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Antonio Casu Una regina tra i re. Eleonora d’Arborea, legislatrice

Eleonora D’arborea, legislatrice

Antonio Casu

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1. Le ragioni di un mito

Da oltre sei secoli, poche personalità storiche si sono mostrate capaci di radicarsi nella memoria identitaria di un popolo come Eleonora d’Arborea; e poche leggi fondamentali sono state rispettate e celebrate come la Carta de Logu.

Molte sono le ragioni della persistenza del suo personaggio nell’immaginario collettivo, non solo dei sardi, che aiutano a comprendere ed al contempo vanno ben oltre il mito romantico che l’ha avvolta in un passato anche recente. In questa sede vorrei richiamarne essenzialmente tre.

La prima. Eleonora è, innanzitutto, una regina, in un tempo dominato dai re. Una donna chiamata dalla storia ad assumersi gravose responsabilità, che non ha declinato, rivelando temperamento forte e risoluto.

Poco conta, nel delinearne la figura, la qualificazione formale della sua corona, se cioè sia stata Giudice pleno iure ovvero si sia limitata al ruolo di reggente – anche se nella Carta de Logu, nelle sue lettere a Pietro IV di Aragona e nel trattato di pace del 1388 si firma “juyghissa d’Arbarèe” – facendo eleggere giudici, l’uno dopo l’altro, i suoi due figli. Sul piano sostanziale, infatti, Eleonora ha esercitato le prerogative regie, anche e soprattutto nei momenti di crisi dell’assetto politico e istituzionale del suo tempo.

Non è l’unico caso, nella storia della Sardegna giudicale. I nomi di queste donne ci giungono dal passato come anticipazione della modernità: Padulesa de Gunale ed Elena in Gallura, sua sorella Benedetta di Massa e Agnese a Cagliari, e poi ancora Agalbursa d’Arborea, Adelasia di Torres, e appunto Eleonora.

D’altronde, poche altre regnanti hanno avuto un simile pieno riconoscimento interno ed esterno. Vedove, figlie o sorelle, sovrane pleno iure o reggenti, tra i primi decenni del XII e la fine del XIV secolo hanno guidato i quattro giudicati in una difficile transizione storica tra l’eredità politica e giuridica romano-bizantina e il nuovo equilibrio del Mediterraneo occidentale, tra l’influenza delle repubbliche marinare di Genova e Pisa e il peso crescente della corona d’Aragona.

Segno evidente, questo, di una tradizione – che trova analogie in quella spagnola - assai distante dalla successione dinastica continentale, legata alla lex salica, che esclude la discendenza femminile dalla successione al trono, salvo estinzione del ramo maschile. Una tradizione diversa da quella osservata dalla corona di Sardegna sotto i Savoia, come si evinceva dallo Statuto albertino del 1848, che al secondo periodo dell’articolo 2 ribadiva che “il Trono è ereditario secondo la legge salica”.

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E tuttavia nessuna di queste donne regnanti, delle sue “antenate”, ha segnato la storia come Eleonora. Perché, ed è questa la seconda motivazione, Eleonora non era solo un capo politico, ma anche, nei termini del suo tempo, un capo militare e diplomatico. Una donna che ha condotto una guerra lunga e sanguinosa, contro la sua terra d’origine e per la sua terra di adozione. È per questo che, nell’immaginario collettivo, è assurta al rango di eroina, come altre eroine della storia.

La lunga guerra condotta contro gli Aragonesi, contro le sue stesse radici, è stata allo stesso tempo una guerra di indipendenza politica, di emancipazione giuridica ed economica, di consolidamento dinastico della sua famiglia. Forse l’ultima guerra condotta dai sardi per difendere la propria integrità territoriale.

I contorni di questa vicenda storica ci rivelano l’indole di Eleonora, in quell’intreccio di pubblico e privato, di certezze storiche e di zone d’ombra, che caratterizza sempre la storia, e il Medioevo in particolare.

Eleonora D’Arborea, di Antonio Carboni 1881

Eleonora, nata probabilmente in Catalogna intorno al 1340, figlia di Mariano IV de Bas-Serra e di Timbora de Rocaberti, aveva sposato il genovese Brancaleone Doria, sul finire del 1376, e con lui si era stabilita nella rocca di Castelgenovese, dove aveva dato alla luce i suoi due figli Federico e Mariano. Nel 1382 si era trasferita a Genova con il marito. E a Genova ricevette, appena l’anno dopo, la notizia della morte del fratello Ugone III, succeduto al padre nel trono, che era stato assassinato insieme alla figlia Benedetta, sua unica erede.

L’assassinio del fratello fu la chiave di volta della sua vita. Tornata tempestivamente nell’isola, dove aveva vissuto fin da piccola, si mise alla testa di una schiera di seguaci e, “percorrendo a cavallo con i suoi fedeli i territori giudicali, stroncò con estrema e insospettata energia ogni forma di ribellione” e condusse la guerra, iniziata dal padre nel 1353, anche quando il marito fu tratto in prigionia dagli Aragonesi nel 1384.

Eleonora regnante difese le prerogative del Giudicato, che intendeva perpetuare la sua antica e piena sovranità; mentre la corona d’Aragona, al contrario, intendeva far valere la concessione feudale dell’infante Alfonso XIII, sbarcato in Sardegna nel 1323, a Ugone II.

Inoltre, il Giudicato aveva una differente prassi relativa alla successione. Il Giudice era infatti eletto dalla Corona de Logu, l’Assemblea dei notabili del Regno (su Rennu): aristocratici, prelati, alti funzionari, maiorales delle città e dei paesi. Con questa antica procedura Eleonora aveva fatto eleggere il suo primogenito, in palese contrasto con la volontà della corona aragonese

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di procedere mediante l’ordinario ricorso all’infeudazione regia. Ma Eleonora tenne ferma la prassi giudicale, e sottopose all’approvazione della Corona de Logu anche il trattato di pace del 1388 concluso con le truppe di Pietro IV, detto il Cerimonioso, dopo tre anni di negoziato.

Infine, nell’esercizio delle sue funzioni di governo, Eleonora seppe distinguersi per l’attuazione di una politica più autorevole che autoritaria, come attestato dal largo consenso delle sue genti, frutto della sua ferma difesa della sovranità e delle prerogative del Giudicato, e dalla sua imponente opera di codificazione normativa.

E giungiamo così alla terza motivazione, il suo ruolo di legislatrice. Il nome di Eleonora è infatti indissolubilmente legato alla Carta de Logu.

Il giudizio storiografico ha concordemente sottolineato, sia pure con differenti accenti, il valore di questo documento, ritenuto di volta in volta “segno di un perfezionamento sociale, dal quale erano allora ancora lontane le più vaste contrade del continente italiano”; un “codice generale”, teso a modernizzare il diritto isolano sulla base degli influssi coevi; non la mera razionalizzazione del diritto autoctono, ma l’espressione di una reale capacità di innovazione.

Non posso certo richiamare qui i molti e autorevoli studi condotti sul documento da altri importanti studiosi, dall’abate Simon ad Antonio Pertile, da Enrico Besta a Guido Mondolfo, da Francesco Loddo Canepa ad Antonio Marongiu, da Ginevra Zanetti ad Antonio Era – il primo titolare nel 1935 di una cattedra di Storia delle istituzioni giuridiche ed economiche della Sardegna –, da Antonio Pigliaru ad Alberto Boscolo, a Francesco Cesare Casula, Antonello Mattone, Marco Tangheroni, a molti altri. E non si possono dimenticare i contributi degli studiosi spagnoli e catalani, da Jeronimo Zurita a Joaquin Arce, ma anche anglosassoni, da Kohler e Dahm in poi.

Il rilievo di questi studiosi e la molteplicità degli orientamenti e delle interpretazioni attestano la centralità della Carta de Logu nella storia sarda e nel panorama delle costituzioni italiche di quel torno di tempo.

Vorrei sinteticamente inquadrare la Carta come un ordinamento generale, uno statuto giudicale complesso, che coniuga le tradizioni autoctone con le esperienze aragonesi, genovesi e pisane, e che si manifesta come un importante elemento di raccordo giuridico tra l’alto medioevo e lo Statuto albertino, capace di contemperare, come sostiene la migliore storiografia del Novecento, il diritto romano comune (sa lege) con il diritto consuetudinario locale.

2. La Carta de Logu

Della Carta in realtà non si conosce con esattezza la datazione (gli studiosi hanno formulato ipotesi che oscillano tra il 1385 e il 1395), l’estensore materiale (forse il canonista Filippo Mameli, come sostiene ad esempio il Marongiu; forse il francescano Guido Cattaneo, a detta dell’Artizzu) e neppure il testo originale, del quale ci sono pervenute solo due redazioni successive, parzialmente diverse tra loro: un manoscritto quattrocentesco probabilmente interpolato ed un incunabolo risalente alla fine dello stesso secolo, di cui ci restano due copie integre ma prive del colophon e del frontespizio, per cui appunto restano ignoti data, luogo ed editore.

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La prima pagina della Carta de Logu

Non possiamo conoscere neppure con precisione la reale originalità delle sue singole disposizioni, visto che nel preambolo Eleonora richiama la Carta de Logu del padre Mariano IV, “rimasta immutata per sedici anni”, e che nel testo si trasfondono norme del Codice rurale, risalente anch’esso al padre. E infine le due versioni sono discordanti nel contenuto, ripartendosi il manoscritto in 136 capitoli mentre l’incunabolo in 198.

E tuttavia la sua importanza è grande. Seguendo la struttura dell’incunabolo, si presenta ripartita in un Prologo, nel quale Eleonora si presenta “per la grazia di Dio” quale giudicessa d’Arborea e dieci Ordinamentos (sezioni), recanti disposizioni riferite a materie diverse.

La prima sezione (artt. 1-16), l’unica priva di titolo, riguarda i delitti più gravi: lesa maestà, omicidio, veneficio, suicidio, aggressione, ferimento, percosse, grassazione.

La seconda (Ordinamentos de furas e de maleficios, artt. 17-44) reca la normativa in materia di furti e reati di varia natura: dallo stupro alla falsa testimonianza, dall’adulterio all’abigeato.

La terza (Ordinamentos de foghu, artt. 45-49) tratta la materia di fuochi e incendi.

La quarta (Ordinamentos de chertos e de nunzas, artt. 50-80) contiene disposizioni in materia di liti e denunce, sulla giurisdizione e sul processo.

La quinta (Ordinamentos de silva, artt. 81-105) regolamenta materie eterogenee prevalentemente riconducibili al rapporto tra uomo e territorio (caccia e pesca, tutela della fauna terrestre e acquatica, cavalieri e cavalli) ovvero alla disciplina del matrimonio e più in generale al diritto di famiglia.

La sesta (Ordinamentos de corgios et de mercantes, artt. 106-111) disciplina le attività relative alla concia e al commercio del cuoio.

La settima (Ordinamentos de sa guardia de sus laores, vignas et ortos, artt. 112-123) concerne la salvaguardia dei cereali, la recinzione di vigne e orti, lo sconfinamento del bestiame nei campi altrui, i giorni festivi, ma anche l’ordinamento giudiziario, il processo e il notariato.

L’ottava (Ordinamentos de salarios, artt. 124-132) stabilisce le parcelle di magistrati, notai e scrivani (gli odierni cancellieri) dei tribunali, le pene per i bestemmiatori, etc.

La nona (Ordinamentos de vignas, de lavores e de ortos (artt. 133-154);

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riporta il “codice rurale” di Mariano IV (richiamato espressamente da un breve prologo) non presente nel manoscritto originario. Il codice, emanato “dopo il 1353, anno dell’abolizione della servitù nel regno giudicale di Arborea” fu incluso certamente dopo il Parlamento del 1421. Si tratta dunque di un complesso di disposizioni da coordinare da coordinare con la sezione settima.

La decima e ultima sezione (Ordinamentos de cumonis, de maxellos, de terminis e iniurias, artt. 155-198) regolamenta il contratto di soccida (cumone) e anche le accomandite, le macellazioni, i confini e le ingiurie.

Si tratta, come si vede, di un corpus iuris normativo imponente e complesso, che affianca norme di principio ad altre immediatamente attuative nonché disposizioni di diritto sostanziale ad altre di diritto processuale; che spazia dal diritto penale (prevalente) a quello civile ed agrario in particolare; che include e normativizza usi civici e consuetudini.

In questo contesto spiccano norme che appaiono ai nostri occhi di grande modernità, ed anche ispirate, evidentemente in relazione ai tempi, a principi di garanzia delle libertà individuali e di responsabilità sociale.

Risalta tra i primi il ruolo della donna, equiparata all’uomo nella titolarità dei beni immobili (cap. 136) e ai fratelli nella successione legittima. E anche la disciplina del matrimonio, che affiancava all’istituto di tradizione romana, che limitava i doveri del padre all’obbligo di concedere una dote alla figlia, il matrimonio a sa sardisca, che riconosceva la comunione dei beni acquisiti durante il matrimonio.

La dottrina più recente ha messo in luce come la posizione della donna in tema di proprietà e in particolare di successione appaia pertanto migliore, in virtù della sua diretta derivazione dal diritto romano e bizantino, di quella della donna dell’Italia settentrionale, esclusa dalla successione dei beni immobili, nel solco della tradizione del diritto germanico.

Inoltre, la donna era esentata dalla requisizione della sua parte di beni dovuta alla condanna del marito perfino nel caso più grave, il delitto di lesa maestà, che prevedeva la pena di morte e il sequestro dei beni; allo stesso modo i beni confiscati a un assassino erano subordinati alla rivendicazione dei diritti della moglie e perfino dei figli avuti da altra moglie; ed era esonerata dal pagamento della multa prevista per aver nascosto il marito ricercato.

Interessante è anche la normativa sullo stupro – punito in generale con onerose pene pecuniarie e, in caso di mancato pagamento, con l’amputazione di un piede – che, se perpetrato ai danni di una vergine, poteva essere sanato da un matrimonio riparatore solo in caso di consenso della donna.

E ancora meritano una menzione la possibilità delle donne di testimoniare nei processi, nonché l’assegnazione di un procuratore legale a vedove e orfani.

Sull’altro versante, costituisce esempio dell’affermazione dei principi di responsabilità sociale, quello che il Besta definiva “il sistema della responsabilità collettiva”, l’istituto denominato s’incarica, cioè della irrogazione di una pena pecuniaria a carico di un villaggio nel caso di mancata individuazione dei responsabili di un reato commesso nel suo territorio (sez. I).

Ne sono ulteriore esempio sia la previsione del taglio delle orecchie ai danni degli asini che pascolavano nei

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campi seminati, e della confisca degli animali in caso di recidiva, norma evidentemente rivolta a sollecitare la vigilanza dei padroni degli animali e a tutelare le coltivazioni agricole (cap. 144), sia le pene inflitte non solo ai piromani, chiamati a risarcire il danno ovvero a subire l’amputazione della mano destra, ma anche ad interi villaggi, in caso di mancato arresto del colpevole.

Più in generale, vorrei ricordare su questi temi l’interpretazione di Antonio Pigliaru circa il pervasivo influsso della Carta de Logu sulla società barbaricina nel consolidamento della responsabilità collettiva (e anche nell’evoluzione del concetto secondo cui “la vendetta è un dovere”, vendetta che peraltro, secondo il codice barbaricino, deve essere adeguata, proporzionata e progressiva). Pigliaru evoca al riguardo il cap. 6 che, attribuendo all’intera comunità del villaggio (e specificamente ai “giurati” e agli uomini) l’onere di catturare e consegnare alla giustizia il colpevole di un omicidio commesso nel suo territorio, imponeva a tutti gli uomini di collaborare al rispetto della legge sia pure entro i limiti della legge stessa. Ciò al fine non solo di applicare la giustizia, ma anche di rompere il velo dell’omertà e infine di sottrarre il reo alla giustizia privata.

Da un’altra angolazione, segno di modernità appaiono le molte previsioni che stabiliscono una gradualità delle pene in relazione ai reati, che prevedeva l’irrogazione della pena capitale, salvo che per i delitti più gravi, solo dopo aver esperito i gradini del risarcimento pecuniario e delle punizioni corporali.

In parziale contro-tendenza risulta la previsione di una disposizione ritenuta distonica rispetto all’ispirazione romano-bizantina, quella relativa all’identità della pena per il reo e per colui che vi sia in concorso ovvero vi abbia consentito (agentes et consentientes pari poena puniuntur), tuttavia presente nel diritto canonico, ma anche affine a disposizioni di diritto romano e anche germanico, incluso l’Editto di Teodorico.

Ulteriori elementi degni di nota sono il favor testamenti di cui al cap. 51, che consente di dettare testamento, stante la penuria di notai, anche al sacerdote e in subordine al pubblico scrivano, sia pure alla presenza di testimoni, ed ancora la previsione, al cap. 57, del reintegro del possesso dei beni mobili del proprietario che ne venisse spogliato non in base a un provvedimento del magistrato.

In definitiva, la stessa ampiezza e complessità della Carta de Logu suggerisce inequivocabilmente un intento ordinatorio e non meramente compilatorio, e rivela altresì la grande ambizione sottesa all’iniziativa, volta a dare finalmente compiutezza all’opera di codificazione avviata dal padre e poi accantonata per oltre tre lustri: la volontà di una dinastia e di un regno di sanzionare in una carta costituzionale il ruolo assunto nei fatti nell’ambito della società e della storia sarda.

Questa capacità di visione spiega la lunga vigenza della Carta de Logu anche dopo la fine del conflitto sardo-aragonese.

Nella grande differenza di contesto storico e istituzionale intercorrente tra la prima e la seconda sessione del Parlamento sardo, la Carta de Logu si configura come una pietra miliare.

Il primo Parlamento sardo si era infatti riunito una prima volta in Cagliari, tra il febbraio e l’aprile del 1355, dunque prima dell’emanazione della

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Carta, per decisione di Pietro IV, che lo convocò e lo presiedette. Le Generales Curiae, come fu chiamato sull’esempio delle corti catalane, erano organizzate in tre ordini, chiamati stamenti o bracci: militare, ecclesiastico e “reale”, cioè civile.

Le cronache riferiscono che fu una sessione particolarmente affollata di varie personalità – e d’altronde l’inaugurazione del Parlamento, e in quel momento di tensione politica, non poteva non richiamare la massima partecipazione – nella quale risaltava l’assenza di Mariano IV.

Il Parlamento – a parte l’eccezionalità di una partecipazione, peraltro meramente passiva, alle funzioni giurisdizionali legate al processo a Gherardo della Gherardesca, conte di Donoratico, reo di ribellione al sovrano – svolse funzioni di mero conforto alle decisioni assunte dal sovrano, e si risolse nell’accoglimento delle proposte di costituzione presentate dal re. “Essa era – scrive Antonio Marongiu – l’unica forma allora possibile in Sardegna della partecipazione parlamentare alla legislazione”.

Al contrario, la seconda sessione del Parlamento sardo venne inaugurata molti anni dopo, il 7 febbraio 1421, circa trent’anni dopo la promulgazione della Carta, a giochi politici e militari ormai conclusi, quando, estinta la dinastia dei Bas-Serra, e quindi anche quella dei visconti di Narbona, a loro imparentati e subentranti nella linea dinastica, i successori, De Tinières, avevano venduto a caro prezzo agli Aragonesi i loro diritti.

Sarà necessario attendere il 1446 per vedere riconosciuto al Parlamento il diritto di auto-convocarsi. Resta il fatto che l’estensione della Carta de Logu a tutto il Regno di Sardegna, decisa nel 1421 da Alfonso V il Magnanimo, ad eccezione delle città regie – esclusa Oristano, che continuò ad adottarla – era in buona sostanza il riconoscimento formale della situazione di fatto, e cioè che la Carta era applicata in modo diffuso, ad eccezione delle maggiori città, e che era ritenuta un presidio normativo valido e adeguato alle esigenze, tanto da prevederne l’aggiornamento, ove necessario, senza inficiarne l’impianto complessivo.

A mio avviso, anzi, l’ispirazione garantista della Carta e la buona amministrazione della giustizia che aveva determinato furono prodromiche alle nuove conquiste giuridiche, tra le quali voglio qui ricordare, a titolo di esempio, la libertà di cambiare il proprio domicilio, la validità del processo subordinata alla regolarità formale della citazione, la necessità di seri indizi di colpevolezza per la sottoposizione del detenuto alla tortura, il ricorso al sovrano avverso i provvedimenti del viceré.

La Carta de Logu fu abrogata solo con le Leggi civili e criminali promulgate il 16 aprile 1827 da Carlo Felice, ed è degna di nota la persistenza di singoli istituti negli ordinamenti locali attuali. Un esempio di grande attualità è costituito dalla distinzione tra incendi dolosi, sempre perseguiti, e fuochi finalizzati alla distruzione delle stoppie o alla fertilizzazione dei terreni, vietati solo nei mesi caldi, distinzione che trova origine nell’istituto del debbio, disciplinato nella terza sezione della Carta. Risale dunque alla Carta il divieto di bruciare le stoppie prima dell’8 di settembre, dedicato a S. Maria, chi est a die octo de capudanni (art 45), ancora vigente in alcuni comuni sardi.

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E così può dirsi delle polizie rurali, le “compagnie barracellari” (termine forse mutuato dallo spagnolo barrachel), derivanti dai jurados de logu e jurados de padro o padrargios, contemplati nella parte che contiene il codice rurale, nonché della sopravvivenza dei contratti di società parziaria (juargiu), o di soccida (il già citato cumone).

Da ultimo, è appena il caso di accennare il valore linguistico della carta, redatta in sardo, quale riaffermazione erga omnes di “piena sovranità” e “maturità culturale e civile”, nella cui consapevolezza Eleonora muove la sua ferma difesa delle prerogative del Giudicato.

III. L’eredità della Carta

Certo non è possibile stabilire un collegamento diretto tra la Carta de Logu e la Costituzione italiana. Era diverso lo Stato, dato che il Giudicato era organizzato sui principi della res publica christiana, la cui dissoluzione darà luogo allo Stato moderno, sancito dalla pace di Westfalia del 1648. Era diverso il Parlamento, che in Sardegna, a differenza di altre realtà nazionali, era ancora agli albori, e che avrebbe acquisito carattere realmente rappresentativo, come si è accennato, solo in seguito.

Era diversa la Costituzione, che dà atto fondamentale emanato dalla suprema autorità politica divenne, anche grazie all’impulso delle costituzioni trecentesche e degli statuti medievali, il complesso delle norme fondamentali dell’ordinamento e dei diritti e doveri dei cittadini, nel quadro di un processo che, in epoca moderna, culminò con il passaggio del potere costituente dalla Corona al Parlamento.

E tuttavia, tra le due Carte si può intravvedere un ponte ideale. La Carta de Logu – ispirata, come ci insegna ancora Marongiu, a due criteri concorrenti: severità e giustizia – segna infatti una tappa rilevante nel percorso della civiltà giuridica italiana.

Ecco, in considerazione dei tempi nei quali la Carta fu emanata, è proprio nella sua ispirazione lato sensu garantista, nella gradualità e proporzionalità nell’irrogazione della pena, nella commisurazione della pena all’elemento soggettivo del reato (e cioè all’effettiva responsabilità individuale), nella tutela dei diritti della donna e della famiglia, nel bilanciamento dei diritti della proprietà e del lavoro, nel prezioso equilibrio tra tutela del sentimento religioso e autorevolezza della sfera civile e politica – che sembra davvero anticipazione dei tempi nuovi – che a mio avviso si rinvengono i valori fondanti di una civiltà giuridica che, dai liberi Comuni al Settecento, costituirà il basamento della nostra Costituzione repubblicana. Nel grande fiume della storia politica e giuridica italiana, la Carta de Logu rimane dunque come uno degli affluenti più ricchi e fecondi.

NOTE Eleonora D’Arborea, legislatrice

1 M.T. Guerra Medici, Eleonora d’Arborea e la Carta de Logu, in: «Genesis», n. 2 del 2002, pp. 173-181 2 A. Mattone, Eleonora d’Arborea, in: Dizionario biografico degli italiani, vol. 42, Treccani, Roma 1993 3 Trattato sottoscritto dai suoi plenipotenziari Pérez de Arenós, Antonio Casu, Tommaso de Serra e Comita Panza 4 F. Sclopis, Storia della legislazione italiana, vol. II, Progressi, UTET, Torino 1863, p. 190 5 F. Calasso, Medio Evo del diritto, vol. I, Le fonti, Giuffrè, Milano 1954, pp. 449-50 6 E. Cortese, Il diritto nella storia medievale, vol. II, Il Basso Medioevo, Il Cigno-Galileo Galilei, Roma 1995, pp. 350-2 7 La bibliografia è imponente. Per un riepilogo delle principali fonti si veda in particolare l’introduzione del volume, a cura di I. Birocchi e A. Mattone, La Carta de Logu d’Arborea nella storia del diritto medievale e moderno, Laterza, Roma-Bari, 2004 8 A. Marongiu, Sul probabile redattore della Carta de Logu d’Arborea, in: Studi economico-giuridici della Regia Università di Cagliari, 1939; poi incluso nella raccolta Saggi di storia giuridica e politica sarda, Padova, CEDAM 1975, pp. 61-73 9 F. Artizzu, Di Filippo Mameli e di altri, in «Archivio storico sardo», 1981, pp. 125-138 10 A. Era, Le carte de logu, in: «Studi sassaresi», 1960, p. 19 11 L’incipit recita infatti: «A laude de Jesu Christu Salvadori nostru, ed exaltamentu dessa Justicia. Principiat su libru dessas constitucionis ed ordinacionis sardiscas fattas ed ordinadas peri sa illustrissima signora dna Elianora peri sa gracia de Deu juyghissa de Arboree, contessa de Gociani e biscontissa de Basso, intituladu Carta de logu”. E più sotto: “Nos elionora proissa gracia de deus iuyghissa de arbarèe contissa de ghociani et biscòtissa de baso. Deliberando qui sos fideles et subdicosnostros dessu rennu nostru de arbarèe» 12 «Nos Marianus pro issa gracia de Deus iuyghi de Arbaree, compte de Gociano et bisconti de Basso, considerando sos multos lamentos continuamente sunt istados per issas terras nostras de Arbaree et de Loghudore pro issas vignas, ortos et lavores… amus deliberado de faghere et faghemus sos infrascriptos ordinamentos…» 13 F.C. Casula, Introduzione a La Carta de Logu del regno di Arborea. Traduzione libera e commento storico, Delfino, Roma 2008, p. 11 14 In tal senso M. T. Guerra Medici, Eleonora d’Arborea e la Carta de Logu, op. cit., p.178 15 Vedi, a cura di E. Besta e P. E. Guarnerio, La Carta de Logu quale monumento storico giuridico, Dessì, Sassari 1905, p. 40 16 A. Pigliaru, La vendetta barbaricina come ordinamento giuridico, Giuffrè, Milano 1959, p. 171 17 A. Marongiu, Delitto e pena nella Carta de Logu d’Arborea, in Studi in onore di Carlo Calisse, vol. I, Giuffrè, Milano 1939; poi in Saggi di storia giuridica e politica sarda, cit., pp. 75-93 18 A. Marongiu, I Parlamenti sardi. Studio storico, istituzionale e comparativo, Giuffrè, Milano 1979, p. 178 19 G. Pazzaglia, L’istituto del barracellato e l’agricoltura della Sardegna, in Atti del secondo congresso nazionale di diritto agrario (Mussolinia-Cagliari-Sassari 16-19 ottobre 1938), Edizioni universitarie, Roma 1939, p. 95 ss 20 A. Marongiu, Delitto e pena nella Carta de Logu d’Arborea, op. cit., p. 80

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