta espositiva e meno sull’edificio, la cosa fu apprezzata e richiesta anche agli Stati Uniti visto i tagli che avevano approvato ma il risultato fu comunque deludente. Successivamente si scoprì che alcune grosse corporazioni non vollero partecipare per non far conoscere la provenienza dei propri prodotti; questo fatto indignò molto la platea internazionale poiché la maggior parte dei paesi, come ad esempio il Giappone, fieri delle proprie tradizioni e della propria storia mai negherebbero la propria bandiera.

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Padiglione della Santa Sede. Fu concepito come effimero e con struttura a partire da forma prismatica, copertura con un insieme di volte che ricordavano la tradizione costruttiva ecclesiastica. I materiali utilizzati furono acciaio e vetro opaco a doppia lamina, il quale evitò l’effetto trasparenza e garantì isolamento termico. Progetto originale di Miguel de Oriol e Ybarra oggi è rimasto invariato. Obiettivo dell’edificio era mostrare come la Chiesa contribuì nel corso della storia allo sviluppo culturale, sociale e spirituale del continente americano.

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Stato attuale Oggi l’isola della Cartuja è la testimonianza di ciò che fu l’esposizione universale del 1992, del progetto di riconversione immediato Cartuja 93 e delle varie vicende che si susseguirono negli anni successivi. Innanzitutto bisogna ricordare che tutto ciò che è stato fatto fu per “colonizzare” una nuova area, un nuovo quartiere, imitando l’esposizione ibero-americana del 1929 che ridisegnò tutta la zona sud di Siviglia con successo e la integrò rendendola quasi un punto focale. Celeberrimi sono il parco di Maria Luisa e Piazza di Spagna che insieme ai padiglioni presenti lungo tutta Avenida de la Palmera sono diventati luoghi di culto per i locali.

Fig. 27 Plaza de España.

Dati alla mano sembrerebbe che anche l’Expo fu un successo sotto il punto di vista urbanistico. Il 66% dei padiglioni furono riconvertiti e utilizzati contro le previsioni che parlavano di solo un 33%. Le infrastrutture sono ben funzionanti e coprono a dovere i bisogni della popolazione. La vita della Cartuja si svolge tutta dentro ai padiglioni rimasti in piedi, che ospitano uffici e piccole aziende specializzate soprattutto in ricerca e sviluppo. Secondo Isaías Pérez Saldaña, presidente di Cartuja93, la società fondata per gestire il dopoExpo della Isla, ci sono 377 imprese, che contano su circa 16mila dipendenti, la maggior parte laureati e al 52% donne; tutte insieme fatturano ogni anno circa 2 miliardi di euro, con una crescita del 4,5% annuo, nonostante la crisi. Un successo? Fino a qui sembrerebbe di si. Passeggiando per le strade si nota qualcosa di differente. Prima di tutto bisogna esser grati all’Expo perché ha reso possibile passeggiare per questa zona; infatti, prima del 1992, la zona era disabitata e non urbanizzata, l’esposizione con tutti i visitatori rese necessario l’adeguamento dell’area con un tracciato viario in primis. Furono disegnate un numero considerevole di grandi vie, chiamate Avenidas, larghe dai 50 agli 80 metri dove ai lati sarebbero sorti i padiglioni; furono sommerse di vegetazione come accade ad esempio alla Avenida I24 dove tutt’oggi vi sono pergolati che ombreggiano e conservano parte del verde o furono creati giochi con l’acqua come in Avenida Europa25 dove sorsero due stagni.

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Oggi calle Tomas Alba Edison. Oggi calle Isaac Newton.

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Fig. 28 e 29 Avenida I con fontana e pergolato e Avenida Europa con il Padiglione Europeo.

Le altre strade che sorsero sono Avenida de la Palmera26 che nel 1992 era la più curiosa in quanto prevedeva una sfera bioclimatica, tutt’oggi presente ma non funzionante. Oggi qui hai solo una caffetteria, molto frequentata dai lavoratori durante il giorno. La Avenida 427, nella zona meridionale della isola presenta due livelli, uno ombreggiato e coperto dalla vegetazione e una piazza superiore con annesso belvedere.

Fig. 30e 31 Biosfera e Mirador verso Plaza del Futuro.

Infine vi è la Avenida 528, descritta come il posto più fresco dell’Expo; qui vi è una struttura vetrata dove un tempo cadeva acqua e tutto intorno una serie di porticati ombreggiati da vegetazione. Oggi è tutto in rovina. La Via invece che taglia sull’asse nord-sud tutta la zona è Camino de los Descubrimientos, importante logisticamente ma senza nessun elemento particolare.

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Omonima di quella che si trova al sud della città, oggi, infatti, le è stato cambiato nome in Calle Marie Curie. Oggi calle Albert Einstein. 28 Oggi calle Charles Darwin. 27

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Fig. 32 e 33 Avenida 5.

Sono avenidas che impressionano perché sono quasi sempre deserte e, soprattutto nei caldi pomeriggi di primavera o d'estate, fanno sentire al centro di qualche film di suspense: non essendoci passanti, ai pochi che si avventurano può succedere di tutto. Se avete bisogno di informazioni perché vi siete persi o perché state cercando un padiglione in particolare, mucha suerte: dovete suonare ai citofoni su cancelli di spazi che sembrano abbandonati e possono aprirvi guardie che non hanno la minima voglia di rendersi utili. Al fine di mettere in comunicazione la città con la zona espositiva si son resi necessari una serie di ponti come quello dell’Alamillo a firma di Santiago Calatrava, quello della Barqueta che oggi connette Isla Magica con la città e quello de la Chapina con i teloni oscuranti caratteristici. In totale furono realizzati 8 ponti che continuano ad essere usati in eccellenti condizioni.

Fig. 34, 35 e 36 Ponte dell’Alamillo, della Barqueta e della Chapina.

Successivamente fu necessario marcare gli ingressi dell’isola e quindi costruirono delle porte di accesso. A ovest vi è porta Aljarafe, vicino Avenida de Europa, non ha sofferto grossi cambiamenti, ancora si possono vedere i montanti che reggevano le coperture telate usate per ombreggiare, coperture che oggi son scomparse.

Fig. 37 Porta del Aljarafe.

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Vicino al ponte della Barqueta vi è la porta omonima, quella che più si è trasformata, è scomparso il grande tendone che accoglieva la gente e al suo posto è stata costruita una rotonda per facilitare il traffico verso il parco dei divertimenti.

Fig. 38 Porta della Barqueta.

Attraverso una passerella pedonale chiamata semplicemente “cartuja” vi è una porta con lo stesso nome che non ha praticamente mutato il suo grande spazio urbano pavimentato.

Fig. 39 Porta della Cartuja.

Al nord porta Italica invece ha sofferto un cambiamento simili a quello di porta Barqueta, la grande tela a forma di pettine che copriva lo spazio pubblico è stata smantellata e si è costituito un tracciato viario.

Fig. 40 Porta Italica.

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La porta sud, chiamata con il nome del celebre barrio di Triana, continua a vivere praticamente uguale che 20 anni fa, conserva i pergolati giganteschi e le sue fontane d’acqua. In un futuro prossimo verrà smontata perché non è nei progetti di riqualificazione della zona.

Fig. 41 Porta Triana.

Sempre parlando di opere urbanistiche si citano le numerose opere d’arte e l’arredo urbano che son rimasti per tutta la Cartuja, retaggio del passato recente. Le opere d’arte sono state disseminate in tutto il perimetro e oggi si fa quasi fatica a localizzarle, alcune perché in rovina, altre perché non valorizzate a dovere; tra le più celebri ricordiamo la rampa curvilinea in laterizio di Eva Lootz, presente nei giardini del Guadalquivir, simboleggia l’infinito che è anche quello della città contornato dalle lettere NO e DO.29

Fig. 42 La rampa vista da Google Earth.

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Si vede NO 8 DO e si legge “no madeja do” che è la trascrizione dei suoni “no me ha dejado” ovvero “non mi ha lasciato”. Nel simbolo della città l’infinito è fatto con corde e quindi sembra un nodo, una matassa, un gomitolo che appunto si traduce con madeja in spagnolo. Il simbolo si deve al re Alfonso X il saggio che nel XIII secolo non gestì bene lo stato spagnolo e si mise contro il figlio. Le due fazioni si divisero il paese e il re restò dalla parte del sud, a Siviglia, la città gliene fu grata e lui pronunciò un discorso dove ringraziava per non esser stato abbandonato. Successivamente nel 1929 il re Alfonso XIII in visita per l’esposizione ibero-americana fece un discorso in cui ringraziava il popolo e Siviglia per l’incredibile accoglienza, citò il suo predecessore con il celebre “no me ha dejado” e aggiunge “y nunca me dejará” ovvero “e mai mi lascierà”. Da questo derivano il fortissimo attaccamento al simbolo e alla monarchia spagnola.

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Alcune di queste non sono segnalate ed è davvero difficile accorgersi che ci sono o che sono opere d’arti.

Fig. 43,44, 45 e 46 Opere d’arte disseminate per la isola.

Altro ricordo dell’esposizione è l’arredo urbano che mancava completamente. Progettarono panchine su disegno di Gabriel Teixido che voleva richiamare le onde del mare, oggi nonostante siano in pietra sono in cattivo stato; cattivo stato che diventa pessimo parlando dei vasi usati per piantare le arance tanto care a Siviglia, oggi quasi tutti bruciati o vandalizzati. Anche i cestini dei rifiuti furono creati su misura, a somiglianza di Torre dell’Oro30, da Pedro Miralles. Le fontane furono commissionate a Nacho Lavernia e Debot Nebot ed evocano la struttura e i corni del monastero di Santa Maria de las Cuevas; oggi nessuna funziona.

Fig. 47,48, 49 e 50 Arredo urbano.

Le luminarie invece furono create su progetto di Santiago Miranda e Perry King, tentando di ricordare il simbolo dell’infinito. Oggi nessuna funziona. Al contrario sono in funzione i pali della luce che dovrebbero ricordare frutti di alberi. I pergolati, elementi senza dubbio più innovatori dell’Expo, quando furono montati contavano di grande e ricca vegetazione e un sistema per polverizzare acqua. Attualmente le poche strutture rimaste riversano in malo stato e la vegetazione è stata sostituita da una spontanea che non ombreggia a dovere. La maggior parte dei pergolati son stati venduti e quindi traslati.

Fig. 51,52, 53 e 54 Arredo urbano.

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La Torre dell'Oro (in spagnolo: Torre del Oro) è una torre di controllo militare, composta da dodici lati, costruita a Siviglia (Spagna) per ordine del Sultano Almohade del Marocco e della Spagna islamica Abu Ya'qub Yusuf II in modo da controllare gli accessi nella città di Siviglia, attraverso il fiume Guadalquivir. La torre si trova nei pressi di Plaza de toros de Sevilla ed è alta 36 metri.

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Aldilà di tutto questo arredo urbano indispensabile per rendere vivibile lo spazio, l’expo ha lasciato anche alcune costruzioni che non furono padiglioni e che oggi sono utilizzate per grandi eventi e per attività pubbliche. Un esempio è l’auditorium Rocio Jurado di Eleuterio Población Knappe.

Fig. 55 e 56 Vista esterna dell’auditorium.

Costituito in marmo di Macael si trova nel camino de los descubrimientos, vicino al fiume. Appartiene dal 2006 al comune di Siviglia. Durante l’expo fu teatro di numerosi concerti di tutti i tipi e oggi viene utilizzato con lo stesso fine. È, in realtà, uno spazio multiuso che può essere usato in diversi modi, ad esempio durante il 2014 è stato casa del Holy Color Festival, un festival musicale in cui continuamente vengono tirate polveri colorate sul pubblico e la proiezione della finale di calcio di Europa League, dove il Siviglia riuscì ad arrivare e vincere. Sempre in questo ambito sono da segnalare il teatro centrale e il Palenque. Il primo come dice il nome è un moderno teatro pubblico che ha rimpiazzato il Cinema Expo, concepito come un volume inserito in un altro, di pietra naturale, nudo e senza orientazione; il secondo è uno spazio scenico dedicato alle celebrazioni di grandi feste, attualmente, anch’esso di proprietà del comune, è teatro di singolari rappresentazioni che non si possono dare nel teatro centrale.

Fig. 57 e 58 Esterni del teatro e Palenque.

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Inoltre l’expo ha lasciato una torre panoramica chiamata Banesto, attualmente in disuso, alta 92m e usata come belvedere durante la manifestazione. Oggi è di proprietà della testata giornalistica ABC Sevilla che lascerà libera entrata una volta restaurati i giardini del Guadalquivir che la comprendono.

Fig. 59 La torre dal basso.

Per quanto riguardano invece i mezzi di trasporto futuristici che vennero usati bisogna segnalare che non vi è più traccia di nulla. Sono scomparsi i percorsi del treno monorotaia e pure i pali per la funicolare. Oggi rimangono solo i depositi in totale decadenza. La telecabina è stata abbandonata nel 1996, funzionò 4 anni come attrazione per il parco Isla Magica e poi fu dismessa nel 2006.

Fig. 60 e 61 Una stazione e le cabine.

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La monorotaia rimase nella Cartuja fino a settembre del 2006. Un treno rimase funzionante fino al 1996 come attrazione ma era molto costoso da mantenere e il tutto fu abbandonato. Una storia analoga a quella della telecabina. Fu proposto di riutilizzare i treni per creare una tratta tra la stazione di Santa Justa e l’aeroporto che attualmente è servito solo da una linea di bus ma durante il 2005 dei vandali incendiarono 6 treni e non si poté fare molto. Stesso destino per la stazione dei treni ad alta velocità che da Madrid arrivavano diretti nella Cartuja, smantellata completamente (oggi resta solo lo scheletro reticolare) e deviati tutti i treni nella stazione di Santa Justa, all’altro lato della città.

Fig. 62 Le monorotaie.

È stato citato più volte il parco tematico Isla Magica che, fin da subito, entrava nei piani di riconversione della zona. Si tratta di un parco di attrazioni situato nella zona nord dell’isola, appena dietro porta Barqueta. Occupa la zona del lago di Spagna e dei padiglioni autonomi, anche il padiglione spagnolo è rimasto all’interno insieme a parte del padiglione andaluso: il gigantesco plastico delle città e dei monumenti andalusi. Il tema principale è l’esplorazione del mondo partendo dal secolo XVI.

Fig. 63, 64 e 65 Ingresso, vista del parco e vista del lago.

Infine torniamo ai padiglioni, come già detto si è riuscito a mantenere un numero superiore a quello sperato di strutture permanenti, di buona parte di queste già si è raccontato il riutilizzo o la riconversione. Alcuni invece soffrirono fini travagliate diverse; un esempio sconcertante dello stato di abbandono in cui la zona è purtroppo rimasta lo dà il padiglione della croce rossa, che già si è analizzato. Una volta costruito sarebbe dovuto essere di carattere permanente ma subito ci si rese conto dell’infattibilità della cosa; si sarebbe dovuta installare una sede della stessa croce rossa nella Cartuja ma risultò subito evidente che il processo di popolare la zona era in via di fallimento e risultava inutile e costoso mantenere mezzi e persone lontani dall’area di lavoro, il centro, dove la gente necessita aiuto. Il padiglione viene quindi abbandonato e popolato da senzatetto, cade in rovina e infine viene smantellato nel 2002 in avanzato stato di degrado.

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Fig. 66 e 67 Viste interne del padiglione in stato di abbandono.

Un altro esempio di mala gestione è la struttura dedicata all’Austria. Questa bella struttura in vetro e acciaio, fu conosciuta durante l’expo come “il padiglione del giorno” perché sfruttava magnificamente la luce solare.

Fig. 68 e 69 Viste Esterne.

Subì un intervento pesante al fine di poter albergare uffici per un’azienda privata che già nel 1994 lo abbandonò. Rimase in disuso fino al 2007, anno in cui venne demolito privando la comunità di un’interessante struttura architettonica.

Fig. 70 e 71 Vista interna e zona di scavo.

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Una sorte migliore ebbero i padiglioni delle comunità autonome, le quali erano tutte presenti nel 1992 e decisero di traslare i propri edifici in terra natia. È il caso ad esempio del Padiglione di Aragon che rimase a Siviglia fino al 1998 e poi, per via dell’ampliazione di Isla Magica, si deciso di smontarlo e portarlo a Saragozza invece che demolirlo.

Fig. 72 e 73 Il padiglione traslato a Saragozza.

Un ultimo esempio di mala gestione del progetto Cartuja 93 è la struttura oggetto di studio, il padiglione giapponese. Fu regalato al finire della manifestazione al governo spagnolo il quale, non molto lungimirante, decise semplicemente di distruggerlo; errore fatale se si pensa che nel 1995 Tadao Ando verrà insignito del premio Pritzker31 e che quindi un edificio del genere sarebbe diventato una meta di pellegrinaggio per qualsiasi amante dell’architettura. A segnalare l’ulteriore stato di degrado vi sono le condizioni del Giardino del Guadalquivir, grande area in stile arabo rivolta alla città vicino a Piazza del Futuro, divisa in 14 settori che al tempo contenevano specie differenti di vegetazione. Dal giorno di chiusura il giardino non riceve nessun tipo di mantenimento, le condizioni sono vergognose.

Fig. 74 Interni del giardino.

Infine si cita all’opposto del giardino un’ulteriore zona di degrado chiamata “Banqueta del Guadaquivir” che altro non è che una discarica a cielo aperto dove vi è ammassato tutto il materiale, di qualsiasi tipo, che è stato dismesso.

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Il Pritzker Architecture Prize (Premio Pritzker per l'architettura) viene assegnato ogni anno per onorare annualmente un architetto vivente le cui opere realizzate dimostrano una combinazione di talento, visione e impegno, e che ha prodotto contributi consistenti e significativi all'umanità e all'ambiente costruito attraverso l'arte dell'architettura.

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Fig. 75, 76 e 77 Resti di pergolati, corone dentate e vista generale della Banqueta.

Dal punto di vista politico il 1992 fu un anno trionfale per la Spagna, insieme alle già citate olimpiadi di Barcellona, l’esposizione ha il merito di aver fatto conoscere la Spagna al mondo, di averla aperta ad un cambiamento e averla riammessa nel età moderna mostrando a tutti le competenze e la competitività di questo paese. Fin da subito i problemi principali erano in casa. Nessuno era conscio che la nazione e in particolare una zona del sud potesse farsi carico di un impegno così gravoso. Complice anche la mentalità tipica andalusa conservatrice e legata alle tradizioni, il popolo intero era pessimista su quello che stava succedendo. L’ex presidente della giunta di Andalusia Miguel Chaves ricorda la maniera di pensare della gente in quel particolare periodo: “In Siviglia sempre hai resistenze a qualsiasi innovazione, la gente solo vede i cantieri, mai pensa che prima o poi finiranno, che dietro tutto c’è un grandioso progetto e che andremo a terminarlo prima dell’inaugurazione”. Il presidente dell’allora governo in carica Felipe Gonzalez invece racconta che con la scusa dell’expo si dovevano fare tantissime opere, era il momento di soddisfare molte necessità di Siviglia e dell’Andalusia che ingiustamente non si soddisfarono prima. Indubbiamente l’opera portò con se coesione sociale, articolazione territoriale e patrimonio culturale. L’evento è stato inoltre un fortissimo propulsore per lo sviluppo scientifico-tecnologico di tutto il paese che finalmente poté mettersi al passo con gli altri grandi d’Europa e aprirsi a nuove frontiere. Ventidue anni più tardi dobbiamo fare un’analisi più tecnica dal punto di vista architettonico-urbanistico mettendo sul banco degli imputati il progetto di riconversione in parco tecnologico Cartuja 93. Come argomentato largamente si può definire che l’esposizione universale del 1992 fu un successo sia come partecipazione sia come innovazione. Quello che si deve aggiungere e valutare più criticamente è, invece, quello che successe quando chiusero le porte della manifestazione: un territorio profondamente mutato e all’avanguardia sotto tutti i punti di vista, una zona colonizzata e portata brutalmente nel XX secolo in pochi anni, un tentativo di legare questa terra al vecchio nucleo storico, una prova di maturità per la popolazione chiamata ad accettare i cambiamenti e aprirsi a qualcosa di nuovo. Alla luce di quanto detto bisogna dire che il progetto di mantenimento e adeguamento post expo non è un qualcosa di cui andare fieri, almeno dal punto di vista urbanistico e architettonico; dal punto di vista economico, invece parrebbe qualcosa di sensazionale vista la profonda crisi che colpisce l’Europa, la Spagna e in particolare Andalusia, la regione più meridionale della penisola. La critica viene mossa non tanto per via degli edifici rimasti, in numero superiore alle aspettative e di sicuro interesse, ma per come sono mantenuti e per come si relazionano tra loro; camminare per Isola della Cartuja ti catapulta in una ghost town, non si incontra anima viva, i grandissimi spazi non sono serviti adeguatamente dai servizi dei trasporti pubblici e sono in totale degrado. La cosa che più di tutte non funziona in questo progetto sono gli spazi comuni, gli spazi aperti, che dovrebbero fare da collante in mezzo a tante architetture particolari; questi spazi non esistono, o meglio, sono chiusi, inagibili, impresentabili. Indubbiamente dai documenti raccolti si vede che l’esposizione era contornata da una serie di giardini, aree coperte, zone comuni e mezzi di trasporto ultra avanzati per i tempi e di sicuro molto costosi da mantenere, soprattutto se scarsamente utilizzati; la soluzione però non era dismettere tutto e lasciare in rovina una zona incredibile come questa. Bisognava e bisogna pensare a come mantenere in ordine ad un prezzo contenuto le aree comuni e completare il territorio con una parte residenziale e servizi di uso giornaliero. È impensabile che una zona grande come quella in oggetto possa

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venire popolata se nessuno ci abita e le uniche attività che si svolgono sono lavorative, universitarie o legate al parco tematico e ad eventi mondani occasionali. Ogni unità lavorativa sembra un mondo a parte chiuso su stesso, passando di fronte ad alcuni edifici non ci si accorge nemmeno che qualcuno tutti i giorni lavori al suo interno. Il campus universitario è anch’esso un piccolo villaggio ermetico con pochi servizi raccolti a se; inoltre Siviglia è dotata di molti campus, qui ha raccolto solo gli ingegneri e quindi l’intervento non è di grandissime dimensioni. Risulta quindi che il tessuto urbano non è eterogeneo, compatto e servito; oltretutto in grave stato di declino. La Cartuja oggi sembra una serie di sculture fine a se stesse che non hanno alcun tipo di relazione né tra di loro né con Siviglia e rinchiuse in un recinto malandato che non sa valorizzarle. Creare dal nulla un nucleo abitativo non è mai stato facile e mai lo sarà ma qui è necessario un grande intervento di integrazione, urbanizzazione che ridisegni e ripensi tutti gli spazi e crei qualcosa di utile, accessibile, comodo, vivibile e sostenibile.

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Bibliografia AA.VV., Architecture and Urbanism A+U N°378, nd, A+U, nd. Equipo Estipite, La exposición universal de Sevilla 20 años después, Sevilla, Estipite Edición, 2013. Francesco Dal Co, Tadao Ando volume 1 1969-1994, Milano, Electa, 2008. S.A., Guida ufficiale Expo’92, Milano, Electa, 1992. Tadao Ando, Tadao Ando 2 Outside Japan, Tokyo, TOTO, 2008. Yukio Futagawa, Francesco Dal Co, Tadao Ando Detail 2, nd, Detail, nd.

Sitografia http://www.tadao-ando.com/ http://www.wikipedia.org/ http://www.rothteien.com/ http://www.japancoolture.com/ http://www.wouterhabets.nl/ http://www.mc2.es/ http://www.expo92.es/ http://www.chicagotribune.com/ http://www.mailitis.lt/ http://www.elpais.com/ http://www.youtube.com/ http://www.sevilla.abc.es/ http://www.andalucia.com/ http://www.expomuseum.com/

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