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ALDO MORO E IL PROBLEMA DELLA COOPERAZIONE ADRIATICA NELLA POLITICA ESTERA ITALIANA 1963-1978 1 di Federico Imperato e Luciano Monzali
1. I governi Moro e la questione adriatica nella politica estera del centrosinistra (1963-1968) Nella biografia politica di Aldo Moro 2 emerge un rapporto con i problemi della politica estera italiana caratterizzato da una naturale propensione e, allo stesso tempo, da una certa discontinuità. Non è semplice per lo storico individuare le cause di questa apparente antinomia. Moro è originario di una regione, la Puglia, che storicamente si è configurata come un territorio di frontiera tra l’Oriente e l’Occidente, costituendo un braccio della penisola italica proteso verso i Balcani ed il Mediterraneo orientale. Questa dimensione di frontiera iniziò ad essere percepita dal giovane Moro più che negli anni dell’infanzia, passati in una piccola e sonnacchiosa cittadina della provincia salentina come Maglie, o nel periodo dell’adolescenza trascorso a Taranto, quando si iscrisse alla facoltà di giurisprudenza dell’Università di Bari, allora intitolata a Benito Il testo è il risultato di un lavoro comune dei due autori, tuttavia i paragrafi 1 e 2 sono da attribuire a Federico Imperato, il paragrafo 3 a Luciano Monzali. 2 Su Aldo Moro sono state scritte diverse biografie, ma nessuna ha un taglio prettamente scientifico, mantenendo un’impostazione quasi esclusivamente giornalistica. Ricordo tra le altre: G. Acquaviva, Un italiano diverso. Aldo Moro, Taranto, Editrice Magna Grecia, 1968; A. Coppola, Moro, Milano, Feltrinelli, 1976; G. Pallotta, Aldo Moro. L’uomo, la vita, le idee, Milano, Massimo, 1978; E. Cutolo, Aldo Moro. La vita, l’opera, l’eredità, Milano, Teti, 1980; I. Pietra, Moro, fu vera gloria?, Milano, Garzanti, 1983; G. Campanini, Aldo Moro. Cultura e impegno politico, Roma, Studium, 1992; G. Galloni, 30 anni con Moro, Roma, Editori Riuniti, 2008; C. Guerzoni, Aldo Moro, Palermo, Sellerio, 2008. 1
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Mussolini. L’ateneo barese, fondato nel 1925, stava conoscendo, negli anni che precedettero il secondo conflitto mondiale, un rapido sviluppo, dettato, oltre che dall’aumento delle iscrizioni da parte di studenti provenienti dalle regioni dell’Italia meridionale, anche dalla presenza di stranieri, che giungevano a Bari dall’Albania, dalla Dalmazia, dalla Romania e dalla Bulgaria 3. La formazione politica del giovane Moro avvenne tutta all’interno degli ambienti cattolici, all’interno dei quali assunse, nel 1939, la carica di presidente nazionale della Federazione Universitaria Cattolica Italiana (FUCI), conservata fino al 1942. Dopo la fine della seconda guerra mondiale, Moro fu eletto nell’Assemblea Costituente e, quindi, dopo le elezioni del 18 aprile 1948, entrò a far parte del quinto gabinetto guidato da Alcide De Gasperi, come sottosegretario agli Affari Esteri con una delega speciale sull’emigrazione. Questa prima esperienza governativa fu interlocutoria e punteggiata di difficoltà, rappresentate, innanzitutto, dalla questione dell’adesione dell’Italia all’Alleanza atlantica, sulla quale Moro non appoggiò pienamente la linea di De Gasperi, favorevole alla firma, ciò che gli costò l’ostracismo da parte dello statista trentino 4. La fine del degasperismo, alla metà degli anni Cinquanta, sembrò aprire nuove prospettive di partecipazione alla vita politica italiana per Aldo Moro, che, tra il 1955 ed il 1957, fu nominato ministro di Grazia e Giustizia e, per due volte, ministro della Pubblica Istruzione, fino alla elezione, avvenuta nel 1959, a segretario nazionale della Democrazia Cristiana. Da quella posizione Moro fu uno degli artefici dell’apertura a sinistra nei confronti del PSI e della costituzione dei primi governi di centro-sinistra organico. L’interesse di Aldo Moro per i problemi internazionali ritornò ad essere forte solo con la sua assunzione della guida del governo italiano alla fine del 1963 5. Il nuovo presidente del Consiglio, che avrebbe guidato 3 Secondo Renato Moro, autore di un ampio saggio sulla formazione giovanile di Moro, l’Ateneo barese era nato con l’intento di «rappresentare, in relazione al Vicino Oriente, un centro irradiatore della civiltà italiana e, in senso più lato, occidentale». Cfr. R. Moro, La formazione giovanile di Aldo Moro, in «Storia Contemporanea», anno 1983, n° 4-5, p. 829. 4 Cfr. G. Formigoni, La Democrazia Cristiana e l’alleanza occidentale. 1943-1953, Bologna, Il Mulino, 1986, pp. 283, 327. 5 Sul pensiero di Aldo Moro in politica estera sono molto utili i suoi scritti e discorsi: A. Moro, Scritti e Discorsi, Roma, Cinque Lune, 1978-1990, cinque volumi; Id.,
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i vari esecutivi del centro-sinistra fra il 1963 e il 1968 6, all’epoca esponente della corrente centrista dorotea maggioritaria in seno alla DC, non aveva grandi esperienze in politica estera, a parte l’infelice periodo come sottosegretario agli Esteri fra il 1948 e il 1950. Lasciò molto spazio ai suoi ministri degli Esteri, prima Saragat e poi Fanfani. Moro, però, era un politico avveduto e capiva l’importanza dei problemi internazionali e, all’interno di tale cornice, il ruolo dell’Italia, Paese di frontiera e, allo stesso tempo, di cerniera, tra i due blocchi contrapposti, quello occidentale e quello comunista 7. In politica estera, Moro portò, infatti, L’Italia nell’evoluzione dei rapporti internazionali. Discorsi, interventi, dichiarazioni e articoli, Roma-Brescia, ABE-Moretto, 1986; Id., Discorsi parlamentari, Roma, Camera dei Deputati, 1996. Fra la bibliografia esistente su Moro e la politica estera italiana ricordiamo: R. Gaja, L’Italia nel mondo bipolare, Bologna, Il Mulino, 1995, p. 163 e ss.; Id., Aldo Moro: la politica estera del centro-sinistra, in AA.VV., Aldo Moro Stato e Società, Roma, Presidenza del Consiglio dei Ministri, 1989, pp. 167-174; M. Pedini, Moro e la politica internazionale, in «Studium», 1981, n. 5, pp. 535-544; Id., Quando c’era la Democrazia Cristiana. Ricordi personali di vita politica 1945-1984, Brescia, Fondazione Civiltà Bresciana, 1994, p. 156 e ss.; G. Baget Bozzo, G. Tassani, Aldo Moro. Il politico nella crisi 1962/1973, Firenze, Sansoni, 1983, p. 387 e ss.; A. Varsori, L’Italia nelle relazioni internazionali, Roma-Bari, Laterza, 1998, p. 156 e ss.; M. Toscano, Storia diplomatica della questione dell’Alto Adige, Bari, Laterza, 1968, p. 677 e ss.; S. Romano, Guida alla politica estera italiana da Badoglio a Berlusconi, Milano, Rizzoli, 2002, p. 167 e ss. 6 Su Aldo Moro e l’azione internazionale dei governi del centro-sinistra fra il 19631968: A. Varsori, La politica estera italiana negli anni della Guerra Fredda. Momenti e attori, Padova, Edizioni Libreria Rinoceronte, 2005; Id., La scelta europea, in P. L. Ballini, S. Guerrieri, A. Varsori (a cura di), Le istituzioni repubblicane dal centrismo al centro-sinistra (1953-1968), Roma, Carocci, 2006, p. 281 e ss.; Id., La Cenerentola d’Europa? L’Italia e l’integrazione europea dal 1947 a oggi, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2010; F. Imperato, Aldo Moro e la politica estera italiana 1963-1968, in corso di pubblicazione; Id., L’Italia e i problemi del controllo degli armamenti e del disarmo, in «Clio», 2007, n. 2, pp. 255-280; Id., L’Italia del centro-sinistra e l’alleanza atlantica (1963-1968), in «Clio», 2008, n. 4, pp. 569-606; L. Tosi, Sicurezza collettiva, distensione e cooperazione internazionale nella politica dell’Italia all’ONU, in P. L. Ballini, S. Guerrieri, A. Varsori (a cura di), Le istituzioni repubblicane dal centrismo al centro-sinistra (1953-1968), cit., pp. 189-211; A. Giovagnoli, L. Tosi, Amintore Fanfani e la politica estera italiana, Venezia, Marsilio, 2010; L. Riccardi, Il “problema Israele”. Diplomazia italiana e PCI di fronte allo Stato ebraico (1948-1973), Milano, Guerini e Associati, 2006; L. Mechi, L’Europa di Ugo La Malfa. La via italiana alla modernizzazione (1942-1979), Milano, Franco Angeli, 2003. 7 Suo consigliere diplomatico in quegli anni fu Gian Franco Pompei, con il quale aveva già collaborato all’epoca del sottosegretariato agli Esteri. Pompei, in particolare, ebbe un ruolo importante nei negoziati sull’Alto Adige. Vice consigliere diplomatico di Moro fu Luigi Cottafavi. Va detto che Moro amava circondarsi di persone eterogenee come idee e formazione politica ma in grado di fornirgli sicura e provata competenza
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la sua grande abilità negoziale e di mediazione, che egli seppe utilizzare sia per scopi di politica interna, tentando di impedire che le principali questioni internazionali indebolissero gli equilibri della coalizione governativa, sia cercando di far giocare all’Italia un ruolo attivo nel processo di distensione tra i due blocchi di cui in quel periodo iniziavano a sentirsi i primi vagiti. Da tutto questo si delinea una politica estera che tenta di far convivere le esigenze della pace con quelle della sicurezza collettiva e le esigenze della distensione tra i campi contrapposti con quelle del mantenimento dello status quo a livello di frontiere e di alleanze internazionali 8. I due pilastri fondamentali su cui si resse la politica estera del centro-sinistra organico furono l’atlantismo da una parte e l’europeismo dall’altra 9. Il ruolo dell’Italia all’interno della NATO e della CEE fu di garanzia e di mediazione nei confronti delle spinte esogene, che, in quel periodo, arrivavano soprattutto dalla Francia di de Gaulle, contraria, in ambito atlantico, alla costituzione di una Forza Multilaterale per perseguire i propri progetti di costituzione di una force de frappe nazionale e, in campo europeo, ad una integrazione basata sul principio di sopranazionalità, preferendo una più ampia collaborazione tra i governi 10. Questa politica di sicurezza, che vide l’Italia impegnata ad impedire una destabilizzazione del campo occidentale, fu anche foriera di una esposizione planetaria della politica estera del governo di Roma, che, come detto, cercò di dare il suo contributo nel rafforzamento di un processo di distensione internazionale il cui sviluppo era reso fragile dalla presenza di una serie di situazioni di tensione strisciante o di aperto conflitto, quale la guerra del Vietnam. In questo quadro, la politica di apertura e di dialogo nei confronti dell’Unione Sovietica, e del blocco comunista nel suo complesso, trova la sua ragion d’essere in diversi elementi di natura sia politica, interna e internazionale, sia economica. tecnica. Nel corso degli anni il politico pugliese iniziò così ad apprezzare fortemente Roberto Gaja, nominato direttore degli affari politici da Saragat e vicino alla destra democristiana. 8 Cfr. A. Moro, Discorsi parlamentari. Volume II (1963-1977), cit., p. 785. 9 Ibid. 10 Cfr. P. L. Ballini, A. Varsori (a cura di), L’Italia e l’Europa (1947-1979), tomo II, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2004, pp. 305-318; F. Imperato, L’Italia del centro-sinistra e l’alleanza atlantica (1963-1968), cit.
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Innanzitutto, la presenza, all’interno del governo, del PSI e, all’opposizione, del partito comunista più forte dell’intera Europa occidentale, e la necessità di soddisfare in qualche modo le loro istanze, permisero una maggiore facilità nello sviluppo dei rapporti con Mosca e con i governi degli altri Paesi del Patto di Varsavia. Allo stesso tempo, l’emergere di un clima internazionale più sereno e meno minaccioso, testimoniato dall’avvio di un processo negoziale tra le due grandi potenze, USA ed URSS, che avrebbe portato, nel 1968, alla firma del Trattato di Non Proliferazione nucleare, sciolse l’Italia da legacci di fedeltà atlantica troppo stretti e portò a diversi scambi di visite e alla firma di accordi di cooperazione economica e culturale, che permisero il mantenimento di un contatto politico tra le due parti in cui era divisa l’Europa. In effetti, in questo periodo, il dialogo tra Italia ed Unione Sovietica trovò le sue basi e la sua ragion d’essere proprio nella cooperazione economica, commerciale e culturale, mentre, da un punto di vista più propriamente politico, il permanere di questioni scottanti, quali il conflitto nel Vietnam e la sicurezza europea, impedirono una piena neutralizzazione delle divergenze. Da un punto di vista economico, invece, sembrava che Italia ed URSS stessero vivendo delle situazioni complementari che facilitarono l’intensificazione delle relazioni reciproche. L’economia italiana era, ancora in quel periodo, in espansione, ma non sembrava ancora così forte da poter competere, in Europa occidentale, con quelle dei suoi principali partners, Francia e Germania occidentale in primis. La necessità di conquistare nuovi mercati la spinse, quindi, verso il blocco sovietico e verso l’URSS in particolare, che, d’altro canto, viveva, negli anni Sessanta, una delicata situazione economica, causata, principalmente, dai fallimenti nella pianificazione agricola, che furono alla base della destituzione di Nikita Sergeevič Chruščëv, Primo Segretario del Partito Comunista dell’Unione Sovietica fino al 1964. Le difficoltà economiche contribuirono molto a far assumere a Mosca un atteggiamento più conciliante e a portare avanti un dialogo con il blocco occidentale che ebbe nella firma del TNP il suo aspetto più significativo. Da un punto di vista delle relazioni bilaterali con l’Italia, invece, gli episodi più rilevanti furono la firma di un accordo di cooperazione economica, culturale, commerciale e scientifica e la firma di un protocollo di collaborazione tecnica con la FIAT che avrebbe portato alla costruzione di un grande
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impianto per la produzione di automobili in una città russa denominata Togliattigrad. La storiografia non ha dato ancora il giusto risalto a questa Ostpolitik dell’Italia, sviluppata con grande tempismo rispetto a Paesi come gli Stati Uniti o la Repubblica Federale di Germania, che sarebbero stati i principali protagonisti della distensione internazionale nel periodo immediatamente successivo, tra la fine degli anni Sessanta e la metà degli anni Settanta, ma che, ancora in quel periodo, erano trincerati dietro a strategie di rappresaglia, flessibile o massiccia, o a pretese di unicità, come statuiva, per la Germania occidentale, la Dottrina Hallstein. Moro, negli anni della presidenza del Consiglio del centro-sinistra organico, seguì le principali questioni di politica estera, compiendo numerose visite all’estero. Mostrò una particolare attenzione verso il miglioramento dei rapporti dell’Italia con i Paesi vicini, soprattutto Austria e Jugoslavia 11. Nel caso del Paese balcanico, la firma del Memorandum d’Intesa del 5 ottobre 1954 aveva già sancito una graduale normalizzazione dei rapporti tra Italia e Jugoslavia specialmente nel campo della cooperazione economi 11 Sulle relazioni italo-jugoslave dopo la seconda guerra mondiale: J. B. DuroselLe conflit de Trieste 1943-1954, Bruxelles, Institut de Sociologie, 1966, pp. 98-99. B. C. Novak, Trieste 1941-1954. La lotta politica, etnica e ideologica, Milano, Mursia, 1996, pp. 103-104; D. De Castro, Il problema di Trieste. Genesi e sviluppi della questione giuliana in relazione agli avvenimenti internazionali, 1943-1952, Bologna, Cappelli, 1952; Id., La questione di Trieste. L’azione politica e diplomatica italiana dal 1943 al 1954, Trieste, Lint, 1981; M. Galeazzi (a cura di), Roma-Belgrado. Gli anni della guerra fredda, Ravenna, Longo Editore, 1995; R. Pupo, Il lungo esodo. Istria: le persecuzioni, le foibe, l’esilio, Milano, Rizzoli, 2005; Id., Guerra e dopoguerra al confine orientale d’Italia, Udine, Del Bianco, 1999; A. Varsori, Il trattato di pace italiano. Le iniziative politiche e diplomatiche dell’Italia, in Id. (a cura di), La politica estera italiana nel secondo dopoguerra (1943-1957), Milano, LED, 1993, p. 125 e ss.; G. Valdevit, La questione di Trieste 1941-1954. Politica internazionale e contesto locale, Milano, Franco Angeli, 1986; L. Monzali, La questione jugoslava nella politica estera italiana dalla prima guerra mondiale ai trattati di Osimo (1914-75), in F. Botta, I. Garzia, Europa adriatica. Storia, relazioni, economia, Bari-Roma, Laterza, 2004, p. 15 e ss.; M. Cattaruzza, L’Italia e il confine orientale 1866-2006, Bologna, Il Mulino, 2007; M. Bucarelli, La “questione jugoslava” nella politica estera dell’Italia repubblicana (1945-1999), Roma, Aracne, 2008; R. Wörsdörfer, Il confine orientale. Italia e Jugoslavia dal 1915 al 1955, Bologna, Il Mulino, 2009; M. Dassovich, I molti problemi dell’Italia al confine orientale. II. Dal mancato rinnovo del patto Mussolini-Pašić alla ratifica degli accordi di Osimo, Udine, Del Bianco, 1990. Utile anche S. Stallone, Prove di diplomazia adriatica: Italia e Albania 1944-1949, Torino, Giappichelli, 2006.
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ca. La costituzione dell’esecutivo di centro-sinistra organico, alla fine del 1963, suscitò grandi speranze a Belgrado, come conferma la calda accoglienza riservata alla missione che una delegazione del Partito Socialista Italiano svolse nel vicino Paese slavo nel giugno del 1964. In particolare, uno dei leaders della Lega Comunista di Jugoslavia in Slovenia, Marinko, aveva usato parole di elogio nei confronti della partecipazione del PSI al governo di centro-sinistra, mentre l’atteggiamento tenuto dal PCI era considerato deplorevole 12. Secondo l’Ambasciatore italiano a Belgrado, Roberto Ducci, era chiaro l’intento, da parte del gruppo dirigente della LCJ, di non perdere i contatti con quelle forze politiche che sembravano essere «destinate ad incarnare in Occidente il progresso sociale e politico, i socialismi e le socialdemocrazie» 13. A conferma di questa fase positiva nei rapporti tra i due Stati vicini, la dirigenza jugoslava accettava la proposta, fatta da Mario Toscano ed appoggiata anche dal ministro degli Esteri Giuseppe Saragat, per la firma di un “accordo politico di amicizia e di buon vicinato” durante la visita che il presidente del Consiglio, Aldo Moro, avrebbe dovuto fare nel Paese balcanico 14. Si riteneva, inoltre, da parte jugoslava, che il gabinetto guidato da Moro sarebbe andato largamente incontro alle due principali aspirazioni di Belgrado nei confronti dell’Italia: l’allargamento della cooperazione economica e finanziaria e la definitiva sistemazione delle frontiere nella ex Zona B del vecchio Territorio Libero di Trieste 15. In realtà, le relazioni economiche tra Italia e Jugoslavia negli anni del centro-sinistra non risultarono così soddisfacenti come era nelle aspettative. Il governo di Belgrado, già a partire dal 1961, ma ancor più dall’estate del 1964, aveva dato vita ad una riforma economica che perseguiva gli obiettivi di dare maggiore stabilità al mercato interno, attraverso una limitazione dei consumi e degli investimenti non necessari, un contenimento dei prezzi, la chiusura delle industrie rivelatesi 12 Archivio Centrale dello Stato (d’ora in poi ACS), Fondo Aldo Moro (d’ora in poi FAM), Serie (d’ora in poi s.) 3, Busta (d’ora in poi b.) 38, Fascicolo (d’ora in poi f.) 215, «Telespresso n. 2128 dall’Ambasciata d’Italia a Belgrado (Ducci) al Ministro degli Affari Esteri Giuseppe Saragat», Belgrado, 16 giugno 1964, p. 9. 13 Ibid., pp. 9-10. 14 ACS, FAM, s. 3, b. 38, f. 215, «Telespresso urgente n. 021 dall’Ambasciata d’Italia a Belgrado (Ducci) al Ministero degli Affari Esteri. Oggetto: proposte jugoslave circa questioni da trattare sul piano bilaterale», Belgrado, 16 giugno 1964, p. 1. 15 ACS, FAM, s. 3, b. 27, f. 152, «Telespresso n. 2638 da Ducci a Saragat», Belgrado, 25 luglio 1964, p. 4.
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improduttive, l’attribuzione di un valore realistico alla moneta e lo stimolo alle esportazioni 16. Una riforma di questo tipo, però, richiedeva forti contributi finanziari dall’estero 17, che il governo di Roma non fu in grado di assicurare fino in fondo a causa della congiuntura economica negativa che colpì l’Italia all’inizio degli anni Sessanta. Ciò significò un restringimento delle importazioni dalla Jugoslavia ed una riduzione dei crediti finanziari verso il Paese balcanico. Alla luce di questa situazione, Ducci definiva difficili, se non critici, i rapporti economici bilaterali 18. Riguardo alle questioni territoriali, invece, il problema sul tappeto era rappresentato dalla Zona B. Il governo di Belgrado considerava una finzione giuridica il fatto che le zone A e B del TLT fossero state affidate in amministrazione rispettivamente ad Italia e Jugoslavia, e che, come si considerava Trieste ormai integrata al territorio italiano, così il governo di Roma avrebbe dovuto ammettere che la Zona B era parte integrante del territorio jugoslavo. Da parte di Roma, però, questa equivalenza non era ammessa, non essendo accettato che fosse cessata la sovranità italiana su entrambe le zone dell’ex TLT e non avendo stabilito nessun obbligo di discutere le variazioni alle disposizioni contenute nel Memorandum di Londra del 1954, di cui non era prevista una scadenza 19. Questo atteggiamento fermo e non equivoco da parte italiana aveva tolto ogni illusione a Tito, anche se restava la speranza di ulteriori progressi nei successivi incontri. A conferma di questo stallo relativo nel perseguimento di una soluzione alla questione territoriale che divideva Italia e Jugoslavia, vi era il fatto che il governo di Belgrado aveva giudicato in 16 Doc. No. 178, «Memorandum from the Under Secretary of State for Economic Affairs (Mann) to the President’s Special Assistant for National Security Affairs (Bundy). Subject: Yugoslav Request for Assistance to Carry out Liberalization of Economy», Washington, July 22, 1965, in Foreign Relations of United States (d’ora in poi FRUS) 1964-1968. Volume XVII: Eastern Europe; Doc. No. 318 «M. Francfort, Ambassadeur de France à Belgrade, à M. Couve de Murville, Ministre des Affaires Etrangères», Belgrade, 10 décembre 1965, in Documents Diplomatiques Français (d’ora in poi DDF) 1965. Tome II (1er juillet-31 décembre), Bruxelles, Pie-Peter Lang, 2004. 17 ACS, FAM, s. 3, b. 39, f. 215, «Appunto di sintesi», cit., p. 8. 18 ACS, FAM, s. 3, b. 27, f. 152, «Telespresso n. 2638 da Ducci a Saragat», Belgrado, 25 luglio 1964, cit., pp. 4-5. Interessante anche il punto di vista francese espresso in Doc. No. 205 «M. Couve de Murville, Ministre des Affaires Etrangères, à M. Binoche, Ambassadeur de France à Belgrade», Paris, 26 novembre 1964, in DDF 1964. Tome II (1er juillet-31 décembre), Bruxelles, Pie-Peter Lang, 2002. 19 ACS, FAM, s. 3, b. 39, f. 215, «Rapporti bilaterali italo-jugoslavi», cit., pp. 4-5.
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maniera interlocutoria il varo del secondo gabinetto Moro, che, secondo gli ambienti politici jugoslavi, aveva spostato leggermente a destra l’asse del governo, anche in tema di politica estera. La visita di Moro a Belgrado che era stata fissata per il mese di novembre del 1965 poteva essere, quindi, un’ottima occasione per rilanciare le relazioni tra i due vicini almeno sul piano economico e commerciale. Le misure restrittive elaborate dal governo di Roma nei confronti della importazione di alcuni prodotti jugoslavi aveva provocato, infatti, un reindirizzamento delle relazioni di Belgrado verso i Paesi del blocco comunista. Se l’Italia avesse voluto mantenere una posizione di preminenza, almeno tra le potenze occidentali, nelle relazioni con il Paese balcanico, scriveva Ducci a Saragat, occorreva, infatti, continuare ad offrire un’efficace collaborazione e continuare a svolgere quel ruolo di «interpreti dell’Occidente e di via di accesso verso di esso» 20. Un altro elemento di difficoltà che si poteva insinuare nei rapporti italo-jugoslavi era costituito dai mancati indennizzi del governo jugoslavo nei confronti dell’Italia. In particolare, Roma rivendicava circa venti miliardi di lire per i beni nazionalizzati, confiscati e liberi della Zona B del TLT, sette miliardi di lire per i beni liberi dei territori ceduti in forza del Trattato di Pace del 1947 (Fiume, Pola e Zara) per i quali i cittadini italiani non avessero manifestato entro il 5 ottobre 1954 la volontà di venderli al governo di Belgrado e 600 milioni di lire per i beni nazionalizzati del vecchio territorio jugoslavo 21. Secondo Saragat, Belgrado non dimostrava alcuna fretta di chiudere la trattativa, cercando, invece, di indurre l’Italia ad avviare un negoziato globale che, includendo anche il problema degli indennizzi, conducesse alla implicita conferma di un definitivo abbandono di ogni pretesa di sovranità da parte del governo di Roma sulla ex Zona B del TLT. Il negoziato, continuava il capo della diplomazia italiana, non sarebbe stato facile, a meno che non si fosse stati disposti a «concedere qualche contropartita di natura politica o finanziaria» 22, che si andasse ad aggiungere ai circa 121 miliardi di lire di crediti che l’Italia ACS, FAM, s. 3, b. 27, f. 152, «Telespresso n. 2638 da Ducci a Saragat», Belgrado, 25 luglio 1964, cit., pp. 4-8. 21 ACS, FAM, s. 3, b. 38, f. 215, «Lettera del Ministro del Tesoro, Emilio Colombo, al Ministro degli Affari Esteri, Giuseppe Saragat», Roma, 14 ottobre 1964, p. 1. 22 ACS, FAM, s. 3, b. 38, f. 215, «Lettera del Ministro degli Affari Esteri, Giuseppe Saragat, al Ministro del Tesoro, Emilio Colombo», Roma, 16 novembre 1964, pp. 1-3. 20
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aveva nei confronti del vicino Paese adriatico 23. La politica di collaborazione con la Jugoslavia aveva portato, infatti, negli anni precedenti, l’Italia ad occupare il primo posto nel commercio estero del Paese slavo e, da un punto di vista politico, a «creare l’unica “frontiera aperta” tra il mondo socialista ed il mondo occidentale» 24. La visita di Moro a Belgrado si svolse tra l’8 ed il 12 novembre 1965. Il capo del governo italiano, in quei giorni, ebbe la possibilità di incontrare sia il presidente della Repubblica, Tito, sia il presidente del Consiglio Esecutivo, Petar Stambolic´. Le conversazioni non toccarono le questioni bilaterali più scottanti, ma si concentrarono su argomenti di politica internazionale, quali il disarmo e la situazione nel Sud-Est asiatico, e sulla cooperazione tra i due Paesi nell’ambito economico, culturale e scientifico. In particolare, Moro e Tito presero atto con soddisfazione dell’intesa precedentemente raggiunta per la concessione, da parte del governo italiano, di crediti per il rifinanziamento nel quadro della riforma economica in atto in Jugoslavia. Venne, inoltre, firmato un accordo che regolava il settore della pesca in Adriatico e un accordo di cooperazione doganale 25. Più in generale, l’obiettivo principe della cooperazione italo-jugoslava stava nel trarre elementi utili per individuare comuni aspirazioni o convergenze per la distensione. In particolare, da parte italiana, vi era un forte interesse ad avere una Jugoslavia stabile nelle strutture politiche ed economiche, in vista del perseguimento di ulteriori aperture verso i Paesi del blocco comunista. In maniera speculare, la Jugoslavia vedeva nell’Italia un utile tramite verso l’Europa occidentale, nel tentativo di dare maggior respiro alla sua politica di neutralismo attivo 26. Sull’andamento delle relazioni italo-jugoslave ebbe una positiva influenza anche la ripresa dei contatti diplomatici tra il Vaticano e Belgrado, che si attuò con
23 ACS, FAM, s. 3, b. 38, f. 215, «Lettera del Ministro del Tesoro, Emilio Colombo, al Ministro degli Affari Esteri, Giuseppe Saragat», Roma, 14 ottobre 1964, cit., p. 2. 24 ACS, FAM, s. 3, b. 38, f. 215, «Lettera del Ministro degli Affari Esteri, Giuseppe Saragat, al Ministro del Tesoro, Emilio Colombo», Roma, 16 novembre 1964, cit., pp. 3-4. 25 ACS, FAM, s. 3, b. 39, f. 215, «Comunicato italo-jugoslavo», 10/11/1965, pp. 2-4. 26 L. V. Ferraris (a cura di), Manuale della politica estera italiana, 1947-1993, RomaBari, Laterza, 1998, p. 180.
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il riconoscimento dell’autorità della Santa Sede sulla Chiesa cattolica jugoslava 27. A partire dal 1966, si pose il problema di invitare a Roma il capo del governo jugoslavo per ricambiare la visita di Moro. In realtà, come spiegava Ducci a Fanfani, in una lettera del 4 maggio di quell’anno, gli affari comuni tra Italia e Jugoslavia non avevano fatto registrare dei grossi passi in avanti dai tempi della visita del presidente del Consiglio italiano, per cui l’incontro tra i due capi degli esecutivi avrebbe potuto essere rimandato senza ferire troppo la sensibilità dei dirigenti di Belgrado 28. Del resto, l’Italia era ancora il Paese più interessato a svolgere verso la Jugoslavia un’azione volta ad incoraggiare la tendenza “autonomista” della politica estera di Belgrado, tanto più a partire dal 1965, quando si cominciò ad elaborare, nel Paese balcanico, quella riforma economica che avrebbe dovuto portare ad una maggiore liberalizzazione, anche politica 29. Era interesse dell’Italia, quindi, incoraggiare e sostenere le correnti che guardavano all’Occidente, in modo da permettere un loro rafforzamento e da impedire che soccombessero di fronte ai pericoli, sempre presenti, di un possibile processo involutivo 30.
Ibid. ACS, FAM, s. 3, b. 27, f. 152, «Lettera dell’Ambasciatore d’Italia a Belgrado Ducci al Ministro degli Affari Esteri Fanfani. Oggetto: Visita di Stambolic-Invito a Kardelj», Belgrado, 4 maggio 1966, p. 5. 29 La legislazione approvata nel 1965 comportava, innanzitutto, una drastica riduzione nel numero delle banche: venivano virtualmente aboliti i circa 380 istituti comunali, a favore di 30 o 40 banche regionali più grandi. Le altre misure di questa riforma prevedevano una riduzione delle tasse sugli scambi di merci e l’abolizione delle imposte sul valore aggiunto netto delle imprese, mentre la tassa sul capitale fisso venne ridotta al 4%. Il dinaro fu svalutato, i prezzi dei prodotti agricoli e delle materie prime continuarono ad essere controllati, ma aumentati, in media, del 60% (del 30% i beni dell’industria) e gli agricoltori che lavoravano appezzamenti di terra privati ottennero l’accesso al credito bancario per comprare trattori ed altro equipaggiamento agricolo, che avrebbe permesso loro di aumentare la produttività della terra. La riforma comportava una maggiore liberalizzazione anche sul piano politico: il diritto di critica veniva frequentemente esercitato in Parlamento ed erano tollerate persino alcune forme di sciopero. Cfr. ACS, FAM, s. 3, b. 46, f. 248, «Appunto di sintesi», s.d. (ma gennaio 1968), p. 1; Doc. No. 183, «National Intelligence Estimate», Washington, April 13, 1967, in FRUS 1964-1968. Volume XVII: Eastern Europe; J. R. Lampe, Yugoslavia as History. Twice there was a country, Cambridge, Cambridge University Press, 2000, pp. 287-288. 30 ACS, FAM, s. 3, b. 46, f. 248, «Rapporti italo-jugoslavi», s.d. (ma gennaio 1968), pp. 1-2. 27 28
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Il 1967 fu caratterizzato dalla crisi mediorientale 31, che preoccupò moltissimo la Jugoslavia, che reagì schierandosi decisamente a favore dei Paesi arabi 32. Secondo Belgrado, infatti, la crisi costituiva l’ennesimo tentativo da parte delle potenze “imperialiste” di colpire, dopo Ahmed Sukarno e Kwame Nkrumah, i leaders superstiti del movimento dei non allineati. Tito aveva proposto un piano per una soluzione negoziata del conflitto, che venne respinto nettamente da Tel Aviv, senza incontrare, peraltro, neanche un grosso favore tra le leaderships dei Paesi arabi, in quanto prevedeva il riconoscimento di Israele 33. La crisi araboisraeliana fu un argomento toccato durante il colloquio che Moro ebbe, il 2 ottobre, con il nuovo ambasciatore jugoslavo a Roma, Srdja Prica. In quell’occasione fu ricordato l’interesse dei due Paesi a mantenere la pace nel bacino del Mediterraneo e l’azione svolta dai governi di Roma e Belgrado per favorire una soluzione pacifica e concordata della crisi del Medio Oriente 34. L’8 ed il 9 gennaio 1968, infine, il presidente del Consiglio Esecutivo della Jugoslavia, Mika Spiljak, restituì la visita che Moro aveva fatto a Belgrado nel novembre del 1965. Nel corso dei colloqui tra i capi dei governi dei due Paesi vicini si volle mettere l’accento sia sui problemi di carattere bilaterale sia sulle principali questioni internazionali allora sul tappeto. Sul primo argomento, Moro sottolineò lo sviluppo delle relazioni, soprattutto economiche, tra Italia e Jugoslavia nel corso dei precedenti dieci anni ed ammise l’esistenza di qualche difficoltà, da parte italiana, nella concessione di nuovi crediti, che avrebbe costretto il governo di Roma a chiedere delle proroghe. Lo sviluppo dei rapporti economici fu sottolineato anche da Spiljak, che lo attribuì sia alla visita di Moro a Belgrado sia alla riforma economica messa in atto dal governo jugoslavo a partire dal 1965. Nei precedenti due anni, metteva in evidenza il primo ministro jugoslavo, gli scambi commerciali erano aumentati 31 Sulla crisi mediorientale del 1967: L. Riccardi, Il «problema Israele». Diplomazia italiana e PCI di fronte allo Stato ebraico (1948-1973), cit. 32 Doc. No. 185, «Telegram from the Embassy in Yugoslavia to the Department of State», Belgrade, July 15, 1967, in: FRUS 1964-1968. Volume XVII: Eastern Europe. 33 ACS, FAM, s. 3, b. 46, f. 248 «Visita ufficiale in Italia del presidente del Consiglio esecutivo federale di Jugoslavia Mika Spiljak e del segretario di Stato agli Affari esteri Marko Nikezic (8-9 gennaio 1968)», «Rapporti italo-jugoslavi», s.d. (ma gennaio 1968), p. 6. 34 ACS, FAM, s. 3, b. 27, f. 152, «Appunto», Roma, 2 ottobre 1967, p. 2.
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del 60%, raggiungendo un volume pari a 450 milioni di dollari. L’ulteriore passo consisteva, secondo il rappresentante del governo di Belgrado, in una regolamentazione dei rapporti con i Paesi della CEE, con cui la Jugoslavia intendeva sviluppare ancora le proprie esportazioni che, in quel momento, raggiungevano la quota di due miliardi di dollari e per farlo chiedeva una qualche forma di associazione al MEC e l’appoggio italiano a questa proposta. Tutto ciò rientrava, secondo Spiljak, nel più grande disegno della coesistenza tra i due blocchi: il perseguimento di buoni rapporti dal punto di vista politico doveva avere come base una coesistenza economica 35. Moro, pur apprezzando i principi a cui si era ispirata la riforma economica jugoslava e pur sottolineando il fatto che l’Italia era stato il primo Paese ad appoggiare le aspirazioni jugoslave per un’associazione al MEC, doveva tener conto degli “sconvolgimenti”, non ancora completamente chiariti, che erano avvenuti all’interno della Comunità negli anni precedenti. Un ritardo del chiarimento tra i Paesi membri avrebbe potuto ritardare l’avvio del processo per un’associazione da parte jugoslava: in quel caso, si sarebbe potuto pensare a degli accordi bilaterali 36. Sui problemi internazionali si manifestò una concordanza di vedute sulla gravità delle più importanti crisi militari, il Vietnam ed il Medio Oriente, e sulla necessità di sforzarsi per favorire una soluzione pacifica, pur nella pluralità dei punti di vista e nelle difficoltà derivate dall’appartenenza a sistemi politici diversi. Sul tema della sicurezza europea, invece, da parte jugoslava veniva riconosciuto il fallimento delle iniziative prese dall’Unione Sovietica e dalla Polonia e veniva proposto un approccio più pragmatico al problema. Secondo Spiljak, occorreva procedere per piccoli passi. In questo senso, la collaborazione italo-jugoslava costituiva un fattore positivo, così come l’intensificazione degli scambi commerciali all’interno del continente europeo e la normalizzazione dei rapporti tra Belgrado e Bonn 37. In realtà, come mise in luce il nuovo Ambasciatore italiano a Belgrado Trabalza, in una lettera risalente al 9 maggio del 1968, nei mesi successivi alla visita di Spiljak in Italia si assistette ad un incremento 35 ACS, FAM, s. 3, b. 27, f. 152, «Resoconto sommario delle relazioni italo-jugoslave» (8-9 gennaio 1968), pp. 2-6. 36 Ibid., p. 8. 37 Ibid., pp. 13-26.
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delle difficoltà nei rapporti bilaterali tra Roma e Belgrado, specie in relazione alla questione dell’associazione alla CEE. Durante la riunione dei Paesi della Comunità, svoltasi a Bruxelles il 29 febbraio 1968, infatti, la delegazione italiana aveva chiesto che i negoziati tra la Jugoslavia e la CEE fossero aggiornati al luglio successivo. Ciò avrebbe significato un duro colpo per l’economia jugoslava, che avrebbe perso, in questo modo, un’intera annata di benefici che sarebbero derivati dall’associazione del Paese slavo al MEC 38. La risposta evasiva giunta da Moro e da Fanfani, che avevano collegato la questione allo sblocco del veto posto da de Gaulle all’ingresso della Gran Bretagna nel MEC, apparve, agli occhi di Belgrado, come un contentino dato agli Jugoslavi per farli «star tranquilli [...] per un po’ di tempo». Alla causa italiana non giovò neanche la diffusione di una presunta dichiarazione di Fanfani (nella lettera è indicato con la sola iniziale F.), che era stata diffusa a Belgrado dall’ambasciatore a Roma Prica, secondo cui il ministro degli Esteri democristiano avrebbe detto, a proposito della Gran Bretagna e dell’accordo MEC-Jugoslavia, che «quando corrono i cavalli, gli asini restano indietro» 39. Da ciò era derivata, negli ambienti governativi jugoslavi, una certa sfiducia anche nei confronti di Moro, che pure era considerato favorevole allo sviluppo di una politica di collaborazione con Belgrado. La lettera di Trabalza finiva con un’esortazione a non perdere ulteriore tempo nello sviluppare una politica di apertura verso la Jugoslavia e con una citazione di Sforza, secondo cui «i Balcani sono le nostre colonie, dobbiamo pensarci sempre e operare in tal senso, pur senza parlarne mai». In questo senso, l’Italia aveva perso quarant’anni, ma un uomo come Moro avrebbe potuto recuperare il tempo perduto 40. A partire dalla seconda metà degli anni Cinquanta, si assistette ad una progressiva distensione anche nei rapporti tra Italia ed Albania. Ciò corrispondeva ad esigenze diverse, ma complementari, dei due governi. Tirana cercava un miglioramento dei rapporti con l’Italia sia per uscire da una situazione di parziale isolamento sia, soprattutto, per avere un garante che preservasse l’indipendenza e l’integrità del proprio territo-
ACS, FAM, s. 3, b. 27, f. 152, «Appunto», Roma, 13 marzo 1968, p. 1. ACS, FAM, s. 3, b. 27, f. 152, «Lettera di Trabalza a Pompei», 9/5/1968, p. 1. 40 Ibid., pp. 2-3. 38 39
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rio dalle mire espansionistiche di Grecia e Jugoslavia 41. L’Italia, invece, inaugurò in quel periodo una politica estera di più ampio respiro, che gli storici avrebbero definito come «neoatlantismo», nella quale la ripresa di rapporti più articolati anche con Paesi, come l’Albania, esterni alle alleanze euro-atlantiche, serviva a contribuire a mantenere e a rafforzare una situazione di equilibrio e di stabilità nei settori dell’Adriatico e del Mediterraneo 42. Il governo di Roma cercò di migliorare i rapporti con il governo comunista di Tirana, ad esempio concludendo un accordo commerciale con l’Albania nel dicembre 1954, il primo fra un Paese 41 Nel gennaio 1957 in una riunione preparatoria alla visita del ministro degli Esteri britannico, Selwyn Lloyd, l’ambasciatore Magistrati denunciò le minacce che esistevano sul futuro dell’Albania e i diversi punti di vista fra Italia e Gran Bretagna al riguardo: «L’Ambasciatore Magistrati, su invito del Ministro, ricorda l’ultimo rilevante episodio. Il Maresciallo Montgomery, nel corso di una sua conversazione col Maresciallo Tito, fece cenno all’utilità di un’occupazione jugoslava dell’Albania in caso di crisi bellica. Tale conversazione venne poi riferita anche a noi. Alle nostre rimostranze, piuttosto vive, da parte inglese si cercò di minimizzare le cose. Il problema ora è quello di vedere se siamo tuttora convinti che l’attuale situazione albanese debba essere una costante della nostra politica, costante alla quale, come è noto, gli ambienti militari italiani tengono particolarmente. Fa presente, per fornire ogni possibile elemento di giudizio, che nella sua recente visita a Roma l’Ambasciatore Pietromarchi ha accennato ad una possibile ripresa del Patto Balcanico: se ciò fosse esatto non sarebbe da escludere che si intendesse compensare la Grecia per qualche sacrificio su Cipro, con la spartizione dell’Albania, tanto più che il Governo albanese si è di recente mostrato l’elemento di punta dello stuolo dei satelliti. Comunque ritiene che la nostra posizione debba rimanere quella di tenere staccata, a qualsiasi costo, l’Albania, anche se comunista, dall’ambito balcanico. Suggerisce che, in occasione dei prossimi colloqui con gli Inglesi, venga ad essi data la netta sensazione che da parte nostra non si intende demordere da una simile posizione». Cfr. Archivio Storico del Ministero degli Affari Esteri (d’ora in poi ASMAE), s. Affari Politici 1950-1957 (d’ora in poi AP 1950-1957), b. 1360, Riunione per la visita del Ministro Selwyn Lloyd presieduta da S.E. Il Ministro, 11 gennaio 1957. Si veda anche: ASMAE, AP 1950-1957, Ministero degli Affari Esteri, Direzione Generale degli Affari Politici, Ufficio II, «Albania», senza data, allegato a «Appunto per il Consigliere Mondello», 18 gennaio 1957. Una chiara presentazione del punto di vista del governo di Roma sulla questione albanese negli articoli di Basilio Cialdea su «Relazioni Internazionali»: B.C. [Basilio Cialdea], Negoziati ed accordi economici con la Jugoslavia, l’Albania e la Germania, in «Relazioni Internazionali», 8 gennaio 1955, n. 2, pp. 42-43; Id., I rapporti tra l’Italia e l’Albania, ivi, n. 2, 13 gennaio 1962. Alcune informazioni in S. Stallone, Prove di diplomazia adriatica: Italia e Albania 1944-1949, cit. 42 Come ebbe modo di sottolineare l’allora ministro degli Esteri italiano Gaetano Martino durante una seduta alla Camera dei deputati il 27 settembre 1955, «l’Italia considera interesse proprio e dell’Occidente il mantenimento dell’indipendenza e dell’integrità» dell’Albania. Cfr. I problemi internazionali dell’Italia, in G. Martino, Per la libertà e la pace, Firenze, Le Monnier, 1957, p. 212.
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occidentale e il regime di Enver Hoxha. Il 22 giugno 1957 venne firmato a Roma un accordo con cui si definivano alcune questioni pendenti dai tempi del Trattato di pace del 1947. In particolare, si prevedeva un indennizzo forfettario dei beni italiani confiscati, la restituzione all’Albania di oggetti di valore storico ed artistico, la consegna all’Italia della documentazione sui beni italiani confiscati in Albania e lo sblocco dei fondi depositati dagli italiani in alcune banche albanesi dopo il 1947 43. Nel 1961 la rottura con l’Unione Sovietica e l’avvicinamento alla Cina portò il governo di Tirana a mobilitarsi per intensificare gli aiuti provenienti dall’esterno e ad ampliare le relazioni economiche con i Paesi vicini, in particolare con l’Italia. Il 7 dicembre di quell’anno venne firmato, infatti, un Accordo commerciale, che, pur raddoppiando l’interscambio in atto, non avrebbe favorito un salto di qualità nelle relazioni economiche bilaterali. Ancora nel 1967, infatti, l’Italia aveva una posizione marginale nel commercio estero albanese, che, esaurita la fornitura di prodotti chimici da parte della Montecatini, ammontava al 4% circa 44. Quello stesso anno un nuovo accordo commerciale bilaterale venne sottoscritto a Tirana. Esso prevedeva che l’Albania avrebbe esportato bitume, nafta, ferronickel, cromo in sbarre, marmo, tabacco, prodotti d’artigianato e piante medicinali in cambio di metallo laminato, prodotti chimici, farmaci, oli industriali, utensili, macchinari e pezzi di ricambio 45. Importante era anche la sfera dei rapporti culturali, con l’Italia che per tradizione era percepita dagli Albanesi come la porta verso l’Occidente. Significative erano soprattutto le trasmissioni RAI in albanese, trasmesse due volte al giorno, alle 14:30 e alle 18:45. Si trattava di due notiziari e di un commentario, mandato in onda in maniera irregolare, 43 Cfr. L. V. Ferraris (a cura di), Manuale della politica estera italiana 1947-1993, cit., p. 184. Nel 1955, le autorità albanesi avevano liberato gli ultimi 16 prigionieri italiani che si trovavano ancora in Albania, mostrandosi anche disponibili a favorire la traslazione in Italia delle salme dei caduti in guerra. Cfr. B. C. [Basilio Cialdea], I rapporti tra Italia e Albania, in «Relazioni Internazionali», 1956, p. 495. 44 ACS, FAM, s. 3, b. 20, f. 95, L’economia dell’Albania all’inizio del 1968, Tirana, febbraio 1968, p. 49. Cfr. anche B. C. [Basilio Cialdea], I rapporti tra l’Italia e l’Albania, in «Relazioni Internazionali», n. 2, 13 gennaio 1962, p. 30. 45 Fondazione di Studi Storici «Filippo Turati» (d’ora in poi FSSFT), Fondo «Partito Socialista Italiano-Direzione Nazionale» (d’ora in poi FPSI), s. 11, ss. 4, b. 2, Un accord commercial avec l’Italie, in «La Résistance albanaise. Bulletin d’information du Comité National Démocratique “Albanie Libre”» a. IV, n. 86, 10 Juillet 1967, p. 5.
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su avvenimenti non riguardanti la politica e pertinente, invece, con lo sviluppo economico, scientifico e tecnologico del mondo occidentale, degli Stati Uniti in particolare. Questo atteggiamento apparentemente tenero da parte della RAI non era dettato da alcuna positiva predisposizione nei confronti del regime comunista di Tirana, ma aveva motivazioni tattiche. Secondo i vertici RAI, infatti, una trasmissione che si limitasse ad esporre soltanto i fatti, senza cadere in polemiche con il regime di Hoxha, avrebbe assicurato una larga audience ai programmi in lingua albanese della televisione di Stato italiana, permettendole di aggirare, contemporaneamente, le eventuali chiusure delle trasmissioni 46. 2. Moro ministro degli Esteri, la ricerca di una nuova politica estera italiana e il problema dei rapporti con la Jugoslavia comunista 1969-1972 Dopo il negativo esito delle elezioni parlamentari del 1968, Moro entrò in dissidio con il gruppo dirigente doroteo e perse il controllo della Democrazia cristiana, conoscendo una progressiva emarginazione politica. A partire da quel momento, Moro cominciò a dedicare particolare attenzione alle relazioni internazionali. Leggendo i suoi discorsi, possiamo constatare che, dalla fine degli anni Sessanta, egli si sforzò di delineare una propria personale riflessione e strategia di politica internazionale. Impressionato dai movimenti di contestazione giovanile che scuotevano l’Europa occidentale e gli Stati Uniti alla fine degli anni Sessanta e dai mutamenti in atto nella politica internazionale, con lo scontro all’interno del mondo comunista fra Cina e Unione Sovietica, il rafforzarsi del processo di decolonizzazione, il delinearsi di una nuova politica estera della Repubblica Federale tedesca verso il blocco comunista 47, lo statista italiano sostenne l’esigenza di un’evoluzione della po 46 «Memorandum of Conversation (Akshija; Peters). Subject: Comments on RAI’s Broadcasts to Albania and Other Subjects», January 3, 1963, in National Archives Washington DC (d’ora in poi NAW), DEP STATE, RG 59, B EUR AFF, LOT FILE 67D319, ITA, b.1, pp 1-2. 47 Sull’attenzione di Moro all’Ostpolitik tedesca: Akten zur Auswärtigen Politik der Bundesrepublik Deutschland (d’ora in poi AAPBD), München 1998, anno 1967, d. 140, «Gespräch des Bundeskanzler Kiesinger mit Ministerpräsident Moro», 24 aprile 1967; ivi, anno 1968, d. 40, «Deutsch-italienische Regierungsgespräche in Rom», 1-2 febbraio 1968; C. Meneguzzi Rostagni, La distensione italiana negli anni settanta, in J. Pirjevec,
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litica internazionale dell’Italia. Secondo Moro, l’umanità stava vivendo un processo di emancipazione e rinnovamento spirituale caratterizzato da nuovi valori di solidarietà, eguaglianza e pace. La divisione del mondo fra due blocchi stava entrando in crisi, mentre sorgevano nuovi centri di potere che facilitavano l’evoluzione del sistema internazionale in senso multipolare: Vi è un’opinione pubblica nuova; vi è una coscienza collettiva le quali diventano sempre più esigenti. La ragione di Stato, la ragione della forza dovranno pur cedere alla fine, ma dovunque nel mondo, a questa incontenibile pressione morale che si lega agli alti destini di una umanità davvero tutta rinnovata. Culturalmente, civilmente, religiosamente, politicamente lavoriamo per avvicinare quel giorno in cui la logica della forza ceda alla logica della fraternità dei popoli e del rispetto dei diritti di tutte le genti. In questo spazio è essenzialmente collocata la nostra iniziativa politica 48.
La politica estera italiana doveva farsi portatrice di questi nuovi valori, mirare al progressivo superamento dei blocchi militari e contribuire alla realizzazione di una politica di pace: Una strategia della pace che voglia essere realistica, e non solo illusoria, deve proporsi contemporaneamente tre obiettivi: 1) la soluzione dei problemi lasciati aperti o creati dalla seconda guerra mondiale [...]; 2) la limitazione e successiva riduzione degli arsenali delle armi strategiche che tengono sospesa sul mondo la minaccia della catastrofe; 3) la definizione, infine, di un codice della coesistenza, e cioè di un certo numero di regole di condotta che permettano di circoscrivere le crisi locali, isolandole dal contesto del confronto fra due blocchi e impedendone la scalata fino alla soglia nucleare 49.
L’Italia doveva adattarsi ai mutamenti in atto e contribuire alla pacificazione internazionale.
B. Klabjan, G. Bajc (a cura di), Osimska Meja. Jugoslovansko-italijanska pogajanja in razmejitev leta 1975, Koper/Capodistria, 2006, p. 61 e ss. 48 A. Moro, Scritti e Discorsi, cit., IV, p. 2604, discorso del 21 novembre 1968. 49 Ibid., V, discorso del 3 giugno 1969, p. 2757.
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Nel 1969 Moro ritornò al governo come ministro degli Esteri. Si trattava di un ruolo e di una scelta significativa, che attestavano l’interesse dell’esponente democristiano pugliese verso la politica internazionale e, allo stesso tempo, misero in evidenza una sua notevole capacità di saper padroneggiare con abilità gli strumenti della diplomazia. A ciò egli univa una grande sensibilità politica che è stata sottolineata da Roberto Ducci, suo collaboratore al ministero degli Esteri in quegli anni 50. La fortuna di Moro ministro degli Esteri dipese molto anche dalla scelta dei collaboratori, che egli seppe raccogliere in un team efficiente e capace. Il suo vecchio consigliere diplomatico ai tempi della presidenza del Consiglio, Gian Franco Pompei, fu nominato ambasciatore alla Santa Sede, mentre il suo principale collaboratore alla Farnesina, in qualità di segretario generale, divenne Roberto Gaja, un diplomatico piemontese vicino alla destra democristiana d’ispirazione degasperiana. Infine, alla Direzione degli Affari Politici venne nominato lo stesso Ducci, brillante personalità a cavallo fra diplomazia, politica e giornalismo, che era stato ambasciatore a Belgrado, tra il 1964 ed il 1967, e a Vienna tra il 1967 ed il 1970. Il presupposto da cui partì Moro per svolgere un progetto coerente nella politica estera italiana era, come abbiamo visto, l’individuazione del 1968 come un anno di cesura, avente come protagonisti le nuove generazioni, che, con la loro radicale critica all’ordine interno ed internazionale, ponevano le basi per l’evoluzione di un nuovo assetto mondiale. Sintomi concreti di quest’ansia di rinnovamento erano, da una parte, le critiche suscitate, anche all’interno del blocco orientale, dal modello di socialismo sovietico, sfociate nella «primavera di Praga», repressa con l’intervento delle truppe del Patto di Varsavia, e, dall’altra, la contestazione studentesca ed operaia dell’autunno 1968-69, esplosa sia negli Stati Uniti sia in Europa e che, esprimendosi, in particolare, contro l’intervento americano in Vietnam, coagulò un ampio sentimento di ostilità contro il governo di Washington. Sembrava venire a galla, insomma, per la prima volta dopo la fine della seconda guerra mondiale una prima crisi dell’assetto di Yalta, proprio quando, e forse proprio per quello, i rapporti tra i due blocchi si stavano facendo più distesi, senza i picchi di
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Cfr. R. Ducci, I capintesta, Milano, Rusconi, 1982, p. 54.
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tensione che avevano caratterizzato il periodo compreso tra la seconda metà degli anni Quaranta e l’inizio degli anni Sessanta. Moro fu in Italia uno degli uomini politici più attenti a queste scosse e cominciò proprio nel 1968 un profondo ripensamento del suo ruolo nella politica italiana, anche a costo di assumere delle prese di posizione impopolari ed essere relegato in stretta minoranza all’interno della Democrazia Cristiana. Ancora una volta, Moro comprese il forte legame esistente tra la politica interna e la politica estera in Italia ed elaborò una strategia di ampio respiro in cui la cosiddetta dottrina della “pace integrale”, fondata sul rigetto dei metodi della politica di potenza e sulla necessità di superamento del sistema bipolare, si sarebbe dovuta compenetrare con la “strategia dell’attenzione” nei confronti del Partito Comunista Italiano, mirante al coinvolgimento dell’opposizione sui problemi nazionali e all’approfondimento di una «dialettica democratica con le altre parti che pure concorrono ad interpretare il Paese» 51. In questo quadro, i due tradizionali pilastri della politica estera italiana, l’europeismo e l’atlantismo, assunsero un’importanza diversa rispetto ai periodi precedenti. Moro manifestò, in questo periodo, un rinnovato interesse nei confronti del processo di integrazione europea, che, nella sua concezione, avrebbe dovuto svolgere “una funzione riequilibratrice” sullo scacchiere mondiale, ponendosi come garante della “volontà di pace e di distensione” che animava i suoi popoli 52. Tutto ciò, insieme allo sviluppo del processo di distensione in atto nel Vecchio Continente, grazie, innanzitutto, alla politica di Ostpolitik, inaugurata nella Repubblica Federale di Germania dal cancelliere socialdemocratico Willy Brandt, non poteva non portare ad una ridefinizione delle relazioni con gli Stati Uniti, caratterizzate, in questo periodo, da un andamento maggiormente dialettico, proprio in una fase in cui sembrava riemergere un forte interesse da parte di Washington Cfr. A. Moro, Scritti e discorsi, cit., V, p. 2666. Ibid., pp. 1438-1439. Cfr. anche G. Garavini, Dopo gli imperi. L’integrazione europea nello scontro Nord-Sud, Milano, Mondadori Education, 2009. Sulla politica europeistica di Moro ministro degli Esteri cfr. P. L. Ballini, A. Varsori (a cura di), L’Italia e l’Europa (1947-1979), cit., pp. 724-729; M. E. Guasconi, L’Europa tra continuità e cambiamento. Il vertice dell’Aja del 1969 e il rilancio della costruzione europea, Firenze, Polistampa, 2004; A. Varsori, La Cenerentola d’Europa? L’Italia e l’integrazione europea dal 1947 ad oggi, cit., pp. 225-283. 51 52
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nei confronti della nostra Penisola 53. La politica estera americana, che con Nixon non esitava a ricorrere alla forza e alla violenza che Moro utopisticamente riteneva strumenti politici ormai datati, iniziò ad essere vista con scetticismo e diffidenza. Moro constatò la necessità di rafforzare il ruolo politico dell’Europa, all’interno della quale l’Italia doveva svolgere un ruolo di primo piano. Accanto all’impegno per una maggiore cooperazione politica fra i Paesi dell’Europa occidentale, in Moro divenne forte l’interesse a favore dell’intensificazione delle relazioni fra il blocco occidentale e i Paesi dell’Europa centrale e orientale. In questo contesto era per lui importante il rafforzamento della collaborazione politica dell’Italia con i Paesi confinanti, «anche se neutrali e non allineati», quali Austria e Jugoslavia. Per Moro, infatti, il miglioramento dei rapporti con gli Stati vicini e la chiusura definitiva delle questioni confinarie costituivano momenti cruciali della sua nuova strategia internazionale, mirante alla creazione di un nuovo ruolo dell’Italia, ponte fra Europa occidentale e Paesi comunisti o non allineati. Da qui il suo sforzo per concludere i contenziosi territoriali con Austria e Jugoslavia, che avrebbe portato all’intesa italo-austriaca di Copenhagen del 1969 e agli accordi di Osimo del 1975, e la ricerca di una stretta collaborazione tra Roma, Vienna e Belgrado, primo passo per superare la divisione dell’Europa in blocchi militari antagonisti. La nuova strategia politica internazionale di Moro presentava il vantaggio di soddisfare alcune esigenze di politica estera ed interna della classe dirigente democristiana italiana. Il superamento delle controversie territoriali e politiche con gli Stati vicini avrebbe rafforzato l’Italia, rendendola più autonoma sul piano internazionale. Poteva poi consentire al nostro Paese di riconquistare parte di quell’influenza economica e politica nei Balcani e nel Mediterraneo che era stata perduta dopo la seconda guerra mondiale. L’accordo con la Jugoslavia serviva anche, ed era un elemento questo ben presente alla diplomazia italiana, ad ottenere definitivamente la conferma internazionale della sovranità italiana Sui rapporti tra Italia e Stati Uniti in questo periodo: M. Del Pero, L’Italia e gli Stati Uniti: un legame rinnovato?, in F. Romero, A. Varsori (a cura di), Nazione, interdipendenza, integrazione. Le relazioni internazionali dell’Italia (1917-1989), vol. I, Roma, Carocci, 2005, pp. 301-315; V. Bosco, L’amministrazione Nixon e l’Italia. Tra distensione europea e crisi mediterranee (1968-1975), Roma, Eurilink, 2009; U. Gentiloni Silveri, L’Italia sospesa. La crisi degli anni Settanta vista da Washington, Torino, Einaudi, 2009. 53
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sulla vecchia Zona A del mai nato Territorio libero di Trieste, di cui, ancora alla fine degli anni Sessanta, l’Italia aveva soltanto il possesso. I progetti di Moro sembravano consentire un rafforzamento della politica estera italiana: da qui la convinta collaborazione delle migliori intelligenze della diplomazia italiana (Roberto Gaja, Roberto Ducci) alla nuova strategia di dialogo con l’Europa orientale sostenuta dallo statista pugliese. Queste nuove idee di politica estera, che teorizzavano il progressivo superamento dei blocchi militari, facilitavano poi la realizzazione del disegno di Moro di cooptare progressivamente il Partito comunista italiano nell’area governativa (per usare il linguaggio di Moro, assicurare la partecipazione del PCI alla “dialettica democratica”). Per la verità il PCI, abbandonate le feroci posizioni antijugoslave dopo la riconciliazione fra Unione Sovietica e Tito nel 1955 54, fin dagli anni Sessanta aveva predicato il miglioramento dei rapporti fra Roma e Belgrado. Con l’avvento di Berlinguer alla segreteria del partito e il lancio della strategia del “compromesso storico”, l’attenzione del PCI verso la Jugoslavia era aumentata. Tito costituiva per Berlinguer un modello politico che il leader sardo voleva in parte imitare: un capo comunista che era diventato amico e alleato degli occidentali e che aveva perseguito una via originale e nazionale per lo sviluppo del comunismo. Per Berlinguer, quindi, la normalizzazione dei rapporti italo-jugoslavi era uno strumento importante per rafforzare la collaborazione fra comunismo italiano e quello jugoslavo. Il PCI riteneva importante il miglioramento delle relazioni bilaterali e giudicava l’eventuale rinuncia alla zona B un segnale importante del definitivo superamento di una presunta tradizione nazionalista della politica estera italiana, oltre a condividere molte delle idee di poli-
54 Sul duro scontro fra PCI e Jugoslavia di Tito dopo la scomunica da parte del Cominform nel 1948 e la successiva riconciliazione a partire dal 1955: M. Zuccari, Il dito sulla piaga. Togliatti e il PCI nella rottura fra Stalin e Tito 1944-1957, Milano, Mursia, 2008; V. Vidali, Diario del XX Congresso, Milano, Angelista, 1974; C. Tonel, Da Vidali in qua. La storia e la politica, la cronaca e l’amore, Trieste, Italo Svevo, 2004, p. 23 e ss.; E. R. Terzuolo, Red Adriatic. The Communist Parties of Italy and Yugoslavia, Boulder, Westview, 1985, p. 164 e ss.; G. Gozzini, R. Martinelli, Storia del Partito comunista italiano. Dall’attentato a Togliatti all’VIII congresso, Torino, Einaudi, 1998, pp. 384-385; M. Galeazzi, Togliatti e Tito. Tra identità nazionale e internazionalismo, Roma, Carocci, 2005.
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tica estera che Moro aveva cominciato a sostenere dal 1968 55: la costruzione di un consenso sulla politica internazionale dell’Italia era un passo importante nella creazione di una collaborazione fra PCI e DC. Da parte jugoslava si desiderava fortemente l’accordo territoriale con l’Italia. Gli eventi cecoslovacchi e l’enunciazione da parte sovietica della dottrina Brežnev, ossia il diritto dell’Unione Sovietica d’intervenire con la forza per difendere le conquiste del comunismo e l’assetto politico creatosi in Europa centro-orientale dopo la seconda guerra mondiale, facevano temere possibili interferenze straniere nella politica interna jugoslava. La leadership comunista di Belgrado si rendeva sempre più conto della fragilità dello Stato unitario e dell’importanza di ottenere un riconoscimento definitivo dei confini prodotti dalla seconda guerra mondiale. Tito dava grande importanza al miglioramento delle relazioni italojugoslave 56. Egli era ben consapevole che i confini italo-jugoslavi erano stati imposti con la forza, senza consultazioni democratiche e liberi plebisciti. Lo spostamento delle popolazioni, l’esodo della maggioranza degli italiani dell’Istria, del Quarnaro e della Dalmazia, l’immigrazione di popolazioni slovene e croate nei territori conquistati dalla Jugoslavia comunista, la politica di snazionalizzazione della minoranza italiana rimasta avevano creato una nuova situazione etnica, che era in parte artificiale ed ancora instabile, e che rendeva insicuri i nazionalismi sloveno e croato.
55 Sulle posizioni del comunismo italiano di fronte alle questioni internazionali all’inizio degli anni Settanta molti interessanti gli interventi di Giorgio Amendola e Sergio Segre contenuti in Istituto di Studi Comunisti Palmiro Togliatti, La lotta antimperialista nel mondo e l’iniziativa politica del PCI. IV tema la funzione della classe operaia nella lotta antimperialista, Roma, Sezione centrale scuole di partito PCI, senza data [ma 1972]. Fondamentali rimangono anche gli scritti memorialistici di Antonio Rubbi: A. Rubbi, Il mondo di Berlinguer, Roma, Napoleone, 1994; Id., Con Arafat in Palestina. La sinistra italiana e la questione mediorientale, Roma, Editori Riuniti, 1996. Si vedano anche: S. Pons, Berlinguer e la fine del comunismo, Torino, Einaudi, 2006; E. R. Terzuolo, Red Adriatic, cit., p. 211 e ss.; R. Gualtieri (a cura di), Il PCI nell’Italia repubblicana 1943-1991, Roma, Carocci, 2001, in particolare gli interventi di Pons e Gualtieri, pp. 3-99; M. Maggiorani, L’Europa degli altri: comunisti italiani e integrazione europea 1957-1969, Roma, Carocci, 1998. 56 C. Belci, Trieste. Memorie di trent’anni (1945-1975), Brescia, Morcelliana, 1990, p. 179 e ss.
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Il progressivo miglioramento delle relazioni bilaterali fu confermato dall’andamento dei colloqui avvenuti nel corso della visita ufficiale che il presidente della Repubblica Giuseppe Saragat effettuò a Belgrado nell’ottobre del 1969 e che era stata preparata dal viaggio dell’allora ministro degli Esteri Pietro Nenni in Jugoslavia nel maggio precedente 57. La visita entrava all’interno della strategia perseguita da Saragat di non avere nemici ai confini e di rafforzare l’equilibrio europeo e, con esso, l’Alleanza atlantica, la cui presenza costituiva una “garanzia” anche per un Paese comunista, ma “non allineato”, come la Jugoslavia. Il comunicato finale dei colloqui sottolineava il comune interesse dei due Paesi verso la convocazione di una conferenza europea, la unanime valutazione del ruolo giocato dall’ONU nel sistema internazionale, l’appoggio a qualsiasi azione di pace nel Medio Oriente, l’auspicio di risultati concreti per il disarmo e la crisi nel Sud-Est asiatico. Nel corso di una conferenza stampa, poi, Tito accennò anche “alla possibilità di discutere minori rettifiche di frontiera con soddisfazione reciproca” 58. Gli esiti della visita di Saragat in Jugoslavia, caratterizzati da un generale miglioramento delle relazioni bilaterali, quasi all’insegna di una “concordanza politica generale” 59, secondo le parole di Luigi Vittorio Ferraris, sembravano preludere ad una nuova fase dei rapporti italojugoslavi, nella quale si sarebbe potuto considerare anche l’avvio di una discussione sulle questioni confinarie, tenute ai margini fino ad allora perché considerate foriere di strappi e lacerazioni del clima di progressiva concordia costruito nel corso di un decennio 60. Era un’altra sfida che Moro dovette raccogliere nel momento in cui, nell’estate del 1969, fu nominato ministro degli Esteri nel secondo governo Rumor. Anche in questo caso, lo statista pugliese portò avanti una linea politica caratterizzata da prudenza e costanza. Nel corso della seduta alla Camera del 21 ottobre 1969, egli si soffermò soprattutto sull’importanza dell’esi 57 Sulla visita di Pietro Nenni in Jugoslavia del maggio 1969 cfr. P. Nenni, I conti con la storia. Diari 1967-1971, Milano, SugarCo, pp. 331-334. 58 Sul viaggio di Saragat in Jugoslavia: U. Indrio, La presidenza Saragat. Cronaca politica di un settennio 1965-1971, Milano, Mondadori, 1972, pp. 195-196. 59 Cfr. L. V. Ferraris (a cura di), Manuale della politica estera italiana, cit., p. 180. 60 Cfr. J. Pirjevec, L’Italia repubblicana e la Jugoslavia comunista, in F. Botta, I. Garzia, P. Guaragnella (a cura di), La questione adriatica e l’allargamento dell’Unione europea, Milano, Franco Angeli, 2007, p. 55.
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stenza del confine “aperto” tra Italia e Jugoslavia, in quanto «frontiera fra paesi a diversa struttura politico-sociale e in passato divisi da una aspra contesa». Le relazioni bilaterali tra Italia e Jugoslavia apparivano, quindi, paradigmatiche di quel superamento dei blocchi che costituiva l’obiettivo principale della politica estera di Moro tra la fine degli anni Sessanta e la prima metà del decennio successivo: Il nostro rapporto costituisce un fatto esemplare e pieno di significato in Europa e nel mondo. È dunque possibile, ogni volta che esista una volontà politica costruttiva, stabilire tra popoli vicini, anche se retti da diversi sistemi, una sincera ed amichevole cooperazione, benefica per entrambe le parti. La nostra sicurezza, in una zona così delicata, è perciò garantita più che da una ragione di forza, da una profonda intesa politica 61.
In quell’occasione, lo statista pugliese non accennò alla disputa confinaria intorno a ciò che era stato il Territorio Libero di Trieste, facendo intendere che si sarebbe trattato di una questione che avrebbe necessitato di tempi lunghi per la sua risoluzione e che il governo italiano avrebbe rispettato la naturale maturazione delle condizioni politiche suscettibili di favorire una soluzione positiva. A coronamento di un decennio in cui le relazioni italo-jugoslave avevano fatto segnare un progressivo miglioramento, nel 1970 era prevista una visita di Tito in Italia, che comprendeva anche un incontro con il Pontefice. In realtà, l’annuncio della visita del leader jugoslavo suscitò numerose polemiche nei settori politici più sensibili alla questione del confine orientale. Il 28 novembre 1970 era apparso, infatti, sul quotidiano romano «Il Tempo», un articolo intitolato L’Italia rinuncerebbe alla Zona B di Trieste, che, riportando indiscrezioni provenienti da ambienti della diplomazia italiana, anticipava l’eventualità di un possibile accordo per la cessione della Zona B alla Jugoslavia già durante la visita di Tito 62. L’articolo suscitò numerose polemiche ed indusse alcuni parlamentari della DC e del MSI a presentare una serie di interrogazioni. Paradossalmente, la risposta di Moro, se contribuì a placare le proteste interne, alzò temporaneamente la tensione con il governo di Belgrado. Cfr. A. Moro, Discorsi parlamentari. Volume II (1963-1977), cit., p. 1392. Cfr. M. Bucarelli, La “questione jugoslava” nella politica estera dell’Italia repubblicana (1945-1999), cit., pp. 52-53. 61 62
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Il ministro degli Esteri italiano, infatti, negò che, nel corso degli incontri che Tito avrebbe avuto in Italia, si sarebbe affrontata la questione dei confini italo-jugoslavi e che il governo di Roma non avrebbe considerato «alcuna rinuncia ai legittimi interessi nazionali» 63. Come ha spiegato bene Massimo Bucarelli, l’apparente gaffe di Moro nascondeva, in realtà, degli interessi divergenti e quasi inconciliabili legati, rispettivamente, alla politica interna di Roma e Belgrado ed alla necessità, dei rispettivi governi, di trovare una qualche forma di soddisfazione alle prerogative delle rispettive opinioni pubbliche. La Jugoslavia, infatti, chiedeva di inserire la questione confinaria tra gli argomenti di discussione della visita di Tito per dare una qualche forma di soddisfazione alle popolazioni slovene e croate e per risolvere una volta per tutte la controversia con l’Italia, che, assieme al contenzioso con la Bulgaria per la Macedonia e a quello con l’Albania per il Kosovo, minacciava la stabilità degli assetti dello Stato federale balcanico. L’Italia, dal canto suo, non voleva indispettire ulteriormente la propria opinione pubblica, già contraria al negoziato con l’Austria sull’Alto Adige, ritenuto anch’esso estremamente impopolare 64. Constatata questa netta divergenza, il governo di Belgrado preferì, quindi, mandare all’aria la visita di Tito in attesa di una convergenza delle rispettive posizioni. Ancora una volta, Moro fu impegnato in prima persona a normalizzare la situazione. Il 21 gennaio 1971 egli fece un’importante relazione alla Commissione Esteri della Camera, durante la quale emerse che, nei confronti del vicino Stato balcanico, l’Italia seguiva «una politica di buon vicinato e di franca amicizia, con tutte le sue implicazioni, tra le quali il pieno riconoscimento dell’indipendenza e della sovranità rispettive» ed ispirata, inoltre, «al convincimento che i due popoli [erano] chiamati ad intendersi e a cooperare in misura sempre più larga»; un auspicio che sarebbe dovuto valere «soprattutto per le popolazioni delle zone di frontiera» 65. Moro sottolineava, inoltre, che «la politica seguita dal governo italiano nei confronti dell’amica Jugoslavia [...] [era] basata sul più leale rispetto dei trattati e degli accordi in vigore, ivi compreso ovviamente il memorandum d’intesa di Londra del 1954, e della sfera territoriale da essi risultante» 66. Una settimana Ibid., p. 53. Ibid., pp. 54-56. 65 Cfr. A. Moro, L’Italia nell’evoluzione dei rapporti internazionali, cit., p. 272. 66 Ibid., pp. 272-273. 63 64
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dopo, anche da Belgrado arrivarono delle dichiarazioni ufficiali di taglio distensivo, affidate al ministro degli Esteri Tepavac, secondo cui il governo jugoslavo condivideva l’obiettivo italiano di sviluppare una più stretta collaborazione da attuare nel più stretto «rispetto dei trattati e degli accordi in vigore, ivi compreso ovviamente il Memorandum d’intesa del 1954, come pure delle loro implicazioni territoriali» 67. La conferma della ritrovata armonia si ebbe durante l’incontro che Moro e Tepavac ebbero a Venezia tra il 9 ed il 10 febbraio successivi. In realtà, l’andamento delle conversazioni lasciava intendere che, sotto una patina di grande cordialità e al di là della comune convinzione della necessità di superare la controversia territoriale, il negoziato sarebbe stato lungo e fortemente condizionato dal ruolo delle rispettive opinioni pubbliche. Mentre Moro, infatti, precisava che l’accordo avrebbe dovuto essere raggiunto senza provocare turbamenti nella vita pubblica italiana, il suo omologo jugoslavo premeva per una rapida soluzione delle trattative o, perlomeno, di una loro pronta ufficializzazione 68. Il pieno ripristino delle relazioni bilaterali permise finalmente anche lo svolgimento della visita di Tito in Italia, avvenuta tra il 25 ed il 26 marzo 1971. I toni cordiali delle conversazioni misero in luce le ampie convergenze tra i due Paesi su diverse questioni di politica internazionale, mentre si registrò l’assenza di qualsiasi riferimento alle controversie bilaterali sul confine e sulle minoranze, chiaro sintomo della difficoltà che le trattative bilaterali ancora incontravano in due Paesi attraversati da gravi crisi interne, di carattere etnico e nazionale in Jugoslavia, di tipo politico e sociale in Italia. La politica di buon vicinato portata avanti da Moro, con speciale riguardo nei confronti dello spazio adriatico, interessò anche l’Albania, con la quale, a partire dall’inizio degli anni Settanta, i rapporti si fecero più intensi 69. Dopo una serie di visite di personale tecnico, il dialogo italo-albanese si fece più concreto con il viaggio a Tirana del ministro per il Commercio con l’Estero, il socialdemocratico Matteo Matteotti, avvenuto nel settembre 1972, e con la firma di un nuovo accordo commerciale, avvenuta il 10 novembre di quell’anno, che per un biennio 67 Cfr. M. Bucarelli, La “questione jugoslava” nella politica estera dell’Italia repubblicana (1945-1999), cit., p. 58. 68 Ibid., pp. 58-59. 69 Cfr. L. V. Ferraris (a cura di), Manuale de politica estera italiana, cit., p. 287.
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avrebbe regolato i rapporti economici tra i due Paesi. L’accordo permise alle due delegazioni, guidate, rispettivamente, per l’Italia dal sottosegretario al Commercio con l’Estero Giulio Orlando e per l’Albania dal suo omologo Kati, di concordare le liste contingentali relative agli scambi per il 1973 e conteneva due clausole importanti per la politica commerciale di Roma. La prima consentiva all’Italia la possibilità di adeguare i propri impegni alle direttive CEE in materia commerciale, mentre la seconda la tutelava da quelle forniture che avrebbero potuto essere offerte a prezzi non allineati con quelli internazionali 70. L’intensificazione dei rapporti tra Italia ed Albania aveva un significato diverso per i due Paesi. Per la politica estera italiana essa assumeva, alla pari delle relazioni con Belgrado, un’importanza doppia, entrando sia nel quadro della politica di cooperazione con i Paesi dell’Est europeo sia in quello della intensificazione della collaborazione tra gli Stati affacciati sul Mediterraneo. Da parte albanese, invece, si trattava di un’esigenza quasi vitale, andando a rompere un isolamento internazionale quasi totale, che datava dai tempi in cui il governo di Tirana, in polemica con il campo socialista gravitante intorno all’Unione Sovietica, aveva interrotto i rapporti con Mosca, legandosi invece alla Cina popolare. 3. Moro e i trattati italo-jugoslavi di Osimo I negoziati italo-jugoslavi per la definizione dei confini entrarono nel vivo nel 1973. All’inizio del 1973, Medici, ministro degli Esteri del governo Andreotti-Malagodi, e Minic´, il capo della diplomazia jugoslava, s’incontrarono a Ragusa/Dubrovnik e diedero il via libera ad approfondite conversazioni segrete per il definitivo regolamento di tutte le questione aperte fra i due Paesi, condotte dal direttore generale degli affari politici della Farnesina, Milesi-Ferretti, per l’Italia, e da Perišic´ per la Jugoslavia 71. Le conversazioni italo-jugoslave s’interruppero bruscamente 70 Cfr. «Dialogo italo-albanese», in «Relazioni Internazionali», a. 1972, n. 47/48, p. 1150. 71 Sui negoziati che portarono agli accordi di Osimo nel 1975: M. Bucarelli, La “questione jugoslava” nella politica estera dell’Italia repubblicana (1945-1999), cit.; V. Škorjanec, Neuspeh jugoslovansko-italijanskih diplomatskih pogajanj v letu 1973, «Zgodovinski Časopis», 2003, nn. 1-2, p. 147-162; Id., Die Verträge von Osimo zwischen Italien und Jugoslawien (1974/75). Ein schwierigen Verhandlungsweg, «Südost-Forschun-
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nell’estate del 1973. Ciò provocò irritazione nel governo jugoslavo, che nei mesi successivi scatenò una campagna politica e di stampa contro l’Italia. La crisi diplomatica venne superata attraverso il ricorso al canale segreto creato da Medici e Minic´ nel 1973. Come ha ricordato l’ambasciatore Maccotta, nell’incontro a Dubrovnik i due ministri «avevano designato, all’insaputa di tutti, due “emissari” personali per il caso in cui si rivelasse necessario un intervento per evitare la tensione successiva al fallimento delle trattative. [...] Gli emissari erano il direttore generale del Ministero dell’Industria Eugenio Carbone e l’ex ministro federale Šnuderl, sloveno, perfetto conoscitore di lingua e cose italiane ed anche lui esperto di problemi economici» 72. Chiarite le reciproche intenzioni attraverso il canale segreto, il negoziato riprese e le trattative, nelle quali Šnuderl e Carbone vennero assistiti da diplomatici di carriera (da parte italiana partecipò Ottone Mattei, nativo di Fiume e parlante serbo-croato), proseguirono circa un anno, per poi trovare un esito positivo nel 1975. Dalla memorialistica italiana esistente possiamo constatare che il governo di Roma era informato delle probabili reazioni negative che l’accordo con la Jugoslavia avrebbe suscitato in Venezia Giulia e fra gli esuli 73. Da parte dell’esecutivo si sottovalutò la profondità delle ferite ancora aperte in seguito alla seconda guerra mondiale e all’esodo italiano dalla Venezia Giulia e dalla Dalmazia. In seno al governo si pensò di rispondere a possibili critiche e reazioni negative cercando di ottenere dalla Jugoslavia alcune concessioni economiche a favore di Gorizia e di Trieste, per fare superare a queste città il senso di accerchiamento in cui vivevano dalla fine della seconda guerra mondiale: In questa cornice – ha ricordato Roberto Gaja – fu proposta, da parte italiana, la costituzione in territorio jugoslavo, fra il vallone di Muggia e le zone industriali, di un territorio speciale, che avrebbe permesso l’estensione della stessa zona industriale di Trieste e la costituzione di depositi e di imprese industriali e commerciali. La zona indicata, tutta in territorio jugoslavo, non aveva linee di comunicazione che la congiungessero col retroterra jugoslavo e sarebbe stata esterna, secondo le nostre proposte, alla linea doganale jugoslava. In una gen», 2006/2007, vol. 65/66, pp. 394-404; Id., Osimska pogajanja, Koper/Capodistria, 2007. 72 G. W. Maccotta, Osimo visto da Belgrado, in «Rivista di Studi Politici Internazionali», n. 1, a. 1993, p. 63. 73 C. Belci, Trieste. Memorie di trent’anni (1945-1975), cit., p. 161 e ss.
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fase ulteriore delle trattative [...] la nostra proposta venne completamente stravolta. Belgrado respinse la nostra proposta di una zona franca in territorio jugoslavo. Propose, invece, che la zona franca fosse stabilita in territorio in parte italiano ed in parte jugoslavo e indicò una zona del Carso a nord-est di Trieste. Con questo, il senso della nostra proposta veniva snaturato. La zona, invece di rappresentare un respiro più ampio per Trieste, veniva a limitare ulteriormente il suo spazio ed a costituire una base fissa per una penetrazione jugoslava in territorio italiano. Perché da parte italiana la controproposta jugoslava non sia stata respinta e i negoziati siano stati continuati può essere facilmente spiegato tenendo conto dell’atmosfera politica dell’epoca e delle pressioni che in parlamento – e nella stampa – venivano esercitate perché un accordo con Belgrado fosse raggiunto comunque al più presto 74.
Nel corso dei negoziati il governo di Roma decise di lasciare da parte ogni accenno e discussione sul passato, sui tragici eventi della guerra e del dopoguerra. Rivolse pure scarsa attenzione alla protezione della minoranza italiana in Jugoslavia. Qui pesavano una sottovalutazione dell’importanza di queste popolazioni e un pregiudizio politico, ben indicato dalle parole di Maccotta, all’epoca ambasciatore italiano a Belgrado e protagonista dei negoziati che portarono ad Osimo, secondo il quale il “federalismo” e il “plurietnismo” in Jugoslavia proteggevano a sufficienza la minoranza italiana, composta dai «pochi italiani rimasti in Dalmazia ed Istria [che] avevano deciso di farlo per scelta ideologica o per interesse materiale» 75. R. Gaja, L’Italia nel mondo bipolare, cit., pp. 217-218. G. W. Maccotta, Osimo visto da Belgrado, cit., p. 66. È interessante l’analisi degli accordi italo-jugoslavi che Maccotta fece agli ambasciatori della CEE a Belgrado il 4 ottobre 1975. L’ambasciatore italiano, innanzitutto, dichiarò che la firma degli accordi vi sarebbe stata solo dopo l’approvazione da parte dei parlamenti dei due Paesi del contenuto di essi. Con la firma dei nuovi accordi il memorandum di Londra del 1954 avrebbe perso ogni validità. La frontiera a nord di Trieste era stata attentamente delineata. Alcuni piccoli pezzi di territorio erano stati scambiati. L’accordo prevedeva il diritto degli individui viventi in entrambe le zone di confine di lasciare il territorio dove vivevano e di trasferirsi nell’altro, ma ciò, per Maccotta, era largamente teorico: non si aspettava nessun esodo di sloveni dall’Italia alla Jugoslavia. L’Italia, poi, aveva imposto agli jugoslavi il decadere dello statuto delle minoranze previsto dal Memorandum di Londra: «With the lapse of the London Memorandum of Understanding will also lapse the statute about minorities which is attached to the Memorandum. The Ambassador said that the Yugoslavs had wished to retain this statute and to extend it to cover all Slovenes in Italy (not just Slovenes in Zone A). However the two governments had agreed to give their minorities equal treatment and rights. The 74
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Va però sottolineato che la chiusura della questione dei confini e la conseguente normalizzazione dei rapporti italo-jugoslavi avrebbero spontaneamente migliorato le condizioni delle popolazioni italiane in Jugoslavia alleggerendo la pressione ostile e snazionalizzatrice operata dalle autorità jugoslave nei loro confronti nei decenni precedenti, in quanto ritenute potenziale quinta colonna dell’imperialismo dell’Italia, che però ormai non esisteva più. In un colloquio con un diplomatico britannico all’inizio del gennaio 1975, un collaboratore dell’ambasciatore Maccotta, Martini, spiegò parte delle basi sulle quali si stava sviluppando il negoziato italo-jugoslavo ed alcuni problemi ancora da risolvere: The latest Italian Government are interested in improving relations with Yugoslavia and in settling issues in dispute. They are prepared formally to recognize Yugoslav sovereignty over Zone B and to make certain border “adjustments”. Martini maintains however, that the Italian Government would regard such concessions as nullifying the London Memorandum and would see certain consequences as flowing from this – consequences which he was sure the Yugoslavs would be unable to accept. For example, the ending of a separate status for Slovenes in Italy and of Italian participation in such things as the Mixed Committee. As a pointer towards the Italian view, Martini instanced the refusal of the Italian Government (so far) to appoint a new Italian Chairman of the Mixed Committee. He himself sees no future in negotiation on such terms 76.
Il governo britannico, così come le altre Potenze dell’Alleanza occidentale, era favorevole alla chiusura della controversia territoriale Ambassador said that the Yugoslavs were not very content by this outcome and that Mr Minić comment about minority rights in his speech to the Yugoslav Assembly was muted». Era poi prevista la creazione di una zona franca (Free Zone) di 7-10 chilometri quadrati. Maccotta dichiarò ai colleghi europei a tale proposito: «I) It is of vital importance to Trieste but the Yugoslavs want it equally; II) it is an integral and essential part of the overall political agreement; III) the Yugoslavs are aware that as a result of ESC consideration the proposal might have to be slightly changed or amended; IV) it is not to be excluded that some Yugoslav goods will enter Italy (and the rest of Europe) through the Free Zone)»: National Archives, Kew (d’ora in poi NAK), Foreign and Commonwealth Office (d’ora in poi FCO), 28/2804, C. L. Booth, «Italian-Yugoslav agreement», 6 ottobre 1975, allegato a Booth a Ministero degli Esteri britannico, 7 ottobre 1975. 76 NAK, FCO, 28/2804, Burns a Green, 7 gennaio 1975.
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italo-jugoslava. L’ambasciatore britannico a Belgrado, Dugald Stewart, riteneva che l’esistenza di una frontiera jugoslava ancora formalmente non definita, con la teorica rivendicazione territoriale italiana, fosse un fattore destabilizzante della Jugoslavia: It gives substantial support to Tito’s thesis that the West is just as dangerous to Yugoslavia as the East and although at present it may not do the West much real damage here there are circumstances particularly after Tito in which it could 77.
Per giustificare pubblicamente l’intesa con la Jugoslavia, il governo di Roma cercò di collegare i trattati italo-jugoslavi con la conclusione degli accordi di Helsinki, firmati nell’agosto 1975. Poco dopo la firma delle intese di Helsinki, che impegnavano le controparti a rispettare le frontiere europee esistenti e a non cercare di mutarle attraverso l’uso della forza 78, il governo italiano fece diffondere sulla stampa la notizia della prossima conclusione dell’accordo italo-jugoslavo 79. Prima della firma l’esecutivo decise di chiedere il consenso delle Camere: il 1° ottobre Mariano Rumor, ministro degli Esteri, e Moro, presidente del Consiglio, spiegarono in Parlamento i risultati dei negoziati con la Jugoslavia e le ragioni per la conclusione dei nuovi accordi. Secondo il politico pugliese, l’Italia otteneva vari vantaggi da un accordo territoriale con Belgrado. Innanzitutto, «il riconoscimento esplicito e giuridicamente rilevante della linea di confine che, superata l’artificiosa escogitazione del territorio libero di Trieste, assegna, senza più alcuna riserva, la città giuliana all’Italia» 80. Vi era poi l’esigenza di rafforzare la Jugoslavia:
NAK, FCO, 28/2804, Stewart a Killick, 24 luglio 1975. Sulla conclusione degli accordi di Helsinki e il ruolo dell’Italia: L. V. Ferraris (a cura di), Testimonianze di un negoziato. Helsinki-Ginevra-Helsinki 1972-75, Padova, CEDAM, 1977; A. Romano, From Detente in Europe to European Detente: How the West Shaped the Helsinki CSCE, Bruxelles, PIE-Peter Lang, 2009. Si veda anche Documents on British Policy Overseas, London, 2001, serie III, vol. 3. 79 F. Balzer, Il trattato di Osimo (II), in «La Rivista dalmatica», n. 3, 1981, p. 159 e ss. 80 A. Moro, Discorsi parlamentari, cit., II, pp. 1546-1550. 77 78
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È interesse essenziale dell’Italia – dichiarò Moro – che la Jugoslavia sia indipendente, integra, tranquilla. In queste condizioni noi non siamo esposti, ma difesi sulla frontiera orientale 81.
Infine, la fine del contenzioso italo-jugoslavo era un contributo alla pace e alla distensione in Europa: È doveroso rimuovere – ovviamente sempre nella tutela dei legittimi interessi nazionali – ogni motivo di frizione. La pace si costruisce eliminando le cause di tensione attuale o anche solo potenziale. Nell’incertezza e nell’emotività si accumulano temibili ragioni di contestazione. [...] È importante che partendo dal realismo [...] si costruisca una vera pace fondata sulla fiducia piuttosto che sull’equilibrio del terrore 82.
Le tesi del governo trovarono ampio consenso nelle principali forze politiche, mentre furono contestate da alcuni deputati democristiani triestini o d’origine istriana e dalmata e dal gruppo parlamentare missino 83. Alla fine la Camera approvò l’operato del governo con 349 voti favorevoli, 51 contrari. Al Senato i voti favorevoli al governo furono 211, quelli contrari solo 11 84. Con un vasto consenso parlamentare in Italia, che comprendeva non solo i partiti del centro-sinistra ma anche il Partito comunista, Rumor e Minic´ firmarono i trattati italo-jugoslavi a Monte S. Pietro, vicino ad Osimo, il 10 novembre 1975. I cosiddetti accordi di Osimo 85 consistevano in un trattato politico con dieci allegati, in un accordo sulla promozione della cooperazione Ibid. Ibid. 83 Significativo fu in particolare l’intervento di Paolo Barbi, presidente dell’Associazione Venezia Giulia e Dalmazia e deputato democristiano, nativo di Trieste ma la cui famiglia proveniva da Lesina/Hvar: Barbi contestò che la rinuncia alla sovranità italiana sulla zona B rafforzasse la Jugoslavia e garantisse l’Italia per il dopo Tito; giudicò poi insufficienti le contropartite che il governo otteneva con i nuovi accordi: F. Balzer, Il trattato di Osimo (II), cit., pp. 166-167. 84 F. Balzer, Il trattato di Osimo (II), cit., pp. 175-176. 85 I testi degli accordi italo-jugoslavi conclusi ad Osimo sono editi in M. Udina (a cura di), Gli accordi di Osimo: lineamenti introduttivi e testi annotati, Trieste, Lint, 1979, p. 83 e ss. Per alcune riflessioni sul significato dei trattati di Osimo: S. Romano, Guida alla politica estera italiana, cit., p. 199 e ss.; A. Varsori, L’Italia nelle relazioni internazionali, cit., p. 189. 81 82
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economica fra Italia e Jugoslavia con quattro allegati e in quattro scambi di note. Nel trattato politico i due governi, dopo aver ribadito di volere intensificare i rapporti bilaterali, definivano la propria frontiera terrestre (articolo I) e nel Golfo di Trieste (articolo II) sancendo giuridicamente la fine dell’ipotesi del Territorio Libero di Trieste previsto dal trattato di pace del 1947. L’articolo III concedeva il diritto agli appartenenti del gruppo etnico italiano viventi in Jugoslavia e a quelli del gruppo etnico “jugoslavo” dimoranti in Italia di trasferirsi nello Stato vicino. L’articolo IV sanciva l’impegno dei due governi a siglare un futuro accordo «relativo ad un indennizzo globale e forfetario, che sia equo ed accettabile dalle due Parti, dei beni, diritti ed interessi delle persone fisiche e giuridiche italiane» situati nella ex Zona B e che «hanno fatto oggetto di misure di nazionalizzazione o di esproprio o di altri provvedimenti restrittivi da parte delle Autorità militari, civili o locali jugoslave a partire dalla data dell’ingresso delle Forze Armate Jugoslave nel suddetto territorio». L’accordo sulla promozione della cooperazione economica e il protocollo sulla zona franca (allegato I) stabilivano la futura creazione di una Zona franca su territori contigui italiani (sul Carso fra Opicina e Basovizza) e jugoslavi (la regione di Sesana) con un regime doganale privilegiato: nell’ambito della Zona si sarebbero potute esercitare «senza alcuna restrizione, imposta o diritti doganali, tutte le operazioni relative all’ingresso e all’uscita di materiali e merci ed al loro stoccaggio, commercializzazione, manipolazione, trasformazione, compresa la trasformazione di tipo industriale» 86. L’accordo prevedeva anche lo sviluppo di lavori infrastrutturali miranti a collegare le autostrade italiane con alcune strade jugoslave e a usare meglio le risorse idriche della Venezia Giulia e della Slovenia (possibile sfruttamento dei bacini dei fiumi Isonzo, Judrio e Timavo per la produzione di energia elettrica, costruzione di un bacino idrico nell’Isonzo per facilitare l’irrigazione dei terreni del Goriziano); si avanzava poi l’esigenza di compiere studi «per valutare l’opportunità tecnica ed economica e la possibilità di costruire una via navigabile Monfalcone 86 Allegato I, Protocollo sulla Zona Franca, in M. Udina, Gli accordi di Osimo, cit., p. 173.
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Gorizia-Lubiana e di collegarla alla rete navigabile dell’Europa centrale ed al Mar Nero» 87. La conclusione degli accordi di Osimo, ratificati ed entrati in vigore nel 1977, aprì una nuova fase nei rapporti fra Italia e Jugoslavia. Per Tito fu un grande successo politico. I trattati di Osimo sancivano la definitiva rinuncia italiana a rimettere in discussione i confini decisi dalle potenze vincitrici della seconda guerra mondiale, confini imposti con la forza, che non corrispondevano a quella che era stata per molti secoli la realtà storica ed etno-nazionale di alcuni di quei territori. I trattati di Osimo permettevano a Tito di soddisfare e rassicurare i nazionalismi sloveno e croato, dimostrando la capacità del governo di Belgrado di difendere gli interessi delle nazioni jugoslave. Non a caso il 3 novembre 1975, il ministro degli Esteri jugoslavo, Minic´, manifestò al collega tedesco occidentale Genscher la sua soddisfazione per la firma degli accordi di Osimo, che avevano risolto una questione ritenuta molto pericolosa 88. Anche il governo britannico salutò positivamente gli accordi di Osimo. A parere di Bryan Cartledge, dirigente dell’Eastern European and Soviet Department del Ministero degli Esteri britannico, l’accordo italo-jugoslavo era «excellent news»: The Trieste issue is one which has been exploited to Western disadvantage in the past. After Tito’s departure, it might well have been used in this way again 89.
La firma dei trattati di Osimo rispondeva anche ad alcuni interessi ed esigenze della politica estera italiana, ricordati con molta chiarezza da Walter Maccotta, secondo cui tre erano le principali ragioni per riconoscere la sovranità jugoslava sulla Zona B: A) Era un preciso interesse nazionale italiano che la Iugoslavia non allineata ed autogestita, schermo territoriale ed ideologico verso l’URSS in epoca di guerra fredda, non fosse indebolita, specie dopo la morte di Tito, da una Accordo sulla promozione della cooperazione economica tra la Repubblica Italiana e la Repubblica Socialista Federativa di Jugoslavia, in M. Udina, Gli accordi di Osimo, cit., p. 167. 88 AAPBD, 1975, tomo 2, Gespräch des Bundesministers Genscher mit dem jugoslawischen Außenminister Minić, 3 novembre 1975, d. 329. 89 NAK, FCO, 29/2804, B. G. Cartledge, Minuta, 23 settembre 1975. 87
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questione di frontiera aperta con l’Italia, che avrebbe potuto essere utilizzata da forze destabilizzanti favorevoli ad un riavvicinamento con l’URSS il Patto di Varsavia; B) il problema della Zona B era stato risolto, a tutti gli effetti pratici e come una delle conseguenze della guerra perduta, sin dal 1954 col M.I.L. [Memorandum di Londra]; questo era anche il fermo pensiero dei nostri alleati atlantici e specie degli Stati Uniti, come disse chiaramente il segretario di Stato Kissinger al nostro ambasciatore Ortona durante la tensione italo-iugoslava del 1974; C) gli accordi di Helsinki (agosto 1975) avevano riconosciuto tutte le frontiere post-belliche dell’Europa e si sarebbero applicati, politicamente, anche alla linea di demarcazione 90.
Il disegno che stava all’origine dello sforzo della diplomazia italiana di chiudere il contenzioso sui confini era fondato sulla volontà dell’Italia di diventare punto di riferimento, “Paese cerniera” 91, nei rapporti fra i due blocchi nell’Europa danubiana e balcanica e di proporsi come partner privilegiato della Jugoslavia nel cammino che avrebbe dovuto portare lo Stato jugoslavo ad avvicinarsi e ad integrarsi nella Comunità Economica Europea. I confini italo-jugoslavi andavano definitivamente fissati, ma contemporaneamente anche resi più leggeri e permeabili per le persone, le imprese e le merci attraverso un’intensificazione della cooperazione regionale transfrontaliera. Ciò avrebbe valorizzato la funzione delle regioni periferiche dell’Italia del Nord-Est, facilitato le relazioni commerciali ed economiche italo-jugoslave e aumentato l’influenza italiana in seno allo Stato jugoslavo, sempre più agganciato alla CEE. Gli accordi di Osimo furono anche uno dei primi risultati prodotti dall’avvicinamento politico fra partiti del centro-sinistra e Partito comunista e mirante a creare un vasto consenso “democratico” sulle direttive dell’azione internazionale dell’Italia 92. Il Partito comunista italiano, quindi, benedì e difese a spada tratta i trattati di Osimo. Su «Rinascita» del 17 dicembre 1976 Sergio Segre, esperto del Partito per l’Europa centro-orientale e responsabile della politica internazionale del PCI, riG. W. Maccotta, Osimo visto da Belgrado, cit., p. 65. Una sofisticata riflessione sulla politica estera italiana verso la Jugoslavia in L. Garruccio [L. Incisa di Camerana], Dopo Osimo: una nuova dimensione diplomatica, in «Affari Esteri», gennaio 1977, n. 33, pp. 11-19. 92 Sulla convergenza fra comunisti italiani e partiti di centro-sinistra nelle questioni di politica estera nella seconda metà degli anni Settanta: A. Gismondi, Alle soglie del potere. Storia e cronaca della solidarietà nazionale 1976-1979, Milano, SugarCo, 1986. 90 91
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badì che gli accordi erano nell’interesse nazionale dell’Italia e li collocò in una dimensione più vasta, come tappa di una nuova politica europea fondata sulla coesistenza pacifica e la distensione fra regimi politici ed economici diversi. I trattati di Osimo erano un momento ulteriore «di quel lungo processo – di cui i comunisti sono stati parte essenziale – teso alla costruzione di una politica estera italiana che fosse fattore di unità nazionale e non più, come per gli anni cinquanta e in parte sessanta, elemento di divisione verticale tra le forze democratiche» 93. Il limite degli accordi italo-jugoslavi del 1975, che ne ridusse di molto l’impatto e gli effetti potenzialmente positivi, fu che il loro contenuto taceva su alcuni gravi nodi dei rapporti bilaterali. Il tema delle minoranze nazionali fu volutamente trascurato, poiché ritenuto un ostacolo al miglioramento delle relazioni: non a caso il governo italiano sfruttò gli accordi di Osimo per sopprimere tutte le garanzie internazionali a tutela della minoranza slovena nella provincia di Trieste che erano stato imposte con le intese del 1954. Non ci si volle poi confrontare con il retaggio tragico delle passate lotte nazionali e politiche, tacendo sugli eventi della seconda guerra mondiale e del dopoguerra, con le violenze arrecate e subite, il dramma degli esodi italiani dalla Venezia Giulia e Dalmazia. Era peraltro difficile per il regime comunista jugoslavo, che fondava la sua legittimazione politica interna sul suo passato successo nella realizzazione delle aspirazioni nazionali croate e slovene, accettare di ammettere gli errori e i torti compiuti ai danni delle popolazioni italiane di quelle regioni. Il non avere avviato un serio processo di riconciliazione nazionale fondato su una riflessione storica equilibrata, preferendo sorvolare sugli orrori del passato, facilitò il permanere di risentimenti e ostilità che sarebbero poi esplose clamorosamente con le proteste degli esuli istriani e dalmati e di gran parte della popolazione triestina. Non a caso la reazione di molti esuli e di parti rilevanti della popolazione giuliana ai trattati di Osimo fu ostile e sconvolse gli equilibri politici esistenti in Venezia Giulia e nelle comunità degli esuli sparse per l’Italia 94. Fra il 1954 e il 1975 la Democrazia Cristiana era stata il partito di 93 S. Segre, Un avvenire per Trieste, in «Rinascita», 17 dicembre 1976, n. 50. Sull’atteggiamento del PCI verso gli accordi italo-jugoslavi si veda anche L’accordo definitivo sulla Zona B, in «Rinascita», n. 40, 10 ottobre 1975. 94 Fino alla metà degli anni Settanta la maggioranza degli elettori di origine istriana, dalmata e fiumana e le loro associazioni (in primis la più importante, l’Associazione
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maggioranza relativa in Venezia Giulia grazie al voto degli esuli stabilitisi in massa a Trieste e Gorizia 95. La conclusione degli accordi di Osimo mise in crisi il rapporto fra esuli e democratici cristiani, con i primi che cominciarono a orientare il proprio voto verso la destra o i movimenti autonomistici: la protesta contro i trattati di Osimo portò al sorgere di un partito municipale, la Lista per Trieste, che raccolse moltissimi voti e divenne la principale forza politica del capoluogo giuliano 96. Venezia Giulia e Dalmazia) si erano riconosciuti nelle forze politiche di centro, in particolare nella Democrazia Cristiana. I grandi leader degli esuli a Trieste erano stati Gianni Bartoli, politico democristiano di origine istriana e primo sindaco di Trieste riunita all’Italia, e il vescovo di Trieste e Capodistria, Antonio Santin, nato a Rovigno, che si era battuto con vigore a difesa degli italiani d’Istria fin dall’occupazione tedesca e che era stato la guida informale della Democrazia Cristiana a Trieste fra gli anni Quaranta e Cinquanta. A proposito della figura di Santin: A. Santin, Al tramonto. Ricordi autobiografici di un vescovo, Trieste, Lint, 1978; S. Galimberti, Santin: testimonianze dall’ archivio privato, Trieste, MGS Press, 1996; Id., Santin un vescovo solidale: testimonianze dall’archivio privato, Trieste, MGS Press, 2000. 95 Sulla vita politica giuliana dopo la seconda guerra mondiale: C. Belci, Trieste. Memorie di trent’anni, cit.; Id., Trieste. Gli uomini di De Gasperi, Brescia, Morcelliana, 1998; C. Pupo, Guerra e dopoguerra, cit., p. 231 e ss.; Id., Tempi nuovi, uomini nuovi. La classe dirigente amministrativa a Trieste 1945-1956, in «Italia contemporanea», 2003, n. 231, p. 256 e ss.; E. Apih, Trieste, Bari, Laterza, p. 183 e ss.; L. Fabi, Storia di Gorizia, Padova, Il Poligrafo, 1991, p. 205 e ss. 96 Riguardo alla genesi della Lista per Trieste sono importanti gli scritti del suo principale leader, Manlio Cecovini: M. Cecovini, Dare e avere per Trieste. Scritti e discorsi politici (1946-1979), Udine, Del Bianco, 1991; Id., Trieste ribelle. La lista del Melone, un insegnamento da meditare, Milano, SugarCo, 1985. Si veda anche P. Purini, Una conseguenza degli accordi di Osimo: la nascita della Lista per Trieste, in J. Pirjevec, B. Klabjan, G. Bajc (a cura di), Osimska Meja. Jugoslovansko-italijanska pogajanja in razmejitev leta 1975, cit., p. 195 e ss. Le critiche di molti esuli e triestini verso i trattati di Osimo furono espresse chiaramente da Diego De Castro, professore universitario originario di Pirano, che era stato rappresentante politico dell’Italia presso le autorità d’occupazione angloamericane a Trieste all’inizio degli anni Cinquanta. Per De Castro la rinuncia definitiva alla Zona B era una scelta politica comprensibile e giustificata dal contesto internazionale, ma che sul piano dei principi non poteva essere approvata dagli esuli, perché significava negare l’italianità della propria patria d’origine. Ma particolarmente grave e pericolosa, a parere dello studioso istriano, era l’idea della creazione di una Zona franca mista a ridosso di Trieste. Secondo De Castro, l’obiettivo degli jugoslavi era «creare una “Nova Trst” industriale e commerciale slava, simile a quella che doveva essere fondata a Zaule, negli anni Cinquanta, ma con una più sottile innovazione: far risiedere, nella città di Trieste, i lavoratori provenienti dalla vicina repubblica che troveranno impiego nella Zona mista». L’eventuale immigrazione di lavoratori jugoslavi della Zona mista, in primis sloveni, a Trieste avrebbe sconvolto gli equilibri etnici esistenti nella città a danno degli italiani. Vi erano poi i possibili danni ecologici che potevano essere provocati da eventuali stabilimenti industriali all’ambiente naturale del Carso triestino. Al riguardo:
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L’opposizione triestina e degli esuli agli accordi di Osimo rese inattuabile il progetto di creazione di una Zona franca, che rimase infatti lettera morta. Pure irrealizzabili si dimostrarono le speranze di Moro che la definitiva riconciliazione italo-jugoslava fosse un passo per facilitare il superamento dei blocchi e per rendere l’Italia più autonoma dall’Alleanza atlantica. Perché il disegno di Moro fosse realizzabile era necessario che le relazioni fra le due grandi potenze, Unione Sovietica e Stati Uniti d’America, rimanessero buone ed orientate alla distensione; ma a partire dal 1975 i rapporti fra occidentali e sovietici cominciarono a deteriorarsi sempre più. Il riesplodere della rivalità fra le grandi potenze in Africa e in Asia, la decisione sovietica di stanziare nuovi missili di gittata media, gli SS 20, puntati verso l’Europa occidentale e la dura reazione occidentale, l’intervento sovietico in Afghanistan e la repressione dei militari polacchi contro il movimento sindacalista Solidarnosc, provocarono la fine della distensione in Europa e il risorgere di una forte conflittualità fra blocco filosovietico e Stati occidentali 97. In un contesto internazionale caratterizzato dal risorgere della Guerra Fredda e con la crisi della collaborazione fra partiti di centro-sinistra e comunisti nel 1979, dopo la tragica morte di Moro dell’anno precedente ad opera delle Brigate Rosse, la politica estera dell’Italia si riallineò a quella dei grandi Paesi dell’Alleanza atlantica, mirante a contenere un possibile espansionismo sovietico in Europa. Gli accordi di Osimo e la riconciliazione italo-jugoslava consentirono in ogni caso il raggiungimento di altri importanti obiettivi perseguiti da determinati settori della diplomazia e della classe dirigente italiana: D. De Castro, Osservazioni introduttive, in C. G. Ströhm, Senza Tito può la Jugoslavia sopravvivere?, pp. 7-27, citazione p. 21. Per le critiche ai trattati di Osimo si veda anche: M. Cecovini, Dare e avere per Trieste, cit., p. 109 e ss.; G. Ziliotto, Osimo: un tradimento contro l’Italia, in «La Rivista dalmatica», 1976, nn. 3-4, p. 3 e ss. 97 Sul riesplodere della rivalità fra potenze occidentali e blocco sovietico nella seconda metà degli anni Settanta: R. L. Garthoff, Détente and Confrontation. AmericanSoviet Relations from Nixon to Reagan, Washington DC, The Brookings Institution, 1994, p. 489 e ss.; R. C. Thornton, The Nixon-Kissinger Years: Reshaping America’s Foreign Policy, New York, Paragon House, 1989, p. 356 e ss.; C. Pinzani, Da Roosevelt a Gorbaciov: storia delle relazioni tra Stati Uniti ed Unione Sovietica nel dopoguerra, Firenze, Ponte alle Grazie, 1990; H. Kissinger, Years of Renewal, New York, Simon & Schuster, 1999; H. Schmidt, Uomini al potere, Milano, SugarCo, 1987; R. G. Patman, The Soviet Union in the Horn of Africa. The Diplomacy of Intervention and Disengagement, Cambridge, Cambridge University Press, 1990, p. 136 e ss.
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la chiusura della questione del confine orientale, che ossessionava l’Italia da più di un secolo, il miglioramento delle relazioni fra Roma e Belgrado, il temporaneo rafforzamento dello Stato jugoslavo in funzione antisovietica 98. Con gli accordi del 1975 l’Italia aveva contribuito alla stabilizzazione politica dell’Europa balcanica, il cui assetto, a partire dal deterioramento dei rapporti con l’Unione Sovietica, preoccupava le diplomazie occidentali. In particolare, già nel 1976 i diplomatici occidentali delineavano un quadro preoccupante della situazione jugoslava. In occasione di consultazioni riservate 99, il segretario generale della NATO, Luns, sottolineò che certamente Tito aveva pensato alla questione della successione e che l’esercito e la popolazione jugoslave erano decisi a difendere l’indipendenza del loro Stato. Bisognava, però, constatare che la questione delle nazionalità non era affatto risolta e che la rivalità fra serbi e croati era più forte che mai; inoltre la situazione economica era sempre più precaria. Tutto ciò poteva favorire le interferenze sovietiche. La NATO e i suoi Stati membri, a parere di Luns, dovevano impegnarsi a manifestare pubblicamente il loro interesse e sostegno allo sviluppo stabile e all’indipendenza della Jugoslavia; in particolare gli Stati della Comunità Europea dovevano favorire in ogni modo l’intensificazione dei rapporti con la Jugoslavia. Non a caso a partire dal 1976 aumentarono gli aiuti economici degli Stati della CEE a favore della Jugoslavia 100. Sul piano bilaterale l’Italia cercò di favorire e intensificare le relazioni economiche e culturali con Belgrado e di rafforzare la cooperazione fra le regioni di confine italiane e jugoslave, il cui perno fondamentale fu la Comunità Alpe Adria fondata su iniziativa italiana nel 1978 101. L’Italia si propose nei confronti della Jugoslavia come un partner privilegiato, un elemento di attrazione che favorisse e facilitasse la progressiva integrazione di questo Stato nella Comunità Economica Europea e una
98 Sui rapporti italo-jugoslavi dopo il 1975: M. Bucarelli, La Slovenia nella politica italiana di fine Novecento: dalla disgregazione jugoslava all’integrazione euro-atlantica, in M. Bucarelli, L. Monzali (a cura di), Italia e Slovenia fra passato presente e futuro, Roma, Studium, 2009, p. 103 e ss. 99 AAPBD, 1976, tomo 2, Botschafter Pauls, Brüssel (NATO), an das Auswärtigen Amt, 9 novembre 1976, d. 322. 100 AAPBD, 1976, tomo 1, d. 132. 101 Cfr. M. Bucarelli, La Slovenia nella politica italiana di fine Novecento: dalla disgregazione jugoslava all’integrazione euro-atlantica, cit., p. 109 e ss.
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sua indolore transizione dall’autoritarismo comunista alla democrazia liberale. Moro, crudelmente ucciso nel 1978, non poté assistere all’evoluzione successiva dei rapporti italo-jugoslavi. Egli ebbe il merito di comprendere l’importanza per l’Italia di chiudere definitivamente la questione dei confini orientali. La definizione dei confini orientali nel 1975 segnò il completamento della costruzione dello Stato nazionale italiano iniziata con il Risorgimento e permise al nostro Paese di non essere risucchiato nelle violente e tragiche lotte nazionali che esplosero con la disgregazione della Jugoslavia comunista all’inizio degli anni Novanta. Gli accordi di Osimo, quindi, rimangono il risultato più significativo del lungo impegno di Aldo Moro a favore della pacifica cooperazione fra le nazioni adriatiche.