BeccoGiallo Direzione editoriale: Guido Ostanel e Federico Zaghis www.beccogiallo.it info@beccogiallo.it ISBN 978-88-99016-630 © 2017 BeccoGiallo srl Cover art: Ciaj Rocchi e Matteo Demonte Finito di stampare nel febbraio 2017 da Cierre Grafica, Sommacampagna (VR)
Condividiamo la conoscenza! La storia, i disegni e i testi contenuti in questo libro sono rilasciati con licenza Creative Commons Attribuzione-Non commerciale-Non opere derivate 4.0 Internazionale. Sei libero di condividere e diffondere quest’opera nella sua integrità, citandone sempre le fonti e gli autori e senza fini di lucro. www.creativecommons.it Salviamo le foreste! Questo libro è stato stampato su carta certificata FSC ®. Il marchio FSC ® (Forest Stewardship Council®) identifica i prodotti che contengono legno proveniente da foreste gestite in maniera corretta e responsabile, secondo rigorosi standard ambientali, sociali ed economici.
“They were funky Chinamen, from funky Chinatown…” di Ciaj Rocchi
Quando quasi due anni fa, il 25 settembre 2015, è uscita la graphic novel Primavere e Autunni, nessuno di noi sapeva dove ci avrebbe portato. Non lo sapevano i nostri editori, non lo sapevano i nostri cari e non lo sapevamo neanche noi. Solo oggi, dopo aver girato l’Italia in lungo e in largo e dopo aver conosciuto la maggior parte degli eredi diretti di quella vicenda, possiamo dire che Primavere e Autunni è stato molto più di un libro e molto più di un sogno, perché ci ha permesso di incontrare una nuova grande famiglia con cui abbiamo scelto di condividere una parte di cammino. Come in un atto psicomagico, quel cerchio di relazioni e amicizie che già un secolo fa aveva fatto nascere famiglie e imprese si è riattivato. Primavere e Autunni, per tutti gli eredi diretti di questo retaggio culturale, è stato un modo per nutrire con nuova linfa le radici più profonde, recuperando quel senso di collettività che aveva caratterizzato la storia di questi avi e che il tempo aveva inevitabilmente fatto sbiadire. Da qui il desiderio di fare un nuovo libro sulla collettività cinese in Italia. Primavere e Autunni raccontava la storia di uno, Chinamen ha l’ambizione di raccontare la storia di tutti. Come una vecchia scatola trovata in soffitta, contiene i ricordi delle più antiche famiglie italo-cinesi e racchiude al suo interno quel che c’è di più prezioso per le generazioni a venire: la memoria. Come vecchie fotografie, lettere o ritagli di vecchi giornali, Chinamen è simbolo e traccia di questo passato comune.
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Il termine Chinamen merita una precisazione: è stato storicamente utilizzato in una molteplicità di modi, tra cui documenti legali, opere letterarie, nomi geografici, canzoni, discorsi. A volte, in mancanza di altro, è stato utilizzato anche come cognome. Nei dizionari risalenti ai tempi della prima immigrazione cinese in America, il termine non ha connotazioni negative, anzi viene utilizzato parallelamente a Englishman o Irishman. Il termine chinese indicava la lingua cinese; chinaman - e di conseguenza chinawoman - indicavano invece una persona. Solo i dizionari d’americano moderno ne danno un uso peggiorativo. La connotazione negativa è dovuta al contesto discriminatorio nei confronti dei cinesi e degli asiatici in generale. Al contrario, il termine è stato usato in lingua inglese senza intento offensivo, e anche come archetipo auto-referenziale da autori e artisti di origine asiatica. La prima strofa della hit del 1974 “Kung fu Fighting” di Carl Douglas cominciava con “They were funky Chinamen, from funky Chinatown…” , e certo quel testo non era dispregiativo. Noi lo abbiamo scelto principalmente per il carattere evocativo: ci piaceva che una sola parola, come un simbolo, fosse in grado di esprimere l’essenza del nostro racconto. Questi cinesi erano prima di tutto uomini. Ricreare ambienti e sensazioni di un passato realmente esistito, restituirgli la loro specifica verosimiglianza, è stato un lavoro enorme e ha significato recuperare dall’oblio pezzi di storia smarrita. Attraverso i ricordi di queste famiglie abbiamo voluto riportare in vita i protagonisti dei primi 100 anni d’immigrazione cinese a Milano, restituendogli molto più che la semplice dignità storica. Il nostro obiettivo era di riscattare la loro umanità, ancor prima che la loro identità di cinesi o di immigrati. E quindi si è trattato di molto più che l’elaborazione di un racconto biografico: è stata un’immedesimazione totale. Per mesi e mesi abbiamo guardato il mondo coi loro occhi e cercato di percepirlo con i loro cuori, cercando di capire, oltre le fonti, quale fosse stato il loro vissuto e da quali forze fossero
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sospinti. Fotografia dopo fotografia abbiamo imparato a riconoscerli, tanto che lungo la lavorazione di Chinamen più volte ci è sembrato di incontrali, o meglio di averli già incontrati. Il lavoro sui personaggi è stato un altro grande traguardo. Ne abbiamo studiato ogni singola sfumatura, ogni sguardo, ogni ombra. Abbiamo sempre cercato di restituire la realtà. Il lavoro è sempre proseguito di pari passo tra me e Matteo. Mentre lui ogni notte costruiva singoli mattoncini, io di giorno li organizzavo in vignette. E a volte questi mattoncini erano così belli che era un peccato restringerli in uno spazio limitato: perché si vedessero i dettagli, alcune immagini dovevano restare grandi come l’intera pagina. La storia di Wu QianKui raccontata nel primo capitolo è la storia di un uomo che a cavallo tra l’800 e il ’900 ha girato il mondo in lungo e in largo, attraversando l’Europa, arrivando fino in America per poi tornare in Cina, dove è morto nel 1937. Veniva da un paese del distretto di Qing Tian di nome LongXian, lo stesso villaggio da cui proveniva Wu Lishan, il nonno di Matteo, ed era infatti un suo parente, probabilmente uno zio. La sua storia migratoria è ben documentata, soprattutto perché ancora oggi esistono due lussuosi edifici a lui dedicati. Ma di fotografie neanche una. Abbiamo quindi pensato di ovviare al problema utilizzando il volto di Matteo per rappresentare questo avo leggendario. Certo, rasato e abbigliato alla moda della dinastia Qing, ma i lineamenti del viso restano i suoi, come a dire… dietro a tutto questo ci sono io! Ed effettivamente è stato un lavoro enorme. Forse, a volte, a qualcuno capita di lavorare in tutta calma, ma a noi non è ancora mai successo. Quando il Comune di Milano ci ha contattato chiedendoci di partecipare al progetto Milano Città Mondo #02 Cina con una ricerca sulla comunità cinese di Milano che sarebbe culminata in una mostra al Mudec, ci è sembrata un’occasione irrinunciabile. Abbiamo intervistato
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decine e decine di famiglie, raccolto i loro ricordi cercando di organizzarli in un racconto unitario, e mentre portavamo avanti la nostra ricerca iconografica, rintracciando simboli che testimoniassero i molteplici aspetti della vita materiale di questi migranti, abbiamo recuperato alcuni reperti unici per la mostra: il portone de La Pagoda, gentilmente concesso in prestito da Rolando Jang, figlio di Luigino; l’abito tradizionale con cui Junsà arrivò in Italia nel ’36, conservato con cura per anni dalla Signora Attilia; una macchina da cucire proveniente dai laboratori di pelletteria del Signor Kolù, in mostra solo grazie a Franco Centola e a Nicoletta Cardinale; ed infine una parure di valigie provenienti dal laboratorio di Wu Lishan e il quadro di Chiang Kai-shek che ha fatto da sfondo a tutte le feste dei cinesi tra gli anni ’40 e ’50. Nonostante i tempi strettissimi ci siamo dati da fare, e abbiamo realizzato anche un piccolo documentario a cartoni animati che, per la prima volta, racconta un secolo d’immigrazione e di integrazione cinese in Italia. Ma un video o una mostra non sono veicolabili come un libro, per cui poi abbiamo deciso di farne anche un fumetto che diventasse fisicamente il luogo in cui riversare tutte le nostre conoscenze. Il secondo capitolo, quello sui venditori di perle “matte”, è stato tra i più divertenti da realizzare. Una ricerca nell’archivio storico del Corriere della Sera ci ha permesso di ricostruire, giorno per giorno, i primi mesi in Italia di questi giovani cinesi arrivati dalla Francia: dove vivevano, cosa mangiavano, come si muovevano… Evidentemente all’epoca avevano fatto scalpore, se i quotidiani avevano dedicato loro tanta attenzione. Eppure, nei racconti, questa parte era andata perduta. Tutti noi ci ricordavamo dei cinesi e delle cravatte vendute a “due lile”, ma nessuno ricordava le collane di perle che negli anni ’20 furoreggiavano sui mercati di tutto il mondo. Ed è stato molto bello riscoprire la Milano di quegli anni, quando era ancora una città d’acqua e offriva scorci da grande capitale europea.
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Poi è arrivata la guerra, con gli anni bui del fascismo. Lavorando su questo argomento, ci siamo resi conto di come quel periodo sia stato in parte rimosso. Noi per esempio non l’avevamo mai studiato, neanche a scuola. Si sente sempre parlare dei campi di concentramento nazisti e della resistenza partigiana, ma uno studio sistematico del Ventennio non è previsto dai programmi ministeriali. Eppure, due intere generazioni si sono formate sotto l’Opera Nazionale Balilla, l’inquadramento fascista pensato per i giovani italiani. Particolarmente significativo è che anche i cinesi in Italia erano nazionalisti. All’inizio degli anni Trenta le due culture sembravano più vicine che mai. Sembra addirittura che Ciano spingesse Chiang Kai-shek verso una Cina fascista. Ma le cose poi andarono diversamente. Anche in Italia. Per la stesura di questo capitolo un ringraziamento particolare va a Vittorio Lin, figlio di Shafò, che ci ha offerto un dialogo costante e costruttivo, e a Maria Grazia Sun, Itala Wu, Tiziana Wu e Adriana Wu, che da buone bolognesi ci hanno sempre accolto e sostenuto con calore ed entusiasmo. Gli anni ’60, i più vicini nel tempo, ci hanno permesso di coinvolgere direttamente i protagonisti delle nostre vicende. Attilia Trabucchi Hu è stata la vera scoperta. Una donna con una forza impensabile, in grado di trasmetterla a chi le sta vicino. Noi ne siamo rimasti affascinati e l’abbiamo amata subito, non solo come la nonna che non avevamo più ma anche come esempio di sensibilità e fede. Difficile trovare segnali più forti. La storia di Attilia e Junsà si è quindi scritta da sola, è uscita di getto come solo le storie d’amore sanno fare. E mentre di notte Matteo continuava senza sosta a disegnare, a rasentare il misticismo, percepiva Junsà dietro di sé come a dirgli: vai avanti, quello che stai facendo è importante! Insomma, qui non si è trattato solo di un libro, piuttosto di un incontro fra anime.
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Come con Mario Tschang, un uomo che ancora oggi sprigiona fascino e potere e che ci ha insegnato che non conta quanto sei importante o dove sei arrivato, perché sono sempre le piccole cose a fare la differenza. Una lezione di vita, per noi che difficilmente troviamo maestri. La chiusa finale dedicata a Chen Yuhua vuole essere un omaggio alla prima donna cinese immigrata regolarmente in Italia. In una storia tutta maschile, la sua figura rompe con la tradizione e inaugura, anche in Italia, il periodo della Nuova Cina, e la sua famiglia, dalla seconda metà degli anni ’70, diverrà una delle più in vista delle collettività di Milano e di Bologna. Sono questi tutti racconti di vite straordinarie, storie di cinesi e di italiani che hanno voluto lasciare traccia del loro vissuto e del loro percorso. Se pensiamo alla quantità di materiale fotografico che ci hanno lasciato e che per quegli anni era piuttosto insolita, allora forse possiamo immaginare quanto fosse importante per loro quello che stavano facendo. Le fotografie servivano a mostrare il loro successo ai parenti rimasti in Cina, ma anche a testimonianza delle loro imprese per le generazioni future, la cui discendenza segna un punto di arrivo. E allora non c’è culto degli antenati più adeguato che il canto delle loro gesta in un libro, in un documentario e in una mostra, per celebrare insieme - famiglie e istituzioni cittadine - un secolo di integrazione sino-italiana.
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Chinamen Un secolo di cinesi a Milano
General Contractor & Project Management e progetto esecutivo di allestimento RTI - Cheil, OC&M, inrete
Sindaco Giuseppe Sala Assessore alla Cultura Filippo Del Corno Direttore Cultura Giulia Amato Direttore Area Valorizzazione del Patrimonio Artistico Anna Maria Maggiore Ufficio Reti e Cooperazione Culturale Bianca Aravecchia Riccardo Tamburini Alessandra Cecchinato Coordinatore Amministrativo Mudec Wanda Galbiati Conservatori Mudec Carolina Orsini Giorgia Barzetti Iolanda Ratti Ufficio tecnico Mudec Giuseppe Braga Responsabile Mudec Sole 24Ore Cultura Simona Serini CHINAMEN. 100 anni di cinesi a Milano 15 marzo – 17 aprile 2017 MUDEC | Museo delle Culture, Milano Mostra a cura di Daniele Brigadoi Cologna Documentario animato, illustrazioni e creatività in mostra Matteo Demonte Ricerche Ciaj Rocchi, Erica Valori, Chiara Previtali, Vanessa Cirillo, Giulia Di Nallo, Maria Pollutri, Lucrezia Goldin, Claudia Rocca, Davide Martinelli Coordinamento mostra | Ufficio Reti e Cooperazione Culturale Bianca Aravecchia Riccardo Tamburini Mudec Iolanda Ratti Cristina Filippi
Comunicazione |Comune di Milano Direzione Specialistica Comunicazione Alessandra Marcatelli Biagio Minelli Susanna Parisi Comunicazione 24Ore Cultura Sara Lombardini Silvia Riboni Ufficio Stampa Elena Conenna (Comune di Milano) Elettra Occhini (24Ore Cultura) Francesca Negri (inrete srl) Social media Marco Piccardi (Comune di Milano) Tiziana Leopizzi (Sole 24Ore Cultura) Traduzioni Istituto Confucio, Università degli Studi di Milano Trasporti Crown Fine Art Custodia sala Cecilia Pietroluongo Elena Marchiol Prestatori Museo di Fotografia Contemporanea Archivio di Stato di Milano AESS-Regione Lombardia Archivio Storico Civico e Biblioteca Trivulziana Civico Archivio Fotografico di Milano Civiche Raccolte delle Stampe Achille Bertarelli Famiglia Ou Famiglia Centola Attilia Trabucchi Hu Ivo Hu Rolando Jang Grazie a Consolato della Repubblica Popolare di Cina in Milano Forum della Città Mondo Associazione Cinesi a Milano Suping Huang Sara Chiesa Giulia Avogaro Giorgia Barzetti Marilù Manta Benedetto Luigi Compagnoni Archivio di Stato di Milano Archivio Centrale dello Stato Fondazione Corriere della Sera Biblioteca Comunale Centrale, Palazzo Sormani
Il Museo delle Culture, aperto da poco più di un anno, ha come missione la conservazione e la presentazione del patrimonio materiale e immateriale proveniente da terre lontane e la valorizzazione delle culture attraverso il protagonismo di tutti i cittadini che provengono da quelle terre e quei mondi. Attraverso il Forum e l’Associazione della Città Mondo, organismi costituiti di centinaia di associazioni rappresentative di numerose comunità internazionali radicate a Milano che dal 2011 affiancano e stimolano l’operato dell’Amministrazione, il Mudec apre un dialogo costante con la pluralità delle culture rappresentate in città e prova a restituirne la complessità e la ricchezza, tra ricerca scientifica, testimonianza storica e interpretazione dell’attualità. Il progetto “Milano Città Mondo” elaborato dall’ufficio reti e cooperazione culturale del Comune di Milano, d’intesa con il Mudec e con la partecipazione di membri del Forum Città Mondo, mira a documentare ogni anno la storia e le modalità di arrivo e presenza, meticciato e cittadinanza delle diverse comunità internazionali presenti a Milano. L’attenzione nel 2017 è rivolta alla Cina e all’immigrazione cinese, la più antica e fino a pochi anni fa la più numerosa di Milano. La mostra “Chinamen. Un secolo di cinesi a Milano”, prodotta dal Comune di Milano e da Mudec e allestita proprio nello spazio Khaled al-Asaad, dedicato alle attività del Forum Città Mondo, si propone non solo di ripercorrere la storia di un quartiere, ma anche di creare curiosità e divulgare conoscenze intorno alla cultura sino-milanese.
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Sono passati più di centodieci anni dall’Esposizione Universale del 1906, quella che fece approdare per la prima volta i cinesi a Milano. Il Padiglione della Cina era ubicato vicino al padiglione della piscicoltura, cioè a quello che sarebbe poi divenuto l’acquario civico. E il borgo degli ortolani, che con le sue case a prezzi accessibili e la sua architettura popolare a corte ricordava ai cinesi gli udong della madre patria, era un luogo di insediamento vicino e naturale. Parlare di 100 anni di cinesi a Milano significa, in primo luogo, parlare della città, delle sue evoluzioni e di come sia diventata “grande”, interessante e apprezzata anche grazie all’apporto delle tante culture che la abitano e del tessuto sociale e umano che ne è derivato; significa parlare dei suoi cittadini.
Filippo Del Corno Assessore alla Cultura Comune di Milano
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La mostra Chinamen. Un secolo di Cinesi a Milano risponde ad uno dei più importanti obiettivi del Mudec, e in generale dei Musei delle Culture dei giorni nostri, ovvero quello di generare una pluralità di visioni e un pensiero creativo, a partire non più dall’osservazione dell’ “altro” come entità lontana e distante da noi ma da un reciproco sguardo che parte da un’integrazione rispettosa delle differenze, che anzi da esse si nutre. La storia della Comunità Cinese a Milano a partire dagli anni Venti è una storia complessa, non abbastanza conosciuta in tutte le sue sfaccettature e probabilmente mai davvero raccontata dai suoi protagonisti. Il progetto Milano Città Mondo, dedicato nel 2016-2017 alla Cina, non ha pretese di esaustività nel tracciare questa storia ma intende, proprio a partire da questo scambio che diventa un metodo di lavoro, ripercorrerne alcune tappe, dare spazio alla narrazione, partendo sia dalle fonti ufficiali sia da racconti informali, da archivi pubblici e privati. La scelta di incaricare il sinologo Daniele Brigadoi Cologna e l’artista Matteo Demonte come curatori di Chinamen, coordinati dai responsabili dell’Ufficio Reti e Cooperazione Culturale e del Mudec, si è rivelata fin dal principio un’incredibile occasione per uno scambio fecondo tra ricerca scientifica ed elaborazione creativa, con una pluralità di strumenti di lavoro che spaziano dalla conoscenza di prima mano di fatti e personaggi ad una rigorosa analisi della letteratura, fino ad una ricerca sul campo che ha visto interagire giovani studiosi con i protagonisti o i discendenti dei primi immigrati cinesi nella città di Milano.
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La mostra è quindi la restituzione di questo lavoro di ricerca partecipata, attraverso l’esposizione di lettere, documenti, fotografie e oggetti raccolti anche nel corso di questi mesi. Non solo. Se il patrimonio è il punto cardine di qualsiasi museo, nel caso del Mudec è stato molto chiaro fin dalla stesura delle lineee programmatiche che una delle chiavi d’accesso e lettura delle collezioni era quello dell’interdisciplinarietà e dell’apertura alla cultura contemporanea in tutte le sue declinazioni: arti visive, design, musica e peformance. Il documentario animato realizzato da Matteo Demonte, che in parte confluisce nel libro Chinamen, risponde a pieno titolo a questa volontà. La lente attraverso cui l’artista guarda e racconta l’immigrazione cinese a Milano costituisce di per sé un punto di vista peculiare e di grande interesse che trova forma in un lavoro raffinato e intelligente che il Mudec è orgoglioso di aver contribuito a produrre e onorato di acquisire come parte della propria collezione permanente.
Giulia Amato
Anna Maria Maggiore
Direttore ad interim Area Polo Arte Moderna e Contemporanea - Mudec Comune di Milano
Direttore Area Valorizzazione Patrimonio Artistico e Sicurezza Comune di Milano
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Un secolo di cinesi a Milano di Daniele Brigadoi Cologna Università degli Studi dell’Insubria
Il progetto e la mostra
La prima denuncia di esercizio individuale presentata alla Camera di Commercio di Milano da un commerciante cinese: Yan Chen Tson (楊成忠 Yáng Chéngzhōng), iscritto come venditore ambulante di ceramiche e mercerie diverse nell’ottobre del 1927 e soggiornante in via San Pietro all’Orto 16, dove alloggiava presso un affittacamere del centro città. Fonte: Archivio della Camera di Commercio dell’Industria, dell’Artigianato e dell’Agricoltura di Milano.
Chinamen era il termine con cui nell’Occidente anglosassone si definivano quegli uomini della Cina che, nel corso del XIX secolo, si diffusero un po’ in tutti i territori in cui l’imperialismo delle principali potenze europee e l’espansione della giovane nazione statunitense andava disboscando foreste, creando piantagioni, scavando miniere, costruendo ferrovie e generalmente annientando popolazioni, società e culture locali. Oggi è una parola dal sapore coloniale, che molti cinesi trovano insultante. Ma è anche una sorta di dagherrotipo che permette di restituire per un istante all’immagine dei primi migranti cinesi il sapore tragico e meraviglioso di quella loro prima apparizione, in un mondo così lontano dalla terra dei loro antenati. Uomini, perché di donne, verso i paesi occidentali, fino alla prima metà del Novecento ne emigravano molto poche. E cinesi in un oceano di non-cinesi, di fanren, parola che ancora oggi in dialetto di Qingtian evoca la stranezza e l’alterità irriducibile delle genti d’Occidente. La scelta di alludere a questa espressione così gravida di asimmetrie e ambiguità immaginifiche deriva dalla volontà di inquadrare questo capitolo misconosciuto della storia italiana, nella più ampia trama della diaspora cinese in Europa e nel mondo. Perché anche i nostri primi cinesi furono quasi tutti uomini. E perché inizialmente vennero descritti con la stessa sufficienza, lo stesso malcelato senso di superiorità intriso di paternalismo coloniale e fantasticherie esotizzanti, con cui furono raccontati dalle cronache del tempo in tutto il mondo occidentale. Ma anche perché vestire i panni del Chinaman poteva rivelarsi, inaspet-
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tatamente, liberatorio. Significava crearsi una nuova identità sociale, quella dello huaqiao, del cinese emigrato all’estero: cosmopolita, indipendente, spavaldo. Un figurino in abiti di buon taglio, la fedora calcata in testa sulle ventitré, i gesti e le parole gradualmente modellati dall’esperienza, sempre più padroni della nuova sfera di relazioni sociali grazie alle quali si costruiva prima la sussistenza spicciola, poi, passo passo, il proprio riscatto sociale. Promosso dal Museo delle Culture e dall’Ufficio Reti e Cooperazione Culturale del Comune di Milano all’interno di Milano Città Mondo #02 Cina, l’ampio ventaglio di iniziative che in collaborazione con il Forum Città Mondo ogni anno vengono dedicate a una delle numerose comunità internazionali di Milano, Chinamen. Un secolo di cinesi a Milano è un progetto complesso, che si articola in una graphic novel di taglio documentaristico (questa); un intervento di arte pubblica nelle vie del quartiere cinese, promosso dalla cooperativa di ricerca e intervento Codici; un breve documentario animato, realizzato anch’esso da Ciaj Rocchi e Matteo Demonte, e infine una mostra allestita al MUDEC a partire dal 15 marzo 2017. Questa esposizione attinge al lavoro di ricerca pluriennale di chi scrive, ma è anche l’esito di una ricerca partecipata che ha visto all’opera un’affiatata équipe di giovani studenti del Polo di Mediazione dell’Università degli Studi di Milano (Erica Valori, Chiara Previtali, Vanessa Cirillo, Giulia Di Nallo e Maria Pollutri) e del Dipartimento di Diritto, Economia e Culture dell’Università degli Studi dell’Insubria (Lucrezia Goldin, Claudia Rocca, Davide Martinelli), che hanno collaborato al lavoro di recupero di fotografie, documenti e testimonianze che potessero illuminare le origini della minoranza sino-italiana e che hanno contribuito alla documentazione iconografica che informa meticolosamente le tavole e le animazioni di Ciaj e Matteo. Il lavoro dei giovani ricercatori negli archivi e nelle strade dello storico borgo degli ortolani, che oggi è la domiciliazione simbolica per eccellenza dell’identità storica dei cinesi d’Italia, ha arricchito tanto la valorizzazione del signifi-
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cativo patrimonio fotografico conservato negli archivi pubblici e privati milanesi, quanto la socializzazione delle evidenze documentarie reperite nel corso degli anni in diversi archivi nazionali, anche grazie all’incontro con discendenti, parenti e amici dei protagonisti della prima ondata migratoria, ormai lontana tre o quattro generazioni. Ne scaturisce un intreccio straordinario di biografie meneghine, in cui persone spesso di umile condizione sociale hanno saputo forgiare intensi sodalizi d’affetto, d’amicizia e d’affari, senza troppo curarsi delle rispettive differenze etniche, linguistiche e culturali. Quale migliore testimonianza dello spirito più autentico di questa città dell’inaspettata resilienza – e i molti successi – di queste improbabili comunità di destino, che furono e sono tuttora la sostanza vera della più antica comunità straniera di Milano?
Dal Zhejiang all’Europa Persone originarie dell’entroterra della città portuale di Wenzhou, un territorio montuoso ubicato nella porzione più meridionale della regione costiera cinese del Zhejiang, iniziarono a visitare diversi paesi dell’Europa continentale con una certa frequenza a partire dalla fine del diciannovesimo secolo. Ma fu soltanto a partire dal primo quarto del Novecento che la partecipazione di mercanti cinesi provenienti dal Zhejiang meridionale a fiere internazionali e la loro ricerca di relazioni d’affari stabili in Europa ispirarono l’insediamento stabile di piccoli gruppi di commercianti in alcune città europee. Città portuali come Amsterdam, Rotterdam, Marsiglia e Trieste, oppure metropoli come Mosca, Berlino e Parigi, consentirono ad alcuni dei primi immigrati di fungere da agenti per le migrazioni di parenti, amici o compaesani intenzionati a seguire il loro esempio nel cercare fortuna in Occidente. Alcuni contesti insediativi di questi primi immigrati originari del Zhejiang, che all’inizio erano soprattutto commercianti ambulanti o lavoratori marittimi, funsero da ancoraggio per lo sviluppo di filiere migratorie in grado di sostenere nel tempo flussi che, seppure con temporanee interruzioni, si sono mantenuti fino ad oggi.
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Tanto i pionieri di questa migrazione quanto i loro epigoni più tardi provenivano da un territorio di dimensioni molto ridotte, al punto che è possibile circoscrivere tutti i villaggi di provenienza dei migranti in un cerchio il cui diametro è poco più di cinquanta chilometri. Tale zona di origine si estende infatti attorno alle catene montuose che separano il corso del fiume Ou da quello del fiume Feiyun, e comprende diversi villaggi sparsi lungo il confine che separa l’odierno distretto di Qingtian nel territorio di Lishui, da quelli limitrofi di Wencheng, Rui’an e Ou’hai nella prefettura di Wenzhou. Storicamente è possibile considerare come l’originario punto di innesco di questa migrazione il distretto di Qingtian, soprattutto quello che in epoca repubblicana (1911-1949) ne costituiva il “contado”, il territorio rurale accorpato alla città capoluogo di Qingtian. Per meglio comprendere per quale motivo una delle più rilevanti migrazioni internazionali cinesi moderne abbia avuto origine in una così remota area rurale della Cina, occorre considerare una delle storiche specificità produttive di questo territorio: le miniere di pirofillite nelle montagne che dividono i torrenti Sidu e Fangshan, entrambi affluenti del fiume Ou, nei pressi di Shankou. Questo minerale, noto in Cina con il nome di Qingtian shi o “pietra di Qingtian”, è da secoli uno dei materiali più utilizzati dall’artigianato cinese per le sue qualità estetiche e plastiche. La sua superficie compatta, traslucida e gradevole al tatto ricorda la giada, ma è una pietra di gran lunga più morbida e facile da lavorare, caratteristica che ne ha fatto la materia prima preferita per l’arte dell’intaglio dei sigilli fin dalla dinastia Ming. L’abilità degli artigiani delle valli limitrofe nella produzione di sculture in pietra di Qingtian è leggendaria e ha alimentato una diffusione commerciale sempre più vasta di questi manufatti. La passione per l’esotico che accompagnò tutta l’epoca dell’imperialismo europeo spinse alcuni commercianti di Qingtian a proporre statuette e altre piccoli oggetti in pietra di Qingtian tra i prodotti cinesi da esportazione presentati alle esposizioni commerciali del diciannovesimo e ventesimo secolo. Alcuni dei primi emigranti
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cinesi avviarono le proprie avventure imprenditoriali in Europa proponendosi inizialmente come venditori ambulanti di cineserie, magari dotandosi di un piccolo stock di articoli in pietra di Qingtian da rivendere all’estero per garantirsi un piccolo capitale di partenza. Successivamente si rifornirono di altre tipologie di merce presso grossisti locali, passando di merce in merce, e di mercato in mercato, finché non individuarono il filone artigianale o commerciale che permise loro di accedere a specifiche economie di nicchia dove poterono prosperare e garantire ad altri parenti, amici o compaesani la possibilità di raggiungerli. Dal punto di vista storico, l’emigrazione dal Zhejiang meridionale rappresenta senza dubbio la più importante migrazione dalla Cina continentale all’Europa. Altri flussi di migranti che potevano definirsi cinesi dal punto di vista etnico-linguistico e culturale, ma che erano di fatto cittadini di paesi diversi dalla Cina prima di emigrare in Europa, hanno forse rilevanza maggiore sul piano strettamente numerico in alcuni paesi europei, come il Regno Unito, la Francia, l’Olanda o il Portogallo. Si tratta infatti di paesi che in passato hanno posseduto colonie in Asia o nelle Americhe dove erano presenti importanti e storiche comunità cinesi: si pensi all’Indocina francese, alle Indie Orientali e Occidentali olandesi, alla colonie britanniche in Malesia, a Singapore e Hong Kong. La maggior parte degli emigranti di origine cinese provenienti da queste colonie si trasferì nei territori metropolitani dei rispettivi imperi europei nel secondo dopoguerra durante o dopo il tormentato processo di decolonizzazione, che spesso ebbe conseguenze traumatiche per i cinesi della diaspora insediatisi da secoli nell’Asia Sudorientale. L’Italia, invece, fu fin dal principio meta soprattutto di flussi migratori provenienti dalla Cina continentale e in particolare dal Zhejiang meridionale. Anche se non fu il primo paese europeo ad essere interessato da questa migrazione, è oggi divenuto quello in cui vive il maggior numero di cittadini della Repubblica Popolare Cinese: degli 826.095 cittadini cinesi risultati re-
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sidenti nei 28 paesi dell’Unione Europea all’epoca dell’ultimo censimento (2011), poco meno di un quarto (197.064 persone , il 23,8%) risiedeva in Italia. La maggioranza di essi proviene tuttora dai medesimi distretti da cui erano partiti i loro avi quattro generazioni prima, ed è legata agli stessi clan ancestrali cui appartenevano i primi emigranti di inizio Novecento.
di ringhiera, abbarbicate attorno al suo asse centrale – Via Canonica – e alla storica parrocchia della Santissima Trinità. Convenientemente collocato a poca distanza dal Parco Sempione, cioè l’area dell’Esposizione Universale e di molte fiere successive, rappresentava un comodo punto di appoggio per i commercianti itineranti, che vi reperivano facilmente alloggio e vitto a costi molto bassi.
L’importanza delle esposizioni internazionali Ad attirare in Italia i primi visitatori originari del distretto di Qingtian fu verosimilmente l’Esposizione Internazionale di Milano del 1906, che ospitò anche una delegazione imperiale cinese. L’impero Qing, ormai al tramonto, partecipò all’Expo con un piccolo padiglione dedicato alla piscicoltura che destò curiosità ma sul quale si profusero non poche ironie – il Messaggero del 20 agosto 1906 arrivò a paventare “una strana forma di pericolo giallo: l’Europa invasa dal pesce fritto?” – al punto che alcuni commercianti di Qingtian, dopo aver visitato l’Esposizione di Parigi, di Saint Louis negli Stati Uniti e infine quella di Milano, scrissero una petizione al ministro plenipotenziario in visita in Italia lamentando l’atteggiamento semiserio e poco rispettoso con cui erano spesso accolti i cinesi in occasione di queste fiere. Uno dei più famosi emigranti della prima ora (avrebbe in seguito fatto fortuna in America) fu Wu Qiankui, originario del villaggio di Longxian, nella valle di Fangshan, che visitò il Belgio e l’Italia nel 1905-1906 per proporre i propri articoli (statuette in pietra di Qingtian e tè verde pregiato). Furono persone come lui a tessere le relazioni commerciali che avrebbero collocato Milano nelle mappe mentali di futuri emigranti provenienti dal medesimo villaggio, come ad esempio gli accordi con importatori italiani di articoli esotici dalla Cina e dal Giappone. Come si vedrà dieci anni più tardi, questo legame con gli spazi adibiti a fiera contribuirà anche a legare i cinesi di Qingtian al cosidetto “borgo degli ortolani”, quell’agglomerato suburbano appena fuori Porta Volta che fungeva storicamente da cerniera tra la città e il suo contado. Un concentrato di piccole botteghe e case
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Dal Giappone, alla Francia, all’Italia La Grande Guerra segnò una battuta d’arresto nelle nascenti relazioni commerciali tra Cina e Europa. Nella letteratura europea sull’immigrazione cinese si tende a far risalire le origini di questo flusso proprio in coincidenza con l’invio in Francia e in Inghilterra di un considerevole contingente di lavoratori cinesi da inviare nelle fabbriche in sostituzione degli operai arruolati negli eserciti alleati e, in parte, da addestrare come zappatori per le opere di trinceramento lungo il fronte occidentale. Degli oltre centomila uomini inviati in Francia e in Inghilterra, la stragrande maggioranza era originaria dello Shandong, mentre i cinesi provenienti da Qingtian erano pochissimi. In realtà, il vero avvio dei flussi dal Zhejiang verso l’Europa è parecchio posteriore alla vicenda del contingente cinese che partecipò – seppure da non belligerante – allo sforzo bellico alleato. Durante la prima guerra mondiale infatti la giovane Repubblica Cinese conobbe un momento di relativo sviluppo economico. Con le potenze europee impegnate a massacrarsi a vicenda, vide la fioritura di una borghesia commerciale molto attiva soprattutto nelle principali località portuali della costa orientale, coinvolte in una fitta rete di scambi commerciali con il Giappone e la sua crescente sfera di influenza economica, che includeva anche i territori annessi al proprio impero nei cinquant’anni precedenti: Taiwan e la Corea. Coreani e cinesi affluivano in gran numero in Giappone, soprattutto come operai e lavoratori a bassa qualificazione, ma nel caso di questi ultimi vi era anche un piccolo contingente di venditori ambulanti originari di Qingtian. Negli
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anni Venti vendevano soprattutto ombrelli e cineserie, attirati da quella che appariva loro come la tangibile incarnazione di una modernità asiatica realizzata. È proprio a Tokyo nei primi anni Venti che iniziano le loro carriere migratorie molti dei cinesi di Qingtian che negli anni seguenti metteranno radici in Italia. La via del Giappone infatti conoscerà presto una serie di battute d’arresto, una più drastica dell’altra. Il grande terremoto del Kant del 1923 segnerà l’inizio della fine della migrazione qingtianese in Giappone. Una serie di tremendi incendi faranno più danni e più vittime del terremoto stesso, e la colpa della scarsa cura per la sicurezza dei focolari domestici venne attribuita ai numerosi domestici coreani. Ne seguì un atroce massacro, che colpì nel mucchio tutti coloro che non apparivano abbastanza giapponesi o parlavano con un accento straniero: ne fecero le spese anche circa trecento cinesi di Qingtian e di Wenzhou, causando un incidente diplomatico serio tra Cina e Giappone. I rapporti tra i due paesi, dopo che il trattato di Versailles cedette al Giappone i territori coloniali tedeschi nello Shandong e ne riconobbe la sfera d’influenza in Cina settentrionale, erano piuttosto tesi e negli anni successivi non fecero che peggiorare. I cinesi vennero rimpatriati. Ma molti di loro erano all’inizio della loro avventura migratoria, e dopo aver “voltato le spalle al pozzo del villaggio natio” a prezzo di notevoli sacrifici non potevano sopportare l’idea di tornare a casa a mani vuote.
Dalle perle artificiali, alle cravatte, alla pelletteria Così, grazie al reclutamento in massa di agenti di commercio da impiegare sui mercati europei da parte di una società commerciale franco-nippo-cinese produttrice di perle artificiali, con sede a Shanghai e con una filiale a Parigi, a cavallo
Venditore ambulante di collane e bigiotterie, 1926-1928. Fonte: Civico Archivio Fotografico di Milano.
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tra fine 1925 e 1926 diverse centinaia di cinesi di Qingtian, molti dei quali ex emigranti in Giappone, fecero rotta verso la Francia. Probabilmente a causa delle restrizioni nei confronti del commercio ambulante vigenti in quel paese, molti di loro si spostarono in massa verso l’Italia nel febbraio-marzo del 1926. Questa “invasione” di venditori di perle, come la descrisse la stampa dell’epoca, segna il vero inizio della migrazione dal Zhejiang meridionale all’Italia: tutte le migrazione successive nel corso del Novecento sono in qualche misura collegate alle persone che ne furono storicamente il primo motore, tanto è vero che ancora negli anni Duemiladieci i sempre meno numerosi migranti che si trasferiscono in Italia dalla Cina provengono tuttora dalle stesse valli e dai medesimi villaggi. Agli ultimi anni Venti risalgono anche i primi atti concernenti cittadini cinesi negli archivi della città: dichiarazioni di soggiorno, licenze per la vendita ambulante, denunce di inizio esercizio individuale… e anche la prima fotografia di un venditore ambulante cinese di perle finte, conservata presso il Civico Archivio Fotografico di Milano. Come ben raccontano Ciaj e Matteo nelle loro tavole, l’epopea dei perlari fu subito caratterizzata da un rapporto difficile con le autorità cittadine. Accusati di concorrenza sleale e perfino sospettati di essere spie bolsceviche al servizio di Mosca – la complessa partita a scacchi del Partito Nazionalista cinese, che in quel periodo era sostenuto dal Comintern e all’insegna della politica del “fronte unito” includeva nei suoi ranghi i comunisti (il suo responsabile della propaganda era Mao Zedong), sarebbe rimasta fonte di inquietudine per il regime fascista fino alla rottura di Chiang Kai-shek con i comunisti nell’aprile del 1927 – i venditori di perle vennero ripetutamente allontanati dal Regno. All’inizio degli anni Trenta ne rimanevano sparuti nuclei a Torino e Milano, ma è in quest’ultima città che partirà una nuova fase. Esauritasi la fase propizia del commercio delle perle, gli ambulanti più intraprendenti cominciano a rifornirsi presso grossisti italiani di cravatte, bretelle, cinture, maglieria e mercerie varie. Nelle case di ringhiera di via Canonica, dove
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si riscoprono gli affittacamere usati da chi li aveva preceduti vent’anni prima, si crea una piccola colonia di venditori ambulanti che vi fanno base per poi spingersi verso fiere e mercati in tutto il Nord Italia. È in questo fitto milieu di piccola umanità, impastato delle fatiche e delle aspirazioni di chi approda alla soglia della metropoli dalle sue campagne, che qualcuno inizia a corteggiare con successo giovani lavoratrici italiane. Il primo matrimonio tra un’italiana e un cinese è del 1934, e da quell’anno in avanti fidanzamenti, matrimoni e ritratti di famiglia saranno oggetto della puntuale cronaca del principale fotografo del quartiere, lo Studio Tollini. Nel corso degli anni Trenta nasceranno una decina di piccole botteghe artigiane gestite da ex ambulanti riconvertitisi alla manifattura diretta di mercerie la cui vendita itinerante era affidata a propri connazionali. Proprio l’intenzione di ampliare la propria rete di distribuzione sul territorio costituì l’incentivo a richiamare parenti e compaesani, dando l’avvio alla seconda ondata migratoria, la prima a eleggere l’Italia a propria meta specifica. Il cosiddetto “decennio di Nanchino” fu un periodo di consolidamento politico e di vivace sviluppo economico, particolarmente nelle province del Jiangnan, il territorio compreso tra il basso corso del fiume Yangzi e la costa. Questo diede nuovo impulso all’emigrazione verso l’Europa e di fatto il grosso dei cinesi presenti in Italia nel 1940 era giunto nel Regno tra il 1932 e il 1938. Il passaggio dal rapporto con il grossista italiano di prodotti finiti a quella con il grossista italiano di semilavorati fu agevolata proprio dal rapporto con lavoratori e lavoratrici italiane, che apportarono all’iniziativa di quelli che fino a quel momento erano stati soprattutto commercianti il necessario bagaglio tecnico manifatturiero, ma spesso anche i contatti utili per far funzionare l’impresa. Attorno al piccolo laboratorio artigiano di produzione di cravatte, o di articoli in dermoide (pelle artificiale), ruotava infatti un indotto di fornitori di attrezzature, filati, minuteria metallica, manutentori e riparatori, lavanderie e stirerie… tutto nel quartiere era a portata di mano, talvolta perfino nel medesi-
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mo cortile. Nella prima metà del decennio che precedette lo scoppio della seconda guerra mondiale, i rapporti tra Italia e Cina furono molto buoni. La stampa del tempo dedicava spesso articoli alla laboriosa colonia cinese meneghina, in cui la consueta alternanza tra ironia e sospetto generalmente faceva trapelare anche una certa soddisfazione per il buon inserimento sociale dei cinesi nel contesto cittadino. Ma se i “cinesini” potevano ispirare simpatia, il tono con cui se ne descrivevano le vicissitudini era spesso canzonatorio, e ne rimarcava costantemente i caratteri di alterità somatica, in un graduale crescendo man mano che ci si avvicinava agli anni della piena adesione del fascismo all’ideologia della razza. Negli stessi anni in cui gli articoli del Corriere della Sera cominciavano ad assumere toni aspri nei confronti dei cinesi di Milano, stigmatizzando soprattutto il diffondersi di matrimoni misti in nome della “difesa della razza”, il borgo degli ortolani pareva quasi stringersi attorno ai propri cinesi, che attraverso il proprio lavoro e le proprie relazioni amicali e sentimentali cominciavano a costruire solidi legami con il proprio vicinato e con le proprie nuove famiglie estese. L’internamento dei cinesi d’Italia in campo di concentramento Fin dal 20 maggio 1940 la Direzione Generale della Pubblica Sicurezza del Ministero dell’Interno aveva richiesto a tutte le Prefetture del Regno d’Italia di censire i cittadini stranieri che, in caso di entrata in guerra dell’Italia al fianco della Germania nazista, si sarebbero potuti caratterizzare come “sudditi di paesi nemici”. Nella lista dei potenziali paesi nemici fu inclusa anche la Cina, e complessivamente vennero censiti 431 cittadini cinesi, residenti soprattutto a Milano e Bologna, con gruppi relativamente numerosi anche a Torino, Trieste e Napoli. Al momento dell’entrata in guerra dell’Italia nel giugno del 1940, lo status di “paese nemico” della Repubblica Nazionale di Cina era a dire il vero alquanto incerto. Da un lato l’Italia, avendo aderito al patto Anti-Comintern con Germania e Giappone il 25 novembre 1936 e avendo riconosciuto lo stato fantoccio giapponese del Manchukuo il 29 novembre 1937,
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aveva segnalato il suo avvicinamento al Giappone, e quindi tra Italia e Cina i rapporti si erano considerevolmente raffreddati. Dall’altro, l’Italia non aveva un immediato interesse a rompere le relazioni diplomatiche con il governo di Chiang Kai-shek, anche per continuare a tutelare gli interessi delle proprie missioni diplomatiche ed economiche (nonché quegli dei cittadini italiani attivi in Cina come missionari cattolici) nelle aree cinesi ancora nominalmente o de facto sottoposte alla Repubblica Nazionale di Cina. La stipula del Patto Tripartito che sancì, il 27 settembre 1940, la nascita dell’Asse Roma-Berlino-Tokyo, rese indubbiamente più precaria la posizione dei sudditi cinesi presenti in Italia, e probabilmente non è un caso che i primi rastrellamenti su vasta scala – in particolare quello di Milano tra il 20 settembre e il 3 ottobre 1940, che porterà all’internamento di 41 cinesi meneghini – avranno luogo a partire dal mese di settembre. Alla rottura delle relazioni diplomatiche con il governo di Chiang Kai-shek si arriverà di fatto soltanto il 22 luglio del 1941, dopo il riconoscimento ufficiale italiano e tedesco del governo collaborazionista di Wang Jingwei (insediatosi a Nanchino il 30 marzo 1940), ma è solo a partire dalla dichiarazione di guerra della Cina libera all’Italia, la Germania e il Giappone (9 dicembre 1941) che i cittadini residenti in Italia poterono essere ufficialmente qualificati come “sudditi di paesi nemici”. Una certa ambiguità di fondo resterà sempre, perché la maggior parte di tali cittadini provenivano da una regione della Cina che nominalmente era soggetta al governo collaborazionista riconosciuto da Roma, anche se i suoi cittadini erano in possesso di passaporti rilasciati dal governo precedente. Quindi le misure prese dall’Italia prima della propria entrata in guerra nei loro confronti avevano natura precauzionale, erano cioè volte ad agevolare il loro rapido rimpatrio oppure, nel caso ciò non fosse possibile, di assicurare che i sudditi cinesi fossero sottoposti a stretta vigilanza. Quasi subito dopo l’intensificazione dei provvedimenti d’arresto, il Ministero dell’Interno dispose di limitare l’internamento “a quei sudditi cinesi che
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non hanno stabile occupazione, che non dimostrano chiaramente la fonte dei loro proventi e che sono ritenuti elementi comunque pericolosi”, “al fine di evitare misure di ritorsione contro le nostre missioni in Cina” (circolare del Ministero dell’Interno N. 443/85845 dell’8 ottobre 1940). Ai sensi della circolare del Ministero dell’Interno N. 443/58093 del 14 aprile 1938 si dispose inoltre che del fermo dei sudditi cinesi detenuti e proposti per provvedimenti di polizia venisse sempre informato il competente Consolato. Il 10 giugno 1940 l’Italia dichiara guerra a Francia e Gran Bretagna. Negli stessi giorni, diverse prefetture delle province meridionali e di quelle di frontiera (Cuneo, Gorizia, Genova) procedono al fermo dei cittadini cinesi sul proprio territorio, avviandoli al confino in comuni dell’interno oppure, constatata l’impossibilità del rimpatrio a causa del blocco navale britannico, all’internamento in campo di concentramento. Nel 1940 vengono segnalati per l’arresto e l’internamento 137 cittadini cinesi, rastrellati soprattutto a Milano (45 persone in meno di due settimane, dal 20 settembre al 3 ottobre), Roma, Napoli, Trieste, Treviso, Pola, con particolare intensità nel mese di settembre, a ridosso della firma del Patto Tripartito. Bisognerà attendere il luglio del 1941, con la preparazione del riconoscimento del governo collaborazionista filogiapponese di Wang Jingwei e la relativa rottura delle relazioni diplomatiche con la Cina libera, perché si avvii una nuova fase di arresti e di internamenti, che questa volta interesserà soprattutto Torino e i porti di Trieste e Genova, dove erano presenti piccole colonie di cinesi impiegati a bordo dei piroscafi che incrociavano le rotte per l’Oriente. Inizialmente si impiegano soprattutto i campi di Tossicia (a lungo il campo principale per i cinesi) e Boiano in Abruzzo, e Civitella del Tronto in Molise. Ma a partire dal 1941 il campo di riferimento per i cinesi diverrà progressivamente Isola del Gran Sasso, dove il 16 maggio 1942 saranno trasferiti anche i 116 cinesi internati fino a quel momento a Tossicia, portando il numero totale dei cinesi ivi internati a 175. Le condizioni dell’internamento a Isola del
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Gran Sasso, malgrado il sovraffollamento del campo, furono considerevolmente migliori di quelle di Boiano, Civitella e Tossicia, dove le condizioni igienico-sanitarie erano pessime. A Isola invece gli internati vennero alloggiati soprattutto presso la foresteria della Basilica di San Gabriele dell’Addolorata di proprietà dei padri passionisti, a due chilometri dal centro abitato di Isola del Gran Sasso. Il campo era diretto dal podestà locale, mentre al servizio di vigilanza provvedevano alcuni carabinieri al comando di un graduato. Dopo il maggio del 1942 il campo fu riservato esclusivamente agli internati cinesi, i quali poterono contare sull’assistenza spirituale di Padre Antonio Tchang, un loro connazionale appartenente all’Ordine dei Frati Minori conventuali, appositamente distaccato presso il campo dal Vaticano. Padre Tchang fu il principale portavoce degli internati, compito che svolse non senza qualche difficoltà. Il problema, a detta di alcuni internati, che giunsero a lamentarsene in lettere anonime inviate alla propria Ambasciata, era che il religioso pareva loro motivato soprattutto dal desiderio di convertire il maggior numero possibile di suoi connazionali. Da questo punto di vista ebbe notevole successo, tanto che il 4 agosto 1941, alla presenza del Nunzio Apostolico Monsignor Borgoncini Duca, vennero battezzati 40 cinesi internati. Gli internati di Isola avevano una certa libertà di movimento, anche se era loro nominalmente vietato oltrepassare il perimetro del campo, pena forti multe. Malgrado tali piccole “evasioni” fossero sanzionate severamente, si verificavano spesso perché le condizioni di vita degli internati, per quanto assai meno dure che a Tossicia, erano comunque caratterizzate dalla scarsa qualità e quantità del vitto, dalla mancanza di vestiti pesanti e scarpe adatte ai rigidi inverni isolani di quegli anni. Nel 1941 vennero segnalati per l’arresto e l’internamento altri 100 cinesi, soprattutto a partire dal mese di luglio, mentre si preparava la rottura delle relazioni diplomatiche con il governo di Chiang Kai-shek. In una serie di rastrellamenti particolarmente intensi, tra la fine di luglio e l’inizio di settem-
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I quaranta internati cinesi di Isola del Gran Sasso che il 4 agosto 1941, alla presenza del Nunzio Apostolico Monsignor Borgoncini Duca, furono battezzati nella Basilica di San Gabriele dell’Addolorata. In seconda fila il quarto da destra è Padre Antonio Tchang, incaricato dal Vaticano di offrire assistenza spirituale agli internati cinesi cattolici.
Fonte: Archivio storico dei Frati Passionisti, Basilica di San Gabriele dell’Addolorata (Isola del Gran Sasso, Teramo).
bre, vennero internati quasi tutti i cinesi di Torino, Trieste e Genova. A Torino si trattava di venditori ambulanti di cravatte, articoli di maglieria, portafogli, bretelle e cinture, che avevano rapporti di fiducia con grossisti italiani di Torino e di Milano (dove i loro grossisti di riferimento cominciavano a essere cinesi). I cinesi di Trieste e di Genova invece erano quasi tutti marittimi attivi come lavandai, camerieri o cuochi imbarcati sui piroscafi delle Linee Triestine per l’Oriente (ORIENS, ex Lloyd Triestino), della Linea Italia Cosulich, e della Adriatica. La maggior parte degli internati venne indirizzata al campo di Isola del Gran Sasso, ma una parte di quelli fermati a Genova venne internata a Ferramonti di Tarsia, come presto succederà anche ad alcuni cinesi di Bologna e, nel corso del 1942, agli internati “indesiderabili” di Isola del Gran Sasso, per i quali il campo di Ferramonti si connoterà come “punitivo”. Complessivamente vi fu internata una cinquantina di cittadini cinesi. Ferramonti fu il più grande campo di concentramento
per ebrei costruito in Italia durante la guerra, uno dei pochi realizzati a baraccamenti e dunque con l’aspetto “classico” del lager. Entrò in funzione alla metà di giugno del 1940 in una landa malarica a circa 35 chilometri da Cosenza, che le testimonianze del tempo definiscono malsana, priva d’acqua e battuta dal sole e dal vento. La vicenda dell’internamento, che si è ricostruita soprattutto a partire dai documenti conservati negli archivi civici dei comuni di Tossicia e di Isola del Gran Sasso, nonché presso l’Archivio Centrale dello Stato, coinvolse circa il 60% dei cinesi residenti in Italia. Malgrado gli internati e i loro cari tempestassero il Ministero di istanze di revoca dell’internamento, la stragrande maggioranza dei circa 250 cinesi internati vi passò quattro lunghi anni, e quando poté finalmente fare ritorno alle proprie abitazioni a Milano spesso le trovò distrutte dai bombardamenti. Molti furono costretti a riparare in campi profughi, a Cinecittà a Roma e ad Aversa in Campania. Nel 1946 da tutta Europa confluirono nel campo profughi di Aversa cinesi che optavano di rimpatriare in Cina, portandosi dietro anche la propria famiglia europea (moglie e figli con il matrimonio avevano infatti perso la propria cittadinanza per acquisire quella cinese). Il 21 settembre 1946 il piroscafo Otranto, che salpò da Napoli alla volta di Hong Kong, ricondusse in patria cinesi provenienti soprattutto dalla Germania e dall’Italia, stremati dalla guerra e dalla prigionia. Nello stesso anno il governo della neonata Repubblica italiana verserà a circa 300 cinesi che avevano subito l’internamento, i bombardamenti o sequestri e vessazioni per mano fascista, una indennità di guerra pari a circa 180.000 lire dell’epoca (grosso modo equivalente a quasi due anni di stipendio di un operaio). Una som-
La vecchia Basilica di San Gabriele dell’Addolorata con accanto la foresteria per i pellegrini (il “camerone”), in cui furono internati i cittadini cinesi. Fonte: Archivio storico dei Frati Passionisti, Basilica di San Gabriele dell’Addolorata (Isola del Gran Sasso, Teramo).
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tiere, si uniscono alle preziose testimonianze fotografiche degli archivi privati che alcuni membri della prima generazione sino-italiana hanno gentilmente messo a disposizione di Ciaj e Matteo per il loro lavoro di narrazione per immagini e concesso in esposizione al MUDEC per ricreare l’atmosfera di un paese ferito ma pronto a ripartire da zero. La storia dei pochi che scelsero di restare in Italia – e di quelli che, in numero ancora più esiguo, riuscirono a tornare dopo che la Cina si ritrovò nuovamente travolta dalla guerra civile e dalla rivoluzione – fu segnata dal rinsaldarsi dei legami con le proprie famiglie, con i propri compaesani, con la gente del quartiere di una città che non li aveva mai lasciati soli. E le loro storie furono sommamente storie di riscatto sociale vero, guadagnato giorno dopo giorno con un lavoro minuto e indefesso, stemperato solo dal clicchettio delle tessere del majiang, il gioco d’azzardo che forniva a un tempo ricreazione, occasione di
ma considerevole per il tempo, più che sufficiente a rifarsi una vita in Cina. Ma le cose, per molti dei rimpatriati, andranno molto diversamente.
Il dopoguerra Le fotografie del Fondo Patellani, conservate presso il Museo di Fotografia Contemporanea di Cinisello Balsamo, scattate in via Canonica nel 1945 nei cortili, sui ballatoi, negli appartamenti e nelle botteghe delle famiglie sino-italiane del quar-
Nella pagina precedente: foto di gruppo della comunità cinese di Milano scattata in occasione della festa della Repubblica del 10 ottobre 1945. Fonte: Collezione privata della famiglia Trabucchi-Hu (Milano). In questa pagina: abito tradizionale cinese con cui Hu Bung Ko, detto Junsà, arrivò in Italia nel 1936. Fonte: Collezione privata della famiglia Trabucchi-Hu (Milano).
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redistribuzione economica e momento di socialità e di chiacchiera. La comunità cinese degli anni Ottanta, quella che vide il riavvio dei flussi migratori verso l’Italia, documentata dalle immagini del Fondo Rotoletti (Archivi dell’Immagine della Regione Lombardia), si radica nelle più belle e intense success story del ventennio precedente: il consolidamento del distretto della borsa in pelle, finta pelle e tela nel quartiere Sarpi-Canonica, lo sviluppo del settore della ristorazione cinese, la sorprendente e travolgente storia d’impresa e di vita di Mario Tschang, lo sviluppo dell’associazionismo comunitario grazie a figure chiave di imprenditori e di leader comunitari come Lin Chin Ton (Shafò), Hu Tsan Ni (Susàn), Hu Bung Ko (Junsà), Sun Mingquan e naturalmente delle donne italiane e cinesi (Maddalena Branchi, Iris Sangiovanni, Attilia Trabucchi, Anna Chen Yuhua) che furono al loro fianco, vicende superbamente ricostruite e illustrate dal prezioso lavoro di Ciaj Rocchi e di Matteo Demonte. E i nomi citati sono solo una piccola parte di quelli che meritano di essere ricordati, le cui storie piccole e grandi quest’opera si è proposta di cominciare, finalmente, a raccontare alla città che le ha viste nascere.
Portone del primo ristorante cinese aperto a Milano nel 1962, La Pagoda, che si trovava in via Fabio Filai al n. 2. Fonte: Collezione privata della famiglia Jang (Milano).
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Bibliografia L’émigration chinoise vers l’Europe, sources chinoises et sources européennes, Mette Thunø, Persée - Revue européenne des migrations internationales vol. 12, n°2,1996. pp. 275-296. Les Chinois de Paris depuis le début du siècle. Présence urbaine et activité économiques - Yu Sion Live - Persée - Revue européenne des migrations internationales vol. 8, n°3,1992. pp. 155-173. E finalmente imparerò il cinese, Mario Tschang (CasadeiLibri). Milano e l’esposizione internazionale del Sempione 1906 (Catalogo Marescotti e Ximenes). Milano: Esposizione Internazionale del 1906, a cura dell’associazione culturale Larici. Archivio storico Corriere della Sera, per l’anno 1926 (6, 7, 9, 11, 19, 20 marzo; 01, 07, 28 aprile; 7, 10, 11, 26 maggio); 2 giugno 1927 e 3 ottobre 1962. Archivio storico La Stampa del 5 e del 13 marzo 1926 e del 13 agosto 1929. La Cina di Ciano. La diplomazia fascista in Estremo Oriente, Vincenzo Moccia (libreriauniversitaria.it). Ferramonti di Tarsia: servizio da Sorgente di Vita del 06.05.13, Rai2. La storia di 116 cinesi internati in Abruzzo e di padre Antonio Tchang, TV2000. Primavere e Autunni e la sua bibliografia, Ciaj Rocchi e Matteo Demonte, (BeccoGiallo, 2015).
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Ciaj Rocchi (Milano, 1976) e Matteo Demonte (Milano, 1973) sono videomaker e autori di fumetti. Per BeccoGiallo hanno pubblicato la graphic novel Primavere e Autunni, dedicata alle origini della comunità cinese di Milano. Dal 2005 sono parte attiva della GKL Film, un collettivo indipendente di registi, attori e tecnici con cui hanno realizzato Uccellacci! e I diari della Tigre Bianca. Sono illustratori per La Lettura (RCS Mediagroup). Per la realizzazione dell’intero progetto Chinamen, un ringraziamento particolare ad Attilia Trabucchi Hu, Mario Tschang, Rolando e Alberta Jang, Jacqueline e Kemin Hu, Nicoletta Cardinale e Franco Centola, Vittorio, Iole e Luciana Lin, Maria Grazia Sun, Tiziana Wu, Adriana Wu, Cecilia Geslao, Itala Wu, Eva Schang, Ivo Hu, Martina Yang, Daniele Brigadoi Cologna, Carmen Sun, Wei Jia Chin, Felice Chin, Luciana Ou, Valentino Sun, Guido Ostanel, Riccardo Tamburini, Bianca Aravecchia, Iolanda Ratti, Cristina Filippi, Federico Zaghis, Martino Coffa, Duccio Servi, Tracataiz (Pietro Di Giorgio, Manuele Laghi e Laura Martelli), Max Rudy Magni, Samanta Petrocchi, Luca Triacchini, Giovanni Aloisi, Roberto Borgonovi, Enrica Chiurazzi e Alberto Nigro, Chao Kylin, Chang Qu, Zhengda Alessandro Jiang, Jialiu Matteo Cheng, Laura Denaro, Manuela Mantegazza e Leone Demonte.
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