Mitologie politiche della Costutizione

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ETHICA Forum di riflessione

ASTI

MASTER IN CIVIC EDUCATION II CICLO 2010/2011

Mitologie politiche della Costituzione Sulla neutralizzazione dell’evento costituente

di Marco Tabacchini MAGGIO 2011


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Indice 5

Introduzione

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1. Evento Costituente

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2. Lo scandalo della Costituzione

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3. Neutralizzazione e spoliticizzazione

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4. Mitologia politica

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Post-scriptum – La democrazia (non è) incisa nella pietra

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Bibliografia

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Introduzione Con il termine di «mitologie giuridiche», Paolo Grossi intendeva criticamente riferirsi ai molteplici nodi di certezze assiomatiche reperiti lungo la propria attività di storico del diritto. Nodi mitologici, dunque, concrezioni accettate per la loro semplice carica fondativa, e lentamente sedimentatesi tanto nella storia quanto nello stesso agire giuridico: ciascuno di essi allude ad un particolare problema sapientemente aggirato, a una certa carica aporetica elusa – o meglio: forclusa – attraverso la costruzione di finzioni indubitabili. L’analisi di Grossi si rivolgeva, in particolare, alla mitizzazione giuridica quale «processo di assolutizzazione di nozioni e principii relativi e discutibili», «oggetti enfiati da una propaganda bisecolare»1 che si è sempre rivelata capace di recuperare e piegare ogni elemento di novità alla fattuale continuità dei poteri e delle istituzioni. A partire dallo stesso concetto di «sovranità popolare», passando per la perfetta legittimazione della legge sulla base della sua pretesa razionalità, fino ad interessare cardini delle moderne democrazie quali possono essere il dogma della dimensione esclusivamente statale del diritto o la stessa nozione di «rappresentatività», la costruzione e il dispiegamento di un simile arsenale di finzioni giuridico-politiche si sono instancabilmente avvalsi della declinazione spesso squisitamente mitologica delle stesse. Una declinazione che ne ha esaltato l’efficacia a scapito della verità, e che ne ha rilevato l’intensità senza per questo comprendere la reale posta in gioco sottesa ad un loro possibile utilizzo. Nell’avvicinarsi a tali concrezioni mitologiche e dogmatiche, al contatto con simili fondazioni meta-storiche della modernità giuridica, «lo storico avverte di trovarsi di fronte a prodotti storici assolutizzati nella coscienza collettiva e profondamente deformati nel loro volto originario»2. Suo compito primo 1 2

P. Grossi, Mitologie giuridiche della modernità, Giuffrè, Milano 2001, pp. 3-9. Ibidem, p. 46.

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coinciderà allora con il tentativo di ricondurre fenomeni e concetti alla loro precisa dimensione storica, impedendo loro di accedere all’assoluto promesso dal mito. Impedendo loro di permanere nella stessa pratica giuridica come costruzioni o valori d’indubbia efficacia e attendibilità, come altrettanti fondamenti mistici – secondo le precisissime parole di Montaigne – eretti a difesa dell’ordinamento. Che ogni ordinamento, del resto, abbia sempre confessato, più o meno esplicitamente, il proprio desiderio di fondamento e al tempo stesso la propria fame di miti, è costante stessa tanto del suo intimo funzionamento quanto, di conseguenza, della particolare prospettiva per mezzo della quale lo storico avvicina tali questioni. Già nel 1957, Roland Barthes individuava per mezzo del concetto di ricorrenza «il maggior potere del mito», e nella società a lui contemporanea «il campo privilegiato delle significazioni mitiche»3, luogo di applicazione e insieme posta in gioco dell’universalizzazione e della depoliticizzazione – seguita, beninteso, da una ripoliticizzazione – delle figure catturate all’interno di tali significazioni. Le successive elaborazioni del concetto di mito non potranno che confermare tali analisi: Furio Jesi parlerà in proposito di persévérance, tanto del mito quanto della Gewalt che da esso trae continuo fondamento4; più recentemente, Roberto Esposito ha definito il mito come l’Ininterrotto, come ciò che «non è altro dall’assenza di interruzione»5, un montaggio continuo e in perenne movimento dei materiali più eterogenei, asserviti alla pretesa (di) continuità di determinati rapporti di potere. Per tale motivo riteniamo di non poter seguire Grossi nel suo tentativo di chiudere con la questione contemporanea del mito, laddove egli scrive: «le mitologie, che hanno giocato un ruolo tanto fondativo nel progetto giuridico borghese, non reggono di fronte ai bisogni e alle richieste della società 3 4 5

R. Barthes, Miti d’oggi, Einaudi, Torino 1974, pp. 216-218. F. Jesi, Esoterismo e linguaggio mitologico. Studi su Rainer Maria Rilke, Quodlibet, Macerata 2002, p. 29. R. Esposito, Nove pensieri sulla politica, il Mulino, Bologna 1993, p. 127.

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contemporanea, estremamente complessa sotto i profili sociale, economico, tecnologico»6. Come per la modernità, la quale – nonostante l'incontestabile opera di «smantellamento di antiche mitizzazioni sedimentate e abbarbicate nel costume»7 – non ha potuto che riproporre sempre nuove mitizzazioni, soggiacenti a diverse regole di montaggio e diverse configurazioni di rappresentazione, similmente anche l'età contemporanea ha conservato al cuore stesso delle relazioni di potere, quale forza informativa del politico, una dimensione mitologica di cui solo recentemente si è iniziato a comprenderne la portata8. Ogniqualvolta si è sentita la necessità di legittimare un ordinamento, di sancire in maniera incontrovertibile la sua esistenza mediante un’opera di fondazione, la dimensione mitologica ha costituito, se non necessariamente il fattore principale di coagulazione, quanto meno l’orizzonte comune a ciascuno di questi processi. Nemmeno la Costituzione Italiana, fin dai tempi della sua stesura, si è mai dimostrata immune nei confronti di simili operazioni, moltiplicatesi del resto con la progressiva spettacolarizzazione della politica e l’inasprirsi degli scontri suscitati dal processo di decostituzionalizzazione dell’ordinamento italiano. Lungi dall’identificarsi con un mero retaggio del passato, il problema di una mitologizzazione della Costituzione, così gravido di implicazioni, costituisce una delle questioni fondamentali dell’attuale dibattito politico, nel momento in cui ogni voce in esso – senza alcuna distinzione di sorta – sembra accogliere con favore crescente tanto la riproposizione dei miti quanto l’efficacia delle “narrazioni”.

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P. Grossi, Mitologie giuridiche della modernità, cit., p. 51. Ibidem, p. 43. Per quanto riguarda la letteratura sul tema, si rimanda il lettore agli studi di Furio Jesi, per mezzo dei quali il mitologo ha configurato il modello di «macchina mitologica»; in particolare, si veda Jesi F., Materiali mitologici. Mito e antropologia nella cultura mitteleuropea, Einaudi, Torino 2001, e Id., L’accusa del sangue. La macchina mitologica antisemita, Bollati Boringhieri, Torino 2007.

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1. Evento costituente Negli articoli pubblicati al termine del 1945, Norberto Bobbio affrontava la difficile questione del rapporto tra uomini e istituzioni, nella convinzione che proprio questo celasse la posta in gioco della militanza democratica: l’effettiva deposizione delle scorie di totalitarismo, così come l’abbandono di ogni logica che ancora potesse diffonderne i resti. In altre parole, si trattava di mostrare come un mutamento degli uomini avrebbe dovuto giocoforza seguire e presupporre una guarigione delle istituzioni, la quale non poteva che darsi se non nei termini di una ri-fondazione delle stesse in chiave democratica. La tanto desiderata svolta, dalla quale ciascuno attendeva la definitiva rottura nei confronti del fascismo, avrebbe dovuto interessare innanzi tutto le istituzioni, poiché solo da queste, e dalla ridefinizione dei costumi necessariamente conseguente, sarebbe dipeso il felice incontro tra sostanza e fine del nuovo assetto democratico: Nessuno di noi attende miracoli da un’assemblea che dovrà decidere quale sarà l’assetto del nuovo Stato italiano, e nessuno di noi pertanto è disposto a presentare al pubblico un nuovo mito, il mito della Costituzione, onnipresente, onnisciente, onniveggente. Ma ciascuno deve sapere che il nuovo assetto dello Stato italiano, cioè le nuove istituzioni, che dalla Costituente dipendono, saranno il fondamento della nostra vita politica, e quindi deve guardare alla Costituente come ad una svolta veramente decisiva.9

La distinzione operata da Bobbio – tra mito e fondamento, tra aspetto mitico e quasi miracoloso della fondazione dello Stato e il suo effettivo evento costituente quale fondamento dell'istituzione democratica – non è da ritenere semplicemente retorica, né tanto meno da ascrivere alle pur dovute cautele di fronte a una situazione tanto fragile quanto inattesa. In effetti, non si trattava di istituire un 9

N. Bobbio, Tra due repubbliche. Alle origini della democrazia italiana, Donzelli, Roma 1996, pp. 24-25.

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mito originario allo scopo di sorreggere e giustificare il nuovo assetto, bensì di originare una Costituzione in grado di dettare, con la forza trascinante di un vortice, il ritmo stesso del divenire democratico, il nuovo assetto della società italiana. Solo in questo modo, solo operando questo divenire, la Costituzione avrebbe potuto porsi quale garante e fondamento della democrazia, forza immanente alla società, lettera viva di contro alla lettera morta di una Costituzione sradicata dai costumi. (Fu proprio entro lo spazio costituito da un simile scarto, fra essere e dover essere della democrazia, fra la resistenza del materiale sociale e la debolezza della forza costituente, che s’inabissò secondo Bobbio l'esperienza di Weimar, durante la quale «la democrazia era rimasta negli articoli della costituzione, non era entrata nel costume»10.) La paura condivisa, che imponeva di non gridare al miracolo, riguardava la sempre possibile ineffettività normativa della Costituzione, ineffettività che avrebbe relegato la stessa al mero rango di mistificazione ideologica. In questo senso, la rottura irrevocabile nei confronti del fascismo non può essere pensata nei termini di una necessaria contingenza storica né quale momento fondativo definitivamente relegato nel passato: tale rottura va intesa, al contrario, quale cifra costitutiva della Costituzione, cifra viva che permetterà alla stessa di negare esplicitamente il fascismo con la stessa intensità con cui questo si era posto, a sua volta, quale negazione della democrazia. Opponendosi alla sempre possibile invenzione di un mito della Costituzione, Bobbio si poneva criticamente in contrasto con la prassi della mitologia politica del fascismo, il quale aveva – seppur inutilmente11 – giocato la 10 11

Ibidem, p. 32. Indagando il rapporto tra il fascismo storico e il nuovo fascismo del consumo, Pier Paolo Pasolini mostrava come l’ideologia del primo non fosse mai riuscita a penetrare nei costumi e nei corpi degli italiani. Cfr. P. P. Pasolini, 9 dicembre 1973. Acculturazione e acculturazione, in Id., Scritti corsasi, Garzanti, Milano 2000, p. 22: «Nessun centralismo fascista è riuscito a fare ciò che ha fatto il centralismo della civiltà dei consumi. Il fascismo proponeva un modello, reazionario e monumentale, che però restava lettera morta. Le varie culture particolari (contadine, sottoproletarie, operaie) continuavano imperturbabili a uniformarsi ai loro antichi

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carta del mito quale coagulante privilegiato per l’unificazione delle masse. Se la Costituente intendeva porre la Costituzione e la democrazia quali inscindibili fondamenti del nuovo assetto politico dello Stato, il fascismo aveva tentato di porre il mito dello Stato quale fondamento di ogni espressione della vita politica. Riprendendo le teorie del mito di George Sorel, il movimento fascista proponeva di considerare le rappresentazioni mitiche alla stregua di puri catalizzatori – alludendo alla loro qualità motrice come forza in grado di trasmutare, seppur con modalità impreviste, semplici aspirazioni in realtà. Nei discorsi di simili mitografi, parole quali Stato, Nazione o Italia non costituiscono concrete forze storiche sulla base della loro presunta attuabilità, ma soltanto miti da condividere, miti a tal punto efficaci da «introdu[rre] una chiarezza nuova»12 e trascinare all’azione politica (un’azione, beninteso, innestata fin dal principio all'interno della partizione fondata dal mito stesso). Contro tale utilizzo del mito, a nulla vale la posizione critica assunta da Mann nel Doktor Faustus, il quale denunciava l’intimo carattere di finzione delle narrazioni mitiche fabbricate per le masse, fiabe, fantasie e invenzioni la cui diffusione esaltava «la violenza come vittoriosa antitesi della verità, [...] apriva così uno stacco ironico fra verità e forza, verità e vita, verità e comunità»13. Ed è esattamente la peculiare connessione operata dal mito, tra forza, vita e comunità, che impedisce di decidere in merito alla sua verità, e che lo assimila così a qualcosa come una finzione. Accomunati da un'efficacia tale da produrre «determinazioni effettive della realtà»14, sia il mito che la finzione sono situabili in un luogo indecidibilmente posto tra verità e non-verità, luogo dal quale lavorano alla creazione di nuove verità. Contrassegnato da tale indecidibilità, il mito sembra riposare pienamente nella sua componente di ineluttabilità e di

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modelli: la repressione si limitava ad ottenere la loro adesione a parole». G. Sorel, Riflessioni sulla violenza, in Id., Scritti politici, UTET, Torino 2006, p. 225. T. Mann, Doktor Faustus, Mondadori, Milano 2010, p. 419. G. Solla, Finzioni, in E. H. Kantorowicz, I misteri dello Stato, a cura di G. Solla, cit., p. 9.

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destino tautegorico, al punto tale da dimostrarsi intaccabile nella sua potenza di fronte a qualsiasi opera di smascheramento: esso risulta efficacie per la semplice consapevolezza che la sua intima verità si dovrà pur mostrare. E tale movimento di dimostrazione mitica si prova semplicemente girando in tondo: tornando indietro, ripetendosi, proiettandosi e continuando ad affermare, sul terreno in cui ormai tutto risiede, che è solo di ciò, della sua intima verità, che tutti saranno testimoni. Preparandosi alla marcia su Roma, nell'ottobre del 1922, Mussolini disse in proposito: «Abbiamo creato un mito, il mito è una fede, un nobile entusiasmo, non ha bisogno di essere realtà, è un impulso e una speranza, fede e coraggio. Il nostro mito è la nazione, la grande nazione, che noi vogliamo rendere realtà concreta»15. L’evento costituente si opporrà a tutto ciò con la fragile forza di un nuovo fondamento della vita politica, un fondamento radicalmente estraneo ai tentativi reiterati di fondazione mitica operati dal fascismo. Il nuovo Stato Italiano e la democrazia non sono più ascrivibili alla semplice sfera dei miti tecnicizzati16: sono al contrario realtà concrete – per quanto precarie – la cui sopravvivenza dipenderà dagli stessi costumi democratici degli italiani. È attorno a una simile rottura – con il passato fascista ma anche con le sue stesse tecnologie di potere e consenso, così come coi suoi valori, immaginari e miti – che si configura la Costituzione, come patto o compromesso (ri)fondativo tanto dell'unità nazionale quanto della convivenza civile17. Da qui prende le mosse l'«obbligo di portare a compimento la Costituzione»18, unica possibilità concessa alla società italiana per

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Discorso riportato in C. Schmitt, La teoria politica del mito, in Id., Posizioni e concetti. In lotta con Weimar-Ginevra-Versailles, a cura di A. Caracciolo, Giuffré, Milano 2007, p. 24. Tecnicizzati in quanto evocati ed asserviti alla tecnica di propaganda politica. Per una delucidazione esaustiva del concetto si rinvia a K. Kerényi, Dal mito genuino al mito tecnicizzato, in Id., Scritti italiani (1955-1971), a cura di G. Moretti, Guida, Napoli 1993, p. 117. Su questo punto si rimanda allo scritto di M. Viroli, Sull’antifascismo non si tratta, in «Il Fatto Quotidiano», 3 aprile 2011. P. Calamandrei, La Costituzione e le leggi per attuarla, Giuffré, Milano 2002, p. 23.

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sventare di fatto la continuità dello Stato, e per compiere quella rivoluzione – al contempo politica, morale e giuridica – che sola avrebbe permesso la definitiva sepoltura di ogni scoria o traccia fascista.

2. Lo scandalo della Costituzione Uno storico del diritto come Grossi, da sempre attento al divario tra diritto e legge così come allo scarto che divide e contemporaneamente lega tra loro società e Stato, definisce giustamente la Costituzione come «l’immagine della società che si auto-ordina in base a precisi valori meta-giuridici e dello Stato/apparato che è chiamato a sottomettersi a essi»19. Si tratta niente meno che della cifra costitutiva stessa dello stato costituzionale di diritto, la soggezione dello stesso al diritto sia per quanto riguarda le forme che per i contenuti, sia nei termini dell’«essere» che in quelli del «dover essere» del diritto. In tal senso, si può sostenere che l’evento costituente mostrò, per la prima volta, il diritto sotto una ben diversa luce: contro le precedenti concezioni del positivismo giuridico e del principio di mera legalità, ora il diritto si presentava quale «sistema artificiale e imperfetto di norme eterogenee, di ognuna delle quali è sempre in questione la legittimità costituzionale rispetto a quei valori politici che sono i principi di giustizia incorporati nella Costituzione»20. Pur mantenendo la ben nota relazione di isomorfismo che sempre sussiste fra sistema politico e sistema giuridico, la Costituzione ha invertito il corso della relazione stessa. Prima dell’assetto costituzionale, il diritto non era altro che lo strumento privilegiato di conservazione, nonché di imposizione, della sovranità, una costruzione per mezzo della quale quest’ultima poteva rifondare e informare il politico secondo le 19 20

P. Grossi, Prima lezione di diritto, Laterza, Roma-Bari 2004, p. 68. L. Ferrajoli, La cultura giuridica nell’Italia del Novecento, Laterza, Roma-Bari 1999, p. 69.

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proprie esigenze di sopravvivenza. In diretto contrasto con ciò, a partire dall’evento costituente «non è più il diritto ad essere subordinato alla politica quale suo strumento, ma è la politica che diventa strumento di attuazione del diritto, sottoposta ai vincoli ad essa imposti dai principi costituzionali»21. Il compimento della Costituzione – e, al contempo, della democrazia stessa – non poteva che passare, in tal modo, per una vera e propria rivoluzione dell’ordinamento e delle istituzioni, rivoluzione da compiersi nel rispetto e secondo i principi della nuova carta. Si trattò, in primo luogo, di una rivoluzione da compiersi contro tutto quel che il fascismo aveva potuto incorporare e utilizzare: dai miti alle tecniche di propaganda,

dalla

gestione

dei

diritti

alla

repressione

delle

libertà,

all’attualizzazione di determinate ideologie o culture. L’attuazione della Costituzione non poteva dimenticare la realtà di un’Italia sì democratica, ma «che recava il fascismo nel proprio Dna e che continua a conservarlo nella propria memoria genetica»22 come un orizzonte sempre passibile di nuove attualizzazioni. Non solo: la Costituzione stessa si configurava quale unica via percorribile per scongiurare il pericolo fascista, poiché solo il suo esercizio avrebbe portato all’effettiva produzione della democrazia. (Da qui il grido disperato di Pasolini di fronte all’opportunità mancata di estirpare definitivamente il fascismo: «non abbiamo fatto nulla perché i fascisti non ci fossero. Li abbiamo solo condannati gratificando la nostra coscienza con la nostra indignazione; e più forte o petulante era l’indignazione più tranquilla era la coscienza».23) Per quanto sia possibile concordare con Bobbio, il quale escluse, in via generale, l'esistenza di una «cultura fascista» capace di produrre «iniziative o

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Id., Poteri selvaggi. La crisi della democrazia italiana, Laterza, Roma-Bari 2011, pp. 10-11. G. De Luna, M. Revelli, Fascismo/Antifascismo: le idee, le identità, La Nuova Italia, Firenze 1995, p. 65. P. P. Pasolini, 24 giugno 1974. Il vero fascismo e quindi il vero antifascismo, in Id., Scritti corsari, cit., pp. 48-49.

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imprese durature e storicamente rilevanti»24, non va tuttavia sottovalutato il fatto che il fascismo abbia costituito non tanto un'eccezione e un’irruzione dell’imprevedibile nella storia politica italiana, quanto piuttosto l’emersione di tensioni già da tempo presenti e connaturate alla stessa – tensioni proprie della vita politica italiana al punto da permanere e sopravvivere alla stessa caduta del regime fascista. È importante ricordare, seguendo il suggerimento di Ferrajoli25, che furono gli stessi teorici delle tesi totalitarie ad accorgersi per primi di questo legame; essi, del resto, non mancarono nemmeno, e a più riprese, di rilevare la diretta filiazione del fascismo dalla comprovata scienza politica liberale. Non una cultura prettamente fascista, dunque, ma una «cultura di destra»26 – secondo l’espressione di Jesi – che si alimentava del consumo indifferenziato del passato e della produzione di immagini giuridico-mitologiche, quali veicoli privilegiati per la diffusione dell’ideologia della classe dominante. Il lento e faticoso processo di costruzione della democrazia italiana doveva così scontrarsi con un nemico ben più tenace del fascismo storico, poiché meno appariscente, più diffuso e assoluto, del quale l’intera società italiana era permeata. Questo nemico non corrispondeva ad altro se non al crogiolo di «tradizioni e comportamenti sedimentati nelle strutture profonde della nostra mentalità collettiva»27. L’importanza che Bobbio attribuiva alla questione dei costumi democratici nasceva dalla lucidissima consapevolezza che solo su questo terreno le nuove istituzioni avrebbero potuto contrastare tutto ciò che del

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N. Bobbio, La cultura e il fascismo, in G. Quazza (a cura di), Fascismo e società italiana, Einaudi, Torino 1973, p. 229. Cfr. L. Ferrajoli, La cultura giuridica nell’Italia del Novecento, Laterza, Roma-Bari 1999, p. 46: «Del resto, una vera rottura [in ambito giuspubblicistico] non era, sul piano teorico, neppure necessaria, essendo la continuità assicurata proprio da quell’idea della sovranità dello Stato che la giuspubblicistica liberale aveva elaborato e che, come non mancò di rilevare Alfredo Rocco, conteneva in sé i germi del totalitarismo». F. Jesi, Cultura di destra, Garzanti, Milano 1979. G. De Luna, M. Revelli, Fascismo/Antifascismo: le idee, le identità, cit., p. 120. Gli autori specificano inoltre che, secondo una tesi non dissimile da quella di Jesi, fu proprio «in quella zona grigia che prosperò la continuità tra l’Italia fascista e quella repubblicana».

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totalitarismo era stato ben più di una semplice premessa. Agli italiani era così necessariamente richiesto di mettere in questione tutto ciò che del passato ancora li costituiva, ogni sopravvivenza delle antiche strutture culturali – quelle stesse che permisero con tale facilità l'espansione dell’ideologia fascista. (A questo punto, sembra legittimo considerare il tentativo di garantire la democrazia, mettendola al riparo anche – e soprattutto – dalla stessa volontà popolare, quale testimonianza incontrovertibile della «profonda [...] diffidenza maturata in un secolo di storia unitaria nei confronti della capacità di tenuta democratica delle nostre istituzioni e dei nostri comportamenti collettivi»28.) Ben si comprende a questo punto la problematicità di una tale situazione: a fronte della radicale novità apportata dalla Costituzione, l’intero ordinamento dovette in un certo senso opporsi a questa, frenare quel potere costituente che – secondo l’aporia propria della democrazia costituzionale – non soltanto preesiste alla Costituzione quale sua intima necessità, bensì sorregge la stessa fino al punto da coincidervi e giustificare così ogni appello al suo compimento. Per questi motivi possiamo parlare di scandalo della Costituzione: essa irruppe nella dialettica tra inclusione ed esclusione del diritto, per scardinarne l'equilibrio e deporre definitivamente i vecchi paradigmi tecnico-giuridici di scientificità autonomia e continuità; paradigmi da sempre funzionali alla neutralizzazione del politico – con le sue tensioni, i suoi movimenti – nonché alla sua esclusione dalla sfera normativa del diritto. Fu proprio tale carattere di scandalo a motivare le prime letture programmatiche e non strettamente normative della carta. Esse relegarono la Costituzione in una dimensione poco più che ideologica, quale summa di valori utopica e dunque non ordinativa. Simili letture non condussero ad altro se non alla conseguenza di moltiplicare le antinomie presenti tra norme superiori e norme gerarchicamente inferiori: entrambe di fatto 28

Ibidem, p. 164. Sulla crisi della rigidità costituzionale e sulla relativa «responsabilità dei politici e della dottrina», si rimanda a A. Pace, La causa della rigidità costituzionale, Cedam, Padova 1996, p. VII.

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vigenti, ma le prime ineffettive – poiché valide ma non ottemperate dalle norme di cui regolano la produzione – e le seconde invalide – poiché, pur se effettive, non ottemperanti le norme che regolano la produzione. Non si trattò tuttavia di grossolani seppur gravi errori d’interpretazioni, bensì di una strategia politica definita, mirante ad istituire e confermare nella pratica l’antico dogma della continuità giuridica dello Stato, minato in questo dall’irruzione della Costituzione quale evento democratico. Già nel 1955, Piero Calamandrei osservava acutamente come il fatto di attribuire carattere precettivo o programmatico a una norma costituzionale può essere l'espediente dialettico di cui alcuni si servono per affrettare l'attuazione della Costituzione democratica ed altri viceversa per confinarla nel limbo, e intanto lasciare in vigore e dar nuovo credito alle vecchie leggi del regime fascista, fino a che venga il momento, da essi auspicato, di poterla anche formalmente abolire.29

Ed è ancora la volontà di opporsi all’irruzione democratica ad accompagnare puntualmente, oggi come allora, i continui e reiterati tentativi di decidere in merito allo statuto stesso della Costituzione. In altri termini: di decidere della sua stessa posizione, della sua definitiva inclusione o esclusione dal diritto. Questo, del resto, non può esimersi dal confronto con la radicale indecidibilità connessa al potere costituente, potere che, per definizione, «è al tempo stesso interno al diritto, quale suo criterio normativo di unificazione e d'invalidazione, e ad esso irriducibilmente esterno in quanto suo fondamento assiologico ed eticopolitico»30.

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P. Calamandrei, La Costituzione e le leggi per attuarla, cit., p. 28. L. Ferrajoli, La cultura giuridica nell’Italia del Novecento, cit., pp. 69-70.

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3. Neutralizzazione e spoliticizzazione Conflitto fondamentale della nostra società è così quello che tenta di venire a capo di tale indecidibilità, decretandone ora la neutralizzazione per esclusione (decretandone quindi l’abbandono a favore della costituzione materiale), ora la neutralizzazione per inclusione (quale summa mitica di principi), ora invece appellandosi ad essa e continuare così l’opera di compimento della Costituzione. Si tratta di un conflitto che prende le mosse dallo scarto che oppone essere e dover-essere del diritto, che rileva dalla mancata coincidenza fra vigore e validità delle norme, fra normatività ed effettività. È da questo conflitto che sembra dipendere l’aporia costitutiva della democrazia, descritta da Luigi Ferrajoli nei termini di una «latente e strutturale illegittimità giuridica dello stato di diritto, dovuta all'ambizione delle promesse formulate ai suoi livelli normativi superiori e non mantenute ai suoi livelli inferiori»31. La necessaria collocazione della Costituzione al vertice delle fonti quale pietra di volta dell'intero ordinamento, dalla cui solidità dipende quella di tutte le altre norme, comporta in primo luogo la diretta dipendenza dell'ordinamento nei confronti della codificazione costituzionale: esso deve così rispettare non solo le norme formali relative alla produzione degli atti giuridici, bensì, più radicalmente, le norme costituzionali stabilenti gli stessi significati giuridici (quelli che possono o non possono essere espressi così come quelli che devono essere espressi). Ciò ha determinato nei fatti la messa in questione (della validità) dell’intero sistema precedente di diritto quale espressione privilegiata di una cultura – quella predemocratica e proto-fascista, se non fascista tout court – ormai deposta –ma non estirpata – dalla Resistenza e dall’evento costituente. Ben si comprende allora come la mancata assunzione di un simile problema da parte della cultura giuridica e politica abbia sempre coinciso con 31

Id., Diritto e ragione. Teoria del garantismo penale, Laterza, Roma-Bari 2008, pp. 907-908.

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un’operazione, più politica che giuridica, volta a neutralizzare l’illegittimità giuridica dello stato di diritto passando tuttavia per la neutralizzazione stessa della Costituzione, la destituzione del suo potere costituente, la negazione di ogni sorta di compito o di compimento relativo alla stessa. A fronte di tale illegittimità strutturale, è possibile individuare un duplice movimento, la compresenza di due diverse correnti le quali, pur con opposte finalità, concorrono di fatto entrambe all'erosione della Costituzione. Da una parte si possono annoverare i tentativi di ridimensionare il potere della stessa, proponendo interpretazioni restrittive, tentando di riformarne lo statuto formale per farla meglio coincidere con la cosiddetta «costituzione materiale», fino a perseguire, al limite, una vera e propria decostituzionalizzazione dell'ordinamento. Si tratta, secondo Luigi Ferrajoli, del processo in atto di radicale trasformazione del sistema politico italiano, alla base del quale starebbe niente meno che il totale rifiuto portato dall’attuale ceto di governo nei confronti dei valori, morali e politici, che sorreggono la Costituzione stessa; un rifiuto che non può che tradursi nella diretta opposizione allo stesso costituzionalismo come principio garantista della democrazia. Ne è conseguita la progressiva trasformazione di fatto del nostro sistema politico in una forma di democrazia plebiscitaria fondata sull’esplicita pretesa dell’onnipotenza della maggioranza e della neutralizzazione di quel complesso sistema di regole, di separazioni e contrappesi, di garanzie e di funzioni e istituzioni di garanzia che costituisce la sostanza della democrazia costituzionale.32

Il compito di attuare la Costituzione nel tentativo di garantire ai cittadini una vita democratica al riparo di eventuali (e sempre possibili) derive totalitarie, il compito proposto al popolo italiano dall’Assemblea Costituente con l’approvazione del 22 dicembre 1947, ha dovuto confrontarsi più volte con i numerosi tentativi di 32

Id., Poteri selvaggi. La crisi della democrazia italiana, cit., p. VII.

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opposizione e delegittimazione, e tuttavia, mai come oggi, esso pare rigettato e disconosciuto in favore della palese accettazione di uno stato di diritto più oligarchico che democratico. (A questo alludono i palesi tentativi di conservazione e protezione dello Stato, passanti sempre più attraverso la legittimazione ideologico-politica del diritto invalido vigente e la squalifica della carta costituzionale. Del resto, simili operazioni di squalifica sono state sostenute e motivate dalle più diverse necessità: il bisogno di fronteggiare le cosiddette situazioni di emergenza, la volontà di proteggere specifiche cariche dello Stato, la delegittimazione del nemico o dell’avversario politico, la tanto semplice quanto demagogica richiesta di una maggiore libertà d’azione politica a fronte degli impedimenti previsti dalla Costituzione33.) Alla seconda forma di erosione dell’assetto costituzionale appartengono, invece, tutti quei tentativi che vorrebbero restituire nuova forza alla Costituzione, nuova legittimità e autorità, mediante una sorta di processo autopoietico, una mitizzazione della stessa tutta tesa a giustificarne l’esistenza come valore in sé, universalmente vigente. A fronte dell’attuale slittamento della politica verso il suo versante oligarchico e populista, si è spesso sentita la tentazione di mitizzare la Costituzione e la storia italiana, di inventare una narrazione sacrale ed opporre così un rinnovato principio di legittimità al vigente potere anti-democratico, per quanto questo si sia dimostrato più volte insensibile e intoccabile rispetto a qualunque richiamo alla legalità (essendo, secondo le parole di Gianluca Solla, 33

I discorsi relativi al contrasto tra la rigidità costituzionale e un agire politico in grado di rispondere alle situazioni contingenti non sono certo un prodotto dell’odierno dibattito politico italiano. In tempi e luoghi meno sospetti, Michel Guénaire, sostenitore di una concezione della politica come «puissance de décision et de volonté», ha potuto delineare nel seguente modo la presunta incompatibilità tra diritto e politica, a fronte dell’urgenza nella quale la seconda è chiamata ad operare: «Synonyme de procédures détaillées dans son corps, la Constitution a décliné dans un encadrement prudent de l’activité politique. Elle veut tout prévoir, elle veut pourvoir à tout… […] La crise de la politique moderne ne provient pas que d’une perte du sens, cause par l’effacement des idéologies; elle naît aussi de l’application de procédés qui n permettent plus son activité». Cfr. M. Guénaire, La Constitution et la fin de la politique, in «Le Débat», II (1991), n. 64, pp. 154-157.

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«un potere ubuesco, non screditabile perché già massimamente screditato»34). Se la prima tendenza è stata oggetto negli anni di numerose analisi e critiche35, non si può certo dire altrettanto della seconda, spesso considerata superficialmente con favore, in virtù delle sue finalità.

È tuttavia doveroso

passare al vaglio simili posizioni, siano esse teoriche o politiche, in quanto recanti, più o meno esplicitamente, la negazione delle fondamenta dello stato di diritto e della democrazia. Tanto la decostituzionalizzazione quanto l’elaborazione mitologica della carta alimentano nei fatti lo stesso processo decostituente, mirante non solo a depotenziare – se non a deporre – la Costituzione del ’48, bensì a mettere in questione l’essenza del costituzionalismo quale sistema politico di limitazione dei poteri e garanzia dello stato di diritto, e quale precario equilibrio tra il politico e il giuridico.

4. Mitologia politica Affrontare la questione del mito significa, innanzi tutto, affrontare diverse questioni intimamente implicate fra loro. Vi è la questione della storia, e di come ogni qualità storica venga piegata, attraverso l’elaborazione mitologica, in direzione di una sua assolutizzazione. Tale operazione, si può ben intuire, non è senza conseguenze: il prezzo da pagare, affinché il mito possa elevare qualcosa a verità naturalizzata, è niente meno che la perdita dei tratti propri che hanno reso singolare un dato evento, un dato oggetto o un dato concetto. Come ha scritto Barthes, «il mito si costituisce attraverso la dispersione della qualità storica delle

34

35

G. Solla, L'Osceno. La Società immaginaria e la fine dell'esperienza, in C. Chiurco (a cura di), Filosofia di Berlusconi. L'essere e il nulla nell'Italia del Cavaliere, ombre corte, Verona 2011, p. 131. Cfr. L. Ferrajoli, La decostituzionalizzazione del sistema politico italiano, in «Progetto Lavoro», II (2011), n. 2, pp. 37-41.

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cose: le cose vi perdono il ricordo della loro fabbricazione»36, così come la traccia delle reali poste in gioco sottese alla loro nascita, la loro emergenza. Ogni mitopoiesi comporta sempre, in qualche modo, un furto di storia, e una restituzione della stessa sotto forma di sopravvivenza. Ma non si tratta che di una sopravvivenza fantasmatica e spettrale, una sopravvivenza che ha sottratto il vigore della contingenza e della storia all’euforia di un’eternità artefatta, tanto immobile quanto imbalsamata. Non è possibile inoltre prescindere dalla questione concernente l’evento e la sua irruzione, la frattura che esso provoca nel suo semplice darsi. In particolare, nel caso del mito, è tanto l’evento della sua produzione che quello della sua (continua) narrazione ad interessare. Sia il caso delle diverse operazioni di mitizzazione della Costituzione, più o meno scoperte, a cui si è assistito nel corso degli ultimi anni. Alcune di queste non solo provenivano da autorità tutt’altro che sospette, ma si dimostravano sostenute dalle intenzioni più meritevoli. Si potrebbe citare, a titolo di esempio, la posizione di Valerio Onida, espressa nel recente La costituzione ieri e oggi. Pur condividendo le critiche mosse da Onida nei confronti di chi, volendo leggere l'evento costituzionale esclusivamente quale «patto politico fra determinate forze nazionali»37, riduceva lo stesso alla sua mera dimensione provinciale, alla contingenza di un evento squisitamente italiano, non possiamo che nutrire riserve in merito all'intempestiva opportunità di una «visione più distaccata, in cui il valore e la portata della Carta possano e debbano essere apprezzati al di fuori e in un certo senso indipendentemente dalle caratteristiche del nostro sistema politico e dei suoi cambiamenti, e dagli specifici problemi e indirizzi che esso esprime»38. Per sostenere la propria posizione Onida insiste, seguendo la posizione di Giuseppe Dossetti fino a citarlo espressamente, sul carattere universale del 36 37 38

R. Bartes, Miti d'oggi, cit., p. 223. V. Onida, La costituzione ieri e oggi, il Mulino, Bologna 2008, p. 9. Ibidem.

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costituzionalismo novecentesco, «uno spirito universale e in certo modo transtemporale»39, fiorito quale conseguenza della generale presa di coscienza seguita alla seconda guerra mondiale. Tuttavia, affinché la Costituzione possa essere ascritta alla dimensione propria di tale spirito universale e transtemporale, essa deve essere come spoliata e depurata da ogni traccia di contingenza e storicità, eradicata dal campo di tensioni che l’hanno prodotta. Non solo: assieme ad essa, sarà tutto il crogiolo stesso di tensioni ad essere estirpato e cancellato, ridotto a mero accidente dell’universale che nel mito e per mezzo del mito si pretende mostrare. E così si vedranno cancellate dall’intima sostanza della Costituzione tanto il delirio totalitario, così intimamente connesso con l’intera storia dell’Occidente e del suo «spirito universale»40, tanto la Resistenza, ridotta in tal modo ad «un’ideologia antifascista di fatto coltivata da certe minoranze»41: di fronte a tutto ciò resterà soltanto lo spettro, tanto immateriale quanto transtemporale, di una Costituzione ridotta a pura forma e a pura vigenza. Si tratta di un’opera di mitizzazione, un atto di mitopoiesi, una deformazione sacralizzante. In altri termini, «una deliberata, tecnicizzata, evocazione di un mito»42, funzionale alla produzione di nuove significazioni. La definizione particolarmente felice di Furio Jesi ha il merito di porre in evidenza i tre caratteri di tale operazione: in primo luogo, essa è deliberata, voluta e perseguita da coloro i quali ne trarranno in qualche modo un certo beneficio; essa è perciò anche tecnicizzata, ovvero funzionale ad un certo disegno o progetto, piegata ad una determinata teleologia. A questo punto si può ben comprendere 39 40 41

42

G. Dossetti, I valori della Costituzione, Ed. S. Lorenzo, Reggio Emilia 1995, p. 68. Su questo si rimanda al fondamentale testo di P. Lacoue-Labarthe, J.-L. Nancy, Il mito nazi, il melangolo, Genova 1992. G. Dossetti, I valori della Costituzione, cit., p. 63. Ben si comprende come lo stesso legame qui proposto tra democraticità della Costituzione e universalità della volontà che in essa si manifesta è, se non arbitrario, per lo meno mitologico. Una Costituzione è democratica perché garantisce tutti, senza alcun riferimento alla maggioranza o alla totalità che l’ha voluta: è democratica per le condizioni giuridiche e politiche pattuite in essa e non per il grado di consenso accordato all’atto costituente. F. Jesi, Mito, Aragno, Torino 2008, p. 131.

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come il mito sia così evocato, richiamato ed attualizzato secondo le – non sempre precise o palesi – finalità dei mitizzatori. Tornando all’esempio sopra citato, ben si comprende come la finalità di un simile tentativo sia quella, legittima e auspicabile, di rimuovere tutte quelle posizioni ideologiche che si sono rivelate essere altrettante limitazioni della democraticità della Costituzione. Ciò che rende inaccettabile e, in un certo senso, persino impraticabile tale tentativo, sono il suo desiderio e al tempo stesso la sua necessità procedurale di separare una forma di autorità dal suo stesso fondamento, inciso in essa come unica via di accesso tanto alla sua comprensione quanto alla sua attuazione. Senza restituire – di questo si tratta – la giusta importanza all’antifascismo quale fattore di democraticità (e non solo in qualità di ideologia) non si riuscirebbe a comprendere la portata stessa della Costituzione, la sua radicale rottura nei confronti dell’intera storia occidentale, quale storia esemplare dell’assenza costitutiva di democrazia. Aver separato l’evento costituente dal suo piano d’immanenza – in altri termini: dal fardello che ancora grava su di esso – non ha potuto comportare niente meno che la «separazione della veste giuridica dal flusso storico, con il risultato del suo ridursi a corteccia rinsecchita avulsa dalla linfa vitale sottostante»43. La principale conseguenza di una mitopoiesi della Costituzione è ora evidente: essa coincide nientemeno che con la rimozione del momento costituente dello Stato quale momento sempre connaturato alla sua vita stessa, nonché con la depoliticizzazione di questa stessa vita nel momento stesso in cui viene affermato lo Stato quale entità immobile, sostenuta da una fondazione extra-storica ed extrapolitica in grado di cancellare le attuali poste in gioco. Se ogni articolo della Costituzione «individua un campo di forze, disegna una trama di poteri»44, l’opera di mitopoiesi servirà a cristallizzare queste tensioni anestetizzandole, ad impedire che esse emergano puntualmente nel politico e nel giuridico quali zone grigie, 43 44

P. Grossi, Prima lezione di diritto, cit., p. 9. S. Rodotà, La vita e le regole. Tra diritto e non diritto, Feltrinelli, Milano 2009, p. 158.

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segmenti di democrazia ancora da compiere. La mitizzazione della Costituzione si è così rivelata nel tempo la modalità privilegiata per sfuggire alla constatazione che, nonostante tutto, nonostante l’interruzione coincidente con la Resistenza e la seconda guerra mondiale, forti e ineludibili elementi di continuità sono sopravvissuti, in modo più o meno latente, nei diversi tessuti sociali, politici e giuridici. L’elaborazione mitologica promette di risolvere – dunque neutralizzare – il fondamento nell’evento mitologico della fondazione, al prezzo di spostare l’attenzione dalle modalità d’esercizio del potere a quelle della sua legittimazione. Significa occultare il lavorio dell’evento costituente, la sua contemporaneità, e relegare il fondamento stesso della democrazia in una sorta di presupposto, l’arché trascendente e trascendentale a un tempo, ma senza alcuna presa nella concretezza della storia o della società. È questa la posta in gioco della mitopoiesi giuridica: una rimozione ideologica, volta ad accreditare l’idea di un'ontologica naturalità del diritto e ad impedirne una compiuta e totale secolarizzazione quale prodotto contingente, interamente storico e umano. Ne risulta pertanto offuscata la comprensione dei fondamenti, sia empirici che assiologici, del diritto positivo e delle istituzioni politiche.45

Ascrivendo Costituzione ed evento costituente alla sfera del mitologico, essi perdono i tratti della storicità e della contingenza per acquisire quelli propri di un’entità meta-storica, naturale e neutrale: si assolutizzano, diventano oggetti di credenze, miti giuridici tecnicizzati da rivolgere contro il divenire democratico. «In altre parole, si esaspera la dimensione autoritaria del “giuridico”», la sua pretesa compiutezza e legittimità, «esasperando altresì la sua allarmante

45

L. Ferrajoli, Principia iuris. Teoria del diritto e della democrazia. 2. Teoria della democrazia, Laterza, Roma-Bari 2007, p. 158.

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separazione dal ‘sociale’»46.

Post-scriptum – La democrazia (non è) incisa nella pietra Mentre scrivo, tengo al mio fianco un libro sulla Costituzione destinato ai ragazzi, un libro dal chiaro intento educativo. È tuttavia l’immagine di copertina ad attrarre la mia attenzione: un colossale blocco di pietra, un monolite d’altri tempi recante incisa sulle proprie pareti una lista interminabile d’articoli, pressoché illeggibili. A lato, due bambini osservano, non senza un certo distacco – curiosità? –, le numerose iscrizioni come fossero altrettanti reperti archeologici. Si tratta, chiaramente, di una metafora di stampo biblico, volta a fondare il valore della Costituzione attraverso un presunto carattere dogmatico, teologico-giuridico: essa è perché è Legge – una legge immemoriale, scolpita da mani invisibili e trascendente, nella sua immobilità, ogni evento storico così come ogni forma di vita. Ma più si persevera nel tentativo di avvicinare la Costituzione alle tavole della legge ricevute da Mosè sul monte Sinai – più si dona ad essa la consistenza della pietra e la durata del mito –, più questa sembra allontanarsi dalla sua materialità propria e dalla dimensione tanto storica quanto attuale a cui essa appartiene senza riserve. Lungi dal poter essere considerata un’operazione sporadica o eccezionale, l’irrigidimento della Costituzione nella sua forma mitica – da un lato fantasmatica e spettrale, dall’altro efficacemente politica – ha segnato più volte le modalità di avvicinamento alla stessa, finendo spesso per identificarsi con l’unica forma di conoscenza o di accesso alla carta messa a disposizione. Si tratta di una consuetudine talmente diffusa da determinare le stesse modalità culturali attraverso le quali i singoli cittadini si rapportano alle fondamenta del proprio 46

P. Grossi, Mitologie giuridiche della modernità, cit., p. 51.

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vivere in comune. Non è certo un caso che Grossi abbia più volte insistito sul fatto che «il nemico culturalmente da battere con ogni sforzo da parte del giurista» – così come da parte del filosofo, o del semplice cittadino – «è la riduzione di una “costituzione” o di una “legge” in un testo cartaceo, riducendo la giuridicità nell'ossequio a quel testo»47: una Costituzione ridotta a lettera morta incisa nella pietra, privata del minimo soffio di forza costituente, è norma senza intensità e pertanto impossibilitata a garantire il divenire democratico di una società. Non si tratta di una questione secondaria: in gioco vi è la tenuta stessa della vita democratica in quanto tale. Ogni discorso sulla Costituzione – e questo, con particolare evidenza, nell’Italia presente, non può che riversarsi e modificare direttamente, senza alcuna soluzione di continuità, le stesse modalità entro le quali si articola l’esistenza della democrazia. Soltanto se si tiene a mente questo nesso è possibile cogliere la reale effettività dei processi di mitizzazione della Costituzione e della conseguente produzione di forme irrigidite, nelle quali verrebbero a risolversi tanto l’intensità della carta quanto la democrazia stessa. A fronte di ciò, non ci si stancherà di ribadire come, strettamente intesa, la democrazia non è una forma, né tanto meno – e a maggior ragione – una forma di Stato: essa è sempre al di qua o al di là delle forme che questo presenta. Più precisamente, la democrazia è tanto il fondamento egualitario quanto l’attività politica e comune (pertanto fuori dall’illusoria dialettica tra pubblico e privato) da cui dipende la legittimità stessa – se non la sopravvivenza – dello Stato. Allo stesso modo, la definizione di democrazia fornita da Stefano Rodotà, secondo il quale «la democrazia si svela come un processo, mai compiuto e sempre più esigente»48, mostra chiaramente la stessa in tutta la sua incompiutezza e precarietà, colta nella sua qualità di processo costituente che accompagna le metamorfosi della società. Senza mai toccare la propria fine, senza giungere al suo 47 48

Id., Prima lezione di diritto, cit., pp. 78-79. S. Rodotà, Repertorio di fine secolo, Laterza, Roma-Bari 1999, p. 40.

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decisivo compimento49, coinvolgendo nel suo stesso dispiegarsi tanto le istituzioni quanto i costumi – e questo ben al di là di qualsiasi distinzione possibile, di qualsiasi conflitto fra i due. Del resto, lo stesso Bobbio, pur rilevando il compito delle istituzioni, aveva chiaramente compreso come una simile separazione, il sempre possibile conflitto tra istituzioni e costumi, non potesse certo essere pacificata mediante ulteriori legittimazioni: non di miti necessitava il divenire democratico, bensì di atti umani – singolari, fragili e precari. Ed è questa stessa fragilità, oggi come allora, a costituire la forza e il valore della democrazia stessa, a tal punto essa non è «garantita da nessuna forma istituzionale. Non è portata da nessuna necessità storica e non ne porta nessuna. È affidata solo alla costanza dei propri atti»50. Se essa è tale, è proprio in favore della cifra fondante di ogni Costituzione: non un comando trascendente, né tanto meno un’imposizione che irrompe dall’alto, ma l’intrecciarsi di politica e società nella reciproca invenzione, quali ramificazioni che seguono e innervano le direttrici e i solchi del vivere (in) comune.

49

50

In questo senso, può sembrare improprio, o per lo meno riduttivo, denunciare la presente situazione descrivendola nei termini di una «crisi della democrazia»: la democrazia in quanto tale, secondo la cifra stessa del proprio statuto ontologico, non può che darsi in perenne crisi. J. Rancière, La haine de la démocratie, La fabrique, Paris 2005 (trad. it. L’odio per la democrazia, Cronopio, Napoli 2007, p. 117).

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