Andrea Masotti
INTERSEZIONI TRA LA LETTERATURA RUSSA E LA LETTERATURA YIDDISH: ISAAK BABEL’ E SHOLOM ALEICHEM
INDICE
Introduzione
......................................................................... 3
Sholom Aleichem nel mondo russo
Isaak Babel’ nel mondo yiddish
..................................... 10
.......................................... 22
Conclusione ......................................................................... 33
Bibliografia
.......................................................................... 35
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INTRODUZIONE
“Ma non ha fatto un errore anche Dio, quando ha messo gli ebrei in Russia, perché soffrissero come all’inferno?”1
Nella Russia di fine Ottocento la comunità ebraica vive in maniera affatto peculiare la vera e propria palingenesi storico-culturale verso la quale tutto il paese è proiettato. Per un ebreo nato in Russia, legato “biologicamente” alla tradizione che la sua religione comporta, spesso cresciuto in quella particolare monade 2 isolata dalla storia che fu il mestečko (o shtetl: la piccola cittadina ebraica dei territori passati sotto il dominio russo dopo lo smembramento della Polonia tra il 1772 e il 1795 e il congresso di Vienna del 1815, di cui oggi non rimane traccia 3), incorre in questo periodo un nuova imperante istanza, un altro – contrastante - sentimento di appartenenza: quello che fa capo alla nazionalità. Questo processo di progressivo sradicamento spesso comportò per l’ebreo – soprattutto per l’intellettuale ebreo - l’esigenza di una presa di posizione, non sempre, tuttavia, esito di una scelta razionale. Non potendo per forza di cose affrontare la questione in tutta la sua complessità, per gli ovvi limiti che questo lavoro impone, abbiamo deciso di delineare un quadro quanto più esaustivo possibile, esaminando poi – in chiave comparatistica l’opera di due autori ebrei di cittadinanza russa: Isaak Babel’ e Sholom Aleichem. Con questi due scrittori ci troviamo davanti a due esiti opposti della questione. Opposti, ma, come vedremo, non incompatibili, in quanto due versanti di un terreno culturale comune, la distanza tra i quali è determinata da una parte dall’uso della lingua (lo yiddish per Aleichem, il russo per Babel’) e dalla frequentazione del 1
A parlare è il bandito Benja Krik, in Gente di Odessa di Isaak Babel’ (in Isaak Babel’, I racconti, Verona, Mondatori, 1962, p. 214.) 2
Di monade parla Walter Benjamin nel definire l’oggetto dello studio del materialista storico, aggiungendo: “in tale struttura egli riconosce il segno di un arresto messianico dell’accadere, o, detto altrimenti, di una chance rivoluzionaria nella lotta a favore del passato oppresso.” (Walter Benjamin, Sul concetto di Storia, Torino, Einaudi, 1997, pp. 51-53.) 3
Cfr.. J. H. Shoeps, Non fidarti dei Gojim, in G. Massino e G. Schiavoni, Stella errante – Percorsi dell’ebraismo fra Est e Ovest, Urbino, il Mulino, 2000, pp. 87-97.
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corrispondente territorio culturale, dall’altra dallo scarto temporale che intercorre tra i due –tanto più profondo se consideriamo lo sconvolgimento paradigmatico che rappresentò la rivoluzione del ‘17, e le pesanti conseguenze che ebbe anche nella letteratura. Nel rilevare – soprattutto nei testi - ciò che determina questa distanza, spiccano per controcanto gli elementi di contiguità, dovuti più profondamente al terreno comune di cui sopra: non semplicemente la cultura ebraica da una parte e quella russa dall’altra, ma le due insieme, nel punto in cui si trovano a contatto. Gli ebrei in Russia non ebbero mai vita facile, fin dai tempi del Granducato di Moscovia. Fu in seno alla chiesa ortodossa (in forte sinergia con il potere degli Zar) che verso la fine del XV secolo, probabilmente a causa del contrasto con il movimento ereticale dei giudaizzanti, cominciarono gradualmente a manifestarsi i primi atteggiamenti antisemiti.4 Conseguenze tangibili e durevoli, anche al di là dell’alterna fortuna che la comunità ebraica conobbe presso il potere (molto peso ebbe sulla sorte degli ebrei il grado di tolleranza della politica dei vari sovrani: alle dure posizioni di Ivan IV e di Elisabetta II, ad esempio, si alternarono il relativo illuminismo di Pietro il Grande e di Caterina II), si ebbero soprattutto sulla mentalità della gente, della classe intellettuale in particolare. La forza dello stereotipo, che portò alla fine del XV secolo ad identificare gli ebrei con i sempre invisi polacchi, a chiamare spregiativamente “giudei” i numerosi pretendenti al trono durante l’epoca dei torbidi, e che finì con il cristallizzarsi definitivamente nel cliché negativo del “giudeo oste e imbroglione” all’epoca di Alessandro II, ebbe un grande peso su praticamente tutta la letteratura russa fino agli inizi del ‘900. I più grandi scrittori da Puškin in poi, anche scevri di pregiudizi su un piano per così dire umano (pensiamo a Leskov, a differenza ad esempio di Rozanov o Dostoevskij), non uscirono quasi mai da un certo codice di rappresentazione dell’ebreo che nulla o poco aveva a che vedere con l’ebreo reale. 5
4
Cfr. Heiko Haumann, Storia degli ebrei dell’est, Milano, SugarCo, 1990, pp. 83-95.
5
Cfr. S. Aloe, L’immagine dell’ebreo nella Russia ottocentesca fra contatti diretti e stereotipi letterari, in «Quaderni di lingue e letterature», 25/2000, Verona, pp. 5-28.
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Si noti a margine come una marcata tipizzazione dell’ebreo informasse anche buona parte della letteratura yiddish. Questo non deve stupire: le ragioni e il particolare carattere di questa tipizzazione differiscono sensibilmente da quelle che definiscono i contorni dello stereotipo letterario russo. Non certo per pregiudizio, ma per esigenza di “universalizzazione” i personaggi sono soprattutto personaggisimbolo, che mancano di caratterizzazioni individuali, figure assolute in cui i lettori ebrei potevano riconoscere aspetti fondanti della propria ebraicità.6 Queste
preconcette
posizioni
non
hanno
tuttavia
impedito
anche
il
riconoscimento da una parte e dall’altra di precise affinità tra la cultura ebraica e quella russa, affiorate in prima istanza in ambito politico già dalla fine del XIX secolo: è in questo periodo che un’analoga perdita – o il rifiuto - dei valori tradizionali fa convergere le nuove generazioni ebree e russe sulle nascenti forme di dissidenza politica, quali il Socialismo e il Sionismo.7 Un ateismo che lascia quindi un vuoto occupato presto da una nuova fede: quella per la rivoluzione. Lo scotto che gli ebrei si trovarono a dover pagare per questo distacco dalle radici fu certo maggiore di quello che comunque subirono anche i rivoluzionari russi 8, e ciò è da ricondurre ad una fondamentale differenza sulla cifra costitutiva di questa radice per il popolo russo e per il popolo ebraico. A partire dalla possibilità della denominazione stessa di “popolo”: una forte unità identitaria, strettamente legata all’idea del ruolo detenuto nel destino del mondo, è attributo fondamentale tanto dei russi quanto degli ebrei. Ma, mentre l’unità e i relativi tratti comuni a tutto il popolo russo – individuati dall’intellighenzia stessa nell’ambito della contesa tra slavofili e occidentalisti - sono di carattere per così dire nazionalistico (un nazionalismo comunque profondamente intriso di religiosità, per la sua matrice ortodossa), per quanto riguarda gli ebrei invece, pur avendo conosciuto prolungati periodi di stanziamento in territori dell’Europa dell’est, questa unità non rimanda in prima istanza a meri confini 6
Cfr. I. Howe e E. Greenberg, postfazione a Il meglio dei racconti yiddish, Milano, Mondadori, 1985, p. 677.
7
Cfr. J. Frankel, Gli ebrei russi, Torino, Einaudi, 1990, pp. 751-762.
8
Cfr. E. Sicher, Jews in Russian Literature after the October Revolution, Cambridge, Cambridge University Press, 1995, p. XV: gli ebrei sono stati “indeed orphaned, from both the Party and the Soviet Union.”
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geografici, ma si regge piuttosto su un’indissolubile legame con le radici. La memoria acquista nel discorso identitario ebraico un’importanza assoluta: è la memoria a fungere da collante primo e cifra qualificante di tutti gli appartenenti alla comunità, facendo del patrimonio religioso, culturale e spirituale una rete viva. Rinnegarla significava a conti fatti la perdita della propria identità, significava per l’ebreo russificato precipitare in un limbo di mezzo, mai accettato appieno dal mondo dei “gentili”, anche se si sforzava di mostrarsi – nel cambio - “più cristiano dei cristiani”9. E’ in questa fase di transizione che, significativamente, la letteratura yiddish conobbe la sua maggiore fioritura. Sull’onda di movimenti quali il Chasidismo e l’Haskalah10, che già dall’inizio del XIX secolo avevano dato credito alla lingua yiddish osteggiata invece dai religiosi più ortodossi poiché medium del profano, la lingua del popolo del mestečko e la relativa letteratura si posero come elemento sostitutivo di un’“unità territoriale che non esisteva”11, in quanto erano gli unici principi unificatori disponibili, in assenza di uno spirito religioso che veniva meno e di una nazionalità che ancora non c’era. Da notare come, in questo progressivo allontanamento dalle origini, quei caratteri che per la cultura ebraica trovavano il loro fondamento in queste radici non si siano perduti con esse, ma abbiano trovato invece un altro indirizzo e nuova linfa nelle forme più terrene della politica e per certi versi anche della letteratura. 12 Ed è proprio in questi tenaci caratteri che ravvisiamo una non indifferente contiguità con la cultura russa.
9
Cfr. E. Sicher, op. cit., p. 39.
10
L’Haskalah sorse in Germania verso la metà del XVIII secolo, segnando un periodo di rinnovamento spirituale sull’onda dell’illuminismo francese. In Russia e in Polonia fu molto avversata dalla potente casta rabbinica; per favorire la rinascita intellettuale fra le masse ebraiche essa dovette usare lo yiddish, anche se desiderava elevare l’ebraico. Il Chasidismo fu un movimento spirituale che sorse nel XVIII secolo in Polonia e in Ucraina, professando il rifiuto della dottrina più dogmatica e la rinascita spirituale. In netto contrasto con l’aristocratica Haskalah, esaltò lo yiddish come lingua della plebe. 11
B. Rivkin, Grunt-tendentsn fun der yidisher literatur in Amerike, citato in I. Howe e E. Greenberg, op. cit., p. 673. 12
Esito in qualche modo inscritto nello spirito dell’utopia ebraica, per la quale “mondano e oltremondano avrebbero dovuto essere una cosa sola, e realizzarsi sulla terra.” (Cfr. I. Howe e E. Greenberg, op. cit., p. 648.)
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Primo fra tutti questi, un forte sentimento di predestinazione strettamente connesso all’altrettanto forte sentimento di unità di cui sopra: si tratta del
messianesimo, che rende tanto il popolo ebreo quanto quello russo popoli “eletti”.13 Il “noi” che Rozanov usa a soggetto della sua ricerca delle caratteristiche dello spirito russo nelle sue “Note di viaggio” è in questo senso particolarmente significativo: “in un modo o nell’altro”, scrive, “la nostra storia si compirà con qualcosa di assoluto.”14 In Russia questo elemento escatologico nato come componente della religiosità ortodossa trovava quasi con affanno la sua destinazione terrena, in forme sempre diverse: in prima istanza e per molto tempo nella figura dello zar, poi nell’utopia della rivoluzione, poi ancora in Lenin (in questa cronologia si rileva come quello che in origine era il moto spontaneo dello spirito di un popolo si trova sempre più snaturato da strumentali tentativi - da parte della propaganda ufficiale - di veicolarlo verso una più gretta idolatria15). Il messianesimo russo è da sempre – consapevolmente - coesistito con il messianesimo ebraico, in vario rapporto di rivalità e di ammirazione. 16 Una sostanziale differenza del messianesimo di marca ebraica sta proprio nel non aver mai trovato una precisa formalizzazione, forse per il fatto di non aver mai assaggiato, come popolo, il potere e la sua sete. Piuttosto, determinò una percezione della storia come movimento orizzontale e non verticale, in infinita e costante attesa di un Messia (come costante era l’attesa delle incursioni dell’altra storia, quella di fuori dello shtetl, nella forma delle terribili violenze antisemite), che prendesse per mano il suo popolo verso il suo unico destino. Di nuovo, determinante nel concetto di messianesimo che è proprio della cultura ebraica è il ruolo giocato dalla memoria: la coscienza di un passato comune rimanda naturalmente all’idea di un futuro comune. 13
Cfr. Nikolaj Berdjaev, L’idea Russa, Milano, Mursia, 1992, p. 52: “Dopo gli ebrei, i russi sono i principali depositari di un’idea messianica: essa percorre tutta la loro storia, fino al comunismo. [...] Gli uomini del regno di Mosca si ritenevano un popolo eletto.” 14
Cfr. Vasilij Rozanov, Note di Viaggio, Latina, L’Argonauta, 1997, p. 47.
15
Cfr. Gian Piero Piretto, Il radioso avvenire, Torino, Einaudi, 2001, pp. 66 e 74.
16
Cfr. Giancarlo Baffo, Così parlò Juduška. L’antisemitismo di Vasilij V. Rozanov, in G. Massino e G. Schiavoni, op. cit., p. 377: “In lui (in Rozanov. N.d.A.), si riassumono mirabilmente tutti i tratti caratteristici del peculiare antigiudaismo russo, costantemente in bilico tra il furore irrazionale (che, com’è noto, travolse miseramente anche geni del calibro di Dostoevskij) ed una malcelata ammirazione che fa aggio sulla tradizionale messianicità dell’anima slava, per la quale il confronto con la tradizione del popolo di Israele costituisce un paradigmatico ed imbarazzante modello.”
7
“A noi”, scrive Walter Benjamin nel terzo capitolo del suo saggio, “come ad ogni generazione che fu prima di noi, è stata consegnata una debole forza messianica, a cui il passato ha diritto.”17 Questa volta il noi usato dal filosofo ebreo – se pure non è esplicitamente riferito al popolo ebraico – indiscutibilmente deve molto a una concezione della storia eminentemente ebraica: Questa tensione al futuro, questa spirituale propensione al divenire, richiama direttamente un’ulteriore affinità tra ebrei e russi: l’importanza del viaggio, la predisposizione ad andare, senza requie. “Rus’, dove corri mai?” E’ la domanda che il protagonista de Le anime morte di Gogol’ rivolge al paese, paragonandolo a una “rapida trojka irraggiungibile”, senza peraltro avere risposta. Si muove il paese verso il suo destino, e si muove l’uomo russo dentro il suo paese, in pellegrinaggio alla costante ricerca di qualcosa, della santità come della felicità.18 A fare da contrappeso alla “tradizionale tendenza dell’uomo russo all’immobilità”19 interviene questo insoddisfatto movimento, motivo ricorrente in importanti figure della letteratura russa dal Čičikov de Le anime morte (Mërtvye duši) al Pellegrino incantato (Očarovannyj strannik) di Leskov. Le attinenze di questo motivo con la realtà sono patenti: fin nell’Ottocento erano attive le sette degli stranniki, “pellegrini”, e dei beguny, “fuggitivi”, il cui credo prescriveva di continuare a viaggiare, senza tregua. E’ ciò che Danilo Cavaion ha chiamato vocazione alla fuga: un’inquietudine storicamente propria degli uomini russi.20
17
Cfr. W. Benjamin, op. cit., p. 23. Più avanti, nello stesso saggio, aggiunge: “E’ noto che agli ebrei era vietato investigare il futuro. La Torah e la preghiera li istruiscono invece nella rammemorazione. Ciò liberava per loro dall’incantesimo il futuro, quel futuro di cui sono succubi quanti cercano responsi presso gli indovini. Ma non perciò il futuro diventò per gli ebrei un tempo omogeneo e vuoto. Poiché in esso ogni secondo era la piccola porta attraverso la quale poteva entrare il messia.” (ibid., p. 57.) 18
Cfr.. Ju. M. Lotman, Il concetto di spazio geografico nei testi medievali russi, in Ju.M. Lotman, B.A. Uspenskij, Tipologia della cultura, Milano, Bompiani, 1995, pp. 185-186: “per l’uomo del medioevo russo [...] ogni viaggio assumeva il carattere di un pellegrinaggio. [...] un lungo viaggio accresce la santità dell’uomo che lo compie.” 19
Cfr. Gian Piero Piretto, La Russia dentro e fuori l’Europa, in Mappe della letteratura europea e mediterranea, a cura di Gian Mario Anselmi, Mondadori, Milano, 2001, pp. 12-13. 20
Cfr. Danilo Cavaion, Introduzione a N. Leskov, Il viaggiatore incantato e altri racconti, Gruppo Editoriale l’Espresso, Roma, 2004, p. XXI.
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Gli ebrei, dal canto loro, hanno assunto questa inclinazione all’eterno spostarsi come marca fondamentale della loro identità collettiva, che molto deve al mito ma non poco alla concreta condizione storica: il loro nomadismo a lungo è stato più condanna che vocazione, l’essenza stessa di una reale esistenza diasporica, a partire dall’esilio in Egitto fino ai più recenti approdi sionisti, eternamente sulle tracce di una “Heimat” (di cui, come detto, la letteratura poteva rivelarsi alpiù un surrogato spirituale). Joseph Roth, che leggeva nell’errare non una maledizione ma bensì una benedizione, ha individuato proprio nella storia degli Östjuden e dell’ebraismo russo una speciale espressione di questa inclinazione21, e in questo ci pare di scorgere motivazioni che non si limitano alla sola contingenza storica, ma che riconducono all’affinità spirituale che è oggetto di questa ricerca (il Tarabas di Roth ne è forse l’esempio letterario più manifesto: un personaggio nel cui espiatorio vagabondare – per dirla con Claudio Magris, “come un antico pellegrino cattolico e insieme come un santo chassidico”22 - questi due mondi trovano una sintesi). Ci accorgiamo quindi che lo spazio culturale che condividono le due culture, quella ebraica e quella russa, è ampio. Si tratta del terreno comune di cui sopra, uno spazio effettivamente esteso, ma che chiaramente ha dei confini: al di fuori dei quali ogni cultura riacquista la sua (sempre problematica) singolarità. Sholom Aleichem e Isaak Babel’ sono due ebrei nati in Russia, separati da tre decenni di storia, con un piede dentro questo territorio: abbiamo scelto di esplorarlo attraverso le loro opere, cercando soprattutto di capire dove si situi la linea di confine.
21
Come testimonia ad esempio un suo articolo del 1934: “Come furono sinceri gli ebrei dello zar e gli ebrei polacchi quando fuggirono! Anch’essi amavano i paesi in cui erano nati! Ma, in generale, essi hanno un’idea più precisa della relatività della relazione fra l’individuo e lo stato – il che significa verso la “patria” – e della dignità dello sconfitto.” (J. Roth, Werke. Das journalistische Werk, a cura di Klaus Westermann, Köln, Kiepenheuer & Witsch, 1989-91, vol III, p. 531., citato in Daniela Canella, Joseph Roth ebreo errante, in G. Massino e G. Schiavoni, op. cit., p 355.) 22
Cfr. C. Magris, Lontano da dove. Joseph Roth e la tradizione ebraico-orientale, Torino, Einaudi, 1989, pp. 246-247.
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SHOLOM ALEICHEM NEL MONDO RUSSO
Sholom Aleichem, secondo nel tradizionale novero dei tre padri della moderna letteratura yiddish (dopo Mendele Mokher Sefarim e prima di Jzchaq Leib Peretz), può essere considerato – mercé questa posizione di rilievo - significativo esempio della possibilità di un accostamento tra lo yiddish e il russo, intesi come l’insieme di letteratura, storia e cultura che le due lingue sottendono. E non solo, come vedremo, per ragioni squisitamente biografiche, peraltro non di second’ordine, che tenteremo di affrontare e liquidare fin da subito: motivi di contiguità sono da ricercarsi soprattutto nel merito della sua produzione letteraria, nella forma e nei contenuti dei suoi scritti. Nato in Russia, visse il suo paese di una autentica relazione fisica con il territorio, con le città, i paesini e le genti (la “sua” gente in particolar modo: è stato definito il “volksinger” del popolo ebraico23), nei pellegrinaggi letterari durante i quali si faceva interprete di se stesso davanti alle folle, quasi incarnando nella sua persona il mito dell’ebreo errante, un ebreo errante informato di una reale (storica e personale) “meshuggà” (in yiddish, il senso di sradicamento proprio dell’esistenza ebraica). Pur non presentando mai intenzioni didattiche né ideologie sociali nella sua produzione letteraria, fu tuttavia particolarmente sensibile alla temperie politica che interessava la Russia in quel periodo, dalla quale fu toccato direttamente e indirettamente. Il Socialismo ebraico (incarnato nel “Bund”, l’organizzazione socialista ebraica), e per altri versi e con altre modalità il movimento della cosiddetta Haskalah, erano andati ad alimentare l’interesse verso la cultura laica, russa e occidentale in genere, a scapito dei testi canonici e della lingua ebraica, esaltando lo yiddish come lingua delle masse, e la loro influenza sulla triade Mendele-Aleichem-Peretz fu innegabile: Sholom Aleichem dipinse i pregi e i difetti di questa generazione proiettata verso l’occidente in Tevje il lattivendolo e in Menachem Mendel,
le due più importanti
figure del mondo letterario dello scrittore (e non solo del suo mondo: secondo Yehiel 23
Cfr. Guido Lopez, prefazione a S. Aleichem, Racconti della shtetl, Milano, Bompiani, 1982, p. VII.
10
Yeshaia Trunk “in Tevje e Menachem Mendel il nostro Sholom Aleichem ha voluto darci le figure ebraiche fondamentali, che incarnano in sé stesse il sentimento storico cosmico del popolo ebraico”24). I primi anni del XX secolo, soprattutto sull’ondata reazionaria seguita al “Manifesto d’Ottobre”, furono caratterizzati inoltre da un inasprirsi delle violenze contro le comunità ebree (il pogrom del 1905 a Odessa fece 300 morti). Nel 1903 un comitato di soccorso progettò un “numero unico” di beneficenza, e a Sholom Aleichem, proprio in funzione di questa sua vicinanza al cuore del popolo, fu chiesto di collaborare con suoi scritti e di intercedere con i patriarchi della letteratura russa25, nel cui mondo era entrato a pieno titolo da tempo (pubblicò anche in lingua russa, articoli, feuilleton e racconti brevi). Quella di Sholom Aleichem fu insomma una vita vissuta vicino alla cultura russa del suo tempo. E non crediamo azzardato sostenere che con lui si avvicina alla cultura russa il mondo yiddish nel suo complesso, nella misura in cui di questo mondo fu probabilmente il rappresentante primo, capace di dare voce a un intero popolo. 26 Inoltre una letteratura per certi versi giovane come fu quella yiddish della modernità, priva di veri e propri modelli e di forme di categorie espressive, si rivelò terreno fertile per l’incredibile e prolifica capacità di Sholom Aleichem di compiere un’escursione tra le più varie tematiche e stili: lo scrittore, con una capacità maggiore di Mendele e di Peretz di parlare alle generazioni future, di quella letteratura fu capostipite imprescindibile, iniziatore e canonizzatore di più di un filone narrativo. La narrativa breve di Sholom Aleichem è particolarmente indicativa in questo senso,
in
essa
si
avverte
probabilmente
più
che
altrove
la
sua
audacia
sperimentatrice. Nei suoi racconti, isolati o raccolti in serie - come in quella costruita intorno alla figura di Tevje il lattaio -, lo scrittore percorre le vie della prosa dal comico al tragico, dall’allegorico al poetico, dal naturalistico al fantastico. 24
Cfr. I. I. Trunk, Tevjeh un Menachem Mendel in jidischen velt-gojrl, New-York, Tsiko, 1944, citato in Sholom Aleichem, Menachem Mendel, Casale Monferrato, Marietti, 1986, p. XIV. 25
Questo produsse tra l’altro un’interessante corrispondenza epistolare con Lev Tolstoj, di cui lo stesso Sholom Aleichem si fece traduttore in yiddish. (Cfr. ibid., p. XVII.) 26
Aleksandr Amfiteatrov, citato in Guido Lopez, op. cit., p. XXVVII, scrive: “Sholom Aleichem è artista nel pieno senso della parola, e nazionale nel miglior significato: come Maupassant, Čechov, Dickens, ciascuno rispetto al suo popolo.”
11
Come scrive A. A. Roback nel suo The story of yiddish literature, Sholom Aleichem “was at home in every genre of writing. [...] but it was in the humorous short story [...] that he was [...] never surpassed.” 27 In questa apologetica considerazione di Roback si evidenzia, accanto alla centrale importanza della forma breve, un altro aspetto fondamentale non solo della poetica di Aleichem, ma della letteratura yiddish tutta: l’umorismo. Un umorismo del tutto particolare e caratteristico quello ebraico, colorato di una costante vena di tristezza, e da essa non dimidiato nella sua potenza catartica: perché si tratta prima di tutto di un ridere di sé, della propria condizione 28. Un riso dal retrogusto amaro che nella letteratura in lingua yiddish trova una formalizzazione precisa, nell’andamento piano delle storie e spesso privo di climax ascendenti, nella preferenza a ritrarre figure di protagonisti anti-eroi, nel generale velo di malinconia che copre anche le novelle più solari. Di questo umorismo Sholom Aleichem fu maestro indiscusso, insuperato nel tradurre in forme letterarie quello che era un carattere ontologicamente proprio di un intero popolo.29 Ad esempio nel racconto breve La vita eterna questo intreccio di comico e di tragico risulta particolarmente efficace. Ad essere oggetto di riso qui è la volenterosa generosità di un giovane “né esperto né scaltro”, e le disavventure che questa gli procura. Il protagonista stesso, che, secondo una formula tipica della letteratura yiddish – e particolarmente frequente in Sholom Aleichem -, è anche colui che narra le proprie vicende ad un ascoltatore fittizio o identificato con lo scrittore stesso (tecnica che rende bene, seppure artifizio retorico, l’idea di un’effettiva diretta attinenza della scrittura all’oralità), è il primo a ridere di sé. Per la proprietà transitiva che la tipizzazione del protagonista permette e comporta, oltre che di lui si ride – non certo con irrisione, piuttosto con autoironia - dell’inclinazione alla fratellanza e alla compassione proprie della religiosità ebraica. 27
Cfr. A. A. Roback, The story of Yiddish literature, New York, 1974, p. 112.
28
Cfr. Moni Ovadia L’ebreo che ride, Torino, Einaudi, 1998, p. 12: “il suo (dell’umorismo ebraico; N.d.A.) scopo è quello di esiliare l’arroganza delle certezze, di introdurre una dimensione imprevista che stimoli a creare una nuova fonte di pensiero consapevole della propria precarietà.” 29
Cfr. A. A. Roback, op. cit., pp. 112-113: “Sholom Aleikhem’s humor reflects not only his own genius but the genius (now used in the etymological sense) of the Jewish people. [...] Sholom Aleikhem gave us a system of humor –a humorous world outlook.”
12
Per questo compendio di comico e di tragico (e, come vedremo, non solo per questo) Sholom Aleichem è stato spesso accostato a Gogol’, al quale lo lega un rapporto di diretta influenza. E’ probabilmente improponibile parlare di un “umorismo russo” allo stesso modo in cui si parla di un umorismo ebraico. Piuttosto – e non solo nel caso di Gogol’ - questo umorismo “pirandelliano” si rivela una delle forme in cui si attua l’amore, spesso non corrisposto, che lega l’intellettuale al popolo russo, come lo scrittore ai suoi personaggi.30 Anche dove usa lo scherno più sferzante infatti, lo scrittore ucraino scrive mosso dalla filantropica convinzione di essere investito di una sorta di “mandato divino”, a salvezza dell’umanità. Il comico di Gogol’ è il risultato di un duplice modo di vedere le cose, è un gioco di alternanza tra un reale amore per l’uomo e un istintivo renderlo oggetto di riso. Boris Ejchenbaum nel suo saggio su Il cappotto (Šinel) parla di un “secondo strato di
declamazione patetica”31: come accade in Sholom Aleichem, così pure in Gogol’ un fondo di tristezza si avverte anche nei racconti burleschi, effetto di un umorismo in cui al comico più leggero e immediato, veicolato da calembours fonici e da bizzarre disposizioni sintattiche, fa da contrappeso un comico che si fonda sull’eversione del reale, che innalza l’insignificante a sublime, che mette al centro dell’azione improbabili anti-eroi, dando luogo a un amaro senso di straniamento. Questa osservazione sul modo in cui lo scrittore gioca con stilemi fonici e sintattici ci rimanda a una più ampia considerazione sulla lingua usata da Gogol’ (e non solo da Gogol’), in particolare sull’uso dello skaz (procedimento di resa letteraria delle espressioni del parlato e del popolaresco), e – più in generale - sul diseguale rapporto che da sempre è intercorso tra la letteratura russa e la lingua “viva”. La lingua letteraria russa fino agli inizi dell’Ottocento è stata ancorata alla tradizione slavo-ecclesiastica. Ha cominciato ad avvicinarsi alla lingua colloquiale 30
Utile ricordare per questa riflessione quanto scrive Laura Salmon riferendosi a Sergej Dovlatov: “Gli umoristi certo non rassicurano e perciò si tende a scambiarli per comici o parodisti, in modo da far tornare i conti. Ma chi sa intravedere il messaggio gratificante dell’eversione, può trarre dall’umorismo un profondo conforto. L’umorismo è davvero una condizione mentale simile all’amore.” (Cfr. Laura Salmon, Contro la Malinconia, in Sergej Dovlatov, Il parco di Puškin, Palermo, Sellerio, 2004, p. 191.) 31
Cfr. Boris Ejchenbaum, Come è fatto “Il cappotto” di Gogol’, in Tzvetan Todorov, I formalisti russi, Torino, Einaudi, 1968, p. 257.
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solo con Karamzin (e il cosiddetto novyj slog, “nuovo stile”) e con Puškin in epoca Romantica, rafforzando col tempo il ruolo della letteratura quale modello di comportamento linguistico per l’intera popolazione alfabetizzata32 (la cosa ha provvisoriamente termine con gli sperimentalismi modernisti di inizio Novecento, per poi riprendere in era Sovietica). Tuttavia è rimasta sempre qualcosa di altro rispetto alla lingua parlata. Lo skaz, inteso come tecnica di riproduzione letteraria del parlato che non si limita a imitare ma ricrea, rappresenta un tentativo di colmare questa distanza che ha interessato molta letteratura russa da Gogol’ in poi: per tutto l’Ottocento, gradualmente, scrittori come Leskov, Dostoevskij, Dal’, Mél’nikov-Pečerskij si staccano dalla lingua codificata da Karamzin alla fine del Settecento (poi ripresa e approfondita da Puškin), per volgersi agli ambienti degli strati medi e bassi delle città, della borghesia provinciale, del mondo contadino – e ai relativi idiomi. Per Gogol’ questo mezzo espressivo è la naturale conseguenza di una virtù innata: Le veglie ad una fattoria presso Dikan’ka (Bečery na chutore bliz Dikan’ki), una delle sue prime opere, sono un capolavoro di arte mimetica, in cui imita magistralmente il gergo contadinesco e mercantile, facendo uso copioso di espressioni popolari (anche apocrife). Anche nelle sue opere slegate dal folklore ucraino Gogol’ sa restituire i ritmi del parlato con incisi e digressioni. Ejchenbaum parla per lui di “skaz comico” e di “skaz mimico”, ricordando la sua abilità oratoria quando (come Sholom Aleichem) leggeva in pubblico i suoi scritti.33 Un filo diretto collega Gogol’ ad un altro artista dello skaz, operante due decenni dopo: Leskov, che fece della lingua ucraina e di quella russa un uso assolutamente originale, esito di un minuzioso lavoro di ascolto tra la gente e rielaborazione.34 Per quanto riguarda la letteratura yiddish, se pure è possibile individuarvi un analogo uso della lingua parlata, è qui improprio e limitante parlare di skaz come di 32
Cfr. L. Kasatkin, L. Krysin, L. Živov, Il russo, Firenze, La Nuova Italia, 1995, pp. 65-81.
33
Cfr. Boris Ejchenbaum, op. cit., pp. 252-253.
34
Cfr. Janna Petrova, Leskov e l’Ucraina, in Nikolaj Leskov, Il pope non battezzato, Latina, L’Argonauta, 1993, p. 93: “Ci troviamo al cospetto di un’intenzione ben consapevole di elaborare creativamente la lingua, di divertirsi con essa, lasciando libero campo al gioco dell’immaginazione, e non semplicemente di tradurre sulla pagina la parlata popolare.”
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una mera tecnica stilistica: il parlato infatti è connaturato alla stessa creazione letteraria, che a sua volta sembra affluire spontaneamente dalla lingua viva. Ciò si deve soprattutto alle particolari caratteristiche della lingua stessa: una lingua che ha sempre convissuto in posizione ancillare rispetto all’ebraico, riservandosi il precipuo spazio dell’oralità popolare, in vivo e vivace scambio con la vita formalizzata in proverbi, canzoni popolari, folklore, e con le altre lingue con cui il popolo ebraico entrava in contatto nella sua “eterna fuga” (l’anima dello yiddish è composita fin dalle sue origini, da collocarsi tra il X e il XII secolo: a elementi ebraici, tedeschi e a locuzioni in aramaico si aggiungono con le migrazioni verso oriente elementi slavonici; anche l’inglese andrà poi ad arricchire la lingua, soprattutto a partire dagli spostamenti di massa verso gli Stati Uniti sul finire dell’Ottocento) 35. Eterogeneità e mutevolezza che si trasmettono a una letteratura sempre molto vicina alle sue fonti popolari (i detti della gente, l’umorismo spontaneo del popolino, la saggezza nativa), particolarmente nel periodo da noi preso in esame - la fine dell’Ottocento: il periodo classico della letteratura yiddish -, quando i materiali del folklore sono ancora vivi e vicini, e le istanze tipiche di una letteratura matura ancora non hanno calato il proprio velo d’artificio sulla composizione. Alla lingua orale la letteratura yiddish deve ad esempio la struttura dei suoi racconti, spesso presentati nella forma di una trascrizione di monologhi o dialoghi, in cui nella narrazione si inseriscono interiezioni tipiche del parlato, in cui la punteggiatura è assai libera, in cui è frequente l’uso del riflessivo. 36 Prendiamo ad esempio in rapida analisi il racconto Dreyfus a Kasrilevke di Sholom Aleichem, tratto dalla raccolta di racconti che vedono protagonista Tevje il
lattivendolo. Qui, come in tutta la raccolta, la storia è raccontata da un io narrante che pare interloquire con Aleichem stesso, o perfino con il lettore. Perciò il fluire del parlato non sembra nemmeno filtrato dall’intervento dello scrittore, si ha l’illusione di una presa diretta con il reale. E a ciò contribuisce la sapiente disposizione, nel testo, di 35
Cfr. A. A. Roback, op. cit., pp. 35-56.
36
Cfr. I. Howe e E. Greenberg, op. cit., p. 690: “molti scrittori yiddish hanno idee alquanto confuse sulla sintassi e la punteggiatura. Il traduttore deve tentare di separare frasi che sembrano serpeggiare e avvolgersi su se stesse senza fine. [...] In yiddish c’è anche un uso frequente del riflessivo, a mezza via tra la forma attiva e passiva del verbo, che rende la frase curiosamente animata: lo sfondo della storia sembra danzare mentre i personaggi stanno fermi.”
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formule tipiche del parlato (“E chi lo sa!”, “Macché.”), di una struttura che procede a domanda e risposta (“Così il mistero permane: come, a Kasrilevke, vennero a sapere tutto sulla storia di Dreyfus? Ve lo rivelo io, il mistero...”), di ingenue iperboli che non stonerebbero in bocca a veri contastorie di locanda (“Ma il tormento, il dolore, la disperazione che Kasrilevke provò durante gli avvenimenti, tutto questo, ve lo dico io, Parigi non se lo sogna nemmeno, almeno fino all’arrivo del Messia in persona.”). Nei discorsi diretti poi, sopratutto nei veloci scambi di battute nelle situazioni di folla, il villaggio ebraico pare animarsi di vera vita («Avete sentito? E’ arrivato!» «Sano e salvo!» «Sia benedetto il nome del Signore! » «Come avrei voluto essere nella stanza e vederlo riabbracciare sua moglie!» «Come avrei voluto essere là e vedere cosa succedeva quando hanno detto ai suoi bambini: il papà è arrivato!»), al punto di diventare personaggio esso stesso (“«Che giornale e giornale!» urlò di rimando Kasrilevke...”)37. Resta
da
dire
che in
questo
esercizio
stilistico
Sholom Aleichem
fu
particolarmente abile – il suo yiddish è stato definito “una delle conquiste più straordinarie della letteratura moderna”38 - e non molti altri scrittori riuscirono altrettanto bene nel gioco dello skaz, con una lingua che pure vi si prestava particolarmente. E più tardi, com’era forse inevitabile dalla scomparsa del mestečko, anche nella letteratura yiddish comincia una ricerca stilistica più matura, nuove esigenze estetiche la avvicinano alle letterature occidentali e la allontanano dal vernacolo. Un altro aspetto della poliedrica opera di Aleichem che ci è parso in stretto rapporto di contiguità con la letteratura russa è il suo particolare modo di interpretare il fantastico. In questo genere narrativo lo scrittore rivela la sua russicità - filtrata dal uno stile personalissimo e rivisitata in chiave yiddish - tentando una via che nel campo della letteratura yiddish non aveva precedenti significativi e non avrà molti eredi (si può menzionare Moishe Kulbak, Moishe Nadir e, su tutti, Isaac Bashevis Singer), ma 37
Le citazioni sono tratte da Sholom Aleichem, Dreyfus a Kasrilevke, in I. Howe e E. Greenberg, op. cit., pp. 132-136. 38
Cfr. Ibid., p. 697. Vedi anche Daniela Leoni, introduzione a Sholom Aleichem, Menachem Mendel, Casale Monferrato, Marietti, 1986, p. XVII-XVIII: “Aleichem dimostra una enorme capacità di elevare una lingua popolare come lo yiddish ad altissima dignità letteraria, pur conservando con estrema fedeltà il ritmo sincopato e frenetico della lingua del popolo.”
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che sicuramente trova nel sostrato folkloristico e religioso ebraico fertile terreno su cui attecchire. Questa forte corrente fantastica - a tratti surrealista - che è stata ascritta ancora una volta all’influsso di Gogol’, è da ricondurre in realtà a una tradizione più ampia nell’ambito della letteratura russa. Le cose strane che accadono nei racconti di Aleichem stanno sempre su quell’indefinito confine tra il reale e l’assurdo, passibili di spiegazione logica come di inquietanti incursioni del fantastico e della magia: in questo lo scrittore dimostra di aver appreso la lezione del Gogol’ de Il naso (Nos), ma anche del Puškin de La Donna
di Picche (Pikovaja Dama). Il racconto A causa di un cappello è un mirabile esempio di ciò: narra di un umile ebreo che si guarda allo specchio e al posto del suo viso vede quello di un ufficiale zarista. L’ebreo si era addormentato alla stazione e, svegliatosi in fretta per prendere il treno, si infila per errore il cappello del funzionario russo seduto vicino a lui, provocando una serie di tragicomici equivoci tra la gente, fino a quando appunto non si vede allo specchio, senza riconoscere la persona sotto quel cappello così importante. La reazione del personaggio, di cui il lettore percepisce subito tutta l’alogicità, insinua quel sottile dubbio che qualcosa non segua proprio il normale corso delle cose, che vi sia uno sfasamento nel tessuto del reale: “Tutta colpa di Yeremei, che sia maledetto quel lazzarone! Venti volte gli ho detto di svegliarmi, gli ho dato perfino la mancia, e lui cosa fa, quell’asino patentato, che si pigli il colera, sveglia il funzionario invece di me! E mi lascia addormentato sulla panca!”39 Forse siamo ancora nel sogno. O più probabilmente la causa di tutto è la distrazione che caratterizza il protagonista fin dalle prime righe del racconto, soluzione che l’epilogo del racconto sembra suggerire. Aleichem di proposito non dipana l’incertezza, la spiegazione è demandata all’interpretazione del lettore, o, meglio ancora, rimane sospesa. E’ quella particolare forma di fantastico ambiguo - per cui il reale non è abbandonato in favore del surreale, ma “si presta ad ospitare nel suo seno anche 39
Cfr. Sholom Aleichem, A causa di un cappello, in I. Howe e E. Greenberg, op. cit., p. 53.
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fenomeni strani, inspiegabili e inaspettati”40 - tipico della letteratura russa dell’Ottocento. La materia fantastica in Russia deve molto, oltre alle fonti religiose ortodosse e al folklore popolare, all’influsso di Hoffmann. Ma la peculiare percezione della realtà in una società – com’era quella russa dell’Ottocento - ancora non capitalistica, ancorata a tradizioni contadine e a superstizioni parareligiose, porta spesso gli scrittori che si cimentano in questo genere, anche quando lasciano la più sciolta briglia alla fantasia, a trovare all’interno di questa stessa realtà spazio per le manifestazioni del fantastico, che siano o meno riconducibili a razionalità.41 Si pensi ad esempio a Il cappotto di Gogol’. Solo apparentemente concede al sovrannaturale, ma in realtà, come in altri suoi racconti, è un lavoro di trasfigurazione della realtà stessa, un gioco prospettico. Riferendosi alla chiusa del racconto, che potrebbe sembrare di spiccata ascendenza hoffmaniana (il fantasma del protagonista che vaga per le strade), Ejchenbaum scrive: “non è affatto più fantastica, né più romantica, di quanto sia l'intera novella.”42 E se un naso passeggia per le strade non è magia: è ancora la realtà a mostrare la sua faccia più grottesca (Nos, Il naso, che dà il titolo al racconto, letto al contrario dà Son, sogno: come in Aleichem, questa è una delle possibili spiegazioni del racconto, non esplicitata). Si può a questo punto sostenere che questa particolare declinazione del fantastico da parte di Aleichem e dei russi, se pure non può essere segnale della contiguità di letteratura russa e yiddish nel loro complesso – perlomeno non direttamente -, denuncia però un analogo retroterra sociale: anche nelle arretrate comunità agricole dei mestečka ebraici era ancora vicino e vivo un ricco patrimonio folkloristico e religioso, dal quale non poteva che scaturire un fantastico simile a quello russo, ossia fortemente legato al dato reale.
40
Cfr. S. Aloe, introduzione a F. Dostoevkij, La padrona di casa, Bologna, Re Enzo Editrice, 1998, p. 8.
41
Vedi ibid., p. 11.
42
Cfr. Boris Ejchenbaum, op. cit., p. 272.
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A questo analogo retroterra rimanda anche l’ultimo punto preso in esame per questo confronto testuale: la tipologia del personaggio nella letteratura russa e nella letteratura yiddish. In questo caso il legame tra le due ci è parso tanto lampante quanto solido, ed è rappresentato da una figura centrale in entrambe le culture e nell’immaginario – letterario ma non solo - cui riconducono: si tratta del cosiddetto “piccolo uomo”, il
malenkij čelovek russo e il kleine menschele ebraico. La letteratura russa comincia ad occuparsi dell’uomo modesto e del suo mondo interiore fin da Puškin, che con il suo impiegatuccio de Il cavaliere di bronzo (Mednyj
vsadnik) inaugura quello che si rivelerà un vero e proprio filone tematico. Il primo a raccogliere il testimone è Gogol’: nel suo mondo al contrario gli umili assurgono al rango di grotteschi eroi, taciturni scrivani come Akakij Akakievič o impiegati ministeriali come il protagonista de Il diario di un pazzo (Zapiski
sumasedsevo), del tutto privi dei crismi canonici (romantici) dell’eroismo, si ritrovano al centro della narrazione. Ad un livello superficiale si coglie la loro elezione a protagonisti come un mero pretesto comico. E’ innegabile però anche una profonda empatia da parte di Gogol’ con questi suoi personaggi. Nel corso dell’Ottocento questo controverso amore nei confronti del popolo si risolve in diverse gradazioni di piccoli uomini, dallo spiantato studente di Dostoevskij all’umile contadino di Tolstoj (ricordiamo che l’abolizione della schiavitù nel 1861 aveva segnato un passaggio importante per tutta la classe intellettuale, che più di prima comincia ad interessarsi alla questione contadina). Tolstoj ammira la semplicità del volgo, e conferisce alla “base della piramide” sociale un ruolo capitale nei meccanismi che muovono la storia: professa di “опроститься”, diventare semplici, abbassarsi per avvicinarsi alla verità. Dostoevskij ha una posizione diametralmente opposta: vuole che sia il popolo ad innalzarsi, non il contrario. Il suo antieroe è meno ancora che umile: è gretto, non produce ammirazione43, ciò nondimeno è l’indiscusso protagonista di molti suoi lavori.
43
Cfr. George Steiner, Tolstoj o Dostoevskij, Milano, Garzanti, 1995, p. 221: “Le Memorie (Le Memorie del sottosuolo; N.d.A.) utilizzano in modo nuovo la categoria del non-eroico. [...] Gogol’ e Gončarov hanno fatto del protagonista non-eroico una figura simbolica della Russia contemporanea. Ma Dostoevskij è andato oltre. Il suo narratore non si limita a ispirarci un senso di degradazione e di auto-disgusto: è sinceramente odioso.”
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E’ che l’intellettuale russo vive altrove, quello che opera nella sua scrittura è spesso un esercizio di ravvicinamento ad un mondo che non gli appartiene: Tolstoj è un nobile (una condizione che vive fino all’ultimo in disperato conflitto interiore), Dostoevskij conserva un animo profondamente aristocratico. La distanza, incolmabile ancora per molto tempo (si pensi al senso di disadattamento che ancora proverà Babel’ tra i suoi commilitoni – siamo già oltre la rivoluzione del ’17 - per il solo fatto di essere “uno di quelli con gli occhiali sul naso” 44), è d’altronde percepita dal popolo stesso. Da questo punto di vista nella letteratura yiddish le cose stanno diversamente. Anche quando lo scrittore appartiene ad una classe sociale più elevata (Sholom Aleichem ad esempio, parallelamente alla sua vita da scrittore, conduceva un’esistenza da ricco uomo di borsa –che finì in disastro finanziario), è lo stesso popolo dei villaggi ebraici a sentirlo spiritualmente vicino (per Aleichem era perfino invalso l’uso, presso le famiglie, di dare una lettura dei suoi racconti come parte della festa del Sabato). Nel merito della produzione artistica, un vivissimo sentimento di umanità si avverte nel modo in cui lo scrittore si trova naturalmente sullo stesso piano dei suoi umili personaggi, senza la necessità di un artificioso sforzo di “abbassamento”. Le varianti di questo piccolo uomo qualunque nella letteratura yiddish sono molteplici: il folle saggio (si pensi a Gimpel l’idiota di Singer) o il santo, il vagabondo estatico, il bambino.45
Tevje il lattivendolo di Sholom Aleichem è stato definito l’antieroe per eccellenza, prototipo per tutta una serie di epigoni letterari, al pari di lui statici e riflessivi, eternamente sconfitti dalla vita. Nei suoi confronti è sensibile la
compassione dello scrittore, che secondo Roback pare essere la chiave della sua scrittura: “He constantly pleads the cause of the little man, the person who is never expected to rise above mediocrity, who may possess talents or abilities of which, however, he is not aware, who lacks initiative, stamina and vision.” 46 44
Così lo apostrofa un superiore nel racconto La mia prima vittima: un’oca, contenuto ne L’armata a cavallo.
45
Cfr. I. Howe e E. Greenberg, op. cit., pp.684-685.
46
Cfr. A. A. Roback, op. cit., p. 119-123. Più avanti, nello stesso saggio, il critico opera un’interessante distinzione tra la tipologia di “kleine menschele” che si trova nei tre maggiori autori del periodo classico, Mendele, Peretz e Aleichem. Per Mendele (Dos Kleine Menschele è il titolo di un suo importante romanzo breve) “the little man was a petty and mean individual” che fondamentalmente, dà l’idea di qualcosa di piccolo;
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In ultima analisi, il piccolo uomo di Aleichem diviene qualcosa di più di un (anti)eroe letterario, ben di più di un accidentale protagonista. Abbiamo preliminarmente rilevato l’importanza per questo concetto del retroterra storico che lo ha prodotto: un comunitario senso di fratellanza nei confronti dei vinti della storia, che in Russia si manifestava soprattutto come conseguenza dell’apertura a problematiche sociali, e che nell’ambiente ebraico era in una certa misura già radicato nella reale condizione dell’esistenza collettiva. Ma c’è qualcosa di più, e questa volta è da ricercarsi nel retroterra culturale dei due popoli: il piccolo uomo altro non è che un’emanazione di quello stesso spirito messianico che abbiamo già visto, da altra prospettiva, unire il popolo ebraico e quello russo. Il Chasidismo vedeva la speranza depositata sugli emarginati, gli spostati e gli inetti. Walter Benjamin, vicino a certe posizioni della tradizione chassidica, riponeva nell’omino gobbo della teologia47 la fiducia della redenzione: «è “l’essere in più”, l’essere piccola che dà alla teologia della prima tesi l’opportunità di aprire la speranza del messianesimo al materialismo storico.» 48 Ed è il piccolo, l’Hakatan, colui che permette alla storia di procedere: sarà lui che aprirà la porta all’avvento messianico, e che all’arrivo del Messia svanirà.
per Peretz è il metafisico o mistico “homunculus”; per Aleichem invece è un uomo dalle capacità limitate, non di eroica statura ma che potrebbe avere un grande cuore, “merely a cog in the wheel which makes the world go round.” (Ibid, p. 124.) 47
Cfr. W. Benjamin, op. cit., p. 21.
48
Cfr. Paolo Consigli, Ricomporre l’infranto. Walter Benjamin e il messianesimo ebraico, in Aut Aut n. 211-212, Gennaio - Aprile 1986, pp. 5-10.
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ISAAK BABEL’ NEL MONDO YIDDISH
“I volti dei vecchi ebrei.
Discussioni in un angolo sul carovita. Io non ci so fare con il breviario. Podol’skij mi aiuta. Al posto della candela un lumino. Sono felice, volti enormi, nasi arcuati, barbe nere con qualche filo d’argento, penso a molte cose, arrivederci, morti. Il viso del vecchio con il pince-nez nichelato. -
Da dove venite, giovane?
-
Da Odessa.
-
Come si vive laggiù?
-
Laggiù la gente è viva.
-
Qui invece è terribile.”49
Questo breve brano è riportato dalla prima giornata del diario che Babel’ tiene dal giugno al settembre del 1920 sulle strade della Volinia e della Galizia, arruolato nella prima armata di cavalleria durante la guerra russo-polacca. Il breve scambio di battute e la descrizione delle sue impressioni ci danno fin da subito un’idea del rapporto di nostalgia e distacco che lo scrittore russo mantiene con il mondo - reale, non letterario - degli ebrei che incontra sul fronte polacco, e più profondamente con la sua stessa ebraicità. Nel corso del diario questo proclamato legame - in primo luogo sentimentale - affiora a più riprese, ogni qualvolta lo scrittore - giornalista inviato per conto del giornale militare Krasnyj Kavalerist presso il comando di Budënnyj - si trova a descrivere (la parola ricorre con estrema frequenza, a testimoniare un quasi disperato affanno cronachistico) la realtà delle comunità ebraiche sparse nei mestečka della Russia meridionale, testimone del loro ormai inesorabile tramonto. Ci è parso che le note diaristiche redatte dallo scrittore nei suoi spostamenti ci restituissero questo sentire proprio dell’ uomo Isaak Babel’ con più puntualità e con meno mistificazione letteraria di quanto potesse invece
L’armata a cavallo
(Konarmija), che pure andremo ad analizzare: la raccolta di racconti che anche da 49
Da Isaak Babel’, L’armata a cavallo, Diario 1920, traduzione di Costantino di Paola, Venezia, Letteratura Universale Marsilio, 1990, p. 386.
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questo diario prende spunto (a tratti i suoi appunti si rivelano una vera e propria ossatura per una resa romanzata a venire) presenta un fondamentale - anche se non estremo - scarto di prospettiva determinato dall’introduzione di un narratore fittizio, Kirill Vasil’evič Ljutov, che sarebbe scorretto identificare totalmente con l’autore. Efraim Sicher ha giustamente scritto a proposito che “Lyutov is a composite figure who actually never fully develops, but remains a fictional persona used with irony by the implied author as an intermediary eye.”50 Oltre a una trasfigurazione poetica delle cose vissute in prima persona dallo scrittore, interviene infatti nell’io narrante una trasfigurazione ideologica – che a tratti rivela la sua inconsistenza - solo parzialmente giustificata da un reale conflitto psicologico interiore: nell’immediatezza degli appunti il senso di fratellanza che il contatto con gli ebrei polacchi gli procura non ha il tempo di risolversi nell’artefatta presa di distanza e nell’attenuata “nostalgia lirica” che si respirano invece nella raccolta pubblicata tre anni dopo. Ljutov (il nome era stato usato dallo stesso Babel’ per arruolarsi) presenta quindi un punto di vista che non è necessariamente sempre quello dell’autore 51, a causa di un’effettiva differenza di posizione, ovviamente più articolata e complessa nel caso di Babel’: come rileva Simon Markish nel suo saggio, infatti, “l’autore dell’Armata a cavallo sta al di sopra del suo eroe. Nonostante l’estraneità egli è inserito in entrambi gli elementi: nel vecchio e nel nuovo, in quello ebraico e in quello sovietico.”52 Questa è più che una semplice sfumatura, che l’appello al diario dello scrittore odessita, posto non a caso in apertura, aiuta a chiarire fin dal principio: riguardo l’ebraicità di Babel’, che ne L’armata a cavallo si presenta in controverso e irrisolto gioco di equilibrio con le istanze della rivoluzione, non vi sono altrettante indecisioni da parte dello scrittore stesso, che anzi, pur vivendone sulla propria pelle tutte le 50
Cfr. E. Sicher, Style and structure in the prose of Isaak Babel’, Ohio, Slavica Publisher, 1986, p. 12. Nella stessa pagina aggiunge: “There appears to be a similarity of aesthetic temperament between the author of the Diary and the narrator of Red Cavalry, but one cannot identify Lyutov with the author.” 51
Cfr.. Simon Markish, Isaak Babel’, in Efim Etkind, Georges Nivat, Il'ja Serman, Vittorio Strada, Storia della letteratura russa, Torino, Einaudi, 1989, p. 502-503: qui si nota come, nel racconto L’ebreo Gedali, nella polemica tra il narratore e Gedali Babel’ risulti più vicino al vecchio ebreo, le cui lodi del Chasidismo, di contro alla strenua fedeltà alla rivoluzione manifestata da Ljutov, “hanno la forza di persuasione di un giudizio dell’autore.” 52
Ibid., p. 504.
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problematiche sottese, la rivendica più o meno esplicitamente nel corso della propria vita, e la rivela – questo è ciò che è più rilevante ai fini che si propone questo lavoro - nell’esercizio della scrittura, nei suoi racconti appunto. Nelle altre sue opere di narrativa breve di ambientazione ebraica (quindi soprattutto nei Racconti di Odessa (Odesskie rasskazy) e, in diversa maniera, nei racconti del cosiddetto “ciclo autobiografico”) questo è forse ancora più evidente: anche se i soggetti sono in buona parte inventati, l’autore è qui meno preoccupato dalla necessità di soppesare in ogni momento sinceri richiami alle sue radici, perdute o meno che siano (all’epoca di Storia della mia colombaia - Istorija moej golubjatni e di Primo amore – Pervaja ljubov’ - del mondo ebraico di cui scrive Babel’ è sempre più difficile trovare tracce). Quando
dichiarata
esplicitamente,
quando
più
sfumata,
quando
ancora
strumentalmente nascosta, questa prossimità del mondo ebraico e della sua cultura alla sensibilità di Isaak Babel’ (nonostante l’ufficiale presa di distanza dichiarata dall’autore stesso, fatta solo per dare buone credenziali al potere sovietico 53) è a conti fatti innegabile. Ciò che a noi altresì sembra, e che intendiamo proporre con questo lavoro, è che la presenza di caratteri peculiarmente ebraici si palesi nei suoi stessi scritti, nei suoi personaggi e nelle vicende che racconta (per le quali comunque, come si è intuito, non è possibile prescindere - quanto invece si è fatto con Sholom Aleichem dalla vita dello scrittore), e questo accade in maniera particolarmente significativa laddove Babel’ si fa importante rappresentante della letteratura russa. Doveroso sottolineare a questo punto come non gli sia proprio solo un tanto preponderante quanto vago “sentire” ebraico, uno spirito determinato da un contrastato sentimento di appartenenza (contrastato perché contraltare di un altrettanto forte sentimento di sradicamento), che si formalizza nella focalizzazione sul mondo ebraico in genere da un punto di vista tematico: si possono rintracciare anche, nel merito dei suoi racconti, aspetti formali che – come accadeva da direzione contraria con Sholom Aleichem - annullano fattivamente la suddetta distanza, avvicinando in ultima analisi alla letteratura yiddish - e alla cultura ebraica nel cui alveo questa si pone - la letteratura e la cultura russe. 53
Cfr. E. Sicher, Jews in Russian literature after the October revolution, cit., p. 73: Sicher, riferendosi alla “avtobiografija” di Babel’ significativamente ne parla come “a brilliant piece of mystification.”
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Abbiamo detto che Babel’, ebreo nato in Russia trent’anni dopo Aleichem, prende rispetto allo scrittore yiddish una strada diametralmente opposta. Questo accade in primo luogo per quanto riguarda la lingua letteraria. I motivi del rifiuto dell’ebraico e dello yiddish - ossia, rispettivamente, la lingua familiare ad ogni ebreo da quando comincia a frequentare i testi sacri, e la lingua vernacolare degli ebrei dell’Europa dell’est54 - e la scelta della lingua dei “goyim” (i “gentili”, i non ebrei), sono stati da più parti individuati essenzialmente nel tentativo di fuggire dal ghetto e nella volontà di volgersi, attraverso la Russia, all’Occidente e all’Europa55. In realtà bisogna dire che è improprio parlare di “scelta” in riferimento all’uso da parte di Babel’ del russo anziché dello yiddish. Come rileva molto bene Efraim Sicher infatti, “for Babel’ Russian was not a conscious choice, but the natural environment in which he had grown up.”56 Questo ambiente cui fa riferimento Sicher è Odessa, importante capitale dell’ebraismo dell’Europa Orientale dove dalla prima metà dell’Ottocento l’Haskalah trova terreno fertile e dove il russo è dominio soprattutto dell’intellighenzia e della borghesia ebraiche (come d’altronde anche a Kiev e a Pietroburgo: all’inizio del Novecento il russo può ben dirsi “un’altra lingua della diaspora ebraica” 57), popolata ai tempi di Babel’, oltre che da ebrei, da greci, rumeni, polacchi e tedeschi. Babel’, com’era naturale per ogni ebreo, fu educato allo studio dell’ebraico, dello yiddish, della Bibbia e del Talmud. Ma era il russo la sua lingua nativa. Ciò nonostante, anche al di là di prette considerazioni biografiche su una peraltro considerevole vicinanza al mondo della letteratura yiddish (a Odessa conobbe Mendele; in tarda età tradusse Sholom Aleichem e lavorò intensamente sulla sua opera; scrisse una sceneggiatura cinematografica ispirata a Stelle erranti di Aleichem; spese gli ultimi anni della sua vita a leggere e tradurre yiddish solo per
54
Nell’introduzione a Menachem Mendel di Sholom Aleichem Daniela Leoni parla dello yiddish come “la lingua in cui un autore ebreo pensa anche quando scrive in ebraico.” (Sholom Aleichem, Menachem Mendel, cit., p. IX.) 55
Cfr. Renato Poggioli, introduzione a Isaak Babel’, I racconti, cit., p. 11.
56
E. Sicher, Jews in Russian literature after the October revolution, cit., p. 71.
57
Simon Markish, op. cit., p. 499.
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piacere), rilevanti interferenze della lingua yiddish pesano proprio sul suo inimitabile e ammirato modo di usare la lingua russa. Si consideri ad esempio la resa della lingua parlata, con tutto il relativo florilegio di locuzioni, di proverbi, di modi di dire, anche di espressioni gergali. La letteratura yiddish si costruisce naturalmente sul parlato: come già rilevato, questa è una caratteristica sostanziale della lingua stessa, che è il primo veicolo di scambio orale tra gli ebrei est-europei di ceto medio basso. Babel’ a sua volta nell’uso del cosiddetto skaz è molto abile. Ma ciò non è da addebitarsi solo alle innegabili influenze dello yiddish: soprattutto, lo scrittore nella pratica di questa tecnica si fa continuatore e rinnovatore di quello che abbiamo visto essere un importante filone stilistico della letteratura russa. Lo skaz di Babel’ ne L’armata a cavallo, in rapporto di costante e consapevole contrasto58 con passaggi decisamente più liricheggianti, nel conferire un colore caratteristico al mondo dei soldati segna contemporaneamente il profondo distacco da esso.59 Nel racconto Lettera (pis’mo) l’autore imita con estrema maestria uno skaz soldatesco, usando il pretesto della trascrizione di una lettera di un soldato per renderne sulla carta la parlata: si coglie nel continuo ripetersi dell’invocazione “Carissima mamma”, nell’uso di formule popolari come “Umilmente vi saluto, bianco viso all’umida terra” (da una poesia popolare) o di saporite imprecazioni come “Buona lana, cane rosso, figlio d’una cagna...”60, perfino di veri e propri errori grammaticali. L’espediente letterario della riproduzione di uno scritto altrui torna anche altrove, ad esempio nei racconti Un po’ di sale (Sol’) e Seguito della storia di un
cavallo (Prodolzhenie istorii odnoi lošadi), dove accanto a uno skaz naturalmente infarcito di espressioni popolari, Babel’ inserisce formule indotte nella parlata della 58
Sicher in Style and structure in the prose of Isaak Babel’ (cit.) rileva l’importanza stilistica del gioco di contrasti nella poetica di Babel’, (aperto/chiuso, dentro/fuori, io/noi, staticità/dinamismo, buio/luce), che rimandano ad altrettanti rapporti di significanza. 59
rilevo a proposito un appunto di Simon Markish, che nel suo saggio su Babel’ misura una differenza tra lo skaz di Babel’ e lo skaz di Leskov: mentre in quest’ultimo la tecnica assume una funzione “mimetica” di avvicinamento dell’autore al narratore, in Babel’ l’uso dello skaz è “spesso correlato all’amore, all’incomprensione e alla paura” nei confronti dei compagni di lotta e della guerra. (Cfr. S. Markish, op. cit., p. 504.) 60
Le citazioni sono tratte da Isaak Babel’, Lettera, in Isaak Babel’, I racconti, cit., pp. 36-41.
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gente dalla propaganda politica (documentando così un fenomeno che effettivamente interessava il linguaggio dei ceti bassi della popolazione nella decade postrivoluzionaria): “E noi combattenti del secondo plotone, giuriamo dinanzi a voi, caro camerata redattore, e a voi tutti, cari camerati della redazione, di agire senza pietà verso tutti i traditori che ci tirano nella fossa...” 61, e ancora “Ed a voi, camerata Savickij, come ad un eroe mondiale la massa lavoratrice del contado di Vitebsk [...] invia il grido proletario: «Dacci la rivoluzione mondiale!»”62 In ogni caso anche dove fa uso di questa tecnica l’autore non rinuncia a intervenire con il suo stile, talora anche scavalcando il narratore Ljutov: indicative in questo senso sono le metafore liriche (ad esempio ancora in Un po’ di sale: “la bella notte si distese come un padiglione. [...] Il pensiero volava come un uccello” 63) non certo attribuibili agli autori di questi scritti, e più in generale la rivisitazione letteraria che l’autore opera sui dialettismi dei cosacchi e dei contadini – ucrainismi e russismi meridionali – per renderli intelligibili al lettore russo (a differenza di quanto facevano ad esempio Serafimovič e Pil’njak, riproducendo l’incomprensibilità). Questo non è da intendersi come un errore nell’applicazione dello skaz, ma come una voluta dissimulazione che produce un distacco ironico dal linguaggio dei soldati e dal loro mondo brutale. Significativo è lo skaz usato da Babel’ ne I racconti di Odessa, per i quali pure risulta particolarmente difficile stabilire dove finisca la stilizzazione autoriale e dove comincino invece reali interferenze linguistiche. 64 Prima dell’”ucrainizzazione” di Odessa del 1926 e la definitiva distruzione di quell’ambiente cosmopolita durante l’occupazione fascista, nella città – importante porto sul Mar Nero - diverse lingue (soprattutto yiddish, russo, ucraino) si incontravano e si fondevano nel cosiddetto odesskij žargon (letteralmente, “gergo odessita.”)65 61
Isaak Babel’, Un po’ di sale, in I racconti, cit., p. 118.
62
Isaak Babel’, Seguito della storia di un cavallo, in I racconti, cit., p. 153.
63
Isaak Babel’, Un po’ di sale, cit., p. 116.
64
Cfr. E. Sicher, Style and structure in the prose of Isaak Babel’, cit., p. 77: “One cannot rule out the likelihood that Babel’ was not averse to distorting borrowed forms for his own purposes and adding new semantic dimension to the surface text through morphological and lexical shifts.” 65
Viktor Šklovskij, rilevando questa peculiarità linguistica, formulò la teoria di una tradizione letteraria odessita separata da quella russa, teoria che dovette ritirare a seguito degli attacchi dei puristi critici stalinisti, fedeli al
27
Babel’ ne fa un ampio e abile uso, accanto a più specifici yiddishismi, nell’aforistico e iperbolico linguaggio de I racconti di Odessa, modellato sulla struttura di proverbi yiddish, detti e espressioni idiomatiche: “Se il cielo fosse provvisto di anelli, voi agguantereste questi anelli e tirereste il cielo verso la terra” dice il narratore di Gente di Odessa rivolto a Babel’. E il protagonista, più avanti: “E finiamola di impastare farina su una tavola lucidata.” 66 I dialoghi presentano una costruzione usuale dello yiddish, ad esempio nell’uso del riflessivo (che caratterizza anche la parlata del vecchio ebreo Gedali, nell’omonimo racconto de L’armata a
cavallo). Gente di Odessa (il secondo dei quattro racconti di Odessa) si presenta come un dialogo tra l’autore (Babel’ stesso) e il narratore della storia, Reb Arye-Leib. Questo ci porta ad un’altra analogia con la letteratura yiddish, questa volta di ordine strutturale: secondo Efraim Sicher il vecchio Arye-Leib avrebbe potuto essere uno degli interlocutori di Sholom Aleichem 67. In effetti il racconto procede secondo un ritmo e un’intonazione tipicamente yiddish, fatta di continue interiezioni volte a richiamare l’attenzione dell’ascoltatore - e al contempo del lettore - (“Ora ascoltatemi bene, ficcatevi le mie parole nelle orecchie: perché parlerò come parlò il Signore sul Sinai, dal cespuglio ardente.”68), e di continue domande retoriche della voce narrante. Sicher trova proprio in questo analogie con il retroterra culturale ebraico di Babel’, in particolare con i discorsi talmudici, che a loro volta procedono secondo il tortuoso succedersi di domande che rispondono ad altre domande. 69 Babel’ riprende, rinnovandolo, un altro filone importante nella letteratura russa e al contempo – come abbiamo visto - fondante in quella yiddish: quello del racconto breve. Quando Babel’ scrive, negli anni ‘20 del XX secolo, la tradizione russa del racconto breve è già consolidata: parte dai Racconti di Belkin (Povesti Pokojnogo dogma di una monolitica letteratura russo-sovietica. 66
Isaak Babel’, Gente di Odessa, in I racconti, cit., pp. 207-208.
67
Cfr. E. Sicher, Jews in Russian literature after the October revolution, cit., p. 85.
68
Isaak Babel’, ibid., p. 215.
69
Cfr. E. Sicher, ibid., p. 84.
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Ivana Petroviča Belkina) di Puškin, e dalle raccolte di Gogol’, passa attraverso la grande stagione del romanzo della seconda metà dell’Ottocento, per approdare a Čechov ormai quasi alle soglie del Novecento. Proprio a Čechov è stato spesso accostato Babel’, non solo per la forma breve dei suoi scritti, ma anche per il particolare senso di distacco temporale e spaziale (anche dove la visione è più immediata e il taglio è epico-eroico) che rende la passione controllata da un costante ordine armonico. Può risultare limitante, perlomeno per i racconti contenuti ne L’armata a cavallo e per i quattro racconti di Odessa, parlare semplicemente di racconto breve, dal momento che secondo un preciso disegno dell’autore questi racconti si trovano inseriti in una contestualizzazione di più ampio respiro. In particolar modo ne
L’armata a cavallo è percepibile una dialettica strutturale e tematica che unisce tra di loro le varie storie, per la quale è centrale il punto di vista dell’intellettuale ebreo alienato. E’ anche vero però che queste storie sanno vivere anche di vita propria, e non perdono del loro significato, nella misura in cui anche prese a sé sono forti di un’indubbia “drammaturgia interna”, una compiutezza che giustifica l’appellativo di “miniature” coniato dalla critica sovietica. Comunque spesso, soprattutto nei racconti de L’armata a cavallo, la trama sembra quasi non contare, l’autore pare “accontentarsi” di bozzetti non sviluppati, senza climax o conclusione: di solito la trama principale si focalizza su un evento, una “čechovian slice of life, a single event in the protagonists’ lives which illustrates their mentality and historical milieu.”70 Questo conferisce ai “tranci di vita” immortalati dall’autore una sorta di valore assoluto, avvicinandoli in questo modo tanto ai racconti di Čechov quanto – forse perfino in misura maggiore - alla letteratura yiddish e ai suoi tipici quadri. A dare struttura intervengono espedienti diversi, di tipo stilistico e semantico: connessioni paratattiche tra i paragrafi, ripetizioni, giustapposizione (secondo il già indicato gioco di contrasti) di frasi lunghe e corte, di asciutta cronaca giornalistica e di digressioni in prosa lirica.
70
Cfr. E. Sicher, Style and structure in the prose of Isaak Babel’ , cit., p. 96. Più avanti, nella stessa pagina: “Babel’s stories may happily stand on their own, even if as vignettes or sketches.”
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Si consideri il primo racconto di L’armata a cavallo, Il guado dello Zbruč (Perechod cerez zbuč), un chiaro esempio di come la paratassi e la conseguente fusione di lirico e tragico bastino da sole a trasmettere una forte tensione drammatica: “Il comdiv n. 6 ha riferito che Novograd-Volynsk è stata presa oggi all’alba. Lo stato maggiore è uscito da Krapivno. [...] Campi di papaveri scarlatti fioriscono intorno a noi: il vento di mezzogiorno scherza tra la segale giallognola e il granturco virginale sale all’orizzonte. [...] L’odore del sangue di ieri e dei cavalli uccisi gocciola nella frescura vespertina. [...] Il fiume è costellato dei neri quadri delle carrette, e si riempie di fracasso, di fischi e di canzoni, che rintronano lungo i serpenti lunari ed i fossati luccicanti.”71 E’ difficile dire in che misura, tanto per questa sua caratteristica brevità quanto per il suo particolare uso dello skaz, l’opera di Babel’ sia un prodotto di queste tradizioni di discendenza eminentemente russa, e in che misura invece intervengano le già individuate influenze yiddish. Preferiamo pensare, in coerenza al dato biografico dello scrittore, che la sua opera vada a collocarsi proprio in quel territorio di mezzo dove le due culture si incrociano, e che la sua ispirazione – com’è ovvio, profondamente imponderabile trovi origine sia nel suo essere russo che nel suo essere ebreo. Tuttavia l’ultimo aspetto della poetica di Babel’ qui preso in esame denuncia specialmente il forte filo diretto con la sua ebraicità: il suo rapporto letterario con la religione. La prosa di Babel’ è ricca di riferimenti e allusioni alla Bibbia, ai profeti, a ciò che Steiner ha chiamato la “patria testuale” (textual homeland) del mondo ebraico. 72 Proprio come la letteratura yiddish est-europea, che è inconcepibile senza riferimenti intertestuali alle Sacre Scritture, al Talmud e alla poesia medievale. In Gente di Odessa (Kak eto delalos v Odesse ) Babel’ adatta un discorso della Midrash (omelia, interpretazione biblica) e lo mette in bocca al bandito Benja Krik, che con “il sole sulla testa come una sentinella col fucile”, recita una memorabile orazione funebre73. 71
Isaak Babel’, Il guado dello Zbruč, in I racconti, cit., p. 29.
72
Citato in E. Sicher, Jews in Russian literature after the October revolution, cit., p. 85.
73
Cfr. E. Sicher, Jews in Russian literature after the October revolution, cit., p.85: “Benia «the King» speaks from on high like Moses, complaining to God about the conditions of Jews in Russia.”
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Ne L’armata a cavallo questo vivo senso di religiosità si avverte nella forma di allusioni alla ritualità ebraica (ad esempio nel racconto La mia prima vittima: un’oca (Moj pervyj gus') l’uccisione dell’animale è vissuta come un vero e proprio rito iniziatico, con inevitabile spargimento di sangue innocente), nel dialogo costante con Dio, perfino nella più brutale esperienza della violenza che, come spesso accade in Babel’, ha espliciti richiami sessuali (notiamo per inciso come dalla rinascita spirituale ebraica – determinata in questo caso dal Chasidismo - sia venuta anche la stretta connessione tra la religiosità sia intima che collettiva e la sessualità). Si pensi all’ebrea incinta del primo racconto di L’armata a cavallo, che secondo Sicher “carries in her womb a Marianic emblem of messianic hope” 74, o al Gesù del racconto Pan Apolek, che giace con una donna per misericordia nei suoi confronti. Lo stesso protagonista de L’armata a cavallo, Ljutov, porta su di sè I segni di un’interpretazione cristologica: “He may be placed in the Jewish tradition of Elijah the prophet who, it is believed, will return to herald messianic times that will bring peace and justice to the world.”75 Tutti questi sono segnali di un retaggio culturale non del tutto perduto, ancora presente in Babel’ –e visibile da sotto la filigrana di un’altra cultura, quella storicamente dominante, quella russa. Ne sia testimonianza definitiva un’illuminante annotazione del Diario 1920, datata 5 giugno, a Žitomir, con cui il nostro confronto si chiude:
“Conversazione con gli ebrei, la mia gente, loro pensano che io sia russo, e mi si apre l’anima.”
76
74
Cfr. E. Sicher, Style and structure in the prose of Isaak Babel’, cit., p. 93.
75
Cfr. E. Sicher, Jews in Russian literature after the October revolution, cit., p. 55.
76
Da Isaak Babel’, L’armata a cavallo, Diario 1920, cit., p. 390.
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CONCLUSIONE
La scelta di questi due scrittori per il lavoro comparatistico è stata determinata soprattutto
dallo
spessore
della
loro
produzione
letteraria,
che
li
rende
particolarmente rappresentativi delle due letterature di appartenenza (e allo stesso tempo, come accade per i grandi artisti, non riducibili unicamente ad esse), e che soprattutto ne fa dei casi emblematici ai fini della tesi che qui si propone. Sholom Aleichem e Isaak Babel’ non costituiscono però dei casi limite, isolati.
Da Aleichem in poi abbiamo diversi esempi di letterati ebrei nati in Russia che scelgono di scrivere in yiddish. Già sotto il regime sovietico questa letteratura prese una strada peculiare e distinta rispetto ai rami polacco e americano: il primo rimase per lo più legato alla lezione dei “padri” classici, il secondo raccolse la letteratura dell’emigrazione, soprattutto dopo l’olocausto nazista, e restò a lungo la maggiore roccaforte della letteratura yiddish.77 In Russia dopo la caduta dell’impero zarista gruppi letterari yiddish si svilupparono in tutto il paese: importanti centri furono Mosca, Minsk, Kiev e Char’kov, e attorno alla rivista Shtrom (La corrente) di Mosca crebbe una tendenza cosmopolita che apriva l’esperienza russa a Varsavia, Berlino e New York. Questa fioritura, inizialmente sostenuta anche dal partito (che leggeva nella lingua yiddish un’espressione del vernacolo popolare, e osteggiava invece l’ebraico), negli anni Trenta conobbe le stesse limitazioni che a tutta la letteratura russa furono imposte dal realismo socialista di regime. Questo decretò l’isolamento della letteratura yiddish dal resto del mondo. Ma furono più d’una le interessanti personalità che fecero la loro comparsa in questo tempo, fino alla fine degli anni Trenta. Ricordiamo David Bergelson, che diresse il gruppo di Kiev e finì i suoi giorni in un Gulag in Siberia, Moishe Kulbak, che dipinse con taglio satirico la realtà dei villaggi ebraici dopo la rivoluzione (e fu per questo fatto sparire dal regime), 77
Cfr. I. Howe e E. Greenberg, op. cit., p. 708-715.
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Abraham Reisen e Jonah Rosenfeld, che - come Sholom Aleichem molti altri ebrei russi - emigrarono negli Stati Uniti. In graduale ma inesorabile declino, la letteratura yiddish in Russia finì con lo spegnersi definitivamente durante la seconda guerra mondiale. 78
Sull’altro versante, la cosiddetta letteratura russo-ebraica ha una storia che precede Isaak Babel’ e che non si esaurisce con lui. Già dalla seconda metà dell’Ottocento, da una parte per il desiderio di emancipazione su cui ebbero un grande peso i movimenti modernisti già citati (soprattutto l’Haskalah) e la conseguente apertura al mondo di fuori dei mestečka, dall’altra per le ingerenze del governo russo nella vita degli ebrei (in particolare per quanto riguarda l’istruzione: il russo veniva introdotto negli istituti ebrei tradizionali), la lingua yiddish comincia a non essere più il solo mezzo di espressione per i letterati ebrei. Osip Rabinóvič, L. Levánda, G. I. Bogrov, S. Án-skij produssero in russo una letteratura “di ebrei per ebrei”, con tematiche soprattutto inerenti alla reale situazione ebraica. Ancora, la cifra distintiva della produzione letteraria di altri ebrei russi come Ben Amì, A. Sóbol, S. O. Jarošévskij, Semën Solomonóvič Juškévič e N. M. Mínskij erano la nostalgia e il senso di smarrimento che abbiamo già trovato in Babel’ (che pure usciva da quest’alveo). 79 Dopo Babel’, due scrittori per i quali il legame con le origini ebraiche è sempre più flebile sono Osip Mandel’Štam e Boris Pasternak: la loro appartenenza al mondo ebraico è ormai definitivamente sostituita da quella che li lega alla Russia e alla sua cultura.80
78
Cfr AA. VV., идиш литература, in Электронная еврейская энциклопедия, КЕЭ, том 2, кол. 644–664. 79
Cfr. Simon Markish, op. cit., p.498-499.
80
Cfr. Danilo Cavaion, La letteratura russo-ebraica, in Michele Colucci e Riccardo Picchio, Storia della civiltà letteraria russa, Torino, Utet, 1997, pp. 679-685.
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