Il teatro valigia
Il teatro valigia di Andrea Bellati Durante una recente visita al MIT di Boston, in un salone tappezzato di poster che descrivevano ai visitatori i corsi di laurea, lessi e subito fotografai la dichiarazione di uno studente di fisica portata a testimoniare l’importanza della formazione teatrale per il blasonatissimo ateneo americano. Voglio trascriverla fedelmente: «Studying physics has enabled me to step back and analyze the mechanics of problems. Theater shows me how to examine them in terms of their human relevance». Uno spettacolo scienti-fico è innanzitutto un’opera di divulgazione. Come ho avuto modo di rac- contare su queste pagine, il teatro scientifico intreccia una buona storia con l’informazione e con l’emozione. Il nostro teatro scientifico è emozione prêt-à-porter. Il teatro valigia Il mio sodalizio artistico con Davide Gorla nacque fortuitamente nel 2007 quando, per alcuni piccoli documentari, necessitai di una bella voce narrante. Ci volle poco per immaginare insieme un testo da recitare nelle scuole. Dovevamo metterci alla prova con uno spettacolo per bambini:
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pubblico difficilissimo soprattutto per un testo scientifico. L’esperimento funzionò a dovere e ci diede lo spunto per affinare e approfondire la materia. Scrivemmo altri due spettacoli, questa volta rivolti ai ragazzi, che ebbero un immediato successo. I nostri spettacoli stanno in una valigia, un grosso e pesante trolley che ci segue come il guscio segue la lumaca. Una valigia che racchiude e rappresenta una storia, un progetto. Scenografia, costumi, spesso le luci e l’impianto audio, il valigione trasporta tutto il nostro mondo e la nostra arte. Il motivo della nostra scelta logistica è poco bohémien e molto pragmatico: occorre contenere i costi, spostarci con agilità e rapidità e limitare le esigenze del nostro teatro perché si adatti senza patirne anche a spazi poco teatrali. Questo dictat costringe e stimola la nostra creatività. Dobbiamo limare gli eccessi e scegliere l’essenziale. La valigia stessa diventa sempre un supporto o un elemento della scenografia. È il motocarro di Zampanò, è il carrozzone di Mangiafuoco. Adoro l’aspetto leggero, intimo e familiare del nostro viaggiare. Il bivio Nel 2011 progettammo finalmente un testo per il pubblico adulto. Dovevamo trovare un argomento adatto, un approccio forte, costruire un personaggio potente e credibile. L’efficacia del teatro valigia sta nel testo e nell’interpretazione, certamente non nella scenografia. Decidemmo che il cambiamento climatico e il peggior futuro energetico del pianeta potevano rappresentare un ottimo argomento. La premessa Scovare una premessa valida che facesse da spina dorsale a un argomento così complesso non è stato semplice. Era più che mai rischioso cadere nel didascalico, nel fantascientifico, nella rivisitazione di tanta filmografia alla Mad Max. Occorreva un messaggio forte che rendesse credibile un personaggio altrettanto d’impatto e che potesse reggere una narrazione necesEQUILIBRI 3/2013
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sariamente ricca di dati. «Siamo tutti colpevoli», ecco, questa premessa ci sembrava buona, coinvolgente ed emotivamente forte. Il personaggio Il «siamo tutti colpevoli» esigeva la creazione di un personaggio lucido e bene informato. Qualcuno che potesse descrivere e criticare senza perdere di vista il proprio ruolo e le proprie responsabilità. Un testimone, insomma, che potesse raccontare trecento anni di storia dell’umanità. Inizialmente pensammo a una macchina, a un robot o qualcosa di simile. Un essere senziente e cosciente capace di registrare e di... giudicare? Forse no. E poi un personaggio simile non avrebbe suffragato la premessa: quale responsabilità poteva avere una macchina nella rovina dell’umanità? La stessa di un asciugacapelli. Avrebbe pontificato, sentenziato senza un reale coinvolgimento. C’era puzza di un saccente Terminator quindi abbandonammo rapidamente l’idea. Considerammo l’opzione di un umano ibernato, scongelato al momento opportuno dalla catastrofe, da un inceppamento della macchina frigorifera. Un personaggio di questo tipo necessitava di una «presa di coscienza» al momento del risveglio che si sarebbe portata via una fetta cospicua del testo con il rischio di sentimentalismi fuori luogo. Oppure poteva essere una narrazione a posteriori del suo dramma di decongelato fuori dalla sua epoca. Banale fino al midollo. Invece la tragedia di un uomo che avesse preso una decisione drastica, che avesse operato una scelta difficile ci pareva la strada giusta. Oltretutto il tema della scelta era insito nella premessa e anche nel titolo che proprio in quei momenti prendeva forma. Un sopravvissuto, un condannato, un colpevole, un uomo che avesse scelto una sorta d’immortalità meccanica ci dava modo di aggiungere al testo scientifico una riflessione amara sul senso del sé. Il protagonista de Il bivio è un uomo intimamente disperato, 590
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cinico e irruvidito da una realtà dura della quale è corresponsabile e dalla quale si è volontariamente emarginato. La ricerca Abbiamo raccolto molto materiale. Molti volumi, articoli, pagine internet, consigliati dai colleghi ricercatori o scovati autonomamente. Un testo fra tutti fu particolarmente illuminante: Energia per l’astronave Terra del Prof. Balzani che ebbi la fortuna di conoscere personalmente. E poi Fisica per i presidenti del futuro di Richard Muller, Collasso di Jared Diamond. Ne Il bivio, il dato e la nozione diventano elementi narrativi imprescindibili perché fanno parte del protagonista, lo hanno formato, ne hanno fatto quello che è adesso. Il presente de Il bivio è inferno e contrappasso dove il mercante è diventato merce, il consumatore rischia di essere consumato. L’altro Francesco è un caro amico che lavora alle scenografie dell’Elfo Puccini. La prima stesura del testo è stata rapida e ispirata come era giusto che fosse. Uno sfogo quasi. Quando scrivo nuovo materiale ho bisogno di confrontarmi con sensibilità diverse: per questo sottopongo il testo ad amici competenti in diverse discipline. Francesco trovò subito una pecca che fino a quel momento avevo percepito solo inconsciamente: la narrazione era debole, mancava di un contraltare, di una spalla. Il rischio era diventare pedanti, perdere drammaticità e quindi l’attenzione del pubblico. Dovevamo inventarci qualcosa per dare dinamismo al flusso di coscienza che inevitabilmente caratterizza un monologo. Occorreva un partner ma dovevamo anche rispettare la formula del teatro valigia con un solo attore in scena. Difficile sostenere un dualismo interno, schizofrenico, che reggesse un’ora di spettacolo. La soluzione mi giunse per caso una sera mentre davano in televisione un vecchio sketch dei coniugi Vianello (l’attenzione è vigile e munge la real EQUILIBRI 3/2013
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tà). Riscrivemmo il testo con l’aggiunta di un corpo estraneo, un oggetto muto e forse senziente con il quale il protagonista potesse dialogare. Amalgamammo con una vernice cromata un vecchio frullatore, un flacone di detersivo, il tubo della doccia e un paio di faretti da bicicletta. Ottenemmo una specie di lampada che si sposava perfettamente con l’icona del Diogene che da un po’ mi perseguitava. Inoltre, un partner inanimato accentuava la solitudine del personaggio e ci fornì l’idea per un finale particolarmente drammatico. Ancora una volta il limite aveva spronato la nostra creatività. Crescita del personaggio Organizzammo la prima prova tecnica nell’aia di una cascina nel basso Piemonte. La prima prova è critica, il copione non basta: il personaggio cresce e prende forma con la voce e il corpo dell’attore. Chiesi a Davide di dare al personaggio un carattere gretto, laido, addirittura osceno. Volevo che il pubblico non si immedesimasse con il protagonista, almeno per il primo atto. Il tema era forte e desideravo che la narrazione fosse inizialmente ruvida, diretta, un pugno nello stomaco. L’affetto per l’uomo sarebbe nato più avanti, con la rivelazione dei suoi aspetti più intimi. Feci ascoltare a Davide alcuni brani di Piero Ciampi, volevo gli stessi modi malinconici, acidi e insolenti. Davide colse perfettamente le mie indicazioni e le nutrì con l’arte e diede al personaggio una voce roca, una risata volgare, dei gesti sguaiati e un singolare accento ligure. La scenografia e i costumi Il teatro valigia esige pesi e volumi contenuti: i check-in e i mal di schiena penalizzano gli spettacoli più pesanti di 23 kg. Il copione reclamava un’ambientazione desertica e un’illuminazione scarna che restituisse una sensazione crepuscolare. Scartammo immediatamente l’idea di utilizzare sabbia vera, troppo pesante e difficile da gestire. Inoltre, la pulizia del palcoscenico dopo lo spettacolo sarebbe stata un’impresa. Individuammo nella iuta 592
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un materiale leggero, semplice, e ruvido come la rena. Una torrefazione ci regalò decine di sacchi che scucimmo e trasformammo in tappeti con i quali coprire il palco. Realizzammo con la iuta anche il costume: un largo e disadorno pastrano. Ne Il bivio il suono è coprotagonista. L’intero monologo è accompagnato dal vento del deserto e voci lontane minacciano il protagonista. Il futuro È trascorso un anno dal debutto. Il bivio è stato replicato decine di volte presso festival scientifici, teatri, scuole e anche cascine all’aperto e centri sociali. Stiamo raccogliendo il materiale bibliografico per il nuovo testo: abbiamo la premessa, un’idea dei personaggi, qualche dialogo e l’ambientazione. Per non vendere la pelle del proverbiale orso tacciamo e attendiamo il lettore in teatro. Dalla parte dell’attore, di Davide Gorla «Ecco, sono di nuovo qui. Chi me lo ha fatto fare? Non potevo trovarmi un tranquillo lavoro d’ufficio?». Queste sono più o meno le parole che mi passano per la testa tutte le volte che vado in scena. Faccio l’attore da più di dodici anni. Sono salito su un palcoscenico più di un migliaio di volte e, nonostante l’esperienza, la routine, continuo a farmi le stesse domande, ad avere la stessa paura. Entrare in scena è come buttarsi da un trampolino che visto da sotto non sembrava così alto. Ma una volta spiccato il salto prende vita un legame magico con chi assiste a ciò che accade in scena e nasce una sorta di empatia con chi sta oltre la quarta parete. Questo è un evento unico, originale, irripetibile, anche dopo cinquanta repliche dello stesso spettacolo. In un certo senso, questo legame con lo spettatore può sperimentarlo chiunque si ritrovi in una situazione che prevede un rapporto con un pubblico: una lezione, una conferenza, una presentazione. Chi ha un minimo di esperienza in questo campo, sa che avere l’attenzione del pubblico non EQUILIBRI 3/2013
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è una faccenda semplice. Va da sé che le tecniche teatrali e l’esperienza maturata negli anni valgono moltissimo in termini di aiuto, quando ci si trova in situazioni come quelle descritte sopra. Tant’è che da qualche anno, insieme al sodale Bellati, ricercatore e divulgatore, tengo seminari su come migliorare il rapporto col pubblico. Se per quest’ultima iniziativa, un esito positivo era in qualche modo aspettato, ci ha veramente spiazzato il successo che abbiamo ottenuto quando abbiamo coniugato la divulgazione scientifica al teatro. Abbiamo rimpiazzato lezioni ordinarie con dei veri e propri spettacoli di divulgazione scientifica. Ecco che l’energia e il fascino di una rappresentazione teatrale si mettono a disposizione della didattica. Potremmo dire che per una volta abbiamo rubato la scena alla scienza con un’arte che ha del magico, in quel rapporto unico e amniotico con il pubblico che si rinnova a ogni replica. Si, è possibile: ogni concetto, ogni dato scientifico può passare attraverso un evento creativo, evocativo, una lezione può diventare una storia. In cinque anni abbiamo prodotto e portato in tutto il paese quattro spettacoli di divulgazione scientifica per tutte le età, dalle elementari agli adulti. Siamo pionieri in Italia di questa disciplina e i risultati ci spingono a proseguire il cammino, affrontando nuovi temi. Lo spettacolo finisce, dalla platea parte lo scroscio di applausi. Mi accorgo di aver bruciato un milione di calorie e i livelli di adrenalina sono quelli di un paracadutista al momento del lancio. Ecco puntuale la risposta alla domanda che mi pongo ogni volta che vado in scena: «perché è il lavoro che amo e non potrei fare nient’altro al mondo».
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