Noi nella bufera

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Franco La Guidara NO I N ELLA BU FE RA


Proprietà letteraria riservata ©La Guidara


Non arrossite mai quando pronunciate le parole Repubblica, Nazione, Patria; quando custodite la vostra bandiera, quando prestate il vostro giuramento: non sono queste parole o cose senza valore, non sono simboli senza significato, non sono impegni senza virtù, quelli per cui tanti cittadini sono morti in guerra e in pace nelle trincee, nei cieli, nei mari, nei campi di sterminio, nelle carceri, nelle strade, nelle piazze per difendere la Patria e il diritto. Francesco Cossiga


Nella foto in alto: copertina dell’album stampato dall’Accademia Militare di Modena per gli Ufficiali partecipanti all’86° Corso (1943). Al centro: Franco La Guidara con la divisa del 336º Reggimento Fanteria “Piceno”, Centro Addestramento Complementi Forze Italiane Combattenti In basso: l’Accademilia Militare di oggi.


LoNtANo dALLA SICILIA I dicembre l942 L’alba era luminosa, cristallina, bianca, era una magica alba. In Emilia il treno correva veloce sui binari invasi dalla neve. L’orizzonte era candido e ancora in una blanda luce lunare a tratti interrotta da nebbie dense. Ero seduto accanto al finestrino ed ero impaziente, perché sapevo che presto sarei sceso per raggiungere il palazzo ducale dell’Accademia Militare. Non riuscivo a nascondere l’ansia, l’orologio segnava quasi le sette e fra mezz’ora avrebbe indicato l’arrivo alla stazione di Modena. Piegai e chiusi il quotidiano, mi passai una mano sui capelli scomposti e tornai a guardare l’elegante signora che mi stava seduta di fronte e mi rivolgeva un sorriso amichevole. L’ingegnere, il marito, andò in corridoio per accendere un sigaro. Un odore aspro di tabacco riempì in breve lo scompartimento del vagone ferroviario. dal tepore provocato dal riscaldamento, fra i comodi sedili coperti di velluto, si poteva solo indovinare il gran freddo che attanagliava uomini, case e alberi nella sconfinata pianura emiliana. «Quest’anno il gelo non scherza», disse l’ingegnere, che era grigio di capelli e aveva il volto segnato da rughe profonde. «È molto rigido», fece eco la moglie, che poteva avere cinquant’anni ed aveva il volto roseo e ovale ben curato. «Noi torniamo a casa, dove il clima è più mite». «Ad una certa età si apprezzano meglio le comodità», commentò l’ingegnere che non doveva avere più di sessant’anni. «Io ho un fratello che combatte in Russia», disse la suora che aveva tirato fuori un thermos dalla sua borsa. «Mi ha scritto che lì fa veramente tanto freddo. Soffia un vento che paralizza». Ascoltavo in silenzio la conversazione dei compagni di viaggio, lo sguardo fisso sulla neve che cadeva abbondante e si abbatteva veloce contro i vetri dello scompartimento, così denso di conforto. *** 5


Franco La Guidara Era un’alba silenziosa, gelida e piena di neve quando io giunsi a Kharkov. Avevo affrontato un viaggio tremendo. Era la prima volta che mi trovavo fuori dell’Italia e tuttavia riuscii a dominare un’angoscia, capace di far impazzire un cuore. In breve fui uomo adulto. Avevo diciassette anni, appena compiuti. In Sicilia, a novembre, non avevo mai portato il cappotto. ora mi trovato avvolto in un pastrano di pelliccia e avevo anche un bel colbacco. Nella Russia meridionale i fiumi straripavano di ghiaccio. Anche la steppa era coperta di ghiaccio. La gente, chiusa dalle dighe della fame e dei lutti, era diffidente ma si apriva umile e appassionata verso chi cercava di rendere meno infelice la sua esistenza. Studente universitario, nato e vissuto nell’isola del Sole, in quel periodo ero magnetizzato dall’ansia di conoscere i fatti che travagliavano i grandi spazi della Russia. Seguivo attraverso i bollettini le vicende sul fronte orientale e si radicava in me la voglia di indagare, di partecipare, di vedere, di toccare con mano una realtà che di giorno in giorno diventava sempre più drammatica. Ed eccomi ora sulla lunga strada bianca. Kharkok era una delle prime tappe decisive verso l’inferno. A Kharkov, per la prima volta, provai l’ebbrezza della troika in corsa. Ebbi i primi contatti con le donne dell’Ucraina e conobbi il dolore di chi era stato nella bolgia della prima linea e adesso disperatamente si attaccava all’incerto presente. Nel ricordo, tante immagini si stagliano vivissime. Le donne e i bambini che attendono al freddo, fuori delle isbe, anche di notte, il ritorno dei propri cari. I cadaveri sono appesi agli alberi, i feriti brancolano, i mutilati si trascinano sui moncherini, gli sciacalli che spogliano i morti, i rapaci si avventano sui vivi sanguinanti, gli uomini sperduti nella vastità immensa della steppa. E quanti bambini soli. E quante ragazze alla deriva nelle maglie della disperazione. È incisa nella mia memoria la figura massiccia di un bersagliere che fa scudo con il suo corpo ad una giovanissima ebrea che sta per essere giustiziata dai nazisti. Il bersagliere si avventa, spara contro la pattuglia di SS. I germanici reagiscono rabbiosamente e, prima che altri italiani possano intervenire, riescono a mitragliare il bersagliere che protegge la russa sulla soglia della sua isba. I tedeschi scompaiono nella nebbia. Al colmo dello sconforto, la giovane urla la sua afflizione, stringe forte fra le sue magre 6


Noi nella bufera braccia il corpo esanime del bersagliere e grida forte sempre più forte, disperata e sgomenta, finché io la strappo con pietà dal suo salvatore e la faccio salire su una camionetta. Russia 1943. Ricordi incancellabili: fuoco, freddo, fame, morte. dio è assente nel clamore che uccide? È un’alba priva di sole. I combattenti italiani che tornano dalle prime linee sembrano Lazzari usciti dal bianco sepolcro. Con camion e slitte, provenienti dal fiume don, migliaia di feriti e congelati lasciano le balke battute dalle katiusce sovietiche. Nevica insistentemente. tutti questi soldati avvolti in bende intrise di sangue e di neve vengono sostituiti in linea con altri soldati. I camion, con ruote munite di catene, slittano e sbandano paurosamente sulla steppa. *** «Fra poco saremo a Modena», disse la professoressa. «Io insegno storia al liceo e conosco bene i metodi severi dell’Accademia Militare». «E fanno bene», aggiunse l’ingegnere. «Non è facile superare quella scuola. da lì escono i comandanti degli uomini in guerra!» Annuì orgoglioso: «So bene a cosa vado incontro e alle responsabilità che mi attendono... in accademia... e dopo. Eravamo migliaia... ma gli ammessi... be’... Ho superato una selezione severa!» *** L’uomo era supino in una branda dell’ospedale di Kharkov. Era un prigioniero russo ma era ricoverato insieme ai soldati italiani feriti. Parlava bene la nostra lingua. Era stato catturato mentre, vestito da alpino, si aggirava tra i nostri combattenti in prima linea. Mi avvicinai al russo e lo fissai con insistenza. Potei vedere che era privo della mano destra e aveva una benda attorno al collo. Il russo mi si avvicinò ancora di più e mi chiese una sigaretta. «tu», mi disse, «sei molto giovane. Perché sei venuto nel mio paese?» «Voglio vedere come si comporta un uomo nel suo rapporto con la morte. Mi interessa vedere il combattimento per scandagliare concretamente l’audacia e la paura. Vado alla ricerca di quelle sensazioni che ti fanno conoscere la verità oltre le conven7


Franco La Guidara zionali artefatte dall’ambiguità. Intendo ascoltare la voce di chi torna dopo aver dato o subìto violenza... Io ritengo che un uomo, anche se fisicamente intatto dopo lo scontro, debba portare dentro un forte mutamento». Il russo abbassò lo sguardo sulla sua mano perduta e disse rassegnato: «Io credo nella giusta guerra. Noi ci stiamo battendo per liberare il nostro Paese». *** Il sibilo del treno che entrava in stazione e lo stridore ferroso dei freni sui binari segnò l’arrivo a Modena. «Lei è giunto alla sua mèta», mi disse la professoressa. «E comincia la sua avventura sotto le armi», fece eco l’ingegnere. «Qui non ci sono gli ulivi e i mandorli della sua Sicilia, ma ci sono nevosi e bellissimi orizzonti, che temprano e rafforzano il carattere. In bocca al lupo!» esclamò e mi strinse vigorosamente la mano con paterna cordialità. Anche la professoressa mi salutò con calore. Presi rapidamente la mia pesante valigia e m’inchinai amichevole anche verso la suora. tutti mi augurarono ogni bene. A me, a quel giovanotto del Sud che andava volontario sotto la disciplina delle stellette. Scesi veloce dal predellino del treno e mi avviai sulla neve fresca e soffice del marciapiede. Alcuni militari con le armi a tracolla si scaldavano battendo le mani guantate contro le proprie braccia e rumoreggiavano con i piedi, chiusi negli scarponi chiodati contro il selciato nevoso. C’erano anche tre soldati tedeschi accanto all’uscita della stazione. Erano armati di fucili mitragliatori. Controllavano i movimenti di borghesi e militari nella gelida mattina. Uscì dalla stazione e cercai un tassì. Ma nel parcheggio c’erano soltanto un paio di auto di privati e una macchina della polizia. Chiesi all’autista notizie sulla strada da prendere per l’Accademia e m’incamminai in quella direzione. Poi vidi un bar luminoso e vasto e decisi di entrarci. Andai alla cassa e chiesi un caffè e una brioche. Pagai ed ebbi la sorpresa di trovarmi di fronte, vicini, gli occhi azzurri, meravigliosi, di una ragazza sui vent’anni. «Sono diretto al Palazzo ducale», dissi alla cassiera. «È molto lontano da qui?» La ragazza bionda, con i pomelli accesi e le labbra porporine, mostrò interesse e si premurò a rispondere: «No. 8


Noi nella bufera L’Accademia non è lontana. Perché lei va all’Accademia, non è vero? Se vuole... posso accompagnarla io». «Mi farà un piacere», replicai cordiale. «Ma fuori, stamani, fa ancora molto freddo». «Fa niente, signor ufficiale», lei disse con tono confidenziale. «Sono qui da più di un’ora. Ho aperto io, oggi!» «E gli altri giorni?» chiesi mentre versavo due cucchiaini di zucchero nella tazza del caffè. «Quando io studio la sera fino a tardi, viene mia madre». E indicando il barista cinquantenne: «Anche lui ha le chiavi del negozio. E ci dà una mano ad aprire il locale... quando arriva prima di noi!» Sorrise con garbo e magnetizzò ancora la mia attenzione. «Bene!» esclamai. «Io ho finito. Possiamo andare insieme». Lei indossò un cappotto rosso di lana sul vestito grigio, stretto alla vita, che slanciava il suo corpo snello e agile. Anche gli stivaletti neri avevano tacchi alti che davano armonia ai passi cadenzati e leggeri. «Cosa studia di bello?» chiesi affiancandomi a lei nella strada nevosa e quasi deserta. «Sono al secondo anno di università», rispose. «oltre alla conoscenza del francese e del tedesco sono impegnata con la letteratura di quei Paesi». «Interessante. Così è come una quotidiana e continua scoperta». «In un certo senso, sì», lei convenne. «A me piace tanto conoscere mondi diversi dal nostro». «Finora io ho studiato legge», replicai. «Ma avevo una maggior propensione per le lettere... E ora... Be’! ora vado a imparare l’arte della guerra». «Perché?» lei chiese. «È proprio necessario?» «È un impegno che affronto volentieri. Non potevo continuare a studiare senza un traguardo concreto e più rapido. Non posso aspettare tanti anni. debbo guadagnare». «Più che giusto!» lei disse riflessiva. «Così a Modena avremo modo di rivederci...» «Certo!» esclamai con allegria. «Ci vedremo presto». Con un leggero balzo lei saltò sul marciapiede, sorrise compiaciuta e seguì la mia andatura con passi più svelti. 9


Franco La Guidara «A me sembra che lei frequenti anche la scuola di danza...» ipotizzai. «Indovinato», lei confermò. «Ma...possiamo darci del tu?... da dove vieni?» «Sono di Catania e sono lieto di averti incontrata». Lei si fermò e mi scrutò con serietà negli occhi. Sorrise. «Sei arrivato», disse poi con calma. E mi indicò con l’indice della mano destra il Palazzo ducale, che era in fondo alla via, su una grande piazza. «A presto, Anna. E grazie per la tua splendida compagnia». «Ci rivedremo?» lei chiese. E nei suoi occhi captai saggezza di vita. «Sarò da te appena possibile... dammi il tuo numero di telefono». Lei prontamente scrisse sul foglio di un taccuino. «È quello del bar. A casa non abbiamo il telefono», disse. «Ciao», sussurrò guardandomi in tralice. E si allontanò a testa alta, danzando sui tacchi alti.

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Noi nella bufera CAdEtto A ModENA II Modena, dicembre 1942. Nel cortile d’onore, al centro della secentesca residenza estense, la neve si scioglieva calpestata dagli scarponi dei nuovi cadetti. La mole imponente dell’accademia si illeggiadriva nell’aria tersa del mattino e il colonnato sembrava acquistare trasparenze di trina. Gli allievi erano riuniti a gruppi sotto i portici della grande scuola di guerra. Gli ufficiali ordinavano ai sottufficiali di scrivere nei registri nome e cognome di ciascuno, data di nascita e città di provenienza. ogni cadetto aveva ricevuto un telegramma con l’ordine di presentarsi all’Accademia. E così, dall’ampio portone d’ingresso, continuavano a giungere decine di giovani, ansiosi di conoscere il famoso ambiente militare di cui avevano sentito tanto parlare, e gli abili professori impeccabili nelle loro uniformi. Nel giro di poche ore ogni cadetto venne assegnato ad un plotone. Si capiva che era già stato tutto organizzato ed ora, in breve, si concretizzava un piano studiato bene da tempo. Con quella prima presa di contatto sotto i portici si voleva dar modo ad ogni arrivato di ambientarsi un po’ tra la folla di colleghi venuti da vari Paesi, persino dalla Croazia e dall’Albania e dalle regioni africane appartenenti all’Italia. Prima di mezzogiorno, in plotoni di trenta, entrammo in varie furerie per l’operazione vestiario e quindi nei saloni dei barbieri per il taglio dei capelli. tra lo scalpitio dei passi nei corridoi e per le scale e le innumerevoli voci che si comunicavano comandi e si scambiavano impressioni, ci trovammo alla mensa in uniforme grigioverde da fatica, ben rasati e con i capelli corti, tagliati a spazzola. Nei nostri volti s’indovinava già il nuovo impegno di militari e anche la consapevolezza della dura disciplina. Non accettai con troppa allegria il fatto che mi erano stati tagliati i capelli che fino a poche ore prima mi ornavano il volto, però l’ambiente, l’uniforme, la solennità dell’istituto nel suo complesso, severo ma anche goliardico, la cordiale autorità degli ufficiali e il comportamento rispettoso dei famigli, i camerieri in borghese, con camiciotti lunghi a righe, mi resero sopportabile la mia nuova fisionomia. 11


Franco La Guidara Giunti alla sala della mensa venimmo inquadrati in ordine di altezza e anche segnati in diversi elenchi, che rispettavano l’ordine alfabetico. Il salone era immenso ed era movimentato da un lieve brusio. Mi guardai attorno con sorpresa. Era tutto così straordinario da sembrare lo scenario di un film. Centinaia di giovani che non si erano mai visti, adesso erano insieme, gli uni accanto o di fronte agli altri, nella grande e fastosa accademia e con gli stessi scopi e le stesse aspirazioni. Serviti dai famigli, in mezz’ora venne consumato il pranzo: maccheroni al ragù, arrosto con patate al forno, mele e pere e un quarto di vino rosso. Porzioni così abbondanti che non mangiavamo da un pezzo. Poi si andò nelle camerate, per prendere possesso dei postiletto e degli armadietti, dove custodire gli oggetti personali. Le finestre erano aperte sul cortile d’onore, dove d’ora in poi ci saremmo riuniti per ogni avvenimento e che avrebbe scandito la vita quotidiana dell’accademia: sveglia, studio, inizio delle marce e delle manovre, libera uscita. Anche quando il comandante doveva comunicare ordini improvvisi, noi cadetti venivamo chiamati - col suono della tromba - in adunata nel cortile. E se le prime volte si crearono non poche confusioni tra le righe, poi le operazioni si svolsero con rapidità e ordine anche sotto la neve. In quel mese d’inverno ci fu, infatti, molta neve a Modena. Quel freddo era motivo di sofferenza specialmente la mattina. La sveglia suonava alle cinque e trenta, quando il termometro segnava diversi gradi sotto zero, e si dovevano affrontare giri di corsa in cortile, salite alla fune e alla pertica e, più tardi, difficili percorsi di guerra. Abituato ad un clima diverso, come la mitezza dell’isola natale, riuscii comunque a superare le prove più dure. E, con me, anche altri colleghi provenienti da Catania, Gino e tonio, che facevano parte del mio plotone. E pur dovendo frenare talvolta impulsi nervosi e imprecazioni per la rigidità della temperatura, riuscirono a farsi apprezzare dai comandanti. Eravamo impegnati in faticose marce quotidiane di quaranta chilometri con zaino e armi sulle spalle. dovevamo temprarci a tutte le fatiche sotto il sole e la pioggia. E le materie da studiare erano tante. Si passava dalla tattica all’organica, dalla geografia alla storia militare, alle lingue straniere, alla chimica e alla fisica, dalle armi al tiro, dalla ginnastica sulle parallele all’atletica leggera e alla lotta libera, dalla scherma all’equitazione. E bisognava, inoltre, dimostrare ottime doti di comando. A turno a ognuno 12


Noi nella bufera veniva dato il comando di un plotone o una compagnia, e chi non rivelava energia e temperamento nel giro di pochi giorni era costretto a dimettersi dall’istituto. E così, nell’arco di poche di settimane, molti dovettero tornarsene alle proprie case: mentre quelli che ogni mattina continuavano a riunirsi di corsa nel grande cortile erano elementi selezionati, resistenti alla fatica, svelti e capaci nell’arte del comando e delle armi. Erano idonei a frequentare l’Accademia. Ero riuscito ad ambientarmi bene e con gli ufficiali superiori avevo una buona comunicazione e anche con i colleghi ero sempre il più vero possibile. *** Nei primi giorni ricevetti la visita dei miei parenti che si erano trasferiti da qualche tempo in un paese vicino a Mantova. Lo zio paterno tommaso, abile costruttore di armi e appassionato cacciatore, in quel periodo prestava servizio presso il comando dei carabinieri. «Mi fa tanto piacere vederti indossare questa bella divisa», egli disse abbracciandomi. «ora sei un giovanotto in gamba! Io sono in licenza per una quindicina di giorni... vieni a trovarci. Per me... il futuro è un mistero. Forse mi manderanno sul fronte russo», egli aggiunse calmo. «Alcuni miei colleghi sono certi di questa nuova destinazione». «Vorremmo restare a difendere la famiglia, e invece bisogna andare su altre strade. Io sono tornato poche settimane fa da Kharkov, e ho visto camion e slitte, provenienti dal don, carichi di centinaia di feriti. Negli ospedali sono al lavoro giorno e notte. Ho sentito parlare di una controffensiva del nemico e della necessità di nuove truppe». «Qualcosa di terribile sta accadendo!» disse zia Gina, che era giovane e piacente, con dei grandi occhi chiari sotto un casco di capelli neri. Lo zio tommaso era longilineo, bruno e robusto, aveva il naso aquilino e labbra un po’ preminenti. Era un bell’uomo, deciso, avaro di parole. Esercitava nei giovani la sua autorità di uomo attento e scrutatore, abituato alla caccia. La zia Gina, era una donna moderna ma legata alle tradizioni di una famiglia antica e nobile. Si vedeva subito che era una saggia moglie. «Siamo venuti appena abbiamo saputo del tuo arrivo», mi disse zia Gina. «tu sai quanto affetto c’è sempre stato fra me e tua madre e... fra noi tutti in famiglia». 13


Franco La Guidara Zio tommaso assentiva sereno e lieto per l’incontro. Guardava attento i numerosi ufficiali e allievi, con relative famiglie, che si muovevano attorno. «Ci ha telegrafato tuo padre», aggiunse zio tommaso. «devo imparare a guadagnarmi uno stipendio e ad essere indipendente». «Hai fatto bene», replicò zio tommaso. «Vedo che hai affrontato la strada con entusiasmo!» «Mi sento nella direzione giusta. Finito il corso non so su quale fronte mi manderanno. Però molti si sono iscritti all’accademia sperando che nel frattempo la guerra finisca. A me invece piace fare l’ufficiale. dicono che ho attitudine al comando». «E noi ti staremo vicini», disse zia Gina, simpatica nel suo accento lombardo. «Noi abbiamo la stessa visione del mondo». dopo l’adunata di rito, andai a cena con i parenti in un ristorante del centro e promisi che mi sarebbe recato a Mantova prima che lo zio tommaso partisse per il fronte. *** dopo pochi giorni fui nominato capo-plotone e poi caposcelto del corso. dai colleghi era considerato un amico, a cui però si doveva ubbidire durante le ore di addestramento e le lezioni. I giorni passavano rapidamente tra marce, pratica di armi e tiro, equitazione, gare di atletica in palestra e in piscina, lunghi pomeriggi trascorsi nelle aule didattico-addestrative o in biblioteca. Sebbene impegnati dall’alba al tramonto, avevamo anche il tempo per conoscere gli aspetti della vita della città che ci ospitava. Infangati o bagnati dalla pioggia al rientro dalle marce, tornavamo ad essere eleganti quando si andava in libera uscita alle sette di sera. Con camicia bianca e colletto inamidato, cravatta nera, uniforme scura, il classico spadino e le scarpe nere lucide, ogni allievo era motivo di ammirazione. Noi eravamo un’istituzione per la città. E quando passeggiavamo per le vie del centro, si animavano i gruppi di ragazze che affollavano i pubblici locali e i vari club, frequentati da prestigiosi artisti. Il berretto, con la visiera un po’ calata sulla fronte, mi conferiva più maturità. Ero cresciuto, anche dinanzi agli occhi di Anna. 14


Noi nella bufera «Ma sei proprio un bell’ufficiale», esclamò entusiasta quando mi vide apparire sulla soglia del suo bar. «Come è andato il tuo esame di tedesco?» «direi piuttosto bene: ho preso trenta!» disse Anna. «Allora dobbiamo festeggiare», replicai mentre sedevo ad un tavolo vicino alla cassa. Anna mi si accostò scherzosa. «ti sei fatto importante, tu. È una settimana che non ti fai vedere». «Ci hanno fatto le iniezioni contro il tifo e contro altre malattie...» spiegai. «Ho avuto un po’ di febbre... Non sono andato in infermeria, ma nemmeno in libera uscita». Anna ascoltava interessata ed era illuminata da un forte rossore alle guance. «Questa sera potrò rientrare alle undici», dissi. «Abbiamo quattro ore a nostra disposizione. tutto il tempo per vedere lo spettacolo che preferisci e poi...» «C’è una commedia di Pirandello al teatro», lei propose. «ti va?» «E poi?» chiesi. «Avverto subito mia madre perché venga a sostituirmi. Così dopo potremo andare anche a cena. Voglio portarti in una osteria dove fanno dei tortelli in brodo che sono una squisitezza. Così potrò raccontarti anche la loro leggenda. La conosci?» «No. dài, racconta... Voglio sapere se vale la pena di aspettare la fine dello spettacolo per andare a mangiarli». Rinunciammo alla commedia e Anna mi portò in un locale di via Canalino. L’oste ci accompagnò ad un tavolo e chiese: «tagliatelline affogate nel brodo o gli stricchetti? oppure preferite quadrucci da abbinare ai fegatelli?» Anna lo interruppe e disse: «tortellini casarecci... e una bottiglia di lambrusco». «Adesso mi puoi raccontare la storia dei tuoi tortellini», dissi. «Sono veramente curioso. Così potrò scriverla a mia sorella Vita, a casa è lei che sta attorno ai fornelli». «La leggenda narra che un oste bolognese, che aveva aperto una locanda a Castelfranco, aveva una particolare ammirazione per Venere tanto che si era fatto fare un grande quadro in cui la dea era raffigurata con l’ombelico armoniosamente nudo», 15


Franco La Guidara spiegò Anna mentre rideva. «L’oste ne era tanto invaghito che volle imitarne l’aspetto e fu così che nacque il tortellino: una rotondità ben modellata di pasta riempita di carne!» «E no, cara signorina», disse l’oste mentre portava una bottiglia di vino. «La verità è un’altra, forse un po’ più sboccata: al mio collega l’idea fu suggerita dallo scrutare dal foro della serratura, con golosità grassoccia, una giovane e bella cliente che si stava spogliando per andare a letto». Non la smettevamo più di ridere. «Ecco, vedete questo lambrusco? È vino proprio vino. ogni volta che si stappa una bottiglia fa lo sparo e il vino balza in cima fino al collo con la sua schiuma rossa. Lo sa, che all’epoca del marchese obizzo d’Este, per merito del lambrusco fu possibile evitare una sanguinosa battaglia che si trasformò in una cameratesca bevuta generale? Ecco i tortelli!» annunciò l’oste. «Adesso vado a prepararvi delle zampette in crespina». «Cosa ci sta preparando?» chiesi mentre cominciavo a mangiare i tortelli. «Abbi fiducia», scherzò Anna. «È vitello e pollo con uva crespina, zenzero e pesto. Era una delle ricette preferite dal cardinale di Ferrara Ippolito d’Este, che di cucina se ne intendeva!» Nel locale dilagava un allegro brusio, c’erano giovani e meno giovani, bonari campanilismi, rivalità e punzecchiature erano nei loro discorsi. Le donne erano lì che ascoltavano, stavano agli scherzi. L’oste si avvicinò con una bottiglia di nocino. «omaggio della casa», disse gentile. «Alzarsi da tavola senza aver gustato un liquore potrebbe sembrare una vera sgarberia nei confronti di chi ti ha servito da mangiare», spiegò Anna. «Non deve buttarlo giù d’un sorso come fosse una medicina», disse l’oste mentre lo mesceva nei bicchieri. «Il bere è un rito, una specie di libera uscita della nostra personalità. Questo nocino è un nostro distillato e si deve apprezzare due volte: con gli occhi mentre lo si versa, con l’odorato quando si porta alle labbra il bicchiere». Brindammo alla salute dell’oste. «Sono noci verdi che ho fatto raccogliere io proprio il giorno di San Giovanni», spiegò l’oste in vena di conversazione. «Il segreto sta nel giorno preciso della raccolta delle noci: sbagliare di ventiquattro ore può significare dare un gusto diverso al noci16


Noi nella bufera no. Bisogna fare molta attenzione perché anche una sola noce guasta rovinerebbe tutta la distillazione». Mi complimentai con l’oste per l’ottima cucina e promisi di tornare quanto prima. Frizzanti bicchieri di spumante suggellarono la bella serata tra gente cordiale in un’atmosfera godereccia, che tanto contrastava con le notizie di guerra che solcavano l’etere. Con Anna trascorsi ore di allegria in un’oasi di gradevole confusione, vissi le sue stesse emozioni mentre la radio proseguiva con i suoi ritmi allegri.

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Franco La Guidara LA VALIGIA PER IL NAtALE III Modena, dicembre 1942 Quella mattina avevamo indossato le caratteristiche uniformi blu dai bottoni dorati e dalle ghette immacolate e offrivamo uno spettacolo di armoniosa compattezza. Agli squilli d’attenti della banda dell’esercito ci eravamo allineati nel cortile d’onore in attesa dell'arrivo della bandiera. da un altoparlante veniva diffuso il monito che gli allievi anziani rivolgevano ai cappelloni: di ricordare la grande importanza che rivestiva l'atto che stavamo per compiere. dopo la celebrazione della messa, rivolgendosi poi ai giurandi dell’86° corso il comandante colonnello Giovanni duca sottolineò il profondo significato e l’importanza del giuramento e i doveri che esso comportava. «Fra qualche anno», egli aggiunse, «al termine della vostra formazione, comincerete ad avere ai vostri ordini degli uomini, ai quali dovrete infondere qualcosa di voi stessi e, poiché nessuno dà quello che non ha, è necessario che voi vi ispiriate ai più alti valori della vita, alle più alte esperienze. Ecco perché in questa scuola, apprestandovi voi ad imparare, a rendervi in dimestichezza con le regole del servizio, create in voi stessi la premessa per le regole del comando di domani». Noi giurandi del primo anno eravamo schierati nei ranghi del reggimento allievi unitamente agli anziani e il rito fu caratterizzato dal prorompere del «Lo giuro!» salutato dagli applausi delle autorità militari, religiose e civili che gremivano i colonnati. Lo sfilamento in parata del reggimento allievi fu l’atto conclusivo della grande giornata e poi a tutti fu concesso di andare in licenza per le feste di Natale. Così all’alba del 20 dicembre molti lasciarono il Palazzo ducale. Gli allievi che dovevano fare lunghi viaggi preferirono restare a Modena. Io dovevo affrontare diverse ore di treno per raggiungere l’Isola e tuttavia feci volentieri la valigia per la breve licenza a Catania, dove ero atteso da parenti e amici. *** dopo un comodo viaggio in treno e un burrascoso traghetto 18


Noi nella bufera sullo stretto di Messina a causa di un forte vento, fui accolto alla stazione da tanti volti familiari: mio padre, le mie sorelle, mio fratello Salvatore e le compagne di liceo. Fu uno scambio di slanci affettuosi. «Come stai bene in divisa! Sei proprio bello», esclamò la bionda e graziosa Aurora a voce alta. «Natale lo trascorrerai con noi. Andremo tutti al ristorante». Un po’ confuso, ma felice per l’accoglienza, promisi che avrei trascorso con loro la sera di Natale. Fui impegnato con incontri con i parenti, con i colleghi universitari nei caratteristici caffè della centrale via Etnea, ed ero orgoglioso di indossare l’uniforme dell’Accademia. tutti erano curiosi e interessati alle vicende degli allievi mobilitati nel più famoso istituto militare d’Europa. E me ne sentivo persino responsabile, perché ero uno dei protagonisti di quanto narravo sui colleghi in uniforme e sui brillanti e severi ufficiali della Scuola. La notte di Natale vennero al ristorante anche gli amici Gino e tonio. Fu una festa goliardica, brillante, ore di vitalità e di pace, perché non ci furono urli di sirene per allarmi aerei e per un po’ non si parlò di guerra. L’orchestra suonava motivi romantici e allegri e Aurora, fasciata da un argenteo abito da sera, indagava sulla mia vita al Nord. «tu, a Modena, avrai già fatto strage di cuori», disse ad un tratto con aria sbarazzina. «Non c’è tempo per colpire cuori di ragazze», replicai ironico. «Ho conosciuto però una bionda modenese degna di attenzione. Studia lingue ed è brava e intelligente». «Ha una figura materna?» chiese Aurora. «Forse, ma non mi pare che questo sia il motivo dominante dei nostri incontri. ti pare che io sia il tipo che cerca una mamma in giro?» «No!» lei esclamò sorridente. «tu sai che io ti ho sempre voluto bene come un fratello. Ma se non fossi partita con questo convincimento forse... sarei stata, per te, una buona amante». L’attirai a me, come per dimostrarle che lei non era proprio in torto, ma subito dopo la baciai sulla guancia con gesto fraterno. «divertiamoci in santa pace», lei concluse spensierata. 19


Franco La Guidara «Non dobbiamo spezzare la serenità costruendo equivoci». «Aurora, sei sempre polemica e pronta lanciare strali acuti», gli sussurrai. «Ma sono inoffensiva», lei ribatté seria. «Non te la devi prendere: le mie battute sono quelle di una siciliana... che per dieci anni è stata tua innocua compagna di scuola e vicina di banco». «Noi ci vogliamo bene. Abbiamo un sentimento tenace che ci unisce», dissi ad Aurora, che riacquistò subito sicurezza e sorriso. «E se vuoi che io ti sia vicino come amante...» «No», lei esclamò coinvolta. «Non come amante». «Allora come bravi fidanzati», proposi. Lei annuì appagata. «Beviamo?» proposi. «E poi?» lei sussurrò ansiosa. «ti terrò più stretta a me...» mormorai suadente. Lei si lasciò avvincere e si lasciò adulare con voluttà e tenerezza. Rimanemmo così, in silenzio, in piacevole contatto. «Sei un pericoloso don Giovanni», lei disse infine scostandosi. «È un bene che io ti abbia considerato finora un semplice compagno di scuola». «Sei convinta di quello che dici?» chiesi. «Vorrei rifletterci un po’», lei rispose. «Sino alla fine della guerra?» replicai ironico. «tu mi piaci e ti voglio un gran bene», lei disse. «Quindi... siccome tu stai a Modena ed io a Catania... sarà meglio non cambiare la strada delle nostre vecchie decisioni». «Amici come sempre?» «Sì», lei rispose. «Con affetto e sincerità». «d’accordo. Però devo confessarti che tu mi piaci». Lei lo baciò sul collo. «Anche tu sei un amore», disse. «Ma c’è la guerra ed è un buon motivo per rimandare... Stasera qui stiamo bene». «Iniziamo senza di voi!» gridò tonio. Una ventina di amici erano gia seduti attorno ai tavoli che erano stati riuniti, lieti di festeggiare insieme la ricorrenza natalizia. A mezzanotte si stapparono le bottiglie e fu proclamato un brindisi solenne da parte del professore Salanitro che era in com20


Noi nella bufera pagnia della sua novella sposa, anch’essa insegnante di lettere e filosofia nei licei. «Auguriamo un felice Natale a tutti gli italiani e agli amici che sono al fronte», disse Salanitro. «Auspichiamo un loro pronto ritorno, che vorrà dire pace fra i popoli, e che di fatto garantirà il rispetto di norme, che ci difenderanno dalla disperazione e da sofferenze di ogni tipo». tutti levarono i bicchieri e brindarono con «Evviva!» al Natale che li vedeva riuniti e sereni. «Noi siamo dei fortunati», dissi ad Aurora che mi stava accanto. Anche se c’è una tregua per il Natale, in questo momento su tutti i fronti, dalla Russia all’Africa, gli uomini vegliano in armi e i civili devono ringraziare la provvidenza se sono riusciti a preparare un pasto caldo». «Anche a noi non è facile acquistare il cibo necessario...» replicò Aurora. «Ci stanno bombardando quasi ogni giorno e lottiamo contro la paura... Ci manca la pace e ci manca un futuro». «È vero. Non siamo più ai tempi del liceo, quando eravamo spensierati e allegri e la vita era bella per tutti». «oh! devo telefonare a casa!... Scusami, sai. Mia madre non si sente bene ma ha voluto che io venissi ugualmente a cena con voi. Adesso vado a farle gli auguri». «Anche da parte mia», dissi. «tua mamma è adorabile. dille che la ricordo con affettuosa stima». «Anche lei ti vuole bene», disse a bassa voce Aurora. E si allontanò verso il telefono ch’era accanto alla vetrata dell’ingresso e parlò brevemente e con voce garbata. Poi tornò accanto a me, e insieme andammo al bar. Nella piacevole confusione i brindisi si susseguirono ancora fra i tanti amici, fra i quali si facevano notare per la loro virile compostezza, con schegge di scanzonata goliardia, i cadetti Gino e tonio, consapevoli del ruolo impegnativo di allievi ufficiali fra i compagni universitari in borghese. L’una era passata quando salutai tutti con amichevoli gesti e uscii dal locale con Aurora. «ti accompagno a casa», le dissi. Via Etnea era animata da auto di militari italiani e tedeschi. da un camion teutonico scaturivano le note di un’armonica ritmate dalle voci di uomini che avevano bevuto parecchio e perciò a tratti non rispettavano le note della nostalgica canzone. «Sono capaci di tutto. Anche di rovinare il fascino di una 21


Franco La Guidara delle più belle melodie», ironizzai. «Hanno festeggiato un po’ troppo il Natale», scherzò Aurora. «Le loro voci sono roche». «Anche in questi ultimi giorni Catania è stata bombardata molto?» chiesi. «Non passa giorno. Vengono per l’aeroporto e le navi», disse Aurora. «E intanto seminano morte anche fra i civili». «Come è successo a mia madre!» ricordai con amarezza. «Se continua così finiranno per farsi odiare da tutti». In quell’istante, insieme ad un rombo poderoso proveniente dal mare, sibilò l’urlo di tante sirene. Era l’allarme. Correndo andammo verso la vicina piazza dell’Università dove c’era il varco per un rifugio antiaereo. Una bomba esplose con fragore proprio al centro della piazza. Schegge e macerie colpirono la moltitudine in corsa verso il ricovero sotterraneo. Grida di dolore si confusero a pianti di bambini invasi dal terrore. Aurora seppe conservare il dominio dei nervi. Per un attimo artigliò il mio braccio mentre le correvo accanto nel buio corridoio del rifugio, ma non si lagnò per le spinte della folla che cercava protezione. La trascinai verso un angolo tranquillo. «Ho il cuore che mi scoppia», confessò Aurora. «Ma cerco di non farmi vincere dal panico... Piuttosto sto pensando a mia madre. tu sai che stiamo in una villetta isolata...» «È improbabile che i piloti possano sganciare bombe su una piccola casa aggrappata alle falde dell’Etna!» «Non vedo l’ora che finisca questo tormento», disse Aurora sbiancata in volto. Non riusciva a frenare un lieve tremito delle mani. «Appena finirà l’allarme, ti porterò subito a casa», dissi cercando di consolarla. «Vicino abitano i giardinieri», disse Aurora per farsi coraggio. «Ma io conosco mia madre! A quest’ora freme... soprattutto per me». «ognuno di noi vuole una vita migliore», dissi. «Ma per ora, e chissà per quanto, dovremo convincerci che la serenità sarà difficile per tutti e che dovremo superare ancora tanti ostacoli». «Portiamo pazienza!» convenne Aurora rassegnata mentre uscivamo dal rifugio. Ci avviammo con passo veloce per la via Etnea. Ai margini 22


Noi nella bufera della ripida via centrale c’erano gruppi di persone, soprattutto accanto agli ingressi dei rifugi. Alcune bombe erano cadute attorno a piazza Bellini e ambulanze militari e mezzi di soccorso correvano a sirene spiegate verso la zona offuscata dal fumo e dalle fiamme. «Un altro palazzo colpito in pieno», disse Aurora frastornata. «Hanno ucciso ancora», dissi con amarezza. «Quanto dolore!» sospirò Aurora. «E quanti lutti dopo ogni ondata di bombe. Ma durerà ancora tanto questa tragedia?» «dovrà pur finire», dissi. «Le guerre sono distruttive, stremano, hanno effetti deleteri sulla popolazione». «Anche quando si vincono, le guerre sono uno sporco affare», ammise Aurora. Proseguimmo fino a largo Gioeni, e poi ancora più in alto sulla collina, fino alla casa di Aurora. Un lume ad acetilene si intravedeva attraverso le finestre a pianterreno della casa dei custodi. Aurora aveva le chiavi del cancello, ma prima di entrare fece pressione con una mano aperta sul pulsante del campanello. Il campanello suonò con clamore, e subito si profilò al balcone una snella figura femminile. «Che spavento», disse la signora con mal celata paura. «Mamma, alcune bombe sono cadute proprio in centro», informò Aurora. «La saluto signora Carla. Siamo venuti appena è finita l'incursione», dissi. «Caro ragazzo, ti ringrazio per aver condotto a casa la mia Aurora», rispose con voce pacata la signora. «Siamo qui... e stiamo bene», disse Aurora emozionata. «Anche questa volta siamo salvi!» «Svelti, venite in casa». «È già tardi... ma accetto volentieri il suo invito». «Sei cresciuto... Fatti guardare... Sei diventato un uomo», disse sincera la signora Carla. «Ho compiuto diciassette anni due mesi fa. E nella selva di sabbie mobili in cui viviamo, io tento di essere obiettivo e di operare per il bene». «Siamo vivendo realtà che un tempo potevano sembrare impossibili», disse Aurora. «Catania bombardata! Chi poteva 23


Franco La Guidara pensarlo. ormai ci stiamo abituando a vedere i morti ammazzati per le nostre strade». «dobbiamo avere fiducia», dissi stringendo a me Aurora. «dobbiamo vincere ogni forma di corruzione mentale. Se noi dovessimo sentire tutte le violenze che ci circondano non avremmo via di scampo. Cadremmo nella più deleteria debolezza». «Sembra un paradosso», esplose Aurora. «Ma come si può accumulare tanta energia negativa? Può la massa, che non è illuminata da propositi fondati su valori assoluti o su mète di idealismi, sopportare tanti sacrifici?» «Perciò si debbono capire le proteste della gente», aggiunsi. «Molti non sono più capaci di ingoiare pane amaro». «Ma io ora non voglio essere motivo di tristi ricordi per te», disse Aurora con calore. «Noi ci vogliamo bene ed è questo che conta di più... fra noi». «Giusto», assentii. «Mandiamo al diavolo i guai che ci opprimono, almeno per un po’... Almeno finché stiamo ancora insieme, qui, dopo tanta distruzione, nella serenità della tua casa». «Ed io voglio fare un brindisi con te e con mamma. Berremo un po’ del mio rosolio per auspicare un buon destino per noi». «Accetto», dissi con allegria. «La tranquillità che si respira qui mi dà una carica di ottimismo». «Sei sempre ricco di entusiasmo!» esclamò la signora Carla. «È una gioia averti con noi». Aurora riempì i bicchierini con il rosolio e ci invitò a brindare. «A riunirci presto!» disse Aurora alzando il bicchiere. «Al nostro bene», replicai. «Che venga la pace», fece eco la signora Carla. «Io partirò presto domani», dissi. «È meglio che ci salutiamo ora. Spero di tornare per Pasqua...» «ti manderanno in licenza?» chiese Aurora. «Certo!» annuii. «tornerò per tre o quattro giorni. E staremo ancora insieme». «Mi farai felice», sussurrò Aurora baciandomi sulle guance. «La notte è limpida. Nel cielo brilla già la stella del mattino», dissi con un sorriso incoraggiante, poi salutai con un cenno la signora Carla e uscii nel buio.

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Noi nella bufera CAtANIA BoMBARdAtA IV Catania, 26 dicembre 1942 La città era ancora in subbuglio e alcune auto correvano veloci verso l’ospedale Vittorio Emanuele. Questa volta avevano colpito vicino: dal fondo della strada avanzava una nuvola densa di polvere che oscurava quasi l’aria. Un po’ più lontano si alzavano delle fiamme. Continuavano a passare le ambulanze a sirene spiegate, la polizia, i pompieri, la confusione era pazzesca. E laggiù, oltre la via invasa dalla polvere, c’erano la mia casa e quelle dei miei parenti. Fu quel giorno che mi accorsi quanto terribile fosse la guerra. Gli allarmi aerei, le restrizioni alimentari, i bollettini radiofonici e il viaggio fino a Kharkov non erano bastati perché capissi quali rovine portasse anche nelle città. L’aria si era fatta irrespirabile, un polverone denso si alzava dalle macerie, un forte odore di bruciato e di cemento e di gas mi penetrava nelle narici. dio, quante case colpite! dei militi mi si pararono davanti: «Non puoi passare!», dissero. *** Quando varcai la soglia della mia casa, al piano rialzato di via Garibaldi, l’orologio segnava le tre del mattino. Carmelina stava togliendo da terra i vetri infranti dallo spostamento d’aria e Vita era impegnata in cucina nella preparazione di un dolce a base di mandorle. Ma si capiva subito che era dinanzi alla tortiera per trovare un motivo di distrazione. Nella sala da pranzo, la tavola era ancora apparecchiata e c’erano anche delle bottiglie di vino. «Il mio treno partirà fra poche ore. Vogliamo brindare insieme allo scampato pericolo? dove sono papà e Salvatore?» chiesi. «Salvatore è andato ad aiutare alcuni amici subito dopo il bombardamento», disse Vita. «Papà ha accompagnato il professor Canepa all’ospedale». «È ferito grave?» 25


Franco La Guidara «Non tanto», precisò Carmelina, che aveva superato lo choc provocato dal bombardamento. «Il professore è stato colpito ad un braccio da alcune schegge». «Mi dispiace», dissi. «Canepa è un bravo docente universitario». «Ha festeggiato con noi il suo compleanno», precisò Vita, bella nel suo abito chiaro, che tanto contrastava con i suoi occhi e riccioli neri. «Questa volta la bomba è caduta proprio vicino», spiegò Carmelina. dalla finestra illuminati dalla blanda luce lunare potei vedere i militari che lavoravano attorno all’ampia cavità provocata dalla esplosione. «È stata una vera fortuna!» esclamai. «La bomba ha danneggiato la casa del professor Canepa ma ha risparmiato la nostra». «Anche Canepa è stato piuttosto fortunato», intervenne nostro padre entrando nella stanza. di corporatura un po’ massiccia, egli era però agile e indossava un cappotto color cammello lungo sugli stivali neri. «Il tetto poteva rotolargli addosso», aggiunse. «E non sarebbe stato un gran male, che così avrebbe finito con le sue idee su una Sicilia indipendente». «Allora brindiamo allo scampato pericolo», dissi con tono allegro versando del vino nei calici di cristallo. «Alla salute di noi tutti!» esclamò il fulvo genitore, in apparenza tranquillo. «Al nostro avvenire», dissi. «Che dio ci salvi dal male», aggiunse Carmelina. «Anch’io mi unisco a Carmelina nell’augurare a tutti noi pace, salute e bene», disse il professor Giuseppe. Brindammo e ci ritrovammo a sorridere mentre Carmelina tagliava la torta di mandorle e la distribuiva nei piatti. «tu sei sempre in azione», dissi a mio padre. «Non ti fermi dinanzi al pericolo». «Ho poco più di quarant’anni e posso ancora rendermi utile... In quanto al pericolo... Quando ci bombardano, se non si va in rifugi sicuri, corriamo tutti gli stessi rischi». «Sono quasi due anni che subiamo le incursioni di aerei anglo-canadesi», commentai. 26


Noi nella bufera «E non si limitano più ad attaccare le basi militari. Uccidono anche tanti civili», disse il professor Giuseppe contrariato. «Agli sganci ciechi di bombe e agli attacchi a tappeto si aggiunge anche il lancio di ordigni a scoppio ritardato, costruiti espressamente per non danneggiare le installazioni militari, ma per uccidere chi inavvertitamente li tocca». «All’Accademia ce ne hanno parlato», dissi. «Per ingannare le vittime, questi ordigni hanno minuscole dimensioni e sono contenuti in involucri che riproducono oggetti d’uso comune. Le più impiegate sono le penne e le matite esplosive. Esse vengono facilmente raccolte e esplodono non appena toccate. Molte sono state lanciate anche nei campi di grano, in modo da colpire il contadino che le urta durante il lavoro». «Carmelina mi preoccupa», confessò il professor Giuseppe. «Spesso si sveglia gridando in piena notte». «Perché non salite a Nicolosi? Anche Vita e tu... trovereste giovamento con un po’ di riposo», proposi. «Ci andremo», promise il padre. «Anche perché circolano certe notizie su un prossimo sbarco di truppe in Sicilia». «Lo studio e le esercitazioni mi occupano dall’alba al tramonto. E tuttavia a Modena ci sto volentieri. Però vorrei sapervi al sicuro. dopo quello che è accaduto a mamma, vorrei che tu pensassi di più alla tua salute e a quella delle mie sorelle», precisai. «Qui si corrono molti rischi», ammise il professor Giuseppe. «Andremo a Nicolosi subito dopo la tua partenza. Carmelina è atterrita dai bombardamenti. Povera piccola, ha solo tredici anni». «Così anch’io sarò più tranquillo», replicai. «da noi, a Modena, non ci sono le incursioni che avete a Catania». «La guerra è violenza estrema», disse il professore. «Ma ora vai a riposare un po’. Se domattina...» «Sì, dovrò prendere il treno. Non posso rimandare». «Buona notte», gli disse il padre con tono stanco, affettuoso. «Buona notte a voi tutti», feci eco. Vita e Carmelina mi baciarono e si ritirarono nella loro camera, che dava sulla strada e dalla quale giungevano le voci dei marinai, che andavano con i camion verso la zona del porto. *** 27


Franco La Guidara Era un’alba fredda e limpida. Alla stazione ferroviaria c’erano lunghe file di soldati in attesa del foglio di via per i reparti ed i comandi di destinazione. Io già lo avevo e non passai dallo sportello dove facevano la fila. Mi accompagnavano Salvatore e le mie sorelle. Stringevo la maniglia della valigia con la mano sinistra e tenevo il cappotto con l’altra. Non ero tranquillo. Avevo come una premonizione. dissi alle mie sorelle di non attendere la partenza del treno ma di andare subito a casa accompagnate da Salvatore. «ormai mancano pochi minuti e possiamo aspettare», replicò invece mio padre, sopraggiunto in quel momento con un grosso pacco. «tieni», disse. «Aprilo quando sarai nel Continente. Sono frutti della nostra terra». «Su... su... ora andate», dissi salendo sul treno. «È meglio non stare fra tanta confusione». Guardai il cielo e indicai i due aerei che si stavano avvicinando dal mare. «Pensate se quei ricognitori .... Io sono sul treno e non corro tanti rischi. Ma voi... Andate subito nel sottopassaggio!» ordinai. «Presto! Presto! Là sarete al sicuro». Vita afferrò la sorella per un braccio e la trascinò al riparo. Giunse forte il rombo degli aerei, che rasentarono i tetti delle case e le pensiline della stazione. tra la folla che si accalcava sui marciapiedi fu un tragico parapiglia. Gli aerei in picchiata mitragliarono coloro che erano rimasti allo scoperto. Alcuni soldati trovarono rifugio sotto il treno, altri dentro le sale della stazione, nei locali del bar e della biglietteria. Scaricato il loro bagaglio di morte gli aerei si allontanarono inseguiti dai vani colpi della contraerea del porto. La stazione si animò di medici, di infermieri e di civili che si prodigarono con barelle e cassette di pronto soccorso. «Manderò le tue sorelle al sicuro, ma io resto», disse mio padre. «Qui hanno bisogno di me. Abbiamo allestito in stazione un vero e proprio ospedale». Il macchinista passò rapidamente lungo il convoglio gridando che si dovevano effettuare delle riparazioni ai binari colpiti dall’incursione. Il treno sarebbe partito nel pomeriggio e quindi tutti dovevano scendere. «devo avvertire subito del ritardo il comando di Modena», dissi. Il professor Giuseppe consigliò: «torniamo a casa, partirai 28


Noi nella bufera appena sarà possibile. Questi non sono tempi normali. Viviamo nel caos». «Siamo nella confusione più infernale. da secoli noi uomini facciamo gli stessi errori... le guerre continuano a dimostrare che in molti coltiviamo la violenza... Ma io voglio partire appena riparato il binario». «Intanto starai ancora un po’ con noi!» disse Carmelina, con la sua infantile gaiezza. «tu sei militare da poco tempo e hai ancora una forte passione civile», intervenne mio padre. «Sono contro il male... Non ritengo logicamente lecito né concepibile il fatto che un uomo armato, soltanto perché avversario, debba uccidere o far soffrire crudelmente il proprio simile», contestai. «E quando sarai al fronte?» replicò mio padre. «Farò il mio dovere», risposi. «Ma io resto nelle mie convinzioni: non si deve mai infierire». «Poco fa quegli aerei hanno crudelmente colpito anche i civili. Hanno mitragliato con cattiveria, ma hanno fatto il loro dovere», precisò il professor Giuseppe, che procedeva verso casa con incedere orgoglioso. «Anche noi avremmo fatto lo stesso». «Papà, noi ci siamo capiti sempre bene!» esclamai con voce decisa. «Ma perché quei piloti dovevano accanirsi anche contro donne e bambini?! È questo tipo di violenza contro gli inermi che disonora il genere umano». «Capisco perfettamente», replicò il professor Giuseppe. «Io sparo contro gli aerei che vengono a bombardare. So che devo uccidere, ma non ci provo alcun piacere a far centro. La mia è una logica reazione». «Papà, noi dovremmo ancora parlare del male», dissi. «Finché ci sarà la guerra, e saranno in moto macchine mostruose, scorrerà sangue sulle nostre strade». «È brutta verità», disse Vita emotiva. «Ma ora che sei con noi fino a stasera, sarà bene parlare d’altro...» Sorrise affettuosa e mi si avvicinò benevola. «Hai ragione, Vita. Rimango ancora qualche ora con voi e dobbiamo dimenticare tanti guai», dissi. «Che bello!» esclamò Carmelina. «Questo incontro dev’essere tutto nostro. Altrimenti sarebbe un vero peccato!» «Anche se non possiamo essere spensierati... nel vero 29


Franco La Guidara senso della parola», replicai. «Sono convinto che mi farete un ottimo pranzetto!» «Ci puoi contare», assicurò Vita. «Nei limiti del possibile... ti preparerò piatti prelibati». * * * Mi fermai al bar per telefonare all’Accademia. Parlai con l’ufficiale di picchetto e lo informai del mio ritardo a causa dell’incursione aerea sulla stazione ferroviaria. Poi chiamai Aurora, che era ancora a letto e fu lieta di sentire la mia voce. «ti è andata bene...», mi disse Aurora, «e mi fa piacere di saperti ancora a Catania». «Ci resterò fino alle cinque di questo pomeriggio». «Chiedile se viene a pranzo da noi», intervenne Vita con astuzia. «ti attendiamo a pranzo», dissi ad Aurora. «Sarò da voi fra un’ora», lei disse pronta. «ti aspettiamo», dissi. Poi telefonai ai due colleghi catanesi di Accademia e concordai la partenza insieme. «Ho parlato poco fa con il tenente Bianchi e mi ha detto che dobbiamo presentarci entro domani», comunicai. «Saremo puntuali», commentò Gino. «Speriamo che il nostro treno riesca a partire oggi pomeriggio», dissi. «Non possiamo permetterci un ulteriore ritardo».

* * * Aurora si comportò da brava amica. Negli occhi aveva tanta voglia d’affetto, però dimostrò che la sua amicizia e il rispetto per se stessa erano più forti a qualsiasi sentimento amoroso. Cercai di comunicare a tutti una carica di fiducia nel presente, che pure sembrava così denso di nebbie. «Siamo realisti!» conclusi mentre eravamo ancora a tavola. «Noi sappiamo che ci aspettano tante dure prove, e tuttavia dovremo trovare la forza per superare ogni ostacolo». «Soltanto con una eccezionale spinta interiore, noi potremo vincere i mali che ci opprimono», aggiunse il professor Giuseppe. «Fra pochi giorni saluteremo il nuovo anno. A tutti i più sentiti auguri di ogni bene!» «Auguri!» esclamai alzando il bicchiere colmo di vino friz30


Noi nella bufera zante. «Speriamo che le nostre esperienze in questo futuro di guerra non siano tali da stravolgere maggiormente le nostre vite». «Che presto si possa uscire dal tunnel!» esclamò Vita. «Che il ‘43 sia portatore di pace», disse Aurora in piena coscienza. «Che io possa essere con te, all’Accademia di Modena», disse serio Salvatore. «Che voi, cari fratelli, possiate essere presto a casa», disse piano Carmelina. E tutti fecero scintillare i bicchieri alla luce che invadeva la stanza. *** Soffiava un vento di scirocco tra gli aranci del giardino, che adesso gettavano le ombre sulle cavità della terra, che alcune ore prima erano state svuotare dalle bombe esplose. Aurora mi accompagnò alla stazione. Salì anche lei sul treno e fino a pochi minuti dalla partenza mi fu vicina, accanto all’amico che tornava nel Nord affascinato dall’avventura. Io non volevo crearle illusioni, ma ora lei stava scoprendo i suoi sentimenti. «Non sono capace di tante parole né di gesti plateali. Non so baciarti come saprebbe fare un’amante», mi confessò Aurora. «Ma ti voglio bene». «Sei tanto cara», replicai. «Anch’io ti voglio bene e ho un gran rispetto per la nostra amicizia». I parenti salutarono a lungo dal marciapiede. Qualcuno cercava di nascondere le lacrime. Il frastuono del treno che si allontanava spezzava tante emozioni. Scendevano le ombre della sera sulla scia del treno che affrontava le laviche e verdi pendici dell’Etna.

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Franco La Guidara UN BELLISSIMo RItoRNo V Sul treno Catania-Modena, 27 dicembre 1942 Aurora, mia amica ideale, ho negli occhi le forti immagini di una Sicilia rovente e ho nel cuore le sensazioni affascinanti di un’amata terra che ci appartiene, ci magnetizza e ci costringe a tornare indietro nel tempo e a rivivere un’adolescenza densa di periodi felici, di una giovinezza costellata di progetti e di sogni a volte intriganti che non si sono realizzati, di speranze che ora ci appaiono subdole ma che ci consentono di immaginare un avvenire con orizzonti che non siano fatti soltanto di case distrutte, di lontananze forzate, di bombe che esplodono attorno ad un treno che corre nel buio di una notte di guerra, di nebbie che occultano nemici armati in agguato, di lutti e di lacrime per le persone care uccise dalla violenza più crudele. La guerra è una grande diavoleria tecnica, maestra di scenografie orride e indimenticabili. Ho qui, seduta di fronte a me, una bella signora, giovane e bruna, tutta vestita di nero. È insegnante di educazione fisica. Ha lineamenti forti. È austera e dolce. torna nel Nord. È stata a Messina, dove era andata con la gioia di vivere e dove poi ha dato l’ultimo addio al suo uomo, che è rimasto ucciso mentre era con lei, durante una breve licenza. Ironia della sorte! Essi passeggiavano felici in riva al mare quando sono stati sorpresi allo scoperto da aerei nemici, che hanno bombardato il porto di Messina. I due giovani si erano sposati da pochi mesi. Erano entrambi di Milano. E lui era ufficiale d’aviazione. Lei ci ha fatto vedere le sue fotografie. Insieme formavano una coppia invidiabile. tu puoi indovinare quanto dolore c’è ora in questa piccola donna, che torna sola alla sua casa. I suoi occhi sono tristi e le sue labbra non sanno sorridere. La sua vita è cambiata di colpo. Io ti penso con l’affetto di chi sa apprezzare le tue doti di compagna e di amica ideale, così cara alla mia infanzia. ti sono vicino, ma non voglio impegnare la tua mente oltre certi limiti... anche perché ora io sono come uno zingaro con tante incertezze e senza una méta precisa. Anzi, in questo momento, io mi sento in corsa come la corrente di un fiume. Sì, è proprio impossibile 32


Noi nella bufera fermare un fiume in piena. Ed io, cara Aurora, finché ci sarà la guerra, correrò. dovrò correre come questo treno che è ora nel buio più fitto. ti abbraccio.

*** Fino a Napoli il treno era stato sotto la pioggia. Poi il cielo era diventato limpido e sereno e il paesaggio al crepuscolo aveva donato immagini pittoresche. Poi, dopo Firenze, con l’oscurità della notte, era scesa anche la nebbia. La stazione di Modena era sotto la neve ed era luminosa di sole. «Voi andate avanti. Io vi raggiungo subito», dissi a Gino e tonio. «ti fermi da Anna?» mi chiese Gino. «Sì, vado a salutarla». Incrociai Anna sulla soglia del bar. Aveva fra le braccia una grossa cesta infiocchettata. «Aspettami, torno in un lampo. Consegno questi zuccherini e sono da te», disse Anna baciandomi emozionata sulle guance. L’entusiasmo di Anna mi piaceva, ritrovavo a Modena un calore atteso. Entrai nel locale e sedetti al mio solito tavolo. La signora Nina mi portò una tazza di cioccolata bollente. «Ho preparato io stessa per un matrimonio quegli zuccherini», disse. «Sono un’esperta. Gli zuccherini qui si usano al posto dei confetti e sono delle ciambelline fatte con farina, uova e anice e che si cuociono in forno. Quando sono belle gonfie e croccanti si tuffano nello sciroppo. Gli sposi le distribuiscono agli invitati e le offrono anche andando di casa in casa, a parenti ed amici». Anna tornò di corsa. Si sedette accanto a me. «Hai sentito la mia mancanza?» chiese. «Come è andato il tuo viaggio?» «Ho fatto un rapido tuffo nella mia adolescenza», esordii con un aperto sorriso. «È spesso gradevole ritornare sul proprio cammino». «ti trovo più saggio. E sono certa che hai saputo consumare bene i tuoi giorni di licenza», lei replicò con grazia. «Sì, sono stato in famiglia e ho trascorso ore in buona compagnia di amici». «La radio ha parlato di bombardamenti che non danno tregua in Sicilia», lei disse. «Sì, quasi tutti i giorni ci sono incursioni. Anche ieri mattina c’è stato un mitragliamento alla stazione di Catania. Alcuni civili 33


Franco La Guidara sono rimasti uccisi...» «tu sei qui, ora, ed io sono veramente lieta per il tuo ritorno», lei disse accendendosi di rossore. Mi prese una mano in segno di affettuosa comprensione. «Si vive nel pericolo costante in tempi come i nostri», replicai. «Ma si deve reagire. tornerò da te stasera», le dissi baciandola. «ora devo presentarmi al comando... A presto, Anna». «ti attendo», lei sussurrò. «Mi dai tanta gioia. Io starei sempre con te». Si avvinse istintivamente in un gesto d’amore Sulla soglia la salutai ancora, poi mi avviai a passi svelti sulla strada nevosa. Il manico della valigia che stringevo mi ricordava di essere ancora in viaggio. Modena tornava ad essere la mia città di adozione, una splendida sede aperta all’entusiasmo di noi cadetti, dove avevo ritrovato gli occhi radiosi di Anna e il suo adorabile sorriso. Entrai dal portone principale del Palazzo e salutai la sentinella con il piglio marziale del cadetto. Il cortile era affollato di allievi che rientravano dalla licenza. Anche nelle camerate c’era la confusione piacevole degli incontri e si udivano i racconti di chi era stato protagonista in altre città. Gino e tonio avevano messo a posto anche la mia branda. «Sapete che io non lo dico facilmente. Ma questa volta mi costringete a farlo... Ebbene, vi dico Grazie!» dissi compiaciuto per la sorpresa. «È un piacere che abbiamo voluto fare all’amico», disse Gino. «Ci siamo solo limitati a sistemare un letto». «Ma avete anche lubrificato il mio fucile!» esclamai. I due amici annuirono con simpatica ironia. E Gino replicò: «Quando anch’io avrò una ragazza come Anna, non mi lamenterò se un amico mi farà un favore simile». «Sapevamo che non vedevi l’ora di tornare da lei... E allora perché perdere altro tempo in cose del genere?» «Allora vado! Lascio la mia valigia qui, sotto il letto. Ma guai a voi se... Insomma lasciatela dove sta. E buona notte!» «Vai tranquillo», disse Gino. «E non perdere più tempo. A noi basta una sola parola per afferrare il concetto... Abbiamo capito che con Anna stai vivendo un amore, mentre con Aurora... laggiù hai ritrovato solo le ore spensierate della tua fanciullezza». Mi presentai all’ufficiale di picchetto e ricevuto il permesso 34


Noi nella bufera mi allontanai sicuro verso l’uscita. Al bar, con Anna, c’era ancora la signora Nina seduta alla cassa. «C’è un bel film sentimentale al cinema», lei suggerì rivolta alla figlia. «Vale la pena di vederlo». «Se ti fa piacere... », mi disse Anna con un gesto, che era un invito ad accettare. «Certo che lo vedo volentieri», replicai. E poi, fuori del bar, dissi ad Anna: «In treno ho avuto molte ore per riflettere e per pensare a noi... Sì, a noi due, che siamo così vicini... qui a Modena». «Mi hai pensato bene?» lei chiese. «ti ho pensato tanto», disse prendendola sotto braccio. «ti ho anche desiderata... Sì... come si può immaginare... di stare insieme alla propria amante». «Non ti sembra di correre un po’ troppo?» lei sussurrò con garbo. «Con i pensieri è possibile osare... » «tu mi lusinghi!» lei esclamò contenta. «Anch’io ti ho pensato tanto. Anzi ho capito che i miei sentimenti per te sono intensi». Si fermò a scrutarmi negli occhi e mi baciò sulle labbra, senza preoccuparsi dei passanti. Al cinema sedemmo nelle ultime file. Seguimmo poco la trama del film, ero felice di stare con Anna e non mi stancavo di baciarla. «Così mi consumi», lei mi disse un po’ scherzosa tra un bacio e l’altro. «Ma mi piaci quando mi ami... Forse facciamo un peccato di leggerezza ad amarci tanto mentre è un’utopia fare seri progetti per noi...» «Non possiamo impedire al giorno di nascere né al sole di illuminare il mondo», dissi in vena poetica. «Il nostro amore è nato e deve crescere così... E aumenterà ancora... sia pure sotto un nostro equilibrato controllo. Io non posso fare a meno di baciarti... e ho tanta voglia di farlo». Lei tentava a tratti di frenare la foga, ma poi finiva per cedere e, consenziente, si lasciava accarezzare. «ora dobbiamo rientrare», lei disse quando si accesero le luci alla conclusione dello spettacolo. Guardai l’orologio e dissi: «Non abbiamo visto l’inizio del film, ma forse è bene che io ti accompagni subito a casa». 35


Franco La Guidara

Lei sorrise con allegria e disse: «Noi due andiamo d’accordo anche fisicamente...» «Ho preso con serietà il nostro incontro», mi giustificai. «tu sei capace di suscitare in me elevati sentimenti ma anche di accendere gli istinti più forti. Però... io devo darti ascolto. Non ho il diritto di coinvolgerti senza la possibilità di progetti per un domani». «Io non escludo un nostro avvenire insieme», precisò Anna con serietà. «Se così fosse io non sarei qui. Ma ora non posso azzardare progetti mentre so che tu hai ancora da affrontare due anni di accademia e quando so che in Italia e su tutti i fronti si bruciano tante vite e tanti bei sogni». «Freniamo dunque i nostri ardori», dissi conciliante mentre affrontavamo il freddo della strada nevosa». «Intanto io sono felice», lei disse convinta. «Quando sono con te mi sento bene. Quando ti rivedrò?» lei chiese sorridendo con grazia. «domani sera. Ma potrò disporre di meno tempo». Ci baciammo ancora all’ingresso del bar e poi la accompagnai nell’interno del locale, dove anche il sorriso della madre mi confermò che a Modena avevo persone che mi volevano un gran bene. *** All’Accademia trovai la severità di sempre. L’ispezione nelle camerate e nel cortile d’onore, prima della mensa e della libera uscita serale, furono caratterizzate da contrasti tra ufficiali esigenti e allievi, che non si erano sbarbati o avevano i capelli troppo lunghi. Alcuni giovani che non avevano fatto in tempo a lucidarsi le scarpe o si erano allacciata male la cravatta erano stati consegnati e costretti a ritornare sui banchi dello studio, che era come un anfiteatro ampio e poteva contenere centinaia di allievi. Poi, al tavolo della mensa, tra i gradevoli odori delle pietanze, mi sedetti fra Gino e tonio, che volevano sapere notizie sulla mia uscita con Anna. «ti vediamo molto in forma!» esclamò Gino. «Meglio di così con potrebbe andare», confermai. «Filiamo bene insieme, io e Anna. Ma siamo coscienti di un fatto: non dobbiamo crearci troppe illusioni... Finché ci sarà la guerra non sarà possibile costruire un futuro». 36


Noi nella bufera Gino.

«Bisogna accontentarsi di vivere nel presente», ammise

«Non è facile trovare l’anima gemella», precisò tonio. «E quando si è incontrata, bisogna tenersela cara». «È quello che sto facendo», tagliai corto con un sorrisetto. L’ufficiale di picchetto andava su e giù, le mani dietro la schiena, fra i tavoli della mensa. I famigli, sempre cortesi, si guadagnavano con inchini e sorrisi la gratitudine dei cadetti, che vedevano in essi non soltanto i fedeli camerieri, ma gli amici delle ore di mensa. «Ho vissuto momenti intensi tra ieri e oggi, e adesso vado volentieri a letto», dissi. «Mi fumo ancora una sigaretta e mi proietto verso quello che ci aspetta con la sveglia di domani». «Sei sempre severo con te stesso», disse Gino. «Siamo qui per diventare ufficiali. E ogni giorno dobbiamo costruire e dare qualcosa di noi per meritare tanto onore», replicai. «tu sai che anche noi stiamo facendo il possibile», disse tonio. «Anche se non siamo bravi quante te». «Niente lusinghe!» «d’accordo», disse Gino. «ti siamo veri amici... » «Buona notte, sicilianuzzi! domani, qua, si ricomincerà a sudare». Salutai con un gesto affettuoso. «Sempre a disposizione di vossìa!» scherzò Gino. «Queste note mi mancavano», concluse tonio mentre il suono della tromba iniziava, nostalgico, il silenzio di ordinanza.

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Franco La Guidara StRAtEGIA dI GUERRA VI Modena 6 luglio 1943 durante le lezioni, ampio spazio veniva dedicato al commento delle operazioni di guerra che si stavano svolgendo sui vari fronti. dopo il ripiegamento della VI armata tedesca nel febbraio a Stalingrado, nel marzo aveva suscitato interesse il rientro dalla Russia dell’VIII armata italiana per un periodo di riposo e per riorganizzare le proprie forze. A maggio la Ia armata, che era l’ultima resistenza dell’Asse in terra d’Africa sotto il comando del generale Messe, era stata costretta alla resa. «L’amarezza di questa sconfitta», commentò il colonnello, «è temperata dalla speranza di maggiori possibilità di resistenza e di vittoria nel territorio nazionale, per la vicinanza dei rifornimenti e la solidarietà degli abitanti. «Il 18 maggio ha avuto inizio una violenta offensiva angloamericana contro Pantelleria», proseguì il colonnello indicando la zona sulla grande carta geografica. «L’isola era fortificata e difesa da undicimila uomini e 180 cannoni dislocati su un terreno interamente roccioso. In soli sei giorni – tra il 6 e l’11 giugno – l’aviazione anglo-americana ha sganciato ben 5 mila tonnellate di bombe, che non hanno danneggiato notevolmente le installazioni militari opportunamente sistemate in caverna, ma hanno provocato molto spavento nella popolazione civile dell’isola. Ai quotidiani attacchi aerei, si sono aggiunti i bombardamenti navali. L’11 giugno, l’ammiraglio Pavesi, vista avvicinarsi all’isola la flotta di invasione, ha ritenuto opportuno arrendersi giustificando che "mancava l’acqua alla popolazione civile". Sull’aeroporto veniva stesa così una grande croce bianca ed il nemico ha potuto occupare la piazzaforte senza colpo ferire». «Uno che è riuscito a fuggire ha detto che una guarnigione animata da un altro spirito avrebbe potuto continuare a combattere perché l’isola era difficilmente occupabile. Inoltre negli hangars sotterranei c’erano ancora gli aerei intatti e c’erano acqua e viveri a sufficienza», gridò una voce dal fondo dell’aula. «Quello che mancava era la volontà di combattere!» «Silenzio, tenente Carlesi!» gridò il colonnello. «Subito fuori! Resti consegnato per tre giorni». 38


Noi nella bufera «Il giorno 11 si è arresa anche Lampedusa», proseguì con tono calmo il colonnello. «Il capitano di vascello Bernardini, pur essendo l’isola poco fortificata e tenuta da soli quattromila uomini, ha resistito con decisione, respingendo un primo tentativo di sbarco. «I centri più martellati dalle formazioni aeree anglo-americane sono adesso le città e i paesi della Sicilia. Ed è proprio qui che la reazione della nostra contraerea, dei caccia e della Luftwaffe è più forte che altrove e ottiene risultati brillanti». Alla fine della lezione, insieme a Gino, mi avvicinai al colonnello e gli chiesi se non ci fosse il pericolo di un prossimo attacco alle coste siciliane. «Ho capito», disse benevolo il comandante. «Vi concedo tre giorni di licenza». *** Catania, 8 luglio 1943 Alla stazione di Catania un acre odore di zolfo, trasportato da una fitta nuvola di fumo, si sprigionava dall’incendio delle raffinerie semidistrutte dagli aerei inglesi. «Adesso che sei arrivato», disse il professor Giuseppe, «sono più tranquillo. In questi giorni ci sono state molte incursioni dal mare. La nostra contraerea e i caccia hanno abbattuto oltre cinquanta apparecchi nemici. Il bombardamento di stamani ha provocato più di centocinquanta vittime. Penso che si stia combattendo una battaglia preliminare per il possesso dell’isola». Il giorno dopo, infatti, alle ore 22, trecento aerei e numerosi alianti lanciarono sulle coste meridionali della Sicilia uno sciame di paracadutisti britannici e americani. La flotta d’invasione, al largo, si apprestava a sbarcare sulle nostre spiagge le proprie divisioni. Alle ore 3,25 iniziò un intenso bombardamento aeronavale su tutta la costa, da Siracusa a Licata. Alle 4,20 presero terra i primi reparti, incontrarono resistenza da parte delle batterie costiere. Ma ben presto la superiorità delle truppe d’invasione riuscì ad aver ragione delle nostre scarse unità. La battaglia proseguì lungo le coste per lunghe ore finché vennero eliminate le nostre esigue unità. Alle ore 13 del 10 luglio stavo pranzando con i miei familiari, quando l’EIAR diffuse un bollettino: «Il nemico ha iniziato questa notte, con l’appoggio di poderose formazioni navali e aeree e con 39


Franco La Guidara lancio di reparti paracadutisti, l’attacco contro la Sicilia. La divisione italiana Livorno e la divisione tedesca Goering stanno contrastando l’azione avversaria. Combattimenti sono in corso lungo la fascia costiera sud-orientale… Gli americani sono sbarcati nel golfo di Gela, fra Licata e Scoglitti. I britannici tra Siracusa e Pachino…» «devo rientrare subito a Modena», dissi, «anche se la licenza non è terminata». «Ho sentito in giro certe voci», disse il professor Giuseppe. «Il professor Canepa proprio stamani mi diceva: “Gridiamolo forte che noi vogliamo stare soli, che dell’Italia non vogliamo più saperne!’’ I separatisti sono molti in tutta l’isola. Specie adesso, che si profila la disfatta, il movimento separatista dilaga e fa presa soprattutto sui ceti abbienti, terrieri e commerciali che intravedono nella vittoria americana l’avvicinarsi del regno della cuccagna alla costa sicula». «tra Sicilia e America ci sono rapporti di emigrazione, di commercio, di parentela e anche di associazioni a delinquere», puntualizzai. «Infatti, oggi si ricordava il dissidio di un paio d’anni fa tra vecchia e giovane mafia e quando si dovette chiamare quel noto gangster di New York, oriundo siciliano, per sistemare la questione». Suonarono il campanello alla porta. Vita andò ad aprire e fece entrare Antonio Canepa. «Avete sentito alla radio!» esordì dinamico. «È giunto il momento. Fra poco gli americani saranno a Catania!» «Noi siciliani guardiamo all’America da molto tempo», convenni. «Antonio vorrebbe far partire da Catania una ventata militarista», spiegò il professor Giuseppe. «da lui si riuniscono tutti i giorni molti universitari e anche Antonino Varvaro, che è professore di diritto. Le sue parole sono un continuo invito a passare all’azione». «È vero. Lo sostengo ormai apertamente», affermò Canepa. «Le aspirazioni di una Sicilia indipendente non possono essere disgiunte dalla costituzione di un esercito che, attraverso lotte e duri scontri, sappia tener viva la fiaccola separatista. Penso che si potrà presto costituire un primo nucleo dell’esercito volontario per l’indipendenza dell’isola. Inoltre conto anche sul fatto che i giovani siciliani disertino e si presentino sempre in minor numero alla chiamata alle armi». 40


Noi nella bufera «Come pensa di organizzare la guerriglia in Sicilia, professore?» chiesi più per gentilezza che per curiosità. «La brigata dovrebbe occupare il paese», spiegò Canepa, «disarmare i carabinieri, piantare la bandiera sul castello e sul municipio, chiamare a raccolta i cittadini suonando a storno le campane e parlare loro, spiegare il valore dell’idea morale e materiale, seminare tra loro il germe della rivoluzione, fare dei volontari; ma rispettare al massimo quella popolazione, prendere solo il necessario per nutrire la truppa, quindi preparare la trappola per le forze nemiche. distruggere le forze italiane di qualsiasi entità siano. Poi ripiegare, a piedi o motorizzati, su posizioni studiate in precedenza». «Il fatto sta», polemizzò il professor Giuseppe, «che nella testa di molti capi indipendentisti comincia a farsi strada una convinzione: per la sua giusta causa, la Sicilia ha bisogno di qualsiasi mente e di qualsiasi braccio, senza andare troppo per il sottile. da qui a certi accordi con il banditismo, il passo è breve». «Forse che polizia e carabinieri non rappresentano lo Stato italiano?» incalzò il professor Canepa. «Bene, polizia e carabinieri sono i principali nemici contro i quali bisogna duellare perché in nome dello Stato italiano, essi cercano di soffocare ogni aspirazione della trinacria indipendente». «domenica in molte chiese di Catania», intervenne Vita, «oltre i canti ecclesiastici, si è levata una preghiera: “Padre nostro… perdona a noi, come noi perdoniamo a coloro che sinora ci hanno calpestato. E non ci indurre in tentazione di riprendere le catene schiaviste che ormai abbiamo spezzato, ma liberaci dal male unitario’’». «Ho capito», dissi. «C’è chi ha l’ideale della Sicilia indipendente e quindi è convinto che si debba condurre una lotta autonoma, facendo a meno dell’apporto di forze da parte delle varie bande che agiscono nell’isola e ci sono quelli che invece rilanciano il principio machiavellico secondo cui il fine giustifica i mezzi, e quindi c’è posto per i banditi!» Antonio Canepa scosse la testa tristemente e disse: «tu non capisci o non vuoi capire. Non dimenticare che una figura emerge dal nostro passato, quella del palermitano Giuseppe d’Alesi, che si mise a capo di una rivolta nel 1647 per chiedere al re spagnolo la restaurazione degli antichi privilegi regionali. Gli spagnoli tentarono dapprima di corrompere il capo-popolo e poi sparsero voci che suggestionarono la gente dei ‘cortili’ che massacrarono d’Alesi come traditore! Bande di fuorilegge si dettero alla macchia e vi restarono per tutto il secolo, taglieggiando i 41


Franco La Guidara viaggiatori in nome dell’indipendenza della Sicilia. «Quante rivolte da allora fino alla approvata Costituzione del 1812 che, da parte della aristocrazia più illuminata dell’Isola, segnò la volontaria rinuncia ai privilegi feudali e l’inizio di una nuova politica di alleanze con la nascente borghesia contro il centralismo napoletano. Per la prima volta, dopo i giorni dei Vespri, la Sicilia ebbe un suo esercito e una sua bandiera particolare». Antonio Canepa fece una pausa e si guardò in giro per studiare l’effetto delle sue parole. «Il breve sogno ebbe termine l’8 dicembre del 1816», intervenne il professor Giuseppe, «quando Ferdinando I di Borbone che la sconfitta di Napoleone aveva ricollocato sul trono di Napoli - metteva fine all’autonomia dell’Isola, sopprimendo la bandiera e il suo esercito, e abolendo la Costituzione del 1812». «domani il giorno si leverà su una splendida giornata», riprese enfatico Antonio Canepa. «Molti uomini marceranno sotto una bandiera gialla e rossa, gli antichi colori della Sicilia, e si saluteranno militarmente levando ai bordi della coppola le tre prime dita della mano destra, a simboleggiare la mitica trinacria. Abbiamo armi, autocarri e denaro».

*** Mentre noi proseguivano il corso all’Accademia di Modena, dalla Piana di Catania a Palermo i reparti tedeschi e italiani cercavano di contrastare l’avanzata degli anglo-americani. Ma il 9 agosto iniziava il ripiegamento delle superstiti unità verso la Calabria e il 16 agosto – dopo trentotto giorni di combattimenti – aveva termine la campagna di Sicilia.

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Noi nella bufera L’ARMIStIZIo VII Lama di Mocogno, 8 settembre 1943 Eravamo in marcia di trasferimento verso Scandiano, località dove si sarebbe dovuto concludere il campo, e precisamente a Lugo di Romagna. Il colonnello Giovanni duca era nella sua tenda. Aveva udito il comunicato di Eisenhower trasmesso alle ore 18 da Radio Algeri, ed adesso era in ascolto dell’emittente italiana in attesa del proclama di Badoglio. Ci eravamo raggruppati tutti attorno alla radio. Io, Gino e tonio eravamo particolarmente ansiosi di novità sulla Sicilia, perché da luglio non avevamo più notizie dalle nostre famiglie. «Il 3 settembre», aveva detto il colonnello, «le truppe dell’8a armata britannica hanno iniziato le operazioni contro la costa calabra. L’attacco è stato preceduto da un violento tiro di preparazione: circa 150 mila colpi sono stati sparati in tre ore dalle batterie situate sulla sponda siciliana dello Stretto mentre le forze aeronavali con il loro fuoco appoggiavano lo sbarco. «Le truppe britanniche hanno occupato Villa San Giovanni e Reggio. dal giorno 4 hanno incominciato lo sbarco dei loro reparti e dei mezzi. Le retroguardie italo-tedesche hanno il compito di ostacolarne l’avanzata. «Ma la particolare conformazione geo-topografica della parte meridionale della penisola calabra», aveva continuato a spiegare il colonnello duca, «posta in relazione con la superiorità aero-navale degli anglo-americani e con l’entità delle forze di terra da essi riunite in Sicilia, ha reso, infatti, necessario portare in zona più settentrionale lo schieramento della difesa, allo scopo di impedire all’avversario di aggirarlo con sbarchi in forze facilmente attuabili più a nord e separarlo qui dal resto della penisola». Alle ore 19,42 il Maresciallo Badoglio diramò il suo messaggio: «Il governo italiano», disse, «riconosciuta l’impossibilità di continuare l’impari lotta contro la soverchiante potenza avversaria, nell’intento di risparmiare ulteriori e più gravi sciagure alla Nazione, ha chiesto un armistizio al generale Eisenhower, 43


Franco La Guidara comandante in capo delle forze anglo-americane. La richiesta è stata accolta. Conseguentemente ogni atto di ostilità contro le forze anglo-americane deve cessare da parte delle forze italiane in ogni luogo. Esse però reagiranno ad eventuali attacchi da qualsiasi altra provenienza». Ci furono momenti di euforia: si correva dall’uno all’altro abbracciandoci, si sognava la pace. Il colonnello duca si mise immediatamente in contatto con il Comandante Generale Alberto terziari e il Capo di Stato Maggiore Colonnello Guelfo debbi dai quali dipendeva tutto il territorio dell’Emilia. «Il comando difesa territoriale ha ricevuto il mattino del 3 settembre lo stralcio della Memoria 44 non contenente compiti specifici oltre quelli generici», informò il generale terziari. «La sera del 7 mi è pervenuta a mezzo ufficiale la Memoria 45». «Ci sono istruzioni per le scuole di guerra e per la nostra accademia?» chiese il colonnello duca. «Con l’annuncio dell’armistizio dobbiamo intensificare la vigilanza. Ho qui un comitato cittadino che chiede di impiegare volontari bolognesi nella lotta contro i tedeschi ma devo rifiutare. Ho ordinato che le truppe rimangano consegnate nelle caserme». Il colonnello duca rimase perplesso: effettivamente nel messaggio dell’armistizio non c’era l’incitamento al popolo di resistere ai tedeschi. Alle ore 20 fu comunicato al colonnello duca, via telefono, che ufficiali tedeschi si erano presentati al comando dell’Accademia richiedendo la collaborazione o il disarmo degli allievi ufficiali. Attendevano una risposta entro poche ore. Alle 21,40 il Capo di Stato Maggiore colonnello Guelfo debbi telefonò al colonnello duca. «Ho ricevuto ora dal comando supremo due distinti messaggi», disse. «Il primo per comunicare l’avvenuta conclusione dell’armistizio e il secondo contenente le condizioni dell’armistizio. Non ci sono altre disposizioni». Giungevano anche nuovi ordini via radio. Alle ore 0,20 il comando supremo, avendo costatato che il suo pro-memoria n.2 non era pervenuto a tutti gli interessati, diramò un dispaccio nel quale, dopo aver ripetuto gli ordini dello stesso pro-memoria confermava anche quello di «non prendere l’iniziativa di atti ostili contro i tedeschi». dieci minuti dopo, alle ore 0,30, il generale Roatta diramò l’ordine, sempre via radio, per la raccolta dei reparti «almeno per 44


Noi nella bufera battaglioni» per la repressione di eventuali tentativi di sedizione. Ma alle ore una arrivò un nuovo ordine: «A tutti i comandi che hanno ricevuto la Memoria. Ad atti di forza reagite con atti di forza». La notte proseguì movimentata. Si interruppero le comunicazioni con il comando di Bologna. Furono mandati due allievi motociclisti in borghese in esplorazione. All’alba fecero ritorno comunicando che avevano trovato un intenso movimento di forze motocorazzate tedesche lungo la via Emilia, forze già dislocate a Casalecchio di Reno, Budrio e Bazzano convergenti verso Bologna. Qui i tedeschi avevano occupato i punti più importanti e il Comando era stato catturato. Posti di blocco e sbarramenti erano stati costruiti sulle strade di accesso. Nessun ordine poteva quindi essere emanato dal Comando difesa e praticamente tutti i presidio militari dell’Emilia, praticamente isolati, rimasero disinformati sul corso degli avvenimenti. Lama di Mocogno, 10 settembre 1943 «Ascoltate», disse l’ufficiale addetto alla radio al colonnello. «C’è un messaggio che interessa tutti noi». «Italiani, da due giorni l’Italia si trova in balìa delle orde germaniche e dei delinquenti fascisti. oggi, il Capo di Stato Maggiore Generale ha annunciato che gli appartenenti alle bande partigiane militari, nella penisola occupata dai tedeschi, sono considerati come appartenenti alle forze armate italiane e quali combattenti regolari in servizio militare, in zona di operazioni». da Modena giunsero al colonnello duca cattive notizie: gli allievi dell’Accademia erano stati rinchiusi dai tedeschi nella Cittadella subito dopo l’armistizio, ma per fortuna dei ragazzi, che abitavano nella casa vicina, avevano scoperto che attraverso una fogna si poteva arrivare nell’interno della Cittadella. E così, provvisti di torce e con una pianta dei cunicoli, erano riusciti a far evadere alcune decine di allievi prigionieri. Lama di Mocogno, 11 settembre 1943 Un ufficiale uscì dalla tenda e gridò a noi allievi: «Venite presto, alla radio ci sono altre notizie». La trasmissione era disturbata, ci sedemmo in silenzio e ascoltammo con attenzione. «…Vi leggiamo il messaggio del re: 45


Franco La Guidara "Per il bene supremo della patria, che è stato sempre il mio primo pensiero e lo scopo della mia vita, e nell’intento di evitarle più gravi sofferenze e maggiori sacrifici, ho autorizzato la richiesta dell’armistizio. "Italiani, oggi per la salvezza della capitale e per poter pienamente assolvere i miei doveri di re, col governo e con le autorità militari mi sono trasferito in altro punto del sacro e libero suolo nazionale…"» «Allora è scappato!» esclamò un ufficiale. «Non si poteva proseguire la lotta contro la potenza degli americani», commentò un altro. Era stato da poco trasmesso il messaggio quando il colonnello duca ci chiamò tutti a rapporto. Egli esordì: «Signori ufficiali. Le forze armate hanno prestato giuramento al re e solo al re ubbidiscono e ubbidiranno, nessuno ha il potere e il diritto di sciogliere le forze armate dal giuramento prestato. Purtroppo intimidazioni ai comandi, azioni di forza e di propaganda vengono fatte dai tedeschi con rapidità ed energia, ovunque. Qualche incertezza e soprattutto la sorpresa dominano molti nostri comandi e reparti. Siamo privi di direttive e di ordini. La situazione si sta aggravando anche per la numerica preponderanza delle forze tedesche. Ne derivano improvvisi cedimenti e sbandamenti. Signori, da questo momento siete in libertà! Rendete inservibili le armi, procuratevi abiti civili e, cosa più importante, non collaborate con i tedeschi». Un coro di disappunto si sollevò dalle file. «Signori ufficiali», proseguì il comandante. «da parte mia, in attesa di ordini precisi, affiderò i cavalli a dei contadini. Anche lo stendardo del reggimento sarà affidato a persona di fiducia. Pure il personale si può considerare in licenza. Buona fortuna!» Alcuni allievi romagnoli attorniarono il colonnello duca e lo seguirono a bordo di camionette per la strada che conduceva all’Appennino. Gli altri presero la via dei campi, attenti a restare fuori tiro dei tedeschi che con moto, camion e carri armati percorrevano le vie principali. *** In bicicletta procedevamo sul sentiero non asfaltato. Avevamo comprato degli abiti borghesi dai contadini dei dintorni. «Allora», disse tonio. «Ci proviamo a prendere un treno?» «Certo», scherzò Gino, «se non vogliamo arrivare a Roma con questi ferrivecchi». 46


Noi nella bufera «Che ne direste, se prima di andare alla stazione passassi un attimo a salutare Anna?» chiesi. «ti accompagniamo», risposero i due amici. «Non vogliamo perderti a Modena». Giunti all’inizio della strada vedemmo il bar stracolmo di tedeschi, molti seduti anche ai tavolini messi fin sul centro della carreggiata. Ridevano e sghignazzavano e lanciavano frizzi a quelli che passavano. Anna stava servendo ora a quello ora all’altro tavolo. «Addio, Anna!» mormorai. «Maledetta sia la guerra».

*** Arrivò un treno da Roma, era carico di militari. dicevano che i tedeschi controllavano tutte le stazioni e prendevano prigionieri i soldati e li spedivano in Germania, dicevano che Badoglio e i generali erano fuggiti. Era scappata anche la famiglia reale. «Che facciamo? Aspettiamo ancora un treno?» chiesi ai due amici. «Iamuninni!» disse Gino. «Andiamo!»

*** Era già notte quando decidemmo di fermarci. La stanchezza era tanta e ci distendemmo tra le zolle, sulla terra da poco arata, l’uno vicino all’altro, avvolti nella coperta militare. La notte era fredda e la terra umida. Ci svegliammo presto, un po’ rattrappiti. Raccolsi dell’uva e la mangiammo seduti su un muretto. Per tutta la mattina proseguimmo su strade lontane dalla principale. Nel pomeriggio proposi agli amici di avvicinare dei contadini che stavano sull’aia e sgusciare delle pannocchie. L’uomo ci fece entrare in casa e ci riempì la borraccia d’acqua fresca. La moglie ci dette delle fette di pane e gentilmente rifiutò il denaro che le offrimmo. Nella tarda serata eravamo alle prime case di un paese quando venimmo fermati da una pattuglia fascista. «C’è il coprifuoco. Non lo sapevate? Allora fuori i documenti!… Non li avete? Allora si va in caserma», disse quello che sembrava il capo. Ci scortarono sulla strada principale. Capimmo che l’identificazione significava arresto, perché provenendo dall’Accademia di Modena i militi avrebbero creduto che fossimo entrati nella 47


Franco La Guidara clandestinità. Bisognava agire presto. Ma come? Sulla strada incrociammo due ragazze, carine, sveglie. Gli strizzai l’occhio, ammiccando verso i due fascisti. La ragazza bruna fece cenno di aver capito. «Federale, ma che fate?» disse la ragazza bruna con tono faceto. «Arrestate mio cugino? E chi lo dice a zia Lella!» «Il figlio della signora Lella?» borbottò confuso il fascista. «Come sei cresciuto. Non ti avevo riconosciuto. Vai va! Ma sta’ attento. Soffia brutto tempo». Si allontanarono. Ringraziammo la ragazza bruna che si chiamava ottavia. «Questo pomeriggio si è verificato un fatto gravissimo», lei disse. «Hanno ucciso un capo della milizia, ma sono riusciti a fuggire. Perciò l’improvviso coprifuoco e i posti di blocco. dove siete diretti?» chiese ottavia. «Verso Roma», intervenne Gino, che non la finiva di ringraziare. «Le notizie radio non sono incoraggianti», disse Marzia, l’altra ragazza. «Più di duecento ferrovieri tedeschi hanno preso possesso degli impianti ferroviari di Bologna e hanno sostituito quelli italiani in tutti i servizi». «Non vi consiglio di andare ad Imola né a Rimini perché i tedeschi hanno bloccato gli ultimi treni in movimento della divisione Legnano, provenienti da Bologna e diretti in Puglia», aggiunse ottavia. «Ragazze», esclamai cercando di essere scherzoso, «ma non ne avete di buone notizie? Noi dobbiamo raggiungere a tutti i costi gli alleati americani». «Credo proprio di no», ipotizzò ottavia. «Perché dopo aver occupato Bologna e Rimini, il corpo corazzato germanico è in movimento dal valico della Futa su Firenze». «Forse è meglio che vi fermiate a casa nostra questa sera», disse Marzia. «Altrimenti il federale non crederà alla storia del cugino». «Mio fratello è con i partigiani», informò ottavia. «da loro potrete avere notizie più precise».

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Noi nella bufera SULL’APPENNINo VIII Appennino tosco-Emiliano, 13 settembre 1943 dopo tanto sole, che per lunghe ore aveva assalito la montagna, faceva bene sentire sulla pelle il vento mite del crepuscolo. Il silenzio era nei burroni e sui precipizi; e nelle case si vivevano ore di quiete e d’amore. Nella strada, i muli trainavano carri e il cigolio si perdeva nel rumore di un torrente. La zona era libera dai tedeschi, i partigiani potevano avvicinarsi alla montagna e guidavano i muli verso i larici fitti. Sulla strada sassosa in salita gli uomini spronavano gli animali e a tratti li aiutavano tenacemente, con i loro muscoli, perché i carri erano pesanti e affondavano nel fango. Sui carri c’erano mitragliatrici e proiettili, scatole di carne, pane e medicinali. I carri erano coperti di fieno, ma si vedeva subito che portavano armi perché i muli faticavano troppo e tirarli. Le ruote dei carri oscillanti lasciavano solchi profondi e facevano schizzare le pietre nel sentiero che saliva ripido tra le baite. L’asprezza del giorno si spegneva in onde lievi di musica, e nei grembi delle ragazze già palpitavano gioie notturne contro la tristezza e la paura. In tutti si ridestavano speranze. Quelli che erano rimasti di guardia, soli e all’erta, scrutavano dall’alto come emigranti braccati nell’esilio. Riuniti in cerchio con i partigiani, riparati nei rifugi tra le alberi, riposavamo tranquilli. Poco distante, un gruppo di daini scavava la terra morbida e destava la curiosità dei più giovani, che con rustiche fionde facevano il tiro a segno contro le cime dei pini. Un partigiano uscì dalla casa e gridò: «Arnoldo ha captato un nuovo messaggio». Arnoldo, che era l’addetto alle trasmissioni, era riuscito a sintonizzarsi su una stazione che trasmetteva contemporaneamente in tedesco e in italiano: «Reparti di paracadutisti e truppe di sicurezza germaniche, unitamente a elementi della SS hanno condotto a termine una operazione per liberare il duce, che era tenuto prigioniero dalla cricca dei traditori. Ieri, 12 settembre, l’impresa è riuscita. Il duce si trova in libertà. In tal modo è stata sventata la sua progettata consegna agli anglo-americani da 49


Franco La Guidara parte del governo di Badoglio». «Se ci fossimo stati noi a sorvegliarlo, non sarebbe successo», commentò dario che era il capo. «dieci di noi valgono più di un battaglione». «Appena saputo dell’armistizio, tutto lo scacchiere bellico tedesco si è messo in moto come una macchina perfetta», disse Ernesto mentre gettava legna nel camino. «La radio ha detto che nel Veneto le truppe germaniche hanno sgomberato ponti e viadotti dai nostri soldati per permettere agevolmente il transito dei loro reparti motorizzati provenienti dal Brennero», informò Arnoldo. «Ad Alessandria, in Piemonte, una sola compagnia tedesca ha disarmato seimila soldati, mentre altre caserme sono cadute alla prima intimazione di deporre le armi: così anche ad Aosta, Alba e Mondovì». «Le industrie sono distrutte, le ferrovie paralizzate, impossibili anche i rifornimenti di viveri», disse dario. «Quello che fanno i tedeschi spingerà molti giovani a raggiungerci sulle montagne», disse Ernesto. «Io ho un conto aperto con i nazisti», confessò con voce roca Nadia, che era la ragazza del capo della banda. «Ma non è solo per vendetta che continuo a lottare». «tu sei molto giovane ma decisa», le dissi. «Stai rischiando per eliminare la violenza, che umilia la nostra gente». La ragazza mi guardò sorpresa. Poi confessò: «Sono appena tornata da una fortezza d’odio nazista. Porto ancora addosso il tanfo di un uomo straniero». Nadia tacque. Era desta. Si specchiava nei sogni. Camminava felice sulla strada che costeggiava il torrente, dove stormivano i larici e dove la luce sconfiggeva inganni e paure. Aveva dei giornali sotto il braccio, li stava andando a portare, come ogni giorno, al comando tedesco. Il solito ufficiale era occupato ed era stata fatta entrare in un locale pieno di casse di munizioni e di fucili mitragliatori. Si scorse timorosa, in attesa in un angolo della stanza. Poi rivide l’uomo che le si avvicinava avido e le cingeva la nuca, le metteva una mano sul ventre con violenza. Si vide mentre ansiosa di liberarsi, era scattata fino a far vacillare l’uomo, che era tornato su di lei strappandole la camicetta. «Se non accetterai con le buone maniere, ti avrò con la prepotenza», aveva minacciato l’uomo con tono aspro, crudele. 50


Noi nella bufera Nadia aveva disprezzato la squallida proposta. Aveva detto: «Io non sono una donna di strada! Non cedo, mansueta, a chi non ha il diritto di toccarmi». «tu mi odi perché io sono tedesco. Non è così?» Lei aveva scosso il capo. Rifiutava fermamente di diventare l’umile preda di un nemico-padrone che, con lei, voleva saziarsi di piacere. L’aveva afferrata per la gola e aveva cercato di gettarla sulla scrivania. Nadia aveva oscillato solo per un attimo poi si era ribellata alla violenza fisica e alla morte. Nella sofferenza aveva trovato la forza di sollevare le ginocchia contro l’uomo e di colpire sino a costringere l’aggressore a mollare la presa con un gemito di dolore e di rabbia. Il tedesco aveva impugnato la pistola. «Mi hai offeso nell’orgoglio, piccola sgualdrina!» aveva sibilato sprezzante. «ti spaccherò il cuore». Nadia aveva compreso di non avere possibilità di sfuggire all’ira del militare. «Io non mi chinerò al tuo volere», aveva detto con superbia. «Preferisco morire». Con uno scatto nervoso egli aveva affondato le mani nei seni bianchi della giovane che non aveva accettato il nuovo affronto e aveva sputato contro l’uomo che seguitava a minacciarla con la pistola e pretendeva amore nella più feroce discordia. «Se starai con me, ti lascerò andare», egli aveva proposto. «Non ti credo. E, comunque, la tua generosità non mi tenta». «tu sfidi la mia pazienza», egli aveva minacciato. «Sei arida come la sabbia… o forse… Forse tu vuoi sapere qualcosa da me e ti fai pregare». Nadia aveva colpito ancora il tedesco. «Sei bella! Sei bella anche quando ti arrabbi», egli aveva detto ironico. «ti condurrò con me, in Germania, se sarai compiacente stasera». La pistola le premeva contro la nuca. Nadia aveva la certezza che l’uomo l’avrebbe uccisa. Simulando calma aveva detto con tono amichevole: «Pretendi che io vibri d’amore sotto la minaccia di una pistola. ti stai comportando come un barbaro». Confuso, l’uomo aveva abbassato l’arma. «Non sono un vile», aveva detto. «Mi sono infuriato con te perché mi sei stata subito ostile. Sì, tu vedi un me solo il nemico. Però tu sei bella e mi piaci». 51


Franco La Guidara L’ira del tedesco si scioglieva dinanzi alla nuova realtà: guerriero-nemico, aveva tentato di violare la carne di una giovane donna che aveva grandi occhi verdi e limpidi, capaci di esprimere anche bontà. «Io partirò domani», aveva detto. «ti porterò con me… Io ho… dovrei ancora avere una villa vicino ad Amburgo. dopo la guerra riprenderò il mio lavoro... Sono architetto». Lei lo aveva guardato svagata mentre cercava di aggiustarsi la camicetta. «Abbiamo tempo fino a domani», le aveva detto dandole un impermeabile. «Copriti!» Nadia lo aveva indossato e seguitava a scrutare il tedesco. Non era proprio brutto. Era grossolano, brusco, rosso di pelo e di pelle, violento e capriccioso, ma non aveva più negli occhi scuri lucenti quella forza animale che aveva suscitato in lei tanta collera e paura. Convinto che lei non avrebbe cercato di fuggire, egli era andato dietro la scrivania. taciturno aveva controllato alcuni documenti che poi aveva messo in una borsa di pelle. Aveva preso il telefono e, formato il numero, stava attendendo la comunicazione. Nadia vide un tagliacarte fra i fogli sparsi sulla scrivania. Lo impugnò rapidamente e con forza colpì alla gola l’uomo, che si accasciò senza un grido. Chiusa nell’impermeabile militare, si calcò sui corti capelli un berretto. Furtiva uscì e seppe superare la barriera di soldati che pattugliavano la caserma.

*** Nadia tacque. I ricordi erano ancora troppo dolorosi e vivi. Andò al focolare e portò dei piatti con minestra fumante. Il lungo tavolo di rovere odorava di frutta secca, di terra e di neve. La lampada al centro lanciava raggi che favorivano le labbra a sommesse voci. La sera, parlando da Radio Bari, Badoglio affrontò per la prima volta e senza equivoci, il tema della guerra antitedesca. «Ricordatevi», disse, «che contro reparti più consistenti, resta alle nostre truppe e alle nostre popolazioni l’arma terribile della guerriglia: datevi alla macchia, tagliate le comunicazioni, fate saltare i ponti e i depositi, gettatevi addosso ai mezzi e agli uomini isolati. E soprattutto non cedete, non disanimatevi, tenete duro. oggi, abbiatelo ben presente, resistere non significa altro che esistere». 52


Noi nella bufera AZIoNI dI GUERRIGLIA IX Appennino tosco-Emiliano, 4 ottobre 1943 Erano trascorse tre settimane di pioggia, cadenzate da attacchi sporadici ai nazifascisti, e le chiome delle montagne erano tornate a tingersi di sole. Un aereo aveva paracadutato dei viveri e dario era ansioso di riprendere la battaglia. Nadia era stata colpita ad una spalla, ma era guarita in fretta ed era tornata ad essere la compagna di sempre. Era bellissima nella luce del sole al tramonto, era forte della propria giovinezza. Sentiva il vento che frugava tra gli aghi nitidi dei pini e rifletteva ansiosa contro le nuvole che precipitavano nella valle. Passi di uomini andavano verso la vetta. Erano otto figure silenziose. Erano prigionieri e serravano fra le mascelle l’asprezza della sconfitta. Si sentivano predoni sgomenti e delusi, derelitti nella notte che iniziava. Avevano bruciato e perduto la propria libertà e le proprie bandiere e ora andavano a testa bassa, verso la morte, umiliati anche dalle grida degli aironi che si avventavano contro invisibili prede. Qualcuno si faceva lusingare dall’effimera voglia di fuggire verso la valle, ma era subito ripreso e vedeva svanire l’ultima speranza in una rovina di dolore fisico. «Ho nella lingua un forte sapore di fiele», disse Nadia osservando la fila che saliva. «Sento sibilare nell’oscurità la crudeltà dei bracconieri». «Hanno una loro legge. devono uccidere ancora», commentai. «Non si daranno per vinti…» lei replicò. «Sono sempre crudeli». «tanti sono ragazzi e sanno poco o nulla della vita. Però hanno già conosciuto il male». «Sanno infierire», lei insisté. «tu non riesci a dimenticare», dissi. «No», lei osservò turbata. «Non ho pietà. Non vogliono credere di aver perduto e sono diventati peggiori». 53


Franco La Guidara «Per loro questa è l’ultima notte sulle nostre montagne», dissi. «Hanno seminato lutti e tristezze», lei precisò con amarezza. «Sono riusciti a far ululare gli uomini più buoni. ora, dopo tanto massacro, io vedo finalmente il loro crollo». Faceva freddo, mi coprii col cappotto. Alcuni spari echeggiarono dalla vetta. tonio e Gino uscirono di corsa dalla baita. «Giustizia è fatta!» commentò Nadia.

*** dario aprì gli scuretti della finestra. «Mancano quasi tre ore alla luce», disse. «Pensi che riusciranno a passare?» chiesi. «No! Ce la faremo a fermarli», egli disse con durezza. «dovremo ucciderne ancora tanti?» chiese Nadia. «Saremo costretti a farlo. Anch’essi ci hanno dilaniati». dario era nevoso e lei aveva ancora sulla lingua quel fastidioso sapore di bile. Stringeva fra le mani il mitra e aveva negli occhi cupi il ricordo della violenza. Si alzavano dal fondo valle i fumi di piccoli incendi e s’ingigantivano i crepitii delle armi da fuoco. Nadia uscì sullo spiazzo. «Anche i partigiani di Marco stanno facendo giustizia», disse a voce alta. Sentì una fitta nella gola e nel cuore. «Quelli che riusciranno a passare dovranno vedersela con noi», ribatté dario morso dall’ansia di combattere. «Non devono giungere al paese dove sono prigionieri i nostri compagni. Se arriveranno i rinforzi noi non riusciremo a liberarli». dai rifugi uscirono tutti gli uomini. Anche i feriti chiesero di partecipare all’azione. «Vengo anch’io!» gridò Arnolfo che aveva la gamba destra lacerata da una scheggia. «Li prenderò di mira e li ucciderò uno per uno… Sì, come si spara sul volo degli uccelli». Un po’ di nebbia proteggeva i camion dei soldati nemici che stavano per imboccare il ponte sul fiume. «Non c’è più spazio per quelli», disse dario mentre con il binocolo osservava i due automezzi. «ormai sono in un anello di morte». 54


Noi nella bufera Il ponte saltò in aria frantumando i sogni di una quarantina di giovani tedeschi. «Eseguiamo tutti degli ordini», commentò Nadia mentre apriva con il pugnale una cassetta di munizioni. «A me non piace uccidere… No. ora io non vorrei più sparare. Ma quelli… quei maledetti, andavano ad ammazzare tanti altri nostri ragazzi!» «Sì», dissi convinto. «Li costringeremo a tornare indietro».

*** Nella pianura verde ondulata gli occhi del capomanipolo Serandini scrutavano instancabili. Le voci erano come spente. L’attesa non era stata vana. Si riaccendevano le speranze dei fascisti di catturare quei soldati pellegrini di montagna, che avrebbero tentato di fare uscire i loro compagni dalle celle. L’ira dei fascisti era feroce. Il capomanipolo disse: «Basta con le indulgenze! Non facciamo prigionieri! Quelli che non moriranno in battaglia verranno passati per le armi». «Li fucileremo alla schiena», disse un milite anziano, alto e con i capelli bianchi. Nascosti nell’erba folta, i fascisti attendevano che i partigiani facessero il balzo decisivo verso la prigione. Infine li videro strisciare nei pressi del frantoio. L’insidia, adesso, era vicinissima. Il capomanipolo puntò l’arma contro il primo dei partigiani che ogni tanto alzava una mano per esortare i propri amici a seguirlo. Quel partigiano era slanciato e magro e aveva una bella faccia. Portava a tracolla, sulla giubba verde, munizioni e bombe a mano e stringeva fra le mani una mitraglia. Il capomanipolo ebbe la certezza di poterlo colpire. Ma non volle sparare. Attese. Continuò a seguire i movimenti del partigiano, che ora socchiudeva i suoi limpidi occhi azzurri contro la luce nascente dell'alba. «Non sanno che siamo qui ad aspettarli», disse il capomanipolo al milite con i capelli bianchi. «Chi ci ha informati… era ben sicuro. Sono pochi e non avremo difficoltà a fermarli». «Non sappiamo se altri sono pronti ad agire… La montagna è vicina». «Sì», disse l’ufficiale fascista. «Forse non sono soli. Perciò dovremo agire con rapidità». dario, curvo tra l’erba alta, andava sicuro verso la prigione, che era la vecchia caserma dei carabinieri tra casupole di contadini. 55


Franco La Guidara «Ho portato con me tutti i militi», disse il capomanipolo. «E ho lasciato i partigiani prigionieri in custodia a ragazzi che non hanno mai sparato un colpo di moschetto. Sono volontari che non hanno frequentato i corsi di addestramento». «La guerra non si fa con i minorenni», commentò il milite con voce aspra. I partigiani si sparpagliarono nella pianura costellata di abeti. I più veloci giunsero ad un centinaio di metri dalla casermetta e poi cominciarono a correre allo scoperto. Il capomanipolo dette il segnale del fuoco. Puntò la sua arma contro il partigiano più vicino e sparò con mira puntigliosa. Il partigiano era molto giovane, biondo, magro e si accasciò senza un grido. La lotta fu subito feroce. La banda fu costretta a battersi su due fronti. dario riuscì a trascinare alcuni uomini verso la prigione e spezzò la debole ragnatela difensiva che sparava dalle finestre. Gli altri continuarono a far fuoco contro i fascisti appostati lungo il fiume e dietro le case vicine. In breve dalla porta della caserma uscirono una decina di partigiani, che i compagni rifornirono di pistole e pugnali. La lotta proseguì anche all’arma bianca. Con odio e violenza ognuno cercava il proprio uomo da colpire. C’era chi sparava alla schiena dell’avversario perché aveva paura e fretta di uscire vivo dallo scontro. I più deboli e sfortunati perirono. Gli altri furono divisi dalle bombe di mortaio che Marco diede ordine di tirare attorno alla zona della caserma per consentire ai partigiani di sganciarsi. Marco aveva visto che la banda era in difficoltà e, secondo gli accordi, aveva deciso di rischiare. A gruppi, i partigiani raggiunsero le pendici del monte senza subire altre perdite. Mentre alcuni si ritiravano rapidi gli altri tenevano impegnati i militi. Poi Marco, dall’alto, fece entrare in azione i mitraglieri e costrinse i fascisti più caparbi a desistere dall’inseguimento. Il capomanipolo era ferito ad un braccio e gridava contro la montagna, da dove i partigiani seguitavano a sparare e facevano rotolare massi sugli avversari. «Verremo a prendervi lassù. Vi metteremo le catene... vi impiccheremo tutti!» «Abbiamo perso molti uomini», poi commentò affannato il milite con i capelli bianchi. «Sono caduti i migliori». 56


Noi nella bufera «Li vendicheremo», disse il capomanipolo. «Questa lotta tra di noi è atroce e mi fa schifo. Ma io non posso sopportare… Non posso concepire la sconfitta». I fascisti raccolsero i feriti e si allontanarono con gli automezzi, che erano stati mimetizzati nel vicino bosco di larici. «Questo borgo», confidò il capomanipolo al milite, «mi ricorda un felice inverno di cinque anni fa. Su queste rive io conobbi la mia compagna. Allora sul fiume passavano le barche colme di fiori, di frutta e di luci. Mia moglie era una fanciulla». «ora le baite sono ostili e quasi deserte», disse il milite dai capelli bianchi. «Non c’è sicurezza con questi partigiani sempre pronti a colpire». *** Con cori cadenzati, che si moltiplicavano in echi fra le rocce, lassù gli uomini di dario ripercorrevano le piste della notte. Vicino alle baite i partigiani si erano riuniti a gruppi accanto ai fuochi e mangiavano e bevevano. Nadia e un’altra ragazza riempivano le ciotole di fumante minestra. dario chiese: «Ci siamo tutti?» «Guido e Livio non sono tornati», rispose Arnoldo. «Sono stati feriti gravemente?» domandò ancora. «Capo», si scusò il partigiano che si chiamava Ernesto, «tu mi avevi dato ordini precisi». «Sì, ti avevo detto di lasciare sul posto i feriti gravi per evitare una maggiore perdita fra i compagni. La nostra guerriglia non consente pietismi», commentò dario pensoso. «Abbiamo ucciso ancora. Non possiamo ignorare i princìpi per i quali ci stiamo battendo». «torno a vedere se sono soltanto feriti», propose Ernesto alzandosi. «No, tu sei stanco. Hai già fatto troppo e non è il caso che torni a valle». «Vado io con tonio», dissi convinto. dario accettò. «Alfredo ti farà da guida. Se Guido e Livio sono rimasti feriti portateli dai fratelli Cini, che hanno un ambulatorio. Ho la rabbia nel cuore», aggiunse dario. «La guerriglia è appena iniziata e noi siamo nel vento più impetuoso della lotta».

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Franco La Guidara RoMA, CIttà APERtA X Roma, 13 ottobre 1943 Alle nove di sera giungemmo nel cuore di Roma. Via Veneto era sbarrata da transenne e picchettata da tedeschi armati di mitra. Pochi gli avventori nei locali di via del Gambero e di Via Condotti. «ormai ci siamo. Andremo da mio zio per avere qualche biglietto da mille, ma non per restarci. Roma non fa per noi», dissi a Gino. «È vero», ammise. «È pericoloso indugiare in queste zone». «tonio aveva ragione. ormai Roma è una città proibita per noi. Nei suoi scrupolosi consigli c’è, forse, un po’ di paura», obiettai. «Si è fermato in quella bettola a Stazione termini per evitarci dei guai… tre giovani, a Roma, avrebbero attirato di più l’attenzione. Noi, in due, già siamo autentici bersagli», polemizzò Gino. «Finora siamo passati inosservati», commentai. «Guarda! Siamo quasi arrivati al numero trentaquattro di via Frattina». Il portone era socchiuso e tuttavia volli avvertire i miei parenti con uno squillo del campanello. In breve fui al primo piano e mi trovai al cospetto di zio Giuseppe, che mi abbracciò con affetto. «Sono tanto lieto che tu sia qui», egli disse. «E questo chi è?» chiese scrutando il mio amico. «È Gino, mio compagno d’accademia... È studente in medicina e si è arruolato per diventare ufficiale... Ma ora, dopo l’armistizio...» «Anche voi in mezzo alla strada!» esclamò con un sospiro zio Giuseppe. «Ma entrate... la zia è in cucina. Metteremo altri due posti a tavola». Zio Giuseppe si mosse nel lungo corridoio, verso la sala da pranzo. «È stato ferito sul fronte del Piave», spiegai a Gino. «Si è guadagnata una medaglia d’argento». «Mi pare di ricordare», disse Gino. «Mi hai raccontato che con il suo pezzo riuscì a fermare un intero plotone austriaco». 58


Noi nella bufera «Andò proprio così», dissi indicando lo zio con un certo orgoglio. «Fu ferito alla gamba sinistra e, come vedi, è rimasto un po’ claudicante». Zia Nella era una piacevole signora dai capelli castani ricci, gli occhi chiari sorridevano nel volto grazioso. «Ci voleva l’armistizio per rivederti a Roma, caro nipote», lei disse facendosi baciare sulle guance accese dal calore del fuoco. «tu e il tuo amico avrete fame. In un attimo vi faccio un buon piatto di fettuccine». Annuimmo entusiasti, e alle loro spalle zio Giuseppe aggiunse: «Ma sì, un abbondante piatto con melanzane e ricotta salata...» «Il mio preferito...», insinuò Gino. «Il tuo amico s’intende di cucina... Ma vi avverto. Qui, a Roma, il terreno brucia sotto i piedi. Ci sono troppi scarponi chiodati», commentò zio Giuseppe. «La città è fuoco per noi giovani. Perciò non resteremo qui stanotte... Sono venuto per il piacere di rivederti e perché... ho bisogno di un prestito». «Prestito?!» scherzò zio Giuseppe mentre, seduto a tavola, cominciava ad assaporare un bicchiere di vino bianco. «Con me non devi usare parole simili. Sono tuo zio! Ho il tuo stesso cognome e, soprattutto il tuo stesso sangue. Quanto ti serve?» «Siamo in tre e dovremmo arrivare fino in Puglia. Penso che con trentamila lire dovremmo farcela». «te ne darò il doppio... e per me non è un grosso sacrificio. tu sai che posso farlo. Anche se stiamo attraversando tempi difficili». Guardammo la tavola imbandita e zio Giuseppe, che capì, disse: «oggi è una giornata diversa. Stamani da Frascati mi hanno portato farina, frutta, vino e verdura. Erano giorni che non si vedeva tanto ben di dio. È diventato difficile anche procurarsi da mangiare. Alla borsa nera non vogliono più i nostri soldi. Vogliono gioielli, quadri, mobili. Pensa che per un paio di chili di salsicce e un quintale di patate mi avevano chiesto in cambio il pianoforte di Elena». «Bevo volentieri un bicchiere di vino. Ho una fame... ma anche tanta sete», dissi sedendomi a tavola. «Anch’io», replicò Gino. «Ho sete e tanta stanchezza addos59


Franco La Guidara so». Sorseggiò soddisfatto. Zia Nella portò a tavola le fettuccine e poi la frutta. E fu un banchetto, un pranzo da favola. «Perché non ti fermi da noi?» chiese zia Nella. «In soffitta, non correresti rischi. Sono brutti tempo questi». «Hai un lasciapassare?» chiese zio Giuseppe. «Conosco un impiegato che potrebbe fartelo avere. Certo, dovresti aspettare un paio di giorni ma poi potresti circolare tranquillamente. I germanici fanno spesso delle retate. Pochi giorni fa, hanno circondato completamente il Quadraro – si parla di cinquemila tedeschi – e in poche ore hanno setacciato tutto il quartiere». «I tedeschi hanno bisogno di braccia per i lavori dietro il fronte e le prendono dove le trovano», proseguì zio Giuseppe. «All’improvviso giungono all’impazzata sulle loro moto e sbarrano la strada bloccando ogni via di scampo. I soldati controllano quanti sono venuti a cadere nella trappola. E chi non ha il lasciapassare, viene caricato sui camion e portato via senza che il malcapitato possa avvertire neanche i familiari». «Hanno fatto retate anche all’uscita dei cinema e alle fermate dei tram», intervenne zia Nella. «Io tremo anche quando Elena raggiunge il bar di fronte! Per fortuna chiese e conventi accolgono a braccia aperte chiunque chieda aiuto. Anche il Santo Padre si è dichiarato pronto ad ospitare chi ne avrà bisogno». Scossi la testa e dissi deciso: «Noi andiamo a sud. dobbiamo renderci utili. Non possiamo stare inerti... in attesa che la guerra finisca». Zio Giuseppe tirò fuori il portafoglio e tirò fuori sei biglietti da diecimila lire. «Fate attenzione», egli esortò paterno, consegnandomi il denaro. «Ne faremo buon uso», dissi. «Non so come ringraziarla», intervenne Gino. «In tempi ostili come questi, chi può ipotecare il futuro?» sentenziò saggiamente zio Giuseppe. Scosse la testa fulva, da lottatore, che non si rassegnava a subire e aggiunse: «Roma, non è più una città sicura. Le SS si sono acquartierate all’hotel Flora, in via Veneto, e la Gestapo a via tasso. Qualche giorno fa per via Nazionale e per i Fori è sfilata una divisione corazzata e sotto i pini di Villa Borghese stazionano le autoblindo germaniche. Hanno arrestato anche Calvi di Bergolo con altri generali perché affermavano che le truppe tedesche dovevano sostare al margine della Città Aperta». 60


Noi nella bufera «Sai, qui a Roma», continuò, «fino ad adesso siamo stati tranquilli perché sapevamo di avere quasi diecimila carabinieri dislocati nelle caserme. E quindi uomini che avrebbero potuto difenderci come hanno fatto a Napoli, dove si sono opposti alle truppe tedesche a fine settembre, prima dell’ingresso degli alleati nella città. «Il comandante dell’Arma, il Generale delfino, che è un mio carissimo amico, mi confidò la scorsa settimana che volevano mandare i suoi uomini a difendere Zara, in caso diverso, sarebbero stati disarmati perché considerati inutili e nocivi. Al rifiuto di delfino, motivato dal fatto che i suoi uomini non volevano prendere le armi contro i partigiani slavi che in questo momento collaborano con il re - al quale si sentono ancora vincolati dal giuramento – i tedeschi hanno bloccato le caserme romane. Per fortuna hanno trovato poco più di mille uomini. Gli altri avevano fatto in tempo ad imboscarsi! Però i tedeschi per rappresaglia hanno mandato in Germania tutti i carabinieri, anche gli ufficiali, che avevano preso prigionieri». Assaporai la sigaretta, bevvi ancora un bicchiere di vino, provai gioia a stare vicino agli zii. «Questi avvenimenti densi di confusione e rabbia non dureranno a lungo…», dissi alzandomi e dirigendomi verso il corridoio. «E così… spero di darvi presto nostre notizie». Guardai la fotografia in bianco e nero appesa alla parete in un’artistica cornice argentata. «Elena ci saluta dall’alto della sua serena bellezza», dissi. «Sì, Elena è una gran brava ragazza», disse zio Giuseppe. «È mia figlia», spiegò poi verso Gino. «dovrebbe essere qui da un momento all’altro. L’aspettate?» «Non fargli fare tardi», esortò zia Nella preoccupata. «Non è consigliabile stare in giro a quest’ora. C’è il coprifuoco. I ragazzi devono proseguire per il sud. Quindi…» «troveremo ancora tanti ostacoli. tuttavia sono certo di riuscire», replicai. «Ben detto» esclamò convinto zio Giuseppe. «Quando si è giovani come voi, la vita va affrontata con decisione ed ottimismo». Gino si alzò e si abbottonò il pullover verde che gli dava un tono di eleganza. «Magari ne trovassimo ancora di persone buone come voi…» disse sbrigativo. Gli zii ci abbracciarono accompagnandoci alla porta. 61


Franco La Guidara «dio vi protegga», concluse zia Nella. «Cerca di darmi notizie», disse zio Giuseppe. «Se qualcosa non dovesse funzionare… torna. Questa è la tua casa». «Grazie», dissi. «Vi farò sapere appena possibile. A presto, zia Nella. Zio Giuseppe sei tanto caro!» Abbracciai ancora gli zii. Penso che si sentissero in colpa nel vederci lasciava la sicurezza della loro casa per andare alla ventura… verso zone dove infuriavano aspre battaglie. Ma alzammo il bavero del cappotto e scivolammo l’uno dietro l’altro nel buio del marciapiede di via Frattina. «Sono passate le dieci…», dissi controllando il mio orologio. «tra mezz’ora saremo alla stazione e riprenderemo il nostro amico». «tonio certamente avrà trovato qualcosa da mangiare», disse Gino. «Non pensavo che Roma fosse così piena di tedeschi. Speriamo che tonio non si sia cacciato in qualche guaio». Conoscendo tonio ero seriamente preoccupato. «Speriamo», ripeté Gino. «Ha perso un po’ di quel suo aspetto militare e poi ... ha un tesserino di universitario…» Un vento allegro scuoteva la sera. Sui marciapiedi del centro c’erano diverse prostitute. Alcune erano ragazze giovani. Avevano scollature procaci, lustrini fra i capelli, labbra appesantite da un rossetto scarlatto e gonne strettissime. Una era dinanzi al ristorante di Via del Gambero e con gesto provocante ci invitò a seguirla. «Sono disponibile», lei disse vezzosa. «Il mio nido è vicino. Vi bacerò bene… uno dopo l’altro… Venite! Non ho clienti tedeschi». «ora non ci è possibile», replicai con tono deciso. «Io passerei volentieri la notte al caldo con questa bella puledra», azzardò Gino a voce bassa. «Anch’io!» confermai con un sorriso. «Ma ora non mi sembra proprio il caso. Si va!» «Hai sentito?» disse Gino voltandosi verso la giovane mondana. «tu sei tanto eccitante. Ci piaci… Ma dobbiamo rimandare il nostro incontro». Lei aspirò con voluttà la sigaretta che stringeva tra le dita e disse ironica: «È un vero peccato! Perdete un’occasione speciale». Fece una smorfia sensuale. «Voi non siete romani e non 62


Noi nella bufera sapete…», continuò sfacciata. «Ma noi, qui, siamo veramente prodigiose. Perciò ci chiamano le “capitane”».

* * * Camminando veloci per i vicoli quasi deserti, giungemmo alla Stazione. La bettola aveva l’ingresso quasi buio, per accedervi bisognava scendere quattro-cinque scalini. Era popolata da gente loquace, litigiosa, pronta alle offese più pesanti. Entrato nel baccano del locale mi accorsi subito che tonio era in difficoltà a causa di due giovani che con violenza pretendevano la sua roba. «Ci devi dei soldi.... devi darci l’orologio e anche la giacca», gli urlava minaccioso il più robusto dei due. L’altro teneva la mano destra nella tasca dei pantaloni. tonio era in piedi, con le spalle contro il muro, non sapeva cosa fare. Io e Gino ci facemmo un rapido un cenno d’intesa e gridammo: «Attenzione! Sta arrivando la ronda tedesca!» L’uomo che fronteggiava tonio aveva messo mano ad un coltello ma fu paralizzato da quel grido. Gino gli arrivò alle spalle come una catapulta e lo fece cadere. Approfittando della confusione che si era creata lasciammo indisturbati lo squallido ambiente. «Adesso pensiamo come raggiungere casa», disse tonio dando pacche di ringraziamento sulle spalle degli amici. «ora possiamo proseguire con minori problemi», gli dissi. «Mio zio ci ha dato sei biglietti da diecimila». «Bene!» esclamò tonio rinfrancato dalla presenza dei compagni, che gli avevano evitato una brutta lite. «Però quei due ladruncoli meritavano una lezione», aggiunse scontroso. «Ne incontreremo ancora di tipi come quelli», disse Gino. «Ne vedremo di peggiori, ma staremo all’erta», dissi. «Non siamo in guerra solo contro i tedeschi», aggiunse Gino. «È davvero una guerra civile», commentò tonio. «Ma quei due erano dei semplici ladri», precisai. «Sei riuscito a mangiare qualcosa?» chiese Gino a tonio. «Sì», rispose scontroso tonio. «Un piatto di minestra e due 63


Franco La Guidara polpette... anche un po’ di vinello… Adesso vedo la mia Catania più vicina, quasi dietro l’angolo». «Non ti facevo così vulnerabile ai fatti di cuore...» disse Gino riflessivo. «Soffri di nostalgia per la tua famiglia… per la tua ragazza… Eppure quando il mortaio ti spezzò la spalla, non ti lamentasti… neanche una volta». «Lascialo in pace» dissi. «ognuno di noi ha un suo carattere. tonio è un ottimo compagno e all’accademia lo ha ben dimostrato. Lui è solo un sentimentale!» «E chi dice», commentò Gino, «che anche tu o io non siamo capaci di gioire e di soffrire per motivi di cuore?» «talvolta le apparenze ingannano», tagliai corto. «Ma ritengo che tonio abbia una carica in più di noi in fatto di sentimenti amorosi». «Sarà…», disse Gino. «dobbiamo trovare un mezzo diretto verso Napoli… Magari uno di quei camion che vanno a sud a fare rifornimento», proposi, deciso a lasciare in fretta la capitale. «Io ho fatto un giro per la stazione e ho sentito che c’è un treno in partenza…» disse tonio. «Ma è pericoloso, ci sono troppi militari». «Io non mi fido a salire su un vagone ferroviario», dissi. «Neanch’io. Non voglio cadere in trappola», fece eco Gino. «Sulla piazza ho visto dei camion», propose tonio. «Andiamo a vedere», acconsentii. «Andrebbe bene anche per una breve distanza». «Magari ci portassero a Littoria o a Cisterna», disse Gino speranzoso. Ci avviammo verso piazza Esedra. La meta già ci sembrava possibile e a portata di mano.

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Noi nella bufera VERSo IL SUd XI Roma, 13 ottobre 1943 Soldati tedeschi con i mitra imbracciati si muovevano minacciosi, a gruppi di due o tre, e controllavano i mezzi e i passanti. C’era poca luce e perciò accendevano e manovravano i fari delle loro vetture in direzioni diverse. Notai dei camion in fondo alla piazza, dove c’era meno controllo degli uomini armati, e puntai decisamente verso un veicolo che era targato Frosinone. Gli amici mi seguirono fiduciosi. A pochi metri dal camion mi fermai e studiai con attenzione il conducente che era sui cinquant’anni, grosso, i capelli scuri e incolti. Non sembrava un uomo cattivo. Anzi! Parlava amichevolmente con un camionista più anziano. Era loquace e un po’ grezzo, come poteva essere uno di paese, ma non sembrava ambiguo. «Noi dovremmo andare verso Napoli», gli dissi avvicinandomi. «Voi ci andate?» gli chiesi senza preamboli. «Arrivo solo fino a Cassino», gli rispose il camionista che intanto era salito nella cabina. «Non posso inguaiarmi con i soldati». «Siamo studenti» mentii indicando i miei compagni. «E non vogliamo niente gratis. Possiamo pagarci il viaggio». «devo vendere la mia merce domattina», disse il camionista per scoraggiarci. «E poi ripartirò con il buio. Non posso viaggiare nelle ore diurne. Finché c’è luce, nel cielo c’è sempre almeno un aereo anglo-americano, pronto a mitragliarci. Noi lo chiamiamo “Pippo” e abbiamo imparato a proteggerci: di giorno restiamo nascosti, magari fra gli alberi, e di notte viaggiamo». «È pericoloso anche di notte», aggiunse saggiamente l’altro camionista che era rimasto ad ascoltare. «Perciò viaggiamo con i fari spenti». «Non possiamo rischiare di fermarci in un albergo», dissi. «I militi verrebbero subito a prenderci e siamo troppo stanchi per riprendere il viaggio a piedi». «E su, allora!» disse il camionista con voce rauca e sbrigativa. «Cosa aspettate a salire? Là dietro è un po’ bagnato, ma potrete dormire bene». 65


Franco La Guidara «Ci nasconderemo fra le casse e non ci faremo vedere», promisi. «Speriamo bene», fece il camionista mentre si accendeva un sigaro. «Qui si vive ormai nella paura. Ma i soldi, almeno, siamo sicuri che li avete?» «Quelli sì, ci sono», lo rassicurai facendogli vedere la mazzetta del denaro. Prima che il camionista cambiasse parere anche Gino e tonio balzarono nel cassone del camion. «Quanto mi date?» chiese curioso l’autista. «Voi quanto volete?» replicai «Siamo tre!» «dipende… Se tutto filerà liscio… ne parleremo all’arrivo», concluse conciliante il camionista, che ora sembrava deciso a rischiare pur di dare una mano a noi giovani sbandati. Ci accorgemmo in quel momento della presenza di una ragazzetta bruna e con i capelli corti e ricci, seminascosta sul sedile anteriore del camion. La giovane si voltò e ci fissò curiosa con gli occhi grandi, neri, espressivi. «È vostra figlia?» chiesi sorpreso «Sì», disse il camionista con orgoglio. «Si chiama Nora». «La tenevate ben nascosta», ironizzò Gino con tono denso di simpatia. «Con i tempi che corrono!» esclamò il camionista. «Fra tedeschi e italiani che non sappiamo da che parte stanno… Voi mi capite». «Avete ragione», ammisi soffocando uno sbadiglio. «Piuttosto… io ho una stanchezza che non perdona. Sono diverse notti che non chiudo occhio». «Resterò io sveglio», disse Gino. «Anch’io», fece eco tonio. «So che posso fidarmi», dissi. «Riposerò qualche minuto». Nel dormiveglia mi apparvero le strade montuose d’Appennino dove sotto un sole scottante la compagnia degli allievi saliva in bicicletta, con zaino e fucile sulle spalle. Si andava su cantando. Ma Gino non ce la faceva proprio più a salire con quel gravoso peso sulla schiena e con quella pesante bicicletta, che andava soltanto se si pedalava. Allora avevo capito che l’amico sarebbe stato penalizzato e con sforzo lo tiravo su… e cantavo un motivo siciliano “Ciuri, ciuri di ruvittari… e spini santi…” mentre ci arrampicavamo verso la cima... 66


Noi nella bufera Gino si intromise nei miei pensieri. «Che c’è?» chiesi assonnato. «La tua è stata una prova di grande amicizia», disse. «Ah, sì», ammisi. «ti sono veramente amico». Gino mi guardò con affetto mentre reclinavo di nuovo la testa sulle ginocchia.

*** Non ci destammo nemmeno quando la merce venne scaricata e il conducente postò il camion per far posto agli altri che giungevano carichi di merce. Ci svegliammo solo quando l’odore di pane fragrante giunse alle nostre narici. «È mezzogiorno passato», disse Nora scherzosa. «dormiglioni! Ne avete di chilometri nelle gambe da smaltire!» «Su, mangiate», disse il camionista porgendoci dei pezzi ancora caldi. «È meglio che non vi facciate vedere il giro. Ci sono delle brutte facce». «Fra quanto partiremo?» chiesi. «Appena scurisce», fu la risposta. «In poche ore saremo a destinazione. Poi vedremo cosa potrò fare per voi». L’uomo dette alcuni fogli e delle ricevute alla figlia e gonfiò il torace per dimostrare ch’egli si stava comportando bene, con altruismo, verso di noi, poveri ragazzi che ci trovavano sulla strada, allo sbando. «Io ho una casa che è alla periferia di Cassino», ci informò il camionista. «Là i fascisti non vengono a controllare. Se volete fermarvi per questa notte…» «È un invito che accettiamo volentieri», mi affrettai a rispondere con fiducia. «Stiamo approfittando della vostra bontà. Quello che mi dispiace è che dobbiamo nasconderci». «Non solo i giovani… ma anche quelli di quarant’anni… vengono deportati in Germania», disse con voce piana Nora. «E quindi voi… anche se non siete militari…» «Grazie», dissi. «Abbiamo saputo di atti di violenza da parte di gruppi nazisti». «Anch’io devo stare attento», disse il camionista. «Sono spietati contro i “borsaneristi”. I bandi che vietano l’ingresso clandestino di viveri sono firmati personalmente da Kesselring». «Penso che sia un modo per stroncare la resistenza passiva dei romani», intervenne Nora che era amichevole, aperta al dialogo e invitava alla confidenza. 67


Franco La Guidara «Noi veniamo da una scuola militare», confessai alla ragazza. «Non abbiamo alcuna intenzione di fare guerra privata ai tedeschi, ma non vogliamo cadere nelle loro mani né essere imprigionati. E perciò, se sarà necessario, sapremo come guardarci». «Io l’avevo capito subito», disse puntigliosa la giovane. «E come?» domandai con un sorriso. «Studio al liceo classico e ho tanti compagni, che sono come voi. Però loro hanno i capelli più lunghi». «E non sono addestrati», replicai. «Se ci scopriranno noi continueremo a dire che siamo universitari, di ritorno a casa dopo un viaggio di studio a Roma». «Ho capito bene», disse Nora. «Voi non siete soldati… e quindi noi possiamo stare… quasi tranquilli». «È così», la rassicurai mentre Gino e tonio annuivano. Gino aggiunse: «Sì, noi dobbiamo nasconderci ma abbiamo preferito dirvi tutto. Il mio collega è fatto così. A lui non piace la menzogna». «E fa bene», replicò Nora mentre si abbottonava il cappotto blu. «Si vede subito che siete ragazzi educati. Perciò mio padre è stato pronto ad aiutarvi». «talvolta non è oro tutto quello che riluce. Ma per i tipi come i miei colleghi le apparenze non sono soltanto ornamenti esteriori, ma rivelano preziose verità», disse tonio. «Non cominciamo con la filosofia», polemizzò Gino. «Noi vogliamo congiungerci con l’esercito del sud, come ci ha ordinato il comandante dell’accademia, e quindi non dobbiamo deviare né desistere dalla nostra mèta. Non vogliamo restare schiacciati dal tallone tedesco». Il telone grigio che copriva il retro del camion rimaneva svolazzante al portello di uscita e mi consentiva di controllare il movimento delle pattuglie militari sulla piazza. «Sono già le otto e mezza», annunciai guardando l’orologio. «Sì, possiamo partire», convenne il camionista. «Questo è un posto d’osservazione ideale», dissi agli amici. «Siamo già al Verano e abbiamo passato diversi posti di blocco» «Bene… Per ora va bene così», disse Gino. «Spero proprio che non ci fermino», sussurrò tonio riflessivo. «Noi sì… diremo che siamo studenti, ma con quelli… 68


Noi nella bufera Sappiamo come agiscono!» «Al bando i cattivi pensieri», incoraggiai. «teniamoci pronti a qualsiasi evenienza… anche negativa». C’era la luna piena e ora potevo vedere sterminati campi e vigneti. dopo un centinaio di chilometri il camion si fermò in una strada laterale e senza scendere il conducente lanciò un fischio. Un uomo aprì il cancello e il camion si inoltrò nel cortile. diversi cesti e una decina di sacchi erano ammonticchiati da una parte. L’uomo alla guida disse: «Forza, datemi una mano. Così facciamo prima». Capimmo al volo. «Su, che ci sgranchiamo le gambe», dissi saltando sull’aia. E in breve le casse vuote furono scaricate dal cassone e sostituite con quelle piene di verdura e frutta. Il contadino salutò cordialmente anche la ragazza e le porse un pacchetto. «Sono uova», disse. «dalle a tua madre». Il camion stava per riprendere il suo viaggio quando echeggiarono colpi di mortaio e raffiche di mitra. «Sparano forte», dissi con l’amaro in bocca. «Saranno a meno di un chilometro», fece eco tonio. «Sì, sono vicini», convenne Gino, che era tornato a sdraiarsi tra le ceste. «I nostri si ribellano e si faranno ammazzare...» «Mi sento un vigliacco a scappare senza dare un aiuto», dissi. «Noi potremmo ancora…» «E come?» contestò a bassa voce tonio. «Per essere competitivi dovremmo innanzitutto essere bene armati, conoscere la situazione del luogo, vedere la gente che ci è amica… e quella che è dall’altra parte… troppe cose dovremmo avere e sapere per agire». «Avremo tempo per menare le mani», ammise Gino. «Per ora ci conviene andare verso sud. Questo è il nostro scopo». «E quindi, ora, cerchiamo di passare una buona notte», aggiunse tonio. «oh! Finalmente… una notte tranquilla ci darà forza e fiducia». «Stiamo viaggiando da più di un’ora», dissi, «e questa zona è piuttosto calda. Si spara ad est e ad ovest». «I tedeschi sono stati sempre malvisti qui», disse il camionista. «Laziali e campani non hanno mai sopportato lo straniero. Figuriamoci adesso che deportano i giovani nei campi di lavoro». «Per i deportati in Germania saranno grossi sacrifici», disse 69


Franco La Guidara Nora. La sua voce era carica d’ostilità. «Ho sentito parlare dei campi nazisti come di un inferno», dissi. «Chissà quando potranno tornare alle loro famiglie», sospirò tonio che adesso era stanco e assonnato. «Farò di tutto per non cadere prigioniero», dissi. «odio l’odore del filo spinato». «Anch’io», fece eco Gino. «Non sopravvivrei chiuso in un campo». «Non pensiamo a queste tristezze. Ci stiamo avvicinando al Sud!» tagliò corto tonio. Alla luce lunare si indovinavano adesso, verso il mare, vaste distese di tabacco, mentre all’interno colli e monti erano coperti di pinete e fitte boscaglie di castagni. Il camion macinava chilometri. «Agli anglo-americani non sarà facile fare breccia in terreni così difficili», esordii pensoso, quasi parlando a me stesso. «È vero», convenne Gino, guardando dal telone semiaperto del camion. «Ci sono troppi monti… inaccessibili ai camion ma non ai cecchini… Sai, qui, basterebbero due o tre tiratori scelti per far fuori molti uomini in breve tempo». «Perciò sarà utile anche il nostro intervento», dissi. «Non lasceremo soli i nostri alleati». «Certo!» ammise Gino. «Saremo utili», precisò tonio, «però dovremmo arrivare integri alla giusta destinazione». Una brusca sterzata del camion e poi un Halt! gridato in tedesco allarmò i tre cadetti. «Ci siamo!» esclamai. «Stava andando tutto troppo liscio». Uno della pattuglia illuminò con la torcia il cassone del camion, ma non controllò troppo quando vide che a bordo c’erano sacchi e ceste di verdura. «Andate pure», disse poi un ufficiale alto e magro in perfetto italiano. «Grazie e buona notte», replicò calmo il camionista. E quindi alla ragazza: «Quei tre giovanotti sul nostro camion sono più pericolosi della dinamite». «Ma hai promesso che li ospiterai!» gli ricordò la figlia. «Sì», ammise il camionista. «Però non vorrei mettere nei guai la nostra intera famiglia. tua madre li vorrà questa notte in casa nostra?» 70


Noi nella bufera «Penso di sì», ipotizzò Nora. «Se tu vorrai, anche lei aiuterà questi giovanotti». «Staremo a vedere. ormai… io non mi tiro indietro», proseguì il camionista. «Ma tu hai qualche interesse preciso?» «No… Però mi dispiacerebbe se a questi ragazzi dovesse capitare una disgrazia per mancanza di un nostro aiuto». Le strade della periferia di Cassino erano presidiate da tedeschi e militi armati. La città sembrava una fortezza: alcuni edifici erano diventati capisaldi, altri nascondevano carri armati ed erano in comunicazione tra loro con gallerie e trincee. Casematte mobili e bunker erano ovunque: anche i casolari di campagna erano stati fortificati e i micidiali mortai Nebelwerfer erano ben nascosti nel fianco del monte. Il camion procedeva lentamente sulla strada non asfaltata quando incrociammo una camionetta tedesca. Il soldato che sedeva accanto al guidatore imbracciava un mitra e sparò una raffica che forò il terreno a pochi metri dalle ruote. «Ma che vogliono ancora da noi», esclamò il camionista fermando. «Vorranno vedere anche loro cosa trasportiamo», ipotizzò la figlia. «Che vengano pure!» replicai. «Noi stiamo all’erta». Un ufficiale alto, impeccabile nella sua divisa, si avvicinò alla cabina del nostro camion. «tu… tu dove vai a quest’ora?» egli chiese mentre il suo attendente lo seguiva con il mitra pronto a sparare. «Ho frutta e verdura che domani porterò al vostro comando», fu la risposta. Nora assentì tranquilla. «E come mai a quest’ora di notte?» «tutta colpa di Pippo», scherzò il camionista. «Abbiamo fatto tardi a caricare la merce». «Fammi vedere», disse l’ufficiale, che si arrampicò rapidamente sul camion. «Frutta?! Soltanto frutta?» ironizzò. Lo atterrai con un poderoso pugno mentre tonio e Gino si slanciarono sul soldato con il mitra, e gli impedirono di sparare. «Caricate tutti e due a bordo», ordinai ai compagni. «Non possiamo correre rischi. Questi due Fritz vanno messi al sicuro finché staremo in questa zona». 71


Franco La Guidara «E poi?» chiese Gino. «dobbiamo evitare rappresaglie al camionista e la sua famiglia», replicò tonio. «Per non correre rischi, dovremmo eliminarli» ipotizzai. «Ma non me la sento di colpirli freddamente alla schiena». «Niente violenza inutile», approvò tonio. «Ma se una violenza è necessaria per evitare altra violenza?» ipotizzò Gino. «Se lasciando in vita questi due… dovesse andarci di mezzo un’intera famiglia?» «Non c’è fretta di decidere», intervenni. «Comunque, già sappiamo che non riusciremo ad ucciderli a sangue freddo». «E va bene!», borbottò Gino. «Non riusciremo mai ad essere come loro». Il camionista esclamò preoccupato. «Ma ora… con i tedeschi, ci siamo legati mani e piedi». «troveremo una soluzione. Anche per questi due troveremo un giusto futuro. Adesso, però, dobbiamo far sparire la camionetta!» tranquillizzai l’uomo ma in realtà non sapevo che cosa fare. Mettemmo in moto il mezzo tedesco e lo nascondemmo dentro una cava abbandonata. Il nostro camion proseguì ancora per diversi chilometri sulla strada sconnessa e si fermò nell’aia buia di una fattoria. «Siamo arrivati», esordì Nora dopo il lungo silenzio. «Potete sistemare i vostri due prigionieri». «dove?» chiesi. «dietro l’abitazione c’è un locale con la finestra con le grate. Anche la porta ha una solida chiusura», fu la risposta della ragazza. «da là non potranno fuggire». «Non ce li terremo per molto. Ma penso che… poi… dovremmo portarceli appresso verso il Sud», dissi. «Perché non si vendichino su di noi?» chiese. «Appunto», fu la risposta. «Hanno visto che ci avete aiutati e se li lasciassimo liberi, loro non vi perdonerebbero».

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Noi nella bufera CASSINo XII Cassino, 14 ottobre 1943 La mamma di Nora era una donna alla buona. Aveva il volto colorito e grazioso, i capelli neri e ricci come quelli della figlia. Il corpo era robusto ma agile nei movimenti. dopo aver salutato rapidamente i nuovi venuti, si mise subito ad aiutare il marito a portare i sacchi e le ceste di frutta dal camion al magazzino. Lei gli mormorò: «Ho paura, Paolo. Forse… vi siete messi nei guai portando questi giovani». «Non devi drammatizzare. Sono brave persone». «Ma quelli?» chiese la donna indicando i due tedeschi. «domani quei ragazzi li porteranno con loro». «Sistemiamo subito questi due galantuomini», intervenni mentre i tedeschi scendevano dal camion sotto il tiro delle armi impugnate da Gino e tonio. «Metteteli in quella costruzione con la porta verde. Ecco la chiave», disse il camionista Paolo. «È chiusa anche la finestra?» chiese Gino. «Certamente», replicò pronta Nora. «È un nostro magazzino… anche le finestre sono sigillate contro i malandrini». Guardai la ragazza e pensai: «È scaltra e anche svelta di lingua». Presi la chiave del deposito che mi porgeva Paolo e mi avviai verso la costruzione quadrotta che era sul retro della casa. L’ufficiale tedesco chiese: «Possiamo avere un po’ d’acqua?» «Vedremo!» tagliai corto. detti una mandata alla serratura e spalancai la porta del magazzino, che era quasi colmo di frumento e di pannocchie di granturco e i sacchi di patate arrivavano fino alla finestra. «Controllate se è chiusa bene», dissi. «Ci penso io», propose Gino, che si arrampicò sopra un mucchio e verificò la grata. «tutto a posto», poi disse. «Sono serrate anche le inferriate». «Qui avete tutte le comodità per dormire», dissi. *** 73


Franco La Guidara Finimmo di scaricare il camion e entrammo nella casa, che era a piano terra, vasta, con diverse camere divise da un lungo corridoio e con una cucina ben arredata e capace di ospitare diverse persone. «Speriamo che gli aerei americani non tornino a bombardare», disse la madre di Nora. «Forse stanotte ci risparmieranno», ipotizzò il marito che aveva il fiatone per tutti i viaggi che aveva fatto per portare i contenitori dal camion al magazzino. «Riposati un po’ prima di mangiare», propose Nora. «Abbiamo avuto una giornata faticosa». «Vuoi del vino fresco?» chiese donna Rosa al marito. «Sì. Sediamoci e beviamone un bel bicchiere», accettò Paolo. «Voi, ragazzi, lo volete un po’ di bianco?» «Volentieri! Questa sera fa tanto caldo e beviamo volentieri qualcosa di fresco», dissi. «Siamo onorati di brindare con voi alla prossima liberazione del nostro Paese» disse il generoso camionista. «Liberi!... Speriamo presto!» dissi a voce alta, ma senza enfasi. «Sì, alla libertà!» fecero eco Gino e tonio. tutti alzammo i bicchieri e li facemmo suonare alla debole luce della lampada ad acetilene che troneggiava sul tavolo. Nora attizzò il fuoco con sveltezza. La grande cucina si riempì di un buon odore di pomodoro. «Possiamo dare qualcosa da mangiare ai tedeschi?» le chiesi avvicinandomi. Lei assentì e con un velo di civetteria andò verso la credenza e mise in un foglio di carta gialla un consistente pezzo di formaggio. «Va bene così?» ella chiese. «Fin troppo», replicai. «Anche se sembrano bravi cristiani è meglioi non fidarsi». «Sono nostri nemici, non dimentichiamolo», intervenne Gino. «Certo!» ammise tonio. «Appartengono ad un mondo che ora è contro di noi». Nora riempì una brocca d’acqua e la porse a tonio. «Portagli anche questa», disse. «Si ha tanta sete con quest’afa soffocante». 74


Noi nella bufera «Presto sarà l’inverno», commentai. «E noi saremo ancora sbandati… se non riusciremo a passare le linee». «Potete restare qui», propose Nora in un candido impulso. «tu sei molto cara», le dissi sorridendo. «Ma noi non possiamo fermarci… almeno ora». *** L’ufficiale tedesco rimase seduto su un sacco. «Vi ringrazio per l’ospitalità», egli esordì con mordente ironia. «Ma cosa avete deciso per noi?» chiese indicando il suo soldato, che si stava tamponando con il fazzoletto una vistosa ferita sulla fronte. «Lo saprete domani», disse Gino. «Intanto qui c’è qualcosa da mangiare». E sempre tenendoli sotto il tiro delle pistole, posò su un mucchio di sacchi il pane e il formaggio. tonio, invece, consegnò la brocca d’acqua nelle mani del soldato. «ti vedo di pessimo umore», gli disse. «Non capisce l’italiano», intervenne l’ufficiale. Poi sospirò contrariato e disse: «In caso di bombardamento, non ci lascerete chiusi qui». «ti verremo ad aprire», gli assicurai. «Conto sulla vostra umanità», replicò l’ufficiale. «Vedremo quel che si potrà fare», risposi. «Se mi lasciate andare, vi prometto che non faremo rappresaglie ai civili…» propose l’ufficiale tedesco. «Io devo compiere un’importante missione...» «Vedremo», ripetei non sapendo ancora cosa avremmo deciso. «Sì, sì, ci penseremo», tagliò corto Gino. E chiuse la porta alle sue spalle. *** Nella vasta cucina della fattoria Nora stava mettendo le pietanze nei piatti. La madre era lieta di avere ospiti così graditi alla figlia e aveva messo sul tavolo una tovaglia pulita ed era impegnata con le posate. Stavo seduto al tavolo e stavo centellinando un bicchiere di vino, quando lei mi si avvicinò e disse: «Questa guerra è stata causa di tanti dolori. Sono tre anni che noi subiamo bombardamenti, lutti e privazioni. Però… stasera vedo negli occhi di mia figlia un po’ di gioia. Ed è grazie a voi se, per alcune ore, lei non 75


Franco La Guidara soffrirà di solitudine». «Anche a noi fa piacere di stare ora qui con voi e di trascorrere una serata come se fossimo con le nostre famiglie», precisai. «È vero», aggiunse tonio. «Vostro marito merita tutta la nostra gratitudine». «Qui mi trovo bene e non me ne andrei più», fece eco Gino. «E invece…» aggiunsi rivolgendomi anche a Paolo, «noi domattina ci rimetteremo in viaggio». «tu non vuoi o non sai sognare?!» sussurrò Nora, ansiosa di vedere la mia reazione. «ogni cosa a suo tempo. I sogni, specialmente se sono belli, mi piacciono e so anche fabbricarli», dissi. «Ma bisogna essere realisti in circostanze come le nostre». «Non ti fermerai… Neanche un paio di giorni?» insisté Nora avvicinandosi. «Sai, la casa è grande, Carlo, mio fratello, prestava servizio sulla costiera di Salerno. Ma dallo sbarco degli americani non abbiamo sue notizie». «Attendiamo che torni la luce del giorno. All’alba decideremo anche per i tedeschi», replicai. Accettammo ancora polenta e peperoni arrostiti, e un altro bicchiere di ottimo vino. L’atmosfera era cordiale tra i padroni di casa e noi, che dopo giorni di disavventure e di fatiche finalmente potevamo godere una distensiva pausa di serenità. «Siete al corrente degli ultimi avvenimenti?» chiese Nora. Protestammo scherzosamente per il richiamo alla realtà, ma poi ammettemmo di avere notizie piuttosto vaghe dal giorno dell’armistizio. «Ieri pomeriggio l’Italia ha dichiarato guerra alla Germania», disse Nora. «Ma dove sono arrivati gli americani?» chiese Gino. «Il 2 ottobre sono entrati a Napoli», disse Paolo. «A giorni dovrebbero essere a Cassino». «Ecco perché tutti questi bombardamenti», disse la signora Rosa. «Sarebbe bene cercare rifugio nel monastero». «Non credo sia una buona idea, mamma», disse Nora. «Gli aerei bombardano anche le pendici dell’abbazia, perché sono convinti che tra i monaci si nascondano i tedeschi». 76


Noi nella bufera «E ci sono?» chiese tonio. Nora scosse la testa e disse: «dentro l’abbazia non ci sono tedeschi. È stato disposto intorno al monastero una zona vietata ai militari. A loro è stato proibito avvicinarsi. La zona da non superare è contrassegnata da grandi tavole bianche, ben visibili anche da lontano. I comandi tedeschi sperano di poter preservare dai danni l’abbazia». «tu ci sei stata di recente?» chiesi a Nora. «Più volte», fu la risposta. «È maestosa… Ha una biblioteca e un archivio assai preziosi perché ricchi di documenti e manoscritti. Pensate! Fra le cose più pregiate figurano i primi documenti del volgare italiano». «Favoloso», esclamai. «È un peccato sapere che tanti monaci, così impegnati nella fede e negli studi, e documenti così pregevoli debbano rischiare la distruzione». «Sono veramente in pericolo», replicò la signora Rosa. «Sembrava il rifugio più tranquillo del mondo… Adesso dietro ogni spunzone di roccia c’è un nido di mitragliatrici tedesche». «In linea d’aria, l’abbazia dista meno di cinque chilometri da noi», precisò Paolo. «Fino al mese scorso ci andavo tutte le settimane per portare farina e mais.... Ho visto i tedeschi minare le due rive del Rapido e scavare postazioni per fucilieri; ho visto i boschetti ai fianchi della montagna rafforzati con filo spinato e i sentieri di accesso alle postazioni difesi da trappole esplosive… E così non ci sono più andato. Ho detto al monaco addetto alla mensa di cercare i viveri da qualche altra parte». «I tedeschi qui sono più numerosi delle cavallette», continuò Paolo. «Non vi sarà facile andare a sud. L’unica via d’accesso fra Lazio e Campania è la via Casilina e dalle montagne circostanti è facile bloccare chi la percorre. Anche per le truppe sbarcate a Salerno sarà difficile avanzare su quella strada con i loro carri armati e le artiglierie». «Giusto» intervenni. «Ci vorrebbero truppe da montagna e non fanterie corazzate». «Ci siamo incuneati in una zona senza via d’uscita», protestò tonio. «Non essere tanto pessimista», replicai alzandomi. «Abbiamo tanta stanchezza e voi ci fate un vero favore ad ospitarci. Grazie!» esclamai con un sorriso. «Io sono così distrutto che dormirei anche sul tappeto», disse tonio. 77


Franco La Guidara «A me basterebbe un po’ di fieno», fece eco Gino. «Ma se volete darci tanto conforto… vi ringrazio». «In caso di allarme sarà meglio andare nel rifugio», disse Nora. «È lontano?» chiesi. «È sotto la casa. Abbiamo portato sedie, tavoli, dei viveri ed ha anche un’uscita di sicurezza». «d’accordo», dissi. «Speriamo però che ci facciano dormire in pace». *** La stanza dove fummo ospitati era lo studio di Nora. Una scrivania piena di libri e i molti quaderni negli scaffali testimoniavano l’assidua presenza della ragazza in quella camera ampia con due poltrone-letto e un divano. «Mi tolgo solo le scarpe», dissi buttandomi sul divano. «Anche noi resteremo vestiti», disse tonio. «Siamo in una zona pericolosa». «Siamo capitati dove i tedeschi hanno deciso di fare resistenza», aggiunse Gino. «Ancora queste regioni del centro-sud sono nelle mani dei nazisti», dissi. «E poi… non fanno complimenti nelle loro retate perché hanno bisogno di braccia forti. Ai tipi come noi non è salubre restare in questo clima… Faremo bene a proseguire presto». «Proprio così», annuì tonio. «Qui siamo ancora nella loro morsa. Non è una promessa di felicità. E noi… dovremmo avere molta pazienza». «E furbizia», continuai. «Non ci faremo catturare né deportare… A domani. dormite bene, ragazzi!» «…notte», fecero eco tonio e Gino. E subito caddero in un sonno profondo. *** Nora si sedette al tavolo di cucina, accanto alla madre. «Questi giovani sono proprio bravi!» disse seria. «Corrono molti rischi nel loro viaggio verso Napoli».

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Noi nella bufera UN’IMPoRtANtE MISSIoNE XIII Cassino, 15 ottobre 1943 dopo la notte silente, un cupo rumore annunciò l’arrivo degli aerei americani da bombardamento. Balzai in piedi, indossai scarpe e giacca e uscì all’aperto. «Vado a prendere quei nazisti» gridai dirigendomi verso il magazzino dov’erano chiusi i due militari tedeschi. «Prendi la pistola, Gino!» «Vengo anch’io», rispose tonio. «Porto il mitra». «Facciamo presto», dissi. «Ha detto che deve compiere una missione umanitaria…» borbottò tonio. «Non sempre sono stati nostri nemici», aggiunse Gino mentre apriva la porta del magazzino. «Non dimentico…. e non sottovalutiamo il nemico anche se è disarmato», precisai mentre sulla strada per l’Abbazia e su Cassino cominciavano a cadere le bombe. «Fuori! Vi portiamo con noi al rifugio!» gridai verso i due. Stupito, l’ufficiale sibilò: «Avete mantenuto la vostra promessa?» «Non fateci pentire di essere generosi», disse tonio. L’ufficiale raccolse la sua giacca e corse fuori, seguito dal soldato. Una bomba esplose nella vicina collina e ci costrinse a gettarci per terra. «Qua fanno sul serio!» gridò Gino. «Andiamo! Non c’è tempo da perdere», incalzai. Sulla soglia di casa ci attendeva Nora. «Svelti... svelti!» disse ansiosa. «oggi gli aerei hanno una buona mira». «Scendiamo tutti nel tuo rifugio?» chiesi. «Presto, presto. I miei genitori sono già laggiù». «Potevi andare anche tu», replicai. «Sono la vostra guida…» scherzò Nora. Sorrise e corse nel lungo corridoio. In fondo c’era una luce che rivelava una scala a chiocciola, che scendeva per alcuni metri. 79


Franco La Guidara «È una grotta naturale», spiegò Nora. «C’è uno strato di roccia viva… poi abbiamo trovato il tufo ed è stato piuttosto facile scavare». Nel rifugio c’erano delle brande, delle casse e un tavolo con alcune sedie attorno. «Sembra sicuro», dissi con tono tranquillo, mentre cercavo di vedere oltre il percorso del tunnel debolmente illuminato dalla lampada ad acetilene. «C’è un’uscita di sicurezza a una decina di metri», disse Nora che aveva intuito. «Si esce in un terreno erboso, che è di nostra proprietà». Le bombe continuavano a seminare distruzione sulle pendici del monte e ora esplodevano anche nei campi vicini. «Sono sempre più forti», disse Nora impensierita. Presi una mano di Nora fra le mie e la tranquillizzai: «Qui, siamo al sicuro…» L’ufficiale si era seduto con naturalezza al tavolo e stava offrendo una sigaretta al padre di Nora. «Permettete che mi presenti», disse con linguaggio ricercato. «Sono il capitano Maximilian Becker. Sono austriaco e cattolico convinto. Vi ho chiesto di lasciarmi andare perché ho una missione importante da portare a termine. È una cosa che vi riguarda da vicino. Ecco, vi spiego. «Sono stato incaricato dal colonnello von Julies Schlegel, anch’esso austriaco, di trasferire le opere d’arte, gli archivi e i manoscritti conservati nell’Abbazia. Siamo stati ieri mattina a informare l’abate diamare sugli sviluppi delle operazioni militari tedesche e gli abbiamo detto che l’Abbazia si troverà, entro pochissimi giorni, al centro della linea sulla quale noi intendiamo organizzare la difesa invernale. Quindi la loro evacuazione e quella delle opere d’arte doveva essere iniziata entro due giorni». «Mai e poi mai, ci ha risposto violentemente l’abate diamare. Io e i miei monaci difenderemo da chiunque quanto ci è stato affidato». «Il generale von Frido Senger, a cui è stato ordinato di difendere ad oltranza la zona, intende rispettare il monastero», proseguì il capitano Becker. «Pensate che egli è un membro laico proprio dell’ordine benedettino. Ha fatto fortificare la strada che conduce al monastero e anche tutte le alture vicine. Però egli ritiene 80


Noi nella bufera che sia impossibile pensare di salvare l’abbazia quando tutta la zona è un obiettivo militare. «oggi arriveranno all’abbazia gli autocarri per l’evacuazione», disse Becker. «Ma se non ci sarò io, l’abate diamare non lascerà uscire niente dal monastero: penserà ad un nostro trucco per appropriarci degli archivi, dei quadri, dei preziosi manoscritti. Peccato! Andrà tutto distrutto, come a Santa Chiara a Napoli e a San Lorenzo a Roma». «Sarebbe una gravissima perdita!» convenne Gino. «Ma siete sicuri che accadrà?» «Ma volete rendervi conto che qui, fra pochi giorni, tutto sarà sconvolto da un uragano di esplosioni? Sono mesi che contrastiamo l’avanzata americana. Abbiamo scavato postazioni nella roccia, abbiamo rinforzato con acciaio e cemento le grotte e le abbiamo trasformate in casematte per i cannoni. Ci siamo preparati per resistere ai più massicci bombardamenti. Cassino, da sempre, è stata indicata come esempio di barriera naturale imprendibile in tutti i trattati studiati nelle accademie militari. Lo sapete anche voi, futuri ufficiali, che siete stati alle prese con i complicati problemi tattici della zona durante le vostre esercitazioni teoriche». «A volte la provvidenza dispone diversamente», obiettò Nora. «Mi ricordo che nel 1503, il generale spagnolo Fernandez de Cordoba stava per distruggere l’abbazia usando per la prima volta la polvere da sparo. Ma, la notte precedente, sognò San Benedetto che lo attendeva tutto solo e con uno sguardo di rimprovero davanti all’ingresso. Il generale spagnolo rinunciò al saccheggio dell’abbazia e anzi l’abbellì di nuove statue». Il capitano Becker sorrideva nervoso. «Leggende, leggende», disse infine. «Noi ci siamo impegnati a non usare il monastero come caposaldo della difesa. Infatti abbiamo permesso all'abate diamare di restarci insieme a decine di monaci e inservienti. Ma le armi moderne non potranno fare distinzione fra obiettivi militari e opere d'arte da salvaguardare!» «A che ora arriveranno i camion incaricati per il trasporto?» chiesi. «Nel primo pomeriggio», precisò Becker. «Sono autocarri dell’esercito e i soldati porteranno il materiale per imballare i manoscritti e i libri. dobbiamo mettere in salvo anche i resti degli Abati che sono sepolti nella chiesa dell’abbazia da centinaia di anni. ogni carico sarà scortato da un paio di religiosi. Penso che 81


Franco La Guidara in una decina di giorni il monastero sarà tutto evacuato». Ci consultammo. Gino protestava energicamente. «No, no! Siamo diventati matti?!» L’ufficiale austriaco intervenne: «Vi do la mia parola d’onore che non riferirò del nostro “incontro” e non agirò contro questa famiglia che ci ha ospitati». «Allora, cosa facciamo?» chiese Nora preoccupata. «Riusciremo a fermare gli anglosassoni», disse convinto il capitano Becker. «dal tempo di Annibale la stretta di Cassino è considerata insuperabile. Ricordate? Il grande Cartaginese si rifiutò di marciare su Roma attraverso la Casilina. E ora, il generale Alexander, anche se dispone di una potenza di mezzi senza precedenti, cozzerà contro le nostre pareti d’acciaio». «Gli aerei si sono allontanati», dissi. Strinsi la mano che il capitano Becker mi porgeva. «Potete andare. Mi fido della sua parola d’onore».

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Noi nella bufera IL RItoRNo dI CARLo XIV Cassino, 17 ottobre 1943 Alcuni colpi bussati al portone d’ingresso in piena notte misero tutti in allarme. Io e tonio impugnammo le armi e ci appostammo in cucina, Gino uscì sull’aia da una finestra con l’intento di sorprendere alle spalle i visitatori. «Mamma… Papà… Sono io», si udì gridare da oltre la porta. I due coniugi restarono paralizzati per l’emozione e fu Nora a levare i catenacci e a gettarsi nelle braccia del fratello. «Carlo… Carlo…» I genitori non sapevano dire altro, mentre non si stancavano di baciare e stringere il figlio che credevano disperso, forse prigioniero. «Racconta, racconta…» ripeteva la madre. «Siedi! Adesso ti preparo da mangiare, figlio... figlio mio bello». «Vieni… siedi qui…» faceva eco il padre, che era andato a prendere una coperta e l’aveva appoggiata sulle spalle di Carlo. Uscimmo tutti e tre sull’aia con la scusa di andare a mangiare un po’ d’uva. Era giusto lasciarli soli. *** Quando ci riunimmo dinanzi a una zuppa fumante per il pranzo, avevo già raccontato a Carlo tutte le nostre peripezie e perché ci trovavamo in casa sua. Carlo era stato meno fortunato, perché l’armistizio lo aveva sorpreso in servizio sulla costa salernitana. «La mattina dell’8 settembre dei ricognitori tedeschi avevano avvistato un convoglio in avvicinamento e quindi subito la nostra artiglieria era stata messa in allarme. Poco dopo giunse la notizia che più di duecento fra navi da trasporto, traghetti e mezzi anfibi protetti da navi da guerra erano al largo, a pochi chilometri». «Quindi ciò faceva prevedere uno sbarco», dissi. «Lo pensammo subito. E per tutta la giornata fummo mobilitati. La sera, verso le 19,45, venne captato il messaggio di Badoglio e ce ne rallegrammo pensando che la guerra fosse finita. Ma l’entusiasmo durò poco: le nostre postazioni vennero immediatamente occupate dalla 16a divisione tedesca, che era 83


Franco La Guidara reduce da Stalingrado e quindi formata da veterani abituati ai più duri combattimenti. Non avemmo neanche il tempo di reagire: fummo subito rinchiusi nei capannoni. «Un ufficiale tedesco ci propose tre alternative: continuare a combattere al loro fianco, andare a lavorare in Germania o darsi prigionieri. La risposta fu unanime, anche quella degli ufficiali: darsi prigionieri. «Alle tre del mattino vedemmo il convoglio americano di fronte a Salerno. I pochi aerei tedeschi che si erano portati in volo erano stati subito abbattuti», continuò Carlo. «dalle navi da guerra partì un intenso cannoneggiamento su tutta la costa da Maiori ed Agropoli e contemporaneamente la zona venne bombardata e mitragliata da centinaia di aerei che giungevano ad ondate». «Madonna santissima», esclamò la signora Rosa facendosi il segno della croce. «Figlio mio, quante ne hai passate!» «Fu una cosa tremenda. durò tre ore quell’inferno. Poi improvvisamente il silenzio. Vedemmo arrivare sulle coste le scialuppe dei soldati, i traghetti anfibi con i cannoni e le armi pesanti. La spiaggia divenne gremita di militari. «I tedeschi si erano appostati sulle colline, in ogni fosso, dietro ogni riparo. Erano nella situazione vantaggiosa di chi dall’alto può vedere senza essere visto. Non rivelavano la loro presenza. Quel silenzio faceva però presagire qualcosa di innaturale. dopo un tempo che mi parve infinito, dalle casematte e dai mezzi di artiglieria costiera partirono raffiche micidiali. La spiaggia si allagò di sangue, il mare si cosparse di relitti... Una carneficina!... Non so cosa sia successo dopo. Noi prigionieri fummo caricati dai tedeschi su dei camion e portati ad Anzio da dove sono riuscito a fuggire due giorni fa durante un bombardamento dei nuovi alleati», concluse Carlo. «E Bruno?» chiese la signora Rosa. «Che fine ha fatto Bruno? Era con te a Salerno». «Anche lui era stato portato ad Anzio ma non è riuscito a fuggire», precisò Carlo. «Bruno è nostro nipote», spiegò la signora Rosa. «dovrai stare molto attento», disse il padre. «I tedeschi pattugliano alla ricerca di sbandati o disertori». «Andrò sulla montagna», disse Carlo. «Ci siamo dati appuntamento con una decina di ufficiali e soldati. Abbiamo fatto un piano preciso durante la prigionia ad Anzio. Abbiamo deciso di 84


Noi nella bufera continuare la nostra lotta contro i nazisti. Vieni anche tu?», mi chiese. «Verrò volentieri finché non avrò trovato un varco per Napoli. Io vorrei continuare la lotta a volto scoperto, quindi cercherò di raggiungere il mio esercito». «Via radio siamo riusciti ad entrare in collegamento con il comando alleato», mi informò Carlo. «Non sarà facile organizzare una banda in questi luoghi», obiettai. «oltre ai soldati decisi a battersi dovrai trovare operai e contadini pronti a darti sempre una mano. Inoltre ti occorrono ufficiali per risolvere problemi di carattere militare. Per i partigiani non ci sono basi di operazione, sarà anche un problema rifornirsi d’armi e di viveri». «Gli americani ci hanno assicurato rifornimenti aerei di viveri e di esplosivi, e anche di armi automatiche a breve gittata per le nostre azioni di sabotaggio», rispose Carlo. «È vero», ammise tonio, «per il partigiano non è delineata la linea del fronte, non ci sono distinti campi di battaglia, non ci sono linee di trincea tra gli uni e gli altri». «Per il partigiano il nemico è ovunque», aggiunse saggiamente Gino. * * * Gino e tonio decisero di tentare il passaggio per il Sud anche perché avevano capito che la mia permanenza a Cassino era dovuta alla simpatia per Nora. «Proveremo di raggiungere Napoli passando dall’interno», disse Gino. «Ci è andata bene fino ad adesso e andrà bene anche domani». «Non vedo l’ora di poter comunicare con la mia famiglia», confessò tonio. «È meglio lasciare presto questa zona», aggiunse Gino. «Avete sentito la trasmissione propagandistica tedesca? Radio Monaco incita i fascisti a far giustizia sommaria dei traditori. Al muro! Al muro! è il loro slogan». Riuscimmo ad intercettare alla radio il discorso pronunciato dal sindaco di New York Fiorello La Guardia. «Molti italiani», assicurava La Guardia, «hanno tirato un sospiro di sollievo all’annuncio della dichiarazione della guerra dell’Italia alla Germania. tutti hanno sentito che la causa era finalmente quella buona. Per la prima volta, dopo più di vent’an85


Franco La Guidara ni, l’Italia si trova fra gente leale e sa di poter contare su coloro che furono i nemici di ieri… ora si presenta la possibilità di riconquistare la dignità perduta, è il momento di muoversi per cancellare il passato. Ma per ciò occorre più azione, perché con la dichiarazione della guerra alla Germania è aumentata per il popolo italiano la responsabilità delle sue azioni. La dichiarazione di guerra deve essere immediatamente seguita da una azione più vasta e energica…» «In ogni parte dell’Italia c’è fermento», commentò Gino. «In ogni città è viva la battaglia per la conquista della libertà. Se da una parte si combatte la sorda lotta di bande, dall’altra si lotta alla luce del sole e a fianco delle truppe anglo-americane». «A sud si sono arruolati migliaia di volontari», aggiunse tonio. «E sono stimolati da entusiasmo e da fede. Anch’io voglio lottare e portare il mio contributo. Più di mezza Italia si trova ancora in balìa dei germanici e dei fascisti». «È proprio questa ribellione che ci fa riunire in bande e si cerca di ostacolare le azioni del nemico», disse risoluto Carlo.

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Noi nella bufera CASSINo, LA StoRIA XV Cassino, ottobre 1943 Paura, privazioni e violenza segnavano i giorni e le notti sul fronte micidiale, terrificante di Cassino. Il rumore assordante delle bombe esplose sembrava eterno. E continuo era il grido dei sofferenti nel crollo di tutti i valori umani. Piangevano i bambini e le donne per fame, per le ferite sulle proprie carni. Anche gli anziani sopportavano male le pressioni ostili dei nemici, ma celavano con l’orgoglio il tremore delle loro facce e delle loro mani rugose. Non si facevano schiacciare dalla ruggine dell’odio, che trafiggeva come una lama illusioni e sogni. L’abbazia di Montecassino vista dall’accampamento dei partigiani impressionava per la sua grandiosità e per la bellezza dell’ambiente in cui sorgeva. Il sole imbiancava la massiccia costruzione di travertino color crema, a forma di trapezio, che aveva l’aspetto di una fortezza, con una base massiccia e speronata e lunghe file uguali di finestrelle. «Vedi», mi disse Nora, «l’abbazia è stata costruita intorno a cinque chiostri e comprende la cattedrale, un seminario, un osservatorio bene attrezzato e un collegio maschile. La biblioteca è grande quanto tutta la lunghezza dell’edificio. Ci sono anche artigiani, che svolgono i mestieri più diversi. C’è un terreno coltivato e si allevano pure degli animali». «Eppure è strano come abbiano potuto vivere fino ad oggi così tranquilli in quella cittadella», commentai. «Finalmente padre diamare si è convinto che le grotte nascondono casematte per cannoni e i burroni sono stati trasformati in postazioni per mortai e che presto ogni sperone di roccia sarà bombardato». «L’abbazia ne ha subite tante di distruzioni», disse Nora. «La sua origine è legata alla figura di Benedetto da Norcia. Il santo proveniva da Subiaco, dove aveva fondato alcune piccole comunità di monaci, e dove aveva elaborato e sperimentato idee. Quando giunse qui, nel 529, su una parte della vetta c’erano il tempio di Apollo e una torre romana. Per prima cosa il santo demolì il tempio e consacrò un altare nello stesso punto dell’ara pagana. Quindi cominciò a costruire il monastero in modo da 87


Franco La Guidara incorporarvi la robusta torre romana. Un frammento di quella torre è tutto quanto rimane dell’originario edificio benedettino. «La fama di Montecassino si diffuse rapidamente, e fra i primi pellegrini ci fu totila, re dei goti», proseguì Nora. «Poi nel 581, trentaquattro anni dopo la morte di Benedetto, il monastero subì la prima distruzione, ad opera dei longobardi, che volevano utilizzarlo come roccaforte contro i romani. «L’abate e i monaci fuggirono a Roma, e questa fuga segnò una svolta nella storia dell’ordine; infatti, una volta che i benedettini si furono inseriti nella vita ecclesiastica romana, le loro idee e le loro virtù ebbero un tale effetto su Papa Gregorio, che fu loro richiesta la propagazione della fede nei paesi germanici. Quella che Benedetto aveva ideato come una comunità isolata e autosufficiente divenne da allora un movimento missionario d’importanza sempre maggiore». «Ma allora quando tornarono i monaci a Montecassino?» chiesi. «L’abbazia fu ricostruita solo nel 717 da un monaco inglese, Willibald, poi santificato, e questa volta resistette fino all’arrivo dei saraceni, avvenuto nell’883, e passarono settant’anni prima che l’edificio venisse ricostruito. Questo terzo periodo fu l’età d’oro del monastero, che godé di prosperità e vasta influenza. «Mentre i monaci si dedicavano all’ideale benedettino di santità attraverso la preghiera, il lavoro e lo studio, i possedimenti dell’abbazia nelle vallate circostanti avevano raggiunto la straordinaria estensione di 100 mila ettari. oltre che capi spirituali, gli abati erano diventati dei grandi e potenti proprietari terrieri. «Un principio della regola benedettina imponeva ai monaci di occupare parte della giornata a un lavoro manuale e di dedicare il resto alla preghiera e alla lettura di testi da meditare. Questa regola fu il pilastro dell’influenza benedettina, perché il sistema più sicuro e pratico di procurarsi i libri era quello di ricopiarli. Ai monaci di Montecassino dobbiamo la trascrizione di grandi opere della letteratura, dal de lingue latina di Varrone, la più antica grammatica che ci sia pervenuta e la maggior parte degli scritti di Cicerone, di orazio, di ovidio, di Virgilio, di Seneca… «Pensa», scherzò Nora, «che Cassiodoro aveva stabilito scrupolose norme ai monaci calligrafi, che erano chiamati “antiquari”. Gli oracoli della Santissima trinità dovevano essere trascritti con tre dita. “ogni parola del Signore che l’antiquarius rico88


Noi nella bufera pia è una ferita per il diavolo“, egli affermava». «dobbiamo quindi essere riconoscenti al colonnello Schlegel e al capitano Becker se questa inestimabile raccolta di documenti e di manoscritti si troverà d’ora in un luogo sicuro», obiettai convinto. .

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Franco La Guidara IL CoNdANNAto Capitolo XVI Cassino, novembre 1943 Lo avevano catturato sul sentiero delle more, nei pressi del capanno dove poche ore prima era stato trovato morto Vladimiro, un giovane partigiano trafitto alla schiena da colpi di pugnale. Mario aveva trent’anni, era laureato in filosofia. Era simpatizzante fascista e amico dei tedeschi che occupavano Cassino. Era un tipo robusto, biondo con riccioli lunghi. Aveva però il volto aperto e deciso. disse subito ai suoi avversari: «Io non ho mai conosciuto il vostro Vladimiro. Non l’ho colpito. Io sono arrivato soltanto ora da queste parti. Non avevo nessun motivo per ucciderlo...» «Sarai giudicato come meriti», gli disse il partigiano che gli stava legando i polsi. Poi, mentre scendeva la sera, Mario fu chiuso nella stanza accanto e lì fu abbandonato in attesa della decisione sul suo destino. In quel luogo, egli non riuscì a trovare nei suoi pensieri un solo raggio di luce. L’equilibrio si schiantava contro le pareti buie, indomabili. tra la sua libertà di correre, fuori, nei campi circostanti, si ponevano impietose l’immobilità, la fragilità dei nervi, l’inerzia che stringeva sempre di più la mente. Il bene era oltre la piccola stanza, il male era nella ribellione ostinata di non poter varcare il buio per investire nel sole, con tutto il suo amore di vivere, l’aria che penetrava a frammenti dalle scheggiate fessure della porta massiccia. Perché? Perché? Quali difetti egli aveva, quali colpe, quali inganni egli aveva compiuto per meritare la dura punizione che ora, nella notte fredda, si ampliava fino ad assumere le più vaste dimensioni, sul coraggio dell’uomo che non si rassegnava a cadere? Paura. Paura. La grande paura. Amore e odio ingigantiti dall’orologio degli estremi momenti. Un orologio disarmante che mieteva con le sue lancette aspirazioni e ricordi e l’ultimo coraggio. doveva pregare? Sentiva di doversi rivolgere all’Ente 90


Noi nella bufera Supremo. Ma ora egli era al buio, come un cieco. Si spegneva quasi nel buio della piccola prigione la scintilla della fede che da ragazzo lo aveva fatto sentire diverso dai compagni bradi, che nelle capanne delle colline non avevano tempo per pregare perché le loro famiglie erano troppo impegnate a calmare i puledri selvaggi, a pascolare giovenche, a cacciare nelle foreste e a cercare verdura da cuocere durante le nevose sere invernali. Alla luce delle lanterne i bradi, forse, avrebbero potuto pregare. Ma i grandi parlavano di lune maligne, di sauri eccitati, di strade impossibili, di smisurate rocce che rendevano più sterili le terre da pascolo. L’amore spirituale non poteva crescere sulle rocce nude. E la fede non poteva essere alimentata da fuochi generati da fascine fatte di spine. I piccoli avevano corpi sani e occhi belli, ma erano feriti da spade invisibili, possenti: in essi non facevano breccia le voci lievi delle madri, ma turbinavano gli urli e le bestemmie degli adulti abituati ad ammaestrare i puledri selvaggi e ad aprire le porte di casa a furia di calci e spintoni. Le candele, nelle case dei bradi incolti, si spegnevano spesso sui lamenti e sui sospiri delle donne che venivano possedute con brutale violenza. Nelle viscere delle donne affondavano e si spegnevano la notte i furori e le ansie dei mandriani. E le donne infilzate s’inchinavano alla legge dei maschi più forti. Nel rauco soffocato linguaggio, nei baci imposti contro ogni rifiuto, ogni notte il rapido appagamento – quasi una rivincita – contro gli interminabili giorni lungo i torrenti, sui prati o sugli orli dei dirupi a cercare erba per un minestrone caldo. Erano creature semplici, quei bradi. Per essi la libidine era un canto di rivolta contro il timore e la tristezza. Le donne, che non conoscevano gaiezza, la notte talvolta si ribellavano perché erano stanche fisicamente e avvilite, ma poi accettavano e ridevano nel piacere di un gioco che faceva dimenticare il monotono sibilo del vento sulle rocce nude e il rumore metallico del treno, che era il progresso, era l’utilità, un fulmine all’orizzonte, ed ora troppo lontane dalle capanne della collina. * * * La notte era piena di stelle, sui pini altissimi, e vivo era il ricordo del succoso corpo di diana e delle sue pupille verdi contro il destino bastardo che ora faceva di lui un balocco della vendetta. Egli non si rassegnava. Si sentiva ancora uomo, forte come gli alberi della montagna, proteso verso la luce come la 91


Franco La Guidara terra dopo la notte, senza peccato, come gli uccelli che gioiosamente ogni mattina si immergevano nel calore del sole alto all’orizzonte. Egli aveva nel profondo della gola una voglia atroce di piangere, ma finì per emettere un grido contro il dolore e contro le beffe e le maledizioni, che fiammeggiavano sopra il suo orgoglio oppresso ma non deformato dalla ferocia delle sbarre che gli impedivano una favolosa fantastica fuga dalla prigione. Poi, inerte contro il legno delle pareti, guardò le sue mani e le batté contro i denti come per punirle contro l’impotenza. Egli vagò con gli occhi sull’ombra della campagna: alberi alti su rocce aguzze, brandelli di nebbia e di erba, occhi e bocche di uomini svegli e ansiosi – più che di uccidere – di stare in compagnia di prodighe donne. dunque il mondo viveva. La dannazione era tutta sua. Ad altri non impediva di godere. Anzi! Una donna, nella stanza accanto, donava ora il suo ventre ad un partigiano. Gli giungeva il respiro aspro dell’uomo che fornicava. Il risveglio dei sensi lo poneva dinanzi ad una realtà... Però l’intelletto e il cuore erano ancora al punto di partenza. Mostravano una paura imperiosa. Ed egli si strinse ancora fortemente le mani per ritrovare il coraggio. Erano scomparse le stelle della notte. Una timida alba costruiva lunghissime ombre sulla radura dominata dalla montagna. Alcune rocce erano fasciate dalla nebbia. Mario maledì il tempo che passava. * * * «Qui si mangia poco e male», mi disse il partigiano entrando nella stanza. «E si fa l’amore quando capita... Quella lì», aggiunse indicandomi la bella ragazza che si allontanava carica di scatolette, «viene con me perché faccio parte della banda e le sono simpatico». Rise a denti stretti e aggiunse: «È una donna fantastica... ed è una compagna di sicura fede». Si spegnevano i fuochi di bivacco fuori da alcune tende color sabbia. Lo sgomento serrava la gola del prigioniero per l’incombente decisione del capo. Nella stanza entrarono Carlo e Rocco, fratello di Vladimiro, il partigiano trovato ucciso. Rocco era di statura bassa, capelluto e apparentemente burbero. Allontanò con un calcio una torcia consumata e poi disse al prigioniero: 92


Noi nella bufera «Hai qualcosa da aggiungere in tua discolpa?» Mario ebbe un fremito di impotenza, volse lo sguardo verso la penombra della stanza, si portò le mani aperte agli occhi, infine sfidò lo sguardo di Carlo e disse: «Io non sono contorto come quegli alberi (e indicò un bosco in direzione del paese). Non sono ancora un fantasma. Cadrò con la bocca nella terra se i tuoi compagni lo vorranno. Però...» «dimmi cosa vuoi!» strepitò Rocco. «Sono stato braccato e rinchiuso come una belva». «Sei un fascista e hai assassinato mio fratello!» replicò rudemente Rocco. «Io ti avrei già eliminato». «Già!» sibilò Mario. «Si fa presto ad ammazzare. Ma tu ed io siamo italiani. Noi dovremmo comprenderci... e cercare un dialogo. Io non sono uno straniero da condannare e uccidere. tu dici di aver ragione e mi dai torto, semplicemente perché stai dall’altra parte». «Smettila!» intervenne deciso Carlo. «Noi siamo del giusto. Ci avete stancato con la vostra propaganda a favore dei nazisti. tu vuoi forse che l’Italia resti nelle mani di un popolo che ci ha sempre guardati con sufficienza?» «Noi non crediamo nei prodigi», disse Mario. «Abbiamo una convinzione e crediamo di fare il nostro dovere proseguendo la lotta contro chi ci è stato nemico. Il nostro non è un gioco di convenienza». «Io non sono colto come te», disse fermamente Rocco. «Però ti dico che contro il sistema nazista non ci può essere pietà, Meglio vagabondi quassù, in attesa di attaccare, che stare in mezzo a stranieri che non rispettano le leggi dell’umanità». «tante volte si è costretti a colpire in modo maligno», disse Mario. «Sono le circostanze che favoriscono il male. Accecati dagli ordini, i tedeschi reagiscono con impennate che anch’io talvolta considero malvagie...» «E allora?» chiede stupìto Carlo. «Perché non andare contro quei maledetti diavoli?» Mario si fece cupo. «Hai una sigaretta», chiese a Rocco. Rocco estrasse un pacchetto di sigarette dalla tasca della giubba, accese un fiammifero e attese che il prigioniero accendesse la sigaretta. Sorrise con ironia. «tu non hai il diritto di ridere di me», esclamò turbato il fascista. «Io so quello che fate voi partigiani. Pur di seminare la paura 93


Franco La Guidara non badate al sangue... Uccidete un nazista.... ma se tra il nazista e voi c’è un innocente non ci fate caso». «Io desidero la pace», disse sibilante Carlo. «Noi siamo perplessi, più di voi, delle conseguenze della guerra civile. Amici miei sono caduti sotto i vostri fucili. Io vedo attorno a noi il malcontento di tutti...» «Siamo sul filo di una spada», ammise il fascista. «L’Europa è a pezzi. L’Italia è divisa e sanguinante. Un abisso ci divide. Non c’è più frumento nei granai. Persino le capanne dei pecorai sono diventate armerie. I campi sono stati disseccati dal nostro odio». Rocco ascoltava immobile. I suoi occhi celesti erano gelidi e contrastavano con il sorriso ironico che aveva espresso poco prima. La sua barba era increspata dal vento che entrava dalle finestre, che scaturiva dalle cime dei monti e sommergeva le valli come onde di mare tempestose e annientava le nuvole sul primo sole. Mario disse: «Non ho ancora trent’anni e mi sento già vecchio. Il clamore delle battaglie mi sta negando le gioie della giovinezza. Se mi avete condannato a morte, venga bene la fine. Io soffro maledettamente. Non mi piacerebbe veder crescere i miei figli in questo clima senza amore». «Ma siete stati voi, con i vostri nazisti, ad alimentare la rabbia», disse deciso Rocco. «Io sono un sempliciotto, ma ignorante fino ad un certo punto... Sono uno che capisce. Siete stati voi ad aprire le ostilità. Noi mangiamo erba e pane duro per colpa vostra». «Si è smarrita la via....» disse pensoso Mario. «La catastrofe è su tutti. Lottiamo sotto diverse bandiere e finiremo per far male a ciascuno di noi». «No», intervenne accigliato Carlo. «Noi siamo solitari quassù, contro una moltitudine che ci ha portati sull’orlo della rovina. La nostra terra dev’essere liberata dagli uomini che gridano contro di noi: ‘traditori!’ e ci vogliono ridurre a brandelli». «Io non sono un esaltato», si difese Mario. «Non ho ucciso né italiani né tedeschi… Voi commettete un errore accusandomi di omicidio. Però vi dico che non è con l’odio né con la collera che si potrà ridurre il dramma del nostro Paese». «Certo», ammise Rocco. «tutto dipenderà dagli aiuti americani. Ma noi partigiani faremo di tutto per rendere dura la vita ai tedeschi. Essi ancora si considerano aquile, ma noi non siamo pecore da portare al macello». 94


Noi nella bufera «Gli affanni non inebriano», concluse Mario con filosofia, certo ormai del suo destino. «Ed io… Io, che tra poco dovrò stampare contro il muro la mia anima, non ho più voglia di pensare, ubbidiente, agli ordini dei miei generali. Viaggerò verso l’ignoto, convinto che non sarà il terrore a salvare il nostro Paese». Imprigionato nella baita, caduto prima della morte, già nel buio del tempo, il fascista udì il rumore assordante di aerei. Il tuono era terribile. Sembrava che nascesse dal cuore delle rocce. «Noi vorremmo che la ruggine divorasse i carri armati», dissi. «La forza dei tedeschi si trasformerebbe così in un’inutile stizza. E noi… ci libereremmo del fanatico ritmo dei talloni ferrati». «Già», convenne sconsolato il fascista. «E poi voi partigiani scoppiereste di gioia… in attesa di un altro padrone». «Stai farneticando!» gridò Carlo. «Noi odiamo i padroni di ogni colore. Perciò siamo quassù… Noi ci facciamo uccidere per una vera libertà». «Non esiste una vera libertà», disse pensoso il prigioniero. «Si dipende sempre da qualcuno nella vita… Soprattutto da noi stessi, dai nostri pensieri e dai nostri desideri…» «Il giorno in cui noi potremo dirci “abbiamo buttato fuori i tedeschi e abbiamo salva la pelle“ potremmo gridare al cielo di aver ritrovato la nostra forza», confermò Rocco. Adesso Mario avvertiva la gaiezza dei partigiani vincitori e, sconfitto, si sentiva tradito dal destino, legato alla catena di quelli che sarebbero stati condannati ad essere colpiti alla schiena e privati d’ogni orgoglio.

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Franco La Guidara SABotAGGIo ALLA FERRoVIA Capitolo XVII Cassino, novembre 1943 «I tedeschi domani faranno partire dei materiali bellici per il nord», disse Carlo. «I convogli saranno scortati da soldati. Cosa ne dite di far saltare un pezzo della linea?» Carlo si mise d’accordo con alcuni ferrovieri e insieme a Rocco arrivammo ai binari della stazione di Cassino vestiti da operai. Ci mettemmo a controllare gli ingranaggi del treno sotto l’occhio vigile di due tedeschi. Appena i due soldati si allontanarono dalla borsa degli attrezzi Carlo trasse dell’esplosivo, che mise sotto il vagone. Sul treno salì la scorta armata tedesca e il treno prese il via. Ma non era ancora uscito dalla stazione quando un vagone saltò in aria. Per riparare subito la linea e spostare i vagoni che si erano rovesciati, arrivò una gru. Questa sollevò i primi carri ma esplose a sua volta aggiungendo altri rottami sui binari. Anche nella gru erano state messe cariche di esplosivo. L’ufficiale tedesco fece allineare i ferrovieri contro il muro. «Per il bene delle vostre famiglie dovete denunciare i partigiani», urlò l’ufficiale. «dove sono nascosti i partigiani?» insisté ancora duramente. I guidatori e i casellanti non parlarono, sapendo quale sarebbe stato il “bene“ delle famiglie. L’ufficiale non perse tempo: ordinò alla scorta di sparare su due ferrovieri. I conducenti dei treni, nell’impossibilità di impedire l’esecuzione, coprirono gli spari dei mitra con il fischio delle loro locomotive. * * * La sera, riuniti davanti ai ceppi che ardevano nel camino, i partigiani ripercorsero le tappe dei loro sabotaggi e si chiesero se fosse giusto mettere a repentaglio la vita dei civili. «Gli italiani sono stanchi di guerra che non hanno mai voluto», disse Carlo. «Ed ora, grazie alla rappresaglia tedesca, con96


Noi nella bufera siderano gli anglo-americani dei liberatori». «dopo l’armistizio i tedeschi sono riusciti a impadronirsi del Paese e a immobilizzare il nostro esercito», intervenne Rosario, che era ufficiale dei carristi. «Gli americani se la stanno vedendo brutta», dissi. «L’Italia è una penisola adattissima alla difesa. Nella parte centrale le montagne formano un massiccio continuo, e qui, mancando le strade, gli eserciti dovranno avanzare sui due fronti costieri e combattere due guerre distinte sotto ogni aspetto». «I tedeschi hanno in Italia sedici divisioni», precisò Carlo. «otto sono qui al sud comandate da Kesselring, che non ha commesso l’errore di credere che le due divisioni dell’8a armata già sbarcate in Sicilia costituissero l’intera forza d’invasione. La natura stessa di quel lembo di terra impediva di impiegare più di questi soldati. Essendo gli alleati superiori per mare e per cielo, ha indovinato che al primo sbarco ne sarebbe seguito un altro, e ha indovinato anche dove sarebbe avvenuto». «Non era poi molto difficile prevederlo», lo interruppi. «tre sono i requisiti che devono guidare la scelta della spiaggia: dev’essere per se stessa adatta per effettuare lo sbarco, dev’essere vicina a un grande porto, che possa essere utilizzato subito dopo, e dev’essere entro la portata degli aerei da caccia dell’invasore. Solo le spiagge del golfo di Salerno, cinquanta chilometri a sud di Napoli e al limite estremo dell’autonomia di volo dei caccia stanziati in Sicilia, rispondevano a questi requisiti». Rocco scherzò: «Il professore ci dà lezioni accademiche…» «Ha ragione, però», disse Carlo. «Kesselring ne era tanto sicuro che mandò una divisione corazzata nell’area di Salerno a fare esercitazioni antisbarco. E stavano proprio facendo queste manovre il giorno prima dell’arrivo della 5a armata. La mattina, infatti, quando giunsero gli uomini del generale Clark, i tedeschi li stavano aspettando appostati sulle alture». «Adesso con il sopraggiungere dell’inverno i mezzi di trasporto sono inutilizzabili», concluse Rosario. «Gli anglo-americani, che devono superare i massicci montani, si accorgeranno presto che il gelo e le intemperie provocano più perdite delle mine e delle pallottole».

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Franco La Guidara VENAFRo: LINEE AMERICANE Capitolo XVIII

Cassino, 22 novembre 1943 I ragazzi litigavano con clamore per guadagnarsi il possesso dei pezzi di pane appena sfornato che i partigiani avevano messo su un tavolo all’aperto. «L’incomprensione è un bagaglio degli esseri umani», dissi frastornato dalle continue urla. «Soprattutto in tempi come questi», Nora replicò. «Vedi quanta fame attorno a noi?» «Anche noi stiamo privi di tutto. Non abbiamo denaro, né cibo, né un tetto». «Non voglio vederti triste», Nora mi disse. «La tristezza è dei vecchi… Mentre noi siamo giovani e abbiamo un futuro di luce dinanzi a noi». «tu credi? Ne sei convinta?» le chiesi. «Con te, sì. Io con te sono veramente felice… Anche se ora… dopo la distruzione della mia casa… ho una spina nel cuore». Si strinse forte a me con fiducia. «Staremo sempre insieme», le dissi convinto. «Non andrai via?» lei alitò. «ti porterò con me». Nora mi abbracciò con passione sfrenata. «Non riesco a concepire un giorno senza di te. Mi credi, vero?» lei disse. «Sì, perché anch’io amo spesso sognare e nei miei sogni ci sei sempre tu. Ma io devo andare». La baciai. «Con Carlo abbiamo trovato un sentiero che ci permetterà di arrivare a Venafro senza troppi rischi. Potremo partire anche oggi. C’è un comando alleato a Venafro e da lì potremo proseguire facilmente per Napoli». «Ho dunque appena il tempo per mettere qualcosa di mio dentro una valigia… Possiamo passare da casa? Forse potrò recuperare qualcosa». «tutto può servire… dobbiamo fare molta strada. Anche una coperta ci potrebbe essere utile». 98


Noi nella bufera * * * Con il crepuscolo raggiungemmo la periferia di Cassino e Nora si avventurò fra le macerie della sua casa. Lei disse: «dovrei trovare il comò. Mamma mi ha detto che lì ci sono i suoi preziosi. Non sono tanti, ma ci darebbero una certa tranquillità». Lei andò in direzione della camera da letto. Riuscì ad aprire un varco. Poi gridò: «Vieni… ho bisogno di te». Aiutai Nora a forzare la porta, che era distrutta ma dei pezzi di mobili la bloccavano fra pietre e pareti lesionate. Una parte del tetto cadde con fragore. Nora spostò delle travi e dei calcinacci e il suo volto si illuminò di gioia. «Ci sto riuscendo», disse. L’aiutai ad aprire un cassetto che sembrava ancorato nel legno. dovetti tirarlo più volte. Nora frugò ansiosa e trovò sotto alcune carte una scatola, che conteneva alcune collane e anelli. «Siamo ricchi» lei esclamò impulsiva. «oh, come sono contenta! Possiamo partire». Nora, emozionata, riusciva a stento a frenare le lacrime. «Porta quello che trovi», dissi. «Compreremo ciò che ti mancherà». «Quando mi recavo in collegio, a Napoli, riempivo due valigie soltanto con i vestiti. Ma ora… Quasi tutto è sotto le macerie». «Hai recuperato i gioielli», precisai. «Sai quanti vestiti e quante scarpe adesso potrai comprarti?» Anche lei sorrise lietamente. Poi si guardò intorno smarrita, andò nell’altra stanza e riprese a scavare con le mani tra le macerie di quella che era stata la sua camera. Cercava di ritrovare qualcuno dei suoi ricordi. Nora, rimase ferma e seppe controllare i nervi all’improvviso e silenzioso arrivo di un uomo armato di pistola. Lei avrebbe voluto urlare, chiamare, ma la pistola puntata le impediva di lanciare segnali di allarme. L’uomo aveva visto che la ragazza possedeva un bagaglio prezioso ma sapeva che oltre quelle mura diroccate c’era qualcuno disposto a battersi pur di non cedergli il passo. ordinò a Nora di tacere, minacciandola con gli occhi e con la pistola. Attendevo Nora sulla strada ma il suo prolungato silenzio mi insospettì. tolsi la sicura alla pistola e tornai fra le pareti distrutte della casa. Quando vidi l’uomo intabarrato in un pastrano tedesco che teneva Nora sotto mira capii di non poter rischiare. Se 99


Franco La Guidara avessi sparato per primo, l’uomo avrebbe potuto trovare il tempo, la forza o l’agilità, anche se ferito a morte, per uccidere la ragazza. Guardingo, dalla porta semidistrutta, seguivo ogni suo movimento mentre si avvicinava sempre di più a Nora per impossessarsi della sua valigia dove aveva messo gli oggetti recuperati. Nora era ferma, in silenzio, spaventata ma sicura che sarei intervenuto in tempo. Infatti l’azione fu rapida. Lanciai un sasso in direzione della valigia e nello stesso istante sparai un colpo di pistola contro la mano armata dell’intruso. Il proiettile gliela trapassò dal dorso al palmo. Poi gli saltai addosso con furia e lo immobilizzai alla schiena. Ma questi si rivoltò con mossa atletica e mi indusse alla lotta. Era un ragazzo di statura media, sui vent’anni, con un volto piuttosto femmineo e i capelli castani ondulati. ora che lo avevo di fronte potevo osservarne gli occhi azzurri che sembravano assenti, ma i suoi muscoli erano forti e abituati allo scontro. Con un urlo rauco mi si lanciò contro e persi la pistola e subii anche un paio di pugni sul volto. Un colpo di pistola echeggiò nel completo silenzio: il giovane si accasciò al suolo. «Questo è un addio alle bionde valchirie», disse Carlo che era apparso da un’apertura delle macerie. Poi mi disse con tono di affettuoso rimprovero: «La nostra non è una guerra leale, è una guerriglia». «Voleva me e la mia roba», sussurrò atterrita Nora. «Ci sono molti sbandati lungo il fiume o arroccati sui monti. Ci vorranno ancora settimane prima che gli americani possano neutralizzarli», proseguì Carlo. «Io vado», disse decisa Nora al fratello. Carlo raccolse la pistola e se la mise nella cintura. disse: «Andate. Lo dirò io a papà». «dunque possiamo partire!» esclamai. «Il vento ci invita a Sud», mi sentivo la sicurezza del vincitore. «Andiamo», lei replicò, «Anche il vento è con noi». Prese la valigia e si strinse al mio braccio, adesso ero il suo uomo, anche se un po’ curvo sotto il peso dello zaino. «d’ora in poi viaggeremo e staremo insieme. Almeno… fino a quando arriveremo in Sicilia. Poi tu mi attenderai dalle mie 100


Noi nella bufera sorelle… perché io dovrò tornare a combattere», dissi. Lei sospirò forte e disse: «Poi torneremo insieme qui, a Cassino, quando tutto sarà finito». Un fortissimo vento ci spingeva verso la libertà, che era verso Sud. Le cime dei pini maestosi erano scosse dal tuono dei cannoni, degli obici e dei mortai e dal crepitìo delle mitragliatrici. E i rami lasciavano cadere miriadi di aghi sul sentiero erboso. Quando fummo in vista di Venafro, Nora fu presa da impulsi di emozioni. Scoppiò in singhiozzi e poi esplose in una risata, che non era provocata da isterismo, ma era densa di una speranza nuova. Nei suoi occhi si vedeva una radiosa luce verso un futuro d’amore, sulle assolate spiagge dell’isola, dove il mare aveva il colore del cielo e la montagna vi si specchiava immensa con tutto il suo fuoco lavico. «ti vedo già proiettata nel domani, che sarà solo nostro», le dissi. Lei si fermò e mi guardò seria negli occhi. «Sono felice», ammise. «Vorrei che il tempo volasse più forte di questo vento, che quasi ci solleva da terra». «Il tempo trascorrerà con la crudeltà della guerra, prima di quanto noi possiamo temere o immaginare. Ma ora quello che più conta è che noi siamo insieme». «Sai», lei replicò, «mi sono accorta che in amore, sono una vera assolutista». «Bene. Allora io ti dico che noi stiamo andando verso il giardino delle Esperidi». «E come nelle favole noi vinceremo i draghi che sono a guardia del mitico Vello d’oro», essa disse. Nora era semplice, spontanea. Ridemmo insieme, convinti di andare verso il bene e luminosi orizzonti. Carri armati anglo-americani rotolavano verso le postazioni di Monte Lungo. Erano sempre più numerosi e andavano ad arricchire di speranze gli uomini ancora oppressi ma che alimentavano e vivevano con tenacia, decisi a conquistare gli elementi essenziali per il proprio paese libero. Il sottufficiale americano mi consegnò il foglio arancione che mi consentiva il transito delle linee e mi disse: 101


Franco La Guidara «Il raggruppamento motorizzato italiano si trova ancora ad Avellino, poi andrà a Maddaloni, subito dietro le prime linee. I primi di dicembre sarà alle pendici di Monte Lungo insieme ai reparti americani del generale Walker, comandante della 36a divisione americana. ti consiglio di recarti laggiù se vuoi notizie più precise. Però la ragazza non può venire con te. È zona militare». Misi il lasciapassare nella tasca del giubbotto e dissi deciso a Nora: «Andiamo, ti riporto a casa».

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Noi nella bufera CAttURAtI Capitolo XIX Cassino, 30 novembre 1943 Stavamo tornando all’accampamento partigiano. Portavamo sulla spalla dei sacchi di grano che avevamo acquistato dai contadini quando venimmo avvicinati da alcuni militari sbandati, che ci raccontarono sommariamente le loro disavventure. Non sapevano che fare perché avevano incontrato parecchie pattuglie di tedeschi dislocate nelle campagne vicine e avevano paura a proseguire. Carlo decise condurli con noi. Erano giovani impazienti di uscire dalla situazione in un modo qualsiasi. Si sentivano i colpi delle batterie, le raffiche intermittenti di mitragliatrici. Il gruppo camminava guardingo, in mezzo ai campi. Giunti a una masseria, ci accorgemmo che era diventata una postazione tedesca. Facemmo per tornare indietro, perché non eravamo nelle condizioni di ingaggiare battaglia, ma dei colpi di pistola sparati in aria ci fermarono. Un ufficiale si fece avanti. Ci ordinò di mettere a terra i sacchi e gli zaini e li fece rovistare accuratamente dai suoi soldati. Sul suo volto apparve una risata di scherno quando trovò delle armi. Un soldato ci spinse nella stalla della masseria, dove trovammo una decina di giovani, anch’essi intercettati dai tedeschi, rannicchiati nella paglia. «Stavo cercando di unirmi ai partigiani quando mi hanno catturato», esordì uno, che parlava milanese. «So che alcune bande sono già entrate in diretto collegamento con il comando alleato. Molte nuove formazioni si vanno costituendo un po’ dappertutto e le loro attività tendono a distruggere o danneggiare quanto può essere utile ai tedeschi. In modo particolare disturbano il traffico ferroviario». Il giovane parlava animatamente. «Il fenomeno della resistenza è stato sottovalutato dai nazifascisti», proseguì un giovane che si chiamava Marcello. «Forse si sono illusi di poterlo soffocare sul nascere con qualche esempio di repressione». «È più probabile che essi non ci ritenessero capaci di fare i ribelli ed escludessero che il nostro fosse un paese adatto alla guerriglia», non potei fare a meno di dire. 103


Franco La Guidara «A nord si ricorre alla propaganda a base di luoghi comuni, emanano manifesti di richiami e bandi intimidatori, ci sono arresti a catena, si inscenano processi e si comminano condanne. Ma i campi di concentramento, le sevizie e le torture sulla pacifica popolazione sono motivo di odio», incalzò Marcello. «Ma tu come mai sei venuto fin qui?» chiese Carlo con interesse. «Per raccogliere notizie sui movimenti del nemico, sui punti minati e devo riferire a chi di dovere. Sono stato anche incaricato di effettuare collegamenti per rifornire le bande di munizioni. Così queste potranno sentirsi direttamente sostenute e assistite. Alcuni rifornimenti sono stati effettuati anche in vista di rastrellamenti e, qualcuno, anche durante l’infuriare della battaglia». All’alba del giorno dopo i tedeschi ci spinsero fuori dalla baracca e ci allinearono contro la palizzata. L’ufficiale tedesco ordinò al proprio plotone di prendere la mira. Ci sentimmo perduti. Ma l’ufficiale anziché ordinare il «fuoco!» urlò ghignando con sadismo: «L’esecuzione è rimandata a domani mattina. oggi andrete a scavare piazzole per i cannoni e a minare le rive del fiume». Per tutto il giorno cercammo una via di uscita, ma i tedeschi ci controllavano a distanza ravvicinata. Gli stimoli della fame si fecero sentire e i tedeschi ci negarono da mangiare. La sera ci chiusero nella stalla dove trovammo dei gavettini pieni di brodaglia e dei pezzi di pane. Il mattino dopo fummo portati nuovamente sotto la mira del plotone di esecuzione e poi nuovamente graziati e mandati a minare le rive del Rapido. E così per una decina di giorni. I nervi dei più giovani cominciavano a cedere. Alcuni avrebbero preferito che quella farsa finisse e che i tedeschi li fucilassero veramente. Una mattina, all’alba, si intensificò il fragore dell’artiglieria. I proiettili cadevano nelle vicinanze della masseria, mentre gli aerei che sorvolavano la zona a bassa quota lasciavano partire raffiche di mitra. dalla finestra della stalla si poteva vedere quel che stava succedendo nella valle. A tratti sembrava che il fuoco cessasse, poi ricominciava con maggiore violenza. I proiettili cadevano attorno al fabbricato, alcuni passavano al di sopra con il loro caratteristico sibilo. Un’esplosione più vicina fece saltare la porta e tutti balzammo fuori e ci sparpagliammo nella boscaglia. dalla postazione 104


Noi nella bufera tedesca partirono micidiali raffiche e alcuni fuggiaschi caddero colpiti a morte. Avevo percorso pochi metri quando mi accorsi che Carlo non mi stava seguendo. Attesi qualche minuto e tornai veloce verso la stalla che aveva cominciato a prendere fuoco ed era piena di fumo. «Carlo! Carlo!» gridai. Un gemito doloroso mi rispose. Carlo giaceva semisepolto da una trave, il sangue gli scendeva copioso da una larga ferita alla tempia. «Carlo, forza! Non ci capiterà un’altra occasione per fuggire», lo esortai. «Vai, vai tu! Lasciami. Per me è finita». Altre esplosioni squassarono le sponde del fiume. Senza pensare a niente mi caricai Carlo sulle spalle e mi avviai barcollando per il peso verso la boscaglia. Alcuni tedeschi si lanciarono al nostro inseguimento, sparando raffiche brevi. «Lasciami, lasciami stare! Non ce la farai mai!» gridava Carlo. «Mettiti in salvo tu. torna almeno tu per proteggere Nora». Gli aerei ripassarono a volo radente e mitragliarono ancora le postazioni lungo il fiume e la masseria vanamente inseguiti dalle armi tedesche. tra il fuoco fitto che proveniva da mitragliatrici nemiche e amiche, riuscimmo ad arrivare alla base partigiana.

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Franco La Guidara AttACCo A MoNtE LUNGo Capitolo XX Monte Lungo, 6 dicembre 1943 Le batterie pesanti sparavano incessantemente sulle postazioni tedesche attestate su Monte Lungo, ma una fitta nebbia impediva di vedere se i colpi giungevano a segno. Scesi dal camion e venni indirizzato al comando tattico, dove un capitano mi accolse un po’ bruscamente. «Allora, vieni da Cassino. Puoi farci un resoconto delle forze dei tedeschi? delle loro fortificazioni…. dove pensi che siano più vulnerabili? dobbiamo portare un’offensiva, forse nelle prossime 48 ore, e abbiamo poco tempo per orientarci sulla natura del terreno e sulla dislocazione del nemico». «Monte Lungo è un dosso allungato, scoperto, roccioso da quota 253 a quota 351”, dissi indicando la zona sulla carta topografica. «Ha versanti scoscesi e molto ripidi, il terreno offre scarsi appigli rocciosi. La mancanza di vegetazione penso renda quasi impossibile un attacco laterale, perché per i difensori è facile l'osservazione dai rilievi circostanti e inoltre sono protetti da postazioni di cemento». tornato nell’ambiente militare adeguato, detti tutte le informazioni che pensai potessero essere utili. dissi che le sponde del fiume Rapido erano state minate e che il nord di Cassino era stato sbarrato da una diga. La valle del Liri era stata allagata per molti chilometri ed erano state costruite torrette rinforzate con acciaio dove erano nascosti i cannoni. Parlai delle postazioni per mitragliatrici su Monte Cairo e Monte Cassino. «Gli accessi più facili sono protetti da reticolati e da mine», conclusi. «Così vieni dall’Accademia di Modena», mi chiese il generale Vincenzo dapino che era entrato alle mie spalle mentre indicavo sulla mappa le zone interessate. «Sì, signor generale». «Lo sai che il tuo comandante, il colonnello duca, ha sostenuto accaniti combattimenti dopo l’armistizio? Ha riunito attorno a sé le residue forse dell’Accademia ed ha iniziato sul l’Appennino la lotta ai tedeschi…» 106


Noi nella bufera «No, signore, non ne so niente. Sono giunto alle linee alleate da poco tempo». «Sai pilotare un aereo?» domandò il generale. «No, signore». «Peccato. Il generale Keyes mi ha chiesto un volontario per compiere una ricognizione aerea sulla zona. tu conosci perfettamente questi luoghi e poter sapere con esattezza la quantità delle forze nemiche vorrebbe dire risparmiare centinaia di vite». All’alba del giorno seguente venni destato dal frastuono delle artiglierie pesanti che avevano ripreso il fuoco sulle postazioni nemiche di Monte Lungo. I soldati e gli ufficiali del raggruppamento indossavano vestiti coloniali, con bustina e senza elmetto. Così il colore del vestiario adottato dalla ricostituita prima unità italiana si armonizzava con il colore delle uniformi delle forze anglo-americane. Il capitano, quella mattina, fu più cordiale. Mi disse: «devi presentarti al comando di Napoli, fare la quarantena e poi devi andare al centro riordinamento di Lecce. dovrai finire la tua accademia prima di venire in linea. Il nostro è il primo raggruppamento che combatte a fianco degli alleati, ne seguiranno altri. Purtroppo sono momenti caldi questi, e l’atmosfera è viziata dalla politica. Vedi, come distintivo, il nostro raggruppamento ha scelto lo scudo dei Savoia, che abbiamo cucito sulle maniche secondo l’uso anglo-americano. Ad Avellino i nostri soldati si sentivano ripetere: Chi te lo fa fare! Non andare a morire come un fesso! Forse perché vedono in questi soldati dei combattenti per il re e non per la nostra patria!» Mostrai il mio disappunto per non poter restare. «Molti soldati sono stati reclutati nel meridione o nelle isole e già sentono la mancanza delle proprie famiglie», proseguì il capitano. «Gli altri, dell’Italia centrale e settentrionale, combattono con convinzione perché sanno che le loro madri sono esposte alle angherie e alle rappresaglie dei tedeschi». «Ci sono giunte, incomplete o forse ingigantite dalla propaganda, delle notizie raccapriccianti. Lo stato d’animo della popolazione è turbato», osservai. «È giusto quello che dici. dopo i lunghi anni di mancata libertà politica operata dal fascismo, i partiti sono ora balzati dalla ribalta con accesa passionalità. Spesso, approfittando del perio107


Franco La Guidara do grave che stiamo attraversando, alcuni di essi attaccano e pongono in dubbio istituzioni e capi, cosicché, nell’animo degli italiani, affiorano indecisioni e sospetti», disse il capitano. «Molti, poi, non riescono a capire come mai, dopo che si era chiesto l’armistizio perché non eravamo più in grado di combattere, si torna ora a lottare contro i tedeschi, che pure sono stati nostri alleati sino a tre mesi fa», obiettai. «Ci si chiede anche per chi e perché si deve continuare a combattere dal momento che tutto si è concluso con la catastrofe, e l’Italia è nella bufera e divisa tra tedeschi da una parte e anglo-americani dall’altra», disse il capitano mentre si dirigeva verso uno spazio dove era mimetizzato un aereo, una Cicogna, che recava i segni dell’aeronautica USA. «Adesso vedrai che anche i Savoia non combattono solo a parole ma affrontano i nostri stessi pericoli», concluse il capitano. dal comando tattico uscirono il generale dapino e il principe Umberto, con la tuta da volo, che salì sul piccolo veicolo. In breve fu sugli obiettivi della zona. Sorvolò particolarmente Monte Lungo e si diresse verso Cassino volando in mezzo ad un nutrito fuoco di artiglieria contraerea nemica alla quale sfuggì per miracolo. La missione si protrasse per una mezz’ora, e al suo ritorno il principe Umberto fu in grado di indicare al comandante del raggruppamento italiano notizie più dettagliate sul numero dei carri armati e dei nidi di mitragliatrici e degli obici avvistati. Il giorno dell’Immacolata non si presentava idoneo per il battesimo del nuovo esercito italiano. Una nebbia fitta avvolgeva Monte Lungo. E se da un canto la nebbia era da considerarsi favorevole per l’azione di sorpresa dei nostri reparti, dall’altro rendeva impossibile l’osservazione del tiro durante la fase di preparazione. Alle ore 5,35 al tiro d’inquadramento dell’artiglieria americana si affiancò il fuoco dei nostri gruppi. Alle ore 6,30 non era stato possibile controllare il risultato del tiro, ma fu considerato sufficiente. Si mossero i due battaglioni del 67° reggimento fanteria, mentre sulla sinistra, completamente allo scoperto, si portava la 2° compagnia bersaglieri che riuscì a raggiungere la zona di Casetta Rossa senza incontrare alcuna reazione. Comunicarono al comando che le località date per occupate dagli alleati erano invece in mano al nemico. 108


Noi nella bufera Il tempo era piovoso, la nebbia copriva ancora le postazioni da raggiungere. I tedeschi sparavano dalle pendici di monte Maggiore a da colle San Giacomo. Il fuoco delle artiglierie americane non aveva avuto alcun effetto: le mitragliatrici e i cannoni, piazzati nei bunker fortificati, erano tutti in efficienza. I nostri soldati riuscirono a superare la zona battuta dai mortai e dalle armi automatiche e si preparavano ad affrontare alla baionetta le postazioni tedesche quando vennero accolti da una grandinata di bombe a mano. tutti gli ufficiali e la maggior parte dei soldati della 1° e 2° compagnia rimasero sul terreno. Anche le compagnie giunte in rinforzo vennero decimate e quel che doveva essere un facile sfondamento costò il sacrificio di cinquecento giovani. Il nemico aveva reagito all’attacco del nostro raggruppamento con una energia tale da non lasciare alcun dubbio sull’entità delle forze schierate a difesa di Monte Lungo.

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Franco La Guidara ARRIVo A NAPoLI Capitolo XXI

Napoli, 25 gennaio 1944 Arrivai a Napoli a bordo di un camion militare, che fece sosta proprio nel cortile dell’ospedale. Il tenente medico mi chiese con asprezza: «Hai passato le linee a Venafro il 22 novembre e ti presenti a Napoli solo oggi. Cosa ti è accaduto in tutto questo tempo?!» «Sono stato a Monte Lungo», dissi con tono vago. «E va bene», disse frettoloso e conciliante il tenente. «dopo la quarantena potrai andare per un periodo di licenza a casa, finché non verrai convocato dall’Accademia di Lecce». All’ospedale giungevano sbandati provenienti dai diversi reparti. Alcuni non vedevano di buon occhio la situazione in cui si trovavano. «E perché la nuova guerra», protestò Carmine una sera a mensa, «deve continuare a gravare ancora su di noi, che siamo tornati nei ranghi, mentre tanti altri, anche più giovani di noi, se ne stanno tranquilli e senza rischi a casa? Io a Palermo ho moglie e tre figli piccoli. Quando ci tornerò?» «Per me», esordì Peppino che era di Salerno, «questi liberatori non promettono tempi migliori dei tedeschi che ci hanno oppresso per anni. In molti centri la corruzione dilaga in forma anche degradante. Nei mercati i vari generi di consumo si sono rarefatti e i prezzi hanno avuto un rialzo vertiginoso. Una volta tornato a casa, non saprò come fare per mantenere la famiglia. La mia città è completamente distrutta». I soldati ricoverati nell’ospedale erano quasi tutti sfavorevolmente turbati. Molti raccontavano di essere stati accolti con disprezzo perché si erano salvati dai tedeschi con la fuga senza aver tentato di resistergli. durante la mensa venivano letti i giornali che descrivevano le efferatezze che i tedeschi commettevano nelle regioni da loro occupate. Ma non c’era bisogno di una propaganda artificiosa, perché erano gli stessi tedeschi che con le loro nefandezze 110


Noi nella bufera determinavano uno stato d’animo avverso alla Germania. disse Flavio, che era di Como: «Sono in ansia per la mia famiglia che è nell’Italia settentrionale perché è esposta a possibili vendette da parte degli elementi tedeschi e fascisti. Come faccio a correre in loro aiuto. Non c’è alcun mezzo neanche per comunicare! L’unica cosa che posso fare è tornare a combattere così potrò contribuire alla liberazione del mio paese ancora occupato». «Anch’io», disse Saverio, «so poco di quello che avviene al mio paese. Ho notizie incerte e contraddittorie...» Un ufficiale medico seduto a capotavola disse al colonnellomche gli sedeva accanto: «Sarà difficile riportare al combattimento il nostro soldato dopo il collasso del settembre scorso. Per troppo tempo ha sentito esaltare il valore dei tedeschi, e quindi si trova ancora come in uno stato di convalescenza psicologica». «È possibile in tali condizioni di spirito tornare immediatamente in prima linea?» gli chiese il colonnello. «A ravvivare la fede e il senso della disciplina nei reparti dell’ospedale non mancano interventi di personalità», rispose l’ufficiale medico. «Abbiamo ricevuto anche le visite di comandanti alleati che hanno avuto parole di lode e di incitamento». «Ma poiché le buone parole non bastano», aggiunse tonino con filosofia, «e spesso risulta proprio vera la vecchia massima che al cuore del soldato si arriva attraverso lo stomaco, ecco perché i nostri piatti vengono riempiti con abbondanza!» Le sue parole sollevarono un coro di risate. «Noi di Napoli ce la siamo vista brutta da molto tempo. La rivolta del 28 settembre non è scoppiata da un giorno all’altro», spiegò tonino con serietà. «dovete pensare che da noi i bombardamenti sono incominciati il 12 giugno del 1940 e da allora sotto le incursioni aeree sono morte più di ventimila persone. Senza parlare poi delle abitazioni distrutte. «Catastrofica fu l’incursione del dicembre del ’42 quando nel bel mezzo di un temporale arrivarono trecento fortezze volanti e fu affondato un incrociatore nel porto. Anche un tram fu colpito in piazza Municipio e tutti i passeggeri morirono carbonizzati. Purtroppo non sono stati soltanto i bombardamenti a danneggiare Napoli. Mi ricordo che nei primi mesi del ’43, mentre stavano caricando dell’esplosivo su un mercantile diretto alle nostre truppe in tripolitania, scoppiò un incendio a bordo. Noi ci riversammo sul lungomare richiamati dall’insolito spettacolo. Eravamo 111


Franco La Guidara così tanti che il cordone di balilla stentava a trattenerci. Non riuscirono a domare le fiamme e la nave esplose causando una carneficina: più di tremila morti, case distrutte, rottami della nave sparsi su tutta la città. Solo un violento acquazzone riuscì a spegnere quel terribile incendio. «dopo il 25 luglio si pensava che i bombardamenti fossero finiti e invece il 4 agosto giunsero ancora le fortezze volanti e in pochi minuti tremila napoletani restarono morti sotto le macerie. La basilica di Santa Chiara venne distrutta, il Maschio Angioino venne centrato da una bomba, crollò la Galleria Umberto e via Roma, via Chiaia, corso Vittorio Emanuele si ridussero a un ammasso di macerie. «L’8 settembre ci colse impreparati, anche perché molti di noi erano stati arrestati. Ci furono scontri sporadici con i tedeschi e questi riuscirono subito a prendere possesso delle caserme e dei depositi. «I tedeschi ordinarono il coprifuoco, lo stato d’assedio e l’immediata consegna delle armi. La città era nelle mani del colonnello Scholl, un uomo duro e spietato: aveva fatto fucilare quattordici carabinieri, nove donne e ventisei operai degli stabilimenti di Castellammare e di torre Annunziata, e aveva imposto il lavoro obbligatorio per tutti gli uomini validi dai 18 ai 33 anni. I napoletani si rintanarono in casa in attesa degli americani che stavano premendo a Salerno. Si usciva soltanto per fare la fila per il pane e per la ricerca dell’acqua che costava più cara del pane. «A Napoli erano rimasti soltanto duecento soldati, ma questi riucivano a terrorizzare la città: sparavano anche sulle donne che che facevano la fila davanti ai negozi. Avevano fatto saltare le banchine e le attrezzature del porto, avevano asportato i macchinari delle fabbriche ed avevano svuotato i magazzini di viveri. «Gli americani avevano gettato sulla città dei volantini invitandoci ad insorgere contro i tedeschi, ma eravamo troppo logorati per la lotta alla sopravvivenza. Per trovare due patate per la mia famiglia, io dovevo percorrere decine di chilometri e non sempre riuscivo e trovarle. «La sera del 27 settembre – lo ricordo bene perché era il compleanno del mio figlio più grande – sostavo con altri amici dinanzi alla Rinascente. Ci avevano detto che ci sarebbero stati dei rifornimenti di generi alimentari. Entrarono dei tedeschi e cominciarono a caricare tutta merce su un loro camion. Poi andarono in direzione per impadronirsi del denaro. Ma il cassiere si rifiutò di consegnarlo e venne percosso dai tedeschi. Il poveretto 112


Noi nella bufera riuscì a trovare la forza di prendere la pistola e a sparargli contro. Anche le commesse, con coraggio, si gettarono sui tedeschi, riuscirono a disarmarli e dopo averne ucciso uno riuscirono a mettere gli altri in fuga. «Questa rivolta scosse Napoli. Spuntarono le armi, le bombe a mano, le mitragliatrici. I napoletani capirono che di fronte avevano soltanto duecento tedeschi. La popolazione prese d’assalto Castel Sant’Elmo per impossessarsi non solo delle armi ma anche dei viveri. I tedeschi stavano per fucilare quindici ostaggi, ma la folla inferocita armata di bastoni e coltelli costrinse il plotone alla fuga. «Napoli si prese la sua rivincita. Al Vomero una decina di tedeschi erano entrati in un calzaturificio e avevano cominciato a caricare su un camion le scatole di scarpe. Arrivarono i proprietari con una quarantina di carabinieri e marinai che dettero battaglia per tutto il pomeriggio, infine giunse un tenente dei granatieri che gettò nel cortile delle bombe a mano e costrinse i tedeschi alla fuga. «I tram erano fermi per mancanza di energia elettrica e vennero usati per farne barricate. dalle prime ore del 28 settembre le retroguardie tedesche cominciarono a lasciare Napoli, i rivoltosi aprirono il fuoco contro i loro camion: i morti non si contarono più. ormai si combatteva dal Vomero a piazza Arenella. tre carri armati tiger irruppero a Santa teresa e rotolarono fino a piazza dante, verso una moltitudine di scugnizzi che con i loro moschetti niente potevano contro i tanks che sparavano e uccidevano. «La mattina del 30 settembre ci riunimmo al liceo Sannazzaro», continuò tonino. «C’era anche Antonino tarsia, uno dei capi dell’insurrezione che era mio amico, e facemmo un piano di attacco. La giornata purtroppo fu funestata da tanti incidenti e ci furono tanti morti anche fra la popolazione. Il colonnello Sakau, che era asserragliato nella palazzina del campo sportivo con dei prigionieri si arrese, e in cambio della vita degli ostaggi facemmo scortare da un gruppo di partigiani il comando tedesco fuori Napoli. «Finalmente nel pomeriggio si poté festeggiare a Palazzo Bagnara la cacciata del nemico. «Le sofferenze non erano ancora finite. Il giorno dopo un cannone germanico cominciò a bombardare la città da Capodimonte e ancora tante furono le vittime. Arrivarono anche i caccia tedeschi che gettarono spezzoni incendiari. Finalmente le prime autoblindo americane e inglesi giunsero a piazza dante 113


Franco La Guidara e a piazza Municipio. L’accoglienza fu festosa ma purtroppo non potemmo offrirgli neanche acqua fresca perché i tedeschi avevano fatto saltare tutte le tubature. «È ancora pericoloso camminare di notte», disse tonino. «Ci sono in circolazione molti degli ospiti del manicomio criminale di Aversa, delle carceri di Napoli, di Avellino e di Poggioreale che furono fatti uscire dai tedeschi prima della loro ritirata». «Comunque Napoli ha ricominciato a vivere?» chiesi. «Uno di questi giorni devi venire con me al porto», propose tonino. «Voglio farti conoscere alcuni veri pirati. Sai, spesso per la fretta di scaricare la merce, i camion escono dalla zona senza una bolletta e così alcuni di essi si perdono per strada! Cioè sono venduti così, a busta chiusa, a degli accaparratori, i quali spesso non sanno neanche quello che acquistano. Per non parlare poi dei ragazzi. Ne inventano una tutti i giorni. Quando vedono arrivare un camion si buttano in mezzo alla strada facendo finta di giocare. Così che il conducente è costretto a rallentare. I più grandi s’arrampicano sul cassone posteriore e in un baleno il camion è scaricato! Lo stesso accade anche quando i camionisti prendono a bordo quelle signore. d’altra parte a Napoli persino il Palazzo Reale è invaso dai negri e le sue terrazze si sono trasformate in pista da ballo, mentre al porto sono tornati a lavorare migliaia di operai», concluse amaramente tonino. «Ma fanno turni di dodici o ventiquattro ore, un lavoro da schiavi».

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Noi nella bufera MANIFEStINI SU MoNtE CASSINo Capitolo XXII Monte Lungo, 14 febbraio 1944 Riuscii a raggiungere le linee americane poco dopo l’alba. «Che notizie mi dai sull’abbazia?» chiesi a un sottufficiale che stava scrutando con il binocolo la vallata. «Ieri, nel corso di un nostro bombardamento sulla città di Cassino l’abbazia è stata danneggiata ancora», rispose l’americano. «Ma perché i monaci non se ne vanno? Cassino è quasi rasa al suolo». «I monaci sono fiduciosi che sia gli alleati che i tedeschi rispetteranno il luogo sacro» dissi. «Eppure il 22 gennaio le nostre truppe sono sbarcate ad Anzio alle spalle dei tedeschi, ma l’offensiva continua ad arenarsi agli avamposti della difesa nemica con un elevato numero di vittime». «Io conosco bene la valle del Liri», dissi. «Ci sono stato per diverso tempo. È ondulata e molto boscosa verso nord-ovest, ma a sud di Cassino vi è un terreno pianeggiante attraversato dal fiume Rapido. L’accesso alla Valle del Liri è una difesa naturale: il fiume ha sponde basse e paludose. Adesso i tedeschi hanno anche deviato le sue acque». «Lo so», disse l’americano. «Ero con le prime pattuglie avanzate che raggiunsero la valle del Rapido. Era un vero pantano. Il fiume correva vorticoso tra scarpate, acquitrini e pareti rocciose. Gli accessi che sembravano facili erano sbarrati da reticolati e da mine. E ci sovrastava quel massiccio dell’abbazia. da esso i tedeschi dominavano l’intera valle e tutte le strade. Il fango vicino al fiume, il terreno minato, il fuoco delle armi automatiche e un continuo bombardamento d’artiglieria e mortai fermarono il nostro attacco sulla riva. Se avessimo potuto usare i carri armati, avremmo eliminato i capisaldi tedeschi. Ma non fu possibile perché il fondo valle era così cedevole che una ventina di essi vi sono rimasti impantanati». «Sai niente dei civili che si sono rifugiati nell’abbazia?» chiesi. «Hai qualcuno in particolare che ti interessa?» 115


Franco La Guidara «Sì, una ragazza. Nora. E tutta la sua famiglia». «Se è ancora nell’abbazia, è in pericolo», disse l’americano. «Sono stati raddoppiati gli sforzi per penetrare nella Valle del Liri. Il II corpo d’armata è stato sostituito dalla 2a divisione neozelandese e dalla 4a divisione indiana. Sono truppe fresche. Il generale Freyberg e il generale tuker attendono che migliorino le condizioni atmosferiche per avere un appoggio aereo. Essi non hanno dubbi: il monastero è l’ostacolo da superare ad ogni costo». «Sono certo che gli alleati non distruggeranno il monastero», dissi convinto. «Non esserne certo. Guarda! Vedi quel Piper che sta sorvolando Monte Cassino? Vi sono a bordo i generali Eaker e deves. Si stanno accertando se le truppe tedesche siano effettivamente nell’abbazia. I tedeschi non li degnano neanche della loro contraerea perché hanno imparato che i piccoli aerei servono solo a distrarli dagli attacchi dei cacciabombardieri». osservai attentamente con il binocolo l’aereo che volava a bassa quota sull’abbazia. «Il generale Bernard Freyberg è un capo eccezionale», proseguì l’americano. «Si considera il papà di tutti i neozelandesi al suo comando e non è mai soddisfatto di niente; ma niente è impossibile per i suoi uomini. Inoltre la divisione indiana è composta di volontari delle etnie più bellicose: dai Sikh ai Raiput. Sono uomini molto orgogliosi e si arruolano appunto per combattere». «Allora i tedeschi hanno i giorni contati», ipotizzai mentre seguivo il volo di un aereo che prendeva quota in quel momento. «Hanno senz’altro deciso», disse l’americano. «Ecco il nostro aereo che lancia i manifestini per avvertire i civili. Adesso posso fartelo vedere. tirò fuori dal taschino della giubba, insieme con il pacchetto delle sigarette, un foglietto piegato in quattro. Lessi a voce alta: «Amici italiani. Attenzione. Noi abbiamo sinora cercato in tutti i modi di evitare il bombardamento del monastero di Montecassino. I tedeschi hanno tratto vantaggio da ciò. Ma ora il combattimento si è ancora più vicino al Sacro Recinto. È venuto il tempo in cui a malincuore siamo costretti a puntare le nostre armi contro il monastero stesso. Noi vi avvertiamo perché voi abbiate la possibilità di mettervi in salvo. Il nostro avvertimento è urgente: lasciate il monastero. Andatevene subito. Rispettate questo avviso. Esso è stato fatto 116


Noi nella bufera a vostro vantaggio. La Quinta Armata». «Allora è davvero la fine», mormorai. «Ehi, dove vai? Non da quella parte! da dì torni a Cassino», mi gridò l’americano. «Proprio quello che ho intenzione di fare», gli risposi mentre correvo giù per il pendìo. «devo salvare Nora».

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Franco La Guidara LA dIStRUZIoNE dELL’ABBAZIA Capitolo XXIII

Cassino, 15 febbraio 1944 Raggiunsi il campo dei partigiani e informai subito Carlo di quanto avevo saputo. «I volantini sono caduti anche dentro le mura del monastero», confermò Carlo. «Con la battaglia che infuria nei dintorni sarà difficile che gli occupanti possano mettersi in salvo: purtroppo ci sono ancora centinaia di persone. Sono riuscito a portare via dall’abbazia i miei genitori e Nora qualche giorno fa, perché era scoppiata un’epidemia. Vi sono ospitati i civili che prima avevano cercato scampo nelle grotte della montagna ma che ora le artiglierie hanno preso a martellare notte e giorno. Mancano acqua e viveri e ci sono solo candele per illuminare i sotterranei». «E gli americani bombarderanno convinti che l’abbazia sia occupata dai tedeschi!» esclamai. «L’abate diamare ha una immensa fede nel Signore! Spera ancora che nessuno distrugga quel luogo di pace e di preghiera. Però ho visto che la polizia militare, che doveva mantenere la neutralità del monastero, non staziona più all’ingresso dell’abbazia». «Ma se l’abate può essere tratto in errore perché nel monastero non vi sono soldati, non pensa che niente al di fuori delle mura è considerato sacro! E che sulle pendici della collina i tedeschi hanno allestito posti di osservazione e piazzuole per le armi automatiche? Mi hai anche parlato di una riserva di munizioni in una caverna a ridosso le mura del Monastero». «L’abate diamare è anziano, ha ottant’anni», replicò Carlo. «Per questi uomini a sempre vissuti lontani dal mondo, che parlano a bassa voce e che sono abituati a prendere i pasti in silenzio, la guerra non scalfisce la loro immaginazione», dissi. «Però, finché Monte Cassino e il Monte Majo si troveranno in possesso delle truppe tedesche, resta chiusa alla Quinta Armata la porta per Roma». «Infatti il feldmaresciallo Kesserling ha posto un’attenzione 118


Noi nella bufera particolare alla difesa di queste due montagne. Su Monte Cassino, tuttavia, dobbiamo riconoscere che Kesserling sta facendo di tutto per non coinvolgere i Benedettini nella battaglia», osservò Carlo. «Ma non si può considerare l’abbazia separata dalla sua posizione di importanza strategica in cui si trova. Ci sono lungo i fianchi della montagna posti fortificati e postazioni così vicine alle mura che è impossibile distruggerle senza colpire anche il sacro edificio». «Sei tornato!» esclamò Nora alle mie spalle. «Nessuno mi ha avvertito del tuo arrivo. È stata l’artiglieria a svegliarmi». Era un mattino freddo, ma il cielo era splendido e consentiva la vista fino alle macerie di Cassino. L’abbazia era nel sole, intatta, maestosa. Le poche cannonate, che vi erano cadute sopra, avevano appena scalfito le possenti mura. Stormi di fortezze volanti spuntarono dai Monti Aurunci, volavano ad alta quota. Non ci fu alcuna reazione da parte della contraerea tedesca. Erano le 9,45: i primi dei duecento aerei da bombardamento sorvolarono il monastero ed echeggiò dal monte un terribile boato. dopo le devastazioni dei Longobardi, dei Saraceni e quelle del terremoto, iniziò la quarta distruzione di Montecassino. Le secolari mura tremarono sotto l’incalzare delle esplosioni. E i meravigliosi affreschi, i mosaici, i grandi altari, i colonnati in marmo prezioso e i chiostri, i rilievi e le incisioni, vennero sepolti da una densa coltre di polvere e di macerie. Il bersaglio sulla cima del monte era difficile da colpire, ma le bombe andavano a segno. dopo ogni ondata la sagoma dell’abbazia appariva diversa: ma le mura alte una cinquantina di metri e che avevano una base spessa tre metri, resistevano agli ordigni sganciati dalle fortezze volanti. tra le ondate dei bombardieri si inserì, per contribuire alla distruzione, anche l’artiglieria. Erano le dieci e mezzo quando l’obiettivo fu bersaglio di uno dei più massicci concentramenti con obici e cannoni. Gli aerei continuarono ad arrivare ad ondate fino a mezzogiorno e il monastero apparve distrutto in tutti i piani superiori e anche la cattedrale era spalancata verso il cielo. Gli americani probabilmente non considerarono il bombardamento efficiente come avrebbero voluto, perché poco prima delle quattordici ricominciò l’attacco aereo: questa volta giunsero 119


Franco La Guidara i bombardieri medi Mitchell che a tappeto sganciarono bombe più piccole ma di maggiore precisione. Una alta colonna di fumo si levò dall’edificio e quando la grande nube si dissolse la sagoma del monastero era completamente mutata: il muro occidentale era crollato. Altri aerei sorvolarono l’abbazia e scaricarono ancora centinaia di tonnellate di esplosivo che finirono l’opera di distruzione. I partigiani, dalla loro base sul monte, rimasero pietrificati alla vista della più grande distruzione cui avessero mai assistito prima di allora. Non si era ancora spento il sordo brontolio degli aerei, quando Carlo venne chiamato al telefono da campo dal comandante del Royal Sussex, il quale gli disse che necessitava un loro aiuto. «Il nostro primo battaglione è a cavallo della Testa di Serpe e le linee tedesche sono solo ad una sessantina di metri da loro», spiegò il comandante inglese. «Molti miei uomini sono rimasti feriti dai frammenti di roccia durante il bombardamento di oggi. L’attacco è fissato per questa notte ma essi non possono contare sull’appoggio diretto della nostra artiglieria perché rischieremmo di colpirli. Ieri abbiamo mandato due autocarri con il rifornimento delle munizioni ma non sono arrivati. Non ci è possibile inviarne altri in tempo per stanotte. Cercate voi di recuperare più munizioni possibili per rifornire gli uomini del Sussex». Carlo, dopo essersi consultato rapidamente con Rocco, assicurò al comandante inglese tutta la collaborazione. dopo aver rassicurato Nora che sarei tornato prima possibile, mi unii a Carlo e gli uomini della sua banda. «dobbiamo perlustrare la strada che porta a quella cresta che gli anglo-americani hanno chiamato Testa di Serpe», mi spiegò Carlo mentre scendevano nel fondo valle con i muli. «Stanotte gli uomini del Sussex partiranno all’attacco della quota 593 per poi passare alla conquista del monastero. I rifornimenti su quel terreno sono difficili, pensa che negli ultimi chilometri bisogna trasportare le munizioni a forza di braccia su per i sentieri, perché la strada è sotto il controllo tedesco. Giusto a notte fonda potremo agire con meno rischi». Il terreno era il maggior ostacolo: creste rocciose e crepacci non segnati sulle carte non consentivano di muoversi velocemente. trovammo i due autocarri scivolati in uno strapiombo, i conducenti erano morti ma le munizioni erano salve. Caricammo molte casse sui muli e riprendemmo la marcia. 120


Noi nella bufera «Finalmente», esclamò un ufficiale del Sussex. «Abbiamo un disperato bisogno di bombe a mano. Una compagnia sta per partire all’attacco». I partigiani aiutarono a distribuire le munizioni ai sessanta uomini che si apprestavano allo scontro. I due plotoni avanzati e il terzo di riserva poco più dietro, si mossero lentamente senza far rumore. Ad ogni passo c’era il pericolo di smuovere una pietra, di farla rotolare, e in montagna questi rumori si sentono a grande distanza. Non si doveva rompere il silenzio: il nemico era in attesa a poca distanza. I primi uomini non avevano compiuto neanche quaranta metri quando vennero investiti dal fuoco delle mitragliatrici e delle bombe a mano. Si gettarono tutti a terra e strisciarono sul terreno pietroso, cercando di aggirare la postazione. Cominciarono a mancare le granate e i partigiani fecero la spola per portare ancora rifornimenti. L’obiettivo era vicino, ma irraggiungibile. Alle prime luci dell’alba il comandante inglese diede l’ordine di ritirarsi: al combattimento notturno erano stati sacrificati due ufficiali e trenta soldati. * * * Monte Cassino venne bombardato di nuovo di giorno seguente. La sera del 17 febbraio i profughi e i monaci superstiti riuscirono a lasciare il monastero. Appena partito anche l’abate, le truppe tedesche presero possesso dell’Abbazia, che aveva subito notevoli danni, ma per la maggior parte le massicce mura erano restate in piedi e offrivano una eccellente posizione difensiva. «Gli alleati non sono riusciti a spezzare il pilastro della postazione tedesca», dissi. «Hanno ottenuto anzi il contrario: la prima divisione paracadutisti del generale Heidrich, che da oggi ha il compito di difendere il settore di Monte Cassino, non ha più ragione di usare riguardi per l’abbazia», precisò Carlo. «Hanno trasformato le rovine del monastero in un caposaldo inespugnabile», aggiunse Nora con tristezza. «Gli uomini del Sussex tenteranno di conquistare quota 593 anche questa notte», disse Carlo. «Ma non ci riusciranno. I tedeschi si difendono su fortificate posizioni».

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Franco La Guidara ALLEAtI A CAtANIA Capitolo XXIV Catania, 25 febbraio 1944 Quando raggiunsi la mia città la tensione fra i catanesi e i soldati americani era piuttosto accesa. Appena sbarcati in Sicilia, gli alleati avevano posto tutti i paesi occupati sotto la giurisdizione dell’Amgot, il governo militare alleato del territorio occupato, che esercitava pieni poteri su qualsiasi questione interna, con l’intransigenza e l’intolleranza dei vincitori. «L’isolano è umiliato e tradito in tutte le sue aspettative dalla durezza del regime instaurato dagli anglo-americani che invece gli avevano dichiarato amicizia e solidarietà morale», disse il professor Giuseppe ai figli mentre sedeva alla sua scrivania. «Il siciliano confronta questa esperienza con le precedenti. È costretto a pensare che questo trattamento sia riservato agli italiani in quanto fascisti, ma poiché il siciliano non è mai stato fascista, è convinto di scontare ancora una volta le colpe del nord». «La formula della separazione dal resto dell’Italia si presenta spontanea, senza artificio né secondi fini, come propone il professor Canepa», commentai. «Ma l’artificio e l’astuzia ritornano quando i separatisti vogliono la separazione politica dall’Italia caduta e dall’Europa prostrata per unirsi all’America vittoriosa e ricca». «Intanto l’Amgot ha instaurato un regime di estrema durezza», proseguì il prof. Giuseppe. «Gli americani ostentano in giro la loro abbondanza. Avevano promesso l’aumento della razione del pane, ma ancora oggi un bollino corrisponde a 50 grammi di pane. La borsa nera è un privilegio per i ricchi. I poveri si sono spogliati anche della biancheria. Anche noi abbiamo dovuto vendere dei gioielli. È stato un vero strozzinaggio». «Gli alleati hanno provocato uno svalutamento rapido: 400 lire per la sterlina e 100 per il dollaro, poi ci hanno inondato con le loro am-lire», commentai. «I loro ufficiali e i loro soldati sono pagati dieci volte più dei nostri. Pensate che il comandante del nostro primo raggruppamento che combatteva due mesi fa a Monte Lungo visto i prezzi che i vari generi hanno assunto sul mercato ha provveduto a far corrispondere un assegno straordinario di quaranta lire per i soldati!» 122


Noi nella bufera «La sventura si è abbattuta sull’Italia», intervenne Vita. «Non soltanto si affrontano tedeschi e americani ma, ancora più grave, gli italiani sono gli uni contro gli altri». «Anche tu, che ti sei schierato sotto la bandiera degli inglesi e degli americani, dovrai andare a combattere contro gli italiani dalla parte del duce», mi disse Salvatore con tono di rimprovero. «L’Italia è in guerra da un trentennio», interruppe il professor Giuseppe. «da quando fu decisa la campagna contro la turchia, nel 1911, fino ad oggi – salvo brevi intervalli – la penisola non ha mai cessato di combattere in Africa e in Europa. Sono trentatré anni che noi stiamo con le armi in mano e siamo stufi di rinunce e privazioni». «Ieri sera quando sono arrivato», dissi, «c’erano molti militari, bianchi e neri, che bivaccavano in un caffè vicino alla stazione. Attorno a loro avevano fatto cerchio dei bambini, che si mangiavano con gli occhi quei piatti di dolci che il cameriere metteva sul tavolino. Ad un tratto un ragazzo ha afferrato delle paste da uno di quei piatti ed è fuggito inseguito da tutti gli altri. E’ stato uno spettacolo veramente deprimente vedere quei soldati che ridevano, ridevano e schernivano la nostra fame». «Molto più triste», intervenne Vita, «è vedere le donne e i bambini che seguono i camion alleati. I soldati ritti sui camion si divertono a gettare per aria gallette e biscotti e a vedere le zuffe che esplodono sotto i loro occhi». «È vero», convenni, «questi spettacoli si ripetono dappertutto. ovunque ci sono soldati, ci sono gruppi di ragazzini che attendono qualcosa». «Sei passato da San Berillo?» mi chiese Salvatore. «Le strade del quartiere erano affollate», risposi. «tutte le donnine erano prodighe nel concedere i loro favori. Uno spettacolo desolante offerto dai militari che avevano deciso di trascorrere una serata di piacere e in allegria nei bassi di Via delle Finanze e Via Pistone». «Sono arrivate a Catania donne di tutte le età», intervenne Vita. «Vengono addirittura dalle altre città dell’isola, prostitute più per necessità che per piacere». «Vi piombano ogni sera uomini affamati di sesso, dell’amore facile», intervenne il professor Giuseppe. «Ma ci vorrebbe più controllo. Il quartiere è popolato anche da trafficanti di sigarette». «Qualche giorno fa hanno ammazzato Carmelo Messina», disse Salvatore. «Messina era un capo del quartiere. 123


Franco La Guidara Probabilmente è stato ucciso da un emergente che voleva prendergli il posto. Ma San Berillo è un quartiere di omertà. Ucciso un capo se ne fa un altro. Perché questo malcostume nel quartiere non si finirà mai».

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Noi nella bufera VERSo IL CoNtINENtE Capitolo 25 Lecce, 15 aprile 1944 Salii sul treno per il Continente insieme a tonio. Avevamo ricevuto pochi giorni prima un telegramma che ci convocava per il 16 aprile all’Accademia militare di Lecce, ove avremmo completato il corso di allievi ufficiali. tutti i familiari ci accompagnarono alla stazione. Era venuto a salutare anche il papà di Gino, che non aveva avuto più notizie del figlio: tonio gli aveva detto che era stato fatto prigioniero a pochi chilometri dalle linee alleate. Sul treno, negli scompartimenti, c’era aria di spensieratezza. Le ragazze scherzavano con i soldati, le madri distribuivano panini riccamente imbottiti di salumi ai figli, e quasi tutti fumavano lunghe sigarette americane. Anche quelli che avevano trovato posto sui carri-bestiame erano allegri e ridevano rumorosamente. «Riesce difficile comprendere il disinteresse mostrato dai civili per una guerra che si combatte a poche decine di chilometri dalle loro case», dissi. «A sud di Napoli l’arrivo degli Alleati è avvenuto senza troppi sconvolgimenti e si è portati a credere che pure altrove l’avanzata si svolga con altrettanta facilità». «Nel meridione si vedono tutti i giorni montagne di materiali scaricate sui moli, interminabili colonne di automezzi, soldati con uniformi pulite e ben stirate, la facilità con cui essi possono regalare stecche di sigarette, cioccolata, scatolette di latte e carne», disse tonio. «Sembra assurdo che un esercito così poderoso e ben rifornito possa incontrare seri ostacoli. Molti credono che i cruenti scontri di cui parlano i giornali non avvengano realmente. Pensano che siano inventate dalla propaganda alleata». «Vi sono dei paesi rimasti stranamente fuori della guerra», intervenne un giovane napoletano, che si chiamava Saverio. «Polignano, ad esempio, Putigliano, Conversano, la stessa Lecce, miracolosamente isolata nella bufera, dove le macchine e i carri armati passano senza fermarsi, quasi fossero auto di turisti. tutta la pianura pugliese sembra immune dalla guerra. Attraversandola si scorgono a perdita d’occhio vigneti ben coltivati, prati coperti di grandi olivi nodosi, in uno scintillio di colori. 125


Franco La Guidara L’immagine della guerra si avverte soltanto dagli immensi depositi di materiali sparsi per la campagna». «E qui», aggiunse un signore che gli sedeva accanto, «spesso si vedono i nostri soldati intenti a scaricare dagli autocarri casse su casse, infagottati nei cappotti grigioverdi e sorvegliati da soldati neri armati. E quando passiamo accanto a loro con il treno, questi uomini continuano a lavorare a testa bassa ed evitano di incrociare il nostro sguardo». «Meglio un lavoro pulito con gli americani», dissi, «che quello con i tedeschi. Pensate, che più di diecimila uomini che erano stati internati in Germania dopo l’armistizio, hanno giurato per la repubblica di Mussolini e sono stati istruiti in campi di addestramento tedeschi. Fra quegli uomini ci saranno anche le SS italiane, alle quali gli istruttori hanno insegnato i procedimenti scientifici della repressione e della soppressione degli avversari politici». «Per molti italiani Mussolini non ha demerito», intervenne tonio. «Forse è ancora troppo amato. La forza della sua immaginazione, la grandezza della sua visione patriottica, lo fanno apparire un essere dotato di attrattive eccezionali. Perciò egli esercita da molti anni un certo fascino sulla maggior parte del popolo. Un alone di ideale e di poesia lo ha sempre circondato». «E quando sali troppo in alto ti attiri le gelosie», dissi. «Però dobbiamo riconoscergli che riuscì ad operare bene nel 1920. Ma poi… le guerre, la scelta sbagliata dei gerarchi… Ma non sta a noi impiantare un processo». «I bianchi e i neri, i Guelfi e i Ghibellini, i Montecchi e i Capuleti, il divario fra nord e sud… Questa fazioneria continua ancora», disse saggiamente Saverio.

* * * In camerata le luci preannunciavano l’imminente riposo. Qualche ritardatario arrivò di corsa mentre gli altri erano già sotto le coperte. La tromba del contrappello fece sentire i suoi squilli e l’ufficiale di picchetto e il caporale di giornata, iniziarono a percorrere le camerate. Le voci ora si spegnevano mentre qualcuno si confidava quasi bisbigliando con il compagno vicino. Qualche altro si muoveva irrequieto nella branda e la rete cigolava sotto il peso. Poi il buio cadde d’improvviso su ogni cosa. Solo dal corridoio filtrava un leggero chiarore. 126


Noi nella bufera «dormi già?» mi chiese tonio. «No. Mi sto godendo questo momento». Stavo disteso con gli occhi rivolti verso l’alto, oltre il soffitto, verso il cielo infinito e senza tempo. «Lo sto attendendo…» Ed ecco puntuale, come a Modena, il suono della tromba giungere dal solitario cortile. dapprima attenuate, poi prorompenti come una valanga, le note del silenzio passarono attraverso i finestroni. Quelle note vecchie e pur sempre nuove, pacate, serene, apportatrici di oblio, risvegliarono i pensieri più belli. «E la stessa melodia l’hanno ascoltata mio padre e i miei nonni», dissi. «Allora penetrava nelle tende, e le stelle cullavano i loro sogni e il loro riposo. oggi, qui, in questa calda camerata, noi la sentiamo avvolti in candide lenzuola e soffici coperte di lana. Ma sono le stesse note di allora». E la tromba suonava. Pareva un canto. ognuno dei cadetti era solo con se stesso. Il pensiero li manteneva uniti alle persone care e lontane, agli affetti più grandi. Magiche ombre danzavano sopra i vetri delle vetrate, giocavano con le luci dei lampioni mentre il vento agitava le fronde degli alberi creando figure fantastiche sulle severe mura dell’Accademia. Il pensiero volava libero fra monti e valli sfiorando i boschi coperti di neve. «Nora.. i giorni passano veloci e fra poco saremo insieme».

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Franco La Guidara ALL’ACCAdEMIA dI LECCE Capitolo XXVI Lecce, aprile 1944 Ci ambientammo subito nella città salentina. Le ore di libera uscita le dedicammo a visitare la parte vecchia della città, che emanava un fascino inconfondibile con le sue vie strette e tortuose e le tranquille piazzette. Rimanemmo affascinati al cospetto degli edifici dalle forme eleganti ed originali, anche se a volte esuberanti, costruiti con la cosiddetta pietra leccese dal colore caldo dorato. Il fastoso Palazzo del Governo e la chiesa di Santa Croce, la piazza del duomo e il palazzo Vescovile erano le nostre mète preferite. I maggiori maestri del barocco avevano lavorato alla costruzione di questi edifici, singolari per la ricchezza di ornamenti e decorazioni. Gli allievi che giungevano all’accademia provenivano quasi tutti dal centro-sud ed entravano timorosi nelle vaste aule e nella biblioteca. Ma appena indossata l’uniforme si sentivano subito proiettati in un mondo nuovo ove disciplina, ordine e obbedienza si mostravano prive di ogni durezza. Ci adattammo facilmente al nuovo ambiente, i rapporti che allacciammo con i compagni e con i superiori ci resero subito consapevoli della nostra responsabilità di futuri ufficiali in un paese in mezzo alla bufera. L’atmosfera che si viveva in accademia era ben lontana da quella che infuriava nel resto dell’Italia. Le notizie che ci giungevano frammentarie erano preoccupanti. Una pioggia di bombe cadeva sulle città del nord, distruggendo chiese, teatri, musei, abitazioni civili. treviso, Alessandria, Firenze, Faenza, Chivasso, Mantova, Vicenza, Viterbo, Savona… Nessuna regione veniva risparmiata: una settantina di bombardamenti aveva raso al suolo Poggibonsi, ordigni lanciati a casaccio avevano distrutto il teatro Farnese di Parma. Non venivano trascurati dagli aerei neanche i casolari più isolati. tra le formazioni di partigiani si erano inseriti elementi del partito comunista, che avevano l’incarico di intensificare tutte le forme di lotta e di sabotaggio contro i tedeschi e i fascisti. E dai primi di aprile per creare un’atmosfera di lotta erano avvenuti 128


Noi nella bufera numerosi attentati: da Varallo a Pecorara, da Vercelli a Cuneo, da Sampierdarena, a Roma, Genova, Novara… A Firenze era stato ucciso il filosofo Giovanni Gentile e contro questo assassinio si era ribellato anche Benedetto Croce che lo ricordava come «bonario uomo e amico, da noi accolto a festa quando veniva a Napoli nostro ospite». Il 18 aprile Mussolini aveva commemorato Giovanni Gentile e aveva ordinato che non venissero compiute rappresaglie. Aveva anche inviato un messaggio di distensione ricordando che «chi uccideva un fascista uccideva un italiano» e tutti «di qui o d’oltre il Garigliano dovevano invece riedificare la casa comune e lavorare con coscienza e alacre impegno…» Un pomeriggio di fine maggio venni chiamato in sala riunioni. E quasi non credetti ai miei occhi quando mi trovai di fronte Nora e Carlo. «Quando Maometto non va alla montagna, la montagna va a Maometto», scherzò Carlo mentre mi abbracciava con affetto. «Appena gli americani hanno conquistato Cassino ci siamo messi in contatto con le tue sorelle. Nora non vedeva l’ora di ritrovarti». Uscimmo nei giardini dell’accademia, passeggiammo fra i viali e sedemmo all’ombra delle magnolie. Volevo sapere tutto quello che era accaduto da quando ero partito. tante erano le cose da raccontarci. Carlo parlò dei rifornimenti di armi e munizioni che avevano ricevuto dai comandi alleati e delle azioni della sua banda. «dopo febbraio sono stati fatti dagli alleati altri tre tentativi per superare la Linea Gustav tra Cassino e il mare e, sebbene avessero guadagnato qualche palmo di terreno, gli sforzi compiuti risultavano vani», spiegò Carlo. «Il fango immobilizzava ancora i carri armati, e gli americani non vedevano di buon occhio di dover salire a piedi su quelle montagne senza neanche un albero per proteggersi. «Anche ad Anzio erano ad una fase di stasi. Solo con l’arrivo della bella stagione e cessato il problema del fango l’Armata si sarebbe potuta muovere. Eravamo arrivati all’11 maggio senza nuovi ordini e quindi si pensava ad un’altra notte tranquilla. Ma poco prima di mezzanotte più di milleseicento cannoni aprirono il fuoco sulle posizioni tedesche e per quaranta minuti tuonarono senza posa», disse Carlo rivivendo quelle ore. 129


Franco La Guidara «La notte dopo, il generale Anders, il comandante polacco, ci ordinò di attaccare, insieme ai suoi soldati, alcune postazioni tedesche in modo che ciascuna, avendo da combattere per la propria sopravvivenza, non potesse portare aiuto ai compagni. Per tutta la notte i polacchi su un fronte e noi sull’altro, andammo avanti in continui corpo e corpo fra crepacci minati e fortificazioni. Purtroppo si persero quattro amici». «Anche Rocco», intervenne Nora. «Gli inglesi non riuscivano a passare il Rapido», riprese a raccontare Carlo. «Il 14 maggio il generale francese AlphonseJuin decise di far partire i suoi dodicimila goumiers su per le montagne, in direzione parallela all’avanzata nella valle delle divisioni francesi e americane. I goumiers non incontrarono alcuna resistenza perché i tedeschi erano convinti che nessuno avrebbe tentato di attaccare su quei monti e in poche ore questi soldati si portarono oltre la difesa tedesca e conquistarono Esperia. «I goumiers sono truppe marocchine specializzate nella guerra di montagna», spiegò Carlo. «Indossano sulla divisa il burnus arabo a strisce colorate e preferiscono il coltello al fucile. «Non sono inquadrati in formazioni regolari, ma in goums, cioè gruppi di una settantina di uomini comandati da un ufficiale francese. La loro specialità è di sapersi muovere in silenzio e veloci sui sentieri più impervi. Sono capaci di spingersi su un massiccio montano dove le truppe regolari non riuscirebbero mai a passare. Attaccano l’avversario, lo uccidono e tirano avanti senza curarsi di quanto accade attorno a loro. Hanno l’abitudine di tagliare le orecchie al nemico ucciso per farne collane e ornamenti». «Sono degli uomini temibili», esclamai. «Non ce ne hanno parlato qui in accademia». «Non sono crudeli solo in guerra» intervenne Nora. «Ad Esperia non soltanto i tedeschi hanno subìto la loro brutalità. Gli abitanti del paese avevano accolto festosamente l’arrivo dei soldati, ingannati forse dal fatto che i goumiers hanno il casco inglese. E questi hanno abusato delle donne, giovani e vecchie e non hanno risparmiato neanche gli uomini, e hanno ucciso quanti opponevano resistenza e spesso… anche chi aveva subito violenza». «È l’aspetto più turpe della guerra», commentò Carlo. «Ma la responsabilità non risale solo agli istinti degli uomini. Ho letto 130


Noi nella bufera un manuale, diffuso fra le truppe di colore del Corpo francese. In esso i marocchini e gli algerini vengono paragonati ai vecchi numidi di Annibale incitati a conquistare Roma per vendicarsi di Scipione. «Ho deprecato questo episodio con il comando alleato», continuò Carlo. «Mi hanno risposto che il generale Alexander sa che i marocchini in guerra non sono nuovi a imprese del genere, ma egli non può stare a sottilizzare troppo perché per lui conta soltanto che i goumiers hanno fatto un varco nelle difese tedesche, attraverso il quale ho potuto far passare felicemente una divisione inglese». «Malgrado queste pagine nere, la Linea Gustav nella Valle del Liri è stata superata il 16 maggio e due giorni dopo, alle dieci del mattino, la bandiera con l’aquila bianca dei polacchi è stata issata sul Monastero. E accanto a questa, più tardi, è sventolala la bandiera britannica. da quel momento il mio solo pensiero è stato quello di raggiungerti», concluse Nora.

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Franco La Guidara MESSAGGIo AI PARtIGIANI Capitolo XXVII Lecce, novembre 1944 Si cominciarono a tirare le somme sui danni che la guerra aveva già procurato. Su Il Popolo, giornale della democrazia Cristiana, apparvero le prime cifre: cinque milioni di vani distrutti e sette milioni di italiani senza tetto e alloggiati in abitazioni di fortuna, un milione di ettari di terreno bonificati, ridotti, per i danni subiti, di gran parte della loro capacità produttiva; la rete stradale pressoché impraticabile con quasi tutti i ponti distrutti o gravemente danneggiati, inesistenti gli automezzi funzionanti. Anche l’attrezzatura ferroviaria era stata distrutta e la marina mercantile interamente annientata; l’energia elettrica, nell’Italia liberata, era solo nelle grandi città, il patrimonio zootecnico falcidiato, con gravi conseguenze per l’alimentazione e le industrie derivate. Anche il morale dei partigiani risentiva della lunga lotta. E il generale inglese Harold Alexander ritenne opportuno inviare un messaggio. Nel tardo pomeriggio del 13 novembre stavamo in ascolto delle notizie trasmesse dall'emittente «Italia combatte» (la stazione radio attraverso la quale il comando anglo-americano manteneva i contatti con le formazioni del C.L.N.), quando fu trasmesso un proclama, a nome del Comandante supremo dell’esercito alleato in Italia. «L’inverno è sopraggiunto. Gli obiettivi degli eserciti alleati in Italia sono stati e sono di distruggere le divisioni tedesche e di cacciarle fuori dai confini. «Fino a che punto gli obiettivi sono stati raggiunti? delle divisioni tedesche impiegate in Italia solo dall’11 maggio scorso, dall’inizio cioè della nostra campagna estiva, 34 mila uomini sono rimasti uccisi, 104 mila feriti e 56 mila fatti prigionieri. «dallo sbarco sull’Italia continentale noi siamo avanzati per 850 chilometri attraverso terreni tra i più difficili di tutto il mondo. La media dell’avanzata non appare, è vero, molto veloce, si tratta della media di due chilometri al giorno». «Vanno proprio a passo di lumaca» commentò Emilio, che proveniva dalla Valle dell’ossola. «In Italia vi sono ancora più di 20 divisioni tedesche», sotto132


Noi nella bufera lineò il generale Alexander, «ma sono truppe delle quali la Germania ha urgente bisogno per la difesa dei propri confini orientali e occidentali. «Il piano della nostra difesa offensiva è culminato con la liberazione di Roma due giorni prima dello sbarco alleato in Francia. L’ottava armata era stata ammassata dinanzi alla Valle del Liri in modo che l’attacco venisse lanciato da Cassino con il massimo della forza e con la maggiore efficacia. «Roma è stata liberata e noi siamo avanzati verso Firenze e ci siamo avvicinati all’altra grande linea difensiva tedesca, alla linea gotica che si estende da Pisa a Rimini, costituendo la più formidabile linea montana d’Italia. «La fine della campagna estiva, col sopraggiungere della pioggia e del fango, ci trova vicini a Bologna. «ora devo ricordare che in nessun momento noi ci siamo trovati in superiorità numerica. Abbiamo sì una superiorità in equipaggiamento e nell’aria, ma dobbiamo calcolare che il terreno su cui abbiamo dovuto combattere è il migliore per la difesa tedesca, quindi il peggiore per il nostro attacco. «I nostri eserciti hanno combattuto senza posa dall’11 maggio contro un nemico abile nel districarsi da situazioni minacciose ma adesso il ritmo della battaglia viene rallentato per l’arrivo dell’inverno. Anche i carri armati sono stati ostacolati dalla pioggia e dal fango. «Questa è la situazione: la diminuzione del ritmo degli eserciti regolari porta parallelamente al rallentamento delle attività complementari combattenti sul fronte della resistenza. «I patrioti, chiamati a fare il massimo sforzo nel momento della nostra avanzata, non hanno dato tregua ai tedeschi, hanno sabotato le loro comunicazioni, hanno combattuto piccole battaglie che però si sono dimostrate di grande importanza nell’ostacolare i piani difensivi tedeschi, hanno compiuto atti individuali di valore ed inferto colpi che hanno meritato la lode del comandante in capo e del mondo. «I patrioti italiani hanno imbracciato i mitra, come hanno fatto quelli di tutta Europa per cacciare il nemico dal proprio Paese. ora essi hanno anche un altro nemico da affrontare: l’inverno. «E sarà un inverno duro perché i patrioti si troveranno in difficoltà per il vettovagliamento e le munizioni. L’inverno ha effetto 133


Franco La Guidara non solo sulle risorse locali ma ostacola fortemente anche il lancio dall’aria dei rifornimenti. Saranno poche le notti in cui ci sarà possibile volare, ma i nostri aerei faranno di tutto per non mancare agli appuntamenti. Molti gruppi non saranno in grado di operare bene come hanno fatto nei mesi scorsi e per quest’inverno dovranno stare in guardia, in attesa. Non dovranno affrontare rischi non necessari. Agiranno solo se si presenteranno bersagli vantaggiosi. «Parla bene il generale Alexander», intervenne Emilio, un giovane bolognese giunto da poco. «Lui sta ben protetto e al caldo ma per noi non è stato facile organizzare le bande. La resistenza si prepara specialmente sulle montagne oltre che in città. E la battaglia deve continuare! Il diritto alla vita richiede il sacrificio di molte vite. tu hai conosciuto Antonio di dio?» mi chiese. «Era un tuo compaesano, era nato a Palermo e si trovava con te all’Accademia di Modena». «Non passava inosservato», ricordai. «Ma perché mi chiedi se l’ho conosciuto?» «Non l’hai saputo? È stato ucciso il 12 febbraio». Antonio era uno sportivo, era campione nazionale di fioretto, e nell’agosto del 1943 era stato nominato sottotenente e assegnato al 114° reggimento fanteria Mantova. Però si trovava ancora alla scuola di applicazione quando venne proclamato l’armistizio e dopo un tentativo di opposizione ai tedeschi fu catturato e rinchiuso nella Cittadella. «Antonio riuscì ad evadere», informò Emilio, «e raggiunse il fratello maggiore Alfredo, che era impegnato nell’organizzazione della resistenza in Val di Strona in Piemonte. «Era una notte di neve quando Antonio poté abbracciare il fratello. Fra loro intercorsero poche parole. Il patto di alleanza fu segnato da un rapido incontro di pupille, da una stretta di mano, di una finta sciabolata al cuore». Anticipai le parole di Emilio: «Come per indicare il bersaglio da colpire: i nazisti». «L’incontro tra i due fratelli avvenne in una baita, di notte, eravamo presenti quasi tutti noi partigiani», continuò Emilio. «Non si vedevano da parecchi mesi, ricordarono con nostalgia la famiglia lontana, soprattutto la mamma Adele, che era tanto orgogliosa di avere due figli così forti, così generosi, impegnati nello sport e valorosi come ufficiali, ma ora sbandati sulle montagne». 134


Noi nella bufera «Alfredo era campione di scherma delle tre armi e anch’egli aveva frequentato l’accademia di Modena, da dove era uscito sottotenente nel gennaio del 1941», precisai. «Era più grande di due anni del fratello». «Il giorno dell’armistizio», proseguì Emilio, «Alfredo si trovava a Vercelli al comando della 9a compagnia del primo reggimento fanteria carrista che stava per trasferirsi a Novara. dopo un rapido combattimento contro i tedeschi, Alfredo dovette rifugiarsi con alcuni dei suoi uomini sui monti vicini e formò un gruppo di volontari disposti alla lotta clandestina. Fu catturato ma evase dalle carceri di Novara, e riprese l’organizzazione di reparti e formò e comandò la divisione Val toce che dette del filo da torcere nella campagna della Val d’ossola. «Purtroppo Alfredo, che era impegnato nell’organizzazione della resistenza, è stato arrestato questo febbraio a Milano e Antonio lo ha sostituito nel comando. «Ma pochi giorni dopo, la sera del 12 febbraio per l’esattezza, con il capitano Filippo Beltrami, avevamo effettuato una posa di mine sulla ferrovia ornavasso-domodossola. Eravamo una cinquantina ed eravamo sfiniti. Ci sistemammo alla meglio sul pendio della balza di Megolo. Poliziotti e brigatisti passarono dalla zona. Erano numerosi e bene armati. Noi avremmo dovuto rinunciare all’attacco, ma per non sembrare vigliacchi affrontammo il combattimento. La decisione si rivelò temeraria. Con Antonio di dio si trovavano anche Beltrami, Secchia, Moscatelli, Bettini, Pajetta, Carletti e tanti altri. Nessuno di loro mosse obiezioni sulla pericolosità dell’azione. tutti avevamo fatto nostro il motto di Garibaldi: «Gettandosi alla liberazione del proprio Paese, bisogna considerare la vita come uno sputo». Anche gli avversari stimavano i fratelli di dio e Beltrami, sapevano che erano ferventi cattolici ma audaci guerriglieri e li chiamavano i cavalieri della macchia. «La posizione non era favorevole e Beltrami accettò la battaglia a ridosso del muraglione scoperto del monte e con al fianco destro un ampio pianoro che facilitò l’accerchiamento da parte dei tedeschi. A niente valsero i mitra di Beltrami e di Bettini contro le granate dei mortai tedeschi, che erano riusciti a infiltrarsi tra le nostre formazioni. Fu Pajetta ad accorgersi per primo del pericolo e usò il suo mitra come una pistola finché venne abbattuto da una raffica. «Rispondemmo tutti sparando le ultime cartucce: caddero anche Antonio di dio, che proteggeva la ritirata, Pajetta, Carletti 135


Franco La Guidara e Citterio». Emilio fece una pausa. Si passò le mani fra i capelli come per cacciare dei brutti ricordi poi continuò: «La morte del fratello fu per Alfredo un terribile colpo. Riuscì ad evadere dal carcere e riprese il suo posto di combattimento e partecipando a tutte le operazioni sempre in Val d’ossola. «Era dai primi di ottobre che i tedeschi e i fascisti si preparavano ad una grande offensiva contro noi partigiani del territorio libero dell’ossola. Essi avevano artiglieria da montagna, carri armati e autoblindo, e avevano duemila paracadutisti pronti ad attaccare su Gozzano e Gravellona. La nostra inferiorità numerica era tale che di dio richiese un pronto intervento da parte degli anglo-americani. Ma arrivarono solo un paio di vagoni dalla Svizzera con patate e medicinali. «Il freddo cominciava a farsi sentire soprattutto per i reparti sulla linea montana. L’offensiva del nemico era iniziata l’11 ottobre. Eravamo poco più di tremila partigiani distribuiti su un vastissimo fronte. con pochi munizioni, poche mitragliatrici, niente cannoncini anticarro, niente cannoni contro un nemico quattro volte superiore potentemente armato e sostenuto da una forte artiglieria. «Un primo duro attacco sotto la pioggia venne sferrato sul caposaldo di ornavasso, presidiato da un battaglione della Val toce del comandante Alfredo di dio. Noi ci ritirammo verso Piedimulera. ornavasso venne occupata dai tedeschi. Il giorno dopo, l’attacco riprese su tutto lo schieramento con rinnovata energia. «La pioggia insistente e violenta, che accompagnava il fuoco, cominciava a incidere seriamente sulla nostra resistenza fisica. La situazione era divenuta insostenibile, pensavamo di ritirarci. «La situazione però, per quanto critica, non era ancora disperata. I tedeschi erano fermi a Migiandone ed alla Bettola. «Il 12 ottobre, Alfredo di dio, accompagnato dal colonnello Attilio Moneta, dal maggiore canadese George Patterson e dal plotone comando, si recò in macchina in Val Cannobina per controllare di persona la situazione del fronte. Qui accadde l’irreparabile: i tre, giunti ad un punto che ritenevano ancora presidiato dai partigiani, si trovarono a faccia a faccia con una colonna tedesca. Vana fu la loro resistenza. di dio e Moneta caddero mortalmente feriti. Patterson, avvalendosi della sua divisa di uffi136


Noi nella bufera ciale canadese, si arrese prigioniero. «La morte del comandante di dio si è diffusa in un baleno e ha provocato costernazione. Malgrado le sue idee anticomuniste egli riconosceva nelle forze garibaldine le unità più forti e più attive della guerra partigiana ed era stimato per il suo coraggio e la dedizione alla lotta di liberazione», spiegò Emilio. «Ma tu, perché sei venuto qui a Lecce?» chiesi. «Sono venuto per finire il corso e per specializzarmi in comunicazioni», chiarì Emilio. «Perché se errori sono stati commessi da parte nostra e non ci è stato possibile tenere per più lungo tempo l’ossola, debbo dire che nessun aiuto ci è venuto da parte degli alleati. Noi avevamo vicini due ottimi campi di aviazione, a domodossola e a Santa Maria Maggiore, dove si sarebbero potuti aviolanciare tutti i rifornimenti di cui avevamo estrema necessità. Inoltre a domodossola avrebbero potuto sbarcare anche i reparti aviotrasportati. Ebbene, non soltanto questi reparti non sono mai arrivati per quanto li avessimo richiesti più volte, ma non ci sono arrivati né un fucile né una cartuccia».

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Franco La Guidara INCoNtRo CoN GIULIANo Capitolo XXVIII Palermo, 28 dicembre 1944 Al bar di via Maqueda, il direttore del Giornale di Sicilia era già seduto al tavolino quando io giunsi e parlava animatamente con il professor Giuseppe . «Avete visto», disse Girolamo Ardizzone, «siamo riusciti a far vedere la luce al giornale con la vecchia testata, anche se abbiamo dovuto stamparlo in formato ridotto, a sole quattro facciate in cui riusciamo a far entrate tutte le notizie relative alla faticosa avanzata delle armate alleate lungo la penisola. È scomparsa la terza pagina, inesistente è la pubblicità, ridotta all’essenziale la cronaca. È mancato pure il rifornimento della carta. Abbiamo usato anche la velina, quella che di solito viene adoperata per l’imballaggio degli agrumi. Siamo riusciti ad adattare queste bobine alle rotative e il giornale si legge agevolmente». «L’importante è che si riesca a farlo uscire», esordii prendendo posto al tavolino. «Stanno facendo colpo le notizie che andiamo pubblicando su Salvatore Giuliano. Avete letto di lui?» chiese il direttore del giornale. «Ecco l’autore degli articoli», disse indicando un giovane che stava entrando nel locale. Il giornalista si presentò e si unì alla compagnia. «Purtroppo questo nuovo omicidio ha richiamato l’attenzione di tutti i giornali su Giuliano», esordì il cronista. «L’uccisione dei due uomini, a Montelepre pochi giorni fa, ha avuto per titolo Strage di Natale. Finora la fama di Giuliano non era uscita dalla Sicilia perché le autorità non volevano far sapere che le forze dell’ordine isolane insieme a centinaia di altri uomini venuti dal Continente, non erano riuscite in un anno e mezzo a bloccare una ventina di banditi». «E adesso si parla di lui come di un difensore contro le angherie dei latifondisti», aggiunse Ardizzone. «Per me, Giuliano è una vittima della guerra», disse il giornalista convinto. «Pensate che egli ha appena ventidue anni e ha prestato servizio militare con profitto. Sa usare bene il mitra e le bombe a mano. Purtroppo Montelepre, il paese dove è nato, è 138


Noi nella bufera povero e il grano è insufficiente per gli stessi abitanti. I contadini devono portare ugualmente il grano all’ammasso e quindi molti giovani, e anche il nostro Giuliano, hanno tentato la via del contrabbando. «trovare il grano è un gioco da ragazzi, il difficile è trasportarlo da un paese all’altro perché ci sono molti posti di blocco e quindi Giuliano aveva poca speranza di passare inosservato». Il giornalista fece una pausa. «Quando venne fermato dai carabinieri inutili furono le sue affermazioni che il grano gli serviva per la sua famiglia. Il sacco non era a posto con le regole annonarie e gli fu sequestrato», intervenne il direttore. «Giuliano tornò ad acquistare altro grano e cercò di portarlo a Montelepre. Anche questo gli venne sequestrato. Il padre, disperato perché turiddu aveva perso soldi e grano, cercò di convincerlo a lasciar perdere il contrabbando. Ma turiddu comprò nuovamente un quintale di grano. Questa volta, si era nel settembre ’43, pochi giorni prima dell’armistizio, lo ricordo perfettamente, ci fu uno scontro a fuoco con i carabinieri e da quel momento Giuliano divenne un fuorilegge: in seguito rubò anche armi e munizioni. «I suoi amici lo proteggono perché aiuta i più bisognosi e si erge a difensore degli oppressi. A Montelepre c’erano solo cinque carabinieri che, stufi delle bravate di Giuliano, sono riusciti ad ottenere da Palermo ottanta uomini agli ordini del tenente Felice testa. I carabinieri per quasi un anno lo hanno braccato, hanno arrestato i suoi familiari, gli hanno teso tranelli, ma non sono riusciti a catturarlo». «tre giorni fa, proprio il giorno di Natale», informò il giornalista, «Giuliano ha compiuto un atto che molti non gli perdoneranno. È tornato in pieno giorno a Montelepre approfittando che i carabinieri erano quasi tutti in licenza. Ha percorso con il mitra spianato la strada principale, gridando: «Io, sono il re di Montelepre. Nessuno può aspirare a questo titolo. Chi è contro di me venga fuori!» «due uomini sono scesi sulla strada con le lupare spianate ma niente hanno potuto contro il mitra di turiddu Giuliano», concluse il corrispondente del giornale. «Ed ecco che da questa sua ultima azione sono venuti i titoli Strage di Natale». «Scommetto che Giuliano è riuscito a sfuggire ai carabinieri anche questa volta», dissi acceso da un insolito interesse. «Infatti», ammise Ardizzone. «Ma per i siciliani Salvatore 139


Franco La Guidara Giuliano non è un bandito. È il paladino degli oppressi e sono convinti che i proventi dei suoi bottini vadano ai poveri». «Come sei riuscito a incontrare Giuliano?» chiesi al giornalista. «Non è stato difficile», fu la risposta. «Sono andato a trovare sua madre e le ho detto il motivo della mia visita. La donna è stata gentile e due giorni dopo suo figlio mi ha mandato a chiamare. tutti credono che Giuliano sia a Partinico invece è rimasto vicinissimo alla sua famiglia». «Non ci pensare nemmeno per scherzo», disse con tono allarmato il professor Giuseppe indovinando i miei pensieri. «Siamo venuti a Palermo per incontrare i cugini Mazzamuto ma poi.. si torna subito a Catania».

*** «Mio padre», disse Salvatore Giuliano, «nel 1906 diventò emigrante. Andò ad abitare a Brooklyn, nella 75esima strada. Per sbarcare il lunario faceva di tutto: il lattaio, il fruttivendolo, il contadino, il muratore… Mia mamma, Maria Lombardo, era felice e affrontava i sacrifici e risparmiava per tornare al paese. Nel 1913 nacque mio fratello Giuseppe e sette anni dopo Mariannina. Ma quando mia madre si accorse di essere nuovamente incinta i risparmi erano sufficienti per il ritorno a casa. E così io, il 22 novembre del 1922, fui battezzato a Montelepre con il nome di mio padre: Salvatore Turiddu Giuliano. «Avevo sedici anni quando chiesi a mio padre di mandarmi a lavorare in città. Lui non voleva perché diceva che in campagna c’era bisogno del mio aiuto. Allora io gli dissi: «Con quello che guadagnerò ti pagherò un bracciante». Non mi andava proprio di spezzarmi la schiena sulle zolle. Andai a lavorare presso la società elettrica siciliana come aiutante elettricista e poi come tendifili telefonico. Il lavoro mi piaceva però non capivo perché gli operai più anziani, facendo il mio stesso lavoro, ricevessero una paga quattro volte più alta della mia. Questa disparità mi sembrava insopportabile. Sollevai tanta polvere che mi feci licenziare e tornai nei campi con mio padre e con mio fratello Giuseppe. «Con lo sbarco degli americani, nell’agosto dello scorso anno, i soldati italiani e tedeschi in fuga avevano abbandonato mitra, pistole, bombe a mano, e pure equipaggiamenti pesanti e anche cannoni. Molto materiale era finito in mano di persone che avevano conti in sospeso con la legge. d’altronde il commercio clandestino di armi era ed è una delle fonti di maggiore guada140


Noi nella bufera gno per le cosche. Anch’io ho comprato delle pistole dagli jugoslavi. «dalle carceri ci sono state evasioni: i detenuti, condannati alle pene leggere, se ne sono tornati a casa. Gli altri si sono dati alla macchia. Per questo ho preso l’abitudine», spiegò Salvatore Giuliano, «di girare sempre armato. Adesso lo facciamo quasi tutti. dobbiamo pur difenderci dai rapinatori così frequenti sulle nostre montagne, anche perché si sono aggiunti gli jugoslavi che erano prigionieri dei tedeschi». «Ho parlato qualche giorno fa con Girolamo Ardizzone, il direttore del Giornale di Sicilia», lo informai. «Ha ricevuto alcune tue lettere che però contrastano con le notizie che gli manda il suo corrispondente e non sa se le potrà pubblicare. Ma ti rendi conto in quali pasticci ti sei messo? «Non è colpa mia! È colpa del destino! tu eri fuori dall’Isola e non sai come sono andate qui le cose. tutti i nostri contadini sono stati costretti a portare il grano all’ammasso e noi, per fame e in mancanza di lavoro, abbiamo dovuto arrangiarci. I carabinieri non hanno dato tregua ai contrabbandieri di grano, a quelli cioè che alimentavano la borsa nera del frumento sottratto all’ammasso. Molti poveracci come me lo hanno fatto per fame ma altri ne hanno fatto un mestiere redditizio. «Io e mio fratello Giuseppe abbiamo iniziato il contrabbando con viaggi saltuari: ci si caricava il sacco sulle spalle, a volte di 100, a volte di 120 chili, e ci si alternava nel trasportarlo. Poi si riuscì a comprare un mulo e allora il trasporto diventò più redditizio poiché si potevano portare anche quattro sacchi. «Così io e mio fratello si faceva la spola tra Montelepre e i paesi vicini dove appunto, presso fornitori fidati, si riusciva a trovare qualche sacco di frumento». «Ma quel giorno di settembre?…» chiesi. «Quel 2 settembre dello scorso anno fu un giorno particolarmente sfortunato», ammise turiddu. «Ero riuscito a comprare 120 chili di frumento nei pressi di San Giuseppe Jaco, vicino a Palermo… a una trentina di chilometri da Montelepre. Avevo allungato il tragitto scegliendo sentieri poco battuti per evitare i posti di blocco. A Quarto Mulino, all’improvviso, mi trovai di fronte il carabiniere Antonio Mancino e l’appuntato Renzo Rocchi. Non ebbi alcuna possibilità di fare dietrofront perché mi si avvicinarono anche le guardie campestri Vincenzo Manciaracina e Giuseppe Barone. 141


Franco La Guidara «Erano le cinque del pomeriggio, il sole incendiava la trazzera e mi bruciava gli occhi», ricordò turiddu Giuliano. «Mancino imbracciò l’arma e mi intimò di scendere dal mulo, l’appuntato Rocchi mi chiese la carta d’identità per redigere il verbale di confisca. «Io non negai nulla», assicurò Giuliano. «Il grano serviva per la mia numerosa famiglia… Cercai la loro comprensione… Li pregai di chiudere un occhio perché per comprare quel sacco avevo dato fondo a tutti i miei risparmi…. Ma quelli niente!» «La legge vuole che il carico sia confiscato all’istante», disse con tono rude il carabiniere Mancino. «Anche il mulo ti dobbiamo sequestrare». «dimmi chi ti ha venduto il frumento!» intimò l’appuntato Rocchi mentre cominciava a scrivere il verbale. «La rabbia mi salì agli occhi», disse Giuliano. «Non ci vidi più. Il grano sequestrato, va bene. Il mulo sequestrato, va bene. Ma fare la spia, mai! È una questione d’onore. Proprio in quell’istante dalla trazzera apparve un altro contrabbandiere. Mancino spostò la sua arma in quella direzione. Io in quattro salti guadagnai il bordo della strada e mentre stavo per raggiungere il boschetto echeggiò uno sparo. Avvertii un gran dolore al fianco sinistro, ma ebbi la forza di trascinarmi dietro un albero. Non volevo andare in prigione, sarebbe stato un dolore troppo grande per mia madre, pensai che era meglio morire in un conflitto a fuoco di cui tutti i giornali avrebbero parlato. Presi la pistola, che tenevo infilata nello scarpone, mi alzai in piedi e sparai… ma non per uccidere, lo giuro! Il carabiniere Mancino cadde colpito al cuore. L’appuntato Rocchi e le guardie campestri si fermarono per portargli soccorso e io ne approfittai per scappare. Poco dopo trovai un contadino che mi nascose nel suo carro di fieno e mi portò fino a Borgetto dove potei essere curato. Però quel giorno fu l’ultimo da uomo libero», disse con rammarico. «Ma uccidesti Mancino!» obiettai. «Uccisi per legittima difesa!» asserì Giuliano convinto di essere nel giusto. «Mia madre, santissima donna, capì subito che ero stato vittima della sfortuna e poiché non voleva vedermi in carcere pensò ad approntarmi un rifugio proprio vicino a casa: nelle grotte di Calcerame, la collina che domina Montelepre. Io ne conoscevo ogni ingresso e quando lasciai la casa degli amici di Borgetto trovai il nascondiglio veramente accogliente: una branda, coperte, una cucina da campo con pentole e piatti, molte 142


Noi nella bufera giare d’acqua e provviste di pane, salumi, formaggio, olive. Mi sentivo veramente tornato a casa. Mia madre mi guardava dalla sua finestra, io la indovinavo con i miei pensieri. «Mi dispiaceva di non poter parlare con mia madre, le voglio un bene dell’anima. Una notte, era fine ottobre, presi il mitra e scesi verso Montelepre. Procedevo cauto anche se sapevo che in giro non c’erano i carabinieri perché, questi, dopo il tramonto non escono dalla caserma. Furono ore indimenticabili: potei riabbracciare mia madre, vennero tutti i familiari, passammo la notte a parlare. Prima del sorgere del sole ritornai al mio nascondiglio. da allora scendo quasi ogni notte a casa: è un gioco da ragazzi!» «Mi puoi raccontare della strage di Natale?» «Quale Natale?» chiese Giuliano. «Quello dello scorso anno o di quest’ultimo?» «di quella dello scorso anno non ne so niente», confessai. «Mi trovavo in Continente». «Il Natale del ’43», ricordò Giuliano, «era il primo che si festeggiava dopo la guerra. Ma i carabinieri stavano all’erta. La mia famiglia non poteva mancare alla messa, la gente si sarebbe insospettita. Perciò poco prima di mezzanotte, i miei genitori e mio fratello Giuseppe si avviarono verso la chiesa. Mariannina invece era restata a farmi compagnia. «I miei genitori avevano fatto pochi passi quando furono bloccati da una pattuglia di carabinieri. Li comandava Aristide Gualtiero giunto da poco da Palermo e che quindi per fortuna non mi conosceva». «Chi di voi è Salvatore Giuliano?» chiese Gualtiero. «Sono io», rispose mio padre. «E diceva la verità, solo che si guardò bene dal dire che il ricercato era suo figlio. Il carabiniere fece salire sul camion mio padre, mio fratello, mio zio e alcuni cugini. dalla finestra di casa seguii la scena con il cuore e la testa che mi scoppiavano e la mia prima reazione fu di far fuoco sui militari che ancora non erano saliti sul camion. Ma poi pensai a qualcosa di più sicuro. Attraversai la strada di corsa e mi appostai dietro una curva: quando l’autocarro fu a portata di tiro feci fuoco a volontà: colpii a morte Gualtiero mentre gli altri carabinieri presero a sparare a casaccio convinti di essere caduti in un tranello. Ed io mi potei allontanare indisturbato. Però i miei parenti finirono lo stesso carcerati». 143


Franco La Guidara «Mentre la strage di questo Natale?» gli chiesi coinvolto dal racconto. «Prima di arrivare a quello devo spiegarti un’altra cosa», rispose Giuliano. «devi sapere che dal ‘43 le bande dell’isola sono notevolmente aumentate. Molti capi sono rimbalzati agli onori della cronaca creandosi l’aureola di difensori dei deboli o di intermediari per una vita diversa. Prendi per esempio Giuseppe La Marca allievo del crudele Giovanni dina, che ha stabilito il suo quartier generale sulle Madonie ed è riuscito sempre ad evitare tranelli e agguati. Non dimenticare Giuseppe dottore che opera in provincia di Enna, sino ai vasti territori di troina e Cesarò, e della sua guerra contro Aurelio Bonomo, vicesindaco della tua Centuripe, che è accusato di affamare il popolo! Non dimenticare Giuseppe Gullotta e Giuseppe Uccellatore che a Centuripe hanno compiuto estorsioni, sequestri e hanno ucciso possidenti e carabinieri. «della mia banda invece fanno parte mio zio Francesco, cinque miei cugini e poi Cucchiara, Cucinella… e altri giovani che ho fatto fuggire dal carcere. Io sono il tredicesimo e per non essere irriverente mi chiamo Salvatore come il nostro Signore Gesù», scherzò turiddu Giuliano. «Per il momento ci stiamo addestrando. A volte la mia banda viene confusa con quella di altre organizzazioni criminali che agiscono nella zona. tra Montelepre, Castellammare del Golfo, San Giuseppe, Alcamo, Borgetto, Sagana non si contano più gli abigeati, le estorsioni, i ricatti ai danni dei proprietari terrieri». «Ma il tuo nome corre di bocca in bocca», dissi. «Per certo posso dirti dell’operazione che abbiamo compiuto a casa del duca di Pratamento», ridacchiò Giuliano tirandosi sugli occhi la visiera della coppola. «Siamo entrati facilmente nella sua fattoria, in zona Calatubo, tra Alcamo e Partinico, e per più di quattro ore ho tenuto sotto la minaccia del mitra il duca, la sua famiglia e alcuni campieri mentre i miei uomini svuotavano i magazzini: oltre al grano, al formaggio, all’olio abbiamo portato via anche una decina di bovini. Posso assicurarti che non è stato esploso neanche un colpo d’arma da fuoco, perché nessuno si è sognato di protestare. Stai tranquillo, che con quello che abbiamo lasciato nei magazzini, la famiglia del duca potrà campare benissimo fino al prossimo raccolto». «Un’azione ben condotta», commentai. «Lo sai chi è stato eletto sindaco di Palermo?» chiese 144


Noi nella bufera Giuliano a bruciapelo. «No», fu la mia risposta. «dall’ottobre del 1943, Lucio tasca di Bordonaro, che è uno dei più accesi fautori dell’indipendentismo siculo. Sono al corrente di una lettera che Finocchiaro Aprile, teorico della fiamma scissionista, ha scritto a re Vittorio Emanuele III, invitandolo ad abdicare perché “se lui intende restare, noi siciliani non vogliamo più saperne di essere ancora schiavi del Continente“. È l’ora di diventare arbitri del nostro destino e trasformare la Sicilia in uno stato libero, indipendente, repubblicano. «A far sì che ciò si avveri si sono avvalsi del colonnello Charles Poletti, che è il capo dell’ufficio centrale dell’Amgot… I sindaci nominati dagli alleati in Sicilia occidentale sono noti capi o “presunti” capi della mafia. E in molti centri, soprattutto dell’entroterra, con le buone o con le cattive, il consenso passa proprio attraverso mafiosi o amici di mafiosi. «Avrai notato che la bandiera tricolore con lo stemma sabaudo è vietata. Mentre quella in giallo-oro dei separatisti, con il simbolo della trinacria viene invece tranquillamente esposta. È persino proibito cantare o fischiettare l’inno nazionale ma si può farlo con quello dei separatisti che tra l’altro dice: “Contro i tiranni italici, nemici della nostra terra, ognun le armi afferra, gridando libertà!» «I prezzi dei generi alimentari sono infatti alle stelle», confermai. «Mi stava raccontando mio zio Mazzamuto che a Palermo, il 19 ottobre, ci sono state tre giornate di sangue, che sono state chiamate la rivolta del pane. Palermo era indubbiamente ridotta agli estremi. La popolazione si era raccolta davanti alla Prefettura, in via Maqueda, per protestare contro gli abusi annonari e l’insostenibile rialzo dei prezzi e per chiedere aiuti di emergenza. «La manifestazione è degenerata quando sono intervenuti gli affamati dei quartieri più poveri ma soprattutto quando sono giunti gli uomini inviati dai mafiosi. La forza pubblica è intervenuta sparando contro la folla...» «Per tre giorni Palermo è stata teatro di scontri sanguinosi fra polizia e bande delinquenziali: ci sono stati sedici morti e un centinaio di feriti», disse Giuliano interrompendomi. «Le bande avevano obiettivi precisi: l’ufficio delle imposte, quello del registro, la conservatoria delle ipoteche. Il loro scopo era quello di far scomparire i documenti riguardanti i più noti mafiosi della Sicilia. 145


Franco La Guidara In queste terribili giornate il grido separatista si è levato più volte». «Vedi», proseguì Giuliano, «io e i separatisti abbiamo un nemico in comune: le forze dell’ordine. Io vorrei unirmi ai separatisti così potrei riscattare i miei reati e tornare un uomo libero». «Hai già avuto contatti con loro?» chiesi pur sapendo che sarebbe stato difficile avere una risposta veritiera. «Sì», rispose sincero. «C’è chi è venuto per invogliarmi a battermi per la liberazione della nostra terra, affinché la Sicilia diventi parte degli Stati Uniti, una nuova stella sulla bandiera americana. Mi hanno anche assicurato che così avrò modo di arruolare dei nuovi uomini». «Stai attento turiddu», ammonii. «Sì, ti sosterranno, ti accarezzeranno, ti lusingheranno fino a che gli sarai utile, ma poi ti elimineranno». «Parli come mia madre», disse Giuliano. «Ci penserò bene!» «Allora mi racconti il perché della strage di Natale di pochi giorni fa?» chiesi. Avevo capito che era vicino il momento del commiato. «Questa volta è stata una questione d’onore», confessò Giuliano. «due contrabbandieri di Borgetto si erano stabiliti a Montelepre e andavano dicendo che io non potevo più essere d’aiuto ai miei compaesani perché mi ero rifugiato sulle montagne di Partinico. E così essi potevano agire indisturbati perché tutti i carabinieri erano stati mandati a cercarmi a Partinico dove pensavano che io mi fossi nascosto. «Questi due briganti continuavano con le loro ruberie e cercavano di portarmi via il titolo di re di Montelepre. Io li avevo fatti avvertire più volte, ma loro, niente, facevano orecchio da mercante. Continuavano ad effettuare sequestri e furti. Lo scorso Natale i carabinieri rovinarono la mia festa, quest’anno l’ho rovinata a loro. Sono tornato al paese in pieno giorno e ho sfidato i due contrabbandieri a scendere in strada per sistemare i conti. Li attendevo impugnando il mitra. Loro sono giunti dal fondo della piazza, con le lupare spianate, ci siamo fronteggiati per qualche momento e poi… ho sparato. Mi sono rimesso il mitra a tracolla e ho percorso la strada principale gridando: “Io, sono il re di Montelepre!” Mi è difficile dirti quanto sia amaro vedere lo spettacolo della infamante vigliaccheria che esiste su questa terra», concluse Giuliano. 146


Noi nella bufera FINALMENtE UFFICIALE Capitolo XXIX Lecce, marzo 1945 I primi di marzo il corso finì e l’Accademia festeggiò i nuovi ufficiali. Il generale comandante prese il microfono e si rivolse a tutti noi. «Signori ufficiali», esordì. «La Commissione Alleata e il nostro Capo di Stato Maggiore dell’esercito generale Berardi si sono trovati d’accordo per la costituzione di gruppi di combattimento italiani con armamento inglese. La nostra Accademia fornisce gli uomini migliori, scelti fisicamente e ben preparati. Gli ufficiali destinati ai gruppi di combattimento sono ben selezionati per capacità professionale, spirito combattivo e, soprattutto, resistenza fisica, tenendo presente che la resistenza fisica deve essere tale da reggere a marce di centinaia di chilometri per molti giorni, conservando sempre integra l’attitudine a combattere. «Per l’addestramento tecnico sul nuovo armamento dei reparti del gruppo di combattimento saranno svolti, presso le scuole di istruzione inglesi, dei corsi ai quali parteciperanno nostri ufficiali, i quali, a loro volta, così addestrati provvederanno a istruire gli specialisti e i minori reparti. troverete per affiancarvi, presso ciascun gruppo, un nucleo di ufficiali inglesi per l’impiego dei materiali, equipaggiamento ed armi. «I nostri gruppi Cremona, Friuli, Folgore e Legnano combattono già a fianco delle truppe alleate. Il gruppo Piceno è stato orientato verso un impegno diverso da quello di prima linea: si è costituito, presso la capitale, un centro di addestramento per i complementi delle forze combattenti. «Mai come ora ci si è presentata l’opportunità di inferire un colpo decisivo al nemico già indebolito da recenti, poderosi colpi su altri fronti. La scossa che esso riceverà da un attacco in forze sul nostro fronte avrà molta importanza per accelerare la sua sconfitta e quindi per risparmiare vite umane e anticipare il giorno della vittoria. È perciò estremamente importante che ciascuno di voi dedichi tutto se stesso al successo di questa nuova offensiva. ognuno, qualunque sia il suo compito, deve oggi prodigarsi fino all’estremo nell’esecuzione di queste operazioni in modo che al 147


Franco La Guidara nemico sia negato ogni più piccolo vantaggio. tutti dovete mettere oggi a profitto la passata esperienza, il vostro ingegno e avere il coraggio necessario per condurre la lotta fino in fondo, qualunque siano le difficoltà che potrete incontrare lungo la via». Quella sera ci fu un’insolita animazione nel cortile d’onore e a gruppi i giovani uscirono per andare a far baldoria per poi partire per la licenza e quindi raggiungere il reggimento assegnato. Era bello constatare come in pochi mesi di vita in comune, tra noi fosse nato un profondo e sincero legame. Quando rientrai in camerata, ormai stranamente vuota compresi come vestire una stessa uniforme ed il vivere in comune non serviva solo a raggruppare le persone appartenenti allo stesso paese, ma a creare tra uomini così diversi fra loro per temperamento e nascita, quella corrente affettiva spirituale sulla quale poter basare la pace e il benessere della patria. «Fai presto, che perdiamo il treno», mi disse tonio affacciandosi dalla porta. «ti attendo al cancello, devo salutare ancora alcuni amici». Mi attardai a chiudere la valigia, il mio sguardo vagava oltre le luci della città. Uno splendido sole abbelliva il palazzo ducale di Modena e quella mattina prima della sveglia i cadetti erano già pronti. Quella straordinaria mattina tutto era diverso, nessuno era restato a poltrire sotto le calde coperte. tutti eravamo stranamente attivi. Indossati i vestiti che la sera prima ci avevano fatto perdere ore di sonno per poterli stirare nel migliore dei modi, prendemmo il nostro fucile e ci avviammo di corsa verso il cortile d’onore. Sui loggiati centinaia di persone. Il cappellano militare che scandiva le parole della messa… e come una frustata l’at…tenti! Con lo sguardo fisso avanti a me guardavo e dapprima non vedevo nessuno poi inquadrai una signora che piangeva sommessamente ed erano lacrime di una mamma fiera di suo figlio. Certo erano le stesse lacrime che mia madre avrebbe versato se fosse stata ancora viva. Un magone mi salì alla gola. Giuro di essere fedele… Sì! Giuravo di essere fedele alle istituzioni del mio paese, istituzioni basate sul fondamentale principio della libertà, non libertà che significhi bombardamenti, plotoni di esecuzione, 148


Noi nella bufera campi di sterminio, ma intesa nel senso vero della parola. …di osservare lealmente le leggi e di adempiere ai doveri del mio Paese al solo scopo del bene della Patria. Lo giuro! «Adesso so perché abbiamo fatto e facciamo tutto questo», dissi a tonio mentre salivo sul camion diretto alla stazione. «Per la difesa della nostra terra, e lo dobbiamo fare in rispetto agli uomini del nostro Risorgimento ai quali è stato chiesto tutto, anche la vita, ed essi l’hanno data senza chiedere nulla». «dove ti hanno destinato?» chiese tonio. Consultai il foglio di licenza che ancora non avevo aperto, poi dissi: «Il 21 marzo dovrò essere a Cesano di Roma. Sono stato assegnato al 336 reggimento fanteria del gruppo Combattimento Piceno, quale comandante di plotone presso la decima compagnia». «Alla Piceno si preparano ufficiali addestrati per le nostre forze combattenti», commentò tonio. «Sarebbe piaciuto anche a me imparare e insegnare tattica inglese. Peccato! Penso che d’ora in poi le nostre strade si divideranno».

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Franco La Guidara IStRUttoRE dI tAttICA Capitolo XXX

Manziana di Roma, 24 aprile 1945 Avevo finito di frequentare il corso di tattica inglese ed ero stato nominato istruttore e dal 9 aprile ero a Manziana di Roma. dividevo l’alloggio con un ex ufficiale della San Marco, al quale stavo insegnando il sistema migliore per smontare e rimontare un fucile mitragliatore con gli occhi bendati. «Anche tu sei molto bravo», gli dissi. «dove hai imparato?» Filippo titubò, fece scorrere l’arma da una mano all’altra. Poi disse: «Sono stato nel campo di addestramento a Grafenwoehr, in Germania. Ci sono stato nell’aprile dello scorso anno. oltre alla mia unità c’erano il Monterosa a Munzingen, la Littorio a Senne Lager e l’Italia a Henberg. In tutto circa settantamila uomini provenienti dall’Italia. Io ero stato richiamato proprio allora e pensavo che il fascismo fosse una bella cosa. Proprio il 24 aprile dello scorso anno Mussolini visitò la nostra San Marco e tutti gli facemmo accoglienze entusiastiche. Ci avevano detto che aveva avuto un incontro con Hitler e aveva bisogno di incoraggiamento e noi glielo demmo. Mussolini visitò i nostri accantonamenti e assistette alle esercitazioni. Ebbe parole di ammirazione per il sacrificio che la Germania faceva per aiutarci e disse che noi dovevamo prepararci per cancellare l’onta del tradimento perpetrato ai danni del popolo italiano». «Quest’onta», aveva detto Mussolini, «si cancella tornando a combattere contro l’invasore. oltre il Garigliano non bivacca soltanto il cinico britannico, ma l’americano, il canadese, il francese, il polacco, l’indiano, l’australiano, il neozelandese, il negro, il marocchino… Voi avrete dunque la gioia di far fuoco su questo miscuglio di razze bastarde e mercenarie che nell’Italia invasa non rispettano niente e nessuno. «Nei campi di addestramento in Germania si gettano le solide fondamenta dell’esercito della repubblica sociale italiana», aveva concluso Mussolini. «Voi avete il privilegio di partecipare a questa nuova grande costruzione e avrete il sommo onore di tornare al combattimento. Italia!» 150


Noi nella bufera «I soldati urlarono Italia! e Nettuno! Nettuno! per esprimere la loro volontà alla lotta», proseguì Filippo. «Fu una giornata indimenticabile». «Ma com’è che ora sei a combattere dalla nostra parte?» chiesi curioso. «Il mese prima - esattamente il 23 marzo - ero stato mandato a Roma», disse Filippo, «per partecipare al corteo che il federale dell’Urbe, Pirazzini, aveva organizzato per la ricorrenza della fondazione dei fasci di combattimento. Verso le tre e mezza del pomeriggio, mentre mi trovavo al Ministero delle Corporazioni, per la cerimonia, il palazzo venne scosso da una tremenda esplosione. Ricordo che c’era anche il ministro dell’interno della repubblica sociale Buffarini Guidi, e subito venimmo informati di un attentato che era avvenuto a via Rasella. «Mi precipitai sul posto, perché la mia famiglia abitava nella vicina via Sistina. Mi trovai di fronte ad uno spettacolo terrificante: corpi smembrati fra pozze di sangue, i tedeschi che sparavano contro porte e finestre. Giunsero anche il generale Mälzer, il comandante militare della città, il colonnello dollmann, il console tedesco Moellhausen, il generale Kappler. Alle 16 tutta Roma nazifascista era a via Rasella. Il centro era bloccato». «Mi ricordo di aver saputo di quell’attentato», dissi. «Si trattava di una compagnia del battaglione Bozen composta per la maggior parte di alto-atesini. Morirono una trentina di soldati». «trentatré, per l’esattezza», precisò Filippo. «Il generale Mälzer, alla vista di quella strage, ordinò che tutta la via Rasella venisse fatta saltare, ma per fortuna il console tedesco riuscì a dissuaderlo. La rappresaglia fu terribile: dieci italiani per ogni tedesco morto! «Il mattino dopo vennero infatti prelevati dalle segrete di via tasso i prigionieri della polizia politica e altri prigionieri vennero scelti a casaccio fra quelli detenuti al terzo braccio di Regina Coeli: 330 persone salirono sui camion per ignota destinazione. «Il 26 marzo i romani seppero dai bollettini ciò che era accaduto: “Nel pomeriggio del 23 marzo elementi criminali hanno eseguito un attentato con lancio di bombe contro una colonna tedesca di polizia in transito per via Rasella”, diceva il testo del comunicato. “In seguito a questa imboscata trentadue uomini della polizia tedesca sono stati uccisi (uno ferito è morto il giorno dopo). La vile imboscata è stata eseguita da comunisti-badogliani… Il comando tedesco ha perciò ordinato che per ogni tedesco 151


Franco La Guidara ammazzato dieci comunisti-badogliani venissero fucilati: quest’ordine è stato eseguito”. «La condanna dell’attentato partigiano fu unanime: era crudele e assolutamente inutile ai fini della guerra contro i tedeschi e per la prima volta sembrava che i tedeschi avessero segnato un punto a loro favore ma…» «Ma scusa», lo interruppi, «Roma non era città aperta? E poi… tutte quelle vittime innocenti?» «Sul principio le trovai giustificate: se l’attentato commesso dai partigiani era una legittima azione di guerra, anche la reazione del generale Kappler era una inesorabile legge di guerra. «A fine giugno», proseguì Filippo, «il mio comandante mi rimandò in missione a Roma. Si era appena quietata l’eco della catastrofe di via Rasella quando i vigili del fuoco fecero una scoperta terribile: una cava di Via Ardeatina era crollata e ostruiva la strada, e alcune cartucce di dinamite ritrovate in superficie non facevano pensare a una frana naturale. «I vigili del fuoco, sotto un leggero strato di pozzolana e di terra trovarono le salme, le une addossate alle altre, sovrapposte in più strati. Enormi cumuli di cadaveri, dai quali esalava un insopportabile lezzo. tra le misere membra brulicavano insetti, miriadi di larve, topi che scorrazzavano. I cadaveri erano con le mani legate dietro la schiena, alcuni erano privi del capo che era stato spezzato dai proiettili dell’arma da fuoco. Straziante ma necessaria fu l’opera di identificazione che fu possibile grazie a medagliette, occhiali, anelli, orologi. trecentotrenta persone uccise una ad una… Poi erano stati fatti saltare gli ingressi con le mine e le cave si erano trasformate in una grande tomba. Più volte mi sono chiesto: meritavano tutti di morire?» Ascoltavo con interesse lo sfogo del collega, sedetti su un angolo del tavolo. «Ma se le case si ricostruiscono», dissi, «le vite spente nessuno può riportarle alla luce. E quando gli stermini non derivano dalla fatalità dei bombardamenti ... allora come dobbiamo giudicarli?» «Il mio comandante era Amilcare Farina», spiegò Filippo. «Un generale dagli atteggiamenti forse un po’ guasconeschi ma di grande sensibilità. Con noi, in Liguria, c’era anche la Monterosa, comandata dall’ottimo generale Mario Carloni. Si doveva lottare contro forze partigiane che si erano rese padrone della zona e controllavano passi e vie di comunicazione. Era uno stillicidio di sangue. Ritorsioni e repressioni. I partigiani ci attac152


Noi nella bufera cavano in continuazione e nonostante i loro sabotaggi noi si riusciva sempre ad evitare di fare rappresaglia contro i civili. Nei primi di ottobre venne catturato anche un mio caro amico, il tenente Bernari. I partigiani gli avevano promessa salva la vita se fosse passato dalla loro parte, ma Bernari rifiutò e cadde colpito a morte gridando San Marco! Italia! «Quando seppi della sua esecuzione piombai in una profonda crisi di depressione. toccò a me informare la sua famiglia. «La sera ebbi un colloquio con il comandante e per la prima volta lo misi al corrente di quello che avevo visto e provato a Roma dinanzi ai miseri resti delle 330 vittime. «Basta con la lotta fratricida che ci dilania», mi sfogai. «Siamo figli di una stessa terra? Siamo fratelli di lavoro, di lingua, di fede, di sangue? dobbiamo risolvere gli stessi identici, duri problemi di vita. Stiamo soffrendo le stesse amarezze e privazioni: fame, freddo e sacrifici in questa stessa Italia. Basta! Basta!» «Abbiamo combattuto fianco a fianco ed adesso ci attendono nel buio», convenne il mio comandante. «Perché dilaniarci come belve? Perché pagare per gli errori dei capi?» chiesi. «Il comandante mi guardò con aria paterna, mi mise una mano sulla spalla e disse: «Stai passando un brutto momento. Filippo, fai secondo coscienza». Ecco perché adesso mi trovo qui ad imparare la tattica militare inglese! tu adesso, dove andrai ad insegnare?» «Mi hanno destinato a Viterbo, dal 1° maggio sarò istruttore presso la divisione Garibaldi», risposi.

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Franco La Guidara EPILoGo Al volante della mia auto mi ritrovo spesso a percorrere l’Autostrada del Sole. Ecco, il casello di uscita per Modena, non faccio a tempo a pensare… e subito quello di Bologna, Viterbo, Roma, Cassino, Venafro e già sono a Catania. In poche ore di guida, macino chilometri che un giorno percorsi a piedi o con mezzi di fortuna, con il cuore stretto da tante emozioni fra gente coinvolta dall’irragionevole bestialità della guerra, morendo ogni giorno nella carne e nell’animo. Gli attacchi degli anglo-americani e dei partigiani, e la violenta difesa tedesca trasformarono questi luoghi tranquilli: nulla fu risparmiato, tutto venne violentato, bruciato, distrutto. Il rombo degli aerei, le bocche di fuoco dei cannoni, lo sferragliare dei carri armati, il crepitio dei mitra, i comandi urlati tra i lamenti dei feriti sono soltanto nei miei ricordi, ma la memoria svanirà e finirà col morire insieme a me. di quelle gesta compiute con grandi sacrifici non rimarrà presto nulla. documentare e ricordare diventa quindi un dovere. La violenza e la sopraffazione non sono finite. In ogni Paese si spara e si uccide anche oggi, spesso per banali motivi. Roma, 18 aprile 1993

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Noi nella bufera LUoGHI E PERSoNAGGI

Abbazia Monte Cassino La battaglia di Montecassino è stata una delle operazioni militari più importanti della Seconda Guerra Mondiale. Anche nota come la Battaglia per Roma, non si è trattato di una sola battaglia quanto piuttosto di una serie di assalti militari degli Alleati contro i tedeschi, cominciati il 17 gennaio e terminati nel maggio inoltrato del 1944. Montecassino ha avuto un ruolo centrale in questa battaglia poiché non soltanto l'intelligence alleata sospettava che le unità di artiglieria tedesche stessero utilizzando l'Abbazia come valido punto di osservazione, ma anche perché si trovava in una posizione strategica utile per poter avanzare sulle difensive tedesche ed entrare in una Roma pesantemente occupata. Prima che la battaglia cominciasse, il Capitano Maximilian Becker e il Colonnello Julius Schlegel, avevano predisposto che tutti i manufatti, gli archivi e i documenti della biblioteca, e numerosi altri incommensurabili tesori fossero messi al sicuro presso Città del Vaticano a Roma. Ci vollero mesi perché l'enorme operazione fosse ultimata e centinaia di uomini e monaci a fare da scorta al tutto. Il 15 febbraio 1944 gli Alleati portarono a termine il bombardamento che uccise centinaia di civili italiani. L'abate diamare e i monaci sopravvissuti si rifugiarono poi a Roma. Non furono trovati soldati tedeschi tra i caduti per il bombardamento e le forze tedesche utilizzarono immediatamente le rovine come protezione, per cercare di impedire agli alleati la risalita verso Roma. Il monastero fu conquistato il 18 maggio 1944 dai soldati polacchi, dopo molti mesi di violento conflitto e una perdita immensa di vite umane: gli Alleati persero 55.000 uomini e più di 20.000 furono i soldati tedeschi feriti e uccisi. Le forze alleate liberarono Roma, il 4 giugno. dopo la fine della guerra, l'abate Ildefonso Rea fu a capo del progetto di ricostruire Montecassino esattamente dove era prima, in tutta la sua gloria e riportò in sede tutti gli oggetti preziosi e i documenti che erano stati custoditi in Vaticano durante la guerra. La risorta Abbazia fu riconsacrata nel 1964 da Papa Paolo VI. 155


Franco La Guidara Accademia Militare di Modena Fino ai primi anni 1940 esistevano due Istituti deputati alla formazione dei giovani ufficiali, in servizio permanente effettivo, dell’Esercito Italiano. Il primo era la Reale Accademia del Genio e dell’Artiglieria di torino, nata nel 1677 come Reale Accademia, il cui primo corso prese il via il 1 gennaio 1678. Il secondo Istituto, sorto a Modena nel 1757, fu trasformato in piena epoca napoleonica in Scuola Militare del Genio e dell’Artiglieria, ed il primo corso fu inaugurato il 28 settembre 1798. La caduta di Napoleone portò al riassetto dell’Esercito e dell’Istituto. dopo l’Unità italiana, nel 1863 l’Accademia Militare Estense diventa Scuola di Fanteria e Cavalleria e successivamente, nel 1923, viene elevata al rango di Accademia invece di Scuola. Fino al 1943, pertanto, sono presenti due Accademie: la prima in torino, deputata alla formazione degli ufficiali del Genio e dell’Artiglieria, le cosiddette “Armi dotte”, la seconda in Modena che provvede alla formazione dei quadri delle Armi di Fanteria e Cavalleria. dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943, il governo si trasferisce a Brindisi ed i vari ministeri sono ripartiti fra questa città e la vicina Lecce. Fino al settembre 1943 gli anni accademici di torino e Modena ebbero numerazioni diverse in funzione delle rispettive date di fondazione, ossia 1815 per torino e 1860 per Modena (nei precedenti periodi non si usava numerare gli anni accademici). Con la riapertura dei corsi a Lecce (1944), venne decisa, a partire dal 2° Corso ordinario, l’unificazione delle Accademie Militari e per sottolineare l’inizio di questa nuova fase della storia degli Istituti di formazione, si assegnò ai corsi una nuova numerazione che proseguì fino al 24° Corso. Nel 1968 si decise di riprendere la tradizionale numerazione storica (150° Corso), con riferimento all’Accademia di Artiglieria e Genio di torino per giusto dovere di anzianità. La non perfetta corrispondenza numerativa dipende dal fatto che durante i due conflitti mondiali vennero organizzati corsi accelerati oppure vennero sospesi i corsi ordinari. Accademia Militare di Lecce È proprio in questa città, probabilmente grazie alle sue grandi tradizioni militari, relativamente all’Esercito, che il 5 aprile 1944 i due Istituti di torino e Modena si trovano riuniti per la prima volta in una sola Accademia, la cui sede è presso la Caserma Pico, in Lecce, dove resterà per tre anni, prima di far ritorno nella città estense, con i corsi unificati per tutti gli ufficiali dell’Esercito. 156


Noi nella bufera Ardizzone Girolamo Giornalista, nato a Palermo nel 1896, direttore del Giornale di Sicilia dal 1921, riuscì a riportare alla luce il giornale nell’immediato dopoguerra (1944). Era un foglio piccolo, a quattro facciate, con notizie relative all’avanzata delle armate inglesi alleate lungo la penisola. Ardizzone diresse il giornale in un periodo particolare: quello in cui il bandito Giuliano e la sua banda imperversarono nel palemitano. Giuliano scriveva al Giornale lunghe lettere giustificative e spesso inviava dei soldi da destinare alla madre della vittima come riparazione e testimonianza del suo sincero rincrescimento. Non sempre era agevole e facile pubblicare le lettere che Giuliano sempre più braccato dalle forze dell’ordine e sempre più carico di odio per la società scriveva al Giornale di Sicilia. La posizione di Girolamo Ardizzone appariva per lo meno scomoda, Il tono del bandito era quasi sempre gentile ma non concedeva alternative. Voleva che le sue lettere venissero pubblicate e per intero altrimenti... altrimenti minacciava di arrabbiarsi. Non erano minacce da prendere alla leggera. Erano tempi in cui saltavano in aria caserme di carabinieri piene di uomini armati e mettere una bomba in un giornale era, pertanto, un gioco da bambini. Salvatore Giuliano arrivò ad inviare a Girolamo Ardizzone un telegramma regolarmente firmato che diceva: «Se non pubblichi l’articolo me la prendo con te, Giuliano». Becker Maximilian Ufficiale Medico, in accordo con il tenente colonnello Julius Schlegel della divisione corazzata “Hermann Göring”, organizzò, dopo un lavoro di convincimento diplomatico, un´azione di notevoli dimensioni: salvare i tesori dell’Abbazia di Monte Cassino. Canepa Antonio, professore, fondatore dell’EVIS Esercito Volontario Indipendenza della Sicilia. Era nato a Palermo nel 1908 dove si laurea in legge. Era conosciuto anche con lo pseudonimo di Mario turri. Fu in contatto con gruppi antifascisti con i quali voleva organizzare nel 1933 un colpo di mano nella Repubblica di San Marino, al solo scopo di dimostrare la presenza attiva di forze contrarie al regime fascista. Il piano fu sventato e Canepa venne arrestato insieme al fratello Luigi e ad altri esponenti, che furono condan157


Franco La Guidara nati a pene da due a quattro anni di carcere, mentre Canepa, fingendosi infermo di mente, fu ricoverato in manicomio fino al novembre 1934. Nel 1937 divenne professore di Storia delle dottrine politiche all'Università degli Studi di Catania, dove viene ricordato come severo docente universitario e autore del Sistema di dottrina del fascismo, opera lodata dalla rivista fascista «Gerarchia». Canepa però non aveva mancato di inserire nel testo anche numerose citazioni tratte da opere proibite, per svolgere così un’indiretta propaganda antifascista. Parallelamente intraprese con lo pseudonimo di Mario turri o prof. Bianchi una attività clandestina nelle file di «Giustizia e Libertà». Nel 1939 fece amicizia con Herbert Rowland Arthur, duca di Bronte, che successivamente gli fece da tramite con l'Intelligence Service inglese. Nel dicembre 1942 pubblicò, come Mario turri, l'opuscolo «La Sicilia ai siciliani», che fu il manifesto della sua idea di separatismo siciliano. Egli riteneva che l'indipendenza siciliana fosse il mezzo per l'emancipazione delle classi popolari, ponendosi così in conflitto con il progetto di separazione propugnato dagli agrari, probabile causa «non solo della divisione del movimento indipendentista, ma anche della morte stessa del Canepa». Nello stesso periodo diresse, con alcuni suoi studenti, azioni di sabotaggio contro installazioni militari italo-tedesche in Sicilia, come l'attentato, insieme a un commando inglese, la notte del 9 giugno 1943, alla base aerea di Gerbini, a Motta Sant'Anastasia, in mano ai tedeschi. dopo lo sbarco degli Alleati fu inviato in toscana, comandando nel 1944 una brigata partigiana anarchica. tornato a Catania alla fine di quello stesso anno, riprese l'insegnamento universitario e si pose a capo, insieme ad Antonino Varvaro, dell'ala sinistra del Movimento Indipendentista Siciliano. Nel febbraio 1945 costituì una forza paramilitare clandestina, l'EVIS, Esercito Volontario Indipendenza della Sicilia. La mattina del 17 giugno 1945 Canepa fu ucciso in un conflitto a fuoco con i carabinieri, in contrada Murazzu Ruttu presso Randazzo, sulla strada statale 120 in circostanze non del tutto chiare. Una pattuglia composta dal carabiniere Calabrese, dal vicebrigadiere Cicciò e comandata dal maresciallo Rizzotto intimò l'alt all’auto di Capena, che non si fermò. Nella sparatoria, conclusa con l'esplosione di una bomba a mano, morirono sul colpo Carmelo Rosano di 22 anni e Giuseppe Lo Giudice di 18 anni. 158


Noi nella bufera Canepa, gravemente ferito, decedette qualche ora dopo e gli altri due militanti, Antonino Velis e Pippo Amato, riuscirono a fuggire nelle campagne circostanti. Sul luogo dell'eccidio sorge un cippo dedicato ai caduti dell'EVIS. Antonio Canepa è sepolto nel cimitero di Catania, nel viale dei siciliani illustri, accanto a Verga e Angelo Musco.

Dapino Vincenzo, Generale, Medaglia d'argento Nato nel 1881 a torino, iniziò la sua carriera militare nel corpo degli alpini e, nel 1912, viene inviato in Libia guadagnandosi una medaglia di bronzo, e in Grecia la medaglia d’argento. Negli anni successivi diventerà comandante del 8º Reggimento Alpini e successivamente passerà al comando della divisione Legnano. dopo l'Armistizio di Cassibile, a San Pietro Vernotico, gli viene dato il comando del primo contingente di soldati italiano denominato Primo Raggruppamento Motorizzato nella Battaglia di Montelungo. Il 17 dicembre 1943, il comandante della 5ª armata americana, generale Mark Wayne Clark, gli invierà un telegramma di congratulazioni: «Desidero congratularmi con gli ufficiali ed i soldati del vostro comando per il successo riportato nel loro attacco di ieri su Monte Lungo su quota 343. Questa azione dimostra la determinazione dei soldati italiani a liberare il loro paese dalla dominazione tedesca, determinazione che può ben servire come esempio ai popoli oppressori d'Europa». Di Dio Alfredo, tenente, Medaglia d’oro Nato a Palermo nel 1920, Ufficiale dell’Esercito in s.p.e., fin dal primo giorno della resistenza fu alla testa del proprio reparto nella battaglia contro i nazisti. organizzò i primi nuclei partigiani e li guidò nella lotta attraverso una serie di audaci imprese. Catturato dal nemico, subì duri interrogatori ma riuscì ad evadere. Riprese subito il suo posto di combattimento partecipando alle operazioni che, attraverso lunghi mesi di sanguinosa lotta, portarono alla conquista della Val d’ossola. In questo primo lembo d’Italia duramente conquistato resistette per quaranta giorni con i suoi uomini stremati, affamati e male armati contro forze nemiche di schiacciante superiorità, finché incontrò la morte alla testa dei suoi partigiani. 159


Franco La Guidara Di Dio Antonio, tenente, Medaglia d’oro Nato a Palerno nel 1922, partigiano, già distintosi in numerosi combattimenti, il 13 febbraio 1944 a Megolo (Novara) pur se attaccato da superiori forze nazifasciste rifiutava l’ordine di sganciarsi dall’accerchiamento, resisteva sul posto spronando i compagni alla resistenza. Quando il suo comandante, rimasto ferito venne accerchiato, accorreva in suo aiuto cercando di metterlo in salvo. Ma cadeva colpito da una raffica di mitra. Duca Giovanni, Colonnello fanteria (S.M.), Medaglia d’oro Era nato a torino il 5 novembre 1896, combatté come ufficiale durante la prima guerra mondiale, dove fu ferito e decorato con la Medaglia di bronzo e la Croce di guerra al valor militare. durante il corso degli anni trenta svolse mansioni di addetto militare presso le ambasciate italiane in Belgio, nei Paesi Bassi e in Portogallo. Nel 1943, comandante dell’Accademia Militare di Fanteria e Cavalleria di Modena organizzava con due battaglioni e uno squadrone di allievi le prime resistenze contro l’invasione tedesca nella zona di Pavullo-Lama Mocogno e raggruppava intorno alle sue forze i primi partigiani iniziando con essi l’accanita lotta tra le giogaie dell’Appennino Emiliano. dopo avere messo in salvo la bandiera dell’Accademia, per ordine ricevuto dal Comando Supremo, si spostava nell’Italia settentrionale assolvendo compiti organizzativi. Catturato dalle SS, unitamente al giovane figlio, che lo accompagnava nella missione, non dava informazioni sul suo incarico nonostante le torture e l’angoscia per la notizia dell’arresto anche della moglie e della figlia. Moriva dopo cinque mesi di agonia, quasi contemporaneamente al figlio, che era stato deportato nel campo di Mauthausen. Giuliano Salvatore Nato a Montelepre nel 1922, durante l'occupazione alleata, trovò lavoro come fattorino per una società elettrica. Il 2 settembre 1943 venne fermato dai carabinieri ad un posto di blocco mentre trasportava due sacchi di frumento provenienti dal mercato nero; Giuliano uccise un carabiniere e si dette alla macchia. Nella primavera 1945 Giuliano s'incontrò con alcuni leader del Movimento Indipendentista Siciliano (tra i quali c'erano Concetto Gallo e il figlio del barone Lucio tasca Bordonaro) e chiese 10 160


Noi nella bufera milioni di lire per entrare nell'EVIS, il progettato esercito separatista. I 10 milioni che gli vennero concessi insieme al grado di «colonnello» e con la promessa di armi e munizioni. Giuliano iniziò così la guerriglia contro le autorità, compiendo imboscate e assalti alle caserme dei carabinieri di Bellolampo, Pioppo, Montelepre e Borgetto, alcune delle quali furono anche occupate. In questo periodo, la propaganda separatista riuscì a costruire attorno a Giuliano un'immagine da Robin Hood, arrivando anche a minimizzare e a giustificare i crimini compiuti. Per contrastare la guerriglia separatista, nel settembre 1945, fu costituito l'Ispettorato generale di polizia in Sicilia, con una forza di 1.123 uomini fra Carabinieri e Guardie di Pubblica Sicurezza alle dirette dipendenze del Ministero dell'Interno. Nel gennaio 1946 la banda Giuliano attaccò la sede della Radio di Palermo. Nello stesso anno il Movimento Indipendentista Siciliano decise di entrare nella legalità e di partecipare alle elezioni per l'Assemblea Costituente. Il separatismo diminuì con il riconoscimento dello Statuto speciale siciliano conferito dal Re Umberto II alla Sicilia nel maggio 1946, 17 giorni prima del referendum del 2 giugno che trasformerà l'Italia in Repubblica, e divenne parte integrante della Costituzione Italiana (legge costituzionale n° 2 del 26/02/1948). Con l'amnistia del 1946 per i reati politici, i separatisti lasciarono la banda di Giuliano, che invece continuò a compiere sequestri di persona e attacchi contro le caserme dei carabinieri. Le imprese di Giuliano, da allora, furono presentate all'opinione pubblica non più come azioni di guerriglia ma come veri e propri atti di criminalità comune, di "brigantaggio", compresi i sequestri. Il 5 luglio 1950 Giuliano venne trovato morto nel cortile della casa di un avvocato di Castelvetrano: un comunicato del Comando forze repressione banditismo annunciò che era stato ucciso in un conflitto a fuoco avvenuto la notte precedente con un reparto di carabinieri. Sin dall'inizio apparvero però diverse incongruenze nella versione degli inquirenti sulla fine del bandito.

Gruppo di Combattimento Piceno Il «Piceno», sorto dalla trasformazione dell'omonima divisione, dislocata in Puglia con compiti di difesa delle infrastrutture militari, non prese parte diretta alle operazioni, ma fu chiamato, fin 161


Franco La Guidara dagli inizi di gennaio 1945, a fornire alle forze alleate salmerie da combattimento e ad assolvere compiti di addestramento dei complementi. Venne trasferito nella zona di Cesano di Roma. La composizione dell'unità era la seguente: Gruppo di Combattimento "Piceno" (Gen. Emanuele Beraudo di Pralormo), poi Centro Addestramento Complementi Forze Italiane Combattenti, 235º Reggimento fanteria "Piceno", poi 1º Reggimento Addestramento Complementi, 336º Reggimento Fanteria "Piceno", poi 2º Reggimento Addestramento Complementi di Fanteria, 152º Reggimento Artiglieria "Piceno", poi Reggimento Addestramento Artiglieria.

Albert Konrad Kesselring Nato a Marktsteft il 30 novembre 1885 – è stato un generale tedesco con il grado di feldmaresciallo. dopo aver prestato servizio in artiglieria durante la prima guerra mondiale, entrò a far parte della nuova Luftwaffe di cui fu uno dei principali organizzatori. durante la seconda guerra mondiale comandò con notevole efficacia flotte aeree nel corso dell'invasione della Polonia, della Campagna di Francia, della battaglia d'Inghilterra e dell'operazione Barbarossa. durante queste campagne diresse una serie di incursioni aeree contro agglomerati urbani nemici. Nel novembre 1941 divenne comandante in capo tedesco dello scacchiere Sud ed ebbe il comando generale delle operazioni nel Mediterraneo, che includevano anche le operazioni in Nordafrica. Mentre la collaborazione con il generale Erwin Rommel fu spesso difficile, in generale seppe mantenere buoni rapporti con i dirigenti politico-militari italiani. dall'estate 1943, e soprattutto dopo l'8 settembre 1943, assunse il comando supremo di tutte le forze tedesche in Italia e condusse la lunga campagna difensiva contro gli Alleati. Verso la fine della guerra, dal marzo 1945, comandò le forze germaniche sul fronte occidentale senza poter evitare la resa finale. Kesselring mantenne il controllo dell'Italia occupata con grande durezza, represse il movimento di Resistenza e fu responsabile di numerosi crimini di guerra sia contro i partigiani che contro la popolazione civile. Per questo fu processato dagli Alleati e condannato a morte, sentenza poi commutata in ergastolo per intevento del governo britannico. Fu in seguito rilasciato nel 1952 162


Noi nella bufera senza aver mai rinnegato la sua lealtà ad Adolf Hitler. Pubblicò in seguito le sue memorie intitolate Soldat bis zum letzten tag (Soldato sino all'ultimo giorno). E’ morto a Bad Nauheim, 16 luglio 1960.

La Guidara Franco (Francesco), Generale R.o. Nato a Centuripe, in provincia di Enna, il 31 ottobre 1925 (morto 18 aprile 1993) era di famiglia nobile e antica. Il nonno paterno, figlio della contessa oneto di Regalbuto, pur non avendo bisogno di lavorare emigrò in America intorno agli anni Venti, progettò e costruì edifici a Buenos Ayres e sin da allora si batté per un miglior tenore di vita dei suoi operai. Frequentò il Liceo “Spedalieri” di Catania e nell’inverno 1942-’43 fu in Russia come osservatore inviato dal Gen. Giovanni Messe (Comandante del Corpo di spedizione italiano in Russia), e poi allievo ufficiale all’Accademia Militare di Modena, 86° corso. L’8 settembre lo sorprese a Lama di Mocogno agli ordini del Col. Giovanni duca (Medaglia d’oro). Riuscì a passare le linee a Venafro e a ricongiungersi con il ricostituito esercito italiano al fianco degli Alleati. Fu istruttore di tattica militare presso la Brigata Garibaldi a Viterbo. Lasciata la carriera militare si laureava in giurisprudenza e intraprendeva il giornalismo. Ha visitato quasi tutti i Paesi e, primo giornalista della stampa indipendente, nel 1960 ha raggiunto in auto Mosca ripercorrendo dopo vent’anni, l’itinerario dei nostri soldati dell’Armir. Reportage pubblicato in 6 puntate dal settimanale “Gente”. Ha collaborato con “Mundo Hispanico”, “L’Illustré”, e con i maggiori giornali italiani da “Il Messaggero” di Roma al “Corriere d’Informazione” di Milano dove venne pubblicata in prima pagina la sua intervista a Gagarin pochi giorni prima della sua missione nello spazio. Autore di numerosi romanzi e di reportages, era Generale dell’Esercito Italiano (Ro), Cavaliere di Gran Croce della Repubblica Italiana e Medaglia d’oro della Pubblica Istruzione. Schlegel Julius Nato il 14 agosto 1895 a Vienna, e morto l’8 agosto 1958, era un colonnello della Panzer division “Hermann Göring”. Quando le forze tedesche si attestarono a Montecassino comprese subito che l’Abbazia non sarebbe stata risparmiata dai bombardamenti 163


Franco La Guidara delle truppe alleate. L´ufficiale decise di propria iniziativa e con il sostegno del tenente medico Maximilian Becker di portare al sicuro i tesori artistici del Monastero. Si deve al suo coraggio e alla sua diplomazia, uniti all’amore per l´arte, se gli oggetti artistici di valore inestimabile poterono essere trasportati, con i camion dell´esercito tedesco e la scorta armata, sino a Roma e messi al sicuro all´interno del Vaticano.

Umberto II di Savoia, ultimo re d’Italia Nato a Racconigi il 15 settembre 1904 e morto a Ginevra nel 1983, è stato luogotenente generale del Regno d’Italia dal 1944 al 1946 e ultimo re d’Italia, dal 9 maggio 1946 al 10 giugno dello stesso anno, data in cui fu proclamato il risultato del referendum istituzionale del 2 giugno sebbene, di fronte alle resistenze del sovrano, solo il 13 giugno il consiglio dei ministri abbia trasferito ad Alcide de Gasperi, con un gesto che Umberto II definì rivoluzionario, le funzioni accessorie di Capo provvisorio dello Stato. Per il breve regno (poco più di un mese), è anche detto "Re di Maggio". Il referendum - Il 10 giugno 1946, alle ore 18:00, nella sala della Lupa a Montecitorio la Corte di Cassazione, secondo quanto attestato dai verbali, furono proclamati i risultati del referendum e cioè: 12.672.767 voti per la repubblica, e 10.688.905 per la monarchia, rimandando ad altra adunanza il giudizio definitivo su contestazioni, proteste e reclami, il numero complessivo degli elettori votanti e quello dei voti nulli. Umberto II, informato dal generale Maurice Stanley Lush che gli angloamericani non sarebbero intervenuti a difesa del sovrano e della sua incolumità neanche in caso di palese spregio delle leggi, e in particolare nel caso di un possibile assalto al Quirinale sostenuto dai seguaci dei ministri repubblicani, volendo evitare qualsiasi possibilità di innesco di guerra civile, cosa che era nell'aria dopo i morti di Napoli, decise di lasciare l'Italia. Il motivo per cui Umberto non volle attendere la seduta della Corte di Cassazione fissata per il 18 giugno, prima di partire dall'Italia, non è mai stato ufficialmente chiarito.

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Noi nella bufera Indice Lontano dalla Sicilia Cadetto a Modena La valigia per il Natale Catania bombardata Un bellissimo ritorno Strategia di guerra L’armistizio Sull’Appennino Azioni di guerriglia Roma, città aperta Verso il Sud Cassino Un’importante missione Il ritorno di Carlo Cassino, la storia Il condannato Sabotaggio alla ferrovia Venafro: linee americane Catturati Attacco a Monte Lungo Arrivo a Napoli Manifestini su Monte Cassino La distruzione dell’Abbazia Alleati a Catania Verso il Continente All’Accademia di Lecce Messaggio ai partigiani Incontro con Giuliano Finalmente ufficiale Istruttore di tattica Epilogo Luoghi e personaggi

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Francesco (Franco) La Guidara, Generale R.O.


Noi nella bufera

Un bacio di ringraziamento agli Alleati. (Foto di Three Lions/Getty Images)

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Franco La Guidara

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