uomini e sport Uomini&Sport - Trimestrale - Numero 4 - Giugno 2011 - Pubblicazione gratuita
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INDICE
uomini e sport
Francesca Schiavone - IMMORTALE d i Stefano Meloccaro | p ag. 4
Rafael Nadal - PLAYER OF THE YEAR d i Lorenzo Cazzaniga | p ag. 6
Matteo Della Bordella - The Doors
| p ag. 9
Fabio Valseschini e Gianni Rusconi: Un sogno chiamato Civetta
d i Marco Milani
| pag. 10
Un uomo e due lupi:
l’avventura solitaria di Fiorenzo Bulferd i
| p ag. 14
O G NI VO LTA UN NO ME DA NO N DIMEN T IC A RE:
A n t onio Rus c oni | p ag. 18
d i Renato Frigerio
AC C A D E VA NEL L’A NNO...:
Torre Trieste Nel Regno Del Civetta di Aldo Anghileri | p ag. 22 Una realtà in-credibile: Il Costa basket di Fabio Palma | p ag. 26 Chiara Gianola - Trofeo “Dario e Willy” | p ag. 31 Tra tecnologia e passione
Pinarello, e uno sguardo dietro le quinte del ciclismo
di Fabio Palma | p ag. 32
Fonda t a da: S er gio L ong oni Re da z ione: Daniela L ong oni, Fabio Palma C ollab or a t or i: Rena t o Fr iger io, Mar c o Milani
P e r man dar e n o t i z i e o p r o p o s t e ar t i c o l i i n f o@d f- s p o r t s p e c ial i s t .i t s o g g e t t o: UOMINI& SP OR T o p p ur e DF SP OR T SPECI A L IS T Re da z i o n e Uo mi n i& Sp o r t V I A FIGL IOD ONI 14 23891 BA RZ A NO’ ( L c)
EDITORIALE di Ser gio L ongoni
Mentre sto dando un ultimo sguardo agli articoli che riempiranno le prossime pagine di “Uomini e Sport”, non posso fare a meno di riflettere sulle cose disparate di cui mi sono circondato in Sport Specialist. Avendo scelto istintivamente il commercio come indirizzo professionale, ero cosciente di dover affrontare un lavoro impegnativo, che non ha limiti di orari, stressante fisicamente e psichicamente, sempre sotto la minaccia di possibili fallimenti. Ma questo lavoro, pesante più di quello che può apparire, l’ho intrapreso quasi come corollario di una mia impulsiva passione, quella che mi teneva prigioniero di ogni genere di attività sportiva. Trovandomi dunque nel commercio di articoli che si riferiscono allo sport, mi è parso subito naturale e doveroso diffondere e sostenere lo sport in ogni sua versione ed evoluzione, individuando una particolare funzione stimolante negli atleti che lo praticano con eccezionali capacità e serietà. Sono gli stessi che si affacciano ultimamente anche dalle pagine della nostra rivista, come persone che condividono in tutto la mia stessa passione. Sono le loro entusiasmanti imprese e il loro affetto riconoscente che mi consentono di superare i momenti di delusione che indurrebbero a mollare tutto. Ma come potrei prendere una simile decisione dopo serate come quella di Dean Potter (ma quanti eravate, il 14 Aprile, nel negozio di Sirtori? 1000?) o l’altra di Igor Koller, che alla fine mi ha visto circondare dagli alpinisti miei testimonials di lusso: da Simone Moro, reduce dalla gigantesca impresa himalayana sul Gasherbrum II in prima invernale, da Fabio Valseschini, con la clamorosa prima solitaria invernale della “via dei cinque di Valmadrera” sul Civetta, da Rossano Libera, giustamente orgoglioso della sua prima solitaria invernale della via Cassin sulla parete Nord del Pizzo d’Eghen in Grigna? E a proposito delle soddisfazioni che ottengo dai miei testimonials, non posso tacere di un’altra recente impresa, quella compiuta da Daniele Bernasconi che, insieme a Simone Pedeferri, ha salito in giornata la prima invernale della via “La spada nella roccia” al Qualido, e il primo round del grandioso tentativo di Matteo Bernasconi e Matteo Della Bordella alla Ovest della Egger, in Patagonia. E non dimentichiamo le soddisfazioni degli atleti che lavorano nei miei negozi, come Antonio Arnuzzi, che a Seregno ha vinto una straordinaria 100km! E sul podio chi ha trovato, come vincitrice femminile? Un’altra testimonial Sport Specialist, Monica Casiraghi. Avendo con me tanti campioni straordinari, e tanti amici cari come lo siete voi, non credo mi sia possibile pensare adesso di dare l’addio al mio impegno per lo Sport. Per questo e per altro, cerchiamo di stare sempre tutti insieme!
A tu per tu con
i Grandi Dello Sport
Dopo il clamoroso successo e le emozioni indimenticabili che ci hanno dato i due fuoriclasse interna zionali DE AN POT TER e LEO HOULDING, i prossimi appuntamenti saranno: 23 Giugno: Gianni Rusconi, il cacciatore delle grandi invernali 14 Luglio: Jim Bridwell, la voce di Yosemite ll’anno r, uomo de Dean Potte
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Miguel Indurain. Archivio Pinarello
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Francesca Schiavone IMMORTALE
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di Stefano Meloccaro
Non basta saper giocare (parafrasando Dalla e De Gregori), ma aiuta. Parecchio. E da quel punto di vista, Francesca aveva sempre avuto la coscienza a posto. Dopodiché, per arrivare fin lassù, ci vollero anche muscoli indomabili, rabbia taurina e voglia smisurata. Non disgiunti da sana irresponsabilità latente, frequente tra i predestinati. Quel quid che fa vivere i momenti importanti dell’esistenza quasi non fossero fatti tuoi. O magari sei talmente bravo da farlo credere a chi ti guarda da fuori. Che poi va bene uguale. La Schiavo ebbe il RG10 perché per lei, Parigi o Roccacannuccia, non aveva mai fatto grossa differenza. Il suo era sempre stato un tennis manicheo, tutto o nulla. Ovunque si trovasse. Affrontando, di volta in volta, se stessa, il suo anelito alla perfezione, l’intricato universo femminile, il suo inarrestabile flusso di coscienza. Lottava contro i suddetti demoni (prima che con le avversarie) da anni, e almeno uno dei succitati aveva sempre finito per sopraffarla. Ma, nel frattempo, Francesca andava a scuola. Imparava lentamente a convivere con questi mostri, fino a farseli piacere. Stagione dopo stagione. Fino al supremo momentum, primavera-inoltrata-quasi-estateduemiladieci. Laddove tutto si compì. Gioco, mente e corpo, finalmente in armonia. Convergenze parallele, perfetta sintesi. Lo schicco di servizio mandò le altre sistematicamente a rispondere in tribuna. Il drittone arrotolato e maligno, con scudiscio modello Rafa, fu mortifero. Il rovescio si manifestò uno e trino, carico, piattone o tagliato, e incise sia in difesa sia sulla verticale. La Fra fu assistita finanche dalle volate, mirabili nel loro coacervo di sensibilità, personalità e istinto. La posta in palio crebbe, la Schiavone di più. Infine, rise solo lei, sdraiata sulla polvere del centrale francese. Parenti, conoscenti, giornalisti e allenatori, quelli piansero tutti. Francesca rivelò, in seguito, di aver impiegato mesi, prima di riuscire a spremere due lacrime al ricordo del cimento. Di lì in poi furono sequele di lodi, celebrazioni e interviste. Molti si arrovellarono in affannosa caccia della giusta definizione, ma invano. Non ci fu modo di catalogare un déjà vu. Né mai si potrà. é il presente che si interseca col soprannaturale. Alzo gli occhi al cielo e finalmente respiro libera, confessa oggi mentre ritorna col pensiero a quel pomeriggio.
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Rafael Nadal PLAYER OF THE YEAR
«Mi piace sperimentare nuove soluzioni. A RAFA UN PO’ MENO ma alla fine lo convinco» Toni Nadal
di Lorenzo Cazzaniga
Se vuoi restare numero uno, devi allenarti ogni giorno COME SE FOSSI IL NUMERO 2. Devi sentire la bava di chi ti insegue... 6
Avessi fatto il bookmaker, Nadal mi avrebbe mandato sul lastrico. Pur avendo avuto il privilegio di ammirarlo ancora bambino allenarsi nel suo club di Manacor, col maiorchino non ne ho mai imbroccata una. Ancor prima della maggiore età, senza alcuna fantasia, avevo soprannominato El Matador, quel 16enne isolano che in otto ore di training aveva piegato la resistenza di quattro sparring partner. Ammirevole per dedizione e cortesia, non pensavo avesse il talento tecnico per giungere ai risultati fin qui conseguiti e che, dopo le vittorie di quest’anno, ammontano a otto Slam, diciannove Masters 1000 e quarantatre tornei in totale. Compresi i quattro Major e un oro olimpico. Roger Federer gli ha sfilato via il Masters di fine anno, ma direi che è una delusione che può essere accettata senza drammi dal maiorchino. Dicevo delle buche che ho preso. Già, da ragazzino pensavo sarebbe diventato più forte Richard Gasquet. Ma vuoi mettere? Con quel rovescio, il francese se lo mangia. Lo ricordo Rafa in tribuna a Monte Carlo mentre osserva Gasquet vincere un primo turno, deliziando gli appassionati con smorzate e accelerazioni. Ghignava, il buon Rafa, conscio che di solo braccio non si vince più. Lo spagnolo, ai tempi si tirava le palle corte sui piedi e col rovescio in back sembrava un ragazzo della pre-agonistica, se non proprio della SAT. Per vincere ci ha messo poco. A 18 anni conquistava il suo primo titolo ATP, in una piccola cittadina della Polonia, a Sopot, torneo dove la maggior parte dei giocatori andava per le belle ragazze. Sei anni dopo (sei, non quindici), siamo già a chiederci se il record di Slam di Federer è ancora al sicuro. Infatti, così come sembrava impossibile che a breve qualcuno potesse avvicinare i 14 di Pete Sampras, altrettanto si pensava dei 16 Major portati in Svizzera da Federer. E invece, al Bar del Tennis sono sempre più gli aficionados convinti che Rafa possa fare l’impresa. Certo, Federer ha dimostrato al Masters di Londra di avere ancora in canna qualche buon colpo, e nulla vieta di pensare che quota 16 non sia quella finale; tuttavia, è proprio il divario tra i primi due giocatori del mondo e il resto della truppa, a far credere che Rafa possa riuscire nell’intento. Ridotti Djokovic e Murray al ruolo di comparse, con Del Potro in infermeria e le giovani promesse alla Dimitrov-Nishikori-Tomic ancora in rampa di lancio, diventa facile prevedere che il duopolio andrà avanti ancora. Perché ci può essere il Soderling o il Berdych di turno che indovinano la giornata, ma pensare di buttar già dalla torre uno dei due fenomeni, appare impossibile. Oggi più che mai. E allora, considerando che Federer ha trent’anni e Nadal ventiquattro, si potrebbero prevedere sei stagioni e ventiquattro Slam da favorito, se non proprio da assoluto padrone. é chiaro che un avversario scapperà fuori. Succede sempre: quando un campione se ne va, pare che non debba mai arri-
post scriptum Rafael Nadal ha vinto tre Slam consecutivi nel 2010.
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Rafael Nadal
dai nostri testimonials
PLAYER OF THE YEAR
MATTEO DELLA BORDELLA The Doors
varne un altro simile. E invece, puntualmente arriva. é successo quando si sono ritirati Borg e McEnroe, Connors e Lendl, Edberg e Becker, Sampras e Agassi. Succederà lo stesso quando ci lascerà Federer (oh, e che accada il più tardi possibile). Quindi Nadal non dormirà sonni tranquilli, anche Perché la bua alle ginocchia è stata accantonata ma sarà difficile per lui liberarsene per sempre. Però la sensazione è che possa davvero dominare il tennis nelle prossime stagioni, grazie ai progressi compiuti negli ultimi mesi, da quando sostanzialmente lo davamo per (mezzo) finito, dopo gli infortuni che sembravano averlo azzoppato, dopo che gli avversari credevano di aver trovato le contromisure a quel suo forcing da fondocampo, tanto produttivo quanto prevedibile. Eccola qui, un’altra buca. Se va bene, questo vince ancora un paio di Roland Garros. Ma lontano dalla terra rossa, i Federer, i Murray, i Djokovic, non li prende più. La pensavo così. Ora, col senno di poi, son pieni i circoli di gente che ti rinfaccia il “te l’avevo detto che avrebbe vinto ancora a Wimbledon. E che prima o poi avrebbe sfatato anche il tabù di New York”. Ma te l’avevo detto, quando? Chi avrebbe scommesso più d’un copeco che sarebbe tornato più forte di prima, che sarebbe migliorato al punto che il Rafa 2010 darebbe 6-2 6-2 6-2 al Rafa di solo tre anni fa? Perché questo è il suo attuale segreto. I miglioramenti, passo dopo passo, compiuti in pochi mesi. Un vecchio detto sportivo dice che “se vuoi restare il numero 1 devi allenarti ogni giorno come se fossi il numero 2”. Devi sentire la bava di chi ti insegue, devi avere ancora fame di vittorie, quella che ti fa alzare tutte le mattine “con un po’ di stretching alle dita. Io comincio ad allenarmi appena apro gli occhi” mi ha confidato una volta. Per riuscirci, talvolta non basta la forza di volontà, l’autodisciplina. Per quanto sia intrinseca nella tua persona. Hai bisogno di una mano, di una guida esperta. Meglio ancora se di famiglia. Ed ecco all’orizzonte comparire la figura dello zio Toni, un educatore ancor prima di un coach di tennis. 8
“Mi piace sperimentare nuove soluzioni - ha detto -. A Rafa un po’ meno, ma alla fine lo convinco sempre”. Il tennis è diventato come la Formula 1: sei a metà di un Campionato e già stanno studiando la vettura della stagione dopo. Anche se vinci tutti i Gran Premi, anche se non fondi mai un motore. Chi si ferma è perduto e, fortuna sua, Rafa non sta mai fermo. E allora ce lo immaginiamo, numero uno del mondo, come quando era ragazzino: le sei del pomeriggio, dopo quattro-barra-cinque ore di allenamento, fermarsi con un cesto da centocinquanta palle per migliorare il colpo che gli ha sempre dato più fastidio: il servizio. “Rafa gioca da mancino ma è un destro naturale - ricorda zio Toni -. Avesse giocato con la destra, avrebbe perso i tanti vantaggi dei giocatori mancini, ma il servizio... Quello sarebbe stato più incisivo”. Poco importa: basta lavorarci su. La pensano cos“ in famiglia, che si tratti dell’azienda vetraia che porta avanti papà Sebastian, i ristoranti che gestiscono sulla costa o la prima palla di Rafa. E così compare allo US Open e pensi che abbiano taroccato il misuratore di velocità. Rafa che tira la prima a 210 chilometri all’ora? Non ci crede nessuno. Però fioccano gli ace e mancano i break subito. Così tutti vanno a indagare su come abbia fatto. “Ha messo più peso in testa alla racchetta” annuncia zio Toni. Chiamiamo Jean Christophe Verborg, che si occupa degli atleti in casa Babolat. “Sempre uguale – ci risponde -: 311 grammi e 32,5 di bilanciamento, telaio non incordato”. Un’altra buca. Ma giuro che questa volta è l’ultima. Qualunque cosa accada, se anche Federer dovesse ringiovanire di cinque anni, se anche Murray dovesse sbloccarsi dalla sue paure, se anche dovessimo scoprire che Dimitrov non è la fotocopia sbiadita di Federer ma esattamente l’opposto, meglio non scommettere mai contro Rafael Nadal.
foto di Riki Felderer
Un micronut in bocca, una via estrema. Per chi ne capisce, si tratta della prima lunghezza di 8b mai salita da un italiano piazzando dal basso protezioni come Friends e nuts. Per chi è soltanto curioso, sappiate che il video di questa salita, pochissimo pubblicizzata dai siti italiani del settore (che, anzi, l’hanno finora abbastanza ignorata), è stato lanciato in prima pagina nei maggiori siti americani ed europei, diventando il video outdoor più visto al mondo in quella settimana, e correndo, sembra, verso il primato assokuto del 2011. Ben 22.000 visioni in meno di dieci giorni, e continuano a salire. Quando leggerete queste righe, andate su internet, vimeo.com, e digitate Matteo Della Bordella The doors. Matteo, testimonial sport specialist da tre anni, ha 27 anni ed è unanimamente riconosciuto come uno dei più grandi talenti europei della scalata e dell’alpinismo. Lo scorso Inverno, con l’altro testimonial sport specialist Matteo Bernasconi, ha tentato di salire l’inviolata parete Ovest della Torre Egger, in Patagonia, un obiettivo che da decenni respinge tutti i migliori alpinisti per la difficilissima logistica e la meteo assolutamente ostile. Tre giorni di avvicinamento e due giorni in parete prima di dodici giorni in una grotta di ghiaccio e la ritirata. Tentativo rimandato, dicono i due. Ma come si vede dalla foto e dal successo del video, le imprese di Matteo, intanto, non si fermano. 9
Fabio Valseschini e Gianni Rusconi: UN SOGNO CHIAMATO CIVETTA
Dopo 39 anni dall’apertura, prima ripetizione solitaria invernale e quarta assoluta della Via dei Cinque di Valmadrera
Immaginate di poter passare un’intera serata seduti allo stesso tavolo con Fabio Valseschini (classe 1970) e Gianni Rusconi (classe 1943) a parlare di montagna. Un sogno? Forse… ma è proprio quello che vi stiamo per raccontare. L’argomento non poteva che essere la prima solitaria invernale della Via dei Cinque di Valmadrera (1300 metri, VI+, A3) sulla Civetta firmata lo scorso 13 febbraio dal lecchese Valseschini dopo sette lunghi giorni passati in parete. Una via aperta nel lontano 1972 nel cuore della celebre parete Nord-Ovest proprio da Gianni Rusconi, assieme al fratello Antonio, Giambattista Crimella, Giambattista Villa e Giorgio Tessari (ai primi due tentativi aveva partecipato anche Giuliano Fabbrica. Rimasto poi bloccato dall’influenza). E’ complicato spiegare quella sensazione di complicità che si percepisce tra questi due uomini a tratti così simili ma pure così diversi. Una complicità nata in montagna, sulle stesse vie, seppur affrontate in epoche e modi differenti. Una complicità che si legge in un intreccio di sguardi e di vite che, in un modo o nell’altro, hanno portato questi due alpinisti in cima alla stessa montagna. “Ricordo perfettamente la prima volta che ho incontrato Fabio, come spesso accade mi immaginavo una persona completamente diversa – racconta Gianni –. Mi aveva telefonato per avere informazioni sulla via del Fratello al Badile (aperta dallo stesso Gianni col fratello Antonio nell’inverno del 1970 e dedicata al fratello maggiore Carlo scomparso in montagna, ndr), allora l’ho invitato a casa. Mi si è presentato questo ragazzo con i capelli lunghi che, senza tanti giri di parole, ha cominciato a parlarmi del suo progetto; ma quando mi ha detto che voleva tentare la prima solitaria invernale non sapevo più cosa pensare. Mia moglie gli ha detto subito che era matto, ma a me, in fondo, fece una buona impressione. Poco tempo dopo ho avuto la conferma che questo ragazzo proprio non scherzava: Fabio era arrivato in cima al Badile. La notizia mi ha fatto subito molto piacere e inevitabilmente è nato un piccolo legame dettato da un senso di condivisione, anche per lo spirito con cui avevamo aperto la Via del Fratello…”. Da allora ne è passato di tempo, Fabio ha compiuto altre imprese, anche molto importanti, fino all’inverno scorso. Perché hai scelto di salire proprio la Via dei Cinque di Valmadrera? “Nell’estate del 2003 ero in Civetta con il mio amico Marco Perego (scomparso nel 2005, ndr) sulla Philip-Flamm, quello stesso giorno Claudio Moretto e Rosy Buffa stavano effettuando la seconda ripetizione della via. Lì per lì non ci feci molta attenzione, non conoscevo nemmeno la storia di questa parete, ma ripensandoci credo proprio che quello fu quello il punto di partenza. Nel 2007 un nuovo impulso arrivò quando a casa di Gianni, durante la festa per la riuscita della prima invernale della via del Fratello, qualcuno buttò lì ancora l’idea della Via dei
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Cinque. Una serie di pensieri, l’amicizia con Gianni e Antonio, il fatto che nessuno aveva ancora portato a termine la prima solitaria invernale… tutti questi fattori hanno contribuito a rendere concreto il mio progetto”. La Civetta ha un fascino particolare? “Badile, Civetta o un’altra parete non cambia niente – spiega Fabio – per quanto mi riguarda quando un progetto ha un richiamo particolare puoi andare anche in Medale. Quello che conta è divertirsi e trovare quello che si sta cercando. Contano la sofferenza, la fatica, la soddisfazione, la capacità di adattarsi a ogni situazione e agli imprevisti. Ho ripetuto tante vie che probabilmente avrei fatto con Marco (Perego, ndr) e per me sono state prima di tutto scelte fatte col cuore. A volte le storie che c’erano dietro a una via e le persone che l’avevano salita le ho scoperte, anche con grande sorpresa, solo dopo la scalata”. Era così anche ai tempi della “Banda dei Cinque”? “Le motivazioni interiori che ti spingono ad affrontare una via sono più o meno le stesse – spiega Gianni -. Accetti le difficoltà, cerchi di conviverci, senza arrenderti perché lo scopo è quello di raggiungere un obiettivo. Noi trovavamo una grande soddisfazione proprio dove le altre persone pensavano che fosse impossibile. Quello che a suo tempo ci aveva spinto verso il Civetta era stato ciò che leggevamo nei libri. Volevano fare qualcosa anche noi per cercare di capire in primo luogo la radicata passione che ci aveva lasciato nostro fratello Carlo, poi il motivo che aveva spinto gli altri a compiere le imprese descritte su quelle pagine. E presto ci siamo accorti che l’alpinismo era un mondo che ti attraeva tanto più t’avvicinavi. Riguardo la via dei Cinque ricordo che c’erano altri forti alpinisti che in quel periodo ci stavano provando, tra cui anche alcuni alpinisti lecchesi come Casimiro Ferrari, questo ci spinse a partire subito e fortunatamente fu un successo. Un successo frutto di un amalgama di alpinisti d’esperienza e giovani talenti”. Fabio, cosa vuol dire affrontare 7 bivacchi completamente solo e cosa ti porta verso una salita del genere? “Per quanto mi riguarda lo star solo è un modo per rilassarmi. Indubbiamente è anche una maniera per mettersi alla prova perché penso che sia prima di tutto a se stessi che bisogna dimostrare qualcosa. La solitaria vuol dire entrare in sintonia con l’ambiente, un po’ un prendere e un dare. Bisogna anche dire che in fin dei conti il tempo per pensare è comunque poco visto che sei costantemente concentrato su quello che stai facendo. Sei sempre impegnato a ragionare su come affrontare un passaggio, se quello che stai facendo è la cosa più giusta, pensi a dove è meglio mettere un chiodo, una protezione. E poi devi preparare il bivacco, cucinare. Ma lo stare solo mi aiuta a rilassarmi e magari, proprio poco prima di addormentarmi, la mente vaga verso pensieri che con 11
Fabio Valseschini e Gianni Rusconi: un sogno chiamato Civetta
la montagna non centrano proprio nulla. Poi è importante dire che attorno a me c’erano tante persone che mi hanno aiutato a realizzare questa salita. Gente che è stata capace di darmi un supporto materiale e morale determinante. Per certi versi è stato come un gioco di squadra: è chiaro che in parete dovevo sbrigarmela da solo, ma sapevo che in basso c’era gente che mi sosteneva. Appena hanno capito che la mia salita era una idea valida, la gente del posto ha mostrato subito una grande dose di altruismo e passione. Alla fine la salita, benché affrontata in solitaria, diventa un obiettivo comune e questo ti dà una motivazione in più”. Quest’ultimo è un aspetto che negli anni non è cambiato: “Mi fa piacere sapere che c’è ancora lo stesso calore umano che ci accolse allora – spiega Gianni – ricordo che siamo stati supportati dall’inizio alla fine, tanto che il gestore del Tissi, Livio De Bernardin, ha aperto apposta il rifugio ed è salito assieme a noi rimanendo lassù per tutto il tempo. Al ritorno poi è stata organizzata una gran festa in nostro onore presso la pensione cime d’Auta a Caviola”. Un momento particolare della realizzazione di Fabio è stata la discesa: quando la parte più impegnativa sembrava ormai alle spalle… “Purtroppo in cima c’era brutto tempo. La neve era tanta e la visibilità davvero scarsa. Perciò, dopo la vetta, in un primo momento sono stato costretto a tornare sui miei passi e rifugiarmi nuovamente in un posto abbastanza riparato della parete, dove avevo approntato una sosta, aspettando che il meteo cambiasse. Approfittando di un momentaneo miglioramento ho recuperato il materiale e raggiunto la vetta, ma purtroppo è stata solo un’illusione perché il tempo non accennava a cambiare così, data la scarsa visibilità, ho preparato il mio settimo bivacco scavando una truna nella neve pochi metri sotto la cima sull’altro versante. Il giorno seguente col bel tempo sono sceso e ho visto il Torrani completamente coperto dalla neve, tanto che l’ho riconosciuto solamente per i pali della teleferica che spuntavano. Diciamo che anche la via del ritorno ha richiesto la massima concentrazione”.
“Sicuramente Fabio ha compiuto una impresa veramente grande – chiosa Gianni – sono davvero contento per lui, ma anche per me, per mio fratello Antonio e per tutti i miei compagni. Penso che una soddisfazione grande per chi ha aperto una via te la dia anche chi la ripete, specie se sono alpinisti di rango e che conosci bene. E inevitabilmente l’eco di questa bella impresa compiuta da Fabio risveglia pure il ricordo della nostra salita. Una invernale come questa merita sempre grande rispetto e in questo caso ho visto che tante circostanze sono state le stesse per entrambi e questo mi fa ancora più piacere. Sono certo che ci sono ancora tante cose che Fabio può fare, le carte in regola ce le ha di sicuro. L’alpinismo è sempre stato una manifestazione libera, cambiano i tempi, le tecnologie, ogni epoca ha i suoi eroi, ma sono sicuro che l’ultimo problema delle Alpi deve ancora arrivare…”.
Facendo un bilancio cosa ti rimane di questa esperienza? “Per carattere tendo sempre ad archiviare velocemente e guardare avanti. Ma in questo caso non posso non pensare alle nuove e importanti amicizie che questa esperienza mi ha permesso di costruire. E non è assolutamente una cosa scontata conoscere persone che entrano a far parte della tua vita e del tuo progetto. Sicuramente questa salita ha arricchito la mia vita e rappresenta un bagaglio d’esperienze, di sensazioni che torneranno utili. E poi raggiungere un risultato del genere è comunque una grande soddisfazione e, perché no, un modo per togliersi anche qualche sassolino dalla scarpa”.
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Un uomo e due lupi:
l’avventura solitaria di Fiorenzo Bulfer
Tre settimane ai limiti del mondo nella natura sconfinata della Lapponia svedese due lupe), Fiorenzo è riuscito a percorrere tutti i 250 chilometri e gli 11 mila metri di dislivello. Un passo dopo l’altro per giungere a un sogno più grande. IL PROGETTO “è nato dall’esigenza di non avere un progetto. L’unico vero obbiettivo era quello di vagabondare per giorni in luoghi selvaggi e sconosciuti, libero da qualsiasi forma di costrizione di tempo. Volevo andare in una zona completamente remota e la mia mente è volata al Sarek nella Lapponia svedese, in cui ero già stato in estate: è uno dei pochi paradisi rimasti in Europa”. Partenza il 19 dicembre da Lecco alla volta di Kvikkjokk nella penisola scandinava. Tre settimane a oltre 3 mila chilometri da casa per affrontare a piedi 220 chilometri in solitaria, senza la possibilità di lavarsi, nei giorni più corti dell’anno (solo cinque ore di luce), con temperature che hanno toccato addirittura i -35 °C. LA FILOSOFIA che ha mosso Fiorenzo verso questa avventura… “L’esigenza di uscire dallo schema dell’exploit. Volevo sentirmi libero da qualsiasi forma di record e dalla bulimia del “fare a tutti i costi”. Un mondo con cui ho convissuto e convivo, ma ora voglio che mi appartenga il meno possibile. Nella vita quotidiana ci sono già parecchie pressioni, adesso voglio fare solo ciò che mi piace e mi rende felice. Durante il viaggio ho provato la sensazione di allontanarmi da tutto e da tutti, ma mentre all’inizio vedevo la natura come qualcosa da affrontare, con il passare del tempo sentivo che mi accoglieva”. FIORENZO è… “Difficile dirlo. Forse c’è una parola che ho letto da qualche parte e che potrebbe definirmi: entronauta. In poche parole cerco di capire me stesso con l’aiuto dell’esterno. Mi sento un po’ un esploratore, ma non vado alla ricerca del limite tecnico quanto piuttosto del limite interiore. Il confronto con la natura, in questo caso, mi aiuta ad accelerare e approfondire la
Un viaggio nelle bianche terre della Lapponia. Paesaggi incontaminati, irrigiditi da un inverno infinito. Angoli sperduti di mondo che appaiono come un miraggio nelle poche ore di luce dell’inverno artico e veloci scompaiono in un rosso tramonto di mezzogiorno. Luoghi dove pure i suoni paiono cristallizzati in un immobile gelo. Un uomo e due lupe. Comincia così la nuova meravigliosa avventura del lecchese Fiorenzo Bulfer. Libero professionista di 49 anni, con moglie e tre figli, da una ventina d’anni fa parte del Soccorso Alpino. La sua storia è quella di tanti lecchesi che, stretti tra lago e monti, volgono lo sguardo alle vette di Resegone e Grigna rimanendo folgorati. Il suo passato di alpinista conta vie in falesia e le salite classiche delle Alpi, nulla di straordinario, fino a tre anni fa, quando ha dato vita a un grande percorso che lo ha portato lo scorso inverno, da solo, al Circolo Polare Artico. 14 14
LA SVOLTA è coincisa con l’incontro di Ario Sciolari e la lettura del suo libro “Il sogno del lupo”: “Ario è una Guida Alpina, poi diventato un grande amico. Da lui ho tratto ispirazione per le mie avventure e, grazie al suo libro, ho capito che il mio sogno era possibile. A lui devo anche il mio incontro con il lupo cecoslovacco: un animale straordinario capace di una sensibilità fuori dal comune. Tanto che adesso non potrei più pensare la mia vita senza Blanca (3 anni) e Holly (20 mesi)”. Per ripercorrere la storia dall’inizio bisogna tornare all’estate del 2009 quando Fiorenzo, con l’amico Christian Vitali, ha affrontato il Kungsleden, letteralmente Sentiero dei Re, una traversata di 450 chilometri nella Lapponia svedese. Nell’inverno dello stesso anno il primo tentativo della traversata integrale della Foresta Nera (Germania) conclusa con una ritirata a causa delle pessime condizioni meteo. Una partita rimasta aperta fino all’estate del 2010 quando, sempre al fianco dell’amico Christian (e ovviamente delle 15
Un uomo e due lupi:
l’avventura solitaria di Fiorenzo Bulfer
presa di coscienza degli aspetti più intimi della mia interiorità. E’ la molla che mi ha fatto scattare l’esigenza di stare solo e di ridurre al minimo gli aiuti della tecnologia (due telefonate a Natale e pochi Sms). A chi mi chiede perché lo faccio, di solito consiglio di provare sulla propria pelle la sensazione di stare per 24 ore completamente da soli”. LE LUPE un amore a prima vista: “La singolarità del viaggio sta anche nel fatto che con me c’erano due lupe cecoslovacche che mentre guidavo dormivano e mentre io volevo dormire loro volevano correre. Perciò programmavo soste ogni 3/4 ore per farle sfogare poiché sono dotate di una iperattività tipica di questa razza che non è seconda a nessun animale. E’ stato bello vedere il loro adattamento al freddo: fino a -20 °C, come in un balletto, sollevano alternativamente per qualche minuto le zampe, una reazione alla circolazione sanguinea, per temperature intorno ai -30 °C, invece, tendono a fermarsi e leccarsi le zampe”. LE PAURE non sono mancate “Prima di partire non nascondo di essermi spesso svegliato nel cuore della notte in preda ad ansie e paure. Spesso mi sono chiesto se ero all’altezza. Non nascondo che dietro a un avventura di questo tipo c’è un processo mentale impegnativo. Ma ricordo distintamente che dopo alcuni chilometri a piedi nella foresta la natura mi aveva completamente rapito e le paure che avevo a casa venivano sostituite dalla bellezza e dal silenzio. Ci sono stati momenti difficili, in cui ho creduto di essermi perduto per davvero, poi ho capito che faceva tutto parte del mio progetto. Spesso la gente ha paura del fallimento di un’impresa. Ma il fallimento ci deve fare imparare ancor più di una impresa riuscita. L’ho provato sulla mia pelle nel primo 16
tentativo nella Foresta Nera. Ma rimango fermamente convinto che il progetto fallito per eccellenza è quello mai tentato”. LO SCOPO di questa avventura. “E’ chiaro che principalmente compio questi viaggi per me stesso. Però ho capito che è importante comunicare queste esperienze alle altre persone. Ciò che mi preme sottolineare è che non stiamo parlando di eroi, ma tutti possono vivere un’esperienza del genere, ovviamente in base alle proprie capacità psico-fisiche. E se qualcuno ascoltando i miei racconti traesse spunto per realizzare un proprio percorso mi riempirebbe di gioia. Non nascondo che mi piacerebbe portare queste esperienze nelle scuole, è un modo per dimostrare che c’è un’alternativa alla quotidianità. E, perché no, magari organizzare nelle nostre zone qualche “trekking coi lupi””. I NUMERI del viaggio. “Anche se per me i numeri hanno poco valore per i più tecnici lascio qualche dato, ricordando che sul mio sito internet (www.fioblume.it) possono trovare maggiori particolari per quanto riguarda la logistica e i materiali. Chilometri percorsi in auto: 7.300; Chilometri percorsi a piedi: 220 circa; Dislivelli: 6000 metri; Temperatura minima: -34 °C; Temperatura massima: -15 °C; Mezzi: sci alpinismo e ciaspole; Notti: tenda e bivacchi. In conclusione devo fare pochi ma sentiti ringraziamenti: a Sergio Longoni di df Sport Specialist per aver creduto in me in modo concreto; Ario Sciolari, senza il suo libro e i suoi consigli da amico non sarei mai partito; Officina Alimentare che mi ha fornito tutti i prodotti per la sopravvivenza; Christian, per il solito supporto generale e la sua amicizia.
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ANTONIO RUSCONI Un alpinista che volle arrampicare nell’ombra
Antonio Rusconi
per diletto e convinzione, inseguendo prima risultati sbalorditivi nell’attività alpinistica, continuando poi come semplice appassionato nelle gare di corsa, con lunghe marce in pianura e in montagna. Nessuna ambizione in lui, che non fosse quella di sentirsi totalmente realizzato, anche umanamente, in quello che faceva, anche se si trattava di un impegno esigente che lo coinvolgeva anima e corpo, per dare tutto di sé, fino al punto talvolta di mettere a repentaglio la vita stessa. E fu proprio per questo che, quando una pratica dell’alpinismo, compatibile con il rischio estremo, non potè più coincidere con il senso di responsabilità dovuto alla famiglia che si era formato nel segno dell’amore cristiano, decise di dare addio alle grandi pareti invernali, dalle quali per quasi un decennio non era mai riuscito a staccarsi. Non possiamo dimenticare Antonio, se appena abbiamo la percezione di quello che significa arrampicare in invernale sulle pareti più esposte e levigate: e su queste lui ha osato mettersi in discussione proprio nell’esperienza più difficile e problematica, quale è riservata solo a chi intende aprire qui una via di straordinaria importanza. Riflettiamo quante volte non ha esitato ad
Un alpinista che volle arrampicare nell’ombra “Antonio Rusconi è nato a Valmadrera nel 1945. Prende la via dell’alpinismo quando ha già lasciato alle spalle gli anni dell’adolescenza, dopo aver frantumato il tabù familiare contro l’arrampicata, la passione cui in casa veniva attribuita la responsabilità dell’atroce scomparsa di Carlo, il fratello che aveva preso il posto della figura paterna. Con il fratello Gianni, che sarà per lui ispiratore e guida, ma di cui diventa compagno imprescindibile nelle loro strepitose conquiste invernali, a partire dal 1968 inanella una serie di imprese di straordinario spessore, tanto da caratterizzare l’alpinismo italiano fino al 1975. Le loro vie, compiute come prime invernali, e di cui alcune come prime assolute, si impongono come segno glorioso nella storia dell’alpinismo mondiale: via Piussi-Redaelli alla parete Sud della Torre Trieste, via della Guide sulla parete Nordest del Crozzon di Brenta, via del Fratello sulla parete Estnordest del Pizzo Badile, via Attilio Piacco sulla parete Nord del Pizzo Cengalo, via dei Cinque di Valmadrera sulla parete Nordovest della Civetta, parete Est del Dente del Gigante al Monte Bianco, via Gervasutti-Boccalatte sul Pic Gugliermina, via Bonatti sulla Chandelle du Tacul, via Rusconi & C. sulla parete Est del Gran Pilier d’Angle e le vie, Vera sulla parete Sudest del Pizzo Badile, Phlipp-Flamm sulla Punta Tissi della parete Nordovest della Civetta, dove Antonio non c’era. Oltre i confini europei, risaltano le spedizioni in Alaska, Monte Sant’Elia (5489 m), nel 1971; in Perù, nella valle del Rio Pumarriri, su cinque montagne oltre i 5000 metri di cui tre inviolate, nel 1976; in Perù, Cordillera Blanca, sul Pucaranra (6150 m), nel 1977. Antonio muore il 14 aprile 2008, dopo aver sopportato per un interminabile anno, con forza e rassegnazione ammirevoli, una malattia incurabile e dolorosissima.”
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A tre anni dalla sua scomparsa, saranno rimasti ormai in pochi a pensare talvolta a lui, a ricordarne le doti superiori di eccezionale alpinista, in cui abbondavano insieme generosità e modestia, abnegazione e coraggio. Dimenticare, del resto, appartiene alle leggi della vita e della ridotta capacità umana di incamerare in continuazione nella mente la successione degli avvenimenti, delle conoscenze, dei volti e dei nomi. Le grandi istituzioni cercano di rimediare al fatto che i loro personaggi di maggior valore e prestigio vengano raccolti, come tutti i mortali, nel profondo oceano della dimenticanza, e approntano per questo i loro albi, dove figurano le persone sante per le religioni; gli eroi, gli scienziati, gli artisti per le diverse nazioni del mondo. Forse non potremo mai incontrare il nome di Antonio se ci capiterà di scorrere le pagine di questi albi, e ne siamo spiacenti, perché lui pure è stato un uomo cui spetterebbe di diritto un ricordo perenne. La sua è stata una vita trascorsa all’insegna dello sport, abbracciato puramente
OGNI VOLTA “UN NOME”: DA NON DIMENTICARE
OGNI VOLTA “UN NOME”: DA NON DIMENTICARE
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affrontare a ripetizione la durezza delle ricognizioni, la costrizione di lunghe marce di avvicinamento sprofondato nella neve, le logoranti permanenze su pareti lisce e ghiacciate, soffrendo per la fame, la sete e il freddo, in una lotta tremenda fino alle lacrime, ma resistendo sempre fino alla vittoria! Non ci è difficile pensare che tutto questo l’abbia fatto avendo in mente la sua crescita e la sua realizzazione personale, ben lontano dall’aspettarsi che una qualsiasi grandiosa conquista dovesse servire per procurargli onere e applausi. Allo stesso modo, del resto, come non ha mai approfittato di quelle superbe invernali, che tutti gli invidiavano, per manifestare un vanto che sarebbe stato più che giusto, preferendo quasi nascondersi e scomparire dietro le spalle robuste del fratello Gianni ed essere considerato semplicemente come uno qualsiasi di quel quintetto, pur fantastico, conosciuto come “i cinque di 20
Valmadrera”. Ma se non intendiamo dimenticare Antonio, basterà riferirci, anche più facilmente, ad una via soltanto, quella sbalorditiva effettuata sulla parete Estnordest del Pizzo Badile e che è entrata nella storia che raccoglie le imprese più importanti di ogni tempo. La “via del Fratello” riassume nella realtà e come significato tutta la clamorosa attività dei fratelli Rusconi: il nome che le è stato dato, pur indovinato e dolce, avrebbe dovuto meglio essere indicato come “via dei fratelli”. Questa salita, incredibilmente difficile e durissima, è stata infatti vissuta interamente ed esclusivamente da tre fratelli: Carlo, con una presenza virtuale come ispiratore e punti di riferimento, Gianni e Antonio come gli autori, che hanno arrampicato avendo continuamente nella mente e nel cuore proprio lui.
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Antonio Rusconi
Ma non siamo qui per non dimenticare imprese e conquiste: che si vuole tenere sempre vivo è soprattutto un nome, perché nel nome rimane condensata e in certo modo manifestata, la realtà intera e sostanziale di ogni persona. E questa volta è il semplice pronunciare “Antonio Rusconi” che riesce a riaccendere in noi la presenza di un volto sereno e alla buona, che sorride, e, senza darsi importanza, ci indica un modo speciale di condurre la nostra esistenza: uno stile possibile, perché così è già stato per lui.
Renato Frigerio
OGNI VOLTA “UN NOME”: DA NON DIMENTICARE
ANTONIO RUSCONI Un alpinista che volle arrampicare nell’ombra
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ACCADEVA NELL’ANNO…
PRIMA INVERNALE DELLA CASSIN
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delicato della salita per la friabilità e l’esposizione della roccia. Questo il tiro di corda più impegnativo della salita. Lo supero, dopo essere rimasto un attimo col fiato sospeso, faccio un respiro lungo: “ce l’ho fatta!” dico.
di Aldo Anghileri
Eravamo in gennaio del 1964. Da pochi giorni ero venuto a conoscenza che lo spigolo Sudest, via Cassin-Ratti alla Trieste, la Torre delle Torri, era stato superato ben poche volte nella buona stagione ma mai in quella invernale. Questa notizia mi aveva tolto la pace: da tempo pensavo di fare qualcosa che potesse soddisfare la mia passione alpinistica, e dentro di me sentivo che questa era un’occasione da non perdere. Ero allenato, ma le difficoltà tecniche da superare e il freddo che prevedevo intenso mi rendevano titubante. In Grignetta, fra una arrampicata e l’altra, lanciai l’idea ai miei tre amici, Pino Negri, Andrea Cattaneo e Gildo Arcelli: decidemmo di partire a fine settimana. Curammo l’equipaggiamento nei minimi particolari, e ci attrezzammo per i bivacchi. Il primo febbraio, alle ore 2.30’ eravamo in partenza: durante la strada di avvicinamento molti pensieri e timori si affollavano nella mia mente. Mi preoccupavo pensando se quello che andavamo a compiere non fosse un’impresa troppo ardua per le nostre capacità, anche perché io, non ancora diciottenne, mi sentivo poco esperto per affrontare come capocordata la mia prima arrampicata invernale fuori zona. Arriviamo al rifugio Vazzoler ed, appoggiati alla balaustra, guardiamo incantati la Trieste. Essa si erge davanti a noi maestosa e qualche rara nube evanescente la rende ancora più irreale. Giunti all’attacco della parete verso le ore 12 dello stesso giorno dividiamo bene il materiale e prendiamo contatti con la roccia, con l’intenzione di arrivare ad effettuare il primo bivacco su di una cengia, dove la via Cassin si divide dalla via Carlesso. Formiamo due cordate, composta una da me e Cattaneo e l’altra da Negri e Arcelli. Parto io, ma dopo quattro tiri di corda il buio ci coglie improvvisamente e per maggior sicurezza, decidiamo di legarci in cordata unica: procediamo con attenzione ma abbastanza speditamente. Riprendiamo a salire, affrontando il tratto (35 metri) più duro e
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TORRE TRIESTE NEL REGNO DEL CIVETTA:
ACCADEVA NELL’ANNO…
L’articolo, che ci riporta alla bella impresa di una cordata di alpinisti lecchesi d.o.c., è stato pubblicato da “Rassegna di Montagna”, annuario del C.A.I. sezione di Lecco – Sottosezione di Belledo – nel 1964. L’importante conquista invernale di cui si parla era stata realizzata ad inizio dello stesso anno in cui uno dei protagonisti, che è poi l’autore dell’articolo, passò la sua relazione alla redazione della rivista, che la propose immediatamente ai suoi lettori.
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TORRE TRIESTE NEL REGNO DEL CIVETTA:
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cordate: in testa Negri e Arcelli, seguiamo io e Cattaneo. Il freddo intenso ci paralizza ed ogni tanto ci dobbiamo fermare per scaldarci. Dopo questo tratto di arrampicata libera, arriviamo su una cengia e passo in testa io con Cattaneo; segue la cordata di Negri e Arcelli. Si prosegue per altri due tiri di corda, poi ci alterniamo nuovamente. Finalmente il sole giunto a farci compagnia ci riscalda debolmente, ma il vento sorto ci frusterà fino a sera. Dopo aver percorso una sessantina di metri in obliquo, giungiamo ad un diedro. In questo superamento, a 300 metri dalla vetta, vola Negri a causa della fuoriuscita di un cuneo, effettuando un volo di 20 metri. Prontamente tiriamo le corde ed io mi procuro alle mani scottature di una certa entità. Odo il respiro breve, mozzo dallo sforzo di Negri, ma quando mi arriva vicino la sua risata aperta ancora una volta ha il potere di darci sicurezza senza drammatizzare sull’accaduto. Arriviamo ad un terrazzo. Proseguiamo sino ad una nicchia posta a 50 metri sopra la seconda grande cengia e qui bivacchiamo per la seconda volta. Sono le 16.30’. È un bivacco disagiato di poco agevole adattamento. Alle 19, a causa dell’ubicazione del bivacco e della nebbia, attendiamo invano le segnalazioni da Listolade. Parliamo delle difficoltà da superare, dei 300 metri di parete percorsi oggi; pensiamo ai nostri cari. Ma noi siamo soli quassù, sopra di noi strapiombi. Il fatto di non aver avuto tramite le segnalazioni contatto alcuno con il mondo, mi fa sentire scoraggiato e stanco, e quasi… vorrei non essermi mai cacciato in questa impresa. Ma che cosa ci ha fatto venire qui ad affrontare soli pericoli e
fatiche? È il solito grande mistero che ogni alpinista porta in sé. Al mattino del terzo giorno alle ore 8 si riprende la salita. Prima cordata: io e Cattaneo; seguono Negri e Arcelli. Ma le mie mani, a causa dell’incidente di ieri, sono scoppiate con il freddo, e allora decidiamo di formare una cordata unica guidata da Pino Negri: formazione questa che non cambieremo più. Superiamo una fessura strapiombante, giungiamo in cengia, troviamo poi rocce abbastanza facili, fino ad arrivare su di una comoda piazzola. Sono le ore 16 e piazziamo il terzo bivacco a 100 metri dalla vetta. Alle ore 19 ci ritroviamo al nostro appuntamento con Silvio: e questa volta le segnalazioni arrivano. Il morale è alto, la vetta è sempre più vicina, al freddo ormai non si bada più, è da quando siamo in parete che ci morde: solo le mie mani mi fanno soffrire. Il giorno 4, alle ore 8, superiamo due tiri di corda difficili, e poi sentiamo che la parete s’ammoscia, la cima è vicina. Superiamo le ultime difficoltà costituite da un camino verticale vetrato e siamo in vetta. Sopra di noi non v’è più che cielo: la vetta della Trieste per la via Cassin è superata. Sono le ore 12 del 4 febbraio 1964. Sotto di noi gli strapiombi vertiginosi, intorno una pace solenne e il mio cuore che batte più forte! È la vittoria! Anche se le mani dolorano, non soffro. Un attimo di gioiosa sosta affratellati in un comune abbraccio, poi, il pensiero della discesa con 13 corde doppie da effettuare, ci fa decidere di prendere la via del ritorno. Dopo 72 ore in parete, di cui 24 in arrampicata, in lotta col freddo e con la montagna, dopo tante ore d’isolamento ci stiamo avvicinando ad altre anime vive. Ma anche questo percorso ci riserva una sorpresa fortunatamente senza conseguenze notevoli. Un sasso caduto dall’alto ci trancia netta una corda. A sera scorgiamo lassù rischiarata dalla luna imponente la Torre Trieste: e sembra alta ed inaccessibile. Ora le pene sono finite: in me e nei miei amici rimane la gioia di ciò che abbiamo fatto. Ma nel ricordo, c’è qualcosa di particolare, che mi fa sentire contento, un bivacco in parete in invernale. Che cos’è il bivacco in inverno? È un ricordo bello, che resta nell’animo incancellabile. È una notte interminabile, sonnolenza dolorosa, sofferenza, attesa spasmodica. Tutto intorno è silenzio, è notte nera. Ma questi pensieri si accavallano, mentre davanti a noi si profila Agordo; e lì c’è l’alpinista e senatore Armando Da Roit, nostro carissimo amico, che ci ospita con la sua ben nota cordialità e gentilezza. L’impresa nel regno del Civetta non resterà solo un ricordo: sarà il simbolo che illuminerà la mia attività alpinistica, mi sorreggerà nei momenti di scoraggiamento, mi terrà sempre legato alla mia cara montagna.
Note esplicative a completamento
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Sul traversino, che trovasi subito dopo la fessura breve che termina in ottima fermata, Arcelli a causa della scarsa visibilità vola a pendolo per circa 10 metri. Negri è sempre attento e pronto per ogni evenienza e ricupera il compagno tempestivamente. A causa di questo lasciamo in parete due staffe e sei moschettoni; alla fine della salita il materiale impiegato sarà il seguente: 30 moschettoni, 6 staffe, 30 chiodi e 4 cunei di legno. Quindi ci prepariamo per il bivacco. Ci piazziamo in una cengia inclinata, abbastanza comoda. Prima di sistemarci, sono le 19, riceviamo da Listolade le segnalazioni che il popolare Silvio ci fa pervenire a mezzo lampada e contraccambiamo. (Nel venire passando da Listolade avevamo parlato a Silvio di ciò che andavamo a fare e lui s’era offerto di aiutarci in tal senso). Questo fatto ha il potere di farci sentire ancora legati al mondo e non abbandonati da soli contro la montagna e gli elementi. Quindi, indossate le giacche a piuma ed infilatisi nei sacchi da bivacco, attendiamo che la notte ci porti nel mondo dei sogni e che l’alba possa poi ricondurci nella realtà. Ma prima d’addormentarci sfottiamo Arcelli per il… bel pendolo di cui prima s’era reso protagonista. E lui, vedendosi schernito, dapprima ci fulmina con sguardo cattivo e poi ci fa la… diagnosi del suo “incidente”. Dice: “attraversavo lento, con cautela, accarezzando gli appigli prima di fidarmene: sembravano sicuri, ma non lo erano affatto. Sotto i piedi, ad un tratto, il vuoto. Il resto lo sapete”. Domenica 2 febbraio, ore 8: si riprende a salire. Formiamo due
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PRIMA INVERNALE DELLA CASSIN
La Torre Trieste si trova sul versante Sud orientale della Civetta, importante gruppo dolomitico fra l’Agordino e la Valle di Zoldo, nel Bellunese.
Ricordiamo della via Cassin le prime di merito e le ripetizioni in ordine cronologico:
Prima salita: Riccardo Cassin e Vittorio Ratti, realizzata dal 15 al 17 agosto 1935.
Seconda: Gino Soldà e Ugo Pompanin, 2 e 3 settembre 1948; terza: Erich Waschak e Karl Ambichl, 26 e 27 agosto 1949;
quarta: Beniamino Franceschini e Lino Lacedelli, 6 e 7 agosto 1952.
Prima femminile: Geneviève Sonia Livanos e Georges Livanos, dal 10 al 12 agosto 1956.
Prima invernale: Aldo Anghileri, Andrea Cattaneo, Pino Negri e Ermenegildo Arcelli, dall’1 al 4 febbraio 1964.
Prima solitaria: Lorenzo Massarotto, 18 agosto 1978. Prima libera: Manolo, 1977, a vista, 6c.
Insieme alla via Carlesso, di 7a, salita sempre a vista, con questa libera Manolo introdusse, senza saperlo, il free climbing in Italia.
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Una realtà in-credibile:
Il Costa basket
Una squadra femminile che è stata persino in serie A1, e che tutt’ora raggiungi ottimi risultati in B1. Un settore giovanile di prim’ordine, con volontari preparati e tecnici competenti, tanto che le sue squadre si permettono il lusso di vincere contro squadre di città con tradizioni importanti e bacino d’utenza molto, molto più grande. Il Costa Basket di costa Masnaga è quasi un miracolo sportivo, e nello stesso tempo un magnifico manifesto promozionale per uno degli sport più interessanti e spettacolari: il basket
Analizzando ciò che è stato fatto negli anni, senza falsa modestia, possiamo affermare che l´idea che ha dato il via a questo progetto è stata sviluppata in maniera eccellente, dando la possibilità ad una gran quantità di giovani di scoprire la pallacanestro, di crescere con essa e di trovare nello sport stimoli ed insegnamenti per la loro vita futura. Centri minibasket maschile e femminile dai 4 agli 11 anni: Costamasnaga: Palestra via Verdi Oggiono: Palestra Bachelet Cassago Brianza: Palestra Oratorio Nibionno: Palestra Via Kennedy Arosio: Palestra Comunale Renate: Palestra Comunale Agonistica maschile e femminile dai 12 anni in su: Costamasnaga: Palestra via Verdi Lambrugo: Palestra Comunale Rogeno: Palestra Comunale
Sono già passati quasi 40 anni (1972) dalla nascita di questa società di pallacanestro. Una storia lunga ed intensa. Tante emozioni sono state regalate agli innumerevoli appassionati che ci hanno fedelmente seguito negli anni, tante cose sono mutate dentro ed attorno alla Polisportiva, a partire dal nome che dal 2007 diventa Associazione Sportiva Dilettantistica Basket Costa x l´Unicef. Gli obiettivi e le tematiche iniziali invece non sono mai mutate: propagandare lo sport più bello e diffuso del mondo anche in Brianza, avviare allo sport agonistico anche le giovani troppo spesso lasciate ai margini delle attività sportive dai loro colleghi maschi.
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Scrive Giovanni Lucchesi, allenatore nazionale Italiana U18, Campione europeo 2010 Io a “Costa” ho lasciato il cuore. Già, perché per tutti, questo angolo di Brianza è sempre stato “Costa”… Era giugno del 1995, credo. E la mia vita non era delle più felici, professionalmente parlando. La stagione precedente l’avevo conclusa guardando, nel vero senso della parola: esonerato da Viterbo, da una società di persone…con la p minuscola. Vagavo per i campi nella speranza di trovare la sistemazione giusta, la gente giusta, nella profonda consapevolezza che il posto giusto… non esisteva. “Costa” era vicino Como, era appena approdata in A1, con pieno merito e con un ottimo allenatore ed una grande, impagabile persona come Fritz Frigerio alla guida. Ma Como e la Comense erano vicino, al punto di influenzare le scelte, tanto da ritrovarmi io su quella panchina, forse perché amico di Corno, forse perché sponsorizzato in un modo…convincente. Non è stato facile per me capire, accettare la situazione; ne ho sofferto, che ci si creda o no… E la prima volta che mi sono presentato in palestra sentivo gli sguardi addosso, ma in quegli sguardi non ho mai avvertito, mai, davvero mai, la minima ostilità… l’allenamento filava liscio, Bicio lo conduceva, io osservavo. Mi ricordo che salutai Monica Stazzonelli, la mia, la vostra Monica, il leader; era un po’ che non ci si vedeva ed in fondo a “Costa” coronavo il sogno di allenarla dopo gli anni passati a sperare di averla dalla mia parte perché a Roma, contro Ostia, mi faceva “nero”… Quel giorno avevo la cravatta…mi ero vestito bene nella preoccupazione di fare una belle figura con Matteo; a trovare un accordo ci avevo messo 20 minuti, non di più ed ora dovevo costruire la squadra. Mica facile. Eppure venne fuori un grande
gruppo, perché a Costa c’era grande gente, con la G maiuscola. Ed io ne avevo bisogno di quella gente… ricordo il primo allenamento di preparazione atletica… era una giornata di sole, luminosa, con il verde splendente delle colline e l’aria fresca nonostante la stagione…mi sentivo vivo. E tale sono stato per un anno intero, indimenticabile…luminoso. C’era una atmosfera in quel palazzetto piccolo, ma così a misura di noi… c’era l’entusiasmo da brividi della gente, c’era la semplicità delle cose e dei gesti. L’A1? Cosa cambiava… nulla. Tutto a misura d’uomo e donna. E in quel palazzetto si faticava a vincere, a volte diventava caldissimo…e poi il “dopo”… il “dopo” allenamento con le chiacchiere con Bicio, con papà Ranieri, con il custode, con la squadra di prima divisione in cui aspiravo giocare… il ritorno a casa a Como era lieve, la strada non pesava perché pensavo al giorno dopo, al ritorno nella mia oasi…era bello lavorare a “Costa”. Io sono stato bene a “Costa” e a “Costa” ho lasciato il cuore, forse l’ultimo entusiasmo genuino, incondizionato verso il basket Io e la squadra e Bicio preparavamo le partite a casa sua, il sabato mattina, prima dell’allenamento di tiro: si portavano i cornetti, le paste, si beveva il caffè e si guardava la partita, il videotape, 27
Una realtà in-credibile:
Il Costa basket
eccezioni e non costanti. Occasione sprecata, e speriamo che sia l´unica, per crescere ancora. Con questo inizio, di quale risultato si starà mai parlando? Di questo qui... CostaMasnagaA - Cosio Valtellino 71-36 (22-12 / 37-20 / 55-29) Insomma, una vittoria di 35 punti commentata, comunque, con una bella dose di critica. E ci piace riportare un articolo recentissimo, di una delle tante vittorie, questa volta dell’under 17 femminile Dal sito http://www.basketcostaweb.com Iniziamo con un dato che mi gira nel cervello da stamattina: DECIMA finale nazionale negli ultimi DIECI anni.
come in altre realtà più illustri si diceva e si dice; noi stavamo bene così, perché in quello stare assieme eravamo serissimi, meticolosi nell’osservare avversari e le nostre mancanze; capaci di ridere proprio di noi stessi (“quanti palleggi hai fatto Vedrana? 1,2,3,4…13!”), dei nostri limiti, ma sempre coscienti dei doveri e degli obbiettivi, semplici, ma tangibili. E finite le partite andavamo tutti in sede a mangiare; le donne, le donne meravigliose di Costa preparavano piatti e pietanze e ci si sedeva a tavola, riscoprendo gioia o delusione a seconda del risultato. Eravamo una cosa sola e a “Costa” avevo pensato di fermare il mio tempo di girovago. Ho voluto e voglio bene a Bicio che ha condiviso il mio turbamento di persona in bilico, le mie passioni e le mie angoscie e delusioni. Voglio bene a lui come al fratello che non ho mai conosciuto, ma che ho sempre cercato. Ho voluto e vorrò sempre bene a questa gente di “Costa” perché sentirsi accolto e sostenuto anche nei momenti di difficoltà non è da tutti, già non è proprio da tutti. E di difficoltà ne abbiamo avute, sportivamente parlando… una serie nera ci stava facendo dimenticare di essere forti nella testa e nel cuore oltre che nelle gambe; ma reagimmo come solo le grandi squadre, le grandi persone sanno fare, tanto che alla fine conquistammo una salvezza fatta di lacrime e sudore, di volontà e ardore, di bel gioco, di passione e rispetto per il lavoro. Alla fine la squadra di “Costa” volava, sicura di sé e del suo orgoglio, spauracchio per tutti. A “Costa” ho conosciuto davvero le lacrime della vittoria, lo stordimento del vedere la gente accompagnare la corsa della tua squadra, la vibrazione possente del partecipare, dell’entusiasmo e dell’entusiasmare, la sensazione di essere sollevato in alto dal respiro emozionato di chi ti sta intorno… Io non posso dimenticare “Costa”, perché 28
Costa è stato tutto questo e molto altro; nella mia vita di adesso, come di allora c’è la pulizia dell’animo di chi ci circondava, c’è l’amicizia, c’è lo stupore del successo, c’è la simpatia dell’immagine diversa, fuori dai canoni del corformismo sportivo, c’è il trionfo della professionalità partecipe sul professionismo freddo e distaccato. A “Costa” c’era tutto per me, non avevo molto da chiedere; se non continuare la mia vita lì, perché della mia vita si trattava, non della mia carriera… Ed il dolore per la fine di quella”vita” è stato ancora più profondo, più amaro, più duro da accettare, più difficile da superare… restano i ricordi, resta l’amicizia per coloro che magari non vedo da anni ma che ho dentro, nella cassaforte dei ricordi belli e puliti; infatti a “Costa” non ho fatto mai ritorno fisicamente, ma solo con il cuore; mille e poi ancora mille volte ripercorrendo le strade, fermandomi ai semafori, parcheggiando lì, sotto il palazzetto, ancora una volta, magari nella nebbia, nell’attesa della domenica, nell’attesa della gente di “Costa”, la mia gente, se permettete… e vi prego, concedetemelo…ancora una volta. Il costa basket ha un sito seguitissimo, e il suo motore è l’infaticabile Fabrizio Ranieri, detto Bicio. Per capire la passione e l’energia che lui e gli altri tecnici trasmettono ai bambini, basta leggere di una cronaca che inizia, per la fortissima Under 13 maschile, così Brutta prestazione ieri pomeriggio dei nostri piccolotti. Poca aggressività e spirito di sacrificio difensivo, ancor meno lucidità nelle scelte offensive e meno ancora capacità di concentrazione. Molto individualismo e voglia di farsi vedere “da soli”. Pochissime le
Proseguiamo con una frasetta che ho scritto per sms al nostro Sindaco: Costamasnaga continua a LOTTARE e VINCERE coi capoluoghi di provincia! A Costa abbiamo un grande sindaco ma anche una grande Società di Basket. Difficilmente mi lascio andare a mente fredda, cerco sempre di mettere le cose nella loro importanza aldilà delle emozioni del momento. Però, capperi fritti, come possiamo sempre volare bassi con questi numeri partendo da questa realtà. Questo ennesimo successo non può che legittimare un sistema che funzione, pur partendo da una realtà complicata e difficile. Siamo in pochi, umili e lavoratori ma, capperi fritti, siamo BRAVI! Ohhh l´ho detto e lo dico a mente fredda e se qualcuno penserà che sono presuntuoso... bhè affari suoi ;) Ma di bravi in questa storia ce ne sono alcuni in particolare. Daionais che ha dedicato il suo tempo e ha dato e ricevuto amore da questo gruppo. Ha amplificato l´anima di queste bimbe, ha amalgamato e unito, motivato e scremato. Un lavoro perfetto. Arturone che in silenzio ha moderato il Coach, ha smussato gli angoli grezzi, le ire, le istintività, saldando con pazienza e piacere i rapporti nel gruppo. Nel frattempo ha dispensato consigli di
gioco, di esperienza vissuta che valgono oro. Paoletta, al solito e più del solito, ha risolto e organizzato, tenuto alto il morale e lavorato per creare il piacere di stare insieme. Un lavoro prezioso, silente e quasi mai riconosciuto. E poi le bimbe... quando 5 anni fa questo gruppo è nato (presenti a tutt´oggi Basa, Carlaz, Sendi e Yossi) era un informe massa con motivazioni eterogenee. Negli anni abbiamo costruito, inserito, non senza qualche scivolone qua e là, ma pian piano facendo crescere la consapevolezza che “ci siamo anche noi”. 2 anni fa la prima sorpresona. Becchiamo l´interzona e usciamo dalle finali nazionali per differenza canestri proprio contro Ancona (pur avendola battuta). Ed ecco che finalmente gli anatroccoli, che spesso hanno vissuto di luce riflessa del gruppo ´93, crescono e si trasformano in cigni al termine di una stagione difficile, nata con l´abbandono di Gaietta, gli infortuni di lunga degenza di Basa e Kia ma l´ingresso di Balù, il successivo abbandono di Fogghi e i ripetuti infortuni di Merièn. Ogni disavventura ha creato motivazioni ulteriori, il gruppo è diventato un granito, le individualità sempre e solo al servizio della squadra. Un meccanismo perfetto che forse non riesce a esprimere una pallacanestro da urlo ma che butta il cuore oltre l´ostacolo e ci prova e ci riprova fino a quando ci riesce. E IL FUTURO? Il futuro si cerca di programmarlo partendo come al solito dal settore giovanile. Per il ramo maschile, grazie ad un recente accordo con Bluceleste Lecco (società creata da più società della provincia per fare attività di eccellenza), i prossimi anni vedranno il Bk Costa impegnato nella formazione di due gruppi per annata con il duplice obiettivo di formare atleti per la Bluceleste e permettere però comunque a tutti di vivere la pallacanestro. Per il ramo femminile l’obiettivo è confermarsi con la voglia di migliorare: la FIP ( Federazione Italiana Pallacanestro) sta portando avanti un programma di riforme epocale, e anche per questo dobbiamo tutti capirne gli aspetti. E’ certo, però, che 29
dai nostri testimonials
Una realtà in-credibile:
Il Costa basket
Chiara Gianola
TROFEO “DARIO E WILLY”
Stefano Butti
Aprile 2011: l’Under 13 maschile perde solo in finale, a Fertilia, contro la Lottomatica Roma.
baseremo tutto sull’incremento quantitativo prima che qualitativo del settore giovanile visto la crisi vocazionale generale italiana (perdita costante di tesserate negli ultimi 20 anni) e su quella base creeremo obiettivi per la prima squadra. La festa dura poco perchè domani si ricomincia, ma l´emozione di felicità e appagamento resterà per sempre.
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RINGRAZIAMENTI Tutto questo è possibile non solo grazie alla passione, alla preparazione e alla buona volontà di dirigenti e tecnici ma anche alle Imprese che hanno creduto inn noi. In particolare la B&P autoricambi di Barzago e MIA pannelli e legnami di Figino Serenza, oltre ad un gruppo nutritissimo di piccoli aiuti. Se qualcuno volesse sposare il nostro piccolo miracolo e le nostre idee può contattarci per mail, 006237@spes.fip.it . Saremo lieti di accogliervi nella nostra famiglia
Domenica 1 maggio 2011 si è svolto a Valmadrera il trofeo “Dario & Willy” una skyrace di 14 km. circa e più di 1300 metri di dislivello. E’ una delle prime gare di skyrunning della stagione e i patiti di questa disciplina dopo un lungo inverno hanno voglia di mettersi alla prova e testare le gambe. Per questo motivo ogni anno richiama un buon numero d’iscritti. La gara parte dal centro di Valmadrera e s’inerpica su sentieri boschivi e mulattiere salendo fino al rifugio S.e.v. in località Pianezzo passando per i Corni di Canzo e buttandosi nella discesa che porta fino all’arrivo di S.Tomaso. E’ un percorso abbastanza tecnico soprattutto in discesa, che può rivelarsi molto insidiosa se dovesse essere bagnata come nella precedente edizione; quest’anno invece ci è stata regalata una splendida giornata di sole che ha reso felici organizzatori, atleti e supporter al seguito. Nel pomeriggio si sono svolte le premiazioni, per la cronaca ha vinto il beniamino di casa Stefano Butti chiudendo col tempo di 1 h 26” 20 seguito da Davide Trincavelli (1 h 27” 26) e al terzo posto il valtellinese Dario Songini (1 h 27” 41) grande pioniere di questa disciplina e ancora fortissimo atleta! In campo femminile la vittoria è andata a Manuela Buzzoni col tempo di 1 h 55” 42 seguita da Carolina Tiraboschi (1 h 57” 51); come l’hanno scorso anch’io ho preso parte a questa competizione piazzandomi con un ottimo terzo posto (1 h 59” 05) sperando che sia di buon auspicio per tutta la stagione di skyrunning. Chiara Gianola 31
Libri
TRA TECNOLOGIA E PASSIONE Pinarello, e uno sguardo dietro le quinte del ciclismo
La Pinarello nasce per opera di Giovanni Pinarello alla fine degli anni Quaranta a Catena di Villorba. Una storia lunghissima di cui ci piace ricordare alcuni momenti indimenticabili per tutti gli appassionati di sport 1981, tra i numerosi successi spicca la doppietta Vuelta di Spagna e Giro d´Italia del grande scalatore Battaglin che si consacra così uno dei big del ciclismo internazionale. Per la già storica ditta Pinarello, un evento che la lancia definitivamente sulla ribalta internazionale, spazio che si è ulteriormente accresciuto grazie anche al legame che si è stabilito con il campione del ciclismo degli anni Novanta, ovvero lo spagnolo Miguel Indurain. La possibilità di poter sponsorizzare la squadra in cui milita il campione, ha fatto aumentare notevolmente la notorietà del nome Pinarello in tutto il mondo, proprio in virtù delle imprese compiute dallo spagnolo: cinque Tour de France vinti, due Giri d´Italia, un´Olimpiade, Mondiale a cronometro, Record dell´Ora, e tanti altri successi in campo internazionale. Il fenomeno Indurain non è comunque isolato e importanti e numerosi successi vanno condivisi con altri campioni degli anni Novanta: Chioccioli (Giro d´Italia del 1991) e Cipollini, il velocista più celebre e famoso in campo internazionale, sono due dei ciclisti che hanno contribuito notevolmente alla popolarità del nome della casa. Nel 1996 l’accordo con la tedesca Telekom permette di prolungare le vittorie al Tour de France: il passaggio di testimone da Indurain a Riis al Tour di quell´anno segna la fine dell´era dello spagnolo e l´inizio della supremazia Telekom in campo mondiale. Il danese strapazza tutti al Tour di quell´anno e si prospetta alla finestra il giovane Ullrich, promettente cavallo di razza della ex Germania dell´Est, pronto ad ereditare l´effigie di campione di fine millennio. Il ´98 vede sempre Banesto e Telekom protagoniste nelle grandi corse a tappe e nelle classiche di primavera: Zabel vince per due anni consecutivi la Milano Sanremo; Olano primeggia alla Vuelta e conquista il Campionato Mondiale a Cronometro; Ullrich giunge secondo a Parigi dietro al pirata Pantani. Il 1999 vedrà alla ribalta con la Pinarello un altro grosso campione della strada ovvero Alex Zulle che correrà con la squadra spagnola Banesto. Il 2000 è anno Olimpico e la Pinarello coglie la tripletta storica nella prova su strada, la prova più importante: Ullrich, Vinokourov e Kloden tutti del Team Telekom si piazzano ai primi tre posti e la Pinarello aggiunge il 2º oro Olimpico su strada. Nel 2000 altri importanti successi arrivano sempre dai tedeschi con Zabel che rivince la Milano-Sanremo, la maglia Verde al Tour de France e conquista la Coppa del Mondo. Nuova formazione, invece, in campo nazionale con l´entrata della Fassa Bortolo che si conferma come una delle squadre più forti al mondo. Gli anni succe3ssivi vedono l’arrivo, sulle bici Pinarello, di campioni come Michele Bartoli, Francesco Casagrande e Ivan Basso.
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Jan Ullrich, vincitore del Tour de France 1997 e della Vuelta 1999 33
TRA TECNOLOGIA E PASSIONE Pinarello, e uno sguardo dietro le quinte del ciclismo
Fausto Pinarello
Ma la vera rivoluzione avviene nel settembre 2002 e si ripercuoterà sulle strade del Giro d´Italia 2003 con Alessandro Petacchi: con la nuova Dògma realizzata in magnesio. Questa bici raggiunge la massima notorietà e visibilità grazie al record di vittorie ottenute da Alessandro Petacchi ai Tre Grandi Giri di quell´anno: 15 vittorie di tappa, sei al Giro d´Italia, quattro al Tour de France e cinque alla Vuelta.
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OGGI, intervista con Fausto Pinarello Sono io il primo vero tester delle nostre biciclette, la mia passione per la bici è a 360 gradi e naturalmente quello che ci dicono i campioni deve anche essere verificato per i ciclisti normali. Che non hanno la stessa potenza, la stessa aereodinamica, lo stesso peso. Certi particolari tecnici non possono essere trasportati a tutti i modelli, perché l’esasperazione di certe soluzioni può rendere meno maneggevole una bici. Dove le testate? Abbiamo una galleria del vento virtuale, la CFD, e qualche volta usiamo la galleria del vento della Augusta, la produttrice di elicotteri e aerei.. C’è stato tanto miglioramento tecincio, sulla bici? Quanto è quantificabile, in secondi, il pogresso teconologico? Ah, anche 3-4 secondi in meno ogni pochi km, il metodo del calcolo degli elementi finiti permette una progettazione mirata al particolare, e con la CFD verifichiamo il tutto. E come elementi di fabbricazione? Il carbonio ci arriva dal Giappone, è il miglior carbonio possibile.
E naturalmente ha dato tanto alla leggerezza. Ma il regolamento impone dei vincoli, come nelle moto o nelle auto? Certamente. Anzitutto, per questioni di sicurezza, le normative, fin dal ’96, permettono di intervenire solo sugli elementi davvero strutturali. E poi certe soluzioni non vanno comunque bene per tutti, tieni conto che l’aereodinamica dello stesso ciclista influenza tantissimo, basta correre con le ginocchia di un paio di mm spostate che tutto ne viene influenzato.. E poi certe soluzioni devono
essere diversificate, lo scalatore e il passista sono diversissimi, il discesista ancora di più. Avete avuto e avete tutt’ora grandissimi atleti. Chi ricordi con maggior piacere? Miguel, senza dubbio. Miguel Indurain. Un signore. Un atleta anche dopo, perché si è veri atleti quando si smette di essere atleti. Un colosso di 78kg a peso forma, alto quasi 190 cm. Gentile, squisito, professionista. Lui è stato il numero uno come intelligenza e valore tecnico. Forse Contador sta diventando come lui. 35
Milano
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Lissone (MB)
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