"L'utente fantasma", Progetto Grafico n.17

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L’UTENTE FANTASMA Da utente a interprete. Come non perdersi dietro ai fantasmi (e nella metro).

L’utilizzatore finale non è perseguibile. Progettare per, con o contro l’utente?

Persone e cose. Ipotesi per uno spazio neutro tra teoria, ricerca e pratica progettuale.

Antonio Perri

Silvia Sfligiotti

pag. 8

pag. 16

Luciano Perondi

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La rivincita dei fantasmi, la new age dell’information design. Luigi Farrauto pag. 28

pag. 22

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Questa sezione prende spunto dalla conversazione L’utente fantasma, curata da “Progetto grafico”, che si è svolta a Napoli il 9 ottobre 2009 nell’ambito di Design Per. Settimana internazionale della grafica (se ne parla alle pagine 156-187). I relatori e curatori erano: Luigi Farrauto,Max Gaeta, Carlotta Latessa, Antonio Perri, Silvia Sfligiotti, coordinamento di Alberto Lecaldano. I vari interventi sono stati approfonditi e ampliati dagli autori per la loro pubblicazione in questa sezione di aperura di Pg 17. È stato inoltre inserito un contributo di Luciano Perondi. Il layout di questa sezione è stato curato da FF3300.

L’utente fantasma è sempre in buona compagnia.

L’utente? è un deficiente!

...Quando l’utente non è fantasma.

Max Gaeta

Alberto Lecaldano

pag. 36

pag. 38

Carlotta Latessa pag. 32

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Da utente a interprete. Come non perdersi dietro ai fantasmi (e nella metro)

Antonio Perri

Mi è stato chiesto, in quanto semiologo (non sono un grafico dunque, anche se di comunicazione grafica mi occupo da anni), di provare a delineare una definizione di utente. Il problema – come spesso accade nell’ambito delle cosiddette scienze della comunicazione, soprattutto allorché si confrontano con discipline tecnico-progettuali quali la grafica o, più in generale, l’ergonomia e il design – è che si tratta di una nozione estremamente multiforme e non facilmente sovrapponibile a quelle di ricevente, lettore (o ascoltatore), interprete, con cui le discipline semio-linguistiche hanno spesso avuto a che fare. Eppure basta sfogliare un testo a suo modo ‘canonico’ per la semiotica strutturale come il Dizionario ragionato della teoria del linguaggio curato alla fine degli anni Settanta da Algirdas Julien Greimas e Joseph Courtès 1 per rendersi conto di come, accanto a qualche discrasia, emergano alcuni punti fermi degni di interesse. Il Dizionario, tanto per cominciare, non ha una voce dedicata all’utente; ma alla voce ricevente (pp. 276-277) ci viene detto che quest’ultimo, nella teoria dell’informazione indicante una ‘istanza’ o ‘posizione vuota’ meccanicisticamente destinata ad accogliere un determinato messaggio, meglio andrebbe inteso, da un punto di vista ‘umanizzante’, come destinatario o enunciatario umano – vale a dire un soggetto provvisto di competenze e colto, dinamicamente, “in un dato momento del suo divenire”. Se partiamo da una (provvisoria) equivalenza fra utente e destinatario, dunque, dovremo anzitutto riconoscere che stiamo parlando di soggetti umani – il che, sia detto per inciso e in quest’epoca dominata dal neo-meccanicismo delle scienze cognitive, non mi pare cosa da poco. Sinteticamente – e come prima, approssimativa formulazione – possiamo allora dire che l’utente si delinea a partire da una comprensione di (ciò che è)

un processo di comunicazione (umano) realizzato mediante sistemi di significazione (umani o non umani); da tale punto di vista, pertanto, l’informazione cui fa riferimento l’etichetta di information design va riferita non a un oggetto intrinseco (l’artefatto comunicativo) ma anzitutto a un osservatore-attore. Pensiamo alle mappe, ad esempio 2 . Il filosofo americano Searle ha sottolineato che una mappa contiene informazioni che tuttavia non sono le mere molecole di pigmento delle quali è fatta la mappa ma sono, in certo senso, nell’osservatore (o meglio, sono ‘relative all’osservatore’). Ecco perché al pragmatista Searle risulta molto difficile definire un concetto come quello di informazione in maniera intrinseca, ossia indipendentemente da osservatori; in un certo senso possiamo dire che le informazioni geografiche non sono nella mappa intesa come artefatto grafico: “è solo perché l’osservatore sa come interpretare i segni sulla carta che possiamo dire che la mappa contiene informazioni” 3 . Questo, per inciso, è il motivo che ha reso così pericolosamente fuorviante la ricezione e rielaborazione in ambito linguistico e semiotico del modello cosiddetto ‘cibernetico’ della comunicazione (una versione del quale è riprodotta nella figura 1): in quel modello meccanicistico, come già Greimas non mancava di far notare, il ricevente non interpreta alcunché perché si limita a decodificare meccanicamente dei segnali. Potrebbe essere (e difatti per gli ingegneri che per primi avevano delineato il modello era effettivamente) una macchina, un computer (al pari dell’emittente). Il modello, in breve, non dà ragione neppure di ciò che gli scienziati cognitivi indicano con computazione perché anche quest’ultima, come ricorda Searle (pp. 58-59), è relativa all’osservatore: siamo noi a interpretare computazionalmente gli stati del circuito elettrico delle macchine.

“è solo perché l’osservatore sa come interpretare i segni sulla carta che possiamo dire che la mappa contiene informazioni” 8

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Il modello di Shannon e Weaver (1949)

↓ figura 1

codifica emittente

decodifica messaggio

canale

messaggio

(capacità determinata)

ricevente

rumore (disturbi)

codice

Livelli di cooperazione testuale

↓ figura 2

INTENSIONI

ESTENSIONI STRUTTURE DI MONDI

• • • •

STRUTTURE ATTANZIALI STRUTTURE NARRATIVE

Matrici di mondi Assegnazione di valori di verità Giudizi di accessibilità tra mondi Riconoscimento di atteggiam. proposizionali

PREVISIONI E PASSEGGIATE INFERENZIALI

Macroproposizioni della fabula

Disgiunzioni di probabilità e inferenze

STRUTTURE DISCORSIVE

ESTENSIONI PARENTESIZZATE

Individuazione del topic Riduzione di sceneggiature Magnificazione e narcotizzazione di proprietà Scelte di isotopie

contenuto attualizzato

STRUTTURE IDEOLOGICHE

Primi riferimenti non impegnativi a mondi

ESPRESSIONE

Manifestazione lineare del testo

CODICI E SOTTOCODICI

Dizionario di base Regole di coreferenza Selezioni contestuali e circostanziali Sceneggiature (comuni e intertestuali) Ipercodifica ideologica

Se l’utente fosse un ricevente ‘cibernetico’, insomma, sarebbe davvero un utente-deficiente: niente contesto, niente conoscenze di sfondo, nessuna libertà interpretativa – tutto è già ‘scritto’ nel codice, tutto è comunicato ma niente significa. Di certo il progetto dell’informazione non è questo. Si tratta allora di provare a comprendere in che modo l’utente sia ‘configurato’ a partire da una visione della comunicazione come processo che pone in primo piano l’intenzionalità cosciente degli attori in gioco – di chi realizza il testo – messaggio, cioè, e di chi lo

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CIRCOSTANZE DI ENUNCIAZIONE

Informazioni sull’emittente, epoca e contesto sociale del testo, supposizioni sulla natura dell’atto linguistico ecc.

interpreta – chiedendosi poi se è adattabile alla grafica (in primo luogo alla cosiddetta grafica di pubblica utilità, ma più in generale a ogni forma di comunicazione grafica, posto che è difficile capire dove finisca il confine dell’utile sociale o pubblico). A tale riguardo può forse tornare utile la ricognizione di un altro modello teorico, assai caro alla semiotica del testo: quello che delinea un ‘lettore modello’ costruito nel testo come strategia cooperativa e interpretativa (implementata da una pratica empirica di lettura). Se diamo un’occhiata al modello di cooperazione testuale riprodotto in figura 2 ed elaborato circa

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→ figura 3

Comunicazione verbale faccia-a-faccia enunciato linguistico + forza illocutiva + segnali paralinguistici + indicatori prossemici + fattori contestuali

Comunicazione informativa grafico-visuale esposta elementi grafico-linguistici (glottici) ∞ elementi grafici (non glottici) ∞ indicatori deittici ∞ fattori co-testuali ∞ fattori contestuali ∞ circostanze di esposizione ∞ forza illocutiva dell’enunciato trasmesso ∞ attività perlocutivamente suscitate…

trenta anni fa da Eco 4 ci rendiamo subito conto di come esso postuli una complessa rete stratificata di elementi interconnessi a prima vista davvero ‘troppo ricca’ per il nostro obiettivo (definire l’utente come lettore modello, appunto). È probabile che ciò sia vero, se si pensa che il paradigma alla luce del quale la cooperazione testuale è stata concepita è quello del testo narrativo nel quale la dimensione pragmatica volta all’azione-manipolazione – quella dell’intenzione precedente che causa l’intenzione in azione, per usare ancora una volta un’espressione di Searle 5 – è pressoché assente, sostituita da una dimensione riflessivo-interpretativa di natura estetica. I grafici, troppo attenti all’effetto ‘artistico’ dei loro prodotti, talvolta non se ne rendono conto ma i loro messaggitesti hanno spesso l’intento di far-fare (o far-nonfare) qualcosa: condizione di adeguamento di tali messaggi-artefatti è far sì che le persone (gli utenti, appunto) si adeguino a quanto prescritto dal messaggio stesso – una condizione di adattamento definita da Searle, nell’ambito della sua nota teoria degli atti linguistici, mondo-a-parola: “il mondo deve cambiare per corrispondere a come è descritto da un ordine o divieto” (p. 66). A volte, peraltro, quando si afferma che il contenuto di un sistema grafico (ad es. una segnaletica) è ‘informativo’ si compie un’indebita semplificazione: sapere dove si trovi un determinato luogo è sempre – se questa indicazione appare su una mappa esposta o su un cartello – funzionale alla possibilità che io (l’utente) possa/voglia/debba recarmi in quel luogo (e dunque introduce una forma di intenzionalità sociale normativa implicita). Tutto ciò non può che voler dire una cosa: la comunicazione pubblica, esposta, l’infografica insomma funziona solo a condizione che l’utente sia in grado di dare al messaggio un’interpretazione efficace pragmaticamente. Un progettista non dovrebbe mai, dico mai, essere contento di sentirsi dire qualcosa come: “Belli, davvero belli i totem della mostra che hai realizzato: ma dov’è la prima sala?” Torniamo al modello di Eco: pur tenendo conto che alla base di questo schema c’è un testo narrativo (dunque l’articolazione di una ‘storia’ la quale, se è presente in moltissimi prodotti visuali, non lo è praticamente mai

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nella segnaletica e soltanto di rado nei prodotti di infodesign), ci renderemo facilmente conto di come molti dei ‘livelli’ previsti si ritrovano (o dovrebbero ritrovarsi) nell’interpretazione di un artefatto grafico da parte dell’utente – con una differenza fondamentale, però: mentre nell’interpretazione letteraria la circolarità ermeneutica e il ‘perdersi’ nel processo interpretativo sono parte integrante della fruizione estetica, nel caso della grafica come prodotto intenzionale volto a determinare un’intenzione-in-azione la comprensione dev’essere, almeno in prima istanza, univoca e immediata (tutti i ‘manuali del buon grafico’ insegnano del resto come sia proprio per questo che i pittogrammi continuano ad avere lunga vita nelle nostre società alfabetizzate o legate a forme di testualità dinamica e sincretica quali audiovisivi, ecc.). A dire il vero, anzi, se i livelli di quello che Eco chiama il contenuto attualizzato (ovvero l’articolazione più riflessiva dei contenuti, dalla quale prende il via la serie di mosse interpretative del lettore) appaiono inutilmente complicati per descrivere l’attività dell’utente, alcuni tra gli elementi contenuti nei due box (codici e sottocodici, circostanze di enunciazione) sono forse addirittura insufficienti a dare conto della dimensione situata, deittica e contestuale di ogni ‘testo segnaletico’ – che si distingue da un libro perché la sua significazione è intrinsecamente connessa ai parametri situazionali, circostanziali e fisici della sua installazione con i quali, per usare un’espressione di Roy Harris 6 , deve integrarsi. Mai come nel caso di un prodotto di grafica informativa appare fondamentale non tanto sapere chi (e quando) ha realizzato il testo ma dove il testo è ubicato, qual è il suo contesto ecologico, sociale e culturale, che tipo di attività suscita o promuove con la sua forza illocutiva… Al tempo stesso, nell’identificare codici e sottocodici caratteristici del sistema semiotico in cui il testo è prodotto, l’utente-lettore non potrà che fare ampio uso di selezioni contestuali e circostanziali atte a disambiguare un certo elemento-unità, regole di ipercodifica retorica (in questo caso basata su processi relativi a figure di natura visiva), o ideologica (le connotazioni di particolari espressioni grafiche), o ancora la conoscenza di particolari sceneggiature (comuni

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e intertestuali) – situazioni-tipo cognitivamente organizzate senza le quali nessun pittogramma o altro elemento notazionale sarebbe correttamente interpretabile. Una buona strategia progettuale, insomma, dovrebbe garantire un’interpretazione da parte del fruitore già a questo livello, ‘tagliando fuori’ la narratività e le strutture ideologiche profonde presenti comunque in ogni prodotto grafico ma non destinate a essere percepite dal fruitore-utente in prima istanza bensì proprio come risultato di una riflessione a posteriori e di natura estetico-connotativa – quando si accorge che il carattere tipografico utilizzato è il Futura, ad esempio, il quale rinvia al razionalismo ecc. Possiamo semmai ipotizzare che la dinamica del rapporto fra testo e mondo reale ‘fuori dal testo’, prevista dalla colonna di destra nel modello di Eco, assuma un ruolo essenziale ma non in quanto previsionalità inferenziale circa la natura della storia narrata, bensì in quanto costruzione mentale in vista dell’azione – posto che l’utente non rappresenta a se stesso il mondo di un testo ma il mondo reale, così come l’atto linguistico direttivo del testo-segnale prescrive che sia. Questa dimensione estensionale, dunque, è diretta conseguenza delle condizioni di efficacia (o felicità) di un processo di comunicazione visuale esposta assai più complesso dell’immagine standard della comunicazione verbale faccia a faccia descritta dai filosofi del linguaggio e della mente, intesa quale semplice sommatoria di atti o processi simultanei (per di più esprimibile sotto forma di lista chiusa) 7 ; essa si configura al contrario come la risultante dell’interazione, mutuamente costitutiva, di dimensioni linguistiche, situazionali, deittiche, ecologiche in numero non limitato a priori – come si può evincere dal confronto sviluppato nello schema di figura 3. Da tutto ciò segue tuttavia che l’utente modello, a differenza del lettore modello, ha più che mai bisogno di ‘emergere’ da una consapevole sperimentazione empirica sul tipo di quella user centered alla base dell’usabilità delle interfacce. Mi limito qui a ricordare i quattro principi dell’UCD 8 : 1. focalizzazione sugli utenti; 2. misurazione qualiquantitativa delle caratteristiche d’utilizzo; 3. design iterativo; 4. approccio multidisciplinare. In particolare i punti 3. e 4. impongono di configurare sperimentalmente ed esperienzialmente l’utente, onde poter generalizzare un comportamento modellizzato che sarà poi alla base della progettazione. Se invece l’utente modello è un’astratta strategia del grafico-progettista e manca una qualunque ‘sperimentazione’ della notazione in funzione del progetto, allora l’utente (non il lector di Eco, ma l’utente sì!) diventa un ‘fantasma’ – cioè scompare. È utile ricordare, del resto – né può apparire un pedante esercizio filologico – che il termine greco phántasma designava per gli stoici un’immagine formata dal pensiero per proprio conto e inintenzionalmente, come nei sogni 9 ; questa assenza di coscienza, che non

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un utente prodotto dalla mente del progettista semplicemente non è un utente. può configurare alcuno stato intenzionale 10 , differisce dalla percezione del reale realizzata dal punto di vista del ricevente e denominata dagli stoici phantasía – la quale ha invece una dimensione causale e modifica il soggetto, ‘imprimendosi’ per così dire in esso. La comunicazione grafica dunque non può essere ‘fantasmatica’ né inconscia, ma è sempre connessa all’esistenza di regole (previsionali, inferenziali) prodotte dalla phantasía degli utenti e relative ai loro comportamenti futuri. In quest’ottica la nozione di utente fantasma come ‘assenza’ evidenzia la sua netta distanza da problematiche come quella dell’arto fantasma, che tanto ha stimolato il dibattito nell’ambito della filosofia e delle scienze cognitive. Come ricorda ancora una volta Searle, infatti, nel caso dell’arto fantasma io ‘sento’ degli stimoli che mi giungono da una parte di me fisicamente assente, ma neurologicamente attiva: tutto avviene nella mia mente e si tratta di un fenomeno intrinsecamente privato (‘fantasmatico’ in senso stoico, insomma); nel caso dell’utente fantasma, invece, progettista e utente sono due istanze socialmente indipendenti e legate da una comune intenzionalità sociale: la comunicazione del primo deve coinvolgere il secondo, e un utente prodotto dalla mente del progettista semplicemente non è un utente. Il mio piccolo esempio di bad practice, che sembra davvero realizzato in un contesto di totale

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← figura 5

eliminazione dell’utente-fruitore, è costituito da parte della segnaletica presente lungo le banchine della metro A di Roma [figura 5], in cui si fa abbondante uso di pittogrammi. Si impongono però due precisazioni preliminari, relative alla natura dello ‘spazio di scrittura’ prescelto e alla qualità della documentazione. Una stazione della metro, a prima vista, si presenta come caso emblematico di quei nonluoghi descritti già qualche anno or sono da Marc Augé ma spesso chiamati in causa da sociologi, urbanisti e antropologi per denunciare la globalizzazione e massificazione degli spazi urbani 11 : in contrapposizione ai luoghi antropologici classici, insomma – identitari, relazionali e storici – aeroporti, autostrade, mezzi di trasporto, grandi centri commerciali sono (sarebbero) spazi caratterizzati dall’omogeneità standardizzata, dall’annullamento di ogni storicità, dall’assenza di relazioni fra individui, che li frequentano soltanto di passaggio, coinvolti in un flusso necessario alla circolazione accelerata di beni e merci. Per quanto una simile immagine ci appaia apocalitticamente seducente, tuttavia, credo si possa obiettare che nel caso delle metropolitane le cose non stanno esattamente così. Le fermate metro di tutto il mondo hanno ciascuna un proprio ‘stile’, verrebbe da dire, e anzi proprio il fatto che il rapporto fra nonluoghi e i suoi frequentatori sia mediato da ‘simboli’ (voci preregistrate e anonime, naturalmente, ma anche e soprattutto segnaletica) crea un’identità visiva 12 culturalmente connotata di quegli spazi, la quale se da un lato non placa l’ansia del ‘classico’ viaggiatore di passaggio smarrito – perdersi nella metropolitana londinese è un’esperienza completamente diversa rispetto al perdersi in quella parigina – dall’altro accentua la volitiva ‘agentività’ e ‘interattività’ del soggetto: quest’ultimo non è un passivo cliente (o utente!) de-individualizzato e capace di riconoscere solo i simboli grafici globalizzati che trova ovunque (“vietato fumare”, “non superare la linea gialla”…) – come la catastrofistica immagine postmoderna della precarietà in transito lascia credere – ma al contrario si rivela un soggetto attivo, che proprio grazie a un rapporto dialettico con i ‘segnali’

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del contesto spaziale afferma il proprio modo di agire e fruire del trasporto metropolitano. La complessità dei ‘reticoli comunicativi’ (in tutti i sensi del termine) presenti nelle diverse metropoli varia, naturalmente; ma se negli anni Novanta un semiologo come Floch poteva delineare una tipologia degli utenti della metro di Parigi (denominati esploratori, sonnambuli, bighelloni e professionisti) 13 questo implica senza dubbio il presupposto che “i viaggiatori percepiscano la metropolitana come una pratica significante: alcuni la semantizzano [gli esploratori], altri invece la desemantizzano automatizzando le proprie mosse [i sonnambuli]” 14 ; e in questa prassi la comunicazione grafica ha un ruolo essenziale, perché viene valorizzata da chi traccia consapevolmente dei percorsi e neutralizzata da chi segue, meccanicamente, delle traiettorie. La seconda precisazione è relativa invece alle foto dei pittogrammi riprodotte in queste pagine: si tratta di foto ‘rubate’ (come è noto scatti simili non sono pienamente legali) che, a onta della cattiva qualità, testimoniano tuttavia di una vera e propria impasse interpretativa da parte dell’utente – anche ove ci si limiti soltanto ai primi, ‘elementari’ livelli di un modello come quello echiano di cooperazione. Vediamo sinteticamente il perché 15 . 1.

Anzitutto i pittogrammi non rispettano quelle che in semiotica sono chiamate isotopie grafiche, e che ogni progettista potrebbe definire come linee di coerenza grafico-stilistiche in grado di conferire unitarietà al sistema. Da qui la confusione di cui è preda l’utente in occasione della ‘lettura’ di pittogrammi che rinviano sì allo stesso denotatum ma utilizzano costanti grafiche diverse (come le due proiezioni nella rappresentazione grafica dell’autobus [figura 6] o di treni, tram e autovetture [figura 7]). Queste asimmetrie espressive sono impietosamente evidenziate nei casi in cui i pittogrammi si giustappongono formando sintagmi complessi [figura 8].

2.

In secondo luogo il processo che a partire da un famoso saggio di Barthes 16 si è soliti

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↑ figura 7

↑ figura 6

← figura 8

← figura 9

← figura 10

← figura 11

← figure 12 e 13

← figura 14

denominare ancoraggio al verbale dell’immagine, necessario a disambiguare la polisemia di quest’ultima con il ricorso alla funzione denominativa fornita dal testo alfabetico, si tramuta a volte in un vero e proprio paradosso. Già qualche anno fa, nel denunciare la ‘febbre pittogrammatica’ che induce a ipotizzare un’immediatezza comunicativa dell’icona del tutto indimostrabile, Giovanni Lussu 17 citava il caso del pittogramma aeroportuale per ‘taxi’ in cui, poiché l’auto in vista frontale sarebbe di per sé ambigua – chiamando in causa, a dispetto delle selezioni contestuali, altre possibili “catene fluttuanti” di significati (per usare l’espressione di Barthes) – si scriveva sopra di essa taxi “piccolo piccolo, confidando che sia una parola capita un po’ dovunque”. Lussu concludeva che con un po’ di buonsenso è facile “rendersi conto che il segnale sarebbe molto più efficiente se ci fosse solo la parola ‘taxi’ scritta più in grande”; ebbene, il pittogramma usato nella metro A realizza questo desideratum (l’etichetta ‘taxi’ è leggibilissima) ma senza eliminare l’immagine dell’auto, in relazione alla quale la scritta risulta del tutto sproporzionata. Analogo uso ‘repressivo’ delle etichette verbali denominative si ritrova nei pittogrammi per ‘parco’ [figura 9], ‘siti archeologici’ [figura 10], ‘museo’ [figura 11]:

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tutti casi in cui l’assenza di ‘didascalie’ rende virtualmente non interpretabili le configurazioni iconiche. 3.

Non è difficile, inoltre, rinvenire un ricorso incostante e a tratti ‘fumoso’ a quella che seguendo Eco potremmo chiamare ipercodifica ideologica o retorica, trasposta sul piano del visivo. È il caso dei pittogrammi per ‘tribunale’ (figura 12: chi è pronto a scommettere sulla comprensibilità transculturale del simbolo della bilancia, tanto più se completato dall’etichetta alfabetica latina lex?); ‘università’ (figura 13: curioso uso del principio acrofonico relativo alla ‘U’ cui si sovrappongono ben due libri aperti, creando un complicatissimo dispositivo rappresentativo articolato su tre piani o livelli); ‘chiesa’ (figura 14: la forma dell’edificio risulta anche in questo caso poco ‘trasparente’, e a precisare il messaggio interviene la croce latina al suo interno); ‘ospedale’ (figura 14: insufficiente il letto, che farebbe pensare a un albergo, ma lo stesso vale per la croce rossa che evoca un semplice pronto soccorso; si ricorre perciò alla giustapposizione dei due segni in uno stesso sintagma visivo, purtroppo ancora ambiguo in assenza di didascalia). Tutti questi esempi prevedono da parte dell’utente una competenza

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← figura 15

enciclopedica estremamente complessa, e decisamente ‘occidentale’; forse rinunciare ai pittogrammi e servirsi di semplici lessemi (in italiano e inglese) trascritti alfabeticamente sarebbe stato più efficace (e positivo per il fruitore).

4.

La scelta di allineare i singoli pittogrammi in sintagmi, a prima vista necessaria a trasmettere indicazioni ‘multiple’ riferibili a una singola fermata o stazione, crea talora improbabili sequenze soggette a interpretazioni ‘processuali’ o narrative che nella segnaletica di norma vanno escluse a priori: è il caso della figura 15 in cui proprio la didascalia del primo pittogramma rafforza la percezione di un’isotopia tematica connessa a problemi medici di ‘vista’ e ‘deambulazione’, generando la spiacevole impressione che la sequenza stia davvero raccontando una ‘storia possibile’ (di un ospedale oftalmico presso il quale si reca chi ha problemi alla vista e dunque è costretto, per non cadere, a utilizzare una carrozzina da invalido...).

5.

Infine colpisce davvero l’assenza totale di indicazioni metalinguistiche esplicative – ossia legende, che avrebbero potuto chiarire meglio all’utente il senso di alcuni pittogrammi. L’esatto contrario di ciò che nella medesima stazione metro avviene con le mappe [figura 16] , tutte provviste di legende alfabetiche e peraltro assai più facili da interpretare in base alla nostra competenza intertestuale.

← figura 16

← figura 17

← figura 18

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Emblema del fallimento di una comunicazione univoca e immediata, a mio avviso, è il bizzarro pittogramma dell’‘occhio’: le inferenze da compiere per capire (semplicemente) cosa stia indicando non sono molto diverse, quanto a complessità, dai livelli di cooperazione postulati da Eco per il processo di interpretazione di un testo narrativo. Supponendo (con ottime probabilità di aver ragione) che la significazione di questa iconcina sia sfuggita a quanti l’hanno osservata senza soffermarcisi a lungo, ritengo doveroso, precisare che si tratta dell’elaborazione di un pittogramma diffuso internazionalmente e destinato a designare l’handicap della ‘cecità’ [figura 17], alternativo a quelli più ambigui di omini con bastone o bastone e cane [figura 18]. Mi ci è voluto molto, tuttavia, per riuscire a comprendere che la texture tratteggiata della porzione sinistra dell’occhio è in realtà un elemento provvisto di significazione ‘piena’, sintatticamente connesso al resto per formare un messaggio complesso: esso infatti rinvia alla particolare segnaletica orizzontale ‘a bande’ di cui i ciechi si servono per seguire un percorso, facilmente percepibile al tocco del bastone. Una legenda, forse, sarebbe stata auspicabile anche in questo caso a beneficio degli utenti vedenti (i ciechi, infatti, la segnaletica la individuano altrimenti…).

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Analizzando questa serie caotica di pittogrammi, che sembrano raccolti e assemblati senza alcun criterio a partire da sistemi e ‘fonti’ quanto mai diverse e disparate, è davvero difficile pensare che possano realmente rispondere a una ‘configurazione sistematica’ dell’utente; direi addirittura che non c’è stato neppure il tentativo di costruire un fruitore modello – semplicemente, non ci si è messi ‘dalla parte dell’utente’. Per la progettazione di segnaletica e infografica, a dire il vero, la metodologia UCD costituisce una sfida ben più onerosa di quanto accade per la progettazione di interfacce: è possibile infatti adottare una practice

di UCD quando le variabili alla base dell’artefatto comunicativo sono controllabili e testabili con facilità, mentre nel caso di grafica esposta e segnaletica questo è molto più difficile. Tuttavia qualche sforzo in tal senso andrebbe fatto, se non altro perché quello che chiamiamo utente deficiente è inevitabilmente il prodotto di un progettista onanista. Appellarsi al ‘fantasma’ dell’utente, in definitiva, significa paradossalmente chiamare in causa un soggetto che è sempre e comunque potenziale interprete ‘in carne e ossa’ – dunque vuol dire anzitutto cercare di difendere l’utente empirico (non quello modello, frutto del narcisismo del cattivo design).

Tuttavia qualche sforzo in tal senso andrebbe fatto, se non altro perché quello che chiamiamo utente deficiente è inevitabilmente il prodotto di un progettista onanista. 1

Algirdas Julien Greimas, Joseph Courtès, Semiotica. Dizionario ragionato della teoria del linguaggio, Milano, Bruno Mondadori, 2007 da cui cito (prima ediz. italiana 1986, ed. orig. 1979). 2 Segnalo incidentalmente che alla comunicazione cartografica è dedicata la ricca apertura di Pg 12/13. 3 John Searle, Coscienza, linguaggio, società, Torino, Rosemberg & Sellier, 2009, p. 60. 4 Umberto Eco, Lector in fabula. La cooperazione nei testi narrativi, Milano, Bompiani, 1979. 5

“L’intenzione precedente è quella che viene formata, appunto, prima di intraprendere l’azione. In molti casi uno si forma un’intenzione, fa un piano – si potrebbe dire – e poi agisce di conseguenza. […] Un’intenzione precedente […] può essere anche molto complessa e articolata. Nessun’azione è compiuta senza che ci sia un’intenzione in azione ma ci possono essere azioni anche senza che ci sia un’intenzione precedente. Quando però un’intenzione precedente è realizzata in un’azione, quando l’azione compiuta è compiuta in base a un’intenzionalità precedente, allora la connessione tra le due dev’essere riconosciuta come molto stretta” (Searle, Coscienza, linguaggio, società, cit. pp. 83-84). Mi sembra interessante sottolineare che proprio questa connessione fra intenzione e azione è il nocciolo duro attorno al quale ruota il lavoro di progettazione grafica dell’informazione.

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Roy Harris, La tirannia dell’alfabeto, Viterbo, Stampa Alternativa & Graffiti, pp. 80 ss. Si consideri anche l’affermazione radicalmente pragmatica nella definizione di segno scritto fornita a p. 224: “Qualunque configurazione grafica acquisisce un determinato valore linguistico nella misura in cui serve a creare l’integrazione tra una specifica forma di attività verbale e un’altra, o tra attività verbale e attività non verbali”. È forse superfluo sottolineare lo stretto parallelismo fra il concetto di integrazione e la connessione fra intenzione precedente e in azione individuata da Searle. 7 Si veda ad esempio Giacomo Ferrari, “Vedi cosa intendo?” Comunicazione verbale e canale visivo, in M. Carenini e M. Mattuzzi, a cura di, Percezione linguaggio coscienza. Saggi di filosofia della mente, Macerata, Quodlibet, 1999, pp. 203-223, in particolare pp. 208-209. 8

Una chiara e sintetica presentazione della problematica connessa all’usabilità nell’ambito della Human Computer Interaction si può trovare in Marco Sentinelli, Usabilità dei nuovi media, Roma, Carocci, 2003. 9 Cfr. ad esempio la voce Immagine in Nicola Abbagnano, Dizionario di filosofia, Torino, Utet, 1971, p. 466. 10

Circa il rapporto fra attività cosciente e capacità di seguire una regola cfr. Searle, Coscienza, linguaggio, società, cit. pp. 79 ss.

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Sul concetto di identità visiva la semiotica ha avuto il merito di formulare le proposte più interessanti; si veda ad es. Jean-Marie Floch, Identità visive, Milano, Franco Angeli, 1997. 13 J.-M. Floch, Siete esploratori o sonnambuli?, in Id., Semiotica, marketing e comunicazione, Milano, Franco Angeli, 1992, pp. 59-88. 14

Maria Pia Pozzato, Semiotica del testo. Metodi, autori, esempi, Roma, Carocci, 2001, p. 265. 15 Sulla comunicazione visuale, i sistemi pittografici e l’infodesign rinvio alla sezione di apertura, curata da Mario Piazza e Daniele Turchi, di Pg 2. Per un’introduzione all’analisi delle pittografie di orientamento semiologico cfr. Pascal Vaillant, Sémiotique des langages d’icônes, Paris, Honoré Champion, 1999. 16

Mi riferisco a Retorica dell’immagine, saggio del 1964 pubblicato in traduzione italiana in Roland Barthes, L’ovvio e l’ottuso. Saggi critici III, Torino, Einaudi, 1985, pp. 22-41. Barthes peraltro analizza il concetto in relazione all’immagine fotografica, in linea di principio priva dei caratteri di discretezza e articolabilità ‘interna’ che dovrebbero essere presenti in ogni pittogramma. 17 G. Lussu, La lettera uccide. Storie di grafica, Viterbo, Stampa Alternativa & Graffiti, 1999, pp. 33-34.

11 Il riferimento obbligato è a Marc Augé, Nonluoghi. Introduzione a un’antropologia della surmodernità, Milano, Elèuthera, 2005.

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L’utilizzatore finale 1 non è perseguibile

Progettare per, con o contro l’utente? Silvia Sfligiotti La pratica professionale quotidiana mi ha portato di recente a una osservazione: i mutamenti nei tempi e modi nel progetto – inevitabili e potenzialmente salutari – hanno avuto almeno una conseguenza importante ma a mio parere trascurata: la scomparsa o la marginalizzazione del ruolo dell’utente nel processo di progettazione. Mi sono chiesta se l’attenzione al fruitore sia stata smarrita per strada, se quindi facesse parte del codice genetico del design fin dalle sue origini, o se invece non sia stata episodica e marginale. Il testo che segue raccoglie l’indagine e le riflessioni, assolutamente personali, che ne sono seguite. Dichiarazioni di principio Ho provato a ripercorrere alcune fonti storiche, alla ricerca di conferme o smentite di queste due interpretazioni. Dichiarazioni di intenti e manifesti sembrano, negli eroici primordi del moderno design della comunicazione, essere preoccupati di dare forma visibile a un mondo nuovo più che di aiutarne gli abitanti. I ‘padri fondatori’ della disciplina erano tutti consapevoli – che fosse in modo intuitivo, ideologico o scientificamente fondato – che la preminenza dell’immagine nella società a loro contemporanea faceva della comunicazione visiva uno strumento cruciale e potenzialmente rivoluzionario, e puntavano prima di tutto a superare forme e metodi esistenti, ad aprire squarci sul futuro (l’elettrobiblioteca di El Lissitskij). in Die Neue Typografie parla di “esprimere lo spirito dell’uomo moderno”, anche se non dimentica di sottolineare il rapporto tra forma e funzione, in uno scenario in cui il numero di stampati è ogni giorno maggiore. , pochi anni prima, nel confrontare la comunicazione decorativa ‘disegnata a mano’ con quella moderna tipografica, concludeva che il lettore giudica la qualità della merce in base all’impressione visiva ricevuta e non al contenuto testuale; un punto di vista che più che tutelare l’utente ne osserva le abitudini per poter essere più efficace nel raggiungimento degli obiettivi. Il loro quasi contemporaneo è più chiaro nell’indicare come fine della tipografia quello di “aiutare al massimo la comprensione del lettore” senza frapporsi tra lui e il testo, in linea con i principi della tipografia trasparente 2 .

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, fin dagli inizi dell’elaborazione del suo metodo viennese, proponeva di dare alle informazioni una veste figurale – quasi paragonabile a quella della pubblicità – per permettere agli utenti di accedere in modo diretto alle informazioni, con la stessa immediatezza che hanno mappe e atlanti, in questo confermando la tesi di Schwitters sulla prevalenza del canale visivo. A differenza dei suoi contemporanei, il lavoro di Neurath e del suo gruppo di collaboratori era sostenuto da un metodo scientifico, e cercava una continua verifica dei propri risultati: ne sono prova i questionari che erano consegnati intorno al 1926 ai visitatori del Museo Sociale ed Economico di Vienna, nei quali si chiedeva loro un parere sulla comprensibilità del materiale in mostra e suggerimenti sui temi da trattare in futuro. Il processo di trasformazione dei dati che precedeva la realizzazione di un diagramma Isotype, come ricorda , era ritenuto fondamentale proprio per raggiungere la massima comprensibilità per l’utente 3 . Superato il periodo eroico e fondativo e le devastazioni della Seconda guerra mondiale, il design della comunicazione entra con gli anni cinquanta nella fase di definizione e consolidamento della professione: e qui l’attenzione dei designer è soprattutto verso il riconoscimento della professione (da parte dei clienti) e verso l’esplorazione del campo di azione. Volendo semplificare, quello a cui si dà forma visibile in quest’epoca non è un mondo utopico o rivoluzionario, ma una realtà sociale ed economica in cui sembra davvero possibile credere in un progresso continuo, in cui ‘moderno’, ‘giusto’ e ‘buono’ tendono a coincidere (e a essere scritti in Helvetica 4 ). È successivamente, con i primi segni di crisi di questo ottimismo, che si comincia a dubitare che il bene dell’industria e il bene degli utenti possano sempre coincidere. I movimenti controculturali degli anni Sessanta e Settanta hanno le loro conseguenze anche sul mondo del design, e cominciano a sentirsi voci di contestazione. Una di esse è quella di che, con Design for the real world 5 , lancia un vero e proprio attacco al design come si era manifestato fino ad allora, accusandolo di essere una delle cause, non certo la soluzione, dei problemi del mondo. Papanek vede il problema annidato nelle origini della professione, dedita unicamente al bene dell’industria e all’obsolescenza programmata. Anche se il libro riguarda il design dei prodotti, vi si trova lo stesso invito al ripensamento delle priorità che compare in alcuni momenti significativi della storia del design della comunicazione. Il pretesto della pubblica utilità Il movimento della grafica di pubblica utilità ha avuto in Italia un ruolo fondamentale, che ha contribuito a rimettere a fuoco gli obiettivi della professione e ad ampliarne gli orizzonti. Ma sul lungo periodo, perso lo slancio iniziale, ha a mio parere lasciato spazio

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a un’ambiguità: il fatto che un progetto fosse al servizio del bene comune ha portato a trascurare che la forma che esso prendeva non fosse sempre quella adeguata, confondendo la finalità del progetto e la sua reale efficacia. La priorità delle grandi cause e degli obiettivi etici non può essere completa se l’etica non comprende anche un vero rispetto del fruitore in termini di accessibilità del messaggio: eppure anche i due celebri manifesti (1964 e 2000) non ne fanno cenno. Si deve dar merito invece alla di aver fatto dell’utente il protagonista di uno dei suoi punti chiave. D’altra parte, potrebbe essere utile provare a superare la divisione tra i campi: paradossalmente, tutta la grafica dovrebbe essere di pubblica utilità, anche quando è al servizio di obiettivi meno ‘nobili’, perché non dovrebbe mai dimenticare che a un estremo del processo di comunicazione c’è qualcuno – lo si voglia chiamare utente, fruitore, consumatore o altro – che deve essere messo in grado di recepire, capire, decidere. Nella pratica Ho sentito citare spesso una definizione che viene dalla Hochschule für Gestaltung di Ulm, e che vede nel designer il rappresentante dell’utente al tavolo delle trattative del design. Penso che abbia il merito di riportare l’utente all’interno di un dialogo che vede in genere come unica controparte il committente. Il metaforico tavolo delle trattative di Ulm potrebbe essere ulteriormente allargato, invitando tutti coloro che possiedono le competenze specialistiche necessarie, come suggerisce Papanek 6 :uno schema da lui pubblicato in Design for the real world [figura 1] mostra un tavolo molto affollato, in cui il committente non è citato, gli attori coinvolti sono molti ed eterogenei e gli utenti sono chiamati ‘il vero cliente’. Non per nulla era il periodo in cui, anche in Italia, si cercava in campo architettonico e urbanistico di praticare la progettazione partecipata (vedi in particolare l’opera di Giancarlo De Carlo).

→ figura 1 Victor Papanek, The minimal design team: schema che mostra la proposta dell’autore per un gruppo di lavoro multidisciplinare in cui il vero cliente sono le persone per cui viene realizzato il progetto (e non l’azienda che lo produce).

La situazione corrente fa però sembrare puramente utopici obiettivi come questi. In un processo lavorativo compresso nei tempi, nelle risorse e nei margini di azione, l’utente fatica a comparire. Difficile che ne parli il committente, che vede nel progetto uno specchio che deve rifletterlo nel modo più gratificante, e a questo obiettivo dedica gran parte delle energie. Difficile anche che se ne ricordi il progettista, che nelle estenuanti trattative per portare in fondo un progetto cerca almeno di non far naufragare del tutto la coerenza formale tanto faticosamente costruita. Molto spesso, se mai l’utente è nominato, lo è da uffici marketing che proclamano di sapere già ciò che vuole, risolvendo ogni negoziazione con una soluzione al ribasso, perché la ‘massa’ è sempre identificata con il minimo comune denominatore. Un atteggiamento che rivela sfiducia nei confronti

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← figura 2

del pubblico: l’utente è considerato per definizione una creatura grezza e ignorante, il cui comportamento va indirizzato e i cui desideri possono essere soddisfatti solo dalla ripetizione di quanto già esiste. Al massimo si può pensare di educarlo, attitudine che tende a sopravvivere nei designer.

Linea del desiderio in un giardino di Londra (foto di Scotticus, distribuita con una licenza Creative Commons).

A proposito di desideri In ogni parco o giardino urbano, accanto ai percorsi ‘ufficiali’, quelli pavimentati, si vedono dei sentieri in cui non cresce l’erba: sono le tracce del continuo passaggio delle persone, le linee più dirette da un punto all’altro, forse troppo scontate perché chi ha fatto il progetto le prendesse in considerazione [figura 2]. Nel linguaggio dei progettisti del paesaggio queste linee sono chiamate eloquentemente desire paths o desire lines, linee del desiderio: sono quelle che ci portano dove vogliamo andare. Si narra che alcuni progetti di parchi e campus siano stati realizzati inizialmente senza sentieri, lasciando che le persone si muovessero secondo le traiettorie preferite e pavimentando in seguito i percorsi emersi con l’erosione 7 . Comunque siano andate veramente le cose, erano altri tempi, forse gli stessi lontani tempi in cui si parlava di progettazione partecipata. Ora chi cerca di seguire il proprio autonomo percorso rischia di essere accusato di comportamento antisociale, e anziché accettare e accogliere le linee del desiderio si cerca in vari modi di bloccarne la percorrenza 8 .

← figura 3 A/B/C I nuovi percorsi di accesso alla Stazione Centrale di Milano dopo la ristrutturazione realizzata da Grandi Stazioni. Inaugurata alla fine del 2008, non è stata ancora completata. A. Nell’atrio principale, solo le ripide scale pedonali ai due lati conducono al piano dei binari. Le scale mobili al centro funzionano entrambe solo per chi scende verso l’uscita, mentre i due tunnel ai lati della scala mobile conducono alla biglietteria e solo indirettamente ai treni.

L’esempio più sfrontato di lotta contro l’utente che abbia visto di recente è la ristrutturazione della Stazione Centrale di Milano. Anche se è evidente che l’obiettivo primario (se non l’unico) di chi si reca in una stazione è quello di prendere un treno, l’intero nuovo progetto è stato realizzato con l’intento di convogliare i viaggiatori secondo flussi obbligati. I nuovi percorsi, anziché condurre direttamente al piano dei binari, costringono a lunghi e assurdi percorsi a zig zag tra tapis roulant e corridoi che attraversano quello che si vorrebbe diventasse un giorno un centro commerciale, ma che per ora (e da più di un anno) è solo una teoria di negozi vuoti [figura 3]. L’utente – a quanto pare il peggior nemico di committente e progettisti in questa situazione – è riuscito a trovare alcune scorciatoie, ma già sono scattate le contromosse: dall’inizio del 2010, una scala mobile che permetteva di scavalcare metà del tortuoso percorso sui tapis roulant è stata ‘neutralizzata’, invertendone il senso di marcia: ora funziona solo in discesa, verso l’uscita, togliendo l’ultima speranza di non perdere il treno ai viaggiatori dell’ultimo minuto. Si potrebbe continuare raccontando della scomparsa delle sale d’attesa ‘non vip’, della riduzione dei pannelli di arrivi e partenze, della latitanza di panchine e di orologi, dell’eccesso di spazi pubblicitari, ma preferisco fermarmi qui. La logica che sostiene questo progetto è chiara: la ristrutturazione della stazione costa, e deve essere

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B. I tapis roulant coprono il percorso tra il piano terra e il piano binari secondo una linea perpendicolare a quella più diretta utilizzabile prima della ristrutturazione. C. Il corridoio destinato ad accogliere in futuro i negozi, e che comporta l’allungamento di un terzo del percorso per i viaggiatori.

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ripagata dagli affitti commerciali. Senza voler discutere in questa sede la validità dell’idea di partenza (sono stazioni o centri commerciali?), il modo in cui è stata messa in atto a Milano spicca per arroganza e ottusità 9 . Vuoi giocare con me? Arrivata a questo punto, devo confessare: quello di cui ho parlato finora non è vero. L’utente non è affatto trascurato, né perseguitato, anzi, il mondo della comunicazione lo corteggia in tutti i modi. La pubblicità sta cercando nuovi canali per coinvolgerlo, il marketing on line lo scova ovunque, e le internet pr vogliono a ogni costo instaurare con lui una conversazione. L’utente è finalmente di moda. In rete circola un video, intitolato Bring the love back (Ridateci l’amore), in cui il dialogo tra il consumatore e l’azienda che pubblicizza come quello tra una moglie insoddisfatta e un marito troppo sicuro di sé per accorgersene. “Non parliamo più” dice lei. “Non abbiamo mai parlato” sarebbe forse più corretto. La metafora del matrimonio, per quanto divertente in prima battuta, non mi sembra molto veritiera: davvero è possibile – e soprattutto auspicabile – considerare il rapporto tra produzione e consumo come l’unione consenziente di due parti dettata dal sentimento, come ci propone l’ideologia dei love brands? In questo scenario, una miriade di progetti di comunicazione proclamano di voler dare spazio all’utente. Ci sono quelli che lo fanno effettivamente, quelli che danno un contentino consolatorio, e quelli in diversa misura invasivi e manipolatori. I primi vengono in genere inclusi nella categoria recentemente creata del design relazionale, cioè quello che permette all’utente di intervenire modificando gli esiti del progetto, all’interno di un sistema definito: una situazione anticipata da quando considerava l’osservatore come un collaboratore.

→ figura 4 Re-shuffle: notions for an itinerant museum è una mostrapubblicazione ideata dallo studio newyorchese Project Projects. I contenuti in mostra sono disponibili anche come schede, e il visitatore li può raccogliere nella scatola messa a disposizione, simile a quella di una pizza da asporto (2006).

→ figura 5 La copertina dell’album The Information di Beck. In seguito all’uscita dell’album, diversi blog hanno raccolto e pubblicato le copertine realizzate dai fan (2006).

Visitare una mostra e poter assemblare al momento un catalogo take-away, scegliendo dalla documentazione disponibile solo ciò che ci interessa veramente [figura 4]; comprare un cd con una copertina quasi nuda, e trovarvi una serie di adesivi che permettono anche al più impacciato fan di comporne una unica e personale [figura 5]; trovare nel proprio quartiere una staccionata di cantiere ricoperta di poesie con le parole degli abitanti, e poter staccare e portare con sé quelle che ci hanno toccato [figura 6]; poter ordinare un libro on line scegliendo i contenuti che preferisco da un ampio catalogo. Questi sono solo alcuni esempi delle esperienze proposte agli utenti negli ultimi anni. Sono tutte offerte che l’utente, se vuole, può rifiutare, decidendo di non stare al gioco.

→ figura 6 Voices of White City, un progetto di John Morgan per la BBC, destinato a migliorare i rapporti tra l’ente televisivo inglese e gli abitanti del quartiere londinese in cui si trova la sede principale (2005).

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Perché il gioco, a volte, ha qualche effetto collaterale, di cui dobbiamo cercare di essere consapevoli. Tutti i progetti di comunicazione cosiddetti virali cercano la

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→ figura 7

collaborazione dell’utente per trasformarlo nel veicolo consenziente di un messaggio altrui: si progetta un gioco o un gadget divertente e sarà facile trovare una quantità di persone che, grazie al meccanismo della condivisione online, lo trasmetteranno in modo quasi istantaneo a una rete di ‘amici’ che lo diffonderà ulteriormente, senza pensare di far parte di una catena di Sant’Antonio contemporanea. A volte si tratta di idee particolarmente riuscite, pur rimanendo sottilmente manipolatorie. L’esempio che preferisco è molto recente. One frame of fame 10 (un fotogramma di celebrità) è stato messo on line nei primi giorni del 2010: è un sito in cui la band olandese C-Mon & Kypski propone al pubblico di partecipare al completamento del video di More is less, il loro brano più recente [figura 7]. Se si possiede una webcam, ci si può fare un autoscatto cercando di imitare una delle pose proposte: in questo modo, gradualmente, le immagini degli spettatori vanno ad alternarsi e a sostituirsi a quelle dei musicisti, e ognuno dei partecipanti può condividere con gli amici la propria immagine da protagonista, contribuendo a spargere la voce. Il meccanismo messo in atto non sfugge agli autori del video, che infatti riportano nel sito una nota a proposito di Eco, la ninfa innamorata di Narciso ma condannata per gelosia da Era a ripetere in eterno le parole degli altri. Un ironico commento che getta una luce diversa sul ruolo che il pubblico svolge in questo tipo di operazioni: se è una storia d’amore, non è detto che sia delle più felici.

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Mi permetto di prendere a prestito per

il titolo l’affermazione di un noto parlamentare che si occupa alacremente di questioni di giustizia anche nelle vesti di avvocato, per proporre che nel campo del design nei confronti dell’utente sia applicata la presunzione di innocenza. 2

Sul punto di vista di Morison e sulla ti-

pografia trasparente in generale si rimanda a Progetto grafico 8 (2006), che nella sezione Il calice infranto ha trattato ampiamente il tema, con testi di Colizzi, Kinross, Lussu, Perri e Turchi. 3 Questo aspetto cruciale e spesso trascurato del sistema Isotype è finalmente argomento di un’ottima recente pubblicazione di Hyphen Press: Marie Neurath, Robin Kinross, The transformer: principles of making Isotype charts, 2009

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Vedi anche l’intervista a Michael Bie-

rut nel documentario Helvetica di Gary Hustwit.

Victor Papanek, Design for the real world. Human ecology and social change, 1972. 5

6 E anche Luciano Perondi altrove in questa sezione. 7

Cercando documentazione di progetti

di questo tipo, ho scoperto che nel campus dell’Università di Eindhoven si è deciso di pavimentare e segnalare il cosiddetto “Limbo Pad”, il sentiero creato dal passaggio continuo degli studenti pendolari provenienti dalla regione del Limburg, che prendono una scorciatoia attraverso il prato.

One frame of fame, video di Roel Wouters e Jonathan Puckey per C-Mon & Kypski. Oneframeoffame. com (2010).

Esemplare a questo proposito un esempio citato dall’esperto di usabilità Peter Merholz nel suo blog: Way more about paths at UC Berkeley than you’d ever want to read, 12 maggio 2003 (http://www. peterme.com/2003/05/12/way-moreabout-paths-at-uc-berkeley-than-youdever-want-to-read/). 8

Su questo tema si veda anche l’articolo di Stefano Boeri sul “Corriere della Sera” del 6 gennaio 2010 (http://archiviostorico.corriere.it/2010/gennaio/06/ Stazione_Centrale_Milano_dove_Perso_co_9_100106013.shtml). 9

10

www.oneframeoffame.com.

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Persone e cose.

Ipotesi per uno spazio neutro tra teoria, ricerca e pratica progettuale Luciano Perondi Il presente articolo è stato scritto a seguito di una serie di discussioni con Leonardo Romei, mio collega presso l’Isia di Urbino. Quindi alcune sue riflessioni e alcune sue obiezioni sono confluite nel testo, assieme alle mie. Questa riflessione nasce dall’incontro tra due problematiche di senso opposto: da un lato l’esigenza professionale di ampliare il proprio sistema di conoscenza per una maggiore consapevolezza in fase di progetto, dall’altro lato l’esigenza teorica di confrontarsi con un ambito applicativo non tanto per costruire una teoria generale della progettazione, quanto per mettere a punto e verificare nella pratica una serie di riflessioni e conoscenze. La mia intenzione non è quella di illustrare un approccio metodologico, ma di fare un resoconto sulle di difficoltà e i problemi incontrati nella pratica professionale e nel confronto con specialisti di varie discipline, e su una serie di tentativi per trovare delle risposte operative e trarre delle considerazioni teoriche. In particolar modo farò riferimento nello specifico alle esperienze maturate in EXP e presso l’Isia di Urbino (soprattutto nelle attività del laboratorio “Officina Santa Chiara” istituito da Roberto Pieracini), semplicemente perché ho potuto operare direttamente in queste realtà, ma non posso in alcun modo sostenere che questi siano casi più significativi di altri. Nella pratica professionale mi sono trovato più volte ad affrontare diversi problemi progettuali e a dover proporre soluzioni ottimizzate, ma la fretta, le condizioni economiche o la mancanza di conoscenze generali o sufficiente approfondimento sul problema, spesso mi ha portato a farlo senza rigore, improvvisando, senza conoscere le ragioni delle soluzioni che stavo applicando in base alla tradizione. Alcuni dei problemi che deve affrontare un progettista contemporaneo richiedono un insieme di conoscenze che va al di là della portata della tradizionale formazione di un designer della comunicazione e anche delle competenze acquisibili da una sola persona, per via della quantità e della velocità di cambiamento, soprattutto per quello che riguarda le competenze specifiche e specialistiche. Al contrario, le cognizioni di natura più generale cambiano più lentamente e costituiscono una sorta di substrato

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Spesso in fase di progettazione non manca solo l’attenzione al fruitore, ma anche l’attenzione a un sistema molto più grande. attraverso cui si comunica con specialisti di ambiti completamente diversi dal proprio. Questo avviene in particolar modo quando si ha a che fare con la progettazione di artefatti volti a migliorare le condizioni di fruizione, e di solito volti a generare un beneficio reale in chi ne fruisce, cosa che costituisce la parte più consistente del nostro lavoro. Il fulcro di questi problemi è legato proprio al fatto che i progetti entrano in relazione con persone in varie fasi del loro ciclo di vita, e non tutte queste persone sono necessariamente i destinatari d’uso del progetto. Per questo il termine “utente” a mio parere non riesce a rendere l’idea della dimensione del problema. Riprendendo una affermazione di Luigi Bandini Buti alla conferenza “Imagine It Design for All”, tenutasi nel novembre del 2008 a Bologna, e portando alle estreme conseguenze il pensiero da lui espresso, affermo che ormai siamo coscienti del fatto che non si può più parlare di ‘design sostenibile’, di ‘design for all’ (e quindi attenzione al fruitore e suo coinvolgimento nel processo progettuale), di ‘produzione e commercializzazione eque’: la progettazione in quanto tale deve mirare a essere in ogni caso ‘for all’, ‘sostenibile’ e fare riferimento a un sistema economico equo. Quindi, spesso in fase di progettazione non manca solo l’attenzione al fruitore, ma anche l’attenzione a un sistema molto più grande. Un designer da solo non ha le competenze per affrontare problemi simili e probabilmente non è neanche la figura che possa mettere in connessione le discipline, ma rimane il fatto che è coinvolto attivamente e ha un forte potere decisionale su una serie di questioni di notevole complessità e importanza, per cui la formazione specifica o il semplice buon senso, ammesso di esserne dotati, non sono sufficienti.

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Da un altro lato c’è la presa di coscienza che alcune discipline teoriche hanno un bisogno costante di confrontarsi con problemi concreti per trarre temi di studio e mettere alla prova il proprio arsenale di conoscenze. Constatata questa situazione la risposta più efficace è quella di cercare di creare le condizioni per uno scambio costante di informazioni. Se la memoria è la capacità di accedere alle informazioni per usarle quando servono, e se la memoria di un singolo individuo non è più sufficiente per trattare i problemi e il suo punto di vista è troppo limitato, occorre creare un sistema che, sulla base di un linguaggio e delle modalità condivise, permetta di accedere, quando serve, alle informazioni più specialistiche, sia che lo si faccia attraverso documenti archiviati, sia che lo si faccia attraverso le persone stesse che detengono le conoscenze e l’esperienza. Di seguito ho provato ad analizzare un progetto in corso sulla cartografia di Urbino 1 per capire in che modo, e a che livello emergano alcuni aspetti problematici relativi al rapporto tra fruitore finale e progettazione, e alla relazione tra discipline teoriche e progettazione. L’esempio in questione è una fase di un percorso iniziato da un lungo confronto sul tema della rappresentazione cartografica, il quale ha avuto anche dei riscontri sulle pagine di questa stessa rivista (numero 12|13) e di cui Daniele Turchi è stato il principale ispiratore. In questo percorso teoria, ricerca e pratica progettuale si sono intrecciate più volte e l’utente finale e altre figure intermedie sono state a vario titolo coinvolte in differenti fasi del lavoro. Solitamente si usa separare il lavoro progettuale in attività specificamente correlate a un progetto particolare da un lato e documentazione, riflessione teorica e aggiornamento specialistico continuo dall’altro. L’attività di documentazione e riflessione non è quasi mai inclusa in quello che viene definito “progetto”, però ne è il principale alimento e il naturale punto di sintesi. È evidente che discipline come la semiotica, la psicologia cognitiva, le neuroscienze, ma anche l’antropologia e l’archeologia (facendo solo un elenco sommario) hanno fornito spunto e contemporaneamente hanno tra i principali soggetti di studio proprio la comunicazione visiva, la produzione di artefatti comunicativi e la loro fruizione. È chiaro come questa attività richieda il supporto di un gruppo multidisciplinare (metadisciplinare? interdisciplinare?) numeroso che condivida 2 le proprie conoscenze e che si occupi di trasformare i risultati di un progetto specifico in qualcosa di riutilizzabile. Quello che si accumula attraverso questo processo può non essere apparentemente utile a risolvere problemi immediati, ma a lungo termine costituisce il fondamento di ogni azione progettuale. Anche se l’azione di progettare si risolvesse in un riciclo di modelli esistenti e trascurasse

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deliberatamente gli aspetti appena descritti, il fatto stesso che questi ‘modelli’ esistano (e il più delle volte funzionino) sarebbe di per sé materia di studio e riflessione. Da un lato si può attingere dalle conoscenze accumulate e condivise, e questa è una operazione estremamente complessa, dato che l’accesso alla conoscenza e la capacità di usarla costituiscono il nostro problema fondamentale. Fino a che punto conoscenze predigerite nell’ambito, ad esempio, delle neuroscienze possono contribuire a progettare una carta o un carattere? Occorre un lungo processo che porti a una sintesi che renda questo tipo di conoscenze parte della pratica progettuale. Dall’altro lato esistono strumenti di analisi che prevedono una interazione diretta con le persone e che non richiedono una strumentazione inaccessibile. Gli strumenti sono analoghi a quelli usati nelle ricerche di mercato e possono includere analisi esplorative, indagini etnografiche e ricerche descrittive in grado di produrre dati rilevanti in termini statistici. Questa documentazione è estremamente rilevante per la progettazione: studiare per chi si sta progettando attraverso sistemi collaudati rende in qualche modo il fruitore partecipe nella fase preliminare della progettazione. Se l’obiettivo di fondo in ogni progetto è quello di generare ‘benessere’, uno dei punti di partenza è cercare di conoscere chi si deve ‘beneficiare’. D’altro canto tutti questi sistemi di analisi non forniscono soluzioni ai problemi: permettono di creare il terreno su cui lavorare, ma non forniscono risposte definitive. Può sembrare una affermazione banale, ma è facile che le persone

Se l’obiettivo di fondo in ogni progetto è quello di generare ‘benessere’, uno dei punti di partenza è cercare di conoscere chi si deve ‘beneficiare’. 2573

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percepiscano, anche con precisione, i problemi, difficile è che anticipino soluzioni, se non viene loro fornita una visione di insieme. I problemi sollevati in questa prima fase (condivisione delle conoscenze e definizione degli strumenti di indagine) sono risolvibili con adeguate risorse e sono costosi, ma attuabili secondo modalità relativamente collaudate. La difficoltà per quello che riguarda il design della comunicazione è che, nella maggior parte dei casi, i progetti sfuggono al controllo e alla verifica di chi progetta nel momento stesso in cui vengono consegnati al committente. Questo è un limite che non consente di adattare il progetto nel tempo e di conoscerne con accuratezza gli effetti. Una risposta possibile è che la progettazione, in alcuni casi, possa diventare una sorta di esperimento continuo in cui si studino le connessioni causa-effetto tra determinate variabili progettuali e gli effetti sui fruitori. In questo caso la progettazione diventa costruzione di esperimenti (con relativa realizzazione di prototipi sempre più accurati) e ogni rilievo quantitativo contribuisce ad accrescere il sistema di conoscenze di riferimento. Questo è stato, in estrema sintesi, l’approccio adottato nel progetto in questione: oltre alla documentazione e alle interviste preliminari, tutto il progetto è basato sulla realizzazione di una serie di prototipi costruiti allo scopo di verificare la variazione di effetti in relazione al cambiamento di una variabile (visiva o strutturale) isolata. In ogni gruppo di prototipi si opera il cambiamento di una sola variabile (ad esempio il contrasto di colore, la presenza di elementi tridimensionali, il rapporto di contrasti tra le strade e lo sfondo, la presenza di curve di livello in maggiore o minore evidenza, in base all’ipotesi che si vuole studiare) e si sottopone l’oggetto a una sperimentazione, che può consistere – a seconda

1 progetto dell’Isia di Urbino, “Officina Santa Chiara”, coordinato da Luciano Perondi, tutor Alice Polenghi, collaboratori Massimo Cardinali e Davide Belotti.

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del problema e della possibilità di reperire un campione significativo – in test di efficacia assegnando dei compiti ai soggetti, interviste quantitative, sopralluoghi e osservazioni partecipanti. In questo modo si ottiene spesso lo spunto per nuove ipotesi su cui realizzare altri propotipi. Questo confronto continuo sul progetto può anche essere indirizzato, come avviene per alcuni progetti di urbanistica partecipata, verso un progressivo coinvolgimento dei fruitori in forma più qualitativa, fornendo loro un quadro via via più accurato e ampio delle scelte progettuali, in modo che possano intervenire attivamente nella progettazione. I canali a disposizione per questo processo possono essere più o meno diretti (ad esempio mettere a disposizione strumenti OpenSource può favorire interventi di adattamento dei vari progetti, i quali possono essere a loro volta oggetto di analisi a posteriori). La difficoltà progettuale più grossa di questa modalità di lavoro consiste proprio nel creare le condizioni (economiche, organizzative) perché questo approccio si possa mettere in atto. Non posso affermare con certezza che in questo modo si possono generare dei vantaggi competitivi netti rispetto a un normale iter di progettazione. È però un’occasione per coinvolgere i fruitori nel progetto: la sperimentazione di un artefatto richiede tempo, perché gli stessi utenti hanno bisogno di tempo per capire cosa cercano davvero in un certo artefatto e questo a volte può essere in contraddizione con quello che immagina un progettista. Si pensi al videotelefono che, seppure esista la possibilità di realizzarlo da più di quarant’anni, non ha attecchito fino all’avvento di Skype, e una cosa faticosa come scrivere dei messaggi premendo su dei tasti minuscoli è diventata immediatamente e inaspettatamente parte della vita quotidiana di molti. Questo avviene perché un artefatto si pone in una rete fatta di uomini, oggetti e situazioni sociali che mutano e si adattano reciprocamente.

2 quello della condivisione è un altro tema aperto: come produrre una conoscenza che sia a disposizione di altri? È veramente possibile porre le discipline su un terreno comune per farle interagire (come presupporrebbe il termine interdisciplinare), metterle in comunicazione a uno stesso livello? Oppure occorre lavorare in una sorta di spazio neutro, dove le discipline non devono negoziare definizioni e confini, ma entro cui possono collaborare, pur mantenendo le proprie specificità, per realizzare in un tempo e con dei mezzi limitati qualcosa che possa essere fruito realmente?

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Tutte le immagini si riferiscono al progetto dell’Isia di Urbino sulla cartografia turistica di Urbino, “Officina Santa Chiara”, coordinato da Luciano Perondi, tutor Alice Polenghi, collaboratori Massimo Cardinali e Davide Belotti.

Il progetto, di natura sperimentale, era teso a confrontare l’efficacia e la funzionalità di alcune variabili visive in relazione alla fruizione del solo centro storico.

← Per via dell’ampiezza del territorio extraurbano rispetto al centro storico e per la necessità di dare punti di riferimento esterni senza penalizzare la visibilità degli elementi del centro (le dimensioni di riferimento erano A3 e A4), è stato indispensabile schematizzare la porzione di strade esterna alle mura (in alternativa all’ipotesi di usare una distorsione anamorfica). Si sono individuati tre livelli:

direzioni fondamentali (il territorio di Urbino è molto vasto in relazione alla densità), indicate in elenco con relativa distanza; in questo caso si voluto sottolineare l’importanza di dare un’indicazione su quello che si trova all’esterno di una carta.

centro storico, rappresentato con una proiezione; •

rete di strade nelle immediate vicinanze (data la conformazione del territorio, le strade hanno pochi punti di riferimento in relazione alla lunghezza e sono percorribili prevalentemente in automobile), rappresentata con una schematizzazione;

← Si è ritenuto importante, data la morfologia del territorio di Urbino, prendere in considerazione le curve di livello nella rappresentazione. Nei vari test sono state poste in maggiore o minore evidenza per valutarne (qualitativamente) l’importanza.

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SCHEMA POSSIBILITà CONTRASTO SCRITTE/STRADE → Si sono individuati alcuni gruppi di variabili attorno a cui organizzare il lavoro. Non tutte sono state prese in considerazione per gli esperimenti (che sono ancora in corso). I problemi esaminati riguardano prevalentemente il rapporto di contrasto tra gli elementi. Ad esempio, accentuando il contrasto tra strade e sfondo e quello tra strade principali e strade secondarie si può dare maggiore importanza alle quattro vie principali della città rispetto al resto (assecondando la percezione della città evidenziata nelle interviste).

nero/bianco

nero/grigio

bianco/grigio

grigio/colore

nero/colore

altezza icone

contrasto icone

contrasto strade/fondo (alto/basso contrasto)

bianco/colore

DOMINANTI COLORE

monumenti “in pianta”/2D/3D (alto/basso contrasto) → Si sono individuate diverse modalità di rappresentazione di landmark e edifici storici. Il fine era quello di verificare l’influenza della maggiore o minore evidenza di un landmark sulla scelta di un percorso. Gli edifici rappresentati in assonometria si sono rivelati efficaci a dimensioni più grandi (A3). Le altre due soluzioni sono invece usate per test in dimensioni più ridotte.

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Progetto grafico 17, aprile 2010


↑↓

Alcuni esempi delle carte sottoposte ai fruitori.

Progetto grafico 17, aprile 2010

questa carta si dimostra efficace nella maggior parte dei casi,

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ma si sono rivelati in varia misura punti critici con soggetti dicromatici.

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La rivincita dei Fantasmi, la New Age dell’information design

Luigi Farrauto

La grafica è comunicazione, e in quanto tale implica un confronto tra chi la produce e chi ne usufruisce. Ogni artefatto visivo è imprescindibile dal suo scopo, dalla sua funzione: nella progettazione di mappe, segnali, di artefatti che dovrebbero guidare l’utente nel prendere una decisione o nel comprendere un’idea, questo rapporto tra comunicazione e utente diventa quanto mai fondamentale. Ignorare questa funzione può portare il fruitore di ogni progetto di comunicazione a elevati livelli di stress, crisi di autostima e nervosismo… e non sempre la colpa è di chi ‘non capisce’. Alla base c’è talvolta un nonprogetto, l’abitudine a realizzare artefatti che non hanno un vero percorso consapevole alle spalle. Siamo circondati da progetti grafici che utilizzano determinati linguaggi dando per scontato che la vera comprensione del messaggio avvenga in maniera facile e immediata. Quante volte ci siamo sentiti stupidi cercando una strada, o di far funzionare un elettrodomestico? Nel mio caso succede giornalmente, ma ho imparato che non sempre è una mia mancanza. Ora l’utente fantasma torna a rendere insonni le nostre notti magiche. Ora il progetto grida vendetta. E io con lui. Laggiù, però, qualcosa si muove. Dalla giungla cieca del disorientamento e dell’incomprensione, fitte si fanno le voci di dissenso, numerose le richieste d’aiuto: Oddio mi sono perso! Dannazione, non ci capisco niente! Un esercito di pendolari e funzionari in cerca di un filo d’Arianna a cui appendersi per trovare o comprendere la retta via, anche a costo di sbucciarsi le ginocchia, per scappare dalle fauci di un Minotauro mezzo ritardo e mezzo smarrimento. È un buon momento per l’information design; un buon segnale per tutti. Perché ultimamente l’utente è più consapevole, forse il ruolo del graphic design sta iniziando a essere riconosciuto, quantomeno nel momento in cui fallisce… Sarà che il mondo che abbiamo ereditato dai giganti gira troppo velocemente sotto i nostri piedi da nano. Laddove si tende ad addensare gli spazi, arricchendoli di nuove funzioni, vie e percorsi possibili, è la complessità a dominare, e occorre il fascino di Teseo per conquistare Arianna. Altrimenti, è lo smarrimento che fa da sottofondo alla navigazione di ogni labirinto fatto città, centro commerciale, ufficio pubblico. Il Minotauro

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incombe, occorrono degli aiutini ai navigatori, dei suggerimenti, una cintura di Orione a cui aggrapparsi durante le notti senza bussola. Dopotutto non se ne potrebbe fare a meno. In questi ultimi anni la visibilità e la fruibilità degli spazi stanno ricevendo sempre più attenzioni da parte di schiere di utenti e progettisti, impegnati in una crociata per recuperare il perduto senso dell’orientamento dell’umanità, battezzandola al mondo della libera circolazione all’interno dei sistemi complessi. Anche la letteratura di settore si è moltiplicata. Se qualche anno fa era difficile reperire testi riguardanti i sistemi di orientamento, ad esempio, oggigiorno le pubblicazioni sono varie e tutte di buon livello. A partire da Wayshowing, di Per Mollerup, in cui vengono analizzati i sistemi di orientamento dei posti più disparati, fino al recente The Wayfinding Handbook, di David Gibson, che si pone come guida pratica per studenti, progettisti e cultori, illustrando l’evoluzione della disciplina negli anni. Da segnalare anche un testo destinato a diventare un classico, per il carattere olistico dei suoi contenuti: Signage Design Manual, di Edo Smitshuijzen, che affronta e descrive ogni aspetto della disciplina, dalla tipografia ai pittogrammi, dalla forma alla struttura dei segnali. Insomma l’orientamento si fa notare. Dopotutto ogni giorno ci confrontiamo con centinaia di informazioni da decifrare. Gentili decorazioni della città o enigmatiche insegne all’insegna dell’incomprensione. Dipende dai casi. Ne è una prova il fatto che stiano comparendo ovunque svariati siti e libricini che collezionano immagini di segnali e mappe ‘strani’: primo tra tutti, a mio avviso, il blog strangemaps. com, del quale è appena uscita una pubblicazione molto interessante edita da Paperback, Strange maps: An Atlas of Cartographic Curiosities, in cui mappe di ogni tipologia vengono periodicamente analizzate e discusse, con una focalizzazione sulla territorializzazione simbolica e non delle informazioni. Sul blog – come nel libro – si scovano dunque mappe di paesi senza nome, cartogrammi e iconografie fantasiose, svariate variazioni sul tema ‘mappa della metropolitana’, fino alle ‘artografie’, giochi graficocartografici il cui obiettivo è produrre arte con le tecniche dell’information design. Si tratta di un blog molto seguito e conosciuto – a tal punto da produrre

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← una mappa in laos.

una pubblicazione – a dimostrare che il mondo delle mappe incuriosisce anche i non addetti ai lavori. Come afferma Paul Mijksenaar, “Wayfinding is sexy”: niente di più vero. Se ne volete una prova, digitate “strange signs” su Flickr, compariranno migliaia di immagini, gruppi e collezioni da tutto il mondo. Il più delle volte perché l’autore delle foto si rivela incuriosito o sbigottito dinanzi a particolari tipologie di informazioni che le città regalano ai visitatori, altre volte proprio perché attratti dalla bellezza del linguaggio grafico. In giro per il globo a ognuno di noi è capitato di fotografare una mappa, o un’indicazione bizzarra, o un pittogramma divertente. Wayfinding is sexy. Ma anche una necessità pratica. Sempre in giro per il mondo, chi lo percorre è continuamente alla ricerca dei segnali più chiari e comprensibili. Dei diagrammi più intuitivi o delle istruzioni più semplici. Chi più ne interpreta, meglio sta. Io personalmente credo che i segnali siano una dichiarazione di affetto nei confronti della città stessa, a cui rifanno letteralmente il trucco: una città che grazie ai segnali può nascondere ai passanti quegli insopportabili cul de sac e mostrare i suoi tesori ai viaggiatori. Senza che ci si perdano dentro. Perché a volte le segnaletiche hanno l’aspetto di segreti alchemici da interpretare con la fantasia di un cantastorie; le mappe sono la controparte grafica di un garbuglio; i diagrammi dei veri attentati alla calma dell’utente. E il ruolo del progettista moderno diventa quello del tappabuchi, ma ben venga. Il più delle volte lavorare in ambito di orientamento consiste nel

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credo che i segnali siano una dichiarazione di affetto nei confronti della città stessa, a cui rifanno letteralmente il trucco: una città che grazie ai segnali può nascondere ai passanti quegli insopportabili cul de sac e mostrare i suoi tesori ai viaggiatori. 2579

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rimediare a errori del passato, retaggi dell’età buia dell’information design, quando era una competenza nomade, in cerca di una bottega per diventare parte di una disciplina: nel circo del progetto, le informazioni sono sempre state visualizzate da architetti o ingegneri, persino dalle aziende produttrici dei supporti… Per questo oggigiorno ci ritroviamo con sporadiche segnalazioni stradali discordanti, mappe la cui comprensione è misteriosa ai più, indicazioni dal significato ambiguo, sciarade grafiche…

segnale in un monastero tibetano.

Ma qualcosa si muove. I segnali perdono la loro invisibilità: messi a nudo, rivelano i loro limiti e le mancanze quando non funzionano bene, ma regalano momenti di sano piacere quando colgono nel segno, dirigendoci verso la nostra meta mano nella mano. Qualcosa si muove, e giunge in Italia dopo aver già conquistato America e Inghilterra, come il Rock and Roll. E Londra è la città dove meglio ballare un boogie-woogie con le strade senza mai perdersi, nemmeno di notte. Il sistema di orientamento della capitale britannica è la prova che talvolta gli investimenti in materia di ‘grafica per la città’ ottengono risultati gratificanti. Oltre ad aver segnato la storia dell’information design grazie alla mappa della metropolitana di Harry Beck, divenuta paradigma compositivo in tutto il mondo, Londra prosegue nel suo ruolo di ‘prima della classe’: è dotata di un sistema di wayfinding eccellente, come già in molte altre città inglesi. Il progetto avviato anni or sono da Mike Rawlinson e Meta Design per Bristol Legible City ha fatto da spin-off per varie esperienze simili in tutta la Gran Bretagna, ultima delle quali Legible London. Si tratta di un nuovo sistema di orientamento per pedoni che è stato progettato dopo una lunga serie di ricerche effettuate da un team di urbanisti, designer, architetti e amministratori: ora è in fase di sperimentazione in alcune zone di Londra, per verificarne la funzionalità, e presto dovrebbe essere applicato in tutta la città. Ma al di là di questo nuovo progetto, la rete dei trasporti londinesi è rappresentata e comunicata in maniera impeccabile da sempre. Credo sia praticamente impossibile perdersi a Londra. Ce la potrei fare anch’io, che mi perdo persino nei supermercati. Certo che da una città che ospita il Transport Museum non ci si poteva aspettare meno. Ora dall’Inghilterra fino in Germania, dall’Olanda fino in Francia, sempre più musei, aeroporti, parchi, ospedali hanno affidato a dei progettisti la ‘ristrutturazione’ dei segnali, o la loro sostituzione. E lentamente anche da noi. In tutto il mondo, e anche in Italia, le testate giornalistiche chiedono aiuto ai designer per le info-grafiche, e in maniera sempre più preponderante. L’Italia non è l’Inghilterra né l’Olanda, ma ho imparato a non guardare troppo altrove e a godere dell’attesa. Chissà non lo diventeremo: l’importante è iniziare bene. L’onda è forse in arrivo. Già per quanto riguarda l’information design il Belpaese ha sfornato una delle migliori riviste europee degli ultimi anni, grazie all’eccellente

→ segnale ad Akko, israele.

→ amore per le mappe: un tatuaggiomappa, tratto da strangemaps. wordpress.com.

→ Democratic Health Plan, la mappa della riforma della sanità di Obama, prima versione rilasciata da GOP, Joint Economic Committee.

→ i trasporti milanesi.

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← mappa dei trasporti notturni di un quartiere di londra.

e pluripremiato lavoro di Franchi e Pitoni per “IL”. In Italia non stiamo a guardare. La gente, anche da noi, comincia ad apprezzarle, queste dolci armonie di immagini schemi frecce parole e colori. Forse per il loro sapore delicato e sussurrato, forse perché vede in loro una vera e propria guida fisica e tangibile, un dio minore a cui affezionarsi. Qualcosa si muove: le forme cambiano funzione, le sperimentazioni aumentano, i libri si moltiplicano, dei casi studio si perde il conto. Qualcosa si muove, ripeto, ma cosa? Pare proprio che sempre più utenti si stiano rendendo conto di quanto dipendiamo dalle funzioni visive. Gli utenti fantasma gridano vendetta in un anelito di comprensione: a partire dalle istruzioni sul funzionamento degli oggetti fino appunto ai segnali, che altro non sono che istruzioni sul funzionamento degli spazi: dettano un comportamento, rivelano misteri, applaudono le tue scoperte e portano alle spalle tutta una nuova era, un’era di risveglio. La new age dell’information design.

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Bibliografia: → Wayshowing: A Guide to Environmental Signage Principles and Practices, Per Mollerup, Lars Müller Publishers → The Wayfinding Handbook: Information Design for Public Places, David Gibson, Princetown Architectural Press → Signage Design Manual, Edo Smitshuijzen, Lars Müller Publishers → Strange Maps: An Atlas of Cartographic Curiosities, Frank Jacobs, Paperback → Transit Maps of the World, Mark Ovenden, Mike Ashworth Legible London: http://www.tfl.gov.uk/microsites/legible-london/ → http://www.bristollegiblecity.info/ → www.strangemaps.wordpress.com

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l’utente fantasma è sempre in buona compagnia

Carlotta Latessa

Raccontare esclusivamente di un utente relegato al ruolo di fantasma implica l’esclusione di altre possibili, e quanto mai effettive, categorizzazioni di fruitori, che diventano interessanti non tanto quando a determinarne la condizione è una scarsa attitudine al progetto, ma quando piuttosto è il ruolo a essere plasmato attraverso un brief, un contesto di riferimento, o un modello societario di destinazione ben preciso. Per fare un’analisi del ruolo dell’utente sono stati presi a campione progetti recenti di pubblica utilità, ambito nel quale l’utente meno che mai può essere considerato fantasma. Per comodità di documentazione, abitando nella stessa regione, l’indagine è stata canalizzata a progetti di comunicazione commissionati dalla Regione Puglia *. Questa condizione ha reso interessante il confronto fra le connessioni che danno origine al ruolo dell’utente, dato che molto spesso le tematiche che accomunano i progetti commissionati da una regione sono le solite: può essere il caso del problema dei rifiuti collegato alla sensibilizzazione verso la raccolta differenziata, piuttosto del risparmio idrico poiché la Puglia ha un acquedotto obsoleto che non riesce a soddisfare il fabbisogno regionale, condizione aggravata dal problema della desertificazione del territorio. A volte, invece, questi progetti hanno in comune un piano mezzi ben mirato che riguarda, spesso, le campagne lanciate durante il periodo estivo. Capita ad alcuni progetti di comunicazione, con un discreto concept alla base, di non mantenere durante l’avanzare del processo creativo uno sguardo d’insieme a quelle che sono le linee guida stabilite in partenza. È il caso della campagna per la sensibilizzazione al risparmio idrico del 2008. Questa nasce con l’evidente obiettivo di rispettare le esigenze elencate dal brief, cosa che però è venuta a mancare durante la declinazione di tutti gli applicativi. Dai due visual utilizzati per la cartellonistica, una donna che fa il bagno [FIGURa 1] e un uomo che annaffia il giardino [FIGURa 2], non arriva all’utente il messaggio prestabilito dal concept: “farsi il bagno invece della doccia o innaffiare le piante nelle ore più calde, sono due tipici esempi di spreco idrico”. È assente il termine di paragone che non viene reso dall’immagine, ma solo in minima parte dallo slogan (“L’acqua è un diritto. Sprecarla è un delitto”).

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Il concept della campagna si comprende pienamente solo nello spot televisivo: “l’accostamento tra spreco idrico e delitto viene ripreso in chiave grottesca [...] Le scenette, in puro FBI style, vedono nel ruolo dei cattivi un papà e una mamma colti in flagranza di sperpero idrico”. Ma il concept di una campagna non può essere inteso come un film a puntate, l’utente dovrebbe essere in grado di capire il messaggio solo, e soprattutto attraverso l’affissione, poiché in questo caso è uno dei mezzi più diffusi e più visibili, rispetto a uno spot video che va in onda su emittenti locali. Stesso discorso vale per l’obiettivo della campagna, che è di “far riflettere i cittadini sulla gravità di certi comportamenti quotidiani [...]”, concetto che si manifesta a pieno solo nell’opuscolo illustrativo, che non ha avuto una distribuzione tale da pareggiare la visibilità di un 6x3. Un aspetto totalmente assente è descritto nell’affermazione “uno stile di vita sociale che favorisca l’uso corretto, e mai l’abuso, del territorio e delle sue risorse”. Questa campagna potrebbe avere come soggetto qualsiasi città italiana, non fa mai riferimento al territorio pugliese e ai suoi specifici problemi nel settore idrico. È evidente che ci sia stata la volontà di considerare il fruitore, ma purtroppo in questa campagna è mancata una regia vigile che riuscisse a coordinare al meglio tutti gli aspetti, e ciò che ne deriva come conseguenza è la precarietà del ruolo dell’utente. Un altro progetto, che ha in comune con la precedente campagna il tema del risparmio idrico, è la pubblicazione Rewater: 5th World Water Forum, catalogo che è stato presentato al quinto Forum Internazionale dell’Acqua tenuto a Istanbul in Turchia [FIGURA 3]. Più del 60% di questa pubblicazione è composta da fotografie che mostrano nella maggior parte dei casi dettagli, scene che non vanno a informare, denunciare o sensibilizzare l’utente al problema. L’informazione testuale è quasi assente, se non per brevi stralci, che spesso vanno a fare da cornice a un’ammiccante fotografia, e del resto nessuna sezione spiega in maniera esaustiva il tema che introduce [FIGURa 4]. L’infografica è usata più come mezzo alternativo di comunicazione, dato che non ci sono nozioni complesse da spiegare, sembra essere quasi un espediente utile a spezzare un ritmo che potrebbe diventare monotono [FIGURA 5]. In questo caso siamo di fronte a una pubblicazione sicuramente ben fatta, che ha come suo primo scopo quello

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→ figure 1 e 2

→ figure 3, 4 e 5

di ammaliare, affascinare l’utente nel più breve tempo possibile, dando solo un inquadramento generale del problema, senza scendere troppo nel dettaglio. Questo aspetto non è da considerarsi come una mancanza in termine di progettazione, ma una scelta ponderata al contesto per il quale nasce il catalogo, ossia un Forum Internazionale nel quale è più utile dare un’informazione generale, ma di impatto. Al contrario il libro Vivere con la fabbrica entra nel dettaglio del tema in maniera quasi capillare. Lo scopo è divulgare la legge anti-diossina della Regione Puglia, creata quasi appositamente per il caso Ilva, acciaieria di Taranto che contribuisce in maniera significativa alle emissioni nazionali di furani, diossina e altre sostanze inquinanti. La pubblicazione non perde mai di vista gli intenti e li analizza in ogni singolo aspetto, il testo e l’information design si alternano supportandosi

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in un unico discorso, tutto è trattato in modo tale da non risultare monotono. In questo caso l’infografica è uno dei migliori strumenti per spiegare fenomeni complessi: sono stati resi evidenti concetti deducibili [figure 6 e 7]. Non manca l’utilizzo della fotografia, capace di dare una testimonianza concreta del tema trattato. Il cerchio si chiude mostrando all’utente casi affini che confermano nei fatti gli intenti della pubblicazione, ossia come altre acciaierie presenti in Europa siano riuscite a diminuire le emissioni inquinanti. Con questo progetto il fruitore è stato messo nella condizione di imparare quali siano le problematiche che l’Ilva determina sulla città di Taranto. Il progettista ha assunto il ruolo ideale e indiretto di insegnante nei confronti dell’utente. Il progetto di comunicazione sulla raccolta differenziata del 2008 aveva come messaggio quello

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↑ figura 6

di far capire al cittadino come differenziare i rifiuti. La campagna era una multisoggetto che spiegava esaustivamente ogni aspetto del tema, prendendo ad esempio vari oggetti di uso quotidiano e riposizionandoli nell’immaginario del processo di riciclo [figura 8]. Lo slogan e le immagini funzionano in sincrono, attraverso un linguaggio quasi fiabesco, infantile per la sua semplicità: “da grande vorrei essere…” il messaggio è arrivato ai bambini, ma l’espediente ha funzionato anche per gli adulti. Come nella precedente campagna, l’utente è stato messo nella condizione di poter apprendere, in questo caso un metodo.

→ figura 7

→ figura 8

Progetto simile nel tema è stata la campagna di comunicazione per favorire la raccolta differenziata del 2009, dove non c’è stata l’esigenza di far capire come questa debba essere praticata [figura 9]. La campagna si avvaleva esclusivamente della presenza di un personaggio pugliese famoso e amato dai più, facendo leva su concetti quali l’appartenenza al territorio e la notorietà. Quest’operazione è stata di respiro più leggero rispetto al progetto precedente, necessità data da un posizionamento diverso del target di riferimento. Il fruitore non deve imparare, ma deve essere spronato a un comportamento nella maniera più semplice e immediata che gli si addice; si ha a che fare con una fetta di società dove fa capolino un utente che ben si rispecchia nell’italiano medio, che non disdegna di trascorre parte del suo tempo anche davanti al televisore. Ci sono state due campagne lanciate durante il periodo estivo che hanno avuto lo stesso piano mezzi, con tanto di camper che trasportava una mostra itinerante per le principali città costiere della Puglia. Nel 2008 la campagna ha avuto come tema la sensibilizzazione alla donazione del sangue

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← figura 9

→ figure 10 e 11

[figura 10]. In modo chiaro e diretto – attraverso sia

lo slogan: “C’è bisogno di sangue. Anche d’estate”, che il visual: una fetta d’anguria, icona estiva per antonomasia – è stata fatta una metafora. Questa ha evidenziato il concetto di uno e molteplice, attraverso l’immagine della goccia di sangue e dei semi dell’anguria che insieme determinano la forma del frutto. Il messaggio è arrivato all’utente rendendolo attivo nei confronti della questione, tant’è vero che al termine della campagna è stato registrato l’aumento del 30% delle donazioni di sangue e quindi il rientro dell’emergenza. Lo stesso sistema di diffusione è stato adottato anche per la campagna di comunicazione per la tutela delle coste del 2009 [figura 11]. Lo scopo era far conoscere ai cittadini il nuovo piano regionale sulle coste, sensibilizzandoli al contempo al rispetto e alla tutela, informandoli degli obblighi e delle regole, e garantendo la fruibilità e l’accessibilità delle spiagge. Pur avendo in comune con la precedente campagna lo stesso piano mezzi, e il medesimo trattamento vettoriale del visual, un camper in viaggio, non c’è nessun tipo

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di coinvolgimento, né sensibilizzazione che renda partecipe l’utente, poiché non c’è stata progettazione legata al pensiero, ma soltanto l’atto tecnico di mettere insieme delle informazioni. Questo è il caso in cui il ruolo dell’utente è ignorato. L’utente fantasma esiste, ma fortunatamente è in buona compagnia, se consideriamo le altre tipologie di utenza che possono essere connotate positivamente o negativamente a seconda dei parametri e delle condizioni a cui un progetto deve rispondere. La condizione ideale resta quella in cui il progettista riesce a educare l’utente a un processo, a informarlo, a renderlo attivo: stiamo pur sempre discutendo di progetti di comunicazione, se la comunicazione viene meno, allora di che stiamo parlando?

* Si ringrazia il settore della comunicazione istituzionale

della Regione Puglia per la consulenza e per aver reso diponibili molti dei materiali mostrati in questo articolo.

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L’utente? È un deficiente!

Max Gaeta

Da questo si ricava un quadro davvero frustrante delle condizioni in cui un designer è costretto a ragionare e operare. Siamo tutti incompresi. Questa è la verità! Basti pensare che da quando il mondo della comunicazione ha attirato a sé tante persone, è cresciuta a dismisura la richiesta di cure psichiatriche. Gli unici a guadagnare nel mondo della comunicazione sono esclusivamente loro: Gli psichiatri. I designer sono ridotti alla frustrazione più assurda da clienti incolti, dalla censura e, soprattutto, dall’ignoranza e l’insensibilità degli utenti finali. Questo mostro di cui abbiamo tutti paura, l’UTENTE FINALE, ci costringe a una serie interminabile di layout, a ragionamenti assurdi per cercare di compiacerlo, perché non è assolutamente disposto ad ammettere le proprie deficienze, a venirci incontro e imparare a cosa serve una citazione colta, a conoscere la storia dell’arte per poter capire i riferimenti cui si ispira un’immagine aziendale o di prodotto. IO PROPORREI UNA COSA: “ESCLUDIAMOLO DAL NOSTRO MONDO!“

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Facciamo valere il principio del “E CHI SE NE FREGA!“. E aggiungerei: “DI TE. CARO UTENTE FINALE“. Immaginate che mondo perfetto sarebbe. Bello. Bellissimo! Montagne di lettering incomprensibili popolate da marchi fantastici per prodotti inutili. Mari di immagini ricche, ricchissime, per soddisfare la voglia di colore e nulla più. Forme astratte dolcissime o spigolosissime. Prati fioriti di mille layout che si confondono: elegantissimi. Paesaggi attraversati da arcobaleni di pittogrammi usati a sproposito. Stormi di animazioni fantastiche che volano da un video all’altro in cerca di occhi da impressionare. Costellazioni di effetti speciali a tracciare le rotte più assurde per la felicità effimera di chi li usa. E ancora: fiumi di parole e citazioni colte che sfociano in oceani pronti a evaporare nell’aria ai primi raggi della TV. Zucche vuote che fanno bella mostra di sé in mari di nulla agghindati a festa. Immaginate come sarebbe fantastico? LI BER TÀ

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Semplicemente libertà per noi designer, senza vincoli e costrizioni di alcun tipo. Ricordate: l’utente finale è dannoso per la nostra mente e il nostro ego. Perciò: VA CANCELLATO DAL PROCESSO DI COMUNICAZIONE! E immaginate come cambierebbe il mondo per i nostri amati clienti? Liberi da ogni obbligo di utilità e di decenza, potrebbero dare sfogo a ogni loro pulsione, e richiedere ai ‘creativi’ ciò che gli pare e piace. E questi ultimi sarebbero a loro volta liberi di assecondarli nella maniera più servile possibile, senza il rimorso di chi sa che non sta facendo il proprio lavoro secondo ‘etica’ (parola, a questo punto, inutile: cancelliamo anche questa dal nostro mondo?). Tanto, nel nostro nuovo mondo, non c’è più quel mostro lì fuori che ci deve giudicare: L’UTENTE FINALE NON C’È PIÙ! E allora vai con la creatività senza freni anche da parte delle aziende: portiamo sugli scaffali prodotti esteticamente bellissimi, perfettamente inutili e, naturalmente, costosissimi. • Biglie di cristallo commestibili; • giacche a vento per i pinguini del Polo Nord; • smalti colorati impermeabili per laccare il proprio cagnolino ogni giorno in modo diverso; • profumo di cibo saziante per chi sta a dieta. E vai col valzer dei nomi autoprodotti: • vampirina per un’arancia rossa (vi prego di fare una ricerca su google per questo nome: non ve ne pentirete); • vermitos (scusate ma la citazione era doverosa); • e che ne pensate di questa crema corpo per donna? Ora, senza l’utente finale , senza il mostro così dannoso per il nostro business creativo, potremo trovarla nei migliori negozi di cosmetici. E volete mettere quanto si sentiranno meglio, i nostri cari clienti, senza il pensiero di dover avere a che fare con dei deficienti? Immaginate che sollievo? E, tornando a noi, vi rendete conto a cosa ci hanno costretto? Ci rintaniamo come sette segrete in locali come questi a parlare di loro, per capire come ‘compiacerli’. A quest’ora potevamo essere in qualche posto a goderci il sole, a raccontarci storielle divertenti e, perché no, mangiare a sbafo a spese dell’organizzazione. Invece NO! Siamo qui a sollevare e analizzare problematiche. E lui? Il mostro? È li fuori che si compiace nella sua deficienza! Non gli importa nulla di ciò che stiamo facendo per lui in questo momento. Per lui queste sono solo chiacchiere inutili.

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Sono sicuro che se ci ascoltasse ci direbbe: “Si. Ma andando al sodo? Quali sono le proposte concrete? Di tutte queste chiacchiere io che me ne faccio?“ INSOLENTE! E magari avrebbe anche il coraggio di andare oltre dicendo: “Assumetevi le vostre responsabilità. Ammettete che non tutti siete dei veri professionisti come dite. E che non avete le competenze per poter gestire i processi di comunicazione. Non sapete guidare le aziende in tali processi, facendogli capire a cosa può servire fare comunicazione; fin dove spingersi e dove fermarsi nella ricerca della soddisfazione del proprio ego. Dirgli di smetterla di pensare che siamo deficienti!” MA CHI CREDE DI ESSERE QUESTO UTENTE FINALE! E immaginate i consigli? “Anziché perdervi in chiacchiere, • date vita a percorsi formativi per insegnare alle aziende come si gestisce il processo di comunicazione, come ci si prepara per lavorare in sinergia con i designer; • elaborate guide pratiche che raccolgano tali esperienze e siano strumento utile alle aziende per poter parlare i giusti linguaggi; • le varie associazioni abbiano il coraggio di dire chi può essere considerato un professionista e chi no. Di chi ci si può fidare e a chi ci si può affidare; • si indichino percorsi formativi per chi non lo è ancora, in modo da non escludere nessuno“. “SI FACCIA CHIAREZZA NEL VOSTRO MONDO. NON SI PRETENDA DA NOI UTENTI CIÒ CHE, IN REALTÀ, SPETTA A VOI CONOSCERE“. Quante assurde pretese! Non vi pare?

Sarebbe troppo facile, caro utente finale. Se non volevi che ti escludessimo dal nostro mondo, avresti dovuto imparare a fare il nostro lavoro. Saresti stato meno deficiente!

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...quando l’utente non è fantasma

Alberto Lecaldano

La Rivoluzione d’ottobre

Il totalitarismo nazista

La caduta del muro di Berlino

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Le immagini di queste pagine sono tratte dall’intervento di Alberto Lecaldano in chiusura della conversazione L’utente fantasma.

Il tifo per la Roma

Le lotterie dello stato

Il referendum per il divorzio Progetto graďŹ co 17, aprile 2010

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