15 saggi brevi
FABIO CIRILLO
15 saggi brevi
PARTE 1 TOTALITARISMO LIBERTA’ E’ VOLONTA’ RIFLESSIONI SU LEVINAS LAVORO RIFLESSIONI SU JASPERS ELLENISMO: UNA FILOSOFIA BORGHESE PARTE 2 POSSIBILITA’ E’ REALTA’ POST!UMANO? TRA L’ONTOLOGIA E LA LOGICA RIFLESSIONI SULLA POESIA DALLA RAGION PURA ALLA FORZA PLASTICA FILOSOFIA GRECA ED INDIANA RIFLESSIONI SU LOWITH MORTE MORTE E UTOPIA
PARTE 1
IL TOTALITARISMO: POPPER E ARENDT Se parliamo di ‘900 e se parliamo di politica, non possiamo certamente tralasciare l’eredità storica dei regimi totalitari, quello nazista tedesco e stalinista russo in primo piano, e, in maniera più attenuata il fascismo italiano. La filosofia del XX secolo propone due analisi di questo tema, all’antitesi tra loro, quella di Karl Popper (la società aperta e i suoi nemici -1945) e quella di Hannan Arendt (lo origini del totalitarismo -1951). Il primo sostiene che l’idea di totalitarismo sia stata sempre presente all’interno della tradizione occidentale, mentre la Arendt ritiene che il totalitarismo non solo sia un fenomeno prettamente del ‘900, causato, più che da correnti maggioritarie del pensiero, da correnti sotterranee: antisemitismo e imperialismo. Cruciale passaggio, secondo Hannan Arendt, per comprendere il totalitarismo è la transazione da razzismo ad antisemitismo: se il razzismo era un idea, interpretato talvolta come opinione talvolta come ideale, l’antisemitismo è una ideologia (per l’appunto logica dell’ideale), nell’ideologia non è importante il contenuto dell’idea quanto il meccanismo per attuarla: A deve necessariamente raggiungere B, poi C, poi D, e così via… e, dice la Arendt, un obbiettivo che ponga fine al movimento non può esistere dato che, il totalitarismo stesso è movimento. Di avviso opposto è K.Popper, il totalitarismo, è sempre esistito, a partire dalla tradizione platonica, fino ad Hegel e a Marx. A questi potremmo anche aggiungere un caso italiano, quello di Tommaso Campanella che nel 1602 (ben tre secoli 4
prima dello stalinismo) scrive “la città del sole”. Popper individua l’elemento caratterizzante comune dei vari totalitarismi nello storicismo, ovvero l’idea secondo cui progresso storico e progresso del genere umano si muovano in maniera simile. Anche l’idea di movimento storicista di Popper e di movimento ideologi sta di Arendt sembrano all’antitesi, l’uno è un movimento teso ad uno scopo ultimo, l’altro è movimento fine a se stesso, anzi, che quasi scappa da uno scopo finale. Il totalitarismo novecentesco, se non dal punto di vista teoretico, appare comunque, dal punto di vista pratico, un qualcosa di nuovo, se esso infatti è sempre esistito a livello ideale (ipotesi da non sottovalutare dato che, se si crede in una verità universale e necessaria si tende anche a credere che per tutti sia giusto seguirla ,altrimenti non sarebbe appunto una realtà UNIVERSALE) non è mai stato applicato con un così buon esito come nel ‘900. Le ragioni di un tale esito sono da ricercare in due macromovimenti storici: l’alienazione dell’uomo dal mondo e dalla politica: in età moderna si è affermato il principio che la sovranità di uno stato spetti al popolo, ma il popolo, in quanto somma di individui, non si sente sovrano. La pragmatizzazione del pensare: a partire da kant l’uomo ha smesso di pensare alle stesse sopra di se in termini trascendentali, l’idealismo ha poi pragmatizzato queste stelle : il trascendentale non è trascendentale, non è più fonte di pensiero teoretico, è divenuto invece forza per l’azione immanente e pratica (esempio di questa concezione è Fiche). Lo spiritualità umana si è pragmatizzata, e la trascendenza non può essere che realizzata nelle utopie terrene. Questi due movimenti hanno quindi favorito il totalitarismo, che potremo quindi definire come una trascendenza materiale 5
fatta di uomini (e da uomini) che hanno delegato il loro pensiero.
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LIBERTA’ E’ VOLONTA’ Penso che oggi molti di noi abbiano una visione fin troppo imborghesita di ciò che questo concetto esprime, una visione estremamente condizionata dall'idea di legge e di stato ed è forse proprio questo uno degli indici più terribili di quanto la polis sia diventata un dispositivo. La polis, per l'appunto il luogo degli uomini liberi. La libertà è innanzitutto l'organo della volontà, e il volere certamente non segue le prescrizioni del nomos, e proprio questa discrepanza che crea il "voglio e non posso" agostiniano! Anche la volontà, a sua volta, ha subito un processo di imborghesimento, per dirlo in maniera Deleuziana, l'intero nostro "desiderare" (ovvero “volere” essendo consapevoli dell'esistenza di una realtà teleologica) è stato ridotto al dramma delle mura domestiche, l'Edipo, quando invece, la macchina desiderante del pensiero umano, ne va ben oltre. L'uomo può anche volere la morte dell'altro, non riconoscere tale ambito della volontà è un errore. Quando due uomini vogliono l'uno la morte dell'altro nasce la guerra. Lo stato è generato proprio contro l'idea di guerra, come sosteneva T.Hobbes. L'istituzione tutela la pace, attraverso la mutilazione, da parte di ogni soggetto, di una porzione di volontà (appunto quella belligerante). Tale mutilazione, che in passato l'uomo se'è autoimposto, ma che ora viene vissuta dall'individuo come una vera e propria imposizione, per l’appunto vieta una totale corrispondenza tra volontà e libertà.
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Come ottenere l'ordine senza violentare la volontà umana, riducendo libertà al “borghesemente possibile” e il resto in un "voglio e non posso"?! Il problema sta nella ricerca dell'ordine, anche le correnti più aperte (quale l’anarchia) alle istanze della volontà lo pongono come fine. In realtà, come diceva anche Hegel a proposito della dialettica servo-padrone, l’identità non si genera mai in maniera pacifica. La guerra, così come il voler uccidere, è nell’uomo, è nessun dato (se non la morale, nel senso più dispregiativo del termine) ci autorizza a pensare ne il contrario ne l’ingiustizia di tale concezione. La guerra e l’uccidere si prestano ad essere dei fini trascendentali e teoretici. Lungi da me ovviamente fare una apologia alla guerra o all’omicidio, sto semplicemente affermando in maniera logica una proposizione secondo la quale non è detto che si uccida semplicemente per la sopravvivenza del corpo: Amleto, per fare un esempio letterario, altro non è che colui che ricerca la verità da folle, il suo specchio opposto è Laerte, anch’egli è alla ricerca della verità ma forte di una razionalità datagli dal conoscere i fatti (così come gli sono stati raccontati dal re). Sebbene i due prima del duello finale si riconcilino dal punto di vista morale, entrambi per un fine teoretico (la verità) avrebbero lottato finche uno non avrebbe ucciso l’altro. L’ordine non è nell’uomo, ed ogni tentativo da parte della legge positiva di imporlo è destinato fin da principio a fallire. Ne istituzione ne ordine quindi, ma come è a questo punto garantita la vita? Come potrebbe non essere ipotizzabile, a queste condizioni, un continuo scannarsi tra essere umani? E soprattutto, come potrebbe non essere ipotizzabile un perenne trionfo del più forte? Partiamo da quest’ultimo quesito: Foucault ne “Le parole e le cose. Un'archeologia delle scienze umane” del 1966 (non che in un certo senso già Democrito) affermava che l’uomo in 8
quanto animale strutturalmente debole, abbia creato le scienze e la tecnica come mezzo per sovvertire questo rapporto di debolezza. Così si potrebbe presumere che all’interno del disordine gli individui strutturalmente deboli vogliano creare un ordine per tutelare la pace… non è questo già lo stato? No perché lo stato, come abbiamo già detto, viene imposto all’individuo a prescindere dalla sua volontà. L’uomo del nostro tempo ha perso la sua volontà di tutelare la pace e al contempo si trova imprigionato nella condizione non potere esprimere la stessa volontà in guerra, il tutto a causa di un ordine a cui non ha mia scelto di aderire. Per concludere, e per affermare ancora una volta che questo articolo non elogia la guerra, ma semplicemente afferma come questa possa essere espressione di una volontà che va comunque rispettata. Diciamo che la guerra, se come abbiamo visto è un possibile fine trascendentale, non è certamente l’unico, anzi, è molto più facile (e intuitivamente giusto) supporre che l’umanità ha da raggiungere la sua struttura ultima in maniera collettiva, senza però per questo reprimere la volontà di chi sostiene il contrario.
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RIFLESSIONI SU LEVINAS Tra i contributi che Martin Heiddeger, uno dei più grandi pensatori del XX secolo, ha dato alla filosofia, i principali sono certamente l’idea di differenza ontologica (l’esser-ci dell’ente), e la teoria dell’essere-per-la-morte. Emmauel Levinas (1905-1995), filosofo lituano, in lingua francese, prese le fila del suo ragionamento proprio da Heiddeger. Egli sosteneva che se ogni essere è quello che è qui ed è ora, e se ogni possibilità dell’essere è scandita dai tempi della morte, allora ogni ragionamento etico è solo ironia. Nell’esser-ci l’azione etica (per come la intendeva Kant, ovvero attraverso l’intento) non può avvenire. Il darsi dell’altro è percepito dal medesimo attraverso una riduzione, tale riduzione è violenza,è una violenza propria dell’essere, l’uomo percepisce gli oggetti attraverso il darsi di questi ai propri sensi, non ha altro modo di percepire se non i sensi stessi, quindi la fenomenica riduzione dell’altro al medesimo è una violenza irrimediabile. La pace non è vista in se, bensì come una condizione transitoria tra una guerra e l’altra, una situazione immanente nella quale il medesimo è incatenato dato che è qui ed è ora, e questo essere qui ed ora è dettato dal rapporto col non essere, col nulla, con la morte. Dove allora può accadere l’etica?! Levinas afferma che questa è possibile, ma deve prevedere una non riduzione dell’altro al medesimo, un paradossale percepire l’altro in assenza dell’io che percepisco, in assenza (o meglio “prima”) del mio esser-ci. Come questo può accadere se l’essere è “gettato” al mondo, è gettato nel suo “qui ed ora”? 10
Levinas oppone all’esser-ci heiddegeriano un altrimenti-cheessere: il darsi del volto dell’altro (“la vedova, l’orfano e il forestiero” immagini prese dalla Tohrà) genera nel mio esser-ci una paralisi, io non sono più qui ed ora, ma sono ostaggio dell’altro, io patisco per l’altro, provo il dolore dell’altro a prescindere dalla mia esistenza. Io non “ci sono”, eppure sono (altrimenti-che-essere), sono in identità con l’altro prima di esservi in differenza, e questa differenza avviene proprio grazie al fatto che il mio essere qui ed ora è paralizzato. Come questo meccanismo si traduce in prassi? Come torno al mondo? Grazie alla comparsa del terzo, un altro prossimo che attraverso la sua esistenza mi “libera” dalla “paralisi”… la fenomenologia del volto ha generato però in me una epifania, quando tornerò al mondo non avrò “dimenticato” ciò che ho “appreso” in identità con l’altro. Tornerò nel mio esser-ci come soggetto Giusto. Tale giustizia può portare ad una coscienza e quindi ad una trascendentale etica che ponga la pace come condizione assoluta e non come periodo transitorio tra una guerra e l’altra. Per quanto utopistica sia, l’etica levinasiana, intriga ed affascina soprattutto a livello teoretico e pratico, (forse un po’ meno a livello storico e politico, quando diverrà una apologia allo stato di Israele). Jaques Derrida (1930-2004) critica le teorie di Levinas asserendo che in realtà, tra il medesimo e l’altro, e tra il darsi del secondo al primo, non c’è immediatezza alcuna, e che la paralisi stessa (che comunque continua a sussistere) è violenza. Chiediamoci a questo punto se una azione morale, causata dall’epifania del volto, sia davvero tale: un atto, per essere definito morale, prevede il libero arbitrio da parte di chi lo compie. Immaginate che Dio abbia già scritto il mio destino e mi abbia mandato al mondo, se io ucciderò 11
qualcuno o ne salverò la vita, di tale azione non me ne si può dare ne la colpa ne il merito, io non ho possibilità di oppormi ad un qualcosa di già scritto, non c’è possibilità, nel caso del destino ve n’è solo l’illusione, se io sono destinato ad uccidere, per quanto voglia non uccidere, non ne ho la possibilità. Se in ambito determinista non esiste morale, in ambito possibilista si: se io ho due possibilità e tra le due posso scegliere liberamente (posso uccidere quanto non uccidere) attraverso la mia volontà, allora Della scelta che prenderò io sarò responsabile, e quindi mi sarà potuta dare la colpa o il merito ( a seconda del ragionamento morale). L’azione etica conseguente al darsi del volto non è libera: essendo il mio esser-ci paralizzato, io non adopero la mia volontà, quindi io non sono responsabile dell’azione compiuta. Nell’altrimenti-che-essere io non adopero la mia volontà, e se l’azione che compio non è da me voluta, allora non me ne si può dare il merito (quindi l’eticità). L’azione morale che consegue l’epifania del volto non è libera, non è una possibilità, è bensì determinata, come se fosse destino!
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LAVORO: TRA BISOGNO E DESIDERIO Il lavoro nobilita l’uomo, o lo rende simile alla bestia? Questi due aforismi popolari rendono perfettamente l’idea di un forte dilemma posto in essere dal pensiero moderno contemporaneo e non solo. Sembra doveroso a tal proposito cominciare da Max Weber, sociologo e filosofo del XX secolo,che studiò questo fenomeno, individuando nella dottrina protestante calvinista l’archetipo delle idee capitalistiche. I calvinisti individuavano nel lavoro una sorta di vocazione religiosa, un modo di indirizzare la propria anima verso la grazia divina e la salvezza, o, quantomeno, comprendere i piani che il divino ha per il soggetto. Il calvinismo propugnava l’accumulo di ricchezze nella vita, ma non finalizzate allo sperpero… per i seguaci di Calvino sembrano contare non tanto i guadagni, quanto l’atto di lavorare. Lavoro per il lavoro, l’ascesa sociale tramite il successo negli affari, Fielding, Marivoux, siamo alla grande topica dell’ephos borghese. Negli utopisti dell’umanesimo e nel rinascimento (More e Campanella) e in diversi giusnaturalisti (Rousseau in primis), il lavoro diviene un dovere sociale, una condizione dalla quale deriva benessere per l’intera collettività. Lo coesione sociale generata dal lavoro riveste pari importanza sia nella Rousseauiana età dell’oro (dove dalla mia autoconservazione dipende quella degli altri), sia nella Smithiana fabbrica di spilli (antenata di quelle fordiste e tayloriste). Hegel, sottolineò come la teoria economica liberale avesse sopravvaluto lo spirito di cooperazione, la piena coesione 13
sociale, il filosofo afferma che questa non può certamente svolgersi nella sola società civile, è necessario lo stato. La sua teoria del lavoro era tutta intesa nella dialettica servo padrone: allo stato di natura c’è sempre la celeberrima “guerra di tutti contro tutti”, questa è vinta da chi ha meno paura della morte, che diverrà il padrone, mentre l’altro, avendo preferito sottomettersi al primo anziché morire ne sarà il servo. Ora, il servo soddisfa i suoi bisogni mediando con la natura, mentre il padrone li soddisfa in maniera immediata (non-mediando) dato che conta sulla forza del servo. Tale situazione è comunque destinata a cambiare (e a rovesciarsi). Se prima la vita del servo dipendeva da quella del padrone (che accetta di non ucciderlo in cambio della sua sottomissione), il rapporto ora si inverte, è la vita del padrone a dipendere da quella del servo (dato che questi, a differenza del primo, ha assunto quel sapere che trasforma la natura). La dialettica è comunque destinata a sintetizzarsi nello stato, l’entità capace di garantire la sopravvivenza del corpo a prescindere dai rapporti di servitù. Marx è sicuramente meno ottimista di Hegel, egli afferma che, nel mondo capitalista, il lavoratore non è capace di acquisire quella sapienza che lo realizza. Il proletario è alienato: alienato dal prodotto, che non è suo, ma del capitalista; alienato dalla sua attività lavorativa, ad esempio, in una catena di montaggio per la produzione di sedie, il lavoratore non crea una sedia, mette semplicemente un chiodo in un asta di legno, e non può quindi riconoscersi nel prodotto finito; alienato dalla sua essenza, dal fatto di trasformare la natura con il suo lavoro, sono le macchine a trasformare, a creare, il soggetto presta semplicemente forza meccanica; alienato dal rapporto con l’altro uomo. Tale condizione porta il lavoro a non soddisfare più bisogni propriamente umani, ma bisogni che appartengono all’uomo quanto a qualsiasi altro animale (sopravvivere e riprodursi). 14
Nietzsche di canto suo indica come il lavoro dissipi l’otium, il “tempo libero” dedicato alla riflessione al perdersi e alla fuga. Il maggior contributo novecentesco in questo campo arriva però da Freud. Com’è ben noto, egli afferma che la psiche è su un diverso piano rispetto alla mente, e quindi vive di energie proprie, in primis la libido. In un suo trattato del 1930, il disagio della civiltà, egli descrive, dal punto di vista psicologico i problemi della civiltà capitalistica: parte dalla descrizione dei bisogni del infante e del fanciullo: all’inizio della nostra vita attraversiamo tre fasi, quella orale, in cui proviamo piacere nel nutrirci al seno, quella anale, nel cui proviamo piacere a defecare, e quella pubica, nella quale subentra la masturbazione. Queste tre fasi sono dette narcisistiche, riferite dal soggetto verso il soggetto, e soddisfatte in maniera immediata, ivi nasce il principio di piacere. Questo però sarà ben presto contrastato dal principio di realtà, secondo il quale per ottenere un piacere, il soddisfacimento di una pulsione, dobbiamo investire energie libidiche. La soddisfazione del bisogno ovviamente non dipende solo dalla quantità di libido impiegata, ebbene tali energie devono comunque trovare risposta nella realtà, e a tal proposito che si fa ricorso alla coscienza morale, tale ricorso avrà come conseguenza il rafforzarsi della funzione del superego come censura. Il freudiano disagio della civiltà consiste proprio in un principio di piacere che la realtà è perennemente incapace di soddisfare. Ciò si collega strettamente al tema del lavoro, col lavoro l’individuo mette in atto un processo di sublimazione, ovvero lo spostamento di una pulsione sessuale verso una meta non-sessuale. Non potendo contare su un immediato soddisfacimento di un bisogno, è necessario per ottenerlo una mediazione con il principio di realtà. 15
È, a questo punto, fondamentale fare una distinzione tra bisogno e desiderio. Il primo è generato dall’aspetto biologico naturale dell’essere umano. L’ uomo, anche allo stato naturale, ha bisogno di nutrirsi, e per fare ciò deve lavorare, un azione protesa al soddisfacimento di un bisogno è un lavoro (che sia un turno in fabbrica, il cacciare selvaggina, o il cogliere un frutto da un albero). Nutrirsi, preservarsi dalle condizioni naturali, questi sono bisogni. Per quanto concerne il desiderio, il dibattito tra gli studiosi è in continua evoluzione: Lacan, nel suo continuo confronto con Freud, individua nell’io due istanze, quella etica, e quella del desiderio. Il filosofo si rifà a Saussure e ad altri strutturalisti, affermando che la realtà è costituita dal linguaggio (non solo la parola, ma anche i codici visivi ed i suoni). Il mondo è quindi conosciuto mediante dei significanti, la lang è l’insieme di tutti i segni, ma tali segni sono una datità, non sono frutto del mio io, quindi mi appaiono vuoti, come significanti senza significati, ciononostante sono l’unico modo che abbiamo per definire la realtà. L’io stesso, frammentario alla nascita, desidera di tornare all’origine, all’unità (alla madre), ma ciò è impedito dall’istanza etica (il padre). Il vuoto dietro al segno, il sentirsi frammento disunito genera il desiderio. Questi nasce a prescindere dal bisogno, il desiderio è pulsione d’essere, non un qualcosa di biologico. Le teorie di Gilles Deleuze sul desiderio sono ancor più radicali, dal suo confronto con Freud e con la psicoanalisi in generale nasce un geniale trattato dal titolo Anti-edipo, in cui la psicologia è imputata di aver ridotto la “macchina desiderante” umana alla tragedia delle mura familiari, appunto l’Edipo, di aver reso l’inconscio come una rappresentazione teatrale ove i ruoli (di Amleto e Laerte ad esempio) sono sempre gli stessi. L’io è come una fabbrica, non come un teatro, i rapporti sono dinamici, così come la libido non spinge solo verso le pulsioni 16
sessuali dettate dall’infanzia e dalla figura della madre. L’oggetto del desiderio, afferma Deleuze, non è mai un singolo oggetto, od un rapporto con questi, quando desideriamo noi costruiamo, creiamo, non si desidera una donna od un vestito, si desidera un insieme, ma non un insieme di oggetti o di rapporti tra noi e questi, più che desiderare un insieme si desidera “in un insieme”, ovvero si costruisce un cosmo (posizione questa molto vicina Goodman). Lacan e Deleuze sono quindi molto vicini, se il primo sottolinea il vuoto dovuto a significanti inadeguati ai significati del desiderio, il secondo indica come il desiderio stesso dia una altra connotazione a questi segni che rappresentano il mondo. Desiderio e bisogno sono realtà totalmente diverse, per riprendere Marx, possiamo dire che il lavoro per soddisfare il bisogno è caratteristica di ogni animale, il lavoro, relazionato col desiderio, è la prerogativa del lavoro umana. Le energie libidiche sono protese si verso la soddisfazione del bisogno sia verso quella del desiderio. Nella società moderna, caratterizzata dal capitalismo e soprattutto dalla potenza delle istituzioni, il lavoro umano, quello proteso alla soddisfazione del desiderio non appare come un qualcosa di lontanissimo. Tanto che il primo Mercuse (quello più ottimista), sostenne che il progresso del capitalismo avrebbe portato gli uomini a dedicare meno tempo al lavoro e quindi ad avere più tempo libero da dedicare all’otium, al desiderio. Nei trattati successivi egli stesso riconosce d’aver peccato di ottimismo. Primo obiettivo delle istituzioni è la tutela della pace, questo è ottenuto mediante coercizioni, tali da non permetterci di desiderare oltre certi limiti, in primis mortifica quello spirito violento, di distruzione e di autodistruzione, definito già da Freud “tahnatos”, che fa parte dell’uomo almeno quanto lo spirito di amore e di autoconservazione (eros). Non dimentichiamoci poi del 17
consumismo e dei media, che, agendo anche (e soprattutto) sui giovanissimi, ingrandisce questi limiti entro cui “desiderare”. Ma desiderare, come abbiamo visto, vuol dire proprio abbattere i limiti, costruire un nuovo mondo, ed è proprio questo che il mondo costituito combatte. Siamo in una società anti-desiderante, anti-umana. Il lavoro voluto dalle istituzioni, è soddisfazione di bisogni e null’altro, e la tutela di questi bisogni da maggior ragione alle istituzioni. Un circolo vizioso in pratica, dal quale se ne può uscire solo con la volontà di desiderare, malgrado ciò che da sempre ci viene presentata come realtà.
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RIFLESSIONI SU JASPERS Avete ucciso delle persone nel campo? - si - le avete avvelenate col gas? - si - le avete bruciate vive? - si qualche volta è successo. le vittime venivano prelevate da ogni parte d’Europa? - penso di si - lei personalmente ha preso parte alle uccisioni? - assolutamente no, nel campo ero solo ufficiale pagatore - che cosa pensava di quello che accadeva? all’inizio era spiacevole, ma poi ci siamo abituati - sa che i russi la impiccheranno? - (scoppia in lacrime) perché dovrebbero? Cosa ho fatto? (12 novembre 1944) Sono queste le parole dette da un prigioniero di guerra tedesco (ex “impiegato” presso un campo di sterminio) ad un corrispondente americano. Vale effettivamente la pena chiederci, fino a che punto, questi, sia colpevole delle persone morte nei campi cui nell’intervista si faceva riferimento. Karl Jaspers, amplia la prospettiva: nel 1946, tiene nell’università di Heidelberg una serie di lezioni (che saranno poi pubblicate col titolo “La questione della colpa”). Quanto un cittadino tedesco può ritenersi assolto (o colpevole), Che responsabilità ha nei confronti dell’olocausto? Il filosofo inizia distinguendo quattro tipi di colpa: Colpa giuridica: individuale, che riguarda gli atti commessi dal singolo soggetto, giudicati dal tribunale come criminali o meno. Colpa politica: collettiva, inerente al cittadino in quanto tale, in quanto ente in società, giudicata da “la forza di volontà, del vincitore nella politica”. Colpa morale: individuale, riguardante ancora una volta le azioni svolte dalla singolo, a giudicare è la coscienza morale dello stesso. 19
Colpa metafisica: ancora collettiva, riguardante il genere umano, e la solidarietà che ci accomuna, a giudicare è il proprio senso “trascendentale”, quando, di fronte al male, non si è fatto tutto il possibile per impedirlo Alla luce di questa partizione Jaspers indicherà che dinnanzi ad un numero esiguo di colpevoli giuridici (che comunque hanno diritto ad un processo), l’intero popolo tedesco è colpevole: politicamente (dato che ogni uomo è responsabile in parte della propria classe governante [non dimentichiamo che Hitler prese il potere per libera elezione]) ; moralmente; metafisicamente (il male di Auschwitz- dice il filosofo- ha toccato le radici dell’essere umano nel senso ontologico del termine). Proponiamo ora un ulteriore distinzione, tra colpe pratiche (giuridica e politica) e colpe “teoretiche” (morale e metafisica). Ed analizziamo il problema della responsabilità: Il termine deriva da responso (=risposta), di cosa io debbo rispondere in una società civile? Delle mie azioni, Degli atti della mia volontà. Se io venissi stordito, nelle mie mani inanimate venisse posta una pistola carica, e chi mi avesse tramortito farebbe in modo che le mie dita premessero il grilletto uccidendo un uomo, io della morte di quell’uomo non ne sono responsabile! Tutt’al più se l’istanza giudicatrice sono i vincitori della storia, una categoria, mai assoluta, e continuamente mutevole nel tempo! Col moderno sistema politico il cittadino è come per l’appunto stordito, praticamente incapace di esprimersi nella vita politica, (l’atto del voto non è uno strumento adeguato alla affermazione della volontà!), se quindi il governo di una nazione spetta solo teoricamente al cittadino, questi non è responsabile delle azioni messe in atto dal “proprio” governo. Fino a che punto è responsabile delle proprie azioni il soggetto? Fino a che punto possiamo parlare di colpa giuridica? la base del discorso è sempre nella volontà, se io, nel 20
pieno delle mie facoltà mentali, uccido un uomo, questo è sicuramente un atto di volontà, ne devo quindi necessariamente rispondere?! In primis chiediamoci a chi un omicida debba rispondere, ovviamente ad un tribunale, ed un tribunale non è pur sempre istituito dai vincitori della storia?! (Si potrebbe obiettare che l’uomo ha una coscienza morale insita [per questo rimando ai paragrafi successivi]). Ma soprattutto, l’essere qui ed ora non è un atto di volontà, l’uomo è gettato al mondo ed è gettato con l’altro, il fatto che io debba rispondere all’altro (od a un insieme di altri, ovvero lo stato che istituisce il tribunale) della mia volontà, è un qualcosa di contingente. ragionando teoricamente, l’unico strumento che possa garantire la coercizione dell’altro sul medesimo, e viceversa, è la forza fisica o quella vitale (la legge del più forte). Il riconoscere all’istituzione la facoltà di giudicare i propri atti non è a sua volta un atto di volontà, quindi io non sono necessariamente responsabile delle mie azioni, per quanto criminali possano essere. Per quanto riguarda la colpa morale, abbiamo detto che a giudicare le azioni è la propria coscienza individuale, “la mia coscienza mi riserverà senz’altro un trattamento amichevole. Non è poi tanto male, basta tirarvi un fregio, e si incomincia una nuova vita” dice Jasper indicando ciò come un errore. Tuttavia, se ancora Kant parlava di un tribunale della ragion pratica comune ad ogni essere dotato di ragione, sappiamo oggi che la coscienza morale è appunto un qualcosa di individuale, ed è a mio avviso strettamente legata alla metafisica (tema del quale lo stesso Kant pone dei forti limiti di conoscenza). La colpa metafisica risiederebbe infatti nell’idea che l’olocausto abbia contravvenuto alle radici ontologiche umane. L’essere per sua natura non ha conoscenza dell’assoluto (altrimenti non sarebbe uomo), la metafisica quindi, sebbene sia un campo collettivo, è percepibile dall’uomo solo 21
individualmente, ognuno crede in qualcosa di irrimediabilmente diverso da ciò in cui crede l’altro, e non c’è alcun modo di sapere chi ha ragione è chi ha torto. Supponiamo una teologia che indichi la trascendenza nella esclusività della razza ariana, se tale indirizzo metafisico, fosse, per assurdo, vero, l’aver ucciso un ebreo non sarebbe una colpa bensì un merito! Ragionamenti assurdi a parte, ribadiamo che l’uomo non può conoscere l’assoluto, quindi una colpa metafisica collettiva non può esistere, potrebbe esistere quella metafisica individuale (che sarebbe la colpa morale di cui abbiamo già visto), ove, in nome del dio in cui credo, devo amare il prossimo come me stesso, ma non posso io imporre all’altro questa mia visone della trascendenza e della metafisica.
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ELLENISMO: UNA FILOSOFIA BORGHESE «Voi dite bene,» rispondeva Candido: «ma noi bisogna che lavoriamo il nostro orto.» Forse, la presente citazione, più di altre, mostra nella maniera più dispregiativa possibile, la degenerazione borghese. Candido, dopo aver vagato per “il migliore dei mondi possibili” comprende, con sarcastico ottimismo, che l’unica cosa da fare è appunto il curare il proprio pezzo di terreno. Curarlo a prescindere dai dolorosi fatti del mondo, nelle decadenti mura domestiche (quali quelle di una fattoria), nella sola ricerca di una serena felicità. Ciò che caratterizza la filosofia, è proprio il voler uscire dalle mura di ogni singola disciplina; di cercare, a livello teorico, un denominatore che unisca la conoscenza tutta, il fine della filosofia è spingere se stessa oltre i limiti, oltre le colonne d’Ercole. Il concetto di borghesia, al di la dell’immagine puramente economica, va legato al concetto di “utilità alla vita”. I greci avevano due termini per designare la vita: -Zoe: vita biologica, immanente, che non richiede alcuno sforzo oltre il respirare. -Bios: vita, per così dire, degna di essere vissuta. Posizione materialista (degna del massimo rispetto filosofico), designa la vita come l’unico luogo che appartiene all’essere, ma tale assunzione, non basta da sola per indicare un modello di vita borghese. Posizione materialista, ad esempio, era anche quella di Nietzsche, ma il suo ultrauomo è naturalmente quanto di meno borghese esista. 23
Il “dire si alla vita” nietzschiano dice si al bios, alla vita piena, alla struttura immanente che in se possegga anche la trascendenza. Tutt’altra cosa è il borghese dire si alla Zoe: eterna essa appare come potenza immanente pure, infinitamente sostituibile, rinuncia agli ideali, alle idee, in favore di una felicità che trova sua unica giustificazione nella serenità, nella possibilità di continuare a “vivere” (nella misura in cui vivere vuol dire respirare). Filosofia e borghesia sono dunque agli antipodi? Il modo di vita borghese, se pur affermassimo che non si manlevi del tutto dall’aspetto teoretico dell’essere, ne da una risposta assoluta, matematica : struttura ultima dell’esistenza è una serena felicità. Non s’intende qui borghesia come il ceto sociale sviluppatosi in età moderna, intendiamo qui più che altro una accezione, una form mentis, di cui, gran precursori possono essere le filosofie ellenistiche. “il primo impulso che l’uomo ha è quello di conservare se stesso” scrive Diogene Laerzio nelle vite dei filosofi, opponendo lo spirito di autoconservazione al piacere epicureo (il quale avrebbe anche potuto avere un qualche valore trascendentale). “[…] il fine si identifica col vivere secondo natura. Vale a dire secondo la propria e secondo quella universale, senza compiere nulla di quanto ci vieta ordinariamente la legge universale comune a tutti, che si identifica poi con la retta ragione che percorre tutto il reale” continua lo stesso ponendo l’accento sul vivere secondo natura. Natura identificata col logos? Non si direbbe, sin da Eraclito e Parmenide il logos ha rappresentato la verità assoluta, molto più di una condizione della physis antropica da assecondare. Tale vivere secondo natura, può trovare un suo archetipo nella “temperanza” platonica, che, come afferma il filosofo ateniese, 24
non è altro che la prerogativa dei “produttori” non certo dei pensatori, potrebbe quindi apparire quanto mai patologica l’idea di temperanza elevata a quantum teoretico. Proprio sul concetto di patologia si evidenzia l’aspetto più borghese delle filosofie ellenistiche, ovvero la filosofia come terapia, come cura per un uomo malato, malato di paure, di passioni o di brama di conoscere. Se tali aspetti esistenziali ed essenziali dell’uomo sono visti come una malattia, la salute è allora il non essere, o l’essere come il semplice essere biologico, come il semplice respirare, come il semplice curare il proprio orto. Già il credere nel concetto di malattia e di salute è di per se una degenerazione del libero pensiero (dalla quale però chiunque voglia fare una osservazione, chiunque voglia elaborare un giudizio non può esimersi) anche Nietzsche nelle sue opere parla di malattie del pensiero, (malattia storica, malattia scientifica), ma se questi sostituisce la malattia con l’incertezza, essa stessa fonte di salute e libertà, essa stessa dinamite per le colonne d’ercole, gli ellenisti sostituiscono alle certezze “malate” altre certezze, ancor più malate, ancor più piccole e strette, strette quanto le mura borghesi, o quanto il recinto di un orto.
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PARTE 2
POSSIBILITA’ E’ REALTA’ La “tradizione contemporanea” dice (a buon merito, sia ben inteso) che l’essere è possibilità, progetto, sicché questa, per quanto proiettata nel futuro, è nel presente, non vive in una dimensione che non è (come appunto il “futuro”, il tempo che non è ancora), vive nel presente, si può quindi affermare che la possibilità è! È reale anche se non ancora “presente” sull’asse della realtà stessa! La meccanica quantistica proietta questo possibilismo istantaneo anche sulla conoscenza scientifica, tutto ciò che noi conosciamo, non solo a livello esistenziale, è una possibilità. Erwin Schrodinger, nella prima metà del ‘900, criticò l’idea classica della meccanica quantistica (interpretazione di Copenaghen) attraverso uno pseudo-esperimento, un paradosso: “ Si possono anche costruire casi del tutto burleschi. Si rinchiuda un gatto in una scatola d’acciaio insieme con la seguente macchina infernale (che occorre proteggere dalla possibilità d’essere afferrata direttamente dal gatto): in un contatore Geiger si trova una minuscola porzione di sostanza radioattiva, così poca che nel corso di un’ora forse uno dei suoi atomi si disintegra, ma anche in modo parimenti verosimile nessuno; se ciò succede, allora il contatore lo segnala e aziona un relais di un martelletto che rompe una fiala con del cianuro. Dopo avere lasciato indisturbato questo intero sistema per un’ora, si direbbe che il gatto è ancora vivo se nel frattempo nessun atomo si fosse disintegrato. La prima disintegrazione atomica lo avrebbe avvelenato. La funzione Ψ dell’intero sistema porta ad affermare che in essa il gatto vivo e il gatto morto non sono stati puri, ma miscelati con uguale peso.” 27
In pratica il gatto ha le stesso possibilità di essere morto quanto di essere vivo,e, per dirlo con eccessiva semplicità, la meccanica quantistica pone la possibilità come realtà, quindi il gatto e sia morto che vivo! Il fisico viennese intendeva con tale concetto criticare l’approccio dello studio dei quanti, eppure tale esperimento, e la sua conclusione ossimorica, paradossale e antilogica, sembra invece avvalorare (almeno dal punto di vista dello studio della conoscenza in quanto tale), la forza della meccanica quantistica: la conoscenza logica, ipercriticata negli ultimi secoli (prima con Nietzsche a livello vitalista, poi con Hiddeger a livello soprattutto conoscitivo-teoretico), sembra ora cadere anche sul fronte scientifico, una caduta che ovviamente è, come sempre, fonte di una ricostruzione più forte, al netto degli errori passati. La possibilità è (reale)! Il gatto è sia vivo sia morto. Una lezione che l’umanità ha appreso da David Hume, sta nel fatto che ogni scienza si basa sul concetto di ripetizione: se posso affermare che la forza di gravità agisce, che se lascio un oggetto nel vuoto esso cadrà, è “soltanto” perché fino ad ora quest’evento s’è sempre ripetuto. Se tra un minuto lascerò un oggetto nel vuoto, non posso avere alcuna certezza empirica che questi cadrà o meno, certo potrei pensare che le cause restino invariate e quindi resti invariato anche l’effetto, ma la certezza che tali cause non mutino è a sua volta dogmatica, convenzionale e basata ancora una volta sul principio di ripetizione. Altro punto cardine della meccanica quantistica è l’idea che il fenomeno cambi (sull’asse della realtà, e non solo su quello della razionalità) a seconda di chi lo osservi; tale punto è espletato nell’esperimento delle due fessure: 28
se lanciamo delle “particelle” di materia contro una superficie, e tali particelle passano attraverso una fessura, otterremo sulla superficie una banda, pari alla fessura, allo stesso modo se le lanciamo attraverso due fessure. Se invece proiettiamo un onda su una superficie, facendola passare sempre attraverso due fessure, otterremo sulla superficie un “pattern ad interferenza” (dato che la parte superiore di un’onda, incontrandosi con la parte superiore di un'altra, la annulla e annulla se stessa). Entrando nel mondo dei quanti, e proiettando una particella subatomica, quale un elettrone, attraverso una fessura, otterremo, come è prevedibile una singola banda, ma se le proiettiamo attraverso due fessure otterremo (come già mostrato dall’esperimento di Young nel 1801) un pattern ad interferenza (non due bande come nel caso delle particelle di materia). Ma c’è dell’altro: se inseriamo un dispositivo di misurazione osserveremo che, nonostante l’osservazione del risultato finale (per l’appunto un pattern d’interferenza), l’elettrone si comporta come una particella, non come un’onda… differenza antitetica quindi tra l’atto di osservare e l’atto di misurare, così come già mostrato dal principio di indeterminazione (se conosciamo la velocità di un corpo non ne possiamo conoscere la posizione e viceversa). Ciò è quindi una prova ancor più palese che la possibilità è realtà, e di come l’idea di ripetizione, come garante di validità scientifica non sia poi così forte. Ma come è possibile una “improvvisa” differenza, come può la natura “voler” mutare le sue condizioni ed il suo comportamento? possiamo mai accettare che la natura abbia una esistenza e persegua un telos (come qualcuno ha fatto in passato, Platone ad esempio)? Con quale velocità possono rinnovarsi le condizioni dell’universo? 29
Nell’universo ogni corpo si muove nel tempo, forse solo nel tempo, mentre il movimento nello spazio “potrebbe” essere una illusione della molteplicità di un uno ineffabile (si veda l’entanglement degli elettroni). per conoscere un oggetto dovrei fermarlo, estrapolarlo dal tempo,e in oltre dovrei fermarmi io, oppure più “facilmente” dovrei fermare il tempo. Un oggetto anche se immobile si muove! Un sasso perso nel deserto, fermo nello spazio per centinaia di secoli, si muove in ogni istante, passa da tempo n a tempo n+1, n+2,n+3 e così via… ogni istante si muove ogni cosa nell’universo. Ma cos’è il tempo? Cos’è il movimento nel tempo? Il tempo è il susseguirsi degli istanti, si immagini di scattare una foto a quel sasso in ogni istante, la sequenza di tutte queste foto istantanee da il tempo… alla maniera dei paradossi di Zenone si potrebbe affermare che ogni frazione di tempo è divisibile, il sasso prima di passare dal tempo n al tempo n+1 dovrà raggiungere la metà del tempo n+1, prima di raggiungere la metà del tempo n+1 dovrà raggiungere la metà della metà di N+1, e così via… Albert Einstein ci da la soluzione, la velocità massima possibile all’interno dell’universo è quella della luce (299792,458 km/s), ecco perché si dice che, superando la velocità della luce riusciremo a vedere noi stessi nel passato, appunto perché riusciremo a vedere l’istantanea precedente). in sintesi si potrebbe quindi dire che l’universo rinnova se stesso (si emana per dirlo alla maniera dei neoplatonici) a tale velocità data e atoma (indivisibile). Il sasso perso nel deserto si muove nel tempo a questa velocità. Nell’emanare se stesso in ogni istante, potremo dire, nel crearsi di continuo, il cosmo può vestirsi di determinate differenze. La natura apre quindi ancor più possibilità a se stessa. Possibilismo della natura… 30
potrebbe essere definito quasi come una volontà della natura, una sorta di finalismo che la natura “vuole” raggiungere con la sua esistenza (idea platonica)? oppure stiamo parlando di meccaniche che la conoscenza umana non è ancora arrivata a chiarire? Magari entrambe le possibilità sono reali… ai posteri l’ardua sentenza.
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POST! UMANO? Due dei punti che hanno caratterizzato la code dell’età moderna, e che naturalmente persistono ancora oggi, in era post-moderna, sono, il forte sviluppo scientifico e l’alienazione dell’uomo da se stesso, entrambi aventi principio nel XVII secolo (nel primo caso la rivoluzione scientifica e il metodo sperimentale , nel secondo la rivoluzione industriale e l’individualizzazione umana seguita dalla crisi del pensiero del XX secolo). L’uomo post-moderno è alienato, estraneo a dio, alla natura, a se stesso. Eppure, se da un lato l’essere, in quando individuo e soggetto, vive in perenne ed escatologica crisi, dall’altro,paradossalmente, lo stesso essere, inteso stavolta come genere umano, progredisce. Un progresso scientifico inarrestabile, che ha portato, negli ultimi anni all’idea di IA (intelligenza artificiale). L’idea di macchine, perfette al punto tale da sostituire in tutto e per tutto l’uomo. Parliamo di fantascienza o di filosofia? Le macchine pensanti sono realtà? Per scogliere questo dubbio dobbiamo dapprima chiederci cosa vuol dire pensare. Kant faceva una distinzione tra pensiero e ragione, la ragione “produce” i concetti, il pensiero le idee. Le idee non hanno rilevanza da punto di vista teoretico, non possiamo conoscerle, alle idee possiamo solo pensare… per Kant è impossibile dare una spiegazione a Dio, è impossibile dare una spiegazione dell’anima, famoso a tal proposito è l’explicit della critica della ragion pratica. Il nostro pc potrebbe pensare a dio, potrebbe innamorarsi? La domanda è meno ridicola di quanto sembri! Comte sosteneva che ogni conoscenza attraversasse tre stadi (teologico, 32
metafisico e positivo) proviamo un attimo a ragionare su come accada il pensiero, dimenticandoci della teologia (il pensiero che deriva dall’onnipotenza di dio) e della metafisica (il pensiero che discende dal mondo delle idee come una fiamma, e che poi tenta di ritornarvi), Sarebbe concepibile vedere il pensiero come una attività fisico-meccanica della mente. Il nostro modo di percepire e di elaborare le informazioni percepite è poi così diverso dal modo delle macchine? Margareth Boden in un suo trattato del 1979 parlava di modello di computazione della mente, i presupposti di tale teoria sono: - l’essenza dei fenomeni mentali consiste nella capacità di percepire informazione dall’ambiente esterno e rielaborarle secondo propri algoritmi, e, in base a questi, fornire risposte all’ambiente esterno, tali risposte sono a loro volta fonte di conoscenza. – l’elaborazione di informazioni possa essere espressa in forma computazionale, in base, appunto ad calcoli esprimibili in formule matematiche. A questo punto, una volta individuate tali formule matematiche, la mente umana, e la mente delle macchine, l’IA, non sembrerebbe più equivoco… Douglas Hofstader fa una distinzione tra scariche neuroniche e simboli: le prime consistono in reti di neuroni attivabili tramite segnali elettrochimici , i simboli sono tali scariche viste in rapporto con la realtà. Proprio questo rapporto con la “relatà” è un punto cruciale per determinare la capacità del pensiero di una macchina, o quantomeno la sua capacità di univocità con la mente umana. Alan Turing individuò un test per sperimentare la capacità di pensare delle macchine: se una IA e un essere umano comunicano senza che quest’ultimo sospetti che il proprio interlocutore sia artificiale, allora si può dire che la macchina sia capace di pensare. 33
John Serle critica tale test attraverso l’esempio della “stanza cinese”: “si consideri una lingua che l’individuo in questione non conosce. Io, per esempio, non conosco il cinese: ai miei occhi la scrittura cinese si presenta come una serie di scarabocchi senza significato. Supponiamo che io mi trovi in una stanza contenete scatolo piene di ideogrammi cinesi e supponiamo che mi venga fornito un manuale di regole (scritto nella mia lingua) in base al quale associare ideogrammi cinesi ad altri ideogrammi cinesi. Le regole specificano senza ambiguità gli ideogrammi in base alla loro forma e non richiedono che io li capisca. Supponiamo che fuori della stanza vi siano delle persone che capiscano il cinese e che introducano gruppetti di ideogrammi e che, in risposta, io manipoli questi ideogrammi secondo le regole del manuale e restituisca loro altri gruppetti di ideogrammi. Ora il manuale delle regole è il “programma di calcolatore”, le persone che l’hanno scritto sono i “programmatori” e io sono il “calcolatore”. Le scatole piene di ideogrammi sono la “base di dati”, i gruppetti di ideogrammi che mi vengono forniti sono le “domande” e quelli che io restituisco sono le “risposte”. […] io supero il test di Turing per la comprensione del cinese, eppure ignoro completamente questa lingua. […] i calcolatori digitali si limitano a manipolare simboli formali secondo le regole contenute nel programma.” Le macchine quindi manipolano simboli formali, a prescindere dal loro rapporto con la realtà. Ovviamente, come molta filosofia contemporanea mostra, anche l’uomo manipola segni linguistici differenti dalla realtà (già sostenere che una realtà esista suona obsoleto), c’è una differenza tra le parole e le cose, eppure i segni, sebbene convenzionali, non sono arbitrari, c’è una corrispondenza tra significante e significato, per la macchina invece sono comunque solo significati, mai significanti. 34
anche l’asse del significante potrebbe rientrare in un modello di computazione? Domanda questa fondamentale, si tratta in pratica di stabilire se può ogni aspetto dell’essere, della mente umana, possa rientrare in uno schema matematico, in quest’ambito sono due le correnti che si contrappongono, quella dualista-interazionista e quella monista-materialista, potremo dire ad esempio “l’uomo pensa e le macchine no, perché l’uomo possiede volontà!” Ma a tale proposizione si potrebbe obbiettare “la volontà stessa non è anch’egli il frutto di una attività fisico meccanica sintetizzabile in laboratorio?!”. Non è questo l’ambito in cui scogliere questo dilemma. Dal punto di vista della conoscenza, comunque, bisogna ammettere che il modo di percepire, il modo di elaborare una percezione e il modo di rispondere a questa, non sono nettamente differenti, le macchine possono pensare! C’è un limite però, l’intellegibilità della mente umana non si basa su segnali già predecodificati, l’IA invece si. Se in pratica io percepisco un oggetto che non conosco questo non rimarrà tale, qualora lo percepisca una macchina, l’oggetto sarà non riconosciuto dal sistema (perché questi non era conosciuto al momento della programmazione,ad esempio) e rimarrà eternamente sconosciuto. L’intelligenza artificiale, a differenza di quella umana, potremo dire che non scopre nuove cose. Se domani tutti gli uomini perissero e rimarrebbero soltanto macchine, la conoscenza si fermerebbe al punto in cui l’ultimo uomo, prima di perire, ha decodificato l’ultimo segnale che ha scoperto. Ciò può essere imputato a due ragioni: la prima, immanente, consiste nel fatto che il meccanismo che permette all’uomo di codificare un fenomeno non è stato ancora immesso nella IA (torniamo al circolo vizioso di cui sopra). La seconda, esistenziale-trascendentale, consiste nel fatto che le macchine 35
non hanno esistenza, non esprimono la loro essenza nella vita, nel Da-sein (esser-ci). Esser-ci, termine coniato di Heiddeger, per indicarne la differenza ontologica tra la vita (l’esistenza) e l’ente. Il –ci, ovvero essere qui ed essere ora, l’esistere, è possibilità: in che tempo possiamo dire viva l’uomo? Il passato non è più, il futuro non è ancora, (e fin qui siamo nello scontato), ma fino a che punto possiamo dire che il presente è? il presente è nell’istante, e l’istante non appena viene percepito diviene passato, quindi, sebbene il presente è, l’uomo non vive in esso. La mia volontà non si esprime in quest’istante, bensì nel momento in cui ho progettato cosa fare in quest’istante, per usare termini aristotelici, la volontà si esprime al momento della potenza, non in quello dell’atto. Si immagini ora una partita a scacchi tra me ed un computer: Helbert Simon, propone una distinzione tra scelta ottima e scelta soddisfacente, la prima è la miglior scelta possibile, la seconda ne è una che pur non essendo la migliore comunque permette di ottenere il risultato voluto, tra un'unica scelta ottima, un basso numero di scelte soddisfacenti, ed un numero pressocchè infinito di scelte inutili o dannose, la mia volontà ne compirà una (Le procedure di scarto delle mosse inutili da quelle utili prendono il nome di procedure euristiche).Io io muoverò un pezzo sulla scacchiera. Che differenza c’è tra la mia mossa e quella del computer? Io dispongo di informazioni incomplete, imprecise o inaffidabili, e di una capacità di calcolo limitata. Il computer, avendo in se codificato integralmente le regole e le possibilità degli scacchi, dispone al contrario di informazioni complete, precise, affidabili e di una capacità di calcolo perfetta. La mia mossa si può quindi definire un atto di volontà perché prevede una scelta tra tante opzioni che io conosco 36
limitatamente. La mossa del PC non può definirsi un atto di volontà, dato che questi conosce la scelta ottima. Proviamo ora a smettere di figurarci la scacchiera e immaginiamo il mondo. La macchina continuerà a giocare a scacchi e a fare le cose per cui è stata programmata. L’uomo, disponendo di volontà, potrà andare, sebbene con informazioni incomplete e imprecise, oltre. La volontà è una “conditio sine qua non” per la conoscenza. Per quanto riguarda l‘esistenza, all’uomo non è possibile attuare procedure euristiche: nel mondo, la possibilità delle scelta appare all’uomo infinita, non esiste una scelta ottima, dato che questa una volta attualizzata, questa diviene soltanto soddisfacente, a favore di una altra scelta ottima che prima non rientrava nella prospettiva. Un limite assoluto non esiste. L’esistenza è come un pianoforte dai tasti infiniti, l’uomo cerca sempre di toccare il si più acuto, allunga il dito per pigiare il tasto, chiude gli occhi per godersi l’ascolto della nota, ma quando li riapre si accorge di altre miriadi di ottave, ancor più alte, che prima non poteva nemmeno immaginare. La volontà è condizione primaria della conoscenza e dell’esistenza, è la volontà a creare un ponte tra l’individuò e la realtà. Se io conosco, Se io esisto, è grazie alla volontà, è la volontà di conoscere che mi rende conoscente, è la volontà di esistere che mi rende esistente, ad oggi non possiamo sapere se le tecnologie dell’IA un giorno riusciranno a sintetizzarla.
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TRA L’ONTOLOGIA E LA LOGICA, TRA IL DIRE E IL TACERE “Tutto il senso del libro si potrebbe riassumere nelle parole: Quanto può dirsi, si può dir chiaro; e su ciò, di cui non si può parlare, si deve tacere” Così afferma Ludwig Wittgenstein nella prefazione del suo Tractatus logico-philosophicus. Cosa è possibile affermare, come bisogna farlo? Sono queste le domande poste in essere dalla filosofia logica! La logica classica poteva risolversi “facilmente” , attraverso la non-contraddizione e il terzo escluso, la verofunzionalità, ovvero, se una affermazione è dimostrabile falsa, sarà vero il suo contrario, si io dimostro falsa l’affermazione “ho fame” sarà vera quella che dice “non ho fame”. Per fare un altro esempio: se io dimostro, (anche attraverso la riduzione per assurdo), che l’oggetto della mia ricerca non è caldo, automaticamente posso affermare che è freddo (terzo escluso: escludo quindi il concetto di tepido), e soprattutto non posso affermare che l’oggetto sia caldo e freddo contemporaneamente (non contraddizione) . Se il terzo escluso può sembrare intuitivamente attaccabile, la non-contraddizione sembra intoccabile, un qualcosa come può essere A e –A contemporaneamente, come posso, razionalmente, essere e non essere allo stesso tempo? Se affermo “io sto mentendo”, sto dicendo una bugia o una verità? se io sto mentendo, allora ciò che dico è vero, e quindi non sto mentendo;se io non sto mentendo, allora quel che dico è vero, 38
quindi sto mentendo. in ogni caso io sto mentendo e non mentendo contemporaneamente. Attraverso questo paradosso di Bertrand Russell, mostriamo come anche il principio di non-contraddizione non sia sempre valido. Si afferma ben presto che l’autoevidenza degli apriori non è condizione sufficiente a porli alla base del raginamento, gli apriori non empirici sono autoreferenziali e danno vita ad antinomie. Crolla la logica classica, su cosa ricostruirla? Innanzitutto abbattere il ragionamento che parte dagli apriori autoapparenti, questi sono tali solo in un sistema dato e percepito in maniera autoreferenziale. Iniziamo a ragionare sugli oggetti: Alexius Meinong ne distingue tre tipi: Esistenti (che sono nel tempo e nello spazio) Sussistenti (oltre il tempo e lo spazio, i numeri ad esempio) Inesistenti (divisi a loro volta in possibili, ad esempio la montagna d’oro [metafora usata spesso nei giochi a premi]; e impossibili, ad esempio il cerchio quadrato) Ma in base a cosa, io affermo che un oggetto sia esistente piuttosto che sussistente od inesistente? Abbiamo detto che gli oggetti esistenti sono nello spazio e nel tempo, quindi basterebbe la percezione sensoriale. ma il darsi dello spazio e del tempo, sono comunque un elaborato dell’io pensante soggettivo, non possono definirsi oggettivi, quindi non v’è alcuna categoricità assoluta nel affermare l’esistenza di un oggetto! Lo stesso Meinong affermò che gli oggetti sono liberi della propria esistenza, possiamo quindi, nel discorso, parlarne “come se” esistessero. Del resto non possiamo fare altrimenti, dato che nulla ci garantisce l’esistenza di un oggetto, il suo essere all’interno dello spazio e del tempo: la penna che ho in mano, i numeri, il cavallo alato e il cerchio triangolare hanno la stessa esistenza! 39
Come trattare questi oggetti? Georg Cantor, prima degli altri, si propose di fondare l’intera matematica sull’insiemistica, un insieme è una “riunione M in un tutto di oggetti m (elementi di M) della nostra intuizione o del nostro pensiero”. Successivamente Gottlob Frege distingue l’intenzionalità e l’estensionalità dell’insieme, la prima definisce tutti i contenuti che cadono nell’insieme M, la seconda il modo di dare l’insieme. Il discorso, per essere logico, deve essere corretto e completo, ove per correttezza intendiamo: a a ( =derivazione sintattica) e per completezza: a a ( = conseguenza semantica) l’affermazione teleologica è quindi solo possibile in un insieme completo, ovvero, in un insieme dove: a a ⇔ a a a a a a un altro concetto logico fondamentale è quello introdotto da Alonzo Church negli anni ’30, ovvero la decidibilità: la facoltà di stabilire apriori la validità di una formula. Una teoria (insieme di formule chiuse sotto conseguenza logica) è decidibile se c'è un metodo efficace per determinare se le formule arbitrarie sono inclusi nella teoria. Per fare un esempio banale: se io ho davanti a me tre banconote, da 10 da 20 e da 50 euro, e so che debbo prendere quella dal valore più alto, io posso sicuramente stabilire apriori quali valga di più e quale meno, e quindi “decidere” quale prendere. Supponiamo invece che io abbia davanti una banconota da 5 euro, una da 50, e una terza, che però è coperta 40
in maniera tale che io non possa vederla, nonostante io sappia che devo prendere quella dal valore più alto, non posso stabilire quale delle tre sia, e, apriori, non posso decidere quale prenderla, dovrò necessariamente scoprire la terza, quindi decidere a posteriori! Il concetto di decidibilità è strettamente connesso a quello della completezza, enunciato nel 1930 da Kurt Gödel, il quale però, l’anno successivo affermo l’icompletezza di tutti i grandi sistemi. a proposito della completezza e della decidibilità, riporto qui un esempio (tanto caro al mio professore) per spiegarmi meglio: prima di recarmi al mercato per fare la spesa io stilo una lista con tutto ciò di cui ho bisogno conoscendo i prezzi , conosco anche la cifra esatta da spendere. Se al mercato io mi limiterò a comprare solo gli oggetti presenti nella lista allora la lista della spesa è un insieme completo (e, a patto che io sappia i prezzi, decidibile), ma supponiamo che io al mercato la ampli, sarebbe allora impossibile, prima di scendere da casa, stabilire quanto io debba spendere! A questo punto, quali sono gli insiemi completi su cui si può dire a priori? Non ne esistono, ogni insieme è incompleto, completarlo è un atto di volontà, non di conoscenza, ogni volta che si rende un insieme completo lo si circoscrive, è tale circoscrizione non è mai naturale ma sempre artificiale, esiste un'unica circoscrizione naturale, mi viene da definirla attraverso un’espressione idealista, ovvero l’assoluto, l’assoluto è un insieme completo contenente il tutto, al di sotto dell’assoluto nulla può dirsi completo, nulla può dirsi assoluto a sua volta (se non attraverso un artificio). “chi ha occhio per la somiglianza di famiglia può riconoscere che c’è una certa parentela tra due persone, anche senza saper dire in che cosa consista la somiglianza” 41
Ancora Ludwig Wittgenstein cerca una possibile affermazione nei Familienähnlichkeit (appunto somiglianze di famiglia), un concetto del tutto diverso da quello di essenza. Socrate, uno dei primi a parlare di essenza, presentava l’esempio dello sciame di api, ognuna ha una sua particolarità, ma tutte hanno l’essenza di “apità”, ciò che le rende api. Con Wittgenstein siamo all’antitesi, non esiste un essenza che renda uguali tutte le api (nello sciame le api sono irrimediabilmente diverse), ci sono però particolari in comune, appunto le somiglianze di famiglia. In sintesi, se nel concetto di essenza, sono insignificanti le particolarità, nel concetto di somiglianza è insignificante (inesistente) l’essenza. Le somiglianze di famiglia sono quindi un mezzo utile? È possibile individuare le somiglianze di famiglia in un insiemi incompleto? Torniamo all’esempio del mercato: mia madre mi dice di andare al mercato e di comperare uova e farina al fine di preparare della pasta fresca, (la regola costitutiva è quindi “preparare pasta fresca”, e le uova e la farina rientrano nella famiglia “pasta fresca”). se invece mi dice di andare al mercato a comperare sempre uova e farina, ed in più latte e burro, al fine di preparare una torta, allora uova farina non rientreranno più nella famiglia pasta fresca, ma in quella “torta”. Il filo di famiglia è dato dalla regola costitutiva. Mettiamo ora il caso che mia madre non mi dica cosa intende fare con i prodotti che gli andrò a comperare, a questo punto io, pur sapendo che debbo prendere uova farina latte e burro, non potrò osservare alcuna somiglianza di famiglia, dato che in nessun modo io posso sapere se mia madre intenda fare una torta oppure intenda fare una semplice frittata di sole uova e conservare gli altri cibi! E data anche l’incompletezza degli insiemi, io pur conoscendo la regola costitutiva il familienähnlichkeit comunque non posso 42
individuarlo, siccome non posso affermare che la regola costitutiva che riesco ad osservare sia l’unica. Qualora vi sia un’altra regola costitutiva cambierebbe tutto, ad esempio: mia madre mi dice, di andare al mercato di comperare uova, farina, latte e burro (prima regola costitutiva), ma se andando al mercato trovo un ristorante aperto devo prendere del cibo d’asporto e non andare al mercato (seconda regola costitutiva, che in principio non ho mostrato), il tutto se mi sento bene, perché se non mi sento bene non è io caso che io scenda (terza regola costitutiva) e così all’infinito! In conclusione pare che nessuna affermazione possa definirsi logica e scientifica se non in un sistema artificiale ed autoreferenziale. Se quindi è vero che su ciò di cui non si può parlare si deve tacere, e se su nulla si può parlare, l’io pensante è obbligato a tacere? Tutt’altro, Su tutto si può dire, su nulla si può dire con certezza, il dire è il principio della dialettica, e attraverso la dialettica, si progredisce, si accede a oggetti prima non visibili… assunto che su nulla si può parlare con certezza, su tutto si può dire con contingenza, è questo dire tutto che porta al progresso umano, un dire senza pretendere il vero, un dire su ciò che può essere, un dire che crea!
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RIFLESSIONI SULLA POESIA La teoria della conoscenza di kant pone una “rivoluzione copernicana”, al centro non è più l’oggetto ma il soggetto. Non si parla più di conoscenza, si parla di un io che conosco, un io (in Kant non ancora individuale) che conosce attraverso i fenomeni (l’apparire, il darsi degli oggetti). L’oggetto in se, non può essere conosciuto, per fare ciò, dovrebbe il soggetto astrarre da se stesso, cosa del tutto impossibile. Il fenomeno, e solo quello, quindi, per essere conosciuto deve presentarsi nell’esistenza dell’essere, l’essere non può conoscere potenzialmente, la conoscenza è un atto individuale, ogni conoscenza esteriore all’esistenza non può essere definita tale. Nietzsche, nel criticare l’intellettualismo, nel criticare questo riempirsi di nozioni al di fuori della vita e quindi non utili alla vita, adopera, in verità e menzogna, la metafora del colombario dei concetti. Il nostro intelletto è in pratica come un obitorio pieno di conoscenze neutre, in cui l’aspetto fondamentale, ovvero l’intuizione sensibile, è spento. Tali conoscenza cadaveriche permangono però nella nostra mente, sottoforma di concetti e parole, tali cadaveri vengono intesi come vivi, dato che sono “illusioni di cui abbiamo dimenticato l’illusorietà”. Se il linguaggio logico è quindi costituito da cadaveri, la logica, non può essere quindi uno strumento di conoscenza, o quantomeno, non l’unico. Martin Hiddeger, nell’enunciare la sua teoria della differenza ontologica “propone” una ripresa della retorica, della poesia, come strumento di conoscenza, per conoscere non abbiamo bisogno del linguaggio apatico, ma di quello affettivo. Leggiamo il primo verso de “i limoni” di Eugenio Montale 44
Ascoltami, i poeti laureati si muovono soltanto fra le piante dai nomi poco usati: bossi ligustri o acanti. lo, per me, amo le strade che riescono agli erbosi fossi dove in pozzanghere mezzo seccate agguantanoi ragazzi qualche sparuta anguilla: le viuzze che seguono i ciglioni, discendono tra i ciuffi delle canne e mettono negli orti, tra gli alberi dei limoni. In risalto è il movimento, quello dei poeti laureati, dei ragazzi, delle anguille, (inutile sottolineare l’assoluta identità tra questi). Il movimento sembra appunto un carattere distintivo dell’intera poesia, movimento all’interno del tempo, forse movimento più veloce del tempo stesso. La poesia, dal punto di vista etico, è un ponte immediato tra l’altro e il medesimo, una sorta di identità tra l’eroe epico e il sentimentale lirico, è parola carica del massimo grado di semanticità, non un modo di chiamare una intuizione, ma una intuizione in cerca di un nome. La poesia è puro linguaggio affettivo, è conoscenza, ma del tipo antitetico alla logica. Spostando poi l’attenzione sul movimento e sull’identità tra altro e medesimo grazie al cortocircuito esistenziale dell’urlo o del canto, possiamo ulteriormente notare come la poesia può essere conoscenza prescindente dall’io che conosce, il quale trasla da soggetto della conoscenza, a puro tramite. Il toccare della poesia è quindi il toccare la cosa in se, potrebbe essere vista come la conoscenza oggettiva da parte del soggetto che è riuscito ad astrarre da se stesso, e, assieme al tu poetico, osserva l’oggetto da tutti i punti di vista del suo darsi cogliendone la sua essenza, il tutto in maniera non logica (che, abbiamo visto, neutralizza la conoscenza stessa) ma in maniera etico/affettiva. 45
Ma cos’è la poesia? Innanzitutto, dal punto di vista pratico, è una branca del poyesis letterario diverso dalla prosa, ove il testo è diviso in versi, ovvero dove ad un certo punto si “va a capo” a prescindere dal rigo tipografico. Per comunicare un messaggio (non solo nella poesia) si utilizzano dei segni, semplificando possiamo limitarci a parlare del segno come un significante (una forma) e del messaggio come un significato (la materia). Se il linguaggio logico utilizza i significanti come semplici gesti convenzionali al fine di trasmettere un significato, in poesia la situazione appare quasi inversa, il significante (la densità semantica della parola) assume importanza fondamentale, come se il gesto diventassi più importante del messaggio. Possiamo quindi dire che la poesia oscilla tra l’urlo è il canto, i limiti estremi dell’esistenza, l’espressione del male, del dolore della disperazione, e quella del bene, del piacere, della gioia. Jan Mukarovsky intende la poesia come “gesto semantico”, appunto come se il significante fosse un magnete che misura la sua efficacia nella capacità di attrarre a se i significati. Tali significati nella logica e nella linguistica provengono “dall’alto”, il furor divino Platonico, il fuoco che discende dal mondo delle idee verso il mondo del divenire; oppure la Lang Soussurriana, che s’esprime in ogni (imperfetto) atto di parol. In poesia invece provengono dalle profondità dell’io, dalla parte umana onirica e notturna IL PORTO SEPOLTO. Mariano il 29 giugno 1916. Vi arriva il poeta E poi torna alla luce con i suoi canti E li disperde 46
Di questa poesia Mi resta Quel nulla Di inesauribile segreto. Oppure, ancor più eloquente, il mito di Orfeo e Euridice, ove al primo viene concessa l’opportunità di riportare in superficie la sua amata, imprigionata nell’Ade, a costo che questi non si volti a guardarla (con gli occhi della logica) durante l’ascesa verso la terra. La carica logica o retorica della parola dipende quindi da questo grande tiro alla fune tra le pulsioni dell’inconscio umano(quelle che generano il canto e le urla), e le apparentemente fortissime braccia del demiurgo che abita il mondo delle idee. In superficie troviamo appunto un urlo (o un canto) in cerca di parole, ma in profondità? Partiamo dal cielo, dalle idee platoniche, se nel mondo dell’essere c’è un unico punto che indica, ad esempio, il triangolo perfetto, nel mondo del divenire, si apre un ventaglio di possibili triangoli imperfetti, magari l’uno migliore rispetto all’altro (m’azzardo a dire “su un ipostasi superiore”), ma comunque imperfetti. Tali triangoli hanno per Aristotele un essenza, mentre per Platone sono semplice copie del mondo del divenire. Spostandoci dalla discesa del mondo delle idee alla ascesa dal porto sepolto, troviamo il meccanismo opposto: non c’è un singolo punto, non c’è il triangolo perfetto, troviamo invece un flusso continuo di punti, di materia informe, un magma che troverà la sua forma solo una volta giunto in superficie. Chi intende redimere la sue Euridice non può farlo che in maniera fulmine e furtiva, con la goffaggine della mano che vuole afferrare l’acqua, con strane ed asimmetriche declinazioni… è 47
un trasporto (la parola metafora proviene proprio da Metapherein, ovvero passare attraverso, trasportare per l’appunto), in cui si prendono una serie di idee, e gli si da forma esprimendole in maniera irregolare, urlandole o cantandole contro che le vuole soltanto pronunciare, tali unità , grazie all’oracolo o al poeta, si inseriscono nella realtà , a rendere vive le componenti del logos.
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DALLA RAGION PURA ALLA FORZA PLASTICA Cosa posso conoscere? Come posso farlo? Non sono forse queste le principali direttrici su cui s’è mossa sempre la filosofia? Nell’antichità non v’era dubbio alcuno, per conoscere io debbo superare le apparenza. In età moderna poi, si comprese che l’unico modo che ho di approcciarmi alla conoscenza sono i sensi, ciò che vedo, ciò che sento, ciò che tocco, appunto ciò che appare, i fenomeni. Ma come è possibile conciliare ciò che m’appare con ciò che è? Come posso dire che un qualcosa è, ed è necessariamente? Il XVIII secolo fu un periodo di grosso sviluppo scientifico, l’illuminismo avrebbe voluto l’uomo conoscente di tutto, ma, per tornare al quesito iniziale, come posso affermare che ho conosciuto qualcosa? Come posso affermare che, oggettivamente, un qualcosa è per il medesimo nella stessa misura in cui è per l’altro? semplicemente come posso dire che qualcosa è? Kant risponde ponendo degli a priori percettivi ed intellettivi , sebbene quindi, la conoscenza avvenga solo attraverso i fenomeni, questi vengono percepiti e “stipati” nell’intelletto in una maniera comune e uguale. Grazie all’io penso, il valore oggettivo delle scienze, e nel nostro caso dell’essere, è salvo, l’io penso, in altri termini ragion pura, si può quindi rappresentare sinteticamente come in Fig.1
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L a ragion pura si pone quindi come garante della facoltà di conoscere. Potrebbe quindi, a questo punto, ritornare l’idea di realtà ed apparenza scisse. La conoscenza torna quindi a porsi come una retta platonica in cui esiste anche una funzione negartiva: Platone parlava appuntop di una retta in cui inserire i gradi della conoscenza, la c.d teoria della linea
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Tale retta inserita nel grafico di Fig.1 creerebbe una situazione del genere:
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come punto antitieticoalla ragionb pura, possiamo individuareun concetto nietzschgiano, la forza plastica, ovvero, la capacità di vivere a prescindere dalla conoscenza oggettiva, anzi di plasmare la conoscenza, ed il mondo stesso, in base al proprio essere. Ma se esiste un punto massimo e un punto minimo di comprensione della realtà, che senso avrebbe, per Nietzsche, porre quel punto minimo, come il grado massimo della conoscenza? Il punto cardine dell’intera filosofia contemporanea è proprio questo, la caduta della realtà:
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“dio è morto” afferma Zarathustra, con lui non è morta solo la trascendenza, non solo la testa del Demiurgo, ma anche i suoi piedi, non solo non esiste un mondo delle idee vero, bensì nemmeno il mondo del divenire, dell’immanenza, ha qualcosa di oggettivabile, crolla, irrimediabilmente, la corrispondenza realtà razionalità. Mortà la realtà, la razionalità è una retta bidimensionale: ragione e volontà, potenza e conoscenza, sono “schiacciate” nell’essere.
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Nell’esser-ci, come intendeva Hiddeger, magistrale punto d’arrivo della filosofia dell’esistenza, colonna portanete del ‘900.
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FILOSOFIA GRECA ED INDAIANA: PUNTI DI CONTATTO Le religioni e le filosofie orientali sono, nel panorama contemporaneo, di forte interesse. Se da un lato questo interesse sta a rappresentare una moda kitsch, dall’altro è animato da una profonda critica nei confronti del mondo occidentale e della sua colonna portante, il cristianesimo. I contributi filosofici di Shopenhauer hanno molto attinto dalle filosofie orientali, in particolare quella indiana. Il filosofo in questione afferma che ogni forma di conoscenza (il mondo) non è altro che una rappresentazione della volontà, un qualcosa di individuale e di irriducibile alla ragione. Il mondo non (oggettivo) non esiste, esso è nulla, un nulla coperto però dal “maya”, un velo di illusione che palesa la realtà ai nostri sensi. L’essere non deve cadere vittima della propria volontà, deve invece riconoscere il nulla del mondo, tramite un processo di “nolontà”, una ascesi verso il nulla. L’interpretazione shopenhaueriana, attinge si al pensiero indiano, ma stravolgendolo,rielaborandolo e rinnovandolo in base alla decadenza dell’occidente. L’inesistenza del mondo in se, terreno comune e basilare per shopenhauer, Nietzsche, e diversi filosofi del ‘900 non è affatto esplicata nel Veda, nei Brahmana, e nelle Upsand. Il Veda è l’insieme di testi primari del pensiero indiano, Veda vuol dire “il sapere”. Immediatamente successivi a questi sono i Brhamana, costituiti da glosse e commenti al Veda, e da descrizione dei riti religiosi. Ultimi testi prima dell’avvento del Buddismo sono le Upanisad, insegnamenti esoterici ad “integrazione” dei Brhamana. 55
Dalla lettura di questi testi emerge un sistema religioso molto articolato, Indra dio guerriero del cielo e della terra assieme ai suoi figli Asvin (aurora) e Nastya (crepuscolo) rappresenta la trinomia principale, accanto a questa troviamo Surya e Vayù (dei del sole e della pioggia) Agni e Soma (dio del fuoco “celeste” e dio del fuoco terreno), e nello stesso rapporto di questi ultimi (celeste/terreno) erano venerati Tali Varuna (dio dell’ordine morale) e Mitra (dio dell’ordine civile), quest’ultimo è da molti considerato il modello sul quale è stata elaborata la figura di Cristo. I Brahamana mostrano non solo la scarsa considerazione dell’aldilà da parte di questo popolo (sebbene è descritta una divisione tra mondo dei beati e mondo delle tenebre), ma in generale la scarsa considerazione degli dei, i sacrifici ad esempio, erano rivolti a forze che trascendevano a loro volta gli dei. Tale considerazione religiosa rimane comunque rintracciabile anche nella civiltà greca, in Epicuro ad esempio, un Dio superiore al mondo che lui ha creato e che lui governa è una innovazione portata alla storia dal del cristianesimo. La civiltà greca in generale non vedeva gli dei come dei garanti dell’esistenza, (emblematico a tal proposito è il fato che gli dei risiedessero nell’olimpo, era la phisys a contenere gli dei, non il contrario), ma è altrettanto vero che riservava a questi uno spazio importante, basti pensare alle tragedie di Eschilo,oppure al fatto che Senofane sentì col suo pensiero l’esigenza di deantropomorfizzare gli dei. Al di fuori degli aspetti religiosi, il primo pensiero indiano come rapporta l’uomo alla conoscenza?! Il Buddismo parla di una ignoranza innata (Sakiti) che porta all’illusione del mondo (Maya), di questa però il pensiero si guarda bene dall’affermare che non è, a tal proposito è illuminate la metafora del serpente: un uomo crede di trovarsi davanti ad un serpe quando invece si trova di fronte ad una corda, eppure non possiamo affermare 56
del tutto che quella sia una corda e non un serpente, altrimenti perché l’uomo ne sarebbe impaurito… Tornando ai Brhamana, notiamo due concetti essenziali per la conoscenza: il braman che è la parola e il senso sacrale che la riempie, e L’atman “l’in sé”, l’io che conosce la realtà e che al contempo la garantisce oggettivandola. Il rapporto tra braman e atman da cos’è è garantito?! In termini diversi risponde a questo quesito la dottrina buddista col concetto di nyaya, ovvero un indagine del conoscibile attraverso adeguati mezzi gnoseologici indipendenti dallo spirito religioso. Il nyaya, agisce in un sostrato eterno immutabile e increato (mimasa), ed è proprio questa eternità a garantire una relazione reale tra senso (mondo) e parola. Questo “in se”, eterno e conoscibile sta anche alla base del Karman morale, il principio secondo cui tutto ciò che fai di bene o di male torna all’individuo. Tale legge è meccanica è necessaria, non ha bisogno di nessun Dio che garantisca il suo funzionamento. Il processo conoscitivo prevede comunque un annullamento della propria esistenza, un non-essere qui ed ora, tale processo, affermato da Siddatra come pratica religiosa assume il nome di nirvana. Sono a questo punto evidenti i punti di contatto tra il pensiero greco e quello indiano: fondamentale è il punto che entrambe affermano l’esistenza di un mondo in se, conoscibile tramite determinati processi. Il pensiero greco basa il suo intero sistema sul mondo, sulla phisys, la conoscenza di questi è pero guidata dalla ragione, dal logos, che supera le apparenza e coglie l’essenza tramite una processo lineare (esemplare è la logica razionalista aristotelica). Dal punto di vista indiano invece, il mondo lo si conosce al netto dell’astrazione, tramite un’azione morale che mette da parte l’esistenza e che quindi, squarciando il maya, da una visione lampante dell’in se. 57
Shopenauer attacca proprio l’idea del mondo in se, egli afferma che dietro l’illusione della volontà, non troveremo la conoscenza, fuori dalla caverna non troveremo una luce… dietro al velo del maya, non v’è nient’altro che il nulla di cui la vita è costituita.
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RIFLESSIONI SU LÖWITH Karl Löwith (1897-1973) filosofo tedesco, allievo di Martin Heidegger, è un outsider nel panorama della filosofia contemporanea. I suoi studi consistono principalmente in una critica alla filosofia della storia, a una rilettura del pensiero di Nietzsche. È proprio partendo da Nietzsche, dallo scacco sotto il quale il suo pensiero ha messo la tradizione occidentale, che Löwith da principio alla sua indagine. Egli individua un percorso storicistico risalente all’avvento delle religioni monoteistiche. Nella prospettiva occidentale in principio era la bibbia, in età moderna questa viene secolarizzata innanzitutto da Hegel, secondo il quale, la filosofia avrebbe il compito di formulare in termini razionali l’assoluto che la bibbia propone in linguaggio mitico. Marx, nella prospettiva opposta a Hegel, non riesce a fare a meno di proporre il medesimo modello che vede la civiltà umana progredire verso un fine (nel caso in questione l’utopia, ma nella analisi lowithiana anche il regno dei cieli). A questo punto Nietzsche entra in scena, distruggendo l’idea di progresso, nella storia quanto nelle scienze, nella cultura quanto nell’intelletto, la realtà in sé non esiste, è compito dell’uomo plasmarla in funzione di se stesso. Nella sua analisi, il pensiero dopo Nietzsche, si è mosso esclusivamente verso il nichilismo, caduti i sistemi filosofici “forti” all’uomo non sarebbe rimasto che “consolarsi” con la propria soggettività. Löwith intende proporre una prospettiva alternativa al nullismo, un modo attraverso il quale il pensiero possa rimanere in piedi dopo la morte di Dio. Condivide con 59
Nietzsche l’idea che siano le morali e le religioni a portare l’uomo a nichilismo, e, partendo da questo assunto indica un punto di cesura nella tradizione occidentale: il cristianesimo. Attraverso questi, il mondo, essendo ridotto a creazione, derivante da un atto di volontà di una mente ordinatrice, ha perso il suo carattere di immutabilità, ha perso la sua essenza, in favore di un finalismo (uno storicismo appunto), che lo presenta non in sé, ma in quanto mezzo attraverso cui si attua un fine trascendentale. Prima di tutto questo, dice il filosofo, il mondo era Phisys, natura eterna immobile e immutabile. Se dal cristianesimo in poi, il paradigma di pensiero è cambiato, e tale paradigma non può che portare al nichilismo, allora per ricostruire il pensiero bisogna tornare a ciò che è stato prima di questo paradigma, la physis, il cosmo dei pensatori antichi. Cos’è per noi contemporanei il mondo? Analizziamo come questo concetto si è sviluppato in epoca moderna e tardo moderna. Shopenauer indica il mondo come una rappresentazione della volontà, non come una realtà data, bensì come un insieme di funzioni, condizionate oltre che dal fatto che si danno all’uomo solo tramite i sensi, dal fatto che quest’ultimo lo manipola tramite la propria volontà. Nietzsche si concentra sulla capacita che la forza vitale ha di plasmare un mondo così strutturato. E in fine Heiddeger rammenta come, in ogni caso, l’essere non è chiuso in se stesso, ma risponde a sollecitazioni del mondo e soprattutto è-nel-mondo (der-weltsein), sia ben chiaro, un mondo fenomenico non fisico. Altre discipline filosofiche non possono fare almeno di utilizzare il concetto di mondo: Karl Popper nell’elaborare la sua teoria dell’interazionalismo, secondo la quale, mente e pensiero siano due entità ontologicamente opposte (quasi a riproporre il paradigma cartesiano), parla di 3 mondi, il primo costituito dalla materia e 60
dalle forze della fisica, il secondo costituito dagli stati mentali, il terzo quello dell’ingegno umano. “una delle mie tesi principali è che gli oggetti del mondo tre possano essere reali” scrive il filosofo. A tal proposito sembra opportuno citare il logico Meinong, che non parla esplicitamente di mondo, ma fa una distinzione tra i suoi oggetti, gli esistenti (dotati di proprietà materiali), i sussistenti (esistono pur non avendo proprietà di spazio e tempo), gli inesistenti. Rimanendo sulla logica non possiamo che citare Whittgenstein e la prima asserzione principale del trattato: “il mondo è tutto ciò che accade”. se i primi filosofi che abbiamo visto in questa carrellata (Shopenauer, Nietzsche, Hiddeger), osservano il mondo su un piano totalmente equivoco da quello dell’esistenza, ponendo questa su un piano di maggiore importanza, gli ultimi presi in esame (Popper, Meinong, Whittgenstein) non cercano il mondo in quanto tale, in quanto rapportato alla vita, semplicemente il mondo è l’insieme, il dominio e il codominio in cui s’esprimono funzioni. La prospettiva di Löwith, come abbiamo visto, è totalmente diversa da tutte queste. Il suo è un mondo non fenomenico, non logico, è semplicemente un mondo che è, immutabile ed eterno. Forse nella sua analisi del pensiero occidentale appare troppo rigido, dal momento in cui indica come punto di frattura assoluto l’avvento del cristianesimo, quando invece questi mostra avere una certa continuità e coesione col pensiero degli antichi (e questo al di fuori delle interpretazioni della scolastica medioevale). Lo storicismo non è una invenzione della modernità, ne tantomeno il finalismo (anzi, questo nasce a contatto proprio con la physis che Löwith vede opposta ad esso). 61
Ad ogni modo il pensiero di questo filosofo rappresenta una voce fuori dal coro nullista che canta delle non-certezze del nostro tempo. Il mondo prescindente dall’uomo, dalla storia e dalla scienza, ma soprattutto, il mondo come realtà a se stante, come una eterna datità che è di per se, pare essere una possibilità di pensare oltre il nulla di Nietzsche.
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MORTE: MEMORIA E PROLESSI Cos’è la morte? La fine della vita, il cessare delle funzioni vitali, la fine del propria esistenza… Non abbiamo modo di pensare alla morte se non quello di relazionarlo alla vita, all’essere. Ma fino a che punto è possibile parlare di una ontologia della morte? Forse, ciò che maggiormente preme all’esistente, non è tanto il sapere cosa sia la morte, quanto cosa ci sia dopo. A tal proposito intervengono le religioni. In epoche passate, la morte era un fatto comune, non solo e non tanto per una maggiore mortalità, quanto per il fatto che fosse davanti agli occhi di tutti. La prospettiva religiosa, soprattutto cattolica, ovvero quella che asserisce che la vita terrena sia un nulla a confronto della vita eterna, non poteva quindi che avere seguito. Tutt’oggi le religioni affermano ciò, e non sta alla ragione decretare sulla validità di tali idee, è una questione di fede, una questione che sfugge al pensiero. La ragione però, (intesa non solo come razionalità), non può esimersi dal fare i conti con la morte, e quindi ecco che ritorna la domanda di cui sopra, cos’è la morte? La vita porta con se una serie di funzioni: certamente biologiche, quali respirare, nutrirsi, riprodursi; ma anche “spirituali” quali, percepire, pensare etc… al di fuori di tali funzioni la vita non si può immaginare, come possiamo sapere cosa vuol dire il non percepire, il non pensare. I’uomo essendo immerso nell’essere, non può conoscere il nulla. A tal proposito è esplicativa un immagine di Epicuro, secondo la quale non bisogna aver paura della morte, dato che, laddove c’è vita questa non c’è, e laddove questa ci sia, è la vita a non esserci. Gioia e tristezza, piacere e dolore, sono elementi della 63
vita, dovuti alla volontà e alla percezione del mondo, venendo a mancare questi due elementi, non si è ne felici ne tristi, ne gioiosi ne addolorati. Di fronte all’impossibilità di conoscere il nulla, il progresso comunque non si è fermato, certo, l’analitica esistenziale continua a fare i conti con la morte, ma è il processo scientifico (e in parte quello gnoseologico) a non fare i conti con l’esistenza. Wilfred Bion, con la sua opera, sottolinea proprio come il progresso scientifico tenda a creare una divergenza tra crescita tecnica e crescita emotiva del genere umano, un allontanarsi della scienza dalla vita, una non convivenza tra intelletto e saggezza (esemplare è per lui l’immagine di Hiroshima dopo la bomba atomica). Grazie alla tecnica, nella nostra civiltà non si muore, ma fino a che punto siamo emotivamente pronti a non morire? Heidegger mise in atto una distinzione tra le due possibilità dell’esistenza: la vita inautentica, che consiste nell’accettare la realtà come una serie di possibilità quotidiane dirette dalla volontà; la vita in autentica, ove si accetta di vivere per la possibilità (che paradossalmente non lo è) che più appartiene a l’uomo, ovvero il morire. Siamo in pratica alla battaglia tra la nolontà di Shopenauer e la volontà di potenza Nietzschiana. Minimo comune multiplo è la realtà intesa come insieme di funzioni fenomeniche, non come “mondo-in-se”). Nell’esistenza non autentica si vive nell’oblio della possibilità propriamente umana, ma tale oblio non è una scelta. È la realtà, è il “principio di presentazione” di questa che non ci permette di rapportarci col nulla e dell’essere schiavi del “si” (“man”). “si dice”, “si pensa”, in sintesi “si vive”. L’autenticità si esprime invece nell’essere-per-la-morte. Ma come lo si può intendere? Facciamo ricorso al concetto dio memoria. Tramite questa io riporto all’esser-ci, all’essere qui 64
ed ora, un qualcosa che non è più. Attraverso la memoria si desterilizza il passato, gli si da una nuova carica emotiva che colpisce nel presente. Ciò che prima è possibilità, ed ora è atto, si ripresenta come possibilità proprio attraverso la memoria. Accanto al concetto di memoria è necessario aggiungere quello di angoscia. Kierkegaard ipotizzò che questa derivasse dallo spiazzo, dalla paralisi, dell’essere di fronte alla miriade di possibilità che il mondo offre. Per heidegger questa deriva dalla morte, più precisamente dalla presa di coscienza che essere è possibilità, ma tale potenza si esaurisce proprio in funzione della possibilità massima umana, che è appunto la morte (ineludibile necessaria e non possibile contingente). Se la carica emotiva, la forza vitale-esistenziale, di un atto, temporalmente e contiguamente fuori dall’esser-ci, si ridà all’esistenza stessa tramite la memoria. Questa stessa carica, ma stavolta di una possibilità non ancora attuata, si da all’esistenza tramite l’angoscia, ovvero la prolessi dell’atto. Prolessi e memoria rendono la dimensione temporale dell’uomo estremamente flessibile, nella mia esistenza io posso attingere in egual misura a sensazioni provenienti dal passato quanto dal futuro, inserendole nella possibilità del presente. In “memoria del futuro” del già citato Bion, tale aspetto è evidente, una sapienza arcaica che si proietta nel futuro. Continuando a rifarci a Bion si può affermare che se l’uomo è intellettualmente pronto alla morte, non lo è emotivamente. L’angoscia ci mette in rapporto col puro nulla attualizzandone gli effetti, l’essere non è morto quando smette di vivere, smettendo di vivere l’essere non è. L’essere è morto dal momento in cui profila la morte, l’anticipa, è li che il vero rapporto con il nulla si da all’esistenza. Per non morire l’uomo ha bisogno dell’inautenticità, ma questa non deve essere imposta dai ritmi dell’esistenza pratica, dalla spinta (anch’essa non voluta) a continuare oggi ciò che ho 65
cominciato ieri e che conto di finire domani per poi ricominciare. Occorre piuttosto che l’uomo si rapporti con la sua possibilità autentica, che instauri con questa un duello da vincere con l’arma dell’oblio. L’oblio rende l’uomo immortale, indenne agli attacchi della morte nel presente dell’essere, la trasforma in una carica neutra che apparirà solo nel momento in cui smetteranno di esistere gli occhi per guardarla.
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MORTE E UTOPIA: BLOCH E SIMMEL Con questa relazione intendo discutere sul tema della morte secondo Simmel, opponendo ad esso la tesi dell’utopia secondo Ernst Bloch. Nelle 4 intuizioni della vita Simmel afferma, che è proprio la morte a dar forma alla vita. Questo in netta contrapposizione con la visione classica (si prenda ad esempio Epicuro, il quale affermava che non bisogna aver paura della morte, dato che essa sussiste solo in condizioni opposte alla vita). La morte è fondamentale alla vita proprio perché le da forma delimitandola, una forma immanente che appartiene al soggetto (solo ed esclusivamente) sin dalla nascita. Ogni evento (contenuto) assume il suo senso solo grazie alla forma in cui si inserisce, esso al di fuori della forma e al di fuori della dimensione in cui la forma è ubicata (l’immanenza), cioè, nella trascendenza sarebbe totalmente diverso: “il significato costitutivo della morte. In altre parole, essa delimita, o meglio, modella la nostra vita non solo nell’ora della morte, , bensì è un momento fondamentale della vita che ne tinge tutti i contenuti; il fatto che la totalità della vita sia delimitata dalla morte agisce preliminarmente su ciascuno dei suoi contenuti ed istanti; la qualità e la forma di essi sarebbe diversa se esso potesse estendersi oltre questo limite immanente”(le 4 intuizioni della vita pag. 81). La forma, secondo Simmel , è ineccepibilmente individuale, è un apriori innato ed irripetibile, diverso di soggetto in soggetto. In pratica, l’opposto di quanto sosteneva Kant, ovvero, una ragione pura trascendentale e comune (quindi 67
impersonale e sovra individuale) alla luce della quale, ogni individuo in maniera uguale (quindi comparabile), discerne il bene dal male, il giusto dall’ingiusto. Una ragione alla quale si “disobbedirebbe” solo attraverso un prevaricare della sensibilità (tentazione) sul raziocinio, idea vile, dice Simmel, dato che sottrae l’uomo dalla responsabilità per il male che crea. Avendo quindi parlato della forma sia secondo Kant che secondo Simmel, è ovvio chiedersi chi dei due “abbia ragione”, cioè, quale forma assuma la vita. Abbiamo visto che per Simmel la forma è delimitata dalla morte, condizione questa scaturita dall’immanenza dell’esserci. Ma al di fuori dell’ immanenza, nella trascendenza, la vita ha un limite? Se non lo avesse ogni contenuto, semplicemente, non esisterebbe, dato che, una vita che non ha limite non ha nemmeno forma e contenuto, non avendo una forma in cui iscriversi, non esiste. Ma se esistesse un evento che dia forma all’io trascendentale dall’interno?! Questi sarebbe senz’altro l’utopia, il non-luogo, lo scopo, appunto il fine, dell’esistere! Per descrive questo evento cito alcuni passi tratti da “ateismo nel cristianesimo” di Ernst Bloch: “fino ad ora non siamo mai usciti dal nostro io e continuiamo a restarvi. La tenebra ancora ci penetra e non solo perché sentiamo che il nostro qui e il nostro ora – in cui come tutto ci muoviamo – sono troppo prossimi ed immanenti […] noi siamo incompiuti come nessun’altra esistenza vivente, ancora aperti verso l’avanti. E ci proiettiamo tutti in avanti, lavorando ed agendo per qualcosa ancora da venire” (ateismo nel cristianesimo pag. 165) e ancora: “per quanto sia opaca la nostra vita, tuttavia qualcosa ci da una spinta. La fame si annuncia con i suoi colpi … e si pone dunque di fronte alla questione su senso, senza placare la fame di senso ed il nonsenso della morte mediante l’ oppio del popolo e nemmeno 68
mediante i sogni di un accomodamento nell’aldilà, ma con un lavoro incessante dell’incorruttibile e non deviato diventar coscienti e sulla autentica realizzazione del bisogno utopico” (ateismo nel cristianesimo pag 323-324) Se la vita è quindi delimitata dall’utopia, la morte dell’individuo non rappresenterà la morte della forma, l’umanità avrà inglobato l’individuo, il quale, con la sua vita e la sua morte non è sostituibile come una qualsiasi rana (l’esempio che porta Simmel): “l’essere grande” del soggetto non è sparito con la morte, è rimasto a disposizione dell’umanità e del suo progredire verso l’utopia: “l’orrore della morte supera l’angoscia dinnanzi al morire, l’angoscia nel momento di un distacco che avviene ancora in vita. Di una morte che non si può sperimentare nel proprio corpo, ma che è prima tanto più evidente nei cadaveri degli altri. […] per superare ciò occorre un coraggio diverso da quello necessario per vivere e per morire. […]il buono, il bello, il sublime ed il profondo, anche se spezzati ed agenti in una sfera rapita all’uomo, potrebbero rafforzare il nostro esser-ci terrestre, altrove tanto precario, il coraggio della morte, offrendogli l’affetto di una attesa che si volge anche a ciò che contro ogni aspettativa non si è verificato. […] solo laddove- come mai altrove- il cercare, l’attendere, lo stesso non capitolare trovano un posto, permanentemente meta religioso e per la prima volta anche meta-fisico. Una morte sicura va incontro solo a chi si limita a stare in superficie di tutto ciò. Il cadavere viene eliminato e rimosso, quasi spazzato via dalle onde; ma verso dove vanno i fiori? […] il nocciolo di tutti gli uomini è in ogni caso al di la dei confini del caudico, per tutto ciò che in esso ancora diviene.” (ateismo nel cristianesimo pag. 314–322). Ovviamente ogni soggetto crede in una utopia diversa, un cristiano non è (necessariamente) un comunista, e viceversa… 69
ciò che conta non è “il contenuto” dell’utopia, a dar forma al pensiero comune è, già di per se, l’ idea stessa dell’utopia, cioè un qualcosa che non è e che può essere, un fine che super l’individualismo (l’individuo e la sua morte) diventando progetto collettivo e comune dell’umanità. C’è però da fare una precisazione: l’utopia, così come la ragion pura, non sono insite nell’uomo, insita è semmai la forma individuale (coerente con l’immanenza dell’esistenza), per dirlo in maniera Heideggeriana l’utopia non è nell’esserci! Certamente ognuno, sulla propria isola, nella propria individualità, può credere di compiere un qualcosa di trascendentale, di storicamente rilevante, invece, così come afferma anche Nietzsche in un tratto della seconda inattuale, egli asseconda solo una esigenza del suo spirito dionisiaco. Se non è quindi possibile pensare all’utopia nell’esser-ci, è almeno possibile uscire da questi? È possibile aprire una crepa nello spazio immanente per guardare oltre? Emmanuel Levinas, certamente un filosofo etico e politico più che teoretico, proprio in contrapposizione all’esser-ci dell’ente di Heidegger, parlò di un “altrimenti che essere”, un’altra dimensione del pensare ove non ci sia violenta riduzione “dell’altro al medesimo”. A questa nuova dimensione del pensiero si “accede” con la paralisi provocata dal darsi del volto dell’altro (il povero, il viandante, la vedova. Immagini che Levinas prende dalla Thorà), una paralisi che fa del soggetto un “ostaggio” dell’altro, non più un esser-ci, ma un ecco-mi: “accesso caratteristico in cui colui che accede appartiene egli stesso alla concretezza dell’incontro senza poter prendere la distanza necessaria allo sguardo oggettivante, senza potersi liberare dalla relazione […] trascendenza che non sarebbe quindi la semplice deficienza di immanenza, ma l’eccellenza irriducibile del sociale nella sua prossimità, la pace stessa. Non la pace della sicurezza e della 70
non aggressione, che assicura a ciascuno la sua posizione nell’essere, ma la pace che è già questa non-in-differneza” (tra di noi. Saggi sul pensare-all’altro pag.228). Il soggetto Levinasiano, “torna” poi al suo esser-ci, attraverso la comparsa di “un altro prossimo” (un terzo)… ma il soggetto vivrà in un'altra forma, quella che Levinas definisce “giusta”. In pratica vivrà con giustizia, scaturita dalla intelligibilità ottenuta con l’uscita dal suo spazio esistenziale: la giustizia consiste nel rendere nuovamente possibile l’espressione in cui, nella non-reciprocità, la persona si presenta nella sua unicità. Osservando quindi questo meccanismo etico ipotizzato da Levinas, è concepibile pensare che il darsi dell’utopia ci porti nella stessa maniera, ad una nuova visione ontologica, ad una nuova forma, non più individuale e immanente, ma universale e trascendentale, non più limitata dalla morte, bensì dalla utopia.
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