28 minute read

Giovanna Motta Donne in un mondo di uomini. Alla ricerca di uno spazio spirituale, culturale, politico

Donne in un mondo di uomini

Giovanna Motta

Advertisement

In un mio lavoro di alcuni anni fa ho riunito il risultato di ricerche precedenti in cui confluivano studi condotti nei principali archivi italiani e stranieri, tutti incentrati sulla storia delle donne o, come si dirà meglio in seguito, “di genere”. Nel corso del tempo ho raccolto materiali desunti dai – pochi – documenti in cui figuravano le donne, escluse per secoli dalla vita sociale, economica, politica. Per lungo tempo le donne non hanno incarichi pubblici, non svolgono professioni, e dunque lasciano poche tracce, malgrado partecipino in vario modo a ogni attività a fianco degli uomini, nelle pieghe delle diverse realtà territoriali. L’unico spazio loro riconosciuto è quello della famiglia, sostituibile solo con la vita monastica alla quale le giovani vengono destinate anche in assenza di una reale vocazione, mortificate nelle loro aspirazioni, spesso preda di meccanismi di potere intesi a mantenere all’interno dei conventi le dinamiche di potere del mondo esterno (Duby-Perrot). Ma nelle società di Antico Regime, la funzione della donna assume particolare significato soprattutto nell’ambito delle strategie matrimoniali dove il gioco delle alleanze familiari rappresenta l’elemento essenziale per la costituzione e conservazione di gruppi di parentela per la supremazia sul territorio. L’istituto del matrimonio è il solo dal quale possano derivare figli legittimi, dunque le donne diventano oggetto di scambio tra gruppi dominanti – che tessono una rete capace di creare rapporti convenienti tra famiglie – assicurando così la continuità della stirpe garantendo la discendenza e consentendo il mantenimento dell’assetto della proprietà attraverso la successione dei figli maschi che ha il compito di generare, diventando un vero anello di congiunzione all’interno del rapporto produzione-riproduzione (Levi-Strauss). Nelle classi elevate, evidentemente, le donne hanno maggiori possibilità di azione rispetto a quelle di altre fasce sociali, ma in virtù di un privilegio e non di un diritto, quando la società attribuisce loro un ruolo “politico” in ragione di particolari esigenze, come per esempio quando si impongono soluzioni intese a salvaguardare gli interessi patrimoniali delle classi al potere, in qualche successione in cui manchino un figlio o un cugino maschio, ma è soprattutto

Giovanna Motta

nel matrimonio che si mostra l’utilizzazione più dura delle donne, destinate quasi sempre a una esistenza triste, soggette a mariti violenti, a gruppi familiari spregiudicati, mandate in paesi stranieri dove per tutta la vita saranno ostacolate e considerate estranee, chiamate con disprezzo “l’italiana” (come Caterina de’ Medici) o “l’austriaca” (come Maria Antonietta d’Asburgo). Il ruolo del maschio e la successione maschile nei beni perdurano a lungo, anche fra i non nobili, cittadini, artigiani, contadini, in una molteplicità di combinazioni che non esclude realtà diverse in cui, magari eccezionalmente, si possono registrare persino situazioni vantaggiose ritagliate in qualche testamento per le femmine, forse perché erano state particolarmente solerti nell’assistenza dei propri congiunti o per altre ragioni che ci sfuggono, probabilmente attinenti agli interessi della famiglia. Ma sono casi sporadici, l’unità familiare si fonda proprio sulla subordinazione delle femmine ai maschi e sulla consistenza patrimoniale che in genere passa da una generazione a un’altra attraverso questi ultimi, salvo la quota spettante alla donna come dote – spesso promessa e non pagata – o consistente in qualche bene patrimoniale minore proveniente dalla madre. Per molto tempo gli uomini sono artefici di una storia di oppressione che rende amara la vita delle donne, ignorate e sfruttate, calunniate, perseguitare fino alla soppressione fisica quando in qualche modo contravvengono alla condizione sottoposta alla quale sono state relegate. La loro rivolta contro la feroce discriminazione che sono costrette a subire porterà altre ingiustizie: denunciate come streghe e mandate al rogo dovranno affrontare nuove vessazioni e tanto dolore, fisico e psicologico, in una lunga scia di terrore che dall’età medievale al secolo dei Lumi ha insanguinato il percorso delle donne in seno a società sessuofobiche dominate dal potere degli uomini e da fasi oscurantiste delle gerarchie ecclesiastiche e dei loro tribunali. (Secondo lo storico inglese Trevor-Roper non è possibile comprendere il Cinquecento senza l’analisi della “grande follia delle streghe”). E ciò malgrado la donna abbia il grande compito di madre, “custode amorosa e nutrice fidata… che però viene cacciata come bestia feroce, inseguita in ogni angolo di strada, umiliata, percossa, lapidata, gettata sui carboni ardenti” (Michelet). Sulla triste condizione femminile, nel corso del tempo, comincia ad accendersi qualche spiraglio di luce, in sintonia con il più generale andamento del pensiero politico in seno al quale si pone il dibattito filosofico sul principio di uguaglianza. Lavori “pionieri” dissodano il terreno di quelli che verranno definiti women’s studies e cominciano a mostrare la punta dell’iceberg, presentando donne per qualche verso eccezionali che cercano di assumere ruoli importanti attraverso cui poter affermare le proprie capacità. Le società tradizionali mostrano una notevole ostilità nei confronti dell’uguaglianza di genere e vi si oppongono, anche con l’arma dell’ironia (basti pensare alle opere di Molière che costantemente volge la sua satira contro le femmes savantes). La risposta dà corpo alla feroce misoginia degli uomini, depositari del potere politico e culturale, ma anche della Chiesa la quale usa la sua forza contro le donne, che in fondo ritiene responsabili del peccato originale, pur dovendo tener conto dell’importante

Donne in un mondo di uomini

ruolo della procreazione loro riservato dalla biologia, cui viene attribuito un valore sacrale. Di fatto, tra Quattro e Settecento, la caccia alle streghe è costante, anche se nel tempo, quando dalla spiritualità del Medio Evo si passa al Rinascimento “laico”, per le donne si apre qualche spazio, specialmente nelle fasce sociali più alte in cui sembrano maggiormente emancipate, non a caso possiamo apprezzarle meglio nelle fonti che in questi casi raccontano le loro vite privilegiate. La vita di corte favorisce i requisiti della bellezza e dell’eleganza che hanno un grande peso nell’ideologia rinascimentale, quando si intravede un nuovo corso che consente loro di conquistare qualche traguardo, innanzi tutto nello studio, della storia e della letteratura, delle lingue, del canto e della danza, persino della filosofia e della teologia. Le signore altolocate dominano a corte, partecipano agli intrighi, dettano legge nella moda, dimostrano capacità intellettuali e politiche, si circondano di letterati, di pittori, di filosofi, per affinare le loro qualità. Nelle fonti è possibile registrare il loro tentativo di emergere, la loro forte domanda di esistere che passa innanzi tutto attraverso il desiderio di imparare e appropriarsi di strumenti culturali che possano elevarle da una condizione subordinata, schiacciate dalla superiorità maschile. L’opera denigratoria nei loro confronti è feroce, vengono accusate anche come avvelenatrici, così crescono le storie maledette di donne che hanno sfidato il sistema, che sono diventate protagoniste in un mondo di uomini che non vuole riconoscerle e accettarle come mostrano le tante storie maledette di sovrane e regine, da Lucrezia Borgia a Caterina de’ Medici. Il legame tra gli antichi saperi e il mondo della fede si spezza. Ma anche fra la gente comune, è sufficiente che una donna, con semplicità e devozione, cerchi di dare sollievo alle pene di un’altra per essere mandata al rogo, così da ristabilire un confine sociale al di fuori del quale le donne non devono andare. Un ampio dibattito, che ha visto impegnati antropologi e storici nel confronto delle rispettive teorie, svela l’ampia articolazione del tema, dalla individuazione del termine di stregoneria alla sua essenza intrinseca, alla funzione (Douglas e altri), alla connessione delle accuse in ragione del contesto politico-sociale delle diverse epoche. L’età della Controriforma farà di tutto per restaurare il progetto egemonico della Chiesa sul mondo cristiano, applicando un’ampia accezione dell’accusa di stregoneria che il delirio sessuofobico riserva non solo ma specialmente alle donne. Processi sommari e torture consegneranno un enorme numero di donne nelle mani dei carnefici, ancora fino all’ultimo rogo del 1782 in Svizzera (Odifreddi), le donne vengono accusate di ignobili azioni diaboliche. Alle pratiche magiche esercitate dalle donne credono tutti, poveri e ricchi, signori e contadini, «la stregoneria non è più un mancamento dell’anima, ma il frutto di un’alienazione sociale» scrive Roland Barthes nel suo saggio introduttivo a La Sorcière di Michelet, gli aneddoti sono infiniti, raccontano di piccole storie concluse drammaticamente e mostrano anche l’ampiezza del fenomeno, la capillarità della persecuzione “ufficiale” dell’Inquisizione ma anche le caratteristiche della mentalità collettiva che attraversa i secoli e le classi. La superstizione è presente ovunque, alle donne vengono attribuiti

Giovanna Motta

riti segreti, raduni notturni, cerimonie diaboliche che fanno di loro, colpevoli anche di usare sostanze velenose e magiche, le vere nemiche dell’ordine costituito. Neppure le religiose nei chiostri si sottraggono al triste destino, anzi l’accusa di complicità con Satana è ricorrente, le monache sono spesso incolpate di incontri carnali con il diavolo, sempre perché nella gestione superstiziosa della religione la donna è colpevole di attivare il meccanismo della lussuria e dunque deve essere sempre tenuta a freno, senza dire poi che alla denuncia di stregoneria contribuiscono non poco gelosie personali, invidie, ambizioni che hanno gioco facile nella competizione che nasce tra le consorelle per la conquista di una posizione preminente in seno ai conventi. Le donne – si dice – per il loro fragile spirito, sono facile preda del Maligno e, indotte da quello, possono provocare ogni male, cagionare la siccità, distruggere i raccolti, scatenare una tempesta, affondare una nave, dunque devono essere processate e condannate a morte. In tale azione ogni atteggiamento sospetto diventa eresia, allora le guarigioni praticate dalle donne che con le loro erbe curano il corpo e lo spirito, un mal di pancia come il malocchio – lo raccontano bene gli specialisti di discipline demoantropologiche – diventano massimamente eversive e vanno combattute e distrutte anche fisicamente. Ma le realtà della vita quotidiana sono molteplici, le individualità femminili infinite, la condizione delle donne è estremamente diversa a seconda che vivano nei grandi centri urbani o nei villaggi periferici, che appartengano ai ceti dominanti o alle classi popolari. L’Illuminismo si incarica di proporre in termini razionalistici il principio dell’uguaglianza per cambiare l’ordine politico ed estirpare dalle società gerarchie di classi e disuguaglianze tra i generi stigmatizzando ogni discriminazione e intolleranza. Con la Dichiarazione dei diritti dell’uomo (26 agosto 1789) si giunge alla concettualizzazione del principio di uguaglianza, e le donne cominciano ad apparire davvero, finalmente favorite dal cambiamento del pensiero politico e dalla profonda trasformazione delle società alla quale partecipano in maniera attiva militando nel movimento giacobino. Nel 1792 Olympe de Gouges chiede al governo rivoluzionario diritti civili e politici per le donne, e Mary Wollstonecraft, sullo stesso tema, pubblica in Inghilterra il suo libro, considerato l’incipit del movimento femminista. Allora si avvia veramente il lungo processo di rinnovamento culturale che porterà a una diversa considerazione della donna, anche se ancora per molto tempo permarranno condizioni assai diverse in seno a contesti fortemente gerarchizzati in cui i primi cambiamenti sono limitati alle élites. Lo stesso Géorge Duby – che degli studi di genere è stato un creatore e un anticipatore costituendo assieme ad altri “illuminati” una significativa avanguardia – arrivava a dubitare che la Rivoluzione francese avesse cancellato del tutto lo schema sociale dell’Ancien Regime sopprimendo la disuguaglianza fra gli uomini. E infatti ancora a lungo permarranno condizioni molto diverse tra fasce sociali, tuttavia comincia un nuovo corso, le donne hanno conquistato l’accesso alla cultura e alle arti, i primi filosofi contestano la considerazione che le vede inferiori agli uomini sostenendo che questo sia un dato culturale ma non reale (come affermava il filosofo Jean Bodin), anche se si

Donne in un mondo di uomini

dovrà attendere il secondo Ottocento per la formazione di una nuova mentalità in cui la battaglia per il riconoscimento dell’uguaglianza giuridica viene vinta, sia pure dopo un’azione tenace e varie forme di protesta, anche dai toni forti. Nel 1880, nei consigli municipali e nei consigli di contea, le suffragette inglesi conquistano il diritto di voto, poi dall’Inghilterra e dagli Stati Uniti il movimento si estende agli altri paesi europei. Dopo queste prime affermazioni, la situazione cambia veramente nel primo Novecento, quando a causa della guerra gli uomini non sono disponibili e per mandare avanti la produzione si è costretti a far lavorare le donne nelle fabbriche. È un indubbio avanzamento, ma in un certo senso crescono le contraddizioni: da una parte la donna comincia a uscire dai ruoli tradizionali, dall’altra verrà esaltata proprio nel suo ruolo di fattrice come madre di futuri soldati. È a partire da quel momento, tuttavia, che si giunge realmente all’elaborazione del concetto della diversità di genere come valore, che le società governate dagli uomini fino a quel momento non avevano ancora accettato. La donna comincia ad assumere un peso in qualche modo politico, comincia a fare politica attiva, milita nelle fila del partito socialista costruendo un altro importante segmento del suo processo di liberazione. Il legame femminismo-socialismo costituisce una parte rilevante del movimento che nasce dalla militanza ma che tuttavia non esaurisce tutti gli aspetti del complesso fenomeno della “questione femminile”. Con la precisazione tuttavia che, secondo una parte della storiografia specializzata sul tema, non bisogna usare categorie analitiche classificatorie che appartengono ad altre epoche, e che dunque correttamente non si dovrebbe neppure parlare di marginalizzazione delle donne, poiché il concetto appartiene a epoche successive in cui si guarderà ai diritti delle minoranze, etniche, sociali, sessuali (Zemon Davis), perciò si può solo dire più propriamente che, pure in presenza di un conflitto permanente fra i sessi, la storia delle donne nel racconto diacronico sembra svolgersi in un mondo “separato” da quello degli uomini.

La condizione femminile risente del carattere delle società, del loro avanzamento o della loro sostanziale staticità, diventa un indice di valutazione del processo di modernizzazione mostrando un “andamento ciclico dell’esclusione” (Groppi). La differenza di genere, piuttosto che una storia minore, si può leggere per l’età moderna come uno degli indici del processo di modernizzazione, per divenire nell’età contemporanea, uno degli aspetti nei quali si sostanzia il più ampio contesto della differenza di classe. Basti pensare al comportamento eversivo di donne altolocate, nobili o parvenue, mogli e amanti di uomini potenti, donne di spettacolo, che viaggiano, vanno a cavallo, guidano un aereo, hanno condotte scandalose che nessuno deplora nel milieu dorato della Belle èpoque come nella narrativa scottfitzgeraldiana. Ma sono solo favole colorate, accanto alle storie in bianco e nero delle donne “comuni”. Per scandire le diverse epoche con il loro portato ideologico e mostrare come la storia delle donne non sia un percorso lineare ma un campo di battaglia in cui si può vincere un assalto per essere respinte subito dopo, forse è utile raffigurare in maniera schematica alcune tipologie di donne e raccontare

Giovanna Motta

le loro vite che mostrano quanto sia difficile per loro conquistare degli spazi per affermare le loro capacità. Attraverso questi archetipi è possibile tracciare vite diverse ma singolari in cui la specificità della funzione ha reso più ampio lo spazio spirituale, culturale, simbolico di quelle donne.

Sante, mercantesse, regine. Se le donne destinate a Dio sembrano al riparo delle brutture del mondo, le famiglie che le hanno chiuse nei monasteri spesso continuano a esercitare, per il loro tramite, il proprio potere, edificando monasteri, acquistando terreni, collegandosi a ordini religiosi influenti, gestendo gruppi così forti da ostacolare o favorire l’elezione di un pontefice. Al di là delle qualità morali, dunque, a prevalere è sovente lo spirito pratico che segna anche il passaggio dalla spiritualità medievale al dinamismo e agli affari del Rinascimento più laico. Il destino di una donna monacata per forza non si esaurisce perciò negli obblighi della fede ma può diventare la testimonianza emblematica di una delle poche realizzazioni possibili di una donna. È utile ricordare che queste monacazioni sono collegate al vasto movimento quattro-cinquecentesco in cui si manifesta una netta tendenza all’aumento degli ordini religiosi imputabile a ragioni complesse e diverse ma riconducibile essenzialmente alla crescita demografica. Nel tempo, infatti, nel circuito dei matrimoni, le donne sono “in esubero” e le famiglie della classe dominante sempre di più avviano le figlie alla vita monacale per non pagare una ingente dote a un eventuale marito - come è accaduto per secoli – secondo un meccanismo che ha contribuito non poco al loro impoverimento. In tal modo i conventi si riempiono e si moltiplicano per far fronte al numero crescente di religiose (Zarri), che però tali non sono. O comunque non sempre. E la storia che ho raccontato altrove, la storia di una donna della Messina del Quattrocento – Mascalda – che coltiva l’ambizione di fondare un monastero, un progetto davvero ambizioso ma che porterà a termine usando le risorse di cui può disporre in quanto figlia di un ricco mercante di seta, superando le difficoltà delle procedure necessarie e ottenendo il consenso da parte del pontefice (Motta 2003). Sa trovare così un proprio, ampio, spazio d’azione, possiede anche un certo grado di istruzione, ha delle indubbie capacità caratteriali e come terziaria francescana comunica con le altre sedi dell’ordine, e dunque è informata delle tendenze che maturano altrove. Nei suoi tratti distintivi si costruisce un sapiente equilibrio di sacro e profano che pur cercando la gloria di Dio non le fa trascurare le cose terrene, in tal modo raggiunge la sua finalità ultima, quella di far diventare badessa di quel monastero che ha saputo fondare la figlia Eustochia che sarà venerata prima come beata e infine come santa. Che cosa rappresenta per Mascalda il nuovo monastero? Nato da un’intuizione, deve corrispondere alla realizzazione di un’idea che tende verso un modello di vita in cui convergono devozione, tensione spirituale, fede religiosa, ma anche la realizzazione di un obiettivo che solo in parte è religioso, poiché a Messina, città mercantile aperta sul mondo, gruppi familiari e ceti emergenti mostrano un forte desiderio di promozione sociale che di solito perseguono procurandosi cariche pubbliche e consistenza economica. Mascalda trova nel suo progetto la spinta per emergere. Trasferire in peri-

Donne in un mondo di uomini

feria una realtà conventuale ispirata dalla cultura religiosa dominante che continua a vedere nella vita monastica il livello più alto di perfezione può essere estremamente gratificante per una donna che indirizza la propria spiritualità e quella delle figlie verso un obiettivo al tempo stesso simbolico e concreto. Lo spirito che la anima è quello che all’epoca circolava nell’Ordine pure in altre regioni, e per di più la donna nella sua città può godere di un circuito di relazioni che le consente di ottenere permessi e licenze, districandosi tra i lacci della burocrazia locale e vaticana per impiegare le sue risorse in quell’impresa. I documenti d’archivio, specialmente quelli commerciali, ci introducono a un altro tipo di donna che appartiene a una famiglia mercantile in cui si fondono insieme azienda e vita privata. L’esercizio del commercio comporta lo stretto rapporto tra le varie sedi delle Compagnie affinché ciascuna sia a conoscenza delle attività dell’altra, dunque le scritture relative prevedono da una parte i libri contabili che permettono di essere al corrente, in ogni momento, della consistenza dell’azienda e dall’altra la corrispondenza mercantile tra la sede principale e le filiali della società. Non si sottraggono a tale pratica le donne, che di solito intrattengono una fitta corrispondenza con i mariti lontani: l’interesse principale è quello di informarli, durante la loro assenza, di quanto accade ogni giorno in casa e nel lavoro e di rassicurarli che gli affari siano seguiti con la massima attenzione. Le donne sono in grado di mandare avanti l’attività comprando e vendendo, controllando impiegati, garzoni, famigli, schiavi, provvedono al rifornimento delle merci, seguono l’andamento dei mercati, insomma esercitano una valida collaborazione e di tutto rendono conto per lettera, inserendo anche notizie e commenti su questioni di diversa natura, il pericolo di un conflitto imminente come la successione di un sovrano o un matrimonio reale. Si mostrano informate, pronte ad affrontare ogni evenienza senza eccessiva preoccupazione. Non è senza importanza che, con l’umanesimo, intellettuali come Luca Pacioli (1447-1517) concorrano con le loro opere a una prima diffusione della scienza matematica e tale divulgazione facilita l’accesso delle donne all’apprendimento, prevalentemente di quelle che prendono parte assieme al padre o al marito al lavoro impostato in ambito familiare. La partecipazione della donna all’economia urbana dell’età preindustriale è un fatto acquisito, anche perché lo sviluppo delle manifatture richiede mano d’opera accurata e professionale e le donne sono costantemente inserite nei processi produttivi, nel settore della lavorazione della lana in cui le tessitrici sono più numerose degli uomini, come in quello della seta dove la presenza femminile è massiccia specie per quanto riguarda l’allevamento dei bachi da seta (attività che ha una lunghissima durata e ancora nel Novecento continua a rappresentare un’integrazione al reddito della famiglia contadina). Davanti ai telai a mano, dalle Ande alla Calabria, si trovano soprattutto filatrici e tessitrici, incannatrici, orditrici di panni, anche il posto più elevato è occupato dalle donne, le “maestre” che disegnano i tessuti o tagliano le stoffe, che per lo più vengono dalla Francia. La loro presenza nelle diverse fasi della lavorazione le fa uscire dal nulla, le fa “apparire” attraverso la registrazione dei loro salari,

Giovanna Motta

mentre altre commerciano in seta, qualcuna fa la “sartoressa”, molte balie offrono “ la popa per uno anno”, e intanto prendono in affitto una casa o una bottega, pagano la pigione, comprano e vendono, “molte mogli e figlie di mercanti-tessitori, divenute orfane, dirigono la bottega familiare” (Le Goff), dunque è possibile trovare i loro nomi nei libri di conto dei mercanti – dalla Toscana alla Sicilia, da Lione ad Anversa – ma è soprattutto nella corrispondenza che le donne sono protagoniste. Le lettere mercantili palesano a pieno il mondo delle donne, ciò in cui credono, ciò che conoscono, le modalità secondo cui si svolge la loro vita giorno per giorno, indicano che hanno imparato a scrivere o almeno a leggere ma anche a far di conto e grazie a ognuna di tali attività, anche separatamente l’una dall’altra, in che misura abbiano saputo costruire una qualche libertà individuale conquistandosi la fiducia del marito e di conseguenza ottenendo da quello un’ampia delega e un consistente margine di discrezionalità nel mandare avanti l’azienda familiare e la casa. Anche se non è dato parlare di un rapporto alla pari, si può registrare una certa considerazione di cui godono, dalla quale deriva una sia pur parziale autonomia, anche se l’ultima parola spetta ancora agli uomini. In un mio lavoro degli anni passati ho raccontato la storia di Margherita Datini, moglie di uno dei più importanti mercanti dell’età medievale, che per tutto il tempo del loro matrimonio è la più stretta collaboratrice di fiducia del marito, Francesco di Marco, che non potrebbe farne a meno per la stima che ha delle sue indubbie capacità. Il carteggio fra lei che abita a Prato – sede principale dell’azienda, dove Francesco ha edificato un solido e importante palazzo, riccamente arredato e di continuo arricchito da ulteriori interventi – e il mercante che si sposta fra le altre sedi della Compagnia, Pisa, Firenze, Avignone, Maiorca, racconta le molte incombenze della donna, come padrona di casa ma anche come collaboratrice preziosa negli affari. Malgrado si tratti di un’azienda di grande dimensione che ha delle proiezioni esterne, in Spagna come in Oriente (Melis), il mercante confida nella moglie per mandare avanti gli affari e al tempo stesso gestire le dinamiche familiari («fanne che ti pare… provedi come ti pare… pensa a fare quello credi che bene sia… piacemi che ttu governi la casa per modo tti sia onore»). Ma anche quando la definizione del rapporto tra coniugi è di segno positivo come in questo caso, l’ultima parola spetta sempre al marito, pure in ambienti in cui – come le città mercantili – le esigenze delle attività commerciali inducono padri e mariti a fidarsi delle loro donne, preparandole al lavoro che torna utile all’azienda e alla famiglia. In generale, però, non manca chi le considera “di poco cervello”, come scriverà Benedetto Cotrugli (1416-1469), diplomatico alla corte napoletana di re Alfonso e uomo d’affari, che nel suo Libro de l’arte della mercatura dedica alcune pagine al profilo che devono avere le mogli dei mercanti.

Un’altra tipologia di donne che è stato possibile studiare è quella delle regine perché per il ruolo che rivestono lasciano tracce nei documenti che arrivano siano a noi. Di certo la loro è una condizione privilegiata e a prima vista le loro vite sembrano rassomigliarsi, le logiche di potere delle società di Antico Regime le utilizzano

Donne in un mondo di uomini

nelle strategie della politica internazionale usandole in modo spregiudicato nelle alleanze matrimoniali. Le nozze con un sovrano, la nascita di un erede, un viaggio ufficiale, sono tutte occasioni in cui la loro condotta è rigidamente formalizzata da regole prefissate, da protocolli che attribuiscono un significato politico alle loro azioni, nelle cerimonie ufficiali, nelle feste, nelle visite ad altri sovrani e in ogni altra occasione rivolta a concludere un patto familiare, una nuova alleanza, la risoluzione di un conflitto. Sono donne educate per un grande futuro e hanno ricevuto strumenti culturali fuori dal comune da precettori importanti, hanno studiato la storia, il latino, il diritto, le lingue, senza tralasciare altri impegni più mondani come coltivare la musica e la danza, cavalcare, andare a caccia, apprendere i rituali formali delle cerimonie ufficiali. Alle regine ho dedicato una ricerca condotta in sintonia con altri studiosi che mi hanno aiutato a tracciare un’ampia testimonianza delle tipologie umane e politiche (Motta 2002), una rassegna in cui ciascuna di esse interpretava lo stesso ruolo in modo diverso, aggiungendo sapienza, personalità, carisma. Accanto alle regine più note come Elisabetta I Tudor (1533-1603) in Inghilterra o Caterina de’ Medici (15191589) in Francia, altre tessono la loro tela di alleanze più o meno segrete e progettano un futuro per le loro discendenze. Tra queste mi è piaciuto raccontare la vita di Bona Sforza (1494-1557), moglie di Sigismondo Jagellone, re di Polonia, che spende i suoi giorni per realizzare il suo disegno più ambizioso, quello di rafforzare il potere del marito e di dare inizio a una vera dinastia. Ma il sogno della regina italiana, abituata alla politica, è destinato a svanire, le forze interne che le si contrappongono mantengono il loro vigore. Malgrado abilmente cerchi di usare la contrapposizione fra aristocrazia e nobiltà minore, appoggiandosi a quest’ultima in funzione antimagnatizia, non riesce nel suo intento. Da una parte l’aristocrazia, con l’appoggio dei vescovi, è proiettata su Vienna e si mostra concorde nello schieramento antiturco, dall’altra la nobiltà minore – pure articolandosi su posizioni differenti fra campagna e città – è invece favorevole a mantenere la pace con gli Ottomani sul confine meridionale e si contrappone con forza agli Asburgo e più in generale al processo di germanizzazione del Paese. Questo secondo partito, del tutto minoritario, è quello sul quale investe Bona, animata dall’intento di sottrarre la Polonia alla morsa della casa d’Austria. Ma ci sono anche gli interessi economici che in un Cinquecento ormai avviato alla modernizzazione hanno un peso specifico rilevante, nel cuore produttivo del Vecchio Continente quegli interessi non consentono alcun riformismo a favore di una nascente borghesia come è accaduto altrove, poiché gli scambi internazionali divenuti più complessi alimentano importanti flussi di denaro ricavati dalla vendita dei cereali. La ricchezza proveniente dall’agricoltura estensiva consente alla classe dominante consumi molto elevati comprensivi di attività culturali che danno vita all’alto livello del Rinascimento polacco al quale partecipa attivamente la regina con il suo seguito di intellettuali e di artisti italiani. Bona anima un ambiente culturalmente multiforme nel quale si percepisce la sicura impronta del

Giovanna Motta

Rinascimento italiano, cui si accompagnano presenze significative dell’Umanesimo polacco. Ma i tempi sono difficili, la contrapposizione interna fra magnati e piccola nobiltà, la pressione esercitata da Carlo V che insegue il suo progetto di Impero universale, le strategie matrimoniali usate dal figlio Sigismondo II Augusto per tessere strategicamente l’alleanza con gli Asburgo, sono tutti elementi che riducono il potere sovrano. Su tutto incombe il pericolo di un’avanzata degli Ottomani che con la vittoria di Mohàcs (1526) sfondano il fronte ungherese e si installano nella pianura danubiana, né mancano le mire della Moscovia su alcuni territori lituano-polacchi. Il contesto in cui opera Bona Sforza, dunque, è segnato da una continua instabilità politica che di certo nuoce ai suoi progetti in quanto sia il re che suo figlio dopo di lui ritengono opportuno allinearsi sulle posizioni di Vienna. La regina perderà su tutta la linea, pubblica e privata, quando i contrasti con il figlio si acuiscono temerà per la sua stessa vita e sarà costretta dagli eventi a lasciare la Polonia, il suo allontanamento ratificato dal re, ha un profondo significato politico, ormai la donna non ha più il suo potere e sa valutare bene il rischio di mantenere le sue posizioni, con la sensibilità politica che le è propria, decide di partire con il pretesto di curare la sua salute “per stare ai bagni”. Dunque rientra in Italia, dove comincia un nuovo capitolo della sua vita tormentata. Bisogna ricordare che Bona ha avuto una cospicua dote dalla madre Isabella d’Aragona: la città di Bari con il titolo di ducato, quella di Rossano con il titolo di principato, la città di Ostuni, altri castelli fortificati con giurisdizione civile e criminale, di certo non ha problemi economici, parte dalla Polonia con un seguito ridotto ma sempre con grande sfarzo come aveva fatto quando si era allontanata da Napoli, porta con sé i pochi uomini che le sono rimasti vicini ma forse non del tutto fedeli. Insediatasi a Bari, sa gestire la sua ricchezza, può godere delle rendite dei suoi possedimenti e dall’ottima amministrazione dei suoi beni, ma non si rassegna alla normalità, accarezza infatti un altro progetto politico, davvero ambizioso per una donna dell’epoca, vuole diventare viceré di Napoli. E potrebbe permetterselo, poiché ha prestato una somma enorme a Filippo II, suo cugino e perciò si aspetta l’appoggio della corte di Madrid. Non l’avrà, anzi lo spagnolo “rilancia” chiedendole di rinunciare a gran parte dei suoi possedimenti in suo favore. Delle difficili trattative con il sovrano spagnolo si occupa Gian Lorenzo Pappacoda che l’ha seguita dalla Polonia, ma sorge una nuova difficoltà che segnerà la sorte della regina: si innamora del giovane figlio di Pappacoda, al cui fascino non è insensibile neppure una delle sue dame. Mentre i diplomatici cercano la mediazione fra le richieste degli spagnoli e l’interesse del re polacco, lontano ma non del tutto assente dall’entourage della madre, la regina che mantiene il suo carattere forte e risoluto, minaccia ogni giorno di cambiare il proprio testamento, finché il tristo Pappacoda riesce a estorcergliene uno a favore di Filippo II. Bona è circondata da spie, solo dopo pochi mesi si ammala, si comincia a dubitare che la stiano avvelenando lentamente, lascia nuove disposizioni in cui istituisce erede universale il figlio Sigismondo Augusto, salvo gli

Donne in un mondo di uomini

Stati italiani che sarebbero andati al re di Spagna e una serie di donazioni per le figlie, per le dame italiane e polacche che l’hanno servita, per l’arcivescovo di Bari, per i poveri. Al Pappacoda vanno “legati” consistenti, terre feudali e libere, denaro, gioielli, cavalli, mandrie di bovini e la sua argenteria, famosa per quantità e qualità. Poi, momentaneamente migliorata, fa un nuovo testamento e lascia tutto al figlio. Per anni i tribunali accoglieranno le questioni sorte sia per l’eredità che per il prestito mai restituito dal re spagnolo, la disputa si amplifica e da lite ereditaria di famiglia fra le due corti, di Madrid e di Varsavia, si trasforma in un problema internazionale che coinvolge dinastie reali, diplomatici, partiti politici a livello europeo. Ma intanto la parabola della grande regina si sta concludendo, niente di quanto aveva progettato si è verificato, in Polonia per la mancanza di eredi maschi il trono passa a Enrico di Valois e poi a Stefano Bátory, principe di Transilvania e marito dalla figlia Anna, le trattative con suo cugino Filippo II sono finite nel peggiore dei modi e si trascineranno nei tribunali per decenni, nessuno è Stato generoso con la regina dalla forte personalità che voleva essere protagonista sulla scena politica dalla quale gli uomini l’hanno ricacciata. Persino l’amante sfrutta la sua posizione per sottrarle ogni ricchezza. Nessuna tolleranza, nessun rispetto delle sue idee e dei suoi sentimenti, nessuna comprensione per la sua ultima follia, quella passione per uomo tanto più giovane che evidentemente le si avvicina per interesse. Una donna del suo livello intellettuale e culturale viene raggirata “da un giovane ignorante che appena sapeva leggere”. Amareggiata e ormai vinta, forse, pensa di tornare in Polonia, allora Pappacoda vedendo sfumare il piano di impossessarsi delle sue sostanze, decide di fermarla. Con la complicità di un medico corrotto che verrà pagato con 500 ducati, la avvelena, mentre lei è ancora in grado di comprendere ciò che sta accadendo, tanto da gridare con le sue ultime forze «traditore, che m’havete assassinata». Si conclude così la vita della regina, una vita che si è articolata fra tragedie familiari e incidenti politici, con poche gioie e molti ostacoli, strappata fanciulla dal ducato che era stato di suo padre (dallo zio Ludovico Sforza), chiude la sua esperienza terrena ancora una volta nella violenza, nel castello di Bari dove si è consumato il tradimento più grave, con quell’ultimo amore che aveva riscaldato il suo cuore appassionato cancellando per sempre la forza e le capacità di una donna di certo superiore a molti uomini.

Giovanna Motta

FONTI D’ARCHIVIO E BIBLIOGRAFIA ESSENZIALE

Archivio Segreto Vaticano, Archivio di Stato di Venezia, Fondo Proprio Contarini, Biblioteca Nacional di Madrid, Biblioteca dell’Università jagellonica di Cracovia.

H. Barycz, Bona Sforza, in Dizionario biografico degli italiani, Roma 1966; G. Cioffari, Bona Sforza donna del Rinascimento tra Italia e Polonia, Bari 2000; Duby-Perrot, Storia delle donne in Occidente, Roma-Bari 1991; A. Falco, L’ultimo testamento di Bona Sforza, Bari 2000; E.J. Hobsbawm, L’età degli Imperi (1875-1914), Roma-Bari 1987; id. Il trionfo della borghesia (18481875), Roma-BVari 1975; C. Levi Strauss, Antropologia strutturale, Milano 1967; id. Le strutture elementari della parentela, Milano 1978; J. Michelet, La Sorcière, Paris 1863; G. Motta, Guerra turca e “negozio napoletano”, in Fra spazio e tempo. Studi in onore di L. De Rosa, Napoli 1995; id. Bona Sforza, una regina del Rinascimento, in Regine e sovrane. Il potere, la politica, la vita privata, a cura della stessa, Milano 2002; id. Nell’Europa dell’età moderna. Memoria collettiva e ricerca storica, Firenze 2013; P. Odifreddi, Il matematico impertinente, Milano 2005 H. TrevorRoper, La crisi del XVII secolo, in Crisi in Europa 1560-1660, Napoli 1968; G. Zarri, Solfaroli, Camillocci (a cura di), Donne, discipline, creanza cristiana dal XV al XVII secolo, Roma 1996; N. Zemon Davis, Donne ai margini. Tre vite del XVII secolo, Bari 1996.

This article is from: