Per una bibliografia delle opere musicali di Vito Giuseppe Millico

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UNIVERSITA' DEGLI STUDI DI VERONA FACOLTA' DI LETTERE E FILISOFIA CORSO DI LAUREA IN SCIENZE DELLA COMUNICAZIONE: EDITORIA E GIORNALISMO

PER UNA BIBLIOGRAFIA DELLE OPERE MUSICALI DI VITO GIUSEPPE MILLICO

RELATORE CH. mo prof. Giancarlo VOLPATO CANDIDATO Luigi VENDOLA VR 032917

Anno Accademico 2005-2006

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INDICE.

QUASI UNA INTRODUZIONE.

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BIOGRAFIA.

pag. 6

MILLICO PELLEGRINO ATTRAVERSO LA PENISOLA.

pag.20

LA RIFORMA DEL MELODRAMMA E MILLICO.

pag. 29

IL COMPOSITORE MILLICO.

pag. 31

BIBLIOGRAFIA

pag. 44

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QUASI UNA INTRODUZIONE. Oggetto di questa ricerca è Vito Giuseppe Millico, eccellente musicista della seconda metà del secolo XVIII del quale poco si sa e si conosce e sul quale esiste una unica bibliografia redatta dallo storico don Gaetano Valente e pubblicata nel luglio del 19851. La scelta di V.G. Millico non è del tutto causale, in quanto questo nome riecheggia sin dalla mia infanzia per le strade, per i vicoli e nei palazzi del mio paese. A Terlizzi il su nome è sulla bocca di tutti, tutti sanno dove abitava, tutti sanno qual era il suo mestiere, tutti sanno dell’esistenza di un teatro a lui intitolato, addirittura hanno ribattezzato la scuola elementare San Giovanni Bosco in “la Millico”, ma purtroppo nessuno sa chi fosse realmente, nessuno immagina l’influenza che ebbe nel melodramma che ha fatto grande l’Italia. Il mio primo contatto con V.G. Millico è avvenuto nell’estate del 2005 durante l’ennesimo viaggio di “piacere” in quel di Londra dove, dopo le insistenti richieste di mio padre, mi decisi a far visita alla British Library per dare “un’occhiata”. In realtà non sapevo cosa cercare o cosa avrei trovato ma soprattutto non sapevo come cercare, l’unico mio indizio era un nome e una fotocopia di un vecchio catalogo del British Museum. Dopo una settimana di problemi, dubbi, imprevisti, dopo aver visionato chilometri di microfilms e respirato polvere secolare, uscì da quel posto con molte certezze, con centinaia di fotocopie e con il portafoglio alleggerito. Le certezze riguardavano la figura e la vita del mio compaesano, iniziavo a capire cosa era stato, le centinaia di fotocopie rappresentavano tutto (ma di questo non ne sono totalmente certo) il patrimonio della British Library su Millco e mi resi anche conto di quanto costi mantenere una biblioteca efficiente come quella londinese (solo per fare un esempio una fotocopia di un libro manoscritto su formato A3 costa £ 1,50 che equivalgono a € 2,30!). Dopo quel primo timido impatto con la ricerca bibliografica, decisi di verificare se nella Biblioteca Comunale del mio paese ci fosse altro materiale su questo illustre personaggio, tutto quello che il bibliotecario mi mostrò, erano fotocopie di qualche manoscritto e una copia del libro di don Gaetano Valente intitolato “Vito Giuseppe Millico” e niente più. Allora decisi che sarebbe stato affascinante scavare tra montagne 1

Gaetano VALENTE, Vito Giuseppe Millico, Radio Florlevante, Molfetta 1985.

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di lettere, manoscritti o altro per scoprire cosa e chi realmente era Vito Giuseppe Millico e restituire alla cittadinanza il ricordo e le opere del “piĂš grande sopranista di tutti i tempiâ€? a detta dei suoi contemporanei.

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BIOGRAFIA. La ricostruzione della vita di Vito Giuseppe Millico non è cosa semplice. Fino alla metà del secolo XX tutti coloro che si cimentarono nella ricostruzione della biografia di Millico o fallirono o riuscirono a ricostruire piccolissimi periodi della sua vita. Il primo a cimentarsi fu l’avvocato (sempre terlizzese) Fortunato Tempesta che nell’affannosa ricerca riuscì ad approdare che ad un solo elemento biografico, quello della nascita, ma anche questo si rivelò errato in quanto fu tratto in inganno da una postilla riportata in calce da un atto di battesimo, in cui lesse il nome di un certo Giuseppe Domenico Antonio, figlio di Matteo Millico, natio di Acquaviva. La postilla, vergata in epoca di molto posteriore indica infatti quel bambino come il futuro «celebre professore di musica», mentre l’atto di battesimo riporta la data del 22 novembre 1693. Non mancò infatti chi lo volle nato a Napoli o addirittura a Milano, senza parlare poi della data di nascita che varia dal 1693 al 1739. A far luce su secoli d’oblio fu M. Bellucci-La Salandra, autore di uno Studio critico sui musicisti in Puglia, con un articolo apparso nel 1950 sulla rivista Archivio storico pugliese. Il Bellucci-La Salandra ebbe l’intuizione giusta, nella prima carriera napoletana il Millico fu soprannominato il terlizzese ma conclusasi questa parentesi e dopo un lungo periodo trascorso a San Pietroburgo fu soprannominato il moscovita2. Questo, intanto è il primo punto fermo: Millico il terlizzese ebbe i natali a Terlizzi. E nemmeno sulla data della sua nascita ci sono più dubbi, quest’ultima la si può desumere dall’atto di battesimo sul vol. V, parte III, f 40t. dei registri parrocchiali della Cattedrale di Terlizzi: «a dì venti Gennaio mille sette cento trenta sette Vito 2

Il Bellucci – La Salandra scrive testualmente: «la più antica notizia che possediamo intorno al Nostro è dell’anno 1769. In quell’anno il Grossatesta (…) propose per le due opere d’inverno al Teatro San Carlo (‘ ”Adriano” del Monza e la “Didone” dell’Insanguine), il musico Millico, detto il Moscovita. E’ dal libretto dell’ ”Adriano” del Monza che si rileva il soprannome del Nostro (bibl.. Angelica di Roma – Raccolta Santangelo). Questa notizia è di grande importanza perché il soprannome di “Moscovita” chiaramente ci indica che la prima parte della carriera di questo squisito cantore si sia svolta in Russia, e noi non ne avremmo saputo mai nulla senza questa preziosa indicazione». Inoltre aggiungo che possiamo notare nel libretto “Le Feste di Apollo” musicate dal Gluck e “celebrate sul Teatro di Corte di Parma nell’agosto del 1769 per le nozze tra Ferdinando e Maria Amalia” che ad interpretare il personaggio di “Anfrisio” ritroviamo “il sig. Giuseppe Millico, detto il Moscovita” Per la cronaca il soprannome Moscovita non deriva da Mosca ma bensì da Moscovia ovvero il nome di un Ducato che cessò di esistere nel 1480 quando riuscì a unificare tutto il paese trasformandosi nel Regno Russo; il termine Moscovia è tuttavia rimasto in parecchi dialetti dell’Italia del sud per indicare la totalità del territorio russo.

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Giose(ppe) Sebastiano Donato Antonio figlio legittimo e nat. Di m.o Francesco Millico e di Angela Dom.ca di Chirico coniugi di Terlizzi nato alle 19 di d.o mese ad ore 8, è stato battezzato dal Rev Francesco Lopez con licenza, li ad.ni Michele di Giose(ppe) Rutigliano e Bisanzio di Chirico, l’ostetrica Antonia de Sario».

Della sua infanzia e della prima giovinezza non esiste nessun documento ma è possibile immaginare che non mancavano certo alla sua famiglia le possibilità economiche di dare anche a lui com’era consuetudine, il suo bravo precettore per essere avviato agli studi e questo lo deduciamo dall’atto di battesimo in quanto il nome del padre è preceduto dalla sigla m.o che corrisponde all’appellativo di magnifico. Inoltre possiamo dedurre che il piccolo Millico frequentasse fin dalla più tenera età una scuola di musica, in quanto intorno agli anni 1715-1720 a Terlizzi ne fu istituitauna dal magnifico Gennaro De Paù (1668-1750), mentre ricopriva la carica di sindaco, e la scuola fu finanziata dall’Università (l’equivalente delle nostre amministrazioni comunali) durante gli anni dell’infanzia del Millico. Ma fu a Napoli che maturò la sua vocazione di cantante, era qui nella capitale che confluivano i giovani, generalmente figli di benestanti, per completare e approfondire i propri studi. A Napoli scuole di perfezionamento musicale ce n’erano parecchie in quel tempo, mantenendo l’antica denominazione di conservatori ma perdendo il loro 7


carattere istituzionale (nati nel ‘500 i conservatori erano istituti di beneficenza che si occupavano della raccolta degli orfani e della loro istruzione primaria per poi “specializzarli” in quella musicale) diventando vere e proprie scuole private (nell’accezione moderna del termine) con rette altissime e corsi di studi della durata di otto anni. Il nostro Millico frequentò il Collegio della pietà dei Turchini, qui studiò canto e composizione e riuscì geniale nell’uno e nell’altra. In questo periodo Napoli osannava i grandi cantanti sopranisti come il Farinelli e il Caffarelli e se si voleva seguirli nell’arte e nella celebrità bisognava seguirli anche nel sacrificio: la castrazione3. 3

“Igor Stravinsky, a Papa Paolo VI che gli chiedeva cosa la Chiesa potesse fare a favore della musica, rispose: Santità, restituisca alla musica i castrati”. Sin dall’antichità (Egitto, Assiria, Etiopia e Persia), veniva praticata l’evirazione rituale, così come anche in Grecia e a Roma, dove era consuetudine praticarla ai futuri sacerdoti di Attis e Cibele. Nel XII secolo era molto facile trovare, ad esempio, evirati cantori nelle chiese cristiane d’Oriente. In Europa, più precisamente in Spagna, Portogallo e Baviera, gli eunuchi furono introdotti dalla cultura e dal costume delle popolazioni mozarabiche. E intorno alla fine del Cinquecento, arrivarono eunuchi cantori anche in Italia, a Roma, per essere precisi, dove la eressero capitale di un mondo musicale sacro, ma non solo, che in pochi decenni ne fecero il fulcro intorno al quale ruotarono i grandi compositori ed esecutori del Sei - Settecento. Il soprano castrato, Francisco Soto de Langa, spagnolo, fu il primo ad essere ammesso nella Cappella Pontificia nell'anno 1562. Mentre il primo soprano castrato italiano ammesso nelle cantorie vaticane nel 1588, è Giacomo Spagnoletto. L’uomo senza sesso - il castrato - veniva considerato il mediatore più efficace e diretto tra l'uomo e Dio. E l’Italia fu la sola a dare inizio e corpo all'uso professionale della vocalità dell'evirato cantore, da prima nelle cappelle ecclesiastiche, dove la Chiesa cattolica era la fautrice e promotrice del Canto dell’Eunuco e quindi, della pratica dell'orchiectomia. Peter Browe, gesuita e storico della Chiesa, scrisse nella sua Storia dell'evirazione del 1936: “I papi sono stati i primi che alla fine del XVI secolo hanno introdotto o tollerato nelle loro cappelle i castrati, quando erano ancora sconosciuti nei teatri e nelle chiese italiane. Dopo aver proibito alle cantanti e alle attrici di calcare le scene, dovevano avere completamente perduto il senso della realtà per non rendersi conto che sarebbero stati i castrati ad assumere i loro ruoli. Difendere i papi è dunque impossibile”.Il pontefice Clemente VIII (Papa dal 1592 al 1602) quando ascoltò per la prima volta il castrato Girolamo Rosini (detto Rosino), nato in Umbria ed entrato a far parte del corpo delle cappelle pontificie, correva l’anno 1599, rimase così estasiato dalla soavità del suo canto che, a poco a poco, si sbarazzò dei cantori non evirati per sostituirli definitivamente coi castrati. Da quel momento l’orchiectomia venne ammessa “al servizio di Dio”. L’orribile operazione, con la quale venivano asportati i testicoli, era praticata sui fanciulli di circa otto - dieci anni, e comunque prima che il bambino subisse la ‘muta della voce’. Muta, che abbassava di un’ottava i suoni della voce dandole, com'è naturale, le caratteristiche d’una voce virile. Il risultato di questa operazione dava frutti sorprendenti se considerate che in un uomo ormai adulto, la voce rimaneva fresca, vitale, duttile e penetrabile come quella di un ragazzo. Ma tutto ha un prezzo, e quello pagato dai futuri ‘dei’ del canto era troppo alto. I fanciulli venivano operati in condizioni igieniche che oggi definiremo impensabili e senza anestesia, veniva praticata una profonda incisione all'ano, dalla quale erano tirati fuori il cordone e i testicoli. Ad operare venivano chiamati,soprattutto, i norcini e i barbieri. Ovviamente c’era un’altissima mortalità e per i sopravvissuti, non è detto che il risultato fosse poi una voce che soddisfacesse i requisiti sperati, anzi, sembra che solo l’un per cento arrivasse agli onori e al guadagno facile, diventando ricchi, famosi e osannati da un bagno di folla impazzita, in tutta Europa. Per tutti gli altri, coloro che non riuscivano a costruirsi una carriera, perché la voce risultava comunque sgraziata, per mancanza di passione, di disciplina nello studio, c’era la sola prospettiva di diventare prete, o suicidarsi, oppure, entrare a far parte di uno squallido coro di una qualsiasi parrocchia, consumati dal rancore. Le regioni che si dimostreranno più solerti a fornire alla musica gli evirati, saranno l’Umbria, la Puglia e la Campania. Cfr. Francesco DEGRADA, Studi sulla tradizione del melodramma, Firenze 1979.

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Terminato il suo curriculum nel conservatorio, credette bene di prepararsi convenientemente al debutto nell’arte canora con un buon rodaggio delle sue corde vocali come scriverà egli stesso nell’introduzione dedicatoria di un suo melodramma: “…ero io appena uscito dal conservatorio, quando mi accorsi della cattiva disposizione della mia voce, ne conobbi i difetti, e ne compiansi la qualità…fui abbandonato da tutti i maestri, e quasi disperai di trovar la maniera onde potermi procurare una sorte, che non rendesse pesante la mia vita. Riflettei seriamente alla mia circostanza, e vidi che il solo studio poteva aprirmene agevolmente la vita, onde con tutto lo spirito mi applicai all’acquisto di un mezzo di cui potessi coll’arte supplire alle mancanze della natura. Cominciai ad esercitare la mia voce, e dopo molta fatica mi riuscì di renderla alquanto sonora; presi coraggio, né mi stancai, e da Contralto finalmente potetti diventare Soprano, e raccoglierne tutto quel bene che forma al presente la mia presente tranquillità”4. Appena ventunenne lo ritroviamo già inserito nel cast degli artisti dell’Opera italiana per una lunga turnée, dal 1758 al 1765, nella Russia della zarina Caterina II. All’epoca di Millico a dirigere l’Opera italiana era il noto compositore F. Araja 5 fino al 1761. Il 1760 il Millico cantò nella parte di ”Mirteo” nella “Semiramide riconosciuta”, musica di Vincenzo Manfredini. Dal 13 dicembre del 1760 al 22 ottobre del 1761, cantò nella parte di “Arasse” nelle sette rappresentazioni di “Sirone”, libretto di Metastasio, musicato da Ermanno Federico Raupach ed il 3 giugno del 1762 il melomane Pietro III, per festeggiare solennemente la pace fra Russia e Prussia, fece rappresentare un lavoro adatto alla circostanza “La Pace degli Eroi”6 su libretto (in italiano, tedesco e russo) del poeta di corte Ludovico Lazzaroni, con musica di Vincenzo Manfredini. Nel 1764, nel rimaneggiato “Carlo Magno” di Manfredini, il Millico canta nella parte di “Rinaldo”. E’ probabile che abbia cantato durante l’inaugurazione del Nuovo Imperiale Teatro di Pietroburgo nel 1763. Inoltre durante il suo soggiorno in Russia Millico si distinse anche per un’altra attività che gli sarebbe riuscita abbastanza bene, ovvero l’insegnamento: infatti fu insegnante di canto e 4

Cfr. La pietà d’amore, manoscritto. Francesco Domenico Araja (o Araia, in russo: Арайя) (Napoli, 25 giugno 1709 - Bologna, circa 1770) fu un compositore italiano attivo per 25 anni alla corte imperiale russa: tra le opere da lui scritte per la corte vi è Цефал и Прокрис (Cefalo e Procri), la prima opera in lingua russa. È possibile che egli, nel 1751, abbia composto l'opera Титово милосердие (La clemenza di Tito) su libretto in russo (probabilmente tradotto dall'italiano) del famoso attore e in seguito compositore Fyodor Grigorievich Volkov. 6 Il libretto si trova nella biblioteca pubblica di Leningrado, la partitura è andata persa. 5

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clavicembalo del granduca P. Petrovič. Nel 1765 rientrò nel suo paese natio e questo lo si deduce dal suo primo testamento per mano del notaio Tommaso Taralli7. Dopo il lungo periodo in terra russa non esitò ad affacciarsi sulle scene italiane. Il suo debutto fu al teatro Alibert di Roma, in quella Roma che per i suoi molti titoli e l’antica tradizione musicale esercitata dalla sua critica, rappresentava una vera e propria dittatura sul gusto della musica in Italia. E il trionfo tributato da quel pubblico a il Moscovita, fece sì che fosse scritturato a vita. Questa fu la migliore referenza da cui si fece precedere sui palcoscenici degli altri teatri italiani. Ma era Napoli a fremere di gelosia nei confronti del pubblico romano che si era appropriato del suo idolo. L’impresario Grossatesta non vedeva l’ora di aprirgli le porte del suo S. Carlo, non si lasciò pertanto sfuggire l’occasione al momento opportuno, ricorrendo persino al re per riuscire nel suo intento. Infatti il re, Ferdinado IV, obbligò il suo suddito ad esibirsi nel Teatro Reale per la stagione lirica invernale, i cartelloni di quella stagione programmarono due opere: l’Adriano in Siberia, libretto del Metastasio8 e musica del Maestro Giacomo Insanguine9. e l’Adone dello stesso Insanguine. Prima di esibirsi a Napoli, V. G. Millico non poté fare a meno di accogliere l’invito del Teatro Ducale di Parma. Vi era attratto dal nome prestigioso di Cristoph Willibald Gluck. A questo geniale musicista tedesco, la corte parmense aveva commesso un’opera brillante per la solenne e fastosa circostanza del matrimonio fra il duca Ferdinando Borbone e l’arciduchessa Amalia, figlia dell’imperatore Francesco e Maria Teresa D’Austria. L’opera Le feste d’Apollo andarono puntualmente in scena il 24 agosto del 1769: il raffinato pubblico riunito per l’occasione non risparmiò applausi ed elogi al compositore Gluck e al sopranista Millico che sostenne la parte del protagonista.

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Archivio di Stato di Bari – Sezione di Trani. Pietro Trapassi, meglio conosciuto come Pietro Metastasio, (Roma, 13 gennaio 1698 - Vienna, 12 aprile 1782) è stato un grande poeta e librettista. Foscolo ebbe a definirlo nel Gazzettino del Bel-mondo «...monarca della Tragedia Italiana cantata da Cesari e Catoni non uomini» 9 Giacomo (Antonio Francesco Paolo Michele) Insanguine (Monopoli, 22 marzo 1728 - Napoli, 1 febbraio 1795) fu un compositore, organista e pedagogo italiano. Nella sua epoca era anche conosciuto con il nome di Monopoli. 8

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Fu quella data che segnò la svolta decisiva nell’arte del Millico; i due artisti sopra nominati, accomunati da quel trionfo si conobbero e si compresero, l’uno affascinato dall’arte dell’altro. Gluck propose al Millico di seguirlo a Vienna, dopo il suo impegno napoletano. Infatti nella primavera del 1770 Vito Giuseppe Millico si esibì nel maggiore teatro di Vienna col più celebre dei lavori gluckiani, l’Orfeo10. 10

riporto il giudizio di un critico d’arte apparso sulla « Gazette de Vienne » sotto la data del 9 maggio 1770: “…on a depuis peu remis au Théâatre l’Oprhèe, opéra Italienne, représentée ici en 1762 avec succès, le Sr. Millico, charci du role d’Orphèe l’a rendu de la manière la plus touchante; sa voix est admirable et moeleuse et il met dans son chant toute l’expression possible”.

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Millico rimase a Vienna ospite del suo amico Gluck fino a quasi tutto il 1771, i due misero in scena oltre all’Orfeo anche una nuova opera, Paride ed Elena, anch’essa replicata per tutto il 1771. Verso la fine del 1771 Millico accettò un contratto con il Teatro Ducale di Milano per le stagioni liriche del 1771 e di tutto il 1772. Il programma prevedeva due opere nuove, Il gran Tamerlano del maestro Giuseppe Misliwecek, detto il Boemo, e l’Armida, del maestro Antonio Sacchini. Appena finita l’ultima stagione del 1772, Millico privo di contratto, venne richiamato da Gluck a Vienna e insieme lavorarono alla messa a punto del rimaneggiato Orfeo. Per tutto quel tempo Millico si disimpegnò dai suoi obblighi con la corte per essere scritturato come cantante e come professore di musica per la nipote del sovrano. Agli inizi del 1773 Millico, Gluck e sua nipote Marianna Heldern partirono alla volta di Parigi, qui i gusti del pubblico impedirono al Millico di cantare e Gluck fu costretto a riadattare le sue opere per affidare la parte ad un tenore, infatti i cantanti evirati non godevano delle simpatie del pubblico francese, ma i salotti erano un’altra cosa. Il successo del Millico lo rileviamo dal musicologo G. Desnoiresterres e precisamente da una sua biografia del musicista barese Niccolò Piccinni: «…pare che ad uno di questi banchetti, Gluck facesse sentire per la prima volta il suo Orfeo e Millico che aveva seguito il cavaliere e la giovane Marianna a Parigi, cercava rendere popolare questa grandiosa bella musica… Fu proprio lì che ascoltammo Millico, adoratore spassionato di Gluck, e quasi suo allievo, nella parte di Orfeo che supplica le furie a lasciaresi intenerire dalle sue lagrime e che fino dai primi suoni usciti dalla sua bocca, ne fece ancora versare a noi; Gluck rappresentava, lui solo, la torma inesorabile dei demoni coi loro no terribili » 11. Nella sua sosta parigina, l’unica cosa consentita al Millico erano queste esibizioni salottiere, quindi il Millico si congeda dal suo amico Gluck. Da questo punto in poi, per qualche anno, descrivere la vita di Millico diventa alquanto problematico; secondo Alfredo Einstein in “Gluck – la vita, le opere” del 194612, Vito Giuseppe Millico starebbe nel 1773 rappresentando, a Londra nel Teatro Reale, l’Orfeo (insieme alla signora Girelli-Aguilar e la signora Sirmen), secondo il 11 12

Cfr. Gaetano VALENTE, Vito Giuseppe Millico, Radio Florlevante, Molfetta 1985. Cfr. Alfredo EINSTEIN, Gluck la vita – le opere, Milano 1946.

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Grove “Dizionario della musica e dei musicisti” edizione del 1966 13, il Millico arriverebbe a Londra nella primavera del 1772, dove non riscosse un grande successo ma nonostante tutto riuscì a cantare per due stagioni e cantò nella “Sofonisba” di Vento e nel “Tamerlao”14 di Handel (1773), e continua il Grove, ritornerà a Londra nei primi mesi del 1774 per poi andarsene definitivamente nell’autunno dello stesso anno. Secondo il “Dizionario enciclopedico universale della musica e dei musicisti”, diretto da Alberto Basso15, Millico apparve sulla scena londinese solo nel 1774 (notizia che ritroviamo anche nell’opera di Gaetano Valente). Nel “La musica italiana del settecento” di Roberto Zanoni del 197816, Millico si trasferì a Londra nei primi mesi del 1772 con Antonio Scacchini dove “affrontando insieme al compositore le ostilità dei londinesi e riuscendo poi ad imporsi come interprete delle più fortunate opere scacchiniane, tra cui Tamerlao, del 1773, e di altre che qui furono riprese ( Il Cidde, specialmente)”17. Possiamo quindi concludere che il Millico si trasferì a Londra nella primavera del 1772 e ci rimase fino all’autunno del 1774. Una volta conclusasi l’esperienza inglese, tornò a Parigi dal suo amico Gluck e insieme si trasferirono prima a Zweibrücken poi a Mannheim ed infine a Berlino, qui si congedò definitivamente da Gluck e si trasferi a Venezia (gennaio 1775) dove venne scritturato dal teatro S. Benedetto. In quella stagione lirica (il carnevale) erano in programma due opere nuove: L’Olimpiade (libretto in tre atti del Metastasio e musica di Pasquale Anfossi) e Demofoonte (dramma in tre atti del Metastasio e musica di Giovanni Paisiello). Qui Millico venne osannato da pubblico e critica che costrinsero gli impresari veneziani a scritturarlo per le recite della fiera dell’Ascensione (la festa principale di Venezia). Nel settembre dello stesso anno venne chiamato a Firenze per la prima assoluta del Gran Cid, appositamente composto da Paisiello per il teatro La Pergola. Per la stagione lirica di fine anno (sempre del 1775) e del successivo carnevale, Millico venne invitato a Milano dall’impresario del Teatro Ducale, dove in programma figuravano due opere: Il Vologeso (del maestro Pietro Guglielmini) e La Merope (del maestro bitontino

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Cfr. Sir. George GROVE, Grove’s Dictionary of music and musicians, London 1966. La paternità di questa opera è da attribuire ad Antonio Sacchini. 15 Cfr. Alberto BASSO, Dizionario enciclopedico universale della musica e dei musicisti, Torino 1988. 16 Cfr. Roberto ZANONI, La musica italiana nel settecento, Bramante Editrice, 1978. 17 Cfr. Roberto ZANONI, La musica italiana nel settecento, Bramante Editrice, 1978. 14

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Tommaso Traetta). Dopo la stagione lirica del carnevale, Millico lasciò definitivamente Milano e face rotta verso Terlizzi. Nel marzo del 1776 (a stagione conclusa) lo ritroviamo a Firenze, così recita una notizia riportata dalla Gazzetta Universale di Firenze sotto la data 11 Marzo 1776: “Stasera in questo Casino della Nobiltà si darà la consueta accademia, ove il Millico canterà sull’arpa alcune ariette, nelle quali fa specialmente risaltare la sua abilità”. Firenze però fu meta solo di passaggio in quanto, come precedentemente detto, Millico si dirigeva verso Terlizzi «perché anche qui aveva i suoi impegni … artistici», questo lo si desume da una serie di delibere comunali, precisamente da quella del 25 aprile del 1776, in occasione dei festeggiamenti in onore della Madonna di Sovereto (festa maggiore) oramai conclamata Patrona di Terlizzi. In simili occasioni venivano allestiti pubblici spettacoli a sfondo religioso chiamati “oratori”, rappresentazioni sacre in musica, sullo stesso schema del melodramma, ispirate generalmente a episodi biblici. Tra i vari impegni del Millico a Terlizzi, oltre agli oratori, ritroviamo presso l’archivio di Stato di Bari, sezione di Trani, un’altro atto notarile18, sempre del notaio Tommaso Taralli, concernente un: “Piano per la retta e prudente amministrazione della Società Mercantile fra il Sig. D. Giuseppe Millico, magnifico Gaetano Millico e Notar Gioacchino Gargano”. Si tratta dell’atto di fondazione di una società per azioni (i tre soci versavano ciascuno tre mila ducati) per il commercio all’ingrosso di grano orgio19 vino olio e mandorle. Dopo la “pausa” terlizzese, ritroviamo il nostro musico prima a Caserta nella reggia, dove ebbe modo di cantare per S.M. la Regina di Napoli, e poi a Roma, dove era stato scritturato per esibirsi al Teatro Argentina per la stagione lirica invernale, dicembre 1776 – marzo 1777. Il programma prevedeva due opere, in prima assoluta, L’Infigeria del Sarti e L’Artaserse del Guglielmini, ma il Millico, molto probabilmente a causa di malanni fisici, il 28 dicembre non poté esibirsi per la prima dell’Infigeria, e questo ne sancì l’insuccesso, ma l’8 gennaio del 1777 l’opera andò di nuovo in scena , questa volta con il cast al completo, e fu un successo. Ora mai quarantenne Millico decise, su invito dell’Università di Terlizzi, di cantare ancora in onore della Madonna di Sovereto, e questo lo si deduce da una 18

Cfr. Gaetano VALENTE, Vito Giuseppe Millico, Radio Florlevante, Molfetta 1985. (orzo =) orgio = termine volgare utilizzato fino ai primi del ‘900 in Italia, specialmente in quella centro-meridionale 19

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delibera dell’Università datata 30 aprile 1777. Quella che sembrava una piccola sosta di piacere nel suo paese natio, si trasformò in una vera e propria fuga dalle scene internazionali, infatti il moscovita rimase a Terlizzi fino all’inizio dell’autunno del 1779. In questo periodo deliziò ancora i suoi concittadini con varie esibizioni, di certo cantò per la Madonna di Sovereto nel 1778 e nel 1779. “Ma la lunga parentesi terlizzese gli giovò comunque in ogni senso per una rincorsa verso nuovi traguardi della sua attività artistica, che realizzerà al suo rientro definitivo a Napoli. Sarà qui, nella capitale del regno e del bel canto che il Millico potrà assecondare, per il resto dell’arco della sua vita, la nuova vocazione maturata in quegli anni e come professore di musica e come compositore, votandosi cioè del tutto alla causa gluckiana, avente di mira la perfezione espressiva della materia musicale, nell’ambito della riforma del melodramma italiano”20. Questo dovrebbe farci pensare che da questo momento in poi il Millico abbia iniziato la sua attività di compositore; per certi versi questo è vero ma tutti ignorano che nella sua breve parentesi londinese furono pubblicati alcuni suoi lavori ed altri ne usciranno alcuni anni dopo e non solo a Londra ma anche a Zurigo, a Parigi e a Berlino. Nell’autunno del 1779 venne chiamato dal conservatorio S. Onofrio di Napoli per insegnare contrappunto, questo ci viene confermato dal Florimo 21 in una nota sul musicista molfettese Luigi Capotorti22, e da questa nota si deduce che nello stesso conservatorio insegnavano il Piccini (composizione) e il Nosci (strumento – violino). L’abilità di insegnante di musica di Millico era nota in tutta Europa, infatti oltre ad essere stato da ventenne l’insegnante di canto e clavicembalo del granduca P. Petrovič, fu anche insegnante presso la corte imperiale d’Austria e precisamente insegnò canto alla nipote dell’imperatore ma ciò che lo rese grande fu l’aver insegnato alla nipote di Gluck l’arte del bel canto: ciò ci viene confermato da un musicologo d’eccezione Charles Burney23: “… mi dissero, e ciò mi meravigliò assai, che la signorina Gluck aveva imparato a cantare da soli due anni. Aveva incominciato a prendere lezioni da suo zio che poi la fece sospendere disperando per la riuscita, in 20

Cfr. Gaetano VALENTE, Vito Giuseppe Millico, Radio Florlevante, Molfetta 1985. F. FLORIMO, La scuola musicale di Napoli e i suoi conservatori. Napoli 1880 – 1884. 22 Capotorti, Luigi * ca. 1767 in Molfetta † 17. Nov. 1842 in San Severo (Foggia) 23 Charles Burney nacque a Shrewsbury nel 1726 e morì a Chelsea (Londra) nel 1814. Fu organista e compositore di musica strumentale e vocale, ma eccelse soprattutto come musicologo. A lui va il merito di aver scrittto la prima storia della musica: A general history of music, Londra 1776 – 1789. 21

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un’epoca circa quando Millico venne a Vienna. Quest ultimo intese la giovane scolara, e giudicò che la sua voce era suscettibile di perfezionamento, trovandole molta disposizione allo studio, chiese a Gluck il permesso di servirle da guida solo per qualche mese, per accertare se conveniva o no di continuare i suoi studi musicali, perché dubitava e non a torto, che la decisione adottata contro la giovinetta, fosse piuttosto effetto d’impazienza, d’impetuosità del carattere dello zio, che di ostacoli reali nelle disposizioni della nipote. Lo stile che possiede adesso è la sagacità e la penetrazione dello stesso Millico, che infondeva con il suo metodo ai suoi allievi. Infatti la giovinetta è così bene penetrata del gusto e dell’espressione del suo maestro, e se li è talmente appropriati, che non si rileva in nulla la freddezza dell’imitazione; ma sembrano l’uno e l’altro appartenente alla sua anima”24. Benedetto Croce nella sua opera I teatri di Napoli ci dice che “il Millico impartì lezioni di musica e canto anche a Lady Hamilton, la famosa e bellissima avventuriera (Emma Lyon) che sposò sir William Hamilton, ambasciatore inglese a Napoli presso Ferdinando IV di Borbone. E non poteva certo mancare che lo stesso Millico fosse nominato maestro di canto delle Reali Principesse di Napoli, e ad istruire nel suono dell’arpa, in cui egli era versatissimo, la Reale Principessa Maria Carolina”25. Ma “ non deisdegnò di occuparsi assiduamente ad istruire chiunque mostrava genio per la Musica, soccorrendo ancora generosamente, chi dalla povertà sarebbe stato impedito di applicarsi a tale studio”26. Nel 1782, a Napoli, andò in scena il suo primo melodramma La pietà d’amore, libretto di Antonio Lucchesi; qui, in una dedica al suo librettista, il Millico scrisse un piccolo trattato pedagogo-musicale in cui venivano fissati norme e obiettivi della riforma melodrammatica. Il Millico in questo “piccolo manifesto” della riforma del melodramma, denunciò le cause del decadentismo dell’opera musicale e né suggerì i rimedi: «I giovani, che si applicano nell’esercizio di questa bell’arte, mentre che imparano gli elementi della musica dovrebbero ricevere una educazione corrispondente al loro mestiere; si dovrebbe coltivare il loro spirito per renderlo sensibile ai movimenti della natura, si dovrebbero esercitare in buona pronunzia, ed in 24

Cfr. Charles BURNEY, A general history of music, London 1776 – 1789. Cfr. Benedetto CROCE, I teatri di Napoli, Napoli 1891. 26 Cfr. Elogio funebre, Gazzetta Napoletana Civica Commerciale del 12 ottobre 1802. 25

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perfetta articolazione delle parole. Si dovrebbe far loro leggere la storia per renderli informati della diversità dei caratteri di quei personaggi, che dovranno rappresentare; si dovrebbe insegnare a discernere le bellezze della poesia, perché si vestissero dei sentimenti degli autori. Si dovrebbe esercitare la loro voce naturale, cosa, che la maggior parte dei cantanti trascurano, per cui le voci, o prendono il naso, o la gola, o il flautino, o tanti altri disgustosi difetti, indi renderla obbediente, e flessibile, come una pasta, a fine che potesse cangiarsi, e pigliare tutti i colori, persino a rendersi alle volte roca, e stridente se lo esigesse la violenza di una passione. Ma per ottenere questo intento sarebbe a mio credere necessario, che i maestri de’ cantanti fossero i più famosi cantanti, come quelli, che colla esperienza, e coll’esempio potrebbero facilmente insinuar loro queste delicatezza. Nella Sinfonia ho creduto di dover fare il Programma dell’Opera, sembrandomi, ciò che indispensabile convenga all’unione del tutto. Nel progresso ho cercato di esprimere colla maggiore semplicità le parole, adattandovi quegl’instrumenti, che ho giudicati opportuni alla migliore espressione, ho procurato infine di togliere quella comune perpetua monotonia, che ci disgusta da tanto tempo. Ma non ho potuto eliminare del tutto alcuni difetti così comuni ancora oggi come qualche gorgheggio e ripetizione di parole perché questo è purtroppo il gusto dell’attuale società. Ci conosco anche io questo difetto, e l’ho trascurato, ma non senza ragione, perciocché non ho creduto di dover notare ad un tratto il genio di una Nazione, già sedotta dalla vivacità di alcuni cantanti, che si studiani di rassomigliare più al grazioso gorgheggio degli usignoli, che alla sola melodia, che penetra nei cuori, ed insinua per ignote vie nell’anima la forza di quei sentimenti, che giungono alle volte a muovere piacevolmente le lacrime. Nondimeno li pochi passaggi, e le ripetizioni di parole, che vi ho introdotte, si troveranno solamente in quei luoghi, che non formano la più interessante parte del dramma, e dove non si altera con un gorgheggio la forza dell’espressione. Volesse il cielo, che li moderni compositori, e cantanti ponessero mente a quelle medesime riflessioni e si applicassero seriamente all’acquisto della vera cognizione per intendere il sentimento delle parole, ed entrare nello spirito delle poesie. I cantanti abbandonerebbero l’inutile studio ed esercizio di quei pochi gruppetti preziosi, alli quali riducono tutte le cantilene. Poche sono nella nostra musica le modulazioni in confronto delle innumerevoli cantilene, che si potrebbero usare per esprimere le varie passioni; onde

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avviene, che usando i cantanti in tutti i sentimenti, ed in tutte le parole le medesime variazioni, si rendono necessariamente a noi monotoni»27. Nessuno, fino ad allora, aveva osato criticare duramente la struttura sulla quale si fondava tutto il melodramma, prendendo di mira non solo i cantanti e i compositori ma alzando il tiro sopratutto su coloro che rappresentavano la continuità del melodramma stesso, ovvero gli insegnanti. Nel gennaio del 1784 fu rappresentata L’Ipermnestra, la sua seconda opera, opera venuta alla luce grazie all’aiuto di Ranieri de’ Calzabigi 28, che ne scrisse il libretto, l’opera fu rappresentata in occasione della visita del re di Svezia nel Regno di Napoli. Nello stesso anno il duo Calzabigi-Millico generò una nuova opera Le Dainaidi. Nel 1786 andò in scena al Teatro di Fondo, sempre a Napoli, La Zelinda (il librettista è sconosciuto ma probabilmente è sempre del Calzabigi). Nella sua breve carriera come compositore, durata ufficialmente circa undici anni, Millico compose circa undici melodrammi. La sua carriera si arrestò quando alla lenta perdita dell’udito, sopperita efficacemente con un ripetitore, si unì ben presto quella della vista: nel 1792 diventò totalmente cieco. Aveva solamente cinquantacinque anni quando la sua carriera si troncò, rimase comunque al servizio della corte napoletana sia come maestro di canto delle principesse, con lo stipendio mensile di 50 ducati, sia come cantante Soprano della Regia Cappella di Palazzo, con quello di 30 ducati. Il 15 febbraio 1802 «avendo D. Giuseppe Millico, Maestro di canto delle AA.LL.RR. domandato l’attrasso di tutti i suoi soldi, che gode, sì pel ramo della R. Camera, che per quello della R. Cappella Palatina. S.M. ponendo mente ai meriti distinti del ricorrente ed alle sue indisposizioni, accorda la grazia implorata» 29

. La notte tra il primo e il due ottobre del 1802, probabilmente a causa di un

ictus celebrale di natura emorragica morì. 27

Cfr. La pietà d’amore, manoscritto. Ranieri Simone Francesco Maria de Calzabigi, letterato e librettista italiano (Livorno, 23 dicembre 1714 - Napoli, luglio 1795). Probabilmente studiò a Livorno e a Pisa e fece parte dell'Accademia etrusca di Cortona e dell'Arcadia col nome di Liburno Drepanio. Nel 1743 si impiegò in un ministero a Napoli, iniziando in quel periodo l'attività librettistica. L'opera di Ranieri de Calzabigi si compendia nei tre libretti scritti per Gluck, «Orfeo ed Euridice», «Alceste», «Paride ed Elena» ed in alcune opere teoriche da cui si deducono le coordinate del pensiero estetico che sta alla base della cosiddetta riforma del melodramma 29 Cfr. Registri della “Scrivania di Ragione e Ruota de’ Conti” – Archivio di stato di Napoli. 28

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MILLICO PELLEGRINO ATTRAVERSO LA PENISOLA. Cenni sulla situazione geografica e socio-politica degli Stati italiani visitati da Vito Giuseppe Millico durante la sua vita.

“Il 18 ottobre 1748, ad Aquisgrana (l’attuale Aachen in Germania), venivano firmate le clausole definitive della pace. Una pace, che segnava il bilancio di mezzo secolo di guerre quasi ininterrotte”. Il duello fra Asburgo e Borboni per l’egemonia continentale è ormai concluso: iniziato con la guerra di successione spagnola, con il fallimento del tentativo asburgico di ricostruire la monarchia universale di Carlo V, si chiude con la guerra di successione austriaca, con il fallimento del tentativo borbonico di eliminare dalla carta d’Europa la potenza asburgica. Nessuno dei due grandi antagonisti è riuscito ad avere il sopravvento. Il principio dell’equilibrio, il principio animatore della politica internazionale del secolo, trova la sua affermazione definitiva”30. 30

Cfr. F. VALSECCHI, Storia d’Italia, Verona 1971.

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L’Italia in questo periodo è frammentata in staterelli, quasi tutti sotto l’influenza dei Borboni o degli Asburgo, fatta eccezione per lo Stato Sabaudo (“alleato” con gli inglesi), lo Stato della Chiesa, la Repubblica di Venezia (chiusa nella sua neutrale decadenza) e quella di Genova (schiacciata tra le mire espansionistiche dei Savoia sul Finale e la scomoda dipendenza in politica estera dalla Francia), sostanzialmente gli Asburgo dopo la pace di Aquisgrana avevano conservato il Milanese (diminuito dei territori al di là del Ticino, ceduti ai Savoia), conservavano la Toscana. I Borboni controllavano i Ducati di Parma, Piacenza e Guastalla, e il Regno delle Due Sicilie. Ora proviamo a descrivere cosa avrebbe potuto vedere il Millico durante i suoi molteplici viaggi nella penisola italiana, tramite l’analisi della situazione politica, sociale e culturale delle città e degli stati in cui soggiornò durante la sua carriera come cantante. Il Regno delle Due Sicilie Partiamo, com’è giusto che sia, dal Regno delle Due Sicilie, regno che gli diede i natali e la cui capitale sviluppò e modellò il talento del nostro musico. All’inizio del secolo il regno contava circa 3.000.000 di abitanti (la Sicilia poco meno di 1.000.000), con una densità inferiore agli altri stati italiani (eccetto la Sardegna). Napoli, la capitale, contava poco meno di 300.000 anime (secondo dati del 1742, 292.196 cittadini, oltre 100.000 forestieri, 12.825 rinchiusi nei monasteri, conservatori, collegi e ospizi; e in più le truppe e gli abitanti dei castelli), praticamente la più grande città della penisola, il cuore e il cervello dello stato: sede di governo, residenza della nobiltà, era anche il centro delle industrie e dei traffici, di quel tanto di industrie e di traffici di cui si poteva parlare nel regno (Bari nella stessa epoca contava circa 30.000 abitanti, invece Terlizzi 18.000). Meno di un sesto della popolazione viveva del suo lavoro, la restante parte conduceva una vita di espedienti, gravitava parassitariamente intorno alle classi ricche e abbienti. Le zone più “ricche” del regno erano, oltre che Napoli e Palermo, le feconde terre di Campania, alcuni tratti della costa pugliese;« ma,

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dietro, quanta nuda roccia, quanta terra sterile e ingrata, e scarsi fiumi, e avare e irregolari pioggie, e larghe plaghe di malaria!»31. La società del regno era sostanzialmente divisa in cinque classi sociali: l’aristocrazia, il clero, i ceti di mezzo, la plebe cittadina e il popolo delle campagne. L’aristocrazia conduceva una vita parassitaria nelle città, lontani da ogni occupazione produttiva, poiché sopravviveva l’antica repugnanza feudale verso ogni forma di attività industriale o commerciale, la tentazione dell’ozio e del lusso era troppo forte. «Quasi tutti dediti all’ozio, poco eruditi, di molto ambiziosi, et amanti del fasto esteriore…pesanti, gelosi, iperbolici nei complimenti (gli uomini) molto sostenute (le dame)»32. Accanto alla nobiltà, come categoria dominante, il clero: ancor più che un ceto privilegiato, una società a sè stante, che, per il suo carattere sacerdotale, si poneva al di fuori e al di sopra della comunità laica. Le sue immunità, giudiziarie e fiscali, erano ancor superiori a quelle della nobiltà, le sue prerogative erano numerose, dalla riscossione dei tributi, come le decime, all’esercizio di attribuzioni giurisdizionali. Disponeva di immense proprietà, un terzo, si calcola, delle rendite del regno, oltre ai cespiti del suo ufficio, alle copiose elemosine che affluivano dai “fedeli”. Non bisogna dimenticare che il clero assolveva, oltre ai suoi compiti religiosi, a importanti funzioni sociali, come la beneficenza e l’assistenza ai bisognosi, l’educazione e l’istruzione di cui deteneva il monopolio. Tra i tanti privilegi di cui godeva il clero, ce n’era uno che era esclusivo solo della Sicilia e che risaliva al tempo della dominazione normanna in Italia. Questo privilegio, la “legazia pontificia”, esclusivo della Chiesa siciliana rispetto a tutto il mondo cristiano, consisteva nel fatto che il clero doveva rispondere dei suoi comportamenti di fronte al sovrano e non al papa, sia per le materie civili che per quelle criminali. Dopo l’aristocrazia e il clero, troviamo il ceto di mezzo. Questo gruppo di persone era sottoposto a uno sfruttamento paragonabile a quello dei tempi peggiori del feudalesimo, la maggior parte di essi non resisteva alla “pressione fiscale” e precipitava nella miseria, gli altri (molto pochi) arricchitisi, non raggiunsero mai una propria fisionomia e autonomia di classe in quanto la loro ambizione era quella 31

critica e commento di Antonio Serra, osservatore per conto della corte spagnola, che aveva polemizzato contro l’ottimismo di maniera delle apologie tradizionali. 32 Cfr. V. G. PARDI, Napoli attraverso i secoli: disegno di storia economica e demografica, Bari 1923.

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assurgere alla dignità nobiliare (tramite l’acquisto di un titolo) e quindi vivevano nell’orbita della nobiltà. Anche nelle classi inferiori, dominava il criterio della disuguaglianza, infatti se analizziamo la plebe, notiamo che la sua disuguaglianza è prima di tutto giuridica in quanto lo status di quella della capitale era diverso da quello della plebe delle altre città e quest’ultimo era assi diverso da quello delle campagne. La plebe della campagna, alla mercé dei baroni, era gente da mantenersi in soggezione: una «maledetta razza» da dominare «sempe col piè alla gola, acciocchè mai alzando la testa stiano sicuri di non esser oppressi e malmenati»33. In pratica il 90% della popolazione sosteneva con la sua miseria lo schiacciante peso di una piramide sociale costruita sul privilegio, quel privilegio sorto secoli addietro in determinate condizioni politico sociali, non trovava più la sua giustificazione nelle funzioni dei privilegiati, dove l’unica sensazione era quella di una struttura sociale in sfacelo, ormai “matura per la dissoluzione”. Sicuramente il nostro Millico apparteneva a quel ceto di mezzo, molto probabilmente suo padre o suo nonno erano riusciti ad uscire da quella parte della società oppressa e sfruttata, e tentando di farsi spazio tra la nobiltà. Infatti il Millico può essere considerato a tutti gli effetti parte integrante di quel mondo che viveva grazie ai “capricci” dell’aristocrazia napoletana. Lo Stato della Chiesa “Un’ampia fascia di territorio che taglia, al centro, la penisola da un mare all’altro; dalle coste tirreniche, all’Adriatico; dalle coste tirreniche del Lazio raggiunge, con l’Umbria l’Appennino; si spinge con le Marche, all’Adriatico; si prolunga verso settentrione con le Romagne sino a toccare il Po, l’ultimo corso del Po, lungo la frontiera veneta; per terminare dopo un corso di 700 km a mezzogiorno, al limite dell’Abruzzo. Tredici provincie, cui si aggiungono, isolati entro il territorio del regno di Napoli, i due principati di Pontecorvo e di Benevento; al di là delle Alpi, in Provenza, l’antico dominio pontificio di Avignone”34.

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parole del canonico Battaglia, che così poco cristianamente si esprime nel 1734 Cfr. F. VALSECCHI, Storia d’Italia, Verona 1971.

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La sua popolazione all’inizio del settecento contava circa due milioni di abitanti per poi arrivare a tre milioni verso la fine del secolo. La città più grande era Roma i cui abitanti oscillavano, nel corso del secolo, tra i 140.000 e i 160.000. Uno dei più vasti e uno dei più poveri stati italiani. «Le tredici provincie soggette in Italia al dominio del papa formano uno stato che sembra il bersaglio dei flagelli divini, tanto e povero e languente, quantunque la natura si sia molto occupata a renderlo florido e ricco…Entrate nelle città, voi le trovate quasi tutte sprovviste di abitanti; se ne uscite per andare a godere dello spettacolo della campagna, non vedete che dei campi senza cultura, o mal coltivati. Voi credereste il paese abbandonato e interamente deserto, se una folla di mendicanti ricoperti di cenci non venisse a importunarvi, e se di tratto in tratto non incontraste alcuni contadini, di cui l’aria, il vestito, il portamento annunziano la miseria. Scorrendo le spiagge del mare, che da due parti bagna lo stato, si rimane sorpresi nel vedere dei porti di rado frequentati dallo straniero, giammai animati dal commercio…Un popolo che conosce le arti utili, e si limita a distinguersi nelle frivole o nel puro piacere; un sovrano ( il riferimento è a papa Pio VI) che si accontenta di quelle entrate che ha trovato al suo innalzamento al trono, e che malgrado la più saggia economia non può fornire dei soccorsi a un gran numero di infelici che gliene domandano; un governo dolce, sinceramente occupato a creare la felicità dei sudditi, di cui la sorte è da compiangersi; l’opulenza di alcune case illustri e papalizie; la mediocrità di un piccolo numero di cittadini; il resto del popolo sacrificato sempre agli orrori dell’indigenza»35. Nello stato pontificio le categorie sociali si dividevano sostanzialmente in due gruppi: da una parte, una moltitudine di pastori, contadini e piccoli artigiani oppressi dalla miseria e dalle tasse; dall’altra una piccola minoranza di grandi proprietari terrieri, enti ecclesiastici, o privati, legati in genere alla chiesa da interessi di casato o da tradizioni di famiglia. Più progredita, culturalmente e socialmente, la borghesia professionista, notai, giureconsulti, medici, speziali e i “dottori” che insegnano nelle numerose Università dello Stato: Roma, Bologna, Perugia, Urbino, Macerata, Camerino. La situazione a Roma era ben diversa dal resto dello stato, qui l’alto clero doveva fare i conti con la potenza e l’orgoglio dell’aristocrazia romana che con essa condivideva il potere nella città. La nobiltà romana era quasi tutta composta dai 35

così nel 1784, un anonimo, riassumendo in un quadro impressionante la situazione sotto il pontificato di Pio VI

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membri delle famiglie papali, la cui fortuna si era affermata con il susseguirsi dei pontefici, ma essendo esclusa nel recitare una parte attiva nella vita pubblica, a essa non restava altro che il pensiero di come spendere le accumulate ricchezze, come impiegare i suoi ozi36. Attorno ad essa, «un agglomerato di clienti, che si mantiene genericamente in una specie di comunismo negli abusi, nei furti amministrativi, nelle sovvenzioni clericali, nelle elemosine, nell’usura e nella simonia»37. Gli anni in cui Millico “frequentò” Roma erano quelli del pontificato di Pio VI, questo nome è legato ai molti, e spesso impopolari, tentativi di far rivivere i fasti e lo splendore del regno di Leone X nell'opera di promozione delle arti e delle opere pubbliche. Lo si ricorca anche per “l’Editto sopra gli Ebrei” (1775)38, che era uno dei documenti più mostruosi di persecuzioni che la storia dell’umanità ricordi. Questi sono gli anni in cui la chiesa era impegnata nella difesa contro l’offensiva illuministica e contro l’assolutismo dei principi europei e italiani, questi pericoli provocavano, per reazione, un irrigidimento. D’altronde, ogni iniziativa riformatrice sul terreno politico, trova un limite perentorio nella stessa natura teologica dello stato. Il Ducato di Parma e Piacenza È qui che nell’agosto del 1769 , durante il matrimonio fra il duca Ferdinando Borbone e l’arciduchessa Amalia, figlia dell’imperatore Francesco e Maria Teresa D’Austria, che Vito Giuseppe Millico incontrò Cristoph Willibald Gulck e fu questo incontro che segnò per sempre l’opera di Millico. Ma adesso vediamo come si presentava il ducato nella seconda metà del settecento. 36

una felice rappresemtazione della Roma del tardo settecento e inizio ottocento ci viene data dal film “il Marchese del Grillo”, commedia del 1981, regia di Mario Monicelli. 37 Cfr. F. CORRIDORE, La popolazione dello stato romano, 1656 – 1901, Roma 1906. 38 “... alle antiche misure persecutorie, ulteriormente inasprite, vengono aggiunte delle altre. L’Editto si compone di 24 clausole, di cui ricorderemo queste:1. L’Ebreo che passi una notte fuori del ghetto è condannato a morte.2. Il "segno giallo" deve essere portato anche entro la cinta del ghetto (finora gli Ebrei dovevano portarlo quando uscivano dal ghetto).3. Sono proibiti i cortei funebri.4. È proibito lo studio del Talmud.5. È proibita la vendita al Cristiani di pane, carne, latte.6. È proibito tenere negozi fuori del ghetto.7. È proibito avere domestici cristiani, quindi anche di servirsi delle cosiddette "donne del fuoco" (le donne cioè che andavano nelle case degli Ebrei per accendere il fuoco di sabato).8. Sono proibite le relazioni coi vicini cristiani.9. È proibito agli argentieri cristiani di fare lampade a sette bracci per uso rituale.10. È proibito invitare i Cristiani nelle sinagoghe.11. È proibito ai Cristiani entrare nelle sinagoghe.12. È proibito guidare carri a Roma o nelle vicinanze.13. I rabbini sono ritenuti responsabili della frequenza alle prediche coattive.14. È proibito agli Ebrei l’ingresso nelle chiese e nei monasteri... ”. Cfr. L. PASTOR, Storia dei papi dalla fine del medioevo, Roma 1932 – 1934.

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Il Ducato di Parma e Piacenza era uno stato di secondo piano, con popolazione e territorio molto ridotti, infatti sia a Parma che a Piacenza (le due capitali) la popolazione non superava i 30.000 abitanti e tutto il ducato contava poco più di 300.000 abitanti. Tuttavia, se il suo peso sulla bilancia politico militare d’Italia era di per sè trascurabile, c’era un fattore (questo, comune anche ad Ducato di Modena), che gli conferiva un particolare rilievo: la posizione geografica. Situato sulle grandi vie di comunicazione tra l’Italia settentrionale e quella centrale, padrone dei valichi dell’Appennino, costituiva uno dei settori chiave dell’assetto italiano, via obbligata di passaggio degli eserciti invasori, punto di giuntura del sistema territoriale su cui le grandi potenze appoggiavano la loro egemonia sulla penisola. Infatti dopo la morte di Antonio Farnese (1731) il ducato passò sotto il dominio borbonico e poi sotto quello asburgico, e da questo momento in poi (1765) fu Ferdinando di Borbone a regnare sul ducato. Il nuovo duca di Parma sposò nel 1769 Maria Amalia d’Asburgo – Lorena (e fu al loro matrimonio che Millico conobbe Gluck). In questo nuovo periodo di dominio borbonico la corte era invasa dai i più illuminati intelletti di mezza Europa, sul territorio si iniziarono ad intravedere i primi germi di quel riformismo illuminato così ostentato a corte, ma la poca centralità di Parma nelle grandi questioni europee portò il ducato in un lungo e logorante isolamento. Il Ducato di Milano Il ducato di Milano veniva definito dai rappresentanti dell’impero austriaco come «una confederazione, o meglio una unione di stati39» tenuta insieme dal semplice vincolo di dipendenza verso lo stesso sovrano. Accanto al ducato vero e proprio (le terre immediatamente dipendenti da Milano), il principato di Pavia, le contee di Cremona, Lodi, Como, per non parlare delle terre minori. Territori ben delineati, gelosi della propria autonomia, coscienti della propria individualità. «Ciascuna delle province aveva le sue leggi, i suoi onori e i suoi impieghi: chi nasce in questa provincia acquista dalla natura la ragione a tutto ciò»40, infatti chiunque lo dominò, dagli spagnoli nel

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Cfr. C. CATTANEO, Notizie naturali e civil isulla Lombardia, Milano 1844. Cfr. C. CATTANEO, Notizie naturali e civil isulla Lombardia, Milano 1844.

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seicento agli austriaci nel settecento, non si preoccupò mai di accentrare il potere, preferendo riconoscere le varie autonomie e i vari privilegi. Con il dominio austriaco, per buona parte del secolo, iniziò la decadenza del ducato; l’agricoltura, su cui si fondava la ricchezza del paese, era troppo arretrata per quell’epoca; le industrie celebri di un tempo, le armi, i cristalli erano in netto declino, e lo stesso valeva per l’industria base del paese, l’industria tessile, e di conseguenza anche l’attività commerciale si ridusse ai soli generi alimentari e di prima necessità. Una decadenza che aveva cause più complesse e profonde che la sola dominazione straniera. Verso la metà del secolo un’ondata riformatrice tentò di mettere un freno all’impoverimento dello stato, gli austriaci riuscirono a censire la popolazione e mettere ordine tra le 1.492 autonomie locali, riformando i tributi diretti e l’amministrazione. Con la metà degli anni sessanta una nuova ondata riformatrice invase il ducato, ma questa volta fu portata avanti dalla èlite milanese, la quale iniziò a subire gli influssi illuministici d’oltralpe. Così, anche in Lombardia, l’urto delle nuove idee con le antiche, fu un urto di generazioni e non di classi, fino a quando Napoleone con le sue legioni non portò anche a Milano l’impeto rivoluzionario. Il ducato conobbe solo la rivolta morale e filosofica e non quella sociale. Era la cultura francese che dava il tono a quella ristretta cerchia di persone che formava l’opinione pubblica, cioè l’aristocrazia, e quanti gravitavano attorno ad essa come clienti. L’èlite sociale era anche èlite intellettuale, infatti i “patrizi” milanesi fondarono la Società palatina, e sempre i patrizi riempirono i ranghi dell’Accademia dei Trasformati come dell’Accademia dei Pugni (da cui derivò “Il Caffè”) e della Società Patriottica. La Repubblica di Venezia Sulle coste settentrionali d’Italia del mare Adriatico si affacciava la repubblica marinara di Venezia. La sua posizione nell’assetto della penisola era una posizione di margine, pittosto passiva che attiva: le limitate risorse economiche e militari non reggevano alla gara egemonica delle grandi potenze. Gravitava come satellite intorno agli stati europei, chiudendosi in una neutralità che mascherava appena la sua debolezza.

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Il ceto mercantile, affermata la propria supremazia, si era convertito in una aristocrazia chiusa, gelosa del proprio potere. Nel panorama che offriva la penisola, dove si andava compiendo col secolo il ciclo livellatore e accentratore dell’assolutismo, questa repubblica aristocratica si presentava sempre più come un anacronismo. Il panorama industriale veneto, florido un tempo, era ormai ridotto ai minimi termini. Venezia viveva, oltre che delle industrie tessili, che costituivano il nocciolo duro della produzione, anche di un certo numero di industrie d’arte, di alto livello estetico e rinomate in tutta Europa, che producevano dai vetri ai merletti, dall’orificeria agli arazzi. Ma il tradizionalismo imperante impediva un aggiornamento tecnico, che accoppiasse al buon gusto la facilità e l’abbondanza delle produzioni, in modo da poter reggere la concorrenza straniera fondata su basi di produzioni più moderne (per esempio i prodotti tessili inglesi che conquistarono il continente grazie all’avvento dei nuovi metodi di produzione figli della rivoluzione industriale). Nell’entroterra, un vasto territorio che dai confini della Lombardia austriaca andava verso il Friuli schiacciato tra le Alpi e il Po, con una popolazione che contava negli ultimi tempi della Repubblica circa 1.800.000 abitanti (1795), l’economia era prevalentemente agricola, le produzioni erano abbondanti ma le possessioni troppo estese e separate, gli alti dazi per le esportazioni impedivano che il le eccedenze di prodotti si tramutassero in guadagni. La struttura dello Stato veneziano si basava sulla sovranità della Dominante (Venezia), però le città e le provincie della terraferma, pur nella soggezione politica, conservano le autonomie amministrative, residuo della loro antica indipendenza. I tentativi dell’autorità doganale di imporsi al patriziato, e di accentrare il potere nelle proprie mani fallirono miseramente. Il doge restava, come veniva definito, lo “schiavo coronato della repubblica”. Questa lenta decadenza politico economica perdurò fino all’arrivo di Napoleone, 1797.

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LA RIFORMA DEL MELODRAMMA E MILLICO. Il facile conformismo storico letterario ci ha fatto sempre pensare alla prima metà Settecento italiano, come ad un periodo frivolo e vacuo, del tutto carente di interessi culturali e produttivi. Si svilupparono in quella società bizzarra il gusto per l’eleganza, la vita mondana e salottiera, caratterizzat da dame incipriate e di minuetti, di parrucche e di crinoline, ma parallelamente si sviluppa anche il gusto dell’arte musicale, generando geniali e grandi figure di artisti che costituiranno in quel particolare contesto storico l’unico e il più originale contributo dell’Italia allo sviluppo artistico e produttivo d’Europa. Il Settecento registra così nella sua storia il boom del consumo e della produzione di opere musicali di ogni genere. La rappresentazione operistica traboccò nei teatri regi e nobiliari e divenne popolare, sostituendosi ad ogni altra attrattiva di pubblici divertimenti (in quel periodo nella corte partenopea si mormorarva che per tenere buoni i napoletani ci volevano tre “f”: feste, farina e forche). Al gusto per la spettacolarità, per la pompa dei costumi, per il lusso macchinoso che aveva caratterizzato l’opera per tutto il Seicento, prevale adesso quello del canto, o meglio quello del cantante, sul quale converge tutto l’interesse del pubblico del Settecento. L’aria o la romanza, la cavatina o il duetto, nella varietà delle loro forme e caratteri, costituirono la palestra in cui gli interpreti vocali solevano fare bella mostra della loro abilità e del loro virtuosismo. Più che con la decorazione fastosa delle scene, si cercava, con le morbide e sinuose volute del “bel canto” di ammaliare e impressionare l’uditorio. A questo consumismo prodigioso di musiche di ogni genere, cui si era dato senza risparmio il pubblico italiano, faceva seguito (com’è logico) una produzione spasmodica di opere, tragiche o buffe, sinfonie e canzoni, costringendo i compositori ad un sforzo incessante e quindi raramente la vita di un’opera superava la durata di una stagione teatrale. È in questo contesto storico che si innestava l’attività artistica di Vito Giuseppe Millico. Formato e portato agli ideali della classica perfezione dell’arte musicale, reagì energicamente alle sollecitazioni conformistiche del suo tempo, prima come cantante, bandendo ogni virtuosimo canoro e aderendo alla realtà del personaggio, poi come

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insegnante di musica e dopo come compositore, facendo propri gli ideali che animavano l’amico e fautore della riforma del melodramma Cristoph Willibald Gluck. Tutti i musicologi convengono che il periodo compreso tra il 1769 al 1774 rappresenta il momento fondamentale della riforma; questi erano gli anni in cui Gluck e Millico giravano l’Europa portando con sè le idee della riforma ed erano anche gli anni dei primi componimenti del Millico (1773 e 1774). Ma in che cosa consisteva effettivamente questa riforma? Come già detto, nel Settecento, sui virtuosismi dei cantanti si incentrava la maggior parte delle attenzioni del pubblico e tutto questo a discapito della musica e dei testi. Non che il livello qualitativo fosse scadente, ma per soddisfare l’incessante voglia di musica del pubblico, i librettisti e i compositori erano costretti a mescolare, trasformare, riadattare e fondere insieme parti di vecchi componimenti per crearne di nuovi da adattare alle capacità e molte volte ai capricci dei cantanti. Ed è in questa atmosfera che uomini come Gluck, Traetta, Calzabigi, Piccinni (nonostante la sua querelle con Gluck), Händel, Sacchini, Araja e lo stesso Millico decisero con la loro genialità di imporre il loro modo di vedere, sentire e vivere la musica. Da questo momento in poi la musica sarà asservita al testo, e servirà solo per enfatizzare e caricare con tutta la potenza di cui è capace i sentimenti e le passioni espresse nelle parole, e allo stesso scopo sarà destinato il canto. Questo nuovo modo di intendere il melodramma sarà alla base di tutta l’opera di Millico, ma questo non lo deduciamo solo da un attento studio delle suo opere, lo troviamo scritto e autografato nella parte introduttiva di quello che erroneamente si intende come il suo primo lavoro di compositore La Pietà d’amore del 1782. Queste parole, già trascritte nella biografia, sono state del tutto ignorate dai musicologi, il perchè non c’è dato saperlo, ma se fossero state lette adesso il suo nome sarebbe inserito tra gli artefici della riforma, la quale sarà alla base della formazione musicale dei grandi compositori dell’Ottocento come Bellini, Donizetti e Verdi.

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IL COMPOSITORE MILLICO Passiamo adesso ad esaminare la figura di Vito Giuseppe Millico come compositore. Si ritiene, a torto, che il suo primo lavoro sia “La pietà d’amore” del 1782, infatti dalle ricerche effettuate (ricerche incentrate particolarmente sull’immenso patrimonio della British Library di Londra e della Biblioteca del Conservatorio di musica S. Pietro a Majella di Napoli) emerge che l’attività di compositore sia iniziata già nel 1773 a Londra, ma non possiamo escludere del tutto che essa possa anticipata, in quanto le notizie che abbiamo del suo lungo periodo trascorso in Russia sono alquanto esigue e si riferiscono solo all’aspetto di Millico come cantante e come maestro di musica. Alle conoscenze attuali l’elenco cronologico della produzione musicale del compositore Vito Giuseppe Millico appare il seguente: •

Six songs, with accompanyment for the great or small harp, forte piano or harpsichord. (Londra, 1773)

L’opera manoscritta è conservata presso la British Library di Londra, pubblicata nel 1773 da Welcker e ripubblicata da Robt Birchall nel 1823 (tutte e due le edizioni sono conservate presso la British Library). •

A second sett of six songs with accompanyment for the great or small harp, forte piano or harpsichord. (Londra, 1774)

L’opera è pubblicata da Welckler nel 1774 e sue copie sono presenti presso: o Biblioteca dell’University of Toronto; o Bibliothèque nationale de France, Département de la Musique a Parigi; o Staten Muzikbibliotek di Stoccolma; o Music Library della University of North Carolina di Chapel Hill. •

Dormia sul margine. A favourite new song… with an accompaniment for the harpsichord; The Russian Minuet. (Londra, aprile 1774)

Queste due opere sono state pubblicate sul London Magazine nell’aprile del 1774 a pagina XXX. Gli originali sono conservati presso la British Library e una copia è 31


presente presso la Henry E. Huntington Library & Art Gallery di San Marino (California, Stati Uniti). •

A third sett of of six canzonettes with an accompanyment for the pedal or small harp, forte piano, or harpsichord. (Londra, 1774)

Il manoscritto è conservato nella British Library, l’opera è stata pubblicata da Longman & Broderip nel 1774, ripubblicata nel 1775 per la sola diffusione a Parigi e ancora riedita nel 1777 a Zurigo da Johann Georg Nägeli. Copie del 1774 sono presenti presso: o Österreichische Nationalbibliothek (Musiksammlung) di Vienna; o Biblioteca dell’Accademia Musicale Chigiana di Siena; o Public Libraries (Central Library) di Cardiff; o Boston Public Library Music Department; o Music Library della University of North Carolina di Chapel Hill; o University of Pittsburgh, Music Library. •

A Select Collection of the Most Admired Songs, Duetts, &c., from Operas ... and from other Works, in Italian, English, French, Scotch, Irish, &c., &c. In Three Books ... The Music ... divided into Phrases ... and to each are appropriated its Graces, Cadences, &c., with ... directions for the Management of the Voice ... by D. Corri. (Edinburgo, 1779)

L’opera pubblicata ad Edimburgo nel 1779 da John Corri conta complessivamente 302 brani (104 dei quali sono anonimi), 60 sono gli autori presenti (24 inglesi e/o scozzesi, 19 italiani o di origine italiana, 9 dei paesi di lingua tedesca, 7 francesi e 1 spagnolo) e fra costoro emergono per maggior numero di opere quelle di Vito Giuseppe Millico. L’opera (di cui abbiamo reparito un unico esemplare) è composta da tre volumi ed è custodita nella British Library.

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La pietà d’amore. Dramma messo in musica. (Napoli, 1782).

Questa opera è stata pubblicata da Giuseppe Maria Porcelli nel 1782 e il manoscitto è presente nella Biblioteca del Conservatorio di Musica S. Pietro a Majella (Napoli), altre copie sono presenti presso: o Biblioteca Antoniana di Padova; o Biblioteca Musicale Governativa del Conservatorio di Santa Cecilia di Roma; o Gesellschaft der Musikfreunde Bibliothek di Vienna; o Österreichische Nationalbibliothek (Musiksammlung) di Vienna; o Biblioteca

del

Conservatoire

Royal

de

Musique

Koninklijk

Conservatorium di Brussels; o Universitätsbibliothek Johann Christian Senckenberg Musik– und Theaterabteilung di Francoforte sul Meno; o Diözesanbibliothek di Münster; o Bibliothèque nationale de France Département de la Musique a Parigi; o British Library di Londra; o Library of Congress Music Division di Washington DC; o San Francisco State College Library. •

L’isola disabitata. (Napoli, 1783)

Esistono due copie manoscritte di quest’opera, una presente nell’Archivio Diocesano di Molfetta e l’altra nella Biblioteca del Conservatorio di Musica S. Pietro a Majella di Napoli. •

Inno al Sole. (Napoli, 1783)

Il manoscritto si trova nella Biblioteca Nazionale “Sarriga Visconti Volpi” di Bari e un’altra copia presso l’Archivio Diocesano di Molfetta. •

Il Deucalione. (Napoli, 1783)

L’opera, una scena lirica pantomimica drammatica, è costituita da 21 foglietti di carta di varie dimensioni incollati sul bordo esterno laterale ed è conservata presso

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l’Archivio Diocesano di Molfetta. •

La Morte di Clorinda. (Napoli, 1783)

Non esiste nessuna traccia di questa opera, si conosce solo l’anno e il luogo in cui è stata pubblicata (1783) e l’autore del libretto: il Calzabigi. •

Angelica e Medoro. (Napoli, 1783)

Non esite nessuna traccia di questa opera, si conosce solo l’anno e il luogo in cui è fu scritta (1783) e l’autore del libretto: il Cimarosa. •

La Nutrice di Ubaldo. (Napoli, 1783)

Non esiste nessuna traccia di questa opera, si conosce solo l’anno e il luogo in cui è stata pubblicata (1783) e l’autore del libretto: il Calzabigi. •

Il Pianto di Erminia. (Napoli, 1783)

Non esiste nessuna traccia di questa opera, si conosce solo l’anno e il luogo in cui è stata pubblicata (1783) e l’autore del libretto: il Calzabigi.

Le Cinesi. (Napoli, 1783)

Il manoscritto di quest’opera non risulta essere in possesso di nessuna biblioteca italiana. Ma ne esiste una opera a stampa presso la Biblioteca della Societa' napoletana di storia patria di Napoli, orfana però della parte musicale. L’opera fu rappresentata il 4 novembre del 1794 nel Teatro del Fondo di Separazione a Napoli. •

Le Danaidi. (Napoli, 1784)

L’unico esemplare manoscritto di quest’opera è conservato nella Bibliothèque nationale de France, Département de la Musique a Parigi. •

Ipermnestra. (Napoli, 1784)

Esistono solo due manoscritti di quest’opera, uno nella Bibliothèque nationale de France, Départment de la Musique a Parigi e l’altro presso la Biblioteca del 34


Conservatorio di Musica “Luigi Cherubini” di Firenze. Presumibilmente quello presente a Parigi è stato scritto da Vito Giuseppe Millico e l’altro, quello di Firenze, da Ranieri de’ Calzabigi. •

La figlia di Jefte. (Napoli, 1786)

Rappresentata nella quaresima del 1786, l’opera è da considerarsi un “centone”, ovvero una unione e adattamento di altre composizioni fatte dal maestro Cipolla e dello stesso Millico, il testo e la messa in scena sono opera del Conte don Peppino Lucchesi. L’opera è conservata nella Biblioteca del Conservatorio di musica S. Pietro a Majella di Napoli. •

La Zelinda. (Napoli, 17 Aprile 1786)

Di questa opera esistono solo due esemplari integri, uno nel Conservatorio di Musica S. Pietro a Majella di Napoli e l’altro nella Library of Congress Music Division di Washington DC, invece copie di alcune parti sono presenti in diverse biblioteche: o British Library di Londra; o Biblioteca

del

Conservatoire

Royal

de

Musique

Koninklijk

Conservatorium di Brussels; o San Francisco State College Library. o Biblioteca del Conservatorio di Musica “Giuseppe Verdi”; o Biblioteca Palatina, Sezione Musicale di Parma; o Biblioteca Antoniana di Padova; o Biblioteca del Conservatorio Statale di Musica “Benedetto Marcello” di Venezia; o Biblioteca Nazionale Marciana di Venezia. •

A fourt sett of six canzonets with an accompanyment for the pedal or small harp, forte piano, or harpsichord. (London, 1788)

L’opera fu pubblicata da Longman & Broderip nel 1778, il manoscritto si trova presso la British Library e altre copie si trovano presso: o Staats - und Universitätsbibliothek Carl von Ossietzky, Musikabteilung di Amburgo; 35


o Public Libraries di Dundee; o Bodleian Library di Oxford; o San Francisco State College Library; o Music Library della University of North Carolina di Chapel Hill; o Public Library, Music Department di Boston. •

Music Trifles. A collection of sonatine for the harp or harpsichord … adapted and published … by E. Jones. (London, 1791)

Come si può ben capire dal titolo trattasi di una raccolta di “sonatine” adattate e pubblicate da E. Jones nel 1791. Delle 12 “sonatine” di cui è composta l’opera ben 8 sono di Vito Giuseppe Millico. La raccolta si trova presso la British Library ma esiste anche una pubblicazione a stampa del 1832 nella Public Libraries (Music Department, Central Library) di Leeds. •

Nonna (or che il silenzio) per far dormire li bambini. (Napoli e Vienna, 1792)

La particolarità di quest’opera è che esistono due manoscritti, la cui unica differenza consiste nella dimensione del supporto cartaceo, datati e autografati dallo stesso Millico ma circolanti in due città diverse, Vienna e Napoli per l’appunto, nel 1792, anno in cui il Millico avrebbe perso totalmente la vista. I due manoscritti di trovano nella Biblioteca del Conservatorio di Musica S. Pietro a Majella di Napoli e Österreichische Nationalbibliothek (Musiksammlung) di Vienna. •

Quatre Duos, et Deux Cavatine avec Accompt de 2 Violons et d'un Basse. (Londra, 1795)

L’autore di questa opera è il Sapio che nel 1795 la pubblica presso Longman & Broderip ma il secondo e il quarto duetto sono di Vito Giuseppe Millico. Il manoscritto è presente nella British Library. •

Sei ariette italiane con parole allemande per l’arpa, o piano forte o guitarra. (Bonn, 1795)

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L’opera viene pubblicata a Bonn nel 1795 da N. Simrock ed è composta da tre volumi ognuno di 12 pagine. Nessuna biblioteca di quelle scandagliate possiede tutti e tre i volumi infatti, la British Library possiede il primo e il terzo invece, la Sächsische Landesbibliothek – Staats– und Universitätsbibliothek di Dresda possiede il primo e il secondo volume. •

L’avventura benefica. (Napoli, 1797)

Questa è un’opera scritta nel 1797 ma mai rappresentata. L’unico manoscritto esistente è conservato nella Biblioteca del Conservatorio di Musica S. Pietro a Majella di Napoli. •

Sei ariette italiane per l’arpa, o piano-forte. (Vienna, 1798)

Anche quest’opera è divisa in tre volumi (il primo di tredici pagine, il secondo di quindici pagine e il terzo di dodici) pubblicato a Vienna da Artaria & Co. nel 1798. Il manoscritto completo è in possesso della Stadtbibliothek di Vienna Altre copie sono in possesso delle seguenti biblioteche: o British Library di Londra (primo e secondo volume); o San Francisco State College Library (primo e secondo volume); o Biblioteca del Conservatorio di Musica S. Pietro a Majella di Napoli (secondo e terzo volume). •

Sei canzonette con l’accompagnamento di piano forte. (Zurigo, 1800)

Quest’opera è pubblicata da Johann Georg Nägeli a Zurigo nel 1800 e l’anno seguente viene pubblicata a Parigi da Naderman. Il testo manoscritto è in possesso della Biblioteca del Conservatorio di Musica S. Pietro a Majella di Napoli. Altre copie le troviamo nelle seguenti biblioteche: o Napoleonmuseum di Salenstein (Svizzra); o Stadtbibliothek di Winterthur (Svizzera); o Biblioteca

Nazionale

Palatina,

Sezione

Musicale

presso

il

Conservatorio di Musica Arrigo Boito di Parma.

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Delle seguenti opere di Vito Giuseppe Millico non è possibile risalire alla data e al luogo di pubblicazione ma è possibile desumere che siano state scritte a Napoli tra il 1783 e la fine dell’anno 1792. Deduciamo ciò dal fatto che verso la fine del 1792 Millico, già sordo, diventerà totalmente cieco e quindi difficilmente avrebbe potuto continuare la sua opera di compositore e inoltre nelle pagine introduttive alla Pietà d’Amore del 1782 il Millico ci parla dei suoi lavori precedenti e non menziona nessuna delle seguenti opere: • Canzoncine a voce sola di soprano con arpa. L’opera manoscritta si trova nella Biblioteca dell'Abbazia di S. Pietro presso Perugia ed è composta da otto canzoncine: 

Se i tuoi vezzosi lumi.

Se irati sempre girigli.

Dal tuo modesto affetto.

Ah m'ingannai nel crederti.

In questa ombrosa riva.

Qual aspe tu sei sorda.

Tu mi lasciasti ingrata.

Della tua rea perfidia.

• Canzoncine con accompagnamento di cembalo. L’opera manoscritta è composta dalle stesse canzoncine della precedente, per quanto riguarda la parte testuale, ma gli spartiti sono differenti in quanto essa è dedicata all’esclusivo uso del cembalo. Il manoscritto è conservato nella Biblioteca del Conservatorio Statale di musica F. E. Dall'Abaco (fondo Murari Bra) di Verona. Nel 1793 viene pubblicato da Johann Georg Nägeli a Zurigo. Copie di queta pubblicazione sono presenti a Londra presso la British Library e a Berlino presso la Staatsbibliothek zu Berlin Preußischer Kulturbesitz (Musikabteilung).

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• Arie di Millico. L’opera è conservata nella Biblioteca del Conservatorio Statale di musica F. E. Dall'Abaco (fondo Murari Bra) e nella Biblioteca Palatina (Sezione Musicale) di Parma ed è composta da dieci arie: 

Tu che parli all’idol mio, tu che vedi il mio tesoro.

Amorosi miei sospiri che dal sen uscite agara.

Ho sparso tante lagrime per ammollirti il cuore.

Dal dì ch’io vi mirai pupille lusinghiere.

Del mio destino ingiusto, no che non so lagnarmi.

Dormia sul margine d’un ruscelletto.

Cara Elisa amato bene tu che sei la mia speranza.

La più vezzosa figlia di Flora.

Vè come bello il mare bellissima Nerina.

Tu mi sprezzi tu non mi ami.

• Inno al sole. L’autore del libretto è Giuseppe Saverio Poli, la musica è di Vito Giuseppe Millico. L’opera manoscritta fu realizzata per l’esclusivo uso delle principesse reali. Esistono solo due esemplari di questa opera, uno è presente nella Biblioteca Nazionale Sarriga Visconti Volpi di Bari e l’altro nella Biblioteca della Societa' napoletana di storia patria, bisogna però precisare che la copia presente a Bari è mancante della partitura musicale.

• Notturni fatti per Posillipo. Esitste un unico esemplare manoscritto di questa opera presso la Biblioteca musicale governativa del Conservatorio di musica S. Cecilia di Roma. È composta da otto “notturni” di cui 5 Duetti, 2 Arie, 1 Terzetto: 

Se volete far l'amore.

Zeffiretto che tra i fiori.

Vanti nemico il core. 39


Il mio caro Fileno.

La notte avanza.

Ah! m'inganni.

Dal tuo modesto affetto.

Parto, ma pure o Caro.

• Dodici canzoncine per voce sola di soprano. Il manoscritto è conservato nella Biblioteca del Conservatorio di musica S. Pietro a Majella di Napoli. • Dieci barcarole. Il manoscritto è conservato nella Biblioteca del Conservatorio di musica S. Pietro a Majella di Napoli e comprende le seguenti “barcarole”: 

Se i tuoi vezzosi lumi.

Se irati sempre giri.

Dal tuo modesto affetto.

Ah m'ingannai.

In questa ombrosa riva.

Qual aspe tu sei sorda.

Tu mi lasciasti ingrata.

Della tua rea perfidia.

Alla vezzosa Fille.

Nice mia Nice io moro.

. • Canzonetta per marcia a tre voci. La partitura manoscritta è conservata nella Biblioteca del Conservatorio di musica S. Pietro a Majella di Napoli. • La violetta vergognosetta. La partitura manoscritta si trova presso la Biblioteca Nazionale Marciana di Venezia.

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• XXX canzoni per canto arpa e pianoforte. La raccolta, composta da tutte opere manoscritte, si trova presso la Biblioteca Antoniana di Padova. • Ecuba e Climene. Finchè splende in cielo il sole. L’opera manoscritta si trova presso la Biblioteca del Conservatorio di musica “Giuseppe Verdi” di Milano.

• Scale e solfeggi. Il manoscritto è conservato presso la Biblioteca del Conservatorio di musica “Giuseppe Verdi” di Milano. • Inno del Petrarca a S. Giuseppe, a due voci con accompagnamento orchestrale. L’opera si trova presso la Biblioteca antoniana di Padova. • Componimento drammatico dell’abate D. Luigi Godard. La musica di questo componimento è opera di Vito Giuseppe Millico e la relativa partitura manoscritta è conservata nella Biblioteca Angelica di Roma (raccolta Santangelo). • Barcarole con accompagnamento di Chitarra. L’opera si trova nella Biblioteca del Conservatorio di musica ”Giuseppe Verdi” di Milano ed è costituita da quattro “barcarole”: 

Ah, se tu fossi nata povera.

Luci adorate.

Pupillette che destate.

Alle mie tante lagrime.

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• Bella Italia ormai ti desta Italiani all’armi. L’opera, una marcia a tre voci, è conservata nella Biblioteca del Conservatorio di musica S. Pietro a Majella di Napoli. Le seguenti opere sono state pubblicate dopo il 1802, anno della morte di Millico: • Millico’s Canzonets (Londra, 1816) Nel 1816 vengono pubblicate a stampa da Goulding, D'Almaine, Potter & Co dodici canzonette di Millico. La particolarità di questa pubblicazione è che i testi delle canzoni precedono gli spartiti, infatti generalmente il testo era parte integrante dello spartito musicale. L’opera è presente con due copie presso la British Library e una presso la Public Libraries di Dundee. • Quattro Canzone, fatto per ordine e dedicate al Sua Eccelma Lord Cawdor. (Londra, 1819) Questa opera, a stampa, venne commissionata e pubblicata da Lord Cawdor, quello che risulta anomalo è il perchè della sua pubblicazione solo nel 1819, probabilmente il fatto che sia una stampa presuppone l’esistenza a monte di un manoscritto (probabilmente databile intorno al 1773), ma non essendoci nessun indizio dell’esistenza di questo manoscritto dobbiamo accontentarci della stampa conservata nella British Library. •

Two favorite Sonatinas for juvenile Performers on the Harp. (Leighton & Buzzard, 1820)

Ancora un’opera a stampa, pubblicata da J. Platts in Inghilterra nel 1820 e conservata nella British Library. •

Sacred Melodies. A collection of words, from various classical authors, adapted for the piano forte or organ to airs of Mozart, Millico, Blangini, Himmel, Winter. (Londra, 1827)

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Una collezione di musiche sacre assemblata da Sophia Taylor e pubblicate da Paine & Hopkins. Tre delle dodici melodie sono di Vito Giuseppe Millico. Anche questa opera è conservata presso la British Library. •

Volle cogliere una rosa. (Arietta nazionale con accompagnamento di chitarra di L. Picchianti.) (Firenze, 1840)

Opera a stampa pubblicata da G. Cipriani a Firenze nel 1840 dove le parole sono di Millico e la musica è di Luigi Picchianti. L’opera si trova sempre nella British Library. •

Three Sacred Melodies, by Moore [in fact, by various composers]. No 1. Jerusalem (fallen is Thy Throne). No 2. Miriam (sound the loud Timbrell.) No 3. Bochim (go let me weep.) Arranged for the piano forte by William Hutchins Callcott. (Londra, 1857)

Opera del poeta irlandese Thomas Moore (famoso per le raccolte di liriche ballate e canzoni) musicata da William Hutchins Callcott. Quello che nel titolo è “No 1 Jerusalem (fallen is Thy Throne)” è una opera di Vito Giuseppe Millico. Opera scritta e composta su commissione per Sir. John Andrew Stevenson pubblicata da Addison, Hollier & Lucas nel 1857. Anche quest’opera è conservata nella British Library. •

Fallen is thy throne oh Israel. Trio for treble voices. (Londra, 1880)

Questa volta l’opera che abbiamo precedentemente citato, viene pubblicata singolarmente (sempre con parole di Thomas Moore) da C. S. Cook nel 1880. Essa è conservata nella British Library.

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