SPRINGS & AUTUMNS

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BeccoGiallo Direzione editoriale: Guido Ostanel e Federico Zaghis www.beccogiallo.it info@beccogiallo.it

ISBN 978-88-99016-12-8 © 2015 BeccoGiallo S.r.l. prima ristampa novembre 2015 seconda ristampa aprile 2016 Cover project: beccogiallo Cover art: matteo demonte e ciaj rocchi Finito di stampare nell’aprile 2016 da Cierre Grafica, Sommacampagna (VR)

Condividiamo la conoscenza! La storia, i disegni e i testi contenuti in questo libro sono rilasciati con licenza Creative Commons Attribuzione-Non commerciale-Non opere derivate 4.0 Internazionale. Sei libero di condividere e diffondere quest’opera nella sua integrità, citandone sempre le fonti e gli autori e senza fini di lucro. www.creativecommons.it Salviamo le foreste! Questo libro è stato stampato su carta certificata FSC ®. Il marchio FSC ® (Forest Stewardship Council ®) identifica i prodotti che contengono legno proveniente da foreste gestite in maniera corretta e responsabile, secondo rigorosi standard ambientali, sociali ed economici.


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Kung fu Panda insegna: “Chi crede al caso non conosce le leggi dell’universo.” di Ciaj Rocchi

è destino dei sognatori far avverare i propri sogni! Questo è il primo insegnamento che ci ha lasciato questo lavoro. Matteo e io ci abbiamo sempre provato, in mille modi e in mille occasioni, a dimostrare a nostro figlio che è possibile trasformare la propria vita in un’opera d’arte. Ma nonostante gli sforzi, non eravamo ancora riusciti a ottenere un risultato generalmente riconosciuto. Quella del fumetto è sempre stata un’idea fissa di Matteo. Poi, le circostanze ci hanno condotto verso altri lidi, ma è bello riconoscere nel presente la scintilla di un desiderio espresso nel passato, ricostruirne la scia lasciata nel tempo e sapere che, una volta innescato il processo del desiderio - non importa quando, né come - si è costretti a lavorare per la sua realizzazione. Questa storia del disegno e della Cina ci ha accompagnato spesso nel nostro percorso comune. Il nonno di Matteo, il Signor Wu del racconto, è morto quando lui era ancora piccolo e, una volta diventato grande, Matteo aveva sentito il bisogno di scoprire quanto valesse quel quarto di sangue cinese che gli scorre nelle vene. Quando l’ho incontrato era un giovanissimo studente di Lingua e Cultura cinese, e passava tutto il suo tempo libero allenandosi nella pratica del Ba Ji Quan, uno stile tradizionale di Gong fu cinese. Era il suo modo di avvicinarsi alla terra degli avi, di contestualizzarla e di farla sua. Poi, quando la sera tornava a casa, si metteva a disegnare tutte le forme imparate quel giorno: la posizione delle mani, quella dei piedi, il nome cinese, la traduzione in italiano... ed è stato allora che ho cominciato a fare le scansioni dei suoi disegni, per non perderli, per contenerli tutti, e ho cominciato a pensare che, con tutto quel materiale, dovevamo per forza farci qualcosa. Di anni da allora ne sono passati parecchi, così come di cose fatte, ma lui ha continuato a disegnare e io, piano piano, intorno ai suoi disegni, ho incominciato a costruire storie. All’inizio non avevamo le idee chiare, poi, in modo del tutto naturale, abbiamo cominciato a concentrarci sulla vicenda biografica del Signor Wu. Una storia atipica, ma non unica; una storia simbolo, una metafora per raccontare in modo più ampio la storia della comunità cinese di Milano. Infatti, dal punto di vista accademico, la vicenda era già stata af135


Documento d’identità per i cinesi residenti all’estero rilasciato dalla rappresentanza diplomatica della Cina nazionalista a Roma il 16 luglio 1945.

frontata. La storia di Wu è un caso-studio per quanto riguarda la sociologia dell’immigrazione. Ma una ricerca, per quanto puntuale, soffre della mancanza di un punto di vista soggettivo, personale, emotivo; riporta i fatti in modo preciso, ma difficilmente li interpreta. Noi invece lo abbiamo fatto, e lo abbiamo fatto a modo nostro così come siamo abituati a fare. Noi siamo videomaker, e come nei film di Bergman prediligiamo la dimensione del sogno: ci sono i personaggi principali in mezzo a poche comparse, a volte nessuna. Bergman veniva dal teatro e nei suoi film ne usava i simboli. Anche noi abbiamo deciso di usare i simboli per raccontare la nostra storia e, forse per questo, ci siamo allontanati dal fumetto così come siamo soliti intenderlo, per passare a un ibrido che usa sì il segno grafico, ma la maggior parte delle volte lo inquadra in un formato video. Largo. Orizzontale. Come in un videoboard, è la sovrapposizione dei livelli a dare la profondità di campo. Livelli che si stratificano anche nella narrazione e si allargano a toccare la storia della comunità cinese, della città di Milano, a volte dell’intero Paese. Buona parte del lavoro è stata la ricerca delle immagini d’epoca; tra gli anni ’30 e gli anni ’70 - i decenni della nostra storia - Milano ha subito grandi trasformazioni strutturali che volevamo rendere percepibili attraverso i disegni. Oltre all’annessione dei paesi limitrofi che si sono ormai trasformati in quartieri quasi centrali (Niguarda, Greco, Lambrate, Ortica…), la città si è sviluppata anche verso l’alto, si sono moltiplicate le vie di comunicazione, i trasporti pubblici, ed è aumentata notevolemente la densità di popolazione, soprattutto tra gli anni ’50 e ’60 in cui Milano ha assistito all’arrivo di migliaia 136


Tessera dell’Associazione Commercianti e Lavoratori cinesi in Milano rilasciata il 1° settembre 1945.

di persone e le ha sapute assorbire nelle sue industrie in crescita. Su questo sfondo, che è proprio il suo, abbiamo inserito Wu, i suoi amici e la sua famiglia, e solo alla fine, dentro il nostro stage, come su un piccolo palcoscenico, la storia ha preso corpo. Anche per quanto riguarda i personaggi il lavoro è stato rigoroso. Nomi, volti, ambienti... sono tutti veri! Abbiamo contattato i figli delle operaie che lavoravano per Wu Li Shan chiedendo loro di curiosare nei loro archivi fotografici, ai figli dei suoi compaesani abbiamo chiesto di recuperare vecchi documenti che riportassero i loro nomi cinesi, perché ci tenevamo che il lavoro fosse corretto anche dal punto di vista filologico. Inoltre, questi cinesi, tra loro parlavano in cinese, ma si confrontavano con gli italiani in dialetto milanese, la lingua franca dell’epoca. Prima della diffusione della televisione - che ha insegnato la stessa lingua a tutto il Paese - non era l’italiano la lingua parlata dagli italiani, ma ogni regione, più spesso ogni paese o città, aveva il suo dialetto o la sua variante. E per Wu, come per gli altri cinesi a Milano che conoscevano un poco di francese, imparare il milanese fu forse più semplice. Giulia di certo parlava in dialetto, cremonese prima e milanese poi. Per me che ho studiato le lingue straniere è stato come tornare indietro nel tempo e tuffarmi nel cahier des verbs e negli esercizi di coniugazione! Relativamente all’utilizzo della lingua cinese, è stato Matteo, invece, ad attingere al suo bagaglio di studi. Innanzitutto la scelta dei caratteri tradizionali: ai tempi in cui Wu lasciò la Cina gli ideogrammi semplificati ancora non esistevano. Le lettere e gli scritti che Wu ci ha lasciato sono tutti redatti nella

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Fronte e retro (a destra) di una busta arrivata dalla Cina nel 1978 contenente una lettera indirizzata a Wu Li Shan dai suoi parenti.

lingua classica, per cui è stata una scelta obbligata quella di usare il cinese tradizionale. La decisione di aggiungere la fonetica e la relativa traduzione in italiano è nata, più che dall’approccio linguistico di Matteo, dall’esigenza di restituire quella mescolanza di suoni e immagini senza i quali non avremmo potuto raccontare la nostra storia. Praticamente, per ricostruire la storia di Wu ci siamo dovuti immergere nel suo ambiente. Ci siamo dovuti documentare, e dove non c’erano documenti ci siamo affidati alle fonti orali. E qui entra in scena la famiglia di Matteo: sua mamma Luciana e i suoi zii - Luigi e Angelo, i figli di Wu - ci hanno raccontato con pazienza e dovizia di particolari la loro vicenda personale e collettiva. La diversità dei caratteri si è riflessa nei loro racconti mentre un filo comune tesseva la trama: la loro è stata una delle primissime famiglie miste sino-italiane a formarsi in città. In quest’ottica storiografica, anche il titolo acquista il suo senso. Gli Annali delle Primavere e degli Autunni, attribuiti a Confucio, sono uno dei cinque classici della letteratura cinese, e narrano delle relazioni feudali nello stato di Lu, delle azioni militari e dei fatti riguardanti la famiglia reale in un periodo di storia cinese compreso tra il 722 a.C. e il 481 a.C. Anche il nostro ChunQiu ha la stessa struttura: è diviso in 5 decadi che tengono conto non solo della vicenda personale di Wu, ma anche di quella della città e delle sue relazioni con la politica e l’economia. Questa ricerca maniacale del contesto, il voler 138


rendere protagonista il quartiere di Porta Volta e non lasciare che facesse semplicemente da sfondo, ha alimentato il realismo della narrazione e ci ha permesso di creare raccordi e analogie tra la grande e la piccola storia, così come il titolo racchiude sia il senso dello scorrere del tempo sia l’immagine perfetta dell’esistenza.Wu non era un chiacchierone. Forse a causa delle differenze culturali, forse per via della lingua. Fatto sta che siamo riusciti a raccogliere ben poche informazioni per quanto riguardava il suo vissuto. Forse, se fosse stata ancora viva Giulia, allora lei avrebbe potuto raccontarci qualcosa di più, ma gli anni sono passati e ciò che è andato difficilmente torna indietro; oggi sta a noi mantenere viva questa storia particolare, far sì che arrivi anche alle generazioni successive. Dare valore alla storia degli antenati e alle loro tradizioni è tipico della cultura cinese. Da loro, la pietà filiale è una delle virtù su cui si fonda la morale confuciana, e nel nostro mondo, dove il nucleo famigliare si è ridotto al minimo e sempre più spesso è composto solo dai genitori e dai figli, è importantissimo non dimenticare, sapere chi siamo e da dove veniamo. Per questo la storia del clan Wu è per noi fondamentale. Wu in Cina è uno dei cinque cognomi più diffusi. Il regno di Wu, infatti, era uno dei cinque regni che formavano l’impero di Han. è un cognome che racconta una storia antica e che, una volta giunto in Italia, si è trasformato in Ou a causa di una traslitterazione fonetica non ancora codificata. I primi a 139


trasporre il cinese in una lingua alfabetica furono i francesi, che non hanno la “W” nel loro alfabeto e hanno tradotto il suono che identifica l’ideogramma di Wu con uno più consono alla loro lingua, Ou appunto, il cognome che porta oggi la famiglia materna di Matteo. Da quando, nel 1958, la Repubblica Popolare cinese ha adottato lo Hanyu Pinyin, cioè ha standardizzato la fonetica degli ideogrammi (e semplificato la scrittura), non ci sono più stati casi simili, ma ai tempi della prima immigrazione cinese furono in molti a vedere storpiato il proprio nome. Probabilmente, se nel 1930 il Signor Rossi fosse andato in Cina il suo nome sarebbe diventato “Lo Shi”, così da tradurre una “R” che nel loro vocabolario non esiste. Ma in Cina, dove si parlano centinaia di dialetti, il valore di una parola sta nel suo ideogramma e non tanto nella sua fonetica, e il carattere Wu - che si scrive con una bocca aperta sopra il cielo - non ha mai perso la sua forza. Anzi, con questa biografia disegnata, forse, abbiamo costruito un albero genealogico destinato ai futuri membri del clan, che non si basa su registrazioni scritte né sulle preziose collezioni di fotografie d’epoca, ma che allo stesso modo proietta nei legami di sangue il nucleo dei rapporti di parentela.

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Famiglia Wu al completo alla fine degli anni ’50 (da sinistra: Luciana, Giulia, Luigi, Li Shan, Angelo).


Primavere e autunni: ritratto di una famiglia cino-milanese di Angelo Ou

Angelo Ou nasce a Milano nel 1947, ed è il secondo figlio di Wu Li Shan, da cui ha ereditato parte del carattere e diverse passioni. Nel 1997, per conoscere le proprie radici, ha compiuto a ritroso il viaggio che il padre intraprese per l’Italia con poche certezze e molta determinazione. Appassionato di cultura cinese, gode di ampia stima presso la comunità di Milano, dove vive con la moglie italiana, da cui ha avuto una figlia che porta il nome del nonno.

La prima volta che ho sentito parlare di questo progetto, del fumetto ancora non si sapeva niente, ma già mio nipote Matteo Demonte mi aveva chiesto di poter visionare e digitalizzare il materiale d’epoca relativo a mio padre che gelosamente conservo e di cui, più avanti nel tempo, compresi il fine. Matteo e Ciaj Rocchi avevano intenzione di raccontare e descrivere, disegnandola, la storia della nostra famiglia, attraversando i decenni più significativi dell’immigrazione cinese in Italia. Poiché per me è un fatto abituale, in occasione di dibattiti e conferenze, parlare dei cinesi immigrati, con questo loro lavoro avevano destato il mio interesse. E quando Ciaj mi chiese un appuntamento per potermi mostrare alcune tavole, compresi subito che avrei assolutamente voluto e dovuto partecipare in modo diretto alla costruzione della storia, dando il mio contributo di reminescenza. Riaprire gli archivi e ritornare indietro nel tempo mi ha dato l’opportunità di ricordare molti aneddoti, gli anni dell’infanzia, le fatiche di mio padre e di mia madre, le difficoltà affrontate e da loro superate, la nostalgia degli ultimi anni. La speranza è che i miei ricordi, uniti alle attestazioni storiche, possano tradursi in una sempre più salda e aggiornata memoria condivisa, valida non solo per chi l’ha vissuta ma anche per coloro che successivamente si sono trovati a scoprire i nuovi capitoli della presenza cinese a Milano. Guardando al futuro, ma senza dimenticarne le radici. Gran parte delle fotografie d’epoca, che avevo analizzato e rivisto con piacere, avevano preso corpo e vita all’interno del racconto di Ciaj e Matteo. Si erano poi amplificate e diversificate in modo immaginifico, creando un ponte di vissuto fra l’una e l’altra, intervallate da fatti di vita e di storia, quella reale, dell’epoca. Non erano più semplici immagini, ma messe in sequenza restituivano continuità agli eventi vissuti, quasi come in un film della mia vita.

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All’interno e nella cornice delle tavole, la storia della nostra famiglia era stata analizzata nel suo complesso, inserita nei vari contesti, declinata nelle varie epoche, in modo realistico, magistrale e professionale. Probabilmente, il fatto che Matteo sia l’unico tra i nipoti di Wu ad aver studiato a fondo la lingua cinese, ha fatto di lui la persona migliore per raccontare questa storia. Con queste immagini tratteggiate a mano e con le parole che esse trasportano, si sono andate a fissare talvolta in modo allegorico, ma sempre del tutto pertinente, alcuni tratti della vita del Signor Wu, ma anche della sua nuova famiglia, dei suoi figli, dei suoi amici e del suo tempo trascorso in Italia, dove un poco amaramente concluderà la sua vita. In Cina, infatti ahimè! - non tornerà più. E sono rimasto stupito da Matteo, che con la sua determinazione ha voluto e saputo ricordare il nonno, seppur conosciuto per così poco tempo, trasformando un’esistenza normale, fatta di piccole azioni quotidiane, in una storia speciale, che certamente merita, ancora una volta, di essere raccontata e, soprattutto, ricordata. Grazie a questo fumetto, inoltre, la nostra famiglia si sentirà certamente più unita e vicina, apprezzandone il senso e i principi che, alla terza generazione, si sono forse un poco sbiaditi, ma fortunatamente non sono ancora andati perduti.

In alto: Padre Wang Wen Tao e un gruppo di bambini dell’oratorio della Santissima Trinità. In basso: Wu e Angelo alla fine degli anni ’50.

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I cinesi nell’Italia fascista di Daniele Brigadoi Cologna

Daniele Brigadoi Cologna, nato a Bolzano nel 1967, sinologo e sociologo delle migrazioni, si è laureato in Scienze Politiche all’Università degli Studi di Milano. Dal 1995 si dedica professionalmente alla ricerca sociale applicata nel campo degli studi migratori. Tra i soci fondatori dell’Agenzia di ricerca sociale Codici, vi svolge attività di ricerca, formazione e consulenza sui temi dell’immigrazione e della diversità culturale. Ha studiato la lingua cinese presso l’Istituto di Lingue della Facoltà di Scienze Politiche dell’Università di Milano e presso l’Università di Hangzhou in Cina (oggi Università del Zhejiang). Alla propria attività di ricercatore sociale ha affiancato per molti anni quella di mediatore linguistico-culturale per il sistema dei servizi territoriali dell’area metropolitana milanese, sia in ambito educativo che sociale. È ricercatore a tempo determinato di lingua cinese e docente di lingua e cultura cinese presso l’Università degli Studi dell’Insubria a Como. Ha pubblicato diversi saggi e articoli sull’immigrazione in Italia e sul modo in cui il crescente pluralismo culturale, etnico, linguistico e religioso sta trasformando la società e la cultura italiane, nonché sulle dinamiche interculturali tra cinesi e non cinesi nella società cinese contemporanea.

Il 20 maggio 1940 la Direzione Generale della Pubblica Sicurezza del Ministero dell’Interno richiese a tutte le Prefetture del Regno d’Italia di censire i cittadini stranieri che, in caso di entrata in guerra dell’Italia al fianco della Germania nazista, si sarebbero caratterizzati come “sudditi di paesi nemici” o presunti tali. Tra questi paesi rientrava anche la Repubblica Nazionale di Cina guidata da Chiang Kai-shek, il cui governo subiva da tre anni l’impeto dell’aggressione del Giappone, paese cui l’Italia era legata dal Patto Anti-Comintern sottoscritto nel novembre 1937. Il riconoscimento da parte del governo fascista dello stato-fantoccio filogiapponese del Manzhouguo poche settimane dopo sancirà una prima incrinatura diplomatica che ben legittimerà agli occhi del Ministero dell’Interno l’ipotesi di dover considerare i cinesi residenti in Italia come cittadini di un potenziale paese nemico. La rilevazione operata dalle Prefetture scatta una sorta di istantanea sulla presenza cinese in Italia in quell’anno, registrando 431 cittadini cinesi residenti o presenti sui rispettivi territori. Quasi la metà di essi risiedeva a Milano, il 15% a Bologna. Seguono contingenti ridotti (20-30 persone) a Torino, Trieste e Napoli, mentre in ciascuna delle altre venti delle novantacinque province del tempo in cui se ne segnala la presenza, questa resta ben al di sotto delle dieci unità. Erano prevalentemente persone emigrate dalla regione cinese del Zhejiang, da piccoli villaggi e paesi di montagna apparte-

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nenti al distretto di Qingtian, nell’entroterra dell’importante città portuale di Wenzhou. La maggior parte si era trasferita in Italia nel corso degli anni Trenta, anche se qualche pioniere vi si era stabilito già negli anni Venti. Una minoranza risultava impiegata sulle navi che facevano mensilmente la spola tra l’Italia e la Cina, soprattutto quelle delle Linee Triestine per l’Oriente (Società Oriens) del Lloyd Triestino, dove erano impiegati principalmente come cuochi e lavandai. Ma è il commercio ad animare le aspirazioni di realizzazione personale di quasi tutti coloro che hanno lasciato il Zhejiang per l’Europa a cavallo tra gli anni Venti e Trenta. La Francia e l’Olanda sono state le mete più ambite negli anni Venti, ma negli anni Trenta l’Italia comincia ad attrarre migranti cinesi che l’hanno già eletta a destinazione preferenziale. Si comincia dalla forma più elementare di commercio: quello ambulante, con merci inizialmente portate con sé dalla Cina, poi più spesso acquistate direttamente da grossisti europei. Per questi apripista della migrazione, l’Europa è prima di tutto una fitta trama di mercati rionali, fiere di paese, mostre-mercato nazionali ed esposizioni universali: il passaparola tra migranti dischiude nuove piazze, inusitate opportunità di commercio e di profitto. Erano tutti uomini (con rarissime eccezioni), perlopiù ventenni, alle spalle si erano lasciati famiglie di antico lignaggio contadino, ma che spesso avevano già diversificato le fonti della propria sussistenza con il piccolo commercio di villaggio: gestivano empori, farmacie, locande. Ad emigrare infatti non erano i più poveri, ma piuttosto i membri di famiglie relativamente benestanti, in contatto con il mondo dei porti fluviali e marittimi (Qingtian, Wenzhou, Shanghai) che dalla fine dell’Ottocento in poi si andavano vieppiù connettendo alle rotte dei traffici internazionali. Grazie a conoscenti e amici, si svilupparono contatti con compaesani trasferitisi a Shanghai, in Giappone e in Europa. Alcuni avevano inizialmente intrapreso la via dell’emigrazione con l’intenzione di spostarsi in Giappone – una delle più importanti mete per l’emigrazione da Wenzhou e Qingtian negli anni Venti del Novecento – ma in itinere si erano poi trovati costretti a cambiare destinazione per ragioni di forza maggiore. Mutate relazioni diplomatiche, avverse condizioni di mercato o semplicemente migliori possibilità di guadagno hanno spesso scombinato piani e rotte della migrazione, generalmente facilitata e almeno in parte guidata da intermediari qingtianesi che, con base a Shanghai, Singapore, Amsterdam e Parigi, smistavano piccole partite di migranti di luogo in luogo. I primi cinesi del Zhejiang a intravedere il potenziale della “piazza” italiana per il commercio ambulante furono probabilmente commercianti che intervennero come espositori o visitatori alle prime esposizioni internazionali di Milano, dal 1906 in avanti. Pur trattandosi di visite temporanee, queste esperienze collocavano Milano nel novero dei possibili sbocchi di mercato per le esportazioni cinesi. Nel 1926-27 si ha una prima esperienza strutturata di commercio am-

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bulante cinese indirizzato all’esplorazione del mercato italiano. Una ditta sinogiapponese che fabbricava perle artificiali in vetro smaltato si avvalse di una sua filiale parigina per distribuire su diversi mercati europei i propri prodotti. A tal fine, avvalendosi presumibilmente di agenti del Zhejiang, reclutò in Cina e in Francia come propri venditori quasi esclusivamente migranti provenienti da tale regione, che da Oltralpe giunsero in Italia in numero piuttosto consistente (le stime variano dalle 150 alle 300 persone). L’improvvisa diffusione di questi esotici venditori di perle a buon mercato susciterà grande curiosità e anche non poche proteste. La loro merce riscosse un immediato successo, ma la diffidenza delle autorità fasciste nei confronti di soggetti considerati “politicamente sospetti” (c’è addirittura chi paventa si tratti di spie bolsceviche!), nonché la scoperta animosità della corporazione dei commercianti ambulanti, porta alla decisione del loro allontanamento dal Regno. Malgrado ciò, pare che almeno alcuni di questi primi ambulanti siano riusciti a evitare l’espulsione, stabilendosi a Milano, in una zona prossima ai terreni delle fiere e delle esposizioni più importanti della città, nonché allo scalo ferroviario principale per il traffico merci tra Milano e l’Oltralpe: lo scalo Farini. La zona in questione è il Bôrgh di scigôlatt, o “borgo degli ortolani”, storica cerniera tra la cerchia urbana cinta dalle mura spagnole e il mondo delle cascine contadine. In alcune vetuste case di ringhiera di via Canonica, a pochi passi dall’antica parrocchia della Santissima Trinità, nelle quali era possibile trovare alloggio a pensione per poche lire, si insediò il nucleo iniziale di quella che diventerà la più importante e numerosa colonia di immigrati cinesi dell’Italia del primo dopoguerra. Al numero 35 morirà di tisi nel 1929 il primo di questi cinesi del Zhejiang, sepolto come molti altri negli anni successivi al Cimitero Maggiore, a Musocco. Ma si potrà parlare di un flusso migratorio vero e proprio solo a partire dai primi anni Trenta, quando nelle abitazioni popolari di via Canonica e delle adiacenti vie Morazzone, Rosmini, Giordano Bruno, cominceranno ad affluire immigrati cinesi giunti da altri paesi europei (soprattutto Francia e Germania), ma anche direttamente dalla Cina. A fungere da snodo per questo primo consolidamento della colonia cinese di Milano sono quegli apripista che dalla vendita ambulante di perle finte sono passati alla produzione artigianale di articoli destinati allo smercio ambulante: soprattutto articoli di pelletteria e cravatte, merce realizzata a partire da materie prime acquistate in Italia. Sono loro a richiamare a Milano, da altri paesi europei o dalla patria lontana, propri parenti e compaesani, dando loro l’opportunità di rifornirsi di merce da rivendere nelle diverse piazze d’Italia. Chi comincia da ambulante negli anni Trenta ha così un proprio riferimento stabile nei propri parenti o conoscenti milanesi, ma si considera sempre un imprenditore autonomo e spesso ricorre anche a grossisti non cinesi, soprattutto nelle città portuali come Genova, Spezia, Venezia o Napoli. Negli stessi anni, gli imprenditori che

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vanno specializzandosi nella realizzazione di borse e portafogli cominciano a trasferirsi a Bologna, dove possono godere di opportunità privilegiate di approvvigionamento e smercio, grazie alla maggiore prossimità al distretto pellettiero toscano e alle fiorenti località turistiche della riviera romagnola, il cui sviluppo fu fortemente promosso dal regime. Contemporaneamente, il progressivo deterioramento della situazione politica e sociale nella Cina della seconda metà degli anni Trenta innescherà una nuova ondata migratoria dal Zhejiang verso l’Europa, che andrà a rafforzare le filiere migratorie che cominciano a legare direttamente i contesti di emigrazione nel distretto di Qingtian con Milano e Bologna. Nel 1936 Milano conta già una popolazione di 133 cittadini cinesi residenti. L’emigrazione verso l’Italia è verosimilmente anche facilitata dalla “luna di miele” tra il regime fascista e il governo della Cina nazionalista nei primi anni Trenta, una breve stagione di intensi scambi diplomatici, politici ed economici agevolata anche dalla nomina di Galeazzo Ciano a console del Regno d’Italia a Shanghai, dal 1930 al 1933. Tale sede consolare avrebbe, secondo alcune testimonianze, reso più accessibile l’ottenimento di visti per l’Italia nel periodo considerato, assecondando la progressiva ascesa dell’Italia come meta elettiva per gli emigranti del Zhejiang diretti verso l’Europa. Il progressivo venir meno della prospettiva di un rapido ritorno a casa tra gli emigrati spinse molti di loro a metter su famiglia con donne italiane, generalmente operaie di estrazione rurale e di recente inurbamento, perlopiù conosciute nel contesto lavorativo. Questo anche a fronte di pregressi matrimoni contratti in Cina prima di partire: pratica accettata in Cina e legittimata dalla necessità di assicurare una discendenza al lignaggio. La conversione alla fede cattolica, premessa necessaria per sancire il vincolo matrimoniale e il riconoscimento dei figli, secondo il diritto canonico consentiva di annullare formalmente un matrimonio contratto fuori dalla fede, mettendo al riparo i promessi sposi da accuse di bigamia. In questo progressivo inserimento dei cinesi d’Italia nel contesto socio-culturale italiano fu cruciale la mediazione di alcuni religiosi, che fin dai primi anni Trenta si prodigarono in una sorta di missionariato in patria. A Milano fra i primi ad attivarsi in tal senso fu Don Abramo Martignoni, che tenne a battesimo diversi cinesi convertiti e poi i loro figli. L’azione della Chiesa era motivata anche dalla necessità di assistere le donne italiane che avevano avuto figli da uomini cinesi e rischiavano di vederli dichiarati illegittimi. Questa prossimità con le istituzioni ecclesiastiche, specie a livello di singola parrocchia, sarà di grande aiuto all’integrazione dei cinesi d’Italia nelle rispettive società locali e spesso permise loro di disporre di soggetti amici in grado di contribuire un aiuto esperto in situazioni altrimenti non risolvibili, soprattutto in tempo di guerra. Trattate con simpatia dalla stampa d’impronta religiosa, tali unioni suscitarono sempre un certo scalpore. Ma a partire dal 1937, con il progressivo delinearsi

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della politica razziale del regime, i matrimoni misti finirono nel mirino della cosiddetta “difesa della razza”. Le prime disposizioni a carattere razziale furono varate all’inizio di quell’anno proprio per impedire le unioni pseudo-matrimoniali (“madamato”) tra uomini italiani e donne africane nell’Africa Orientale Italiana, ma è soprattutto nei mesi che seguono la proclamazione del cosiddetto “manifesto della razza” nel luglio del 1938 che i matrimoni tra uomini cinesi e donne italiane verranno apertamente condannati e stigmatizzati, spesso con toni brutali e volgari. Sarà l’entrata in vigore del Regio Decreto Legge 17 novembre 1938, n. 1728, “Provvedimenti per la difesa della razza italiana” - il cui articolo 1 recita testualmente: “Il matrimonio del cittadino italiano di razza ariana con persona appartenente ad altra razza è proibito. Il matrimonio celebrato in contrasto con tale divieto è nullo” - a bloccare, malgrado le proteste delle autorità ecclesiastiche, la celebrazione di ulteriori matrimoni tra cinesi e italiani dal novembre 1938 fino al settembre 1944, anno della sua abrogazione da parte del primo governo Badoglio (Regio Decreto Legge del 20 gennaio 1944, n. 25). In tali anni si ebbero perfino isolati e ben documentati episodi di denuncia popolare a carico di uomini cinesi e donne italiane che intrattenevano legami sentimentali o sessuali, che sfociavano inesorabilmente nell’internamento dell’uomo e nel pubblico ludibrio della donna. Il censimento del maggio 1940 era volto a determinare che tipo di trattamento le diverse Prefetture consigliavano nei confronti dei cittadini stranieri presenti sul proprio territorio in caso di guerra: espulsione/rimpatrio, allontanamento in contesti militarmente meno sensibili, confino o internamento in campo di concentramento. Nel caso dei cinesi, si propendeva generalmente per il rimpatrio o l’allontanamento, ma una serie di circostanze rese non praticabili queste soluzioni. Quando il 10 giugno 1940 l’Italia entra in guerra, le vie di comunicazione con l’Oriente sono irrimediabilmente compromesse a causa del conflitto con l’Inghilterra, che controlla Gibilterra, il canale di Suez e l’Oceano Indiano. Dato che formalmente ancora non sussiste uno stato di guerra tra Cina e Italia, mentre nel territorio tuttora controllato dalla Repubblica di Cina sono presenti numerosi italiani, in particolare missionari, il Ministero dell’Interno opta per una politica volta a tollerare la presenza in libertà (ma sottoposta a costante vigilanza) di quei cittadini cinesi che non abbiano dato adito a preoccupazioni di ordine pubblico, risultino domiciliati in una residenza stabile e che dispongano di adeguati mezzi per garantire a se stessi e alle proprie famiglie il pieno sostentamento. Questo provvedimento metterà al riparo la maggior parte di quelle famiglie sino-italiane che negli anni Trenta si erano costruite delle piccole imprese artigiane e commerciali dalla prospettiva del confino o dell’internamento. Tuttavia, per la gran parte dei cinesi presenti in Italia in quel periodo, costituita soprattutto da venditori ambulanti abituati a sostare presso amici e

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colleghi o alloggiare in piccole pensioni nel corso dei propri spostamenti di fiera in fiera, il destino fu segnato. Alcune Prefetture in particolare furono inflessibili nell’indicare l’internamento come la soluzione più adatta per disporre di queste persone “senza fissa dimora”, che passavano intere giornate sui marciapiedi di strade e piazze, viaggiavano in lungo e in largo nelle diverse regioni italiane e il cui comportamento appariva “naturalmente sospetto” in quanto la vendita ambulante poteva fornire una comoda copertura a osservatori e spie. Le zone più sensibili militarmente, perché prossime al fronte francese, ai confini di stato, alle aree industriali o alle piazzeforti marittime erano dunque ritenute off limits per tali soggetti. Inoltre le autorità dell’epoca non riuscivano a capacitarsi di come gli ambulanti cinesi riuscissero a sostentarsi con le poche lire che guadagnavano smerciando cravatte, cinture e portafogli, dunque era implicito che si trattasse di individui indigenti, incapaci di badare a se stessi e che nei campi di internamento avrebbero quantomeno potuto godere di un sussidio di stato. Il Ministero dell’Interno chiarì ripetutamente che tali persone dovevano essere trattate in modo equanime e non persecutorio, anche in considerazione, come si è detto, della delicata posizione di molti cittadini italiani nei territori cinesi ancora soggetti al governo di Chiang Kai-shek. L’internamento venne predisposto in strutture di carattere civile o religioso, in località remote del Centro e del Sud Italia, fino alla realizzazione di campi di concentramento veri e propri (strutture appositamente costruite, con lunghe schiere di baracche delimitate da una recinzione, rigorosamente sorvegliate) come quello di Ferramonti di Tarsia, in provincia di Cosenza. I primi cinesi a essere colpiti da provvedimenti di arresto e internamento nel settembre 1940 vennero principalmente indirizzati ai campi di concentramento di Tossicia e Isola del Gran Sasso in Abruzzo, ma negli anni successivi un contingente numeroso confluì nel grande campo di Ferramonti. Non è un caso che gli internamenti di cinesi iniziarono nel mese stesso in cui stava maturando la stipula del Patto Tripartito, che istituì formalmente l’Asse Roma-BerlinoTokyo (ufficiosamente battezzato in Italia con l’acronimo “RoBerTo”) e siglò in modo esplicito il sostegno del regime fascista al ruolo di propugnatore del “nuovo ordine” in Asia che vi si attribuiva al Giappone imperiale. Meno di un anno dopo, nel luglio del 1941 Italia e Germania riconosceranno formalmente il governo collaborazionista filogiapponese di Wang Jingwei (la cosiddetta “Repubblica di Nanchino”), rompendo le relazioni diplomatiche con la Cina nazionalista di Chiang Kai-shek. Ora i cittadini cinesi presenti in Italia sono a Istanza compilata da Ou Lisiang (Wu Li Shan) per richiedere la revoca del provvedimento di internamento a carico del suo cugino e collaboratore Pan Tzy Dyagne, domiciliato in Alessandria.

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tutti gli effetti considerati “sudditi di un paese nemico” e anche le disposizioni nei loro confronti si inaspriscono. Non sono internati più soltanto i venditori ambulanti, ma anche rispettabili imprenditori e artigiani che danno lavoro, da anni, a decine di lavoratrici e lavoratori italiani: basta un’immagine di Chiang Kai-shek appesa alla parete, qualche giornale cinese stampato da esuli cinesi in Europa, a renderli sospetti di cospirazione contro il regime. Complessivamente i cinesi avviati all’internamento nel periodo 1940-1943 saranno circa 300, oltre il 65% del totale dei residenti. A mettersi al riparo dall’internamento saranno soprattutto i cinesi di Milano, in particolare quelli sposati con donne italiane e proprietari di botteghe artigiane, probabilmente anche grazie ai più fitti rapporti che erano riusciti a tessere, nel tempo, con la società locale e con alcune delle sue figure più influenti. A Bologna invece le cose andarono diversamente. Più della metà dei residenti cinesi venne internata, comprese alcune figure di imprenditori molto affermati che decisamente non rientravano nella categorizzazione dei soggetti passibili di internamento, ma che forse avevano suscitato l’invidia degli artigiani locali. La maggior parte dei cinesi internati resterà nei campi fino al 1945: tre, quattro e perfino cinque lunghi anni di privazioni, spesso aggravate da vessazioni gratuite, dovute alla barriera linguistica, alle incompatibilità ambientali e dietetiche, all’incomprensione e lo spaesamento sopravvenuti dopo l’improvviso crollo delle proprie aspirazioni, all’angoscia di non ricevere più notizie dai propri cari in Cina, di non essere più in grado di assisterli in alcun modo. Queste condizioni potevano essere localmente temperate da circostanze più favorevoli, come nel caso di Isola del Gran Sasso, dove gli internati cinesi potevano muoversi nel paese con un certo grado di libertà e spesso veniva perfino concesso loro di svolgere piccoli lavori alle dipendenze dei cittadini locali. Tuttavia, i tempi erano duri per tutti, gli inverni lunghi e gelidi, le opportunità di socializzazione e di scambi con il mondo esterno sempre accuratamente monitorate e soggette a censura. Quasi tutti fecero regolare istanza di liberazione o chiesero a propri parenti e amici, cinesi e italiani, di mobilitarsi per la revoca del provvedimento di internamento. Ma quelli a cui fu concessa furono pochissimi e quasi esclusivamente dopo esplicita richiesta nominativa da parte delle autorità consolari cinesi. A Isola del Gran Sasso, dove gli internati cinesi erano molto numerosi (oltre 150 nel periodo di maggiore affollamento) ed erano stipati in una struttura religiosa - il cosiddetto “Camerone” - originariamente deputata ad accogliere i pellegrini nell’adiacente Santuario di San Gabriele dell’Addolorata, essi erano assistiti da una figura che riuscì a proporsi efficacemente come mediatore, un Padre francescano conventuale di origine cinese: Padre Antonio Tchang Kan-I. Questi si prodigò assiduamente per la conversione degli internati che ancora non avevano abbracciato la religione cattolica. Il fatto che la sua assistenza in faccende di ca-

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rattere pratico (era l’unica persona in grado di fare da interprete) fosse in certo modo subordinata alla disponibilità degli internati a convertirsi non era molto gradito da alcuni degli internati, che se ne lamentarono diffusamente con le autorità consolari cinesi sia a Roma sia, dopo la rottura delle relazioni diplomatiche, in Svizzera, dove era ancora possibile rivolgersi a rappresentati della Cina nazionalista. Nessuno degli internati cinesi d’Italia si riconobbe mai nel governo fantoccio di Wang Jingwei, erano tutti patrioti convinti e fieramente antinipponici. Non riuscivano a capacitarsi del fatto che l’Italia, dopo aver intrattenuto così stretti rapporti con la Cina nazionalista, il cui leader era un aperto ammiratore di Mussolini, avesse infine scelto di schierarsi con l’invasore giapponese. Anche dopo che gli alleati, risalendo la penisola dopo gli sbarchi nel Sud Italia, riuscirono a liberare i campi di concentramento in Calabria e in Abruzzo, la maggior parte degli internati cinesi rimase nei campi, che vennero gestiti come strutture d’accoglienza per profughi di guerra. Non potevano infatti raggiungere le proprie famiglie rimaste nelle città del Nord, ancora sotto occupazione tedesca. Condivisero così lo stesso destino di migliaia di sbandati e di internati ebrei, rom e sinti, slavi di diverse provenienze che dopo il lungo internamento non avevano modo di tornare alle proprie famiglie - e alcuni di fatto non poterono tornarci mai più. Alla fine della guerra, molti cinesi che avevano perso tutto durante la prigionia fecero ricorso ai legami famigliari e di solidarietà tra connazionali e compaesani per riparare in altri paesi europei. Alcuni tornarono in Cina, qualcuno scelse perfino di portare con sé la moglie italiana e i figli (tutti avevano infatti acquisito la nazionalità cinese, poiché la moglie sposandosi rinunciava alla nazionalità italiana per quella ottenere quella del marito), che si scoprirono così parte di una famiglia allargata che comprendeva altre mogli e altri figli. Ma in Cina la pace tanto duramente conquistata era terribilmente fragile, la fine della guerra col Giappone solo il precario preludio di un conflitto altrettanto crudele e devastante, la guerra civile tra nazionalisti e comunisti che sfociò nella vittoria di Mao Zedong e la proclamazione della Repubblica Popolare Cinese. Una “liberazione” che suonò come una condanna per molti ex-emigranti, che si videro confiscare le terre acquistate con i tanti sacrifici fatti all’estero e quindi si trovarono costretti a riprendere la via dell’espatrio e dell’esilio. Ma quasi la metà dei cinesi d’Italia scelse di restare. Ostinatamente, volle continuare a costruire qui quello che la guerra aveva tentato di distruggere. Vollero credere in un paese che li aveva derisi, insultati e traditi, spogliati dei propri beni e dei propri sogni, ma che scelsero comunque di chiamare casa per i decenni a venire. I loro figli e i figli dei loro figli sono ancora qui, eredi di un retaggio secolare che è parte integrante della nostra storia e che merita di essere ricordato con rispetto.

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Giulia e Wu negli anni ’70.


Bibliografia

La Cina del Novecento di G. Samarani (Einaudi, 2008) Omaggio a Milano di C. Castellaneta (Alinari, 2005) Asia a Milano - Famiglie, ambienti e lavori delle popolazioni asiatiche a Milano a cura di D. Cologna (Segesta, 2003) Cina a Milano - Famiglie, ambienti e lavori della popolazione cinese di Milano a cura di P. Farina, D. Cologna, A. Lanzani, L. Breveglieri (Segesta, 1997) Cina Oggi a cura di E. Collotti Pischel (Laterza, 1991) Dal Borgo degli Ortolani a Porta Volta di T. Montanari (Comune di Milano, consiglio di zona 6, 1983) Storia della Cina di M. Sabattini e P. Santangelo (Laterza, 1986)

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Matteo Demonte (Milano, 1973) Studioso di lingua e cultura cinese, è stato allievo di Gong Fu tradizionale cinese presso la Ba Ji Shen Quan Hui del maestro Zu Yao Wu e presso la scuola Wu Shu Guan del maestro Chang Zu Yao. Diplomato presso l’IsIAO di Milano (Istituto Italiano per l’Africa e l’Oriente), ha studiato calligrafia presso la Yunnan University di Kunming e cinese moderno presso l’Istituto di Lingua e Cultura dell’Università di Pechino. Nel 2005, insieme a Ciaj Rocchi, ha fondato la GKL Film, un collettivo di videomaker e attori, con cui continua a collaborare a pieno ritmo. Ciaj Rocchi (Milano, 1976) Dopo aver lavorato per anni nel mondo della comunicazione, nel 2005 ha fondato la Gurukula Film, e da allora è impegnata nella produzione di fiction, documentari, animazioni, in un processo creativo che va dalla scrittura alle riprese, dai costumi al montaggio. Per il resto del tempo è mamma e precaria nel mondo dell’editing video.

Un ringraziamento particolare va a Luciana Ou, Manuela Mantegazza, Angelo Ou, Daniele Cologna, Rosa Lam, Luigi Ou, Enrica Chiurazzi, Gilda Disconzi, Alessandra Ou e Leone Demonte.



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